Diritto privato
 9788892143692

Table of contents :
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Indice Sommario
Curatori parti
Principi
Parte I Ordinamento giuridico Capitolo 1 Ordinamento giuridico e realtà sociale
Capitolo 2 Diritto privato
Capitolo 3 Fonti e applicazione del diritto (Efficacia e interpretazione)
Parte II Categorie generali Capitolo 1 Soggetto e persona
Capitolo 2 Beni giuridici
Capitolo 3 Rapporto giuridico e situazioni giuridiche soggettive
Capitolo 4 I fatti giuridici. effetti, vicende e circolazione
Capitolo 5 Autonomia privata (Il negozio giuridico e l’autonomia negoziale)
Capitolo 6 Iniziativa economica (L’impresa e il mercato)
Capitolo 7 Principi generali e clausole generali (L’ordine pubblico)
Parte III Tutela dei diritti Capitolo 1 Tutela giurisdizionale dei diritti
Capitolo 2 Prove
Capitolo 3 Tecniche alternative di risoluzione delle controversie (Degiurisdizionalizzazione)
Istituti
Parte IV Soggetti capitolo 1 Persona fisica
Capitolo 2 Diritti della personalità
Capitolo 3 Enti
Parte V Famiglia capitolo 1 Famiglia e ordinamento giuridico
Capitolo 2 Matrimonio
Capitolo 3 Crisi coniugale
Capitolo 4 Filiazione
Parte VI Proprietà e diritti reali capitolo 1 Proprietà
Capitolo 2 Acquisto e tutela della proprietà
Capitolo 3 Diritti reali di godimento su cosa altrui
Capitolo 4 Comunione e condominio
Capitolo 5 Possesso
Parte VII Obbligazioni Capitolo 1 Rapporto obbligatorio (Caratteri e tipologie)
Capitolo 2 Modificazioni del rapporto obbligatorio (Vicende modificative)
Capitolo 3 Estinzione del rapporto obbligatorio (Vicende estintive)
Capitolo 4 Inadempimento e mora (Responsabilità e risarcimento)
Capitolo 5 Garanzie del credito e responsabilità patrimoniale (La garanzia generale)
Capitolo 6 Cause legittime di prelazione (Le garanzie speciali)
Capitolo 7 Estensione della responsabilità patrimoniale (Garanzie di terzi)
Capitolo 8 Gestione della debitoria (Crisi di impresa e sovraindebitamento)
Parte VIII Contratto capitolo 1 Autonomia contrattuale
Capitolo 2 Conclusione
Capitolo 3 Contenuto
Capitolo 4 Forma
Capitolo 5 Regolamento contrattuale
Capitolo 6 Efficacia
Capitolo 7 Esecuzione
Capitolo 8 Sostituzione nell’attività giuridica
Capitolo 9 Anomalie genetiche (Difetti della formazione)
Capitolo 10 Anomalie sopravvenute (Difetti dell’attuazione)
Parte IX Singoli contratti Capitolo 1 Contratti di alienazione di beni
Capitolo 2 Contratti di prestazione d’opera e di servizi
Capitolo 3 Contratti di cooperazione giuridica
Capitolo 4 Contratti di godimento
Capitolo 5 Contratti aleatori
Capitolo 6 Contratti risolutivi di una controversia
Parte X Fatti illeciti e responsabilità civile Capitolo 1 Struttura del fatto illecito
Capitolo 2 Risarcimento del danno
Parte XI Altre fonti di obbligazione Capitolo 1 Atti e fatti diversi da contratto e fatto illecito
Capitolo 2 Titoli di credito
Parte XII Successioni per causa di morte Capitolo 1 Successione in generale
Capitolo 2 Criteri di vocazione
Capitolo 3 Diritti dei legittimari
Capitolo 4 Comunione e divisione ereditaria
Parte XIII Donazioni Capitolo 1 Contratto di donazione
Capitolo 2 Altri atti di liberalità
Parte XIV Pubblicità Capitolo 1 Pubblicità in generale
Capitolo 2 La pubblicità immobiliare ordinaria
Capitolo 3 La pubblicità immobiliare tavolare
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Diritto privato

Fernando Bocchini - Enrico Quadri

Diritto privato NONA EDIZIONE - 2022

© Copyright 2022 – G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100 http://www.giappichelli.it

ISBN/EAN 978-88-921-4369-2

G. Giappichelli Editore

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INDICE-SOMMARIO

pag.

PRINCIPI PARTE I ORDINAMENTO GIURIDICO CAPITOLO 1 ORDINAMENTO GIURIDICO E REALTÀ SOCIALE 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

L’esperienza giuridica tra società e diritto Correlazioni del diritto con altre esperienze culturali La valutazione giuridica della realtà materiale Ordinamento giuridico Diritto positivo e diritto naturale La scienza giuridica e le categorie I principali sistemi giuridici: civil law e common law

3 3 5 6 8 12 13 15

CAPITOLO 2 DIRITTO PRIVATO

17

1. 2.

17

3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15.

Relatività della nozione di diritto privato Evoluzione medievale e diritto comune. Lo “Stato moderno” e il diritto privato (le nuove categorie) Le codificazioni in senso moderno. Codice civile francese (cod. nap.) e codice civile del 1865; i codici di commercio Il codice civile tedesco (BGB) Il codice civile del 1942 Le Costituzioni degli Stati moderni La Costituzione repubblicana. Il primato della persona umana Segue. Il pluralismo ordinamentale e sociale Capacità e attività di diritto privato della pubblica amministrazione Il diritto privato europeo Ambito attuale del diritto privato e il diritto pubblico Il diritto dei privati Segue. La nuova lex mercatoria Globalizzazione e convivenza mondiale Azione privata conformata e azione pubblica collaborativa

18 24 27 28 30 31 34 35 38 41 43 44 45 46

VIII

INDICE-SOMMARIO

pag. 16. Verso un diritto privato uniforme 17. La società tecnologica. Bioetica e ecologia 18. Segue. La rivoluzione digitale. Piattaforme, algoritmi, tecnocrazia e diritti

49 50 52

CAPITOLO 3 FONTI E APPLICAZIONE DEL DIRITTO (Efficacia e interpretazione)

57

1. 2.

Regole giuridiche e fonti del diritto Tecniche di normazione e caratteri delle norme giuridiche

57 58

3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.

A) FONTI DEL DIRITTO Fonti di produzione e fonti di cognizione Tipologia e gerarchia delle fonti di produzione Costituzione e leggi costituzionali (il controllo di legittimità costituzionale) Diritto europeo (fonti e armonizzazione) Leggi (statali e regionali) Regolamenti Usi Emersione di nuove fonti

62 62 63 65 67 71 72 73 75

11. 12. 13. 14. 15. 16.

B) APPLICAZIONE DEL DIRITTO Efficacia nel tempo (obbligatorietà delle norme) Efficacia nello spazio (diritto internazionale privato) Interpretazione delle norme giuridiche (criteri e valori) Risultati dell’interpretazione. L’analogia L’equità Diritto vivente (nomofilachia e overruling)

77 77 79 81 85 87 88

PARTE II CATEGORIE GENERALI CAPITOLO 1 SOGGETTO E PERSONA

93

1. 2. 3.

93 94 96

Soggettività e personalità Tipologia Soggetto e status

CAPITOLO 2 BENI GIURIDICI 1. 2. 3. 4.

Cosa, bene e oggetto di diritti Beni immobili e beni mobili Distinzioni ulteriori Il danaro

99 99 103 105 107

INDICE-SOMMARIO

IX pag.

5. 6. 7. 8. 9. 10.

Rapporti di connessione tra le cose. Le pertinenze Le universalità Azienda Frutti Patrimonio Beni pubblici

CAPITOLO 3 RAPPORTO GIURIDICO E SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE 1. 2. 3. 4. 5.

108 111 112 113 114 116

119

Interessi, rapporto giuridico e situazioni giuridiche soggettive Diritto soggettivo (nozione) Diritto soggettivo (contenuto e limiti) Abuso del diritto Tipologia dei diritti soggettivi (e corrispondenti situazioni giuridiche soggettive passive: dovere e obbligo) 6. Diritto potestativo 7. Potestà 8. Aspettativa 9. Interesse legittimo 10. Interessi collettivi e diffusi 11. Onere

127 132 133 135 136 141 143

CAPITOLO 4 I FATTI GIURIDICI. EFFETTI, VICENDE E CIRCOLAZIONE

145

1.

Fenomenologia materiale e rilevanza giuridica

145

2. 3. 4. 5. 6. 7.

A) TIPOLOGIA DEI FENOMENI GIURIDICI Fatti ed effetti giuridici (la causalità complessa) Struttura dei fatti giuridici Rilevanza dei fatti giuridici. Fatti giuridici in senso stretto Segue. Atti giuridici (tipologie e caratteri) Attività Titoli di acquisto e vicende giuridiche. La circolazione giuridica

146 146 149 149 150 153 154

8. 9. 10. 11. 12.

B) INFLUENZA DEL TEMPO. (PRESCRIZIONE E DECADENZA) Funzione del tempo. Computo dei termini La prescrizione Segue. Sospensione e interruzione Le prescrizioni presuntive La decadenza

157 157 158 162 165 167

C) INFLUENZA DELLO SPAZIO 13. La correlazione territoriale 14. Individuazione del diritto applicabile

119 120 122 124

169 169 169

X

INDICE-SOMMARIO

pag.

CAPITOLO 5 AUTONOMIA PRIVATA (Il negozio giuridico e l’autonomia negoziale)

170

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11.

170 172 175 177 178 181 182 183 187 189 190

I principi ispiratori La categoria del negozio giuridico ed il suo sviluppo storico La realtà dell’autonomia negoziale Negozio e negozialità Elementi del negozio giuridico Soggetti e parte del negozio. La legittimazione La volontà dei gruppi Le fondamentali categorie di negozi giuridici Segue. I negozi di disposizione e i terzi Presupposti del negozio giuridico L’incidenza tributaria (bollo e registrazione)

CAPITOLO 6 INIZIATIVA ECONOMICA (L’impresa e il mercato)

192

1. 2. 3. 4. 5.

192 195 196 198 202

Iniziativa economica, impresa e società L’azienda e i segni distintivi L’iniziativa economica nella Costituzione e nella normativa europea Concorrenza e mercato. L’economia sociale di mercato Aree e fattori dell’azione economica

CAPITOLO 7 PRINCIPI GENERALI E CLAUSOLE GENERALI (L’ordine pubblico)

206

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

206 209 211 214 218 220 221 225 226

Principi generali e diritti fondamentali Le clausole generali Il personalismo (dignità, solidarietà, autoresponsabilità, pluralismo) La buona fede. Buona fede soggettiva (affidamento e apparenza) Segue. Buona fede oggettiva (lealtà e correttezza) L’informazione (trasparenza e conoscenza) La certezza del diritto (adeguatezza, proporzionalità e ragionevolezza) La sussidiarietà (orizzontale e verticale) Lo stato sociale di diritto e l’ordine pubblico interno e internazionale

INDICE-SOMMARIO

XI pag.

PARTE III TUTELA DEI DIRITTI CAPITOLO 1 TUTELA GIURISDIZIONALE DEI DIRITTI

231

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.

231 235 239 240 241 242 243 245 246 247

Tutela effettiva dei diritti e giurisdizione I principi della giustizia civile Processo di cognizione Processo di esecuzione Procedimenti speciali Volontaria giurisdizione Azione di classe (procedimenti collettivi) Il diritto processuale uniforme Le Corti europee La tutela rimediale

CAPITOLO 2 PROVE

248

1. 2. 3. 4.

248 249 252 257

La prova dei fatti giuridici Prove legali (tipiche). Prove precostituite Segue. Prove costituende Prove atipiche

CAPITOLO 3 TECNICHE ALTERNATIVE DI RISOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE (Degiurisdizionalizzazione)

258

1. 2. 3. 4.

258 258 260 263

Generalità La giustizia privata (arbitrato) Gli strumenti negoziali (mediazione e negoziazione assistita) L’autotutela

ISTITUTI PARTE IV SOGGETTI CAPITOLO 1 PERSONA FISICA 1.

A) PERSONA FISICA E CAPACITÀ GIURIDICA Capacità giuridica

267 267 267

XII

INDICE-SOMMARIO

pag. 2. 3. 4. 5.

Acquisto della capacità giuridica. Il concepito Fine della persona Scomparsa, assenza e morte presunta Localizzazione della persona

269 275 276 279

6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16.

B) CAPACITÀ DI AGIRE Capacità di agire Minore Responsabilità genitoriale Tutela Emancipazione Cause modificative della capacità di agire e protezione dell’incapace Interdizione giudiziale Inabilitazione Amministrazione di sostegno Interdizione legale Incapacità naturale

281 281 282 285 290 293 295 296 300 301 307 308

CAPITOLO 2 DIRITTI DELLA PERSONALITÀ

310

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12.

310 314 317 321 322 334 338 341 343 349 355 357

Persona e diritti fondamentali Caratteristiche Tutela Dignità della persona Vita, integrità fisica e salute Integrità morale. Onore e reputazione (e relativi limiti: cronaca, critica, satira) Immagine e corrispondenza Riservatezza Trattamento e protezione dei dati personali Nome Identità personale Identità sessuale (di genere)

CAPITOLO 3 ENTI

360

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

A) PROFILI GENERALI Persona fisica e persona giuridica Elementi costitutivi. Ente e soggettività giuridica Tipologia degli enti Riconoscimento Capacità Attività Responsabilità per illecito

360 360 363 364 367 368 369 370

8.

B) FIGURE Associazione riconosciuta

371 371

INDICE-SOMMARIO

XIII pag.

9. 10. 11. 12. 13. 14.

Associazione non riconosciuta Fondazione Estinzione della persona giuridica. Liquidazione e devoluzione dei beni. Trasformazione Comitato Gli enti non profit nella legislazione speciale ed il “Terzo settore” Particolari categorie di enti del Terzo settore

377 382 387 389 391 401

PARTE V FAMIGLIA CAPITOLO 1 FAMIGLIA E ORDINAMENTO GIURIDICO

407

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

407 408 411 415 427 428 430 432

La famiglia nella società e la sua disciplina giuridica Nozione giuridica di famiglia La disciplina della famiglia: Costituzione, codice civile e altre fonti Convivenza, famiglia di fatto e unioni registrate Caratteri degli atti e dei diritti familiari Parentela e affinità Gli alimenti Ordini di protezione contro gli abusi familiari

CAPITOLO 2 MATRIMONIO

434

1.

Matrimonio e famiglia

434

2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

A) ATTO Le forme matrimoniali Libertà matrimoniale e promessa di matrimonio Il matrimonio civile. Requisiti Formalità e celebrazione Invalidità del matrimonio Conseguenze della invalidità Il matrimonio concordatario

436 436 437 438 442 443 447 448

9. 10. 11. 12. 13. 14.

B) EFFETTI Rapporti personali tra coniugi Regime patrimoniale della famiglia. Il regime primario Convenzioni matrimoniali Comunione legale Regimi convenzionali Impresa familiare

454 454 458 461 463 468 471

C) UNIONE CIVILE 15. Unione civile e matrimonio

472 472

XIV

INDICE-SOMMARIO

pag. 16. Costituzione della unione civile 17. Effetti della unione civile

474 475

CAPITOLO 3 CRISI CONIUGALE

479

1. 2. 3. 4. 5. 6.

479 480 488 491 495 502

Unità e crisi della famiglia Separazione personale dei coniugi Effetti della separazione personale Divorzio Effetti del divorzio Scioglimento della unione civile

CAPITOLO 4 FILIAZIONE

505

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11.

505 509 511 515 521 521 526 529 537 542 550

Filiazione: attuale articolazione della disciplina L’atto di nascita Accertamento della filiazione Accertamento della filiazione fuori del matrimonio Legittimazione dei figli (cenni storici) Procreazione medicalmente assistita Tutela del minore privo di assistenza. Affidamento Adozione Il rapporto di filiazione Crisi familiare e tutela dell’interesse dei figli Assegnazione della casa familiare

PARTE VI PROPRIETÀ E DIRITTI REALI CAPITOLO 1 PROPRIETÀ

555

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.

555 561 564 566 568 571 574 578 580 584

Nozione Contenuto e caratteri Atti emulativi Contenuto della proprietà e garanzia costituzionale Proprietà fondiaria Immissioni Rapporti di vicinato Proprietà agraria Proprietà edilizia “Appartenenza” e beni immateriali: la c.d. proprietà intellettuale

INDICE-SOMMARIO

XV pag.

CAPITOLO 2 ACQUISTO E TUTELA DELLA PROPRIETÀ

588

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

588 589 591 591 596 597 599 601

Modi di acquisto Occupazione Invenzione Accessione Unione e commistione. Specificazione. Accessioni fluviali Azioni a difesa della proprietà. Azione di rivendicazione Altre azioni a tutela della proprietà Azioni di nunciazione

CAPITOLO 3 DIRITTI REALI DI GODIMENTO SU COSA ALTRUI

603

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.

603 605 607 610 613 615 619 621 624 625

La categoria. La tutela Superficie Enfiteusi Usufrutto Uso e abitazione Servitù prediali. Caratteri e tipologia Servitù coattive (o legali) Servitù volontarie Usi civici e proprietà collettive Oneri reali

CAPITOLO 4 COMUNIONE E CONDOMINIO

627

1. 2. 3.

627 630 635

Comunione Condominio negli edifici Multiproprietà

CAPITOLO 5 POSSESSO

638

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

638 641 643 646 647 649 651 655

Nozione e fondamento Possesso e detenzione Oggetto e vicende Possesso di buona fede Effetti del possesso. Diritti e obblighi del possessore nella restituzione della cosa Possesso di buona fede di beni mobili (art. 1153) Usucapione Azioni a tutela del possesso

XVI

INDICE-SOMMARIO

pag.

PARTE VII OBBLIGAZIONI CAPITOLO 1 RAPPORTO OBBLIGATORIO (Caratteri e tipologie)

659

1. 2. 3.

Rilevanza sociale e evoluzione storica della fisionomia Sistemazione del codice civile e nuovi radicamenti dei rapporti obbligatori Fonti dell’obbligazione (vicende costitutive)

659 662 664

4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.

A) CARATTERI DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO Struttura del rapporto e nozione integrale dell’obbligazione Soggetti (l’ambulatorietà) Contenuto. La pretesa Segue. La prestazione Oggetto Dovere di correttezza (lealtà, protezione e esigibilità) Obbligazioni naturali

665 665 668 670 670 674 676 678

11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19.

B) ALCUNE SPECIE DI OBBLIGAZIONI TIPICHE Le tipologie. Generalità Obbligazioni plurisoggettive. Le obbligazioni parziarie Segue. Le obbligazioni solidali Obbligazioni alternative e facoltative Obbligazioni divisibili e indivisibili Obbligazioni pecuniarie (debiti di valuta e debiti di valore) Il regime degli interessi Segue. L’anatocismo Obbligazioni con funzioni tipizzate

682 682 683 683 692 694 695 698 702 703

CAPITOLO 2 MODIFICAZIONI DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO (Vicende modificative)

704

1.

Generalità

704

2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

A) MODIFICAZIONI NEL LATO ATTIVO L’acquisizione del credito altrui (e successione nel credito) Cessione del credito. Titolo e divieto di cessione Segue. Efficacia della cessione Segue. Cessione di pluralità di crediti. Il factoring Segue. Cartolarizzazione dei crediti Pagamento con surrogazione Delegazione attiva

705 705 705 708 712 714 715 718

B) MODIFICAZIONI NEL LATO PASSIVO 9. L’assunzione del debito altrui (e successione nel debito) 10. Delegazione passiva 11. Espromissione

719 719 721 725

INDICE-SOMMARIO

XVII pag.

12. Accollo

726

C) MODIFICAZIONI OGGETTIVE 13. Modificazioni non novative 14. Surrogazione reale

729 729 729

CAPITOLO 3 ESTINZIONE DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO (Vicende estintive)

730

1.

Tipologie e modi di estinzione

730

2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

A) ADEMPIMENTO Attuazione del rapporto obbligatorio Esattezza dell’adempimento. Diligenza e correttezza Segue. Modalità dell’adempimento e imputazione del pagamento Adempimento del terzo Dazione in pagamento. La cessione di credito di imposta Mora del creditore. La posizione soggettiva del creditore Segue. Costituzione in mora e liberazione dall’obbligazione

731 731 733 737 743 744 746 747

9. 10. 11. 12. 13. 14. 15.

B) MODI DI ESTINZIONE DIVERSI DALL’ADEMPIMENTO I modi di estinzione indirettamente satisfattivi Compensazione Confusione I modi di estinzione non satisfattivi Novazione (oggettiva e soggettiva) Remissione del debito (e pactum de non petendo) Impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore

749 749 750 754 754 754 758 760

CAPITOLO 4 INADEMPIMENTO E MORA (Responsabilità e risarcimento)

764

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11.

764 765 773 778 779 785 787 789 791 792 794

Configurazione dell’inadempimento La responsabilità per inadempimento (responsabilità contrattuale) La responsabilità da contatto sociale qualificato L’adempimento coattivo Il risarcimento del danno Mora del debitore Segue. Effetti della mora La liquidazione del danno Concorso del fatto colposo del creditore (autoresponsabilità) I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali Il trattamento dei crediti deteriorati

XVIII

INDICE-SOMMARIO

pag.

CAPITOLO 5 GARANZIE DEL CREDITO E RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE (La garanzia generale)

795

1.

La realizzazione coattiva del credito

795

2. 3. 4.

A) RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE DEL DEBITORE Responsabilità patrimoniale e concorso dei creditori Segue. Il patto commissorio e il patto marciano L’espropriazione

796 796 799 802

5. 6. 7. 8. 9.

B) MEZZI DI CONSERVAZIONE DELLA GARANZIA PATRIMONIALE Generalità Azione surrogatoria Azione revocatoria. Presupposti Segue. Effetti della revocatoria Sequestro conservativo

804 804 805 806 812 813

10. 11. 12. 13. 14.

C) MECCANISMI INDIRETTI DI GARANZIA Generalità Cessione dei beni ai creditori Anticresi Rimedi di autotutela Esecuzione su beni oggetto di atti dispositivi a titolo gratuito

815 815 815 816 817 818

CAPITOLO 6 CAUSE LEGITTIME DI PRELAZIONE (Le garanzie speciali)

819

1.

Principi generali

819

2. 3.

A) PRIVILEGI Fondamento Tipologia ed efficacia. Concorso di garanzie

820 820 821

4. 5. 6. 7. 8. 9.

B) PEGNO E IPOTECA (GARANZIE REALI) I caratteri comuni Pegno Figure speciali di pegno Ipoteca Titolo dell’ipoteca Pubblicità ipotecaria e formalità

823 823 825 828 830 833 836

10. 11. 12. 13. 14. 15.

C) GARANZIE REALI CON ESECUZIONE STRAGIUDIZIALE Il sostegno finanziario alle imprese e ai consumatori Contratti di garanzia finanziaria Pegno mobiliare non possessorio Credito alle imprese con trasferimento di immobile condizionato all’inadempimento Prestito vitalizio ipotecario Credito ipotecario ai consumatori per acquisto di immobile residenziale

839 839 840 840 842 843 845

INDICE-SOMMARIO

XIX pag.

CAPITOLO 7 ESTENSIONE DELLA RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE (Garanzie di terzi)

847

1.

Garanzie legali e volontarie

847

2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

A) GARANZIE PERSONALI Generalità Fideiussione Contratto autonomo di garanzia Mandato di credito Avallo Lettera di patronage Garanzie collettive

848 848 848 853 855 856 856 857

9.

B) GARANZIE REALI Cenni e rinvio

858 858

CAPITOLO 8 GESTIONE DELLA DEBITORIA (Crisi di impresa e sovraindebitamento) 1. 2. 3. 4. 5.

Dal debito alla debitoria Crisi di impresa. Procedure di allerta e di composizione assistita della crisi Segue. Procedure di regolazione della crisi o dell’insolvenza. La liquidazione giudiziale Sovraindebitamento. Procedure di composizione della crisi e di liquidazione del patrimonio Esdebitazione

859 859 861 863 864 866

PARTE VIII CONTRATTO CAPITOLO 1 AUTONOMIA CONTRATTUALE

869

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11.

869 871 873 875 876 878 879 881 883 886 887

Autonomia negoziale e autonomia contrattuale La figura del contratto nel codice civile Elementi e requisiti del contratto Tipicità di singoli contratti I contratti nell’esperienza giuridica Uguaglianza tra libertà e giustizia. Gli interventi normativi riequilibratori Contratto e mercato: doveri di informazione e misure correttive Contratti di impresa e abuso di posizione dominante Contratti dei consumatori e degli investitori Terzo contratto e condizione degli imprenditori deboli Contratto e rapporto di lavoro

XX

INDICE-SOMMARIO

pag. 12. Contratti e accordi della pubblica amministrazione. L’evidenza pubblica 13. Il diritto europeo dei contratti 14. Il controllo giudiziale dell’autonomia contrattuale

888 893 894

CAPITOLO 2 CONCLUSIONE

899

1. 2. 3.

Le parti e i requisiti soggettivi. La legittimazione Formazione dell’accordo e conclusione del contratto. Il contratto plurilaterale Contratti consensuali e contratti reali

899 901 902

4. 5. 6. 7. 8.

A) ACCORDO DELLE PARTI Volontà negoziale e intento comune I modi di manifestazione della volontà Volontà e dichiarazione. La tutela dell’affidamento L’assenza di volontà negoziale L’erosione della volontà nei contratti di massa

903 903 904 905 906 907

9. 10. 11. 12.

B) VIZI DEL CONSENSO Generalità Errore (vizio e ostativo; errore materiale) Dolo (determinante e incidente; comunicazioni di massa) Violenza morale (e timore reverenziale)

907 907 908 913 916

C) MODI DI CONCLUSIONE DEL CONTRATTO Scambio di proposta e accettazione. La proposta irrevocabile Offerta al pubblico Il contratto aperto Conclusione senza apposita accettazione Predisposizione di condizioni generali di contratto (contratti per adesione tra codice civile e codice del consumo) 18. Contratti conclusi fuori dei locali commerciali e a distanza 19. Rapporti contrattuali per contatto sociale

13. 14. 15. 16. 17.

918 918 924 925 926 928 935 938

20. 21. 22. 23. 24.

D) VINCOLI A CONTRARRE E FORMAZIONE PROGRESSIVA Vincoli all’autonomia contrattuale Trattative (puntuazioni, minute, lettere di intenti) La prelazione e l’opzione Il contratto preliminare Il divieto di alienazione

939 939 940 941 946 956

25. 26. 27. 28. 29.

E) RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE Le ipotesi tipizzate di responsabilità La clausola generale del trattare lealmente I danni risarcibili La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione La responsabilità precontrattuale degli intermediari finanziari

958 958 960 962 963 964

INDICE-SOMMARIO

XXI pag.

CAPITOLO 3 CONTENUTO

966

1.

Determinazione del contenuto contrattuale. L’assetto di interessi

966

2. 3. 4.

A) OGGETTO Nozione Requisiti dell’oggetto. Il contratto incompleto Beni futuri

967 967 967 972

13. 14. 15. 16. 17. 18.

973 B) CAUSA Evoluzione del concetto di causa. La causa concreta 973 Il tipo contrattuale 976 Assenza di causa e astrazione dalla causa 977 Causa illecita 979 Il contratto in frode alla legge 980 Motivi 982 La presupposizione 983 Combinazione di fasci di prestazioni: contratto complesso (specie misto) e collegamento negoziale 985 Simulazione. L’accordo simulatorio 989 Segue. Regime e effetti della simulazione (tra le parti e verso i terzi) 993 Segue. Azione di simulazione e prova della simulazione 995 Negozi indiretti e fiduciari 998 Il trust 1001 Le dicotomie fondamentali 1003

19. 20. 21. 22. 23.

C) ELEMENTI ACCIDENTALI L’ampliamento del contenuto contrattuale Condizione. Caratteri e tipi Segue. Pendenza della condizione ed avveramento Termine Onere

5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12.

1007 1007 1007 1011 1013 1014

CAPITOLO 4 FORMA

1015

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

1015 1017 1023 1023 1024 1026 1028

Evoluzione del formalismo La forma per la validità La forma per la prova La forma per la opponibilità La forma dell’informazione Il documento informatico. Firma elettronica e digitale Lo smart contract

XXII

INDICE-SOMMARIO

pag.

CAPITOLO 5 REGOLAMENTO CONTRATTUALE

1030

1.

Atto di autonomia e valutazione ordinamentale

1030

2. 3. 4.

A) INTERPRETAZIONE Le norme sull’interpretazione Il procedimento ermeneutico legale L’interpretazione secondo buona fede

1030 1030 1032 1037

5.

B) QUALIFICAZIONE Qualificazione giuridica del contratto

1038 1038

6. 7. 8. 9. 10.

C) INTEGRAZIONE Integrazione del contratto. Il concorso di fonti La legge e gli altri atti normativi. La Costituzione Gli usi L’equità La buona fede integrativa

1039 1039 1042 1043 1044 1045

D) CONTROLLI 11. La conformità ordinamentale 12. Il controllo di liceità e meritevolezza

1046 1046 1047

CAPITOLO 6 EFFICACIA

1051

1.

Efficacia e inefficacia

1051

2. 3.

A) EFFETTO GENERALE (Vincolo contrattuale) Il vincolo contrattuale e i modi di scioglimento. La risoluzione consensuale Il recesso (caparra penitenziale e multa penitenziale)

1052 1052 1053

4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11.

B) EFFETTI PARTICOLARI (Effetti negoziali) La tendenziale relatività della efficacia del contratto Tipologie di effetti Effetti obbligatori e effetti reali Il consenso traslativo e il regime del rischio. Proprietà e consegna Contratti bilaterali e contratti unilaterali Effetti negoziali (diretti) verso i terzi Segue. Il contratto a favore di terzi La manovra degli effetti del contratto (condizione e termine: cenni e rinvio)

1057 1057 1058 1058 1060 1064 1065 1066 1068

12. 13. 14. 15. 16.

C) EFFICACIA RIFLESSA (Effetti indiretti) Gli effetti riflessi (indiretti) del contratto Cessione del contratto e subcontratto Limitazioni convenzionali del potere di disposizione Promessa del fatto del terzo e disposizione di beni altrui Il conflitto di diritti. L’opponibilità

1068 1068 1069 1073 1076 1078

INDICE-SOMMARIO

XXIII pag.

CAPITOLO 7 ESECUZIONE

1080

1. 2. 3. 4. 5. 6.

1080 1082 1083 1084 1089 1091

L’attuazione del risultato programmato. L’esecuzione secondo buona fede Modalità dell’esecuzione L’esecuzione dei contratti nell’economia dei servizi Misure rafforzative dell’esecuzione (clausola penale e caparra confirmatoria) Sopravvenienze e adeguamento del contratto Segue. La rinegoziazione

CAPITOLO 8 SOSTITUZIONE NELL’ATTIVITÀ GIURIDICA

1095

1.

Sostituzione nella cura degli interessi

1095

2. 3. 4. 5. 6. 7.

A) RAPPRESENTANZA Gestione e rappresentanza La procura Il negozio concluso dal rappresentante L’abuso di potere (conflitto d’interessi) Il difetto di potere (rappresentanza senza potere) La rappresentanza apparente

1096 1096 1100 1103 1104 1106 1109

B) ALTRE FIGURE 8. Contratto per persona da nominare 9. Contratto per conto di chi spetta 10. Gestione di affari altrui (cenni e rinvio)

1110 1110 1112 1112

CAPITOLO 9 ANOMALIE GENETICHE (Difetti della formazione)

1113

1. 2. 3.

L’atto e il rapporto contrattuale Irregolarità e inefficacia del contratto Inesistenza e invalidità

1113 1114 1115

4. 5. 6. 7.

A) NULLITÀ Configurazione della nullità Le cause di nullità Le nullità di protezione Conservazione (sanatoria, conversione, nullità parziale, contratto plurilaterale)

1117 1117 1122 1124 1127

B) ANNULLABILITÀ 8. Configurazione dell’annullabilità 9. Le cause di annullabilità 10. Conservazione (convalida, rettifica, contratto plurilaterale)

1131 1131 1134 1136

C) RESCISSIONE 11. Configurazione della rescissione 12. Le cause di rescissione 13. Rescissione ed usura. La c.d. usura bancaria

1138 1138 1139 1141

XXIV

INDICE-SOMMARIO

pag.

CAPITOLO 10 ANOMALIE SOPRAVVENUTE (Difetti dell’attuazione)

1144

1. 2.

1144 1145

La inattuazione del regolamento contrattuale La rinegoziazione (cenni e rinvio)

5. 6. 7.

A) AUTOTUTELA 1145 Generalità 1145 Preservazione della corrispettività (eccezione di inadempimento, mutamento condizioni patrimoniali, diritto di ritenzione e altri strumenti) 1147 Attuazione coattiva del credito (esecuzione in danno e patto marciano) 1151 Scioglimento coattivo del contratto (recesso e risoluzione unilaterale) 1151 Definizione dell’operazione e controllo dell’autotutela 1153

8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16.

B) ETEROTUTELA Lo strumentario I) Inadempimento. Configurazione Adempimento coattivo Risoluzione del contratto. Presupposti e conseguenze Segue. Risoluzione giudiziale e risoluzione di diritto Risarcimento del danno II) Impossibilità sopravvenuta. Configurazione Segue. Effetti e sopportazione del rischio III) Eccessiva onerosità. Configurazione e effetti

3. 4.

1154 1154 1155 1158 1159 1161 1168 1169 1172 1174

PARTE IX SINGOLI CONTRATTI CAPITOLO 1 CONTRATTI DI ALIENAZIONE DI BENI 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.

A) VENDITA Lo schema generale Le obbligazioni del venditore. Le garanzie Le obbligazioni del compratore Limitazioni dei diritti del compratore (patto di riscatto e riserva di proprietà) Le vendite immobiliari (statuto degli immobili) Vendita e promessa di vendita di immobili da costruire Le vendite mobiliari (cose e prodotti) Vendita di beni di consumo Vendita di beni mobili registrati Vendita di eredità

1177 1177 1177 1179 1184 1184 1187 1193 1195 1199 1201 1202

INDICE-SOMMARIO

XXV pag.

11. 12. 13. 14. 15.

B) ALTRI CONTRATTI Permuta Contratto estimatorio Rent to buy Condhotel Riporto

CAPITOLO 2 CONTRATTI DI PRESTAZIONE D’OPERA E DI SERVIZI

1203 1203 1204 1205 1206 1206

1208

1. 2. 3. 4.

A) APPALTO Lo schema generale Appalti pubblici Appalto di interventi edilizi Subappalto

1208 1208 1214 1218 1220

5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16.

B) ALTRI CONTRATTI Contratto d’opera Somministrazione Subfornitura Deposito e parcheggio Segue. Deposito in albergo e deposito nei magazzini generali Trasporto Segue. Trasporto di persone e trasporto di cose Contratto di viaggio e vendita di pacchetti turistici Logistica Engineering Catering Costruzione di nave e aeromobile

1221 1221 1224 1227 1228 1231 1232 1234 1239 1241 1242 1243 1243

CAPITOLO 3 CONTRATTI DI COOPERAZIONE GIURIDICA

1244

1. 2. 3. 4. 5. 6.

A) MANDATO Lo schema generale Mandato e rappresentanza Le obbligazioni derivanti dal mandato L’estinzione del mandato Commissione Spedizione

1244 1244 1246 1248 1250 1252 1253

7. 8. 9.

B) ALTRI CONTRATTI Agenzia Mediazione Affiliazione commerciale (franchising)

1254 1254 1259 1266

XXVI

INDICE-SOMMARIO

pag.

CAPITOLO 4 CONTRATTI DI GODIMENTO

1268

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

1268 1272 1274 1279 1280 1286 1288 1290 1294

Locazione Obbligazioni del locatore e del conduttore Locazione di immobili urbani Affitto Leasing Comodato Mutuo Onerosità del mutuo e obbligazione degli interessi Mutuo di scopo

CAPITOLO 5 CONTRATTI ALEATORI 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Rendita Vitalizio alimentare e contratto di mantenimento Giuoco e scommessa Assicurazione Contratto di assicurazione Assicurazione contro i danni Assicurazione della responsabilità civile Assicurazione obbligatoria della responsabilità civile (in particolare, derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti) 9. Assicurazione sulla vita 10. Riassicurazione

1297 1297 1300 1301 1303 1305 1310 1314 1317 1321 1323

CAPITOLO 6 CONTRATTI RISOLUTIVI DI UNA CONTROVERSIA

1324

1. 2. 3.

1324 1327 1330

Transazione Compromesso e clausola compromissoria Sequestro convenzionale

PARTE X FATTI ILLECITI E RESPONSABILITÀ CIVILE CAPITOLO 1 STRUTTURA DEL FATTO ILLECITO

1331

1. 2. 3. 4.

1331 1335 1337 1338

Nozione e funzione Fatto e nesso di causalità Danno ingiusto Ampliamento della sfera del danno ingiusto

INDICE-SOMMARIO

XXVII pag.

5. 6. 7. 8. 9.

Cause di esclusione dell’antigiuridicità Imputabilità e colpevolezza Superamento del criterio della colpa: responsabilità aggravata e responsabilità oggettiva Criteri di propagazione della responsabilità Regimi peculiari di responsabilità

1342 1344 1348 1350 1354

CAPITOLO 2 RISARCIMENTO DEL DANNO

1364

1. 2. 3. 4.

1364 1369 1375 1379

Illecito, risarcimento del danno e tecniche di tutela degli interessi lesi Modalità del risarcimento e valutazione del danno Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale Danno non patrimoniale e danno alla persona

PARTE XI ALTRE FONTI DI OBBLIGAZIONE CAPITOLO 1 ATTI E FATTI DIVERSI DA CONTRATTO E FATTO ILLECITO

1393

1.

Fonti negoziali e fonti legali

1393

2. 3. 4.

A) PROMESSE UNILATERALI Negozi unilaterali e promesse unilaterali Promessa al pubblico Promessa di pagamento e ricognizione di debito

1394 1394 1395 1396

5. 6. 7. 8. 9.

B) OBBLIGAZIONI EX LEGE Generalità Gestione di affari Pagamento dell’indebito Arricchimento senza causa Obbligazione tributaria

1399 1399 1400 1402 1406 1409

CAPITOLO 2 TITOLI DI CREDITO

1411

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

1411 1413 1414 1415 1417 1419 1421

Funzione, natura, caratteri Le eccezioni opponibili dal debitore La natura dei diritti incorporati I meccanismi di circolazione Cambiale e assegno Collocazione degli strumenti finanziari e tutela degli investitori La dematerializzazione dei titoli di credito

XXVIII

INDICE-SOMMARIO

pag.

PARTE XII SUCCESSIONI PER CAUSA DI MORTE CAPITOLO 1 SUCCESSIONE IN GENERALE

1423

1. 2.

Concetto di successione per causa di morte Divieto dei patti successori

1423 1426

3. 4. 5.

A) APERTURA DELLA SUCCESSIONE Vocazione e delazione Capacità e indegnità Posizione del chiamato all’eredità

1428 1428 1429 1431

6. 7. 8. 9. 10. 11. 12.

B) ACQUISTO DELL’EREDITÀ Accettazione dell’eredità Accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario Rinunzia all’eredità Rappresentazione e trasmissione del diritto di accettazione Separazione dei beni del defunto da quelli dell’erede Eredità giacente La petizione di eredità e l’erede apparente

1432 1432 1434 1437 1438 1440 1441 1441

CAPITOLO 2 CRITERI DI VOCAZIONE

1444

1. 2. 3. 4.

A) SUCCESSIONE LEGITTIMA Presupposti e fondamento Successione dei parenti Successione del coniuge Successione dello Stato

1444 1444 1445 1446 1447

5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17.

B) SUCCESSIONE TESTAMENTARIA Il testamento Istituzione di erede e legato. La institutio ex re certa Legati (tipologia e disciplina) Capacità di ricevere per testamento e capacità di disporre per testamento Forma del testamento Pubblicazione Invalidità. Fiducia testamentaria Disposizioni condizionali e a termine Onere Sostituzione ordinaria e sostituzione fedecommissaria Diritto di accrescimento Revocazione delle disposizioni testamentarie Esecutore testamentario

1448 1448 1450 1452 1454 1454 1457 1458 1459 1460 1462 1463 1464 1466

INDICE-SOMMARIO

XXIX pag.

CAPITOLO 3 DIRITTI DEI LEGITTIMARI

1468

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

1468 1470 1472 1473 1475 1478 1479

Nozione di legittimario Categorie dei legittimari Posizione del legittimario Azione di riduzione Azione di restituzione Cautela sociniana. Legato in sostituzione di legittima e legato in conto di legittima Patto di famiglia

CAPITOLO 4 COMUNIONE E DIVISIONE EREDITARIA

1482

1. 2. 3. 4. 5.

1482 1483 1484 1487 1490

Comunione ereditaria Divisione fatta dal testatore e norme date dal testatore per la divisione Collazione Divisione ereditaria: divisione giudiziale e divisione contrattuale Annullabilità e rescindibilità della divisione ereditaria

PARTE XIII DONAZIONI CAPITOLO 1 CONTRATTO DI DONAZIONE

1493

1. 2. 3. 4. 5.

1493 1495 1496 1499 1501

La donazione nel codice civile del 1942 Donazione e atto a titolo gratuito. Il c.d. negotium mixtum cum donatione Disciplina del contratto di donazione Responsabilità del donante. Invalidità. Revocazione Ipotesi particolari di donazione

CAPITOLO 2 ALTRI ATTI DI LIBERALITÀ

1504

1. 2. 3. 4.

1504 1505 1506 1508

Atti di liberalità diversi dalla donazione: le donazioni indirette Le fattispecie. Atti di natura contrattuale Atti a struttura unilaterale Atti materiali

XXX

INDICE-SOMMARIO

pag.

PARTE XIV PUBBLICITÀ CAPITOLO 1 PUBBLICITÀ IN GENERALE

1511

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

1511 1513 1514 1516 1516 1519 1520 1520

La pubblicità legale Oggetto e funzione generale della pubblicità Tipologie di pubblicità Apparati, registri e sistemi La pubblicità delle persone fisiche La pubblicità di enti La pubblicità di imprese e società La pubblicità riguardante specifici beni

CAPITOLO 2 LA PUBBLICITÀ IMMOBILIARE ORDINARIA

1523

1.

I servizi di pubblicità immobiliare ordinaria

1523

2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18.

A) TRASCRIZIONE NEI REGISTRI IMMOBILIARI Impianto e impostazione dei registri immobiliari Le formalità pubblicitarie: trascrizione, iscrizione e annotazione Esecuzione della trascrizione. Tipicità dei risultati e atipicità degli atti Efficacia tipica della trascrizione (responsabilità per doppia alienazione) Continuità delle trascrizioni e acquisto a titolo originario Atti soggetti a trascrizione con efficacia tipica Atti soggetti a trascrizione con effetti particolari Trascrizione degli acquisti a causa di morte Trascrizione di contratti preliminari Trascrizione di atti di destinazione Trascrizione di atti costitutivi di vincoli a favore di enti pubblici Trascrizione di domande giudiziali Trascrizione di sentenze Trascrizione di atti incidenti sul regime patrimoniale familiare Trascrizione prevista da leggi speciali La disposizione dei diritti tra proprietà e pubblicità L’allocazione dei beni tra sicurezza giuridica e solidarietà

1524 1524 1526 1526 1529 1533 1535 1538 1539 1542 1543 1546 1546 1550 1550 1552 1553 1554

B) INTESTAZIONE CATASTALE 19. Impianto e impostazione del catasto 20. Funzioni del catasto (determinazione e estimo degli immobili) 21. L’allineamento catastale delle unità immobiliari urbane

1555 1555 1557 1558

INDICE-SOMMARIO

XXXI pag.

CAPITOLO 3 LA PUBBLICITÀ IMMOBILIARE TAVOLARE

1561

1. 2. 3. 4.

1561 1563 1564 1566

Impianto e impostazione dei libri fondiari. La intavolazione Modalità della iscrizione tavolare Efficacia della iscrizione tavolare Avvicinamento dei sistemi pubblicitari

Indice analitico-alfabetico

1569

XXXII

INDICE-SOMMARIO

FERNANDO BOCCHINI ha curato le seguenti parti: PARTE I (Ordinamento giuridico) PARTE II (Categorie generali), capp. 4-7 PARTE III (Tutela dei diritti) PARTE VII (Obbligazioni) PARTE VIII (Contratto) PARTE IX (Singoli contratti), capp. 1-3 PARTE XI (Altre fonti di obbligazione) PARTE XIV (Pubblicità)

ENRICO QUADRI ha curato le seguenti parti: PARTE II (Categorie generali), capp. 1-3 PARTE IV (Soggetti) PARTE V (Famiglia) PARTE VI (Proprietà e diritti reali) PARTE IX (Singoli contratti), capp. 4-6 PARTE X (Fatti illeciti e responsabilità civile) PARTE XII (Successioni per causa di morte) PARTE XIII (Donazioni)

XXXII

PARTE IV – FAMIGLIA

PRINCIPI SOMMARIO: PARTE I.

PARTE II.

PARTE III.

ORDINAMENTO GIURIDICO. – Cap. 1. Ordinamento giuridico e realtà sociale. – Cap. 2. Diritto privato. – Cap. 3. Fonti e applicazione del diritto (Efficacia e interpretazione). CATEGORIE GENERALI. – Cap. 1. Soggetto e persona. – Cap. 2. Beni giuridici. – Cap. 3. Rapporto giuridico e situazioni giuridiche soggettive. – Cap. 4. I fatti giuridici. Effetti, vicende e circolazione. – Cap. 5. Autonomia privata (Il negozio giuridico e l’autonomia negoziale). – Cap. 6. Iniziativa economica (L’impresa e il mercato). – Cap. 7. Principi generali e Clausole generali (L’ordine pubblico). TUTELA DEI DIRITTI. – Cap. 1. Tutela giurisdizionale dei diritti. – Cap. 2. Prove. – Cap. 3. Tecniche alternative di risoluzione delle controversie (Degiurisdizionalizzazione).

2

PARTE I – ORDINAMENTO GIURIDICO

CAP. 1 – ORDINAMENTO GIURIDICO E REALTÀ SOCIALE

3

PARTE I

ORDINAMENTO GIURIDICO

CAPITOLO 1

ORDINAMENTO GIURIDICO E REALTÀ SOCIALE

Sommario: 1. L’esperienza giuridica tra società e diritto. – 2. Correlazioni del diritto con altre esperienze culturali. – 3. La valutazione giuridica della realtà materiale. – 4. Ordinamento giuridico. – 5. Diritto positivo e diritto naturale. – 6. La scienza giuridica e le categorie. – 7. I principali sistemi giuridici: civil law e common law.

1. L’esperienza giuridica tra società e diritto. – È antica l’affermazione che ubi societas ibi ius. Ogni comunità ha bisogno del diritto 1 per vivere pacificamente, assicurando il diritto le regole della convivenza civile necessarie per organizzare il presente e progettare il futuro, così nei rapporti esistenziali e sociali come nelle scelte economiche e operative. Il diritto rappresenta l’approdo e il crocevia delle tante articolazioni culturali della società, permeate di religione, economia, filosofia, scienza; anche i climi, penetrando spiriti e comportamenti, orientano le organizzazioni dei popoli: insomma il diritto esprime la vita stessa di una società. È pure antica l’affermazione ex facto oritur ius. Nella sua essenza il diritto è un complesso di regole (c.d. norme giuridiche) che disciplinano le condotte umane in una comunità, secondo principi e valori nei quali la società storicamente si riconosce e intende muoversi. Il diritto proviene dall’uomo ed è in funzione dell’uomo, che, ad un tempo, è attivatore e destinatario delle norme giuridiche. La convivenza civile si nutre di una es1 Nel diritto romano classico il termine impiegato per indicare il diritto era i u s . Correlativamente il termine “giuridico” deriva dal latino iuridicus, composto di ius (diritto) e dicere (dire); il termine “giudice” deriva dal latino iudex (colui che dice il diritto); il termine “giurisprudenza” deriva dal latino iurisprudentia, derivato di iurisprudens (esperto del diritto). Letteralmente il termine “diritto” deriva dal tardo latino medievale d i r e c t u s con una inflessione morale di considerare i fatti giuridici sub specie recti, perciò diretto a certi fini: è con tale inflessione che si sviluppa nel resto d’Europa (francese droit, spagnolo derecho, tedesco Recht).

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PARTE I – ORDINAMENTO GIURIDICO

senziale relazionalità sociale regolata dal diritto: già nella famiglia 2 e poi nelle varie articolazioni comunitarie (scuola, lavoro, tempo libero); l’attuazione di molti interessi, implicando l’impiego di beni e mezzi, necessita della cooperazione tra gli uomini e della aggregazione in gruppi (associazioni, società, ecc.). L’ordine di una comunità non è assicurato dal solo catalogo dei precetti giuridici, spesso non conosciuti, ma è sostenuto anche dal concorso di dettami etici, precetti religiosi, tradizioni di comportamenti, che attingono alla complessiva organizzazione sociale. Ad es., nelle famiglie, pulsa un complesso di valori ideali, costumi tramandati o attinti all’ambiente sociale, dettami religiosi, sentiti e vissuti con maggiore intensità e severità delle regole giuridiche e che, accanto a queste ultime, caratterizzano la complessiva vita della comunità familiare; nelle relazioni commerciali, operano prassi e consuetudini costantemente rispettate dai singoli operatori economici, avvertite addirittura con maggior rigore delle prescrizioni di legge: sono fasci di doveri che si intrecciano con la imperatività delle regole dell’ordinamento giuridico. Comprendere (e interpretare) il diritto significa conoscere (e valutare) la realtà sociale che lo esprime e di cui si alimenta: il relativo intreccio forgia la complessità della esperienza giuridica, quale effettività di convivenza della comunità civile, con valori condivisi e regole applicate. Nel concetto di diritto è insito il criterio del limite, così nelle relazioni individuali che nei gruppi e a maggior ragione verso la comunità, perché le varie sfere giuridiche possano coesistere nella convivenza civile. Con l’avvento dello Stato moderno (di cui appresso), come referente della totalità del diritto, emergono fondamentali dilemmi della modernità, per il progressivo divario tra regole giuridiche formalizzate e realtà materiale vissuta. Di tale complessa esperienza giuridica vanno colte fondamentali declinazioni, che serbano alcuni criteri e prospettano nuovi 3. In tale evoluzione la società è stata prima attraversata e poi sovrastata dalla crisi della modernità, con l’emersione di una età che si interroga sul percorso della vita e valorizza la collocazione sociale e umana delle persone: rileva il condizionamento umano rispetto alla famiglia, alla comunità, al territorio e all’epoca, con radicamenti della persona secondo proprie istanze e identità (homme situé). La pandemia sanitaria del Covid degli anni 2020-2022 ha acuito il senso del limite e della fragilità umana, evidenziando la essenzialità della coesione civile. In tale articolato percorso, regole, principi e istituti giuridici vanno calati nell’ambien2 La famiglia, formalizzata o di fatto, si atteggia sempre più come comunità relazionale, dove convivono e vicendevolmente si prestano assistenza e collaborazione più generazioni, cementate dall’amore. 3 La vita, per la sua poliedricità e problematicità, è irriducibile ad astratti modelli normativi; eppure c’è l’esigenza della certezza del diritto come collante di convivenza civile, contro immunità, privilegi e angherie delle pregresse società stratificate per classi, e per la calcolabilità delle azioni umane. Gli scambi commerciali trascurano le specificità delle persone, nelle singole realtà e con le particolari appartenenze; eppure il rafforzamento e l’espansione della produzione e dei consumi hanno consentito l’appagamento di antiche precarietà e di nuovi bisogni. La democrazia, come governo del popolo, è influenzata dalla composizione del popolo abilitato al suffragio elettorale, che detta le regole per tutti; eppure la formazione dal basso della volontà della comunità resta l’unico modello di governo espressivo di libertà personale e civica. L’azione pubblica ha favorito corruzioni e piegamenti sociali; eppure l’affermazione di strutture pubbliche organizzate ha consentito approdi e riparo a disagi umani e sociali. Gli status delle persone, documentati nelle forme giuridiche, sovrastano la realtà delle relazioni umane dove si nasce, si muore, si sviluppano amori e intessono convivenze nella “ontologia sociale”; eppure la formalizzazione degli stati consente presidi e tutele specie ai più deboli della società.

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te sociale ove storicamente si muovono le vicende umane, alla stregua delle condizioni naturali, delle appartenenze sociali e delle conoscenze acquisite. Anche la effettività della giustizia passa attraverso la contestualizzazione dei fatti e l’attualizzazione dei precetti.

2. Correlazioni del diritto con altre esperienze culturali. – Varie esperienze umane e sociali e molti saperi culturali si atteggiano come ragioni di sostegno alla esperienza giuridica. La morale e la religione 4 additano peculiari modelli di precettività. La medesima condotta, moralmente o religiosamente impegnativa, può essere considerata rilevante anche dal diritto: si pensi ad es. ai precetti di non uccidere e non rubare, che sono peccati per la visione cristiana e reati per gli ordinamenti statali. Solo che la dimensione morale si esaurisce nell’intimità della coscienza, e quella religiosa attinge ad una finalità trascendente; mentre la dimensione giuridica si svolge ontologicamente nella relazionalità sociale attraverso l’apparato ordinamentale: il diritto si proietta nelle regole impegnative di convivenza, affinché le aspirazioni e le passioni dei singoli possano esprimersi in modo socialmente compatibile, così da realizzare equilibrio e coesione tra i consociati. Talvolta vi è maggiore permeabilità, talaltra più stridente antitesi, tra precetti etici e religiosi e regole giuridiche; è essenzialmente con l’illuminismo che la teoria dei “beni giuridici” si secolarizza o laicizza, assumendo rilevanza giuridica solo interessi tutelati dall’ordinamento. La storia, come dialogo con il passato, ha sempre svolto un’importante azione di verifica del diritto. Senza coscienza storica non è possibile capire il presente e quindi progettare il futuro: essenziale è conoscere le regole del passato, non tanto per le prescrizioni realizzate, quanto per le idee che le avevano ispirate e i conflitti che ne avevano determinato l’adozione. La filosofia ha sempre svolto una essenziale funzione intellettuale di analisi dell’uomo e della società per le vocazioni immaginate o assegnate (divine o terrene) e di congruenza logica e etica delle regolazioni giuridiche. Le scienze stanno dischiudendo ampi scenari di intreccio con l’esperienza giuridica. Si pensi solo alle problematiche suscitate dalle nuove tecnologie e specificamente dalla telematica, rispetto al controllo ormai sistematico della persona, con ispezione del corpo e indirizzamento di vita. È ormai ricorrente l’intreccio tra “principio di innovazione” che tende a fare applicazione di tutti i risultati della scienza e “principio di precauzione” che mira a segnare limiti di intervento per la salvaguardia di fondamentali valori etici. Nelle relazioni interpersonali stanno crescendo gli ausili delle scienze cognitive, che ormai hanno per oggetto lo studio dei generali processi cognitivi, umani e artificiali. Le tecnologie applicate alla vita umana e alla natura suscitano complessi problemi di bioetica e di salvezza dell’equilibrio naturale del pianeta, che il diritto deve armonizzare con la dimensione umana. La economia ha assunto nelle società moderne un nesso importante con il diritto, specie a seguito dell’affermazione del mercato, come generatore di ricchezza, soggetto alla regolazione giuridica: in connessione con il diritto è parametro essenziale di programmazione di uno “sviluppo sostenibile”; orienta la formazione del diritto, ma è al 4 Il termine “religione” deriva dal latino religio derivato dal verbo religare “legare” per intendere il valore vincolante del singolo e del gruppo agli obblighi sacrali. Il riferimento alla religione non è tanto alle pratiche di culto quanto alle motivazioni di fede.

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tempo stesso indirizzata e regolata dal diritto, dovendo il diritto esprimere la complessità della morfologia sociale e il bilanciamento degli interessi coinvolti 5. Sempre più al giurista si chiede di raccordare, attraverso la propria analisi, i valori espressi dall’ordinamento con i presupposti economici necessari ad un efficiente funzionamento del sistema; come all’economista si chiede di apprestare soluzioni che tengano conto del quadro istituzionale della società civile. La raffigurazione del diritto risente dei vari angoli di osservazione dei delineati saperi culturali, in ragione degli obiettivi che la singola scienza che lo esamina si prefigge 6. Il diritto attraversa tutte le declinazioni della vita umana, suscitando problematiche spesso contrapposte e che pure deve bilanciare, tra libertà e autorità, tra individuo e comunità, tra economia e società. Il giurista guarda al diritto come una complessiva esperienza giuridica, che consente la convivenza civile improntata ai valori operanti nella società e riflessi nell’ordinamento; con la sua azione contribuisce alla formazione della cultura giuridica che ispira e media i precetti giuridici con l’ambiente sociale, svolgendo così una importante funzione civile. La formazione di una società globale, interconnessa, comporta una relativizzazione culturale di concetti e valori 7: sono traiettorie che attraversano per intero il diritto, stimolandone l’emersione e forgiandone percorsi e obiettivi.

3. La valutazione giuridica della realtà materiale. – Non ogni relazione sociale e in genere non ogni interesse e non ogni fatto materiale (comportamento umano o accadimento naturale) sono anche giuridicamente rilevanti: essenziale si rivela la valutazione che degli stessi compie l’ordinamento giuridico. Sia in relazione ad un interesse che ad un fatto materiale (umano o fisico) il diritto può assumere un duplice atteggiamento: di indifferenza, in quanto considerati ininfluenti e quindi non meritevoli di disciplina; di rilevanza, in quanto involgenti valori rilevanti dell’ordinamento e quindi da disciplinare. In questa seconda ipotesi può tenere una posizione di apprezzamento, e quindi proteggerli e talvolta incentivarli, o di contrarietà, e quindi vietarli e talvolta punirli (illeciti). Un fenomeno diviene giuridico quando l’interesse o il fatto materiale (umano o naturale) incide sul modo di essere e sentire della comunità sociale, sicché la stessa società avverte l’esigenza di prevederlo e regolarlo. Il diritto è dialogico, in quanto esprime il rapporto e la proporzione di ogni soggetto con il resto della comunità 8; svolge una funzione complessa in quanto tende a ga5 Se lo sviluppo delle comunicazioni mercantili ha favorito la dissoluzione della c.d. “società chiusa”, è anche necessario che dei processi di dispiegamento del mercato, quale significativa espressione della c.d. “società aperta” (Popper), siano partecipi tutti i protagonisti della società civile. Anche l’economia deve essere partecipe dei vincoli di solidarietà sociale e di tutela della qualità della vita delle persone. 6 Lo storico analizza il diritto nel suo emergere ed evolversi; il filosofo guarda al diritto essenzialmente nella sua radice e nei modi di imporsi; il sociologo è attratto dall’impatto del diritto nella organizzazione del consenso sociale; l’economista, più disincantato, osserva il ruolo che il diritto esercita nello svolgersi dei processi produttivi e così via. 7 La cultura greca era solita considerare la tecnica come necessariamente correlata all’etica e all’estetica, trovando in queste un limite insormontabile. Analogamente non ogni scoperta può confluire in un diritto senza il consenso sociale: la scienza non può da sola determinare “diritti individuali” senza la mediazione della politica che riconosca i portati della scienza compatibili con i valori etici storicamente vissuti dalla società. 8 È ormai acquisita alla speculazione più moderna una prospettiva dialogica del diritto, che radica nel dialogo e dunque nel consenso l’essenza della esperienza giuridica. Una concezione ontologica del diritto (che

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rantire l’ordinato dispiegarsi delle relazioni e aspirazioni umane nella pace sociale e a perseguire gli obiettivi di sviluppo secondo i valori accolti 9. Nelle democrazie della contemporaneità il diritto è, a un tempo, presidio di garanzia delle posizioni personali e ragione di promozione dei valori socialmente condivisi, con sostegno delle posizioni umane più deboli. Società e diritto implicano concetti sinergici, esprimendo sostanza e forma, ovvero profilo materiale e profilo strutturale, di una medesima esperienza. Perciò il diritto è storicizzato e cioè localizzato nel tempo e nello spazio, come espressivo della vicenda storica di una determinata società e dei valori nei quali la stessa si riconosce. Anche l’assiologia, quale teoria filosofica dei valori e canoni interpretativi della realtà, è votata ad ammodernare storicamente i referenti: nelle varie epoche, principalmente, la divinità, l’individualismo, la persona umana. Per imporsi alla intera comunità con regole vincolanti, il diritto ha bisogno della mediazione formale del comando: quanto maggiormente la ricaduta del diritto sui consociati si conforma al consenso popolare, tanto più l’ordinamento (e dunque lo Stato) è democratico; quanto maggiormente se ne discosta, tanto più si rivela autoritario 10. In una società organizzata democraticamente il diritto trae origine dalla volontà dei consociati e ricade e si impone coattivamente sui consociati stessi come complesso di regole di carattere autoritativo (norme giuridiche), restando in vita fin quando perdura il consenso sociale (espresso attraverso i sistemi di rappresentatività). In tal senso le varie ricostruzioni emerse del diritto e dell’ordinamento giuridico sono suscettibili di una composizione funzionale 11. cioè ravvisi il diritto nella realtà) conduce a riconoscere una giuridicità preconcetta rispetto alle relazioni sociali, riposta nella natura delle cose o nella natura della persona umana, salvo ricondurla in ultima istanza ad una divinità o altro: ha il limite di essere riconoscibile solo da alcuni soggetti o solo dai sapienti, prestandosi a possibili deviazioni, spesso nefaste (dittature, fondamentalismi, ecc.). 9 Esistono convivenze che si fondano su basi religiose; altre che si riconoscono in ideologie della vita sociale; e così via. La convivenza di cittadini in quanto tali, su un medesimo territorio, realizza una comunità civile, che può essere su base locale, nazionale o più vasta: la convivenza sociale implica la necessità di un ordinamento in grado di permettere l’ordinato svolgersi della singola comunità. 10 Al fondo di tali problematiche c’è il tema generale della legittimazione del diritto e dunque del potere, che storicamente è stato variamente avvertito in ragione di diverse motivazioni. Nelle visuali religiose, e specificamente nella tradizione cattolica e aristotelico-tomista, il diritto è l’ordine naturale oggettivo al quale il singolo deve conformarsi: il limite dei diritti è l’ordine naturale giusto. Nella ricostruzione laica moderna, che inizia col rinascimento e si approfondisce con il giusnaturalismo razionale, il diritto diventa prerogativa dell’individuo, che autonomamente agisce nella società: il limite dei diritti è il diritto altrui. La deriva della prima impostazione è la oppressione in nome della giustizia; la deriva della seconda è l’abuso della debolezza altrui. Come si vedrà, sono le Costituzioni del sec. XX a segnare una svolta profonda, in funzione di protezione della dignità umana (II, 7.1). 11 È possibile aggregare le varie ricostruzioni che storicamente sono emerse del diritto e che hanno influenzato la ricostruzione dell’ordinamento giuridico intorno ad alcuni nuclei fondamentali: da un lato, dottrine c.d. normative che valorizzano l’aspetto strutturale del diritto, ricostruendo il diritto come “sistema di comandi”, la cui legittimazione, meramente formale, è espressa dall’autorità che lo emana (concezioni c.d. volontaristiche o soggettive); dall’altro, dottrine in vario senso sociali, che ne esaltano il profilo sostanziale di interazione con la società, ricostruendo il diritto come “sistema di valori”, la cui legittimazione, assolutamente funzionale, è radicata nel consenso sociale (concezioni c.d. organicistiche o oggettive ovvero, con specifica attenzione ai valori, c.d. assiologiche). In una dimensione particolare si muovono le dottrine c.d. istituzionali, che pongono come prius dell’esperienza giuridica l’istituzione e cioè la struttura, l’organizzazione più o meno stabile di una società unitariamente intesa (l’istituzione è essa stessa diritto, in quanto non è ammissibile una società senza organizza-

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Una tradizionale raffigurazione porta ad attribuire due peculiari significati al diritto, in senso oggettivo e in senso soggettivo. Il diritto oggettivo indica l’insieme dei precetti giuridici vigenti, su cui si fondano i rapporti tra consociati o tra le diverse comunità (es. la normativa sulla proprietà). Il diritto soggettivo in senso ampio indica il potere attribuito al soggetto di assumere un determinato comportamento per realizzare un proprio interesse (es. il diritto del proprietario di godere e disporre di un bene) 12. Le due accezioni sono sinergiche: in tanto un soggetto può vantare un diritto (e dunque un potere) in senso soggettivo in quanto sussiste un precetto giuridico oggettivo che lo riconosce e ne consente l’attuazione; al diritto oggettivo spetta anche apprestare gli strumenti di attuazione coattiva del diritto soggettivo quando lo stesso è leso da altro soggetto (es. invasione arbitraria del fondo altrui) o non è soddisfatto dal soggetto che è tenuto ad osservarlo (es. inadempimento del debitore del suo obbligo) (VII, 1.4).

4. Ordinamento giuridico. – L’ordinamento giuridico, nella sua essenza, è il complesso di regole vincolanti che ordina una comunità. Detta le regole di condotta dei consociati, disciplinando gli interessi e le relazioni umane e fissando i diritti e i doveri dei consociati (norme materiali o sostanziali). Inoltre detta le regole di produzione delle norme e di presidio delle stesse, con la istituzione di organi di tutela dei diritti lesi e di reintegrazione dell’ordine violato (norme strutturali o formali). L’ordinamento, imposto autoritativamente o emerso democraticamente, non è uno mondo astratto, ma è partecipe della società, esprime una configurazione della realtà, regolandone cadenze e articolazioni (la natura e l’ecologia; le libertà e le azioni pubbliche; la vita e le tecnologie; l’economia e i modelli produttivi; le relazioni umane e i meccanismi di coesione sociale), secondo i valori di cui la società si dota in un determinato periodo storico. Le singole norme non operano quindi autonomamente, ma sono integrate in un complessivo ed unitario sistema che tutte le comprende. Correlativamente la regolazione dei fatti non si esaurisce nelle norme di settore che specificamente prevedono i singoli fenomeni materiali, ma coinvolge l’impianto dei principi generali dell’ordinamenzione). Altro filone, valorizzando la dimensione soggettiva del diritto, considera il diritto come un sistema di rapporti giuridici. In realtà le varie impostazioni non sono alternative ma complementari, per esprimere ognuna insopprimibili aspetti del diritto, che, nella sua essenza, vive in quanto sentito e osservato nella società; e per la sua osservanza necessita di comandi e strutture che ne garantiscono l’applicazione; per sua intima destinazione è rivolto alla regolazione della relazionalità. Negli ordinamenti democratici, come quello italiano, la legittimità del potere sta nella sovranità popolare: per l’art. 12 Cost. “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”; inoltre i cittadini hanno pari dignità sociale e giuridica, con obbligo della Repubblica di favorire lo sviluppo della persona umana (art. 31 Cost.). Il degrado istituzionale e la inefficienza delle leggi a governare la contemporaneità ripropongono la valutazione delle radici del diritto. Osserva P. Grossi: “il diritto, anche se le sue manifestazioni più vistose sono in solenni atti legislativi, appartiene alla società e quindi alla vita, esprime la società più che lo Stato, è il tessuto invisibile che rende ordinata la nostra esperienza quotidiana, consentendo la convivenza pacifica delle reciproche libertà”. Ciò è sicuramente vero, e nei settori con maggiore pervasività umana come la famiglia è la prassi; è però anche vero che solo l’attingere delle relazioni sociali alla forza dell’ordinamento nella sua complessità garantisce l’esercizio dei diritti e delle libertà democratiche, assicura l’attuazione dei doveri individuali e sociali, consente la realizzazione dello stato sociale. 12 L’esperienza anglosassone esprime i due versanti del diritto con i termini Law (per indicare il diritto in senso oggettivo) e Right (per indicare il diritto in senso soggettivo). Una duplicità terminologica era già in diritto romano, con le due espressioni norma agendi e facultas agendi.

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to, come le elaborazioni concettuali e le traiettorie giurisprudenziali che assicurano l’intelligenza e l’applicazione del sistema. L’analisi di un ordinamento permette di penetrare la storia della comunità che l’ha voluto e adottato a proprio sistema di convivenza civile. Si vedrà della perenne esigenza di adeguamento dell’ordinamento alla realtà storica dei fatti da regolare, attraverso un bilanciamento proporzionato delle regole di settore con i principi e tra i vari principi operanti. Il sistema evolve storicamente in ragione dei mutamenti dei valori sociali. Una fisionomia complessiva dell’ordinamento è ricostruibile attraverso tre fondamentali traiettorie: l’impianto sistematico, la trama normativa e le istituzioni organizzative. a) L’impianto sistematico è la sintesi articolata della esperienza giuridica. Il sistema 13 esprime una realtà composita, coinvolgente il modello di sovranità, le tecniche di governo, le istituzioni costituite, il modello di giurisdizione; nella dimensione normativa esprime il complesso di regole e principi, come di interpretazioni e prassi, che operano in maniera coordinata in un contesto storico, così nella regolazione delle relazioni sociali che nella organizzazione degli apparati istituzionali. L’articolazione del sistema riflette la fisionomia dell’ordinamento giuridico. Sono frequenti ipotesi di conflitti tra valori espressi dall’ordinamento giuridico: si pensi ad es. al diritto di cronaca e critica (art. 21 Cost.), rispetto alla tutela dell’onore e della privacy (art. 2 Cost.); si pensi alla tutela esistenziale dell’individuo (art. 21 Cost.) a fronte dei doveri di solidarietà verso la comunità familiare e la società in genere (artt. 22 e 22-31 Cost.). Nasce l’esigenza di bilanciamento tra normative di diversa provenienza e tra valori di differente emersione, attraverso criteri di adeguatezza e proporzionalità: spesso l’equilibrio tra i valori muta nel tempo, sicché, pur nella continuità formale delle disposizioni, si modifica il precetto imperativo. Il sistema è connotato dei caratteri di effettività e completezza. La effettività esprime la garanzia di osservanza delle regole (materiali e strutturali), attraverso vari meccanismi (sanzioni o incentivi). La effettività rimanda dunque all’esistenza di una autorità, normativamente regolata, che garantisce lo svolgimento delle attività e assicura l’attuazione dei diritti e l’irrogazione delle sanzioni. Con l’affermazione dello stato sociale rileva anche la effettività di azioni per assicurare lo sviluppo della persona umana (art. 32 Cost.) (ampiamente in seguito). La completezza indica che ogni fatto della vita deve trovare regolazione all’interno dell’ordinamento. È un profilo della certezza del diritto: la unitarietà dell’ordinamento in cui si collocano nel tempo le varie regole consente di apprestare soluzione anche a casi non espressamente previsti, purché involgenti interessi rilevanti per il diritto. Con l’edificazione dello stato moderno la comunità statale, radicata su un territorio definito e sorretta da un popolo con relativa cittadinanza, è apparsa come la più pervasiva delle comunità; sicché l’ordinamento statale è stato configurato come sovraordinato agli statuti delle formazioni sociali sussistenti sul territorio statale, a presidio della stabilità di organizzazione della comunità nazionale. 13

Il termine “sistema” proviene dal verbo greco istemi (stare) con il prefisso syn (insieme). Il sistema è pertanto un insieme di elementi che, non solo coesistono, ma stanno insieme e quindi convivono. L’odierna esortazione a “fare sistema” vuole appunto indicare che non è sufficiente coesistere, ma bisogna orientare in modo coordinato iniziative e comportamenti.

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Nell’età contemporanea, per intanto, all’apice degli ordinamenti giuridici statali sono le Costituzioni, quali tavole di valori nei quali le società civili si riconoscono, e che perciò devono essere il più possibile condivisi dal corpo sociale 14. Inoltre il diritto tende sempre più a non esaurirsi nell’ordinamento statale e nelle leggi che dallo stesso promanano. Si dipana una pluralità di fonti, di formazione anche non statale, per cui il diritto vigente è di diversificata provenienza. Come si vedrà, per l’art. 10 Cost. l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute (vi è l’apertura al diritto internazionale consuetudinario e convenzionale); per l’art. 11 Cost. l’Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni, promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo (la norma fu immaginata con riferimento alle Nazioni unite, ma poi è diventata la base di legittimazione della costruzione dell’istituzione europea e del diritto europeo); per l’art. 2 Cost. la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (è la base per lo sviluppo del pluralismo sociale e del riconoscimento degli statuti dei gruppi) (I, 2.8). La valorizzazione del pluralismo sociale e ordinamentale conferisce rilevanza a organizzazioni operanti secondo proprie regole e finalità. Emergono ordinamenti particolari di gruppi e autonomie che regolano la vita e l’azione degli stessi e dei soggetti che vi afferiscono, secondo le finalità prefisse (c.d. pluralità degli ordinamenti), da svolgere nella cornice e secondo i principi dell’ordinamento giuridico generale (v. appresso: I, 2.8). b) La trama normativa indica la varietà di esplicazione della precettività. Il tessuto normativo è penetrabile con l’impiego di concetti, che consentono di raffigurarne la fisionomia, e di un linguaggio come rappresentazione dialogica condivisa. Secondo i concetti e il linguaggio più diffusamente utilizzati, la trama dell’ordinamento è ricostruibile attraverso le norme, gli istituti e i principi. La norma giuridica 15 è la unità elementare dell’ordinamento e cioè la singola regola di comportamento o di organizzazione della società 16, più spesso caratterizzata da un precetto e da una sanzione per la sua inosservanza. Quando il precetto imposto da una norma è correlato con altri precetti posti da altre norme, la regola di condotta impegnativa per i consociati consegue al combinato disposto di più norme secondo un criterio sistematico di interpretazione ed applicazione del diritto. La norma è inglobata nel sistema ordinamentale che concorre a formare e dal quale, nel suo insieme, riceve la linfa precettiva (se ne parlerà in seguito: I, 3.2). L’istituto giuridico esprime il compendio delle regole che disciplinano un singolo fenomeno giuridico, talvolta ampiamente inteso (es. proprietà, matrimonio, contratto, ecc.), talaltra considerato in uno specifico profilo (accessione, comunione legale, 14 Per Capograssi una Costituzione rappresenta la determinazione precostituita del modo di procedere per la formazione intrinseca dell’esperienza giuridica: essa è dunque il punto fermo, il centro stabile di una società, la condizione e il segno del profondo ordine che regge o non regge la società. 15 Il termine “norma” deriva dal latino norma (letteral. squadra, intesa come strumento, figur. regola). 16 Talvolta un’unica norma esaurisce il contenuto di un singolo articolo, talaltra più norme coesistono nel medesimo articolo. Ogni articolo, a sua volta, è spesso contraddistinto da vari capoversi: c.d. commi. Di sovente l’articolo ha una sua titolazione: c.d. rubrica, che non è partecipe della disposizione ma contribuisce alla comprensione del significato della stessa.

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forma del contratto, ecc.). È dunque un formante della disciplina di singoli fenomeni giuridici. I principi hanno un’accezione molteplice, con varie significazioni. Spesso indicano i criteri logici di scelte normative adottate. Ad es., secondo la nomenclatura dell’esperienza romana, il principio nemo venire potest contra factum proprium (nessuno può accampare diritti in contrasto con un proprio comportamento) è un criterio etico di salvezza della relazionalità; il principio nemo ad factum cogi potest indica la incoercibilità fisica della persona negli obblighi di fare. Ancora, secondo le specifiche discipline, il principio di non contraddizione; il principio di relatività delle qualificazioni giuridiche. Si vuole anche intendere le tecniche organizzatorie di singoli fenomeni (es. i principi che presiedono alla conclusione dei contratti o alla redazione degli atti, il principio del consenso traslativo che presidia il trasferimento dei diritti). In una visione complessiva e assiologia, esprimono i valori fondamentali attingendo ai principi generali inderogabili, talvolta espressamente formulati, talaltra desumibili dalla combinazione di più normative e dalla complessità ordinamentale (si pensi ai diritti fondamentali della persona umana) (II, 7.1); nella medesima prospettiva si collocano le c.d. clausole generali, quali tecniche di normazione di completamento di fattispecie concrete, elastiche ed adattabili alle evoluzioni della realtà materiale e giuridica (es. buona fede) (II, 7.2). c) Le istituzioni organizzative sono gli apparati che consentono la produzione delle regole, il rispetto dei diritti e l’assolvimento dei doveri, così verso lo stato e la società che nelle relazioni personali. Sono strutture di presidio della convivenza, segnando l’intreccio delle libertà individuali con gli interessi comuni: sono limitative ma anche garanti delle libertà, consentendo l’integrazione delle libertà nella comunità. Il riferimento ricorrente della Costituzione alla “Repubblica” ha riguardo alle istituzioni pubbliche della stessa: per l’art. 5 Cost. la Repubblica adegua i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento. Nello stato moderno liberale, quale stato di diritto, si è affermata da tempo la divisione dei poteri e delle connesse istituzioni 17. La divisione consiste nell’individuazione di tre funzioni pubbliche nell’ambito della sovranità dello Stato, attribuite a tre distinti poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) ciascuno indipendente dagli altri poteri 18. La storia delle istituzioni democratiche presenta varie forme di coordinamento e di bilanciamento tra i tre poteri, in ragione della rilevanza attribuita ai diritti umani, alla efficienza economica e al funzionamento del sistema. Con la pluralizzazione delle fonti emergono anche istituzioni sovranazionali di organizzazione delle relazioni sociali e di definizione delle controversie, come si affermano istituzioni di autonomie territoriali e di specifiche competenze. 17 Il principio, delineato da Locke, veniva affinato da Montesquieu, divenendo uno dei capisaldi del liberalismo. 18 I tre poteri sono raffigurati nella Parte II della Costituzione, intitolata “Ordinamento della Repubblica” (artt. 70 ss. Cost.): il potere legislativo spetta al Parlamento, con bicameralismo perfetto (artt. 70 ss.); il potere esecutivo al Governo, cui sottendono gli uffici ministeriali e altri gerarchicamente sottoposti, espressivi della pubblica amministrazione (art. 92 ss.); il potere giudiziario alla Magistratura (artt. 101 ss.), e la funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario (art. 102). Lo sviluppo delle autonomie ha riproposto le medesime cadenze (artt. 114 ss.). La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni (art. 117) (se ne parlerà nelle fonti del diritto).

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PARTE I – ORDINAMENTO GIURIDICO

Nel presente volume, le prime tre parti, articolate sotto la titolazione di “Principi”, vogliono fare emergere, in via generale e complessiva, valori, criteri logici e categorie che sovrintendono alla disciplina del diritto privato e alla tutela delle situazioni soggettive. Le parti successive, raggruppate sotto la titolazione di “Istituti”, analizzano i singoli fenomeni giuridici e le discipline che li regolano.

5. Diritto positivo e diritto naturale. – Le relazioni sociali implicano competizione e spesso contrasto tra idee come tra interessi. La soluzione dei conflitti può essere affidata all’ordinamento o rimessa al sentire spontaneo. Il diritto positivo 19 è il complesso delle regole, adottate attraverso le procedure formali di produzione del diritto, costituenti l’ordinamento giuridico. L’osservanza del diritto positivo, come si vedrà, vale a garantire la certezza del diritto e dunque la prevedibilità dell’applicazione delle regole. A sua volta il diritto positivo si svolge in due dimensioni: diritto materiale e diritto strumentale (alle quali si è già accennato). Sono versanti distinti ma necessariamente correlati, in funzione della effettività dell’ordinamento giuridico. Il diritto materiale (anche detto diritto sostanziale) regola i rapporti tra i soggetti, selezionando gli interessi considerati meritevoli di tutela e quelli destinati a soccombere, così attribuendo diritti e obblighi: tali sono ad es. il diritto civile e il diritto penale. Il diritto strumentale (anche detto diritto formale) disciplina i meccanismi necessari per l’attuazione degli interessi protetti e dunque regola i mezzi di tutela dei diritti accordati dall’ordinamento: tali sono tipicamente il diritto processuale e il diritto internazionale privato. Va però rilevato che, in tale grande ripartizione, sono molte le ipotesi di intreccio tra norme materiali e norme strumentali, così nel diritto sostanziale 20 come nel diritto processuale 21. Il diritto naturale indica l’insieme di principi che si fanno derivare da fonti non formali, quali (nelle diverse ideologie) la natura umana o la divinità o la ragione, ecc. Esprime le aspirazioni delle società antagoniste alla legge formalmente posta: è una antica e tradizionale risorsa contro il diritto positivo, quando lo stesso impone regole non condivise dalla società, sicché la legalità si inaridisce e non rispecchia più il sentire comune fino a divenire mero presidio del potere. È l’antico dilemma tra ethos e nomos 22. Fu così per il diritto naturale cristiano delle origini che si ispirava alla “legge divina”, come lo fu successivamente per il diritto naturale protestante (iscritto da Dio nel cuore di tutti gli uomini) destinato ad evitare la corruzione ecclesiale; lo è stato per il giusnaturalismo razionale dell’età moderna, emancipato dalla teologia morale ed ancorato ad un sistema di “diritto di ragione” 23. 19

Il termine “positivo” deriva dal latino positivus (viene posto); da cui l’espressione ius in civitate posi-

tum. 20 Nel diritto privato, ad es., le normative relative alla pubblicità delle persone fisiche, delle imprese, della circolazione dei beni immobili e mobili registrati. 21 Alcuni principi di diritto processuale esprimono valori sostanziali di una società: es. il rispetto del contraddittorio tra le parti in lite fissato nel diritto processuale civile. 22 La figura di Antigone, proposta da Sofocle, tuttora esprime il divario tra la legge statale (impersonata dal re Creonte, che vietava la sepoltura di Polinice come traditore di Tebe) e il diritto derivante dal sentire sociale e religioso (al quale si appella e ricorre Antigone per dare sepoltura al fratello Polinice, portandola al forzato suicidio). 23 Il “diritto naturale”, come antagonista del diritto positivo, non è assoluto: risente della confessione reli-

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La legge stessa, quando vuole regolare un fenomeno giuridico secondo le cadenze che assume nella realtà sociale, valorizza la dimensione “naturale” del fenomeno: tipico esempio è la definizione della famiglia come “società naturale” (art. 29 Cost.). Talvolta la legge ricorre a tale accezione quando vuole definire un fenomeno che trae vita da un fatto diverso da quelli previsti e regolati dalla legge: così per le “obbligazioni naturali”, come prestazioni spontaneamente eseguite in esecuzione di doveri morali o sociali (art. 2034).

6. La scienza giuridica e le categorie. – La scienza giuridica è, insieme, pratica e teorica: da un lato, individua i conflitti suscitati dalle relazioni umane nella realtà socio-economica osservata; dall’altro, elabora i formanti logici necessari alla traduzione del dato reale in soluzioni giuridiche. La scienza giuridica trova il proprio nutrimento nella realtà materiale, ma si esprime inevitabilmente attraverso i concetti, che sono rappresentativi dei singoli fenomeni e dei beni giuridici tutelati. I concetti assurgono a essenziali costruttori di elaborazione delle scelte e di dialogo di vedute, consentendo la costante discutibilità dei risultati conseguiti 24. La struttura logica del trattamento dei problemi è essenziale risorsa della democrazia, perché consente di verificare la individuazione dei problemi assunti e la coerenza delle soluzioni apprestate, ripercorrendo il procedimento usato per arrivare al risultato. La verifica del procedimento logico seguito consente di individuare i fattori materiali osservati e le componenti giuridiche utilizzate nel ragionamento che conduce al risultato. Anche nella scienza giuridica, come in ogni scienza, resta il dato insormontabile espresso dalla logica moderna, filosofica e matematica, del divario tra “verità”, che attinge alla sfera metafisica e “dimostrabilità” che attiene alla esperienza umana. Nei giudizi rileva la dimostrazione della soluzione espressiva di logica verosimiglianza. Il dialogo giuridico coinvolge il ruolo del linguaggio impiegato. Spesso il linguaggio dei giuristi si esprime con astrazioni e per metafore, ad imitazione di fenomeni reali (es. persone giuridiche, modellate sulle persone fisiche; bene giuridico, come trasposizione di entità materiali o immateriali): tale progredire logico richiede consapevolezza dell’astrazione rispetto alla realtà materiale. Per di più la provenienza dei testi normativi da istituzioni diverse (Unione europea, Stato, Regioni, ecc.) comporta l’impiego di nomenclature non sempre omogenee e una artificiosa collocazione dei testi. Si aggiunga la essenziale interdisciplinarietà nella maturazione di molte scelte normative, che implica un variegato tessuto lessicale. Il linguaggio riflette il pensiero; analizzando la formulazione del linguaggio si risale alla struttura del pensiero: l’uso di un linguaggio condiviso è utile mezzo di comunicazione. Nell’opera di regolazione della esperienza sociale si rivela essenziale la formulazione di categorie giuridiche intese quali meccanismi logici di rappresentazione e qualificazione dei fenomeni giuridici. Per essere fondamentali schemi ricostruttivi di fenomeni giosa e dell’ideologia politica che lo sostengono, dell’epoca storica e del contesto sociale di riferimento, delle evoluzioni tecnologiche in grado di liberare nuove prospettive di svolgimento della persona. 24 Per K. POPPER (1934) il metodo scientifico deve essere connotato da un criterio di falsificazione: una teoria, per essere controllabile, perciò scientifica, deve essere “confutabile”.

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giuridici, sono inevitabilmente in perenne evoluzione con il cambiamento della società e dei suoi valori e il mutarsi dell’ordinamento 25. Le categorie, formulate in concetti, sono espressive di un impianto teorico che riflette la realtà storica del tempo di elaborazione e dunque il fluire storico della vita degli uomini: da ciò la necessità di verificare costantemente l’attualità ordinamentale delle categorie giuridiche. Molte categorie, storicamente emerse nella prospettiva della proprietà immobiliare e della sua appartenenza (ricchezza statica), trovano difficoltà a supportare una attualità alimentata dall’attività economica e dalla collocazione dei prodotti (ricchezza dinamica); un crescente sostegno all’economia reale, attraverso l’aiuto alle imprese e la stimolazione dei consumi, sta enucleando meccanismi difficilmente riconducibili a tradizionali modelli fondati sul rispetto della proprietà fondiaria. Analogamente categorie forgiate nella prospettiva della indipendenza delle sfere giuridiche individuali stentano a intrecciarsi con percorsi culturali di perseguimento di valori solidaristici della modernità. La forza della concettualizzazione, come sostegno al principio della certezza del diritto, aveva condotto ad una elaborazione di categorie giuridiche, come autonome e alternative: invece più spesso esiste una complementarietà di situazioni e esperienze di vita, che vanno decifrate e valutate. Categorie giuridiche generali come “personalità”, “proprietà”, “contratto”, “responsabilità”, e ancora “popolo”, “cittadino”, “sovranità” ecc., esprimono criteri di rappresentazione di interessi e valori emersi in varie epoche e in più contesti e culture sociali, composti e organizzati in concetti fruibili dalla comunità. Le strutture sociali e le dinamiche economiche segnano, ad un tempo, la nascita e l’ancoraggio delle categorie, che vanno costantemente ammodernate, dovendosi sempre ricercare i principi immanenti e le innovazioni nel sistema, pur nella continuità formale di alcuni precetti; tanto più con l’emergere di una tendenza alla uniformazione sovranazionale del diritto. C’è anche un problema di perduranza di categorie emerse in singoli settori dell’ordinamento trapiantate in settori diversi: ad es. il diritto tributario erode sempre maggiormente categorie civilistiche per scopi fiscali. Un ruolo essenziale nella esperienza giuridica (nella formazione, nella interpretazione e nell’applicazione del diritto) assume la scelta del metodo 26, volto a individuare la fattualità delle vicende materiali (la condizione dei soggetti coinvolti come la natura degli interessi attuati o sacrificati) 27, alla cui stregua verificare l’attualità delle categorie utiliz25 Le categorie giuridiche sono destinate ad emergere, vivere e declinare coerentemente allo svolgersi dei modelli di coesione sociale, ed eventualmente risorgere quando si ripresentano analoghi conflitti sociali (come si sta verificando con la crescente tutela accordata alla pluralità di situazioni giuridiche insistenti sul medesimo bene, che richiama la logica dei plura dominia). L’affermazione dei diritti umani e l’emersione di un diritto dell’economia forgiano nuove esperienze giuridiche, che talvolta si mescolano e combinano con altre pregresse, talaltra le sovrastano, in funzione del formarsi di nuovi equilibri sociali e giuridici, spesso ricostruibili con nuove tecniche, ma non di rado regolabili con consolidati moduli. 26 Il termine “metodo” proviene dal greco antico, dall’unione delle parole metà (dopo) e òdos (via, strada). Adottare un metodo quindi vuol dire scegliere una strada e seguirla. Come si vedrà è il problema proprio della interpretazione giuridica: seguire un percorso per pervenire ad una soluzione che fissi la regola del singolo fatto. 27 Fondamentale la elaborazione di F. VON HAYEK e K. POPPER della idea di “logica della situazione”, come metodo di comprensione della società attraverso le interazioni che i soggetti razionali o irrazionali coinvolti in una vicenda storica via via mostrano.

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zate 28, secondo le scelte ordinamentali di settore e dei principi generali. Vi è una normatività del fatto, nel senso di proporsi costantemente come referente di differenti funzioni nei rinnovati contesti sociali e giuridici. La scienza giuridica deve cogliere i fatti dell’esperienza secondo quanto la volontà degli uomini costruisce, lo spirito dei tempi propone e l’ambiente sociale organizza; e valutarli attraverso una interazione tra realtà fattuale, regole specifiche e valori ordinamentali, attingendo alla complessità del sistema storicizzato.

7. I principali sistemi giuridici: civil law e common law. – Pur accentuandosi la tendenza alla uniformazione di valori, principi e regole giuridiche, specie in ragione dell’affermazione universale dei diritti umani e della espansione dei traffici commerciali oltre i confini nazionali, permane un fondamentale divario di modelli di sistemi giuridici, relativamente alla formazione e all’applicazione delle regole giuridiche. Le esperienze giuridiche dei singoli paesi, in ragione della organizzazione tecnico-giuridica, sono fondamentalmente ricollegabili a due famiglie ordinamentali, di civil law e di common law, che hanno avuto origini e sviluppi diversi 29. Il sistema di civil law è il modello ordinamentale dominante a livello mondiale; si riconducono a tale modello il nostro paese e i paesi dell’Europa continentale, compresa la Russia; vi afferiscono anche i paesi del Sud America e dell’America centrale, la Cina e molti paesi asiatici, nonché quasi tutti i paesi del continente africano. È edificato in Europa dopo la lunga esperienza del diritto comune dell’epoca medievale, quando, per più ragioni (politiche, economiche e sociali), l’illuminismo giuridico aveva maturato la cultura della legge come base di certezza del diritto uguale per tutti (anche se poi si scorgerà di trattarsi di una uguaglianza solo formale). È un diritto di fonte legislativa. I giudici sono tenuti ad applicare il diritto espresso dalle leggi; i precedenti giudiziari non sono vincolanti, svolgendo una funzione solo persuasiva dei giudici. Il sistema del Common law è un modello ordinamentale di matrice anglosassone. È attualmente in vigore in Gran Bretagna, Irlanda, Stati Uniti d’America (escluso lo Stato della Louisiana), Canada (esclusa la regione del Quebec), Australia. Alcune nazioni han28 Il datato dilemma scientifico tra metodo induttivo, per cui l’indagine si eleva dalla percezione dei fatti verso la elaborazione di principi, e metodo deduttivo, per cui dai principi provengono i criteri di osservazione della realtà, va composto in una logica di circolarità del pensiero attraverso una costante relazione tra concetti ed esperienza: i fatti della realtà, nutriti dei valori storicamente operanti, inducono alla elaborazione di categorie e regole giuridiche, che a loro volto delineano la disciplina dei casi concreti. È altrettanto errato ricostruire il passato attraverso le categorie del presente, come interpretare il presente servendosi acriticamente delle categorie del passato. La omogeneità delle nomenclature non può prescindere dalla individuazione delle “strutture di legittimazione” del diritto nelle varie epoche storiche. La dimensione storica delle categorie consente di svelare le radici sociali e culturali delle stesse, e dunque di verificare le continuità e le fratture rispetto al passato, pur nella persistenza delle nomenclature. 29 Relativamente al civil law, hanno particolarmente influito: la formazione universitaria del giurista; la selezione burocratica dei giudici; la frammentazione delle Corti fino all’assolutismo; l’elevato ruolo della dottrina nella formazione del diritto. Relativamente al common law, hanno particolarmente influito: la formazione pratica del giurista; la selezione dei giudici fra i migliori avvocati superiori (barrister); la centralizzazione ed elevato prestigio delle Corti superiori; il ridotto ruolo della dottrina giuridica universitaria nella formazione del diritto; la mancanza delle codificazioni; la mancanza del notariato di tipo latino, le cui funzioni sono svolte dagli avvocati.

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no adattato il sistema del common law alle loro tradizioni, creando un sistema misto (per esempio, l’India e la Nigeria attuano il sistema del common law frammisto a regole giuridiche di stampo religioso). È un diritto a formazione essenzialmente giudiziaria (judge made law), sviluppatosi storicamente attraverso i precedenti delle decisioni giurisprudenziali, con richieste espresse in formule processuali, prima più stringenti (writs), poi più ampie ed elastiche; vi è un ridotto intervento del diritto legislativo. È fondamentale la regola dello stare decisis, per cui il precedente giudiziario è vincolante per i giudici di pari grado o di grado inferiore che successivamente giudicano il medesimo caso. Per discostarsene bisogna motivare circa la novità del caso (nella struttura o quanto meno rispetto a sopravvenuti principi dell’ordinamento o anche all’evoluzione della società) attraverso le tecniche del distinguishing 30 e del overruling 31, che consentono al giudice di individuare la regola del caso di specie, indipendentemente dalla vincolatività del precedente. Si vedrà come lo svolgersi della globalizzazione, con circolazione di esperienze economiche e di modelli giuridici, sta comportando un avvicinamento delle due aree giuridiche tradizionalmente distinte. Nei paesi di civil law sta emergendo una tecnica di case law, con la esaltazione della specificità del caso concreto e la valorizzazione dell’azione della giurisprudenza, specie quando le sue decisioni, per ripetersi nel tempo, diventano un “indirizzo giurisprudenziale”. Nei paesi di common law sta acquisendo una crescente rilevanza la funzione della legge (statutory law) 32, specie in ragione dello sviluppo del welfare state. Va così delineandosi una progressiva osmosi dei due sistemi, nello sforzo di una regolazione uniforme dei rapporti socio-economici.

30 La tecnica del distinguishing implica distinguere un caso dall’altro, trovare cioè un elemento per cui un caso nuovo si differenzia dall’altro precedente, sempre che le differenze si possano considerare rilevanti per la questione da decidere, così da applicare una diversa regola. Il procedimento logico inverso è detto harmonizing, con il quale il giudice considera irrilevanti le differenze tra la nuova controversia e quella decisa dal precedente, così applicando la regola del precedente caso. 31 Con la tecnica del overruling la regola precedente viene sostituita con una nuova regola, che forma un nuovo precedente, attraverso una più approfondita analisi della fattispecie ovvero in ragione del mutamento delle circostanze di fatto o dell’interesse pubblico. 32 È da registrare la differente rilevanza attribuita agli atti normativi a seconda che siano assunti con Statutory ovvero con Regulation, che lascia più spazio all’interpretazione giudiziale.

CAPITOLO 2

DIRITTO PRIVATO Sommario: 1. Relatività della nozione di diritto privato. – 2. Evoluzione medievale e diritto comune. Lo “Stato moderno” e il diritto privato (le nuove categorie). – 3. Le codificazioni in senso moderno. Codice civile francese (cod. nap.) e codice civile del 1865; i codici di commercio. – 4. Il codice civile tedesco (BGB). – 5. Il codice civile del 1942. – 6. Le Costituzioni degli Stati moderni. – 7. La Costituzione repubblicana. Il primato della persona umana. – 8. Segue. Il pluralismo ordinamentale e sociale. – 9. Capacità e attività di diritto privato della pubblica amministrazione. –10. Il diritto privato europeo. – 11. Ambito attuale del diritto privato e il diritto pubblico. – 12. Il diritto dei privati. – 13. Segue. La nuova lex mercatoria. – 14. Globalizzazione e convivenza mondiale. – 15. Azione privata conformata e azione pubblica collaborativa. – 16. Verso un diritto privato uniforme. – 17. La società tecnologica. Bioetica e ecologia. – 18. Segue. La rivoluzione digitale. Piattaforme, algoritmi, tecnocrazia e diritti.

1. Relatività della nozione di diritto privato. – Si è visto come una fondamentale funzione del diritto sia quella di garantire la pacifica convivenza dei consociati: è una funzione primaria e generale che consente la coesione di una comunità e giustifica lo stesso formarsi di un ordinamento giuridico. Vi è però anche una funzione ulteriore e specifica di selezionare gli interessi (generali o particolari) in conflitto secondo la scala di valori di cui la singola comunità si dota. Pure l’area delle relazioni tra i privati (cui tradizionalmente ha avuto riguardo il diritto privato) risente degli equilibri nel tempo instauratisi tra gli interessi particolari dei privati e l’interesse generale della società (alla cui tutela ha tradizionalmente provveduto il diritto pubblico); come è attraversata dalla selezione degli interessi privilegiati dall’ordinamento. La configurazione del diritto privato è inevitabilmente relativa (in quanto correlata all’area di espansione del diritto pubblico) e storicizzata (perché destinata a mutare in ragione della evoluzione della società civile e della sua struttura politica). Avviene così che settori appartenenti in un’epoca al diritto pubblico siano in altra epoca considerati come propri del diritto privato e viceversa. Il diritto dei rapporti tra privati ha per primo elaborato nomenclature, categorie logiche, costruzioni teoriche, che poi hanno pervaso l’intero sapere giuridico (si parla di una “priorità storica” del diritto privato): ciò ha fatto sì che tradizionalmente proprio l’insegnamento delle Istituzioni di diritto privato abbia fornito quell’essenziale bagaglio culturale e tecnico necessario nella formazione giuridica. A sua volta la concettualizzazione del diritto pubblico ha apprestato categorie e tecniche di tutela che ha inciso sulla configurazione del diritto privato, nel riequilibrio di interessi particolari con quelli generali della società.

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Una riflessione sulla evoluzione storica del diritto privato e sulle diversificate correlazioni con il diritto pubblico consente di delineare il volto attuale del diritto privato. La rilevazione delle età culturali, delle dinamiche sociali e delle regolazioni che si sono succedute fanno comprendere il contenuto e i limiti delle categorie giuridiche del diritto privato della contemporaneità.

2. Evoluzione medievale e diritto comune. Lo “Stato moderno” e il diritto privato (le nuove categorie). – Per comprendere le connotazioni attuali del diritto privato è necessario ripercorrere lo svolgersi dell’esperienza giuridica premoderna. a) Esauritasi l’attualità dell’ordinamento romano 1, non venne meno l’eredità del diritto romano, che contribuì a formare l’identità culturale, politica e giuridica dei paesi europei e a modellare una comune coscienza europea. La elaborazione giustinianea del Corpus juris civilis (534) 2 veniva ripresa dal Decretum di Graziano per il diritto canonico (1142) 3. L’Europa medievale era ancora caratterizzata dalla inveterata stratificazione sociale, sostenuta dalla dottrina degli status escludenti, imposti secondo regole e procedure costitutive, con privilegi e immunità, determinativi di una stratificazione giuridica, con diversificati statuti di diritti e obblighi. Anche lo sfruttamento dei beni avveniva con numerosi e vari vincoli di natura personale e reale: maturava la dottrina del dominio diviso, con la coesistenza di plura dominia. Specie dal sec. XI si svolgeva una pluralità di fonti del diritto: da una parte, il diritto romano giustinianeo; dall’altra, il diritto della Chiesa; dall’altra ancora, il diritto particolare dei regni (iura propria) con le connesse consuetudini, cui si aggiungeva il sistema di diritto feudale in alcuni territori. Tale molteplicità di fonti, espressiva di un pluralismo giuridico, non fu di ostacolo al formarsi di un diritto comune, sia per il comune retaggio del diritto rimano e del diritto canonico in tutti i paesi europei, sia per la comune lingua utilizzata dai giuristi (il latino), sia ancora perché la generalizzata coesistenza era assicurata attraverso un meccanismo per cui i diritti particolari trovavano di regola ap1

Nella tradizione romana il diritto privato si sviluppava come primo ed essenziale modello di regolazione dei rapporti sociali. Le Istituzioni di Gaio si aprivano con il seguente passo “Ogni popolo che si governa sulla base di leggi e consuetudini utilizza in parte un diritto suo proprio ed in parte un diritto comune a tutti gli uomini: infatti, ciò che ciascun popolo si è dato come diritto è suo proprio ed è chiamato diritto civile (ius civile), in quanto diritto di quella città; ciò che, invece, la ragione naturale ha stabilito tra tutti gli uomini e viene custodito allo stesso modo presso ogni popolo è chiamato diritto delle genti (ius gentium), nel senso che tutte le genti ne fanno uso”. E aggiungevano: “L’intero diritto di cui facciamo uso si riferisce alle persone, alle cose o alle azioni”. Lo sviluppo dei traffici diversificherà il diritto privato dal diritto pubblico. La cultura di Roma veniva, più che travolta da forze esterne, erosa dall’affermarsi del cristianesimo che prospettava, in luogo dello splendore della vita terrena comunque precaria, una rassicurante vita ultraterrena (sursum) che valorizzava le virtù soccombenti sulla terra: influenzerà anche la visione del diritto, specie del diritto privato per intingere nelle relazioni sociali. 2 Era diffusa l’analisi del corpus juris giustinianeo, prima dalla scuola bolognese dei Glossatori (sec. XIIXIII specie con Irnerio e Accursio), poi dai Commentatori (sec. XIV-XV specie con Bartolo e Baldo). Le glossae e le summae erano considerate alla stregua del testo giustinianeo, mentre una scienza giuridica sapienziale svolgeva una essenziale funzione di mediazione tra le varie fonti del diritto. 3 Il Decretum, arricchito dalle successive norme canoniche (extravagantes), avrebbe dato luogo al corpus iuris canonici (1582) (rimasto in vigore fino al codice pio-benedettino del 1917).

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plicazione solo in assenza del diritto romano e canonico 4: lo ius commune in tutta Europa era quindi utrumque ius, ovvero l’uno e l’altro diritto (romano e canonico); mentre il diritto feudale, legato allo sfruttamento della terra, trovava applicazione in specifiche aree 5. All’unitarietà del “Sacro romano impero” (unum imperium) durato per circa mille anni, corrispondeva un pluralismo giuridico, secondo gli ordinamenti locali dei vari popoli, con varie eterointegrazioni: alla concezione universalistica del sacrum imperium faceva riscontro una visione universalistica del diritto (ius commune), volto a disciplinare la vita giuridica di tutti i popoli riuniti nell’impero. Il diritto comune medievale, maturato in una comune cultura giuridica e spirituale europea, sarà la matrice da cui si dirameranno i diritti nazionali, spesso distanti ma che lo presupponevano 6. b) Con il sec. XIII, pur perpetuandosi i valori soprannaturali cristiani, emergevano valori terreni egualmente salvifici, come la valorizzazione del lavoro e la positività del danaro e dei mercati, in uno all’affermazione della innovazione tecnologica e del progresso culturale. L’evoluzione europea dei centri urbani in “comuni” favorisce una economia monetaria sorretta dalla classe borghese, che si organizza in corporazioni influenti negli affari e nelle scelte politiche; mentre nelle aree interne l’organizzazione feudale si dissolverà lentamente. Sul piano giuridico si irradiava lo spirito della Magna Charta inglese del 1205, che riconosceva la libertà dei cittadini e affermava il principio di legalità, 4 Convivevano più complessi di norme, rivolti a disciplinare campi diversi dell’esperienza umana. Il diritto romano regolava i rapporti civili, mentre il diritto canonico regolava le materie spirituali; con frequenti sovrapposizioni e contrasti, per la influenza ecclesiastica nella sfera temporale. Relativamente ai diritti particolari, operavano ulteriori articolazioni e specificazioni del diritto delle singole città. Si aggiunga la penetrazione della cristianità nella cultura dell’epoca che orientava la vita e le aspirazioni delle persone e guidava la organizzazione del potere e delle istituzioni. 5 Il diritto feudale, pur nella varietà delle forme assunte nei molti territori dei paesi europei in cui si era affermato, era caratterizzato da un complesso di rapporti giuridici, di carattere pubblico e privato, personale e patrimoniale. In virtù di un contratto feudale, una persona (vassallo) giurava fedeltà (c.d. omaggio) ad un signore, assumendo in suo favore obblighi di servizio militare e personali e ricevendo dallo stesso il beneficio della concessione in possesso e godimento di una terra (c.d. investitura), con poteri di imposizione tributaria, polizia e giurisdizione. Un meccanismo gerarchico di successive investiture e concessioni dava vita ad una stratificazione (sociale e giuridica) della società in classi caratterizzate dai vari status, ciascuna con specifici privilegi e doveri. Il frazionamento dei poteri pubblici tra le varie gerarchie feudali e la corrispondente patrimonializzazione degli stessi consegnava ai feudatari autorità e poteri nei singoli territori, a scapito dello stesso potere regio. 6 Si è soliti ricondurre la formazione della prima esperienza europea all’epoca carolingia, contrassegnata dalla incoronazione papale di Carlo Magno quale imperatore nel Natale dell’800 e dai tentativi di realizzare una unità giuridica e monetaria per l’intero impero (la moneta, chiamata “denaro”, portava da un lato il monogramma “Carolus” e sul rovescio il luogo di conio). Anche Ottone I il Grande, della dinastia del Sassoni (succeduta a quella carolingia), si fece incoronare imperatore a Roma nel 962: questo impero, in seguito chiamato “Sacro romano impero della nazione germanica”, sarà anche difensore della cristianità: sarà però una stagione breve per essere caratterizzato il medioevo dal periodico conflitto, a volte cruento, tra papato e impero come due poteri universali. Osserva R.S. LOPEZ (2004): “Oggi chi dice Europa non pensa a una religione unica né a uno Stato universale, ma a un insieme di istituzioni politiche, di conoscenze secolari, di tradizioni artistiche e letterarie, di interessi economici e sociali che cementano un mosaico di opinioni e di popoli indipendenti”. Rileva J. LE GOFF (2003): è a partire dall’XI secolo e nei due secoli successivi che il continente europeo ha preso forma; è la “bella Europa” delle città, delle cattedrali e delle Università, ma anche dei mercanti, dell’architettura gotica, dei chierici mendicanti, della “discesa dei valori dal cielo sulla terra”. Osserva P. GROSSI (2007): il sostantivo Europa ha nel corso del Medioevo un contenuto esclusivamente geografico; “è con l’Umanesimo che assume il significato di un complesso di valori spirituali e culturali, avviando un filone riflessivo che trova più tardi la sua pienezza”.

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con soggezione alla legge anche del potere sovrano 7. Il tradizionale assetto sociale e giuridico è scosso da un nuovo modo di formazione di ricchezza attraverso l’attività economica e la collocazione di prodotti, che determineranno altre forme di divario sociale con la manovra del mercato. Si delinea la c.d. rivoluzione commerciale. Non si tratta solo di un aumento quantitativo dei traffici: a fianco della ricchezza immobiliare, che continua a svolgersi, si sviluppa la ricchezza mobiliare, legata alla moneta, al commercio, al credito. Il potere economico si emancipa dal potere politico, attraverso un rapporto dialettico con il potere sacro e quello secolare. Il prodotto interno lordo, piatto da secoli secondo la staticità della ricchezza agraria, inizia a crescere stimolando lo “sviluppo economico moderno”. Si afferma uno ius mercatorum che si discosta sia dalla tradizione del diritto romano, essenzialmente incentrato sulle esigenze di difesa del diritto di proprietà e di stabilità dei rapporti sociali, che dal diritto canonico, pervaso da istanze salvifiche dell’uomo proprie di una comunità ecclesiale; emergono categorie giuridiche che si diversificano profondamente anche da quelle del diritto feudale 8. La progressiva ascesa della classe dei mercanti nella gestione del potere consente alla stessa di formulare un’autonoma lex mercatoria, imperniata sulla organizzazione di rinnovate corporazioni (cui si appartengono i singoli mercanti), che gradualmente si dota di autonoma giurisdizione: è un diritto creato dai mercanti, che regola l’attività dei mercanti, dove trovano ingresso le consuetudini invalse nei rapporti tra mercanti. Emergono, nella spontaneità dei commerci, istituti che sarebbero giunti fino a noi, come la polizza di carico e lo strumento dei carati per condividere i rischi della navigazione; e ancora, la cambiale, la lettera di cambio (corrispondente all’attuale assegno bancario), le lettere di credito, la presenza delle banche a sostegno delle intraprese economiche. L’incontro con la dottrina canonistica e quella romanistica è sul tema della bona fides come fondamento del mercato. L’affermazione della riforma protestante dal XVI sec., con la trasformazione di molte chiese cattoliche in chiese “riformate”, stimola fortemen7 La Magna Carta (Magna Charta Libertatum) era un documento, scritto in latino, che il re d’Inghilterra Giovanni Senza terra fu costretto a concedere il 15 giugno 1215 a seguito di una rivolta dei baroni del Regno d’Inghilterra, propri feudatari diretti, per l’inasprimento delle imposte. Si elaborava il divario tra rule of law (governo della legge), che sottoponeva il potere alla legge, e rule by law (governo attraverso la legge) che consentiva il governo (quindi anche l’arbitrio) attraverso la emanazione di leggi. È introdotto il principio dell’habeas corpus (letteralmente “che tu abbia il corpo”) per cui nessuno può essere arrestato, imprigionato [...] o danneggiato in alcun modo, eccetto dal giudizio legale dei suoi pari e dalla Legge del Paese: è la prima forma di limitazione del potere politico sui corpi delle persone, che, affinata, si estenderà a tutte le democrazie dei paesi occidentali. 8 Dalla fine del medioevo al settecento campeggia la figura del mercante, che si impone ai proprietari terrieri e ai produttori artigiani come artefice del collocamento dei prodotti in aree geografiche sempre più vaste Le fonti di produzione sono la terra e la bottega artigiana, le cui attività sono sempre più svolte su commessa del mercante in vista dei mercati dove collocare i prodotti. Osserva LOPEZ come i comuni ed in particolare le città marinare, non solo diedero slancio al commercio, ma favorirono il formarsi di una cultura mercantile, una vera rivoluzione commerciale, che valorizzava il rischio tra le virtù umane, così preparando quello sviluppo della società che caratterizzerà l’esperienza dell’Umanesimo e del Rinascimento, in cui l’uomo assurgerà a centro della storia. Si verifica uno sviluppo nella tecnica degli affari, che segna la rivoluzione commerciale del Medioevo. Secondo BRAUDEL (1983), si realizza una “economia-mondo”, con rapporti stabili tra regioni europee e verso il mondo asiatico attraverso le vie del mare, al cui centro assurge Anversa (in Italia assumono grande importanza Venezia e Genova), con l’effetto di arricchire le città, i luoghi e gli operatori che vi partecipano e impoverire il resto delle popolazioni, aggravando gli squilibri politici ed economici.

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te l’intrapresa economica e la vita degli affari e segna i prodromi della intermediazione finanziaria e dello sviluppo capitalistico 9. La Controriforma perseguitò i religiosi ma non riuscì a sopprimere la nuova visione della vita 10. Emerge una poliedricità giuridica: a seconda della natura della controversia e della condizione dei soggetti coinvolti, trovano applicazione ora il diritto comune ora i diritti statutari municipali ora quello delle corporazioni; o ancora le regole della investitura feudale. E tutti tali corpi giuridici comportano autonome giurisdizioni, che giudicano secondo il proprio diritto (c.d. particolarismo giuridico), con profonda difficoltà nella individuazione del diritto applicabile e dunque anche con molti arbìtri. c) Dopo la rovinosa guerra europea dei trent’anni, la pace di Westfalia del 1648 segna il declino in Europa dell’egemonia imperiale e del Papato 11, generando la formazione di diritti nazionali con la nascita dello Stato moderno, quale ordine politico sovrano, che non conosce altra autorità al di sopra dello stato 12. La massima del re francese Luigi XIV “lo Stato sono io” diviene l’emblema della nuova organizzazione nazionale dei territori. Il processo di restaurazione delle monarchie nazionali comporta una ristrutturazione dei poteri e dei rapporti, sia pubblici che privati, che legano i soggetti tra loro e con il potere regio. La statalizzazione è vissuta come concentrazione nello Stato della produzione e dell’applicazione delle regole giuridiche 13. A partire dal ’600 e per tutto il 9 Con la riforma protestante, tesa a ripulire la chiesa di Roma dalla corruzione e sintetizzata nei 95 punti che il monaco tedesco Martin Lutero affisse fuori della chiesa di Wittenberg, la ricerca del profitto acquista anche un fondamento religioso attraverso la concezione luterana del beruf (vocazione o compito), affinata dalla visione calvinista, che impone agli uomini di adempiere i doveri professionali secondo la propria vocazione. Secondo M. WEBER (1970) l’ascesi protestante intramondana ebbe l’effetto di liberare l’attività lucrativa dalle inibizioni dell’etica tradizionalista cristiana per assumere una funzione ascetica di valorizzazione capitalistica dei propri averi, utile per le finalità dell’individuo e della collettività, secondo il disegno divino: la formazione delle grandi organizzazioni economiche private e pubbliche nutrirà il pessimismo dell’autore che lamenta la scomparsa dell’ascesi mondana nella “gabbia d’acciaio” del capitalismo. 10 Il tormentato Concilio di Trento (1545-1563) che, nelle aspirazioni degli organizzatori, doveva conciliare la chiesa cattolica con il protestantesimo, si rivelò una cruda Controriforma, intransigente nelle sue tradizioni: le religioni e le chiese, come le istituzioni economiche e giuridiche si divaricarono, assumendo connotazioni più mercantiliste nei paesi protestanti e maggiormente solidali nei paesi cattolici. 11 La guerra dei trent’anni (1618-1648) fu una guerra che coinvolse tutta l’Europa: iniziata come guerra di religione tra stati protestanti e cattolici, si sviluppò come conflitto politico per l’egemonia europea. Con i trattati di Münster e di Osnabrück (entrambe città della Westfalia) del 1648 si realizzò, pur sotto l’ombrello del sacro romano impero, una essenziale autonomia dei singoli territori. 12 La filosofia politica dello Stato moderno, attraverso le varie evoluzioni del patto sociale istitutivo dell’ordine politico, dal leviatano di Hobbes alla society di Locke, alla volontà generale di Rousseau, alla legge morale di Kant, aveva delineato, con varie articolazioni, i concetti di sovranità, rappresentanza, uguaglianza davanti alla legge, diritti e libertà per l’astratto soggetto di diritto, nutriti delle idee del giusnaturalismo e dell’illuminismo. Da tali connotazioni si muoveranno le riflessioni della postmodernità che, ad eccezione delle deviazioni totalitarie novecentesche, porranno al centro della riflessione politica la condizione dell’uomo e la persona umana in una società condivisa e solidale. 13 L’esperienza mercantilista del ’600 e del ’700 accresce la vocazione alla intrapresa economica e alla formazione di ricchezza privata, ponendo le basi dello sviluppo capitalistico. Le antiche corporazioni perdono gradualmente di autonomia, rimanendo assorbite nell’organizzazione statale come pubbliche istituzioni. L’ordinamento dei rapporti commerciali perde la tendenziale uniformità europea della lex mercatoria per divenire diritto statale dei singoli Stati assoluti. Rimarranno molte delle regole di favore che si erano dati i mercanti nel periodo comunale, sotto forma di “privilegi” accordati dallo Stato assoluto, che può in ogni momento revocarli. La stessa qualità di commerciante, per le connesse regole di favore, è accordata dallo stato e perciò dal sovrano: la disciplina dei mercati diviene diritto dello Stato.

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’700 si svolge una laicizzazione della società con riconversione dell’attenzione dal celeste al terreno, dal divino all’umano 14. Anche il sapere giuridico europeo è attraversato da un forte filone di pensiero: si afferma il giusnaturalismo razionale che innerverà le idee dell’illuminismo e le categorie da questo elaborate. Pur nella varietà delle voci 15, c’è un’assoluta fiducia nella ragione quale principio e fondamento di ogni regola: gli unici mezzi di accesso all’ordine della natura sono l’osservazione e la razionalità. Una simile concezione alimenta la rivoluzione liberale contro la stratificazione della società per classi di appartenenza, consegnata dalla tradizione degli stati assoluti. Può considerarsi manifesto essenziale della nuova epoca la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, approvata dall’assemblea costituente francese il 26 agosto 1789, nella quale, sulla scorta di affermazioni di principio già contenute nella dichiarazione inglese (il Bill of Rights del febbraio 1689) e in quella americana (la Costituzione degli Usa del 1787), vengono affermati i diritti naturali ed imprescindibili dell’uomo, dove “libertà” e “uguaglianza” si incontrano con “fratellanza”, additando un nuovo filone ideologico. La forza rivoluzionaria della libertà è coniugata con la potenza vitale della volontà. Emergono le categorie giuridiche della modernità, modellate nella dimensione del soggetto astrattamente concepito e unitariamente inteso: queste categorie perverranno fino all’attualità, alimentando i primi elementi dei diritti umani, quali saranno in seguito articolati e ampliati. L’unitarietà del soggetto di diritto, legata alla nascita, recide la stratificazione sociale in classi con diversificati statuti di diritti e obblighi: il soggetto, come tale, è portatore di diritti e doveri verso e contro lo Stato, con i corollari della uguaglianza dei soggetti davanti alla legge e della inviolabilità dei diritti dell’uomo anche da parte dei poteri pubblici. L’esplicazione della volontà, quale momento terminale di processi individuali (più o meno) razionali, realizza il contenuto dei diritti naturali. È valorizzato il concetto di soggettività dell’individuo contro il potere assoluto. Trova massima espressione la categoria dei diritti soggettivi , considerati connaturati alla natura umana ed espressivi del “potere della volontà garantito dal diritto”. L’imperio dello Stato (e dunque del diritto oggettivo) vale a garantire la esplicazione dei diritti innati degli individui. Sulla forza della libera volontà si svolge la elaborazione teorica della categoria del negozio giuridico, inteso quale atto concettualmente unitario, esplicativo della manifestazione di volontà del soggetto, rivolta ad uno scopo pratico tutelato dall’ordinamento, atteggiandosi il soggetto come artefice degli effetti giuridici. È valorizzato il fondamento naturale del diritto di proprietà, come espressione di libertà: è un diritto necessariamente unitario e tendenzialmente assoluto e illimitato, potendo incontrare solo i limiti previsti dall’ordinamento in numero chiuso (tipicamente i diritti reali limitati), non essendo consentito ai privati introdurre altri vincoli. La rivendicata libertà di sfruttamento dei terreni comporta l’eliminazione dei tradizionali limiti e   14 C’è molto in comune nel ’600 fra la luce pittorica di Rembrandt (che squarcia le ombre) e il razionalismo filosofico di Cartesio (che riscopre l’esistenza nell’esercizio del dubbio), rivoluzionando la filosofia moderna: l’insistenza all’autoritratto del primo si coniuga con l’affermazione del se stesso del secondo, come essenziali riflessioni sulla esistenza umana. 15 A partire da Grozio, e poi, tra gli altri, Pufendorf, Thomasius, Diderot, Voltaire, Montesquieu.

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oneri (quali decime, livelli, ecc.) tradizionalmente spettanti all’aristocrazia quando gli stessi venivano dati in uso. La proprietà ancora concorre al tessuto sociale e giuridico dello stato moderno: è solo divenuta “contendibile” e acquisibile in modo pieno in ragione del principio di libertà economica, con eliminazione dei tradizionali vincoli e privilegi in favore di nobiltà e clero. La rivendicata libertà di sfruttamento dei terreni comporta l’eliminazione di limiti ed oneri (quali decime, livelli, ecc.) tradizionalmente spettanti all’aristocrazia quando gli stessi venivano dati in uso. La proprietà ancora concorre al tessuto sociale e giuridico dello stato moderno: è solo divenuta “contendibile” e acquisibile in modo pieno in ragione del principio di libertà economica, con eliminazione dei tradizionali privilegi e vincoli di nobiltà e clero. Analogamente il diritto di intrapresa economica è libera espressione dell’uomo naturale, che implica libertà economica di accesso alla proprietà dei mezzi di produzione, di commercializzazione dei beni prodotti e di accesso al mercato con connessa libertà di concorrenza. Il diritto di credito è avvertito e tutelato nella essenziale e astratta struttura formale di rapporto tra consociati, isolato dai contesti socio-economici nei quali matura il ricorso alla cooperazione altrui e di come il rapporto è eseguito. Una considerazione volontaristica attraversa pure la responsabilità civile, atteggiandosi come meccanismo sanzionatorio per il soggetto che non fa buon uso della libertà, con una condotta ingiusta in quanto non conforme all’ordinamento, che arreca danni a terzi; con il corollario che in assenza di volontarietà dell’azione non c’è responsabilità, senza riguardo alle esigenze della vittima. Fondamentale collante è il principio di certezza del diritto come ragione di prevedibilità della norma applicata. È un fondamentale principio dello stato moderno, con un duplice obiettivo: da un lato, di conoscenza degli effetti giuridici dell’azione umana e di calcolabilità economica degli investimenti, come presupposti di efficienza economica; dall’altro, di liberare il cittadino dalle sopraffazioni del potere con l’applicazione di norme a proprio piacimento, come garanzia di libertà e uguaglianza davanti alla legge. Il principio era anche di agevole applicazione in ragione del monopolio statale della legge e della sua applicazione, come delle forze armate; la certezza era modulata sulle sole norme di fonte statale. Gli atti di stato civile, quali fonti di statuti giuridici di diritti e doveri, hanno fatto da formidabile sostegno alla certezza del diritto. Si vedrà come, nella postmodernità, l’ampliamento delle fonti del diritto e la valorizzazione dei contesti di svolgimento della persona umana hanno reso più complessa e ardua la garanzia di conoscenza dell’applicazione del diritto. All’esito di tale percorso il diritto privato si pone come disciplina dei rapporti tra privati sostenuti dalla libertà di autodeterminazione, mentre il diritto pubblico si caratterizza quale disciplina della organizzazione dello Stato e dei rapporti tra Stato e cittadini, nella realizzazione di interessi generali. In tal guisa diritto privato e diritto pubblico esprimono diverse sfere di incidenza in ragione della natura degli interessi regolati: secondo l’antica ricostruzione ulpianea, il diritto privato fissa l’ambito degli interessi particolari (di individui e gruppi) per il cui soddisfacimento è predisposto, mentre il diritto pubblico segna il campo degli interessi generali, alla cui cura è preordinato. Più in generale, il diritto privato è espressione della “società civile”, mentre il diritto pubblico è imposto dal

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potere sovrano, che regola la “macchina dello Stato” e le “condizioni essenziali” della vita civile 16. Si vedrà della funzione essenziale assunta dalle categorie privatistiche, non solo nella elaborazione dei codici civili, ma anche nella formazione delle carte costituzionali dell’ottocento: gli stessi codici civili si atteggiano con valenza fondativa ordinamentale per fissare i diritti del civis inviolabili dallo Stato.

3. Le codificazioni in senso moderno. Codice civile francese (cod. nap.) e codice civile del 1865; i codici di commercio. – Il delineato volto del diritto privato permea l’esperienza delle codificazioni in senso moderno. Vocazione somma è di edificare un diritto unitario per il civis come tale, astrattamente considerato. I codici, per il carattere generale e astratto dei principi e delle categorie che li sostanziano, sono considerati universali ed immutabili e perciò utilizzabili nel tempo e in più paesi. Nella compilazione, il codice si presenta come un sistema di norme strutturato in modo organico (per riguardare un intero settore) e sistematico (per il coordinamento logico che lo sorregge), realizzando una semplificazione nel rinvenimento della disciplina: un testo ordinato ed ordinante di regole e principi, che abbandona particolarismi giuridici in funzione dell’unità del soggetto di diritto. Fondamentali codici sono ancora vigenti (v. appresso); discipline successive ai codici (c.d. novelle), talvolta entrano in tali testi aggiungendo o sostituendone parti, talaltra si collocano al di fuori, in ogni caso orientando la disciplina complessiva. a) Massima espressione di tale impostazione è il code civil des français promulgato il 21 marzo 1804 (c.d. code napoléon per essere stato voluto e influenzato da Napoleone), forgiato secondo i principi espressi dalla rivoluzione francese 17 (tuttora in vigore sebbene variamente novellato). Il diritto privato, con il codice napoleonico, diviene diritto dello Stato, che fa propri i valori e le aspirazioni della società civile e specificamente delle sue classi dominanti: lo stesso diritto civile si atteggia a dottrina del codice civile. Fiorisce una scienza giuridica casistica ed esegetica, di esposizione ed analisi della lettera della legge 18. Il codice napoleonico rovescia il sistema pluralistico delle fonti espresso dal diritto comune, inaugurando la stagione delle codificazioni moderne che da quella esperienza prenderanno le mosse. Si presenta come prima forma significativa di un diritto privato codificato, di ispirazione laica e individualistica. Muta anche il modello di regolazione: la disciplina dei rapporti tra privati è espressa in leggi generali ed astratte da valere per un 16 È la sistemazione concettuale che trova compiuta espressione specie in DOMAT, Les lois civiles dans leur ordre naturel (1689). 17 Il codice recepiva la tradizione del diritto romano, rielaborata nella prospettiva giusnaturalistica da Domat; ma si apriva anche all’esperienza del diritto consuetudinario (coutumes) maturato nella vita dei traffici, che Pothier aveva riorganizzato nel solco del diritto romano. In Francia il codice civile provenne dagli autori della rivoluzione e dal suo principale tribuno (Napoleone); nel resto dell’Europa i codici derivarono da un potere regio illuminato: es. il codice prussiano del 1794 e il codice austriaco del 1811. 18 Nell’ispirazione concettuale la interpretazione esegetica avrebbe implicato il formarsi di una giustizia uniforme, in quanto dedita solo all’applicazione della legge. Fiorirono imponenti commentari del code civil (come quelli di Duranton, Demolombe, Troplong). La scuola della esegesi finì però con l’irrigidire l’interpretazione sulla volontà del c.d. legislatore storico (cioè di quello che emana la legge), non consentendo una interpretazione evolutiva delle norme.

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lungo periodo per il cittadino come tale. Più tardi, con analogo ordine logico, sarà teorizzata la unitarietà del cittadino commerciante e del cittadino che agisce in giudizio o che delinque: è del 1806 il codice di commercio (code de commerce); del 1807 il codice di procedura civile e del 1810 il codice penale. Al codice napoleonico si conformeranno i codici dei singoli Stati italiani preunitari 19; ciò spiega perché, dopo pochi anni dall’unita d’Italia (1861), fu possibile redigere agevolmente il cod. civ. del 1865 per il Regno d’Italia, secondo le indicazioni dei codici preunitari. Tale nuovo codice, nel prendere a modello il cod. nap. 20, ebbe il torto di non riflettere la realtà socio-economica quale nel frattempo era andata evolvendo, in particolare non prestando attenzione ai problemi che l’industrializzazione faceva già emergere. Il cod. civ. unificato, al pari del modello francese, ruota per intero intorno alla “proprietà”: dei tre libri di cui si compone, il primo è dedicato alle persone e alla famiglia, il secondo riguarda i beni, la proprietà e le sue modificazioni, il terzo regola i modi di acquisto della proprietà. In tal guisa anche il contratto, le successioni, i patti matrimoniali sono accorpati e valutati nella unitaria prospettiva di meccanismi di circolazione della proprietà. Significativamente sia l’art. 544 code civil che l’art. 436 cod. civ. del 1865 recitano: “La proprietà è il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalle leggi o dai regolamenti”. Si ripropone una riorganizzazione e concentrazione dei poteri sulle cose secondo il modello già impiegato da Giustiniano, ma con una diversa ispirazione politica. I Digesta di Giustiniano avevano formalizzato il principio del numerus clausus dei diritti reali, contro la varietà dei vincoli alla utilizzazione dei beni espressa dalla fiducia dei romani nelle potenzialità dell’autonomia dei privati. Il cod. civ. del 1865 riprendeva il principio di tipicità dei diritti reali, contro la dottrina del dominio diviso (plura dominia) espressa dalla esperienza feudale, come reazione alla stratificazione in classi della società nell’utilizzo delle cose. La esaltazione della volontà individuale comportava che i contratti avessero forza di legge tra le parti (artt. 1134 code civil e 1123 cod. civ. 1865) 21. La possibilità di trasmettere i diritti per effetto del consenso, da un lato, garantiva all’aristocrazia di non essere privata dei propri beni senza il proprio consenso; dall’altro, consentiva alla borghesia commerciale di accedervi facilmente, convogliando verso la proprietà le risorse economiche che la rivoluzione industriale stava progressivamente formando. L’affermazione 19 Il codice napoleonico entra in vigore per il regno italico (cisalpino) nel 1806 e farà da modello ai codici estense, parmense e del regno delle due Sicilie del 1819 (il più fedele al modello francese). 20 Con accenti retorici rilevava Pisanelli, massimo ispiratore del cod. civ. del 1865, come, in realtà, il cod. nap. rispecchiasse principi del diritto romano e perciò fosse un diritto “restituito” all’Italia. 21 Ampio è il riconoscimento dell’autonomia privata, di cui è garantita la volontà degli autori dell’atto (artt. 1109 ss. code civil e artt. 1108 ss. cod. civ. 1865). La laicità dello Stato comporta la configurazione del matrimonio civile quale unica forma di matrimonio (art. 165 code civil e art. 93 cod. civ. 1865) (consentendo il code civil anche il divorzio: artt. 229 ss.). I contratti di matrimonio, quali atti di sistemazione patrimoniale della vita familiare, sono annoverati tra i modi di acquisto della proprietà (art. 1587 code civil e art. 1378 cod. civ. 1865); ed in materia successoria sono soppressi fedecommessi, maggiorascati, ecc., vuoi per la discriminazione che contenevano tra membri di una medesima famiglia, vuoi per la sottrazione di beni alla libera commerciabilità. C’è una indifferenza, se non un’ostilità, verso le forme di vita associata in quanto limitano l’esplicazione della libertà dei singoli: si ha riguardo ai soli “corpi morali legalmente riconosciuti” (art. 2). Il rapporto di lavoro è collocato nello schema del contratto di locazione, che può avere ad oggetto le cose come le opere (art. 1708 code civil e art. 1627 cod. civ. 1865).

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del diritto di libertà economica consentiva poi alla classe industriale emergente di sottrarsi al controllo e alle ingerenze che avevano caratterizzato l’azione delle monarchie assolute. b) Dopo la fondamentale rivoluzione scientifica che aveva consentito all’uomo di dominare la natura, a seguito delle innovazioni tecnologiche del settecento, prima con le applicazioni della macchina a vapore di Watt e poi con l’affermazione del motore a scoppio e di nuove fonti di energia, si svolge la c.d. rivoluzione industriale che segna la definitiva trasformazione del modello di vita e di organizzazione sociale. La introduzione dell’automazione nei processi produttivi innova il sistema economico, determinando la formazione di una ricchezza che dapprima affianca ma che poi sovrasterà la rilevanza e la logica proprietaria 22. In luogo del mercante che traeva profitto dal divario di valore tra i beni acquistati e quelli collocati sui mercati, anche lontani, il nuovo imprenditore forma il lucro attraverso la produzione, realizzata al più basso costo possibile e in quantità sempre maggiore e collocata sul mercato al più alto prezzo possibile. Con l’industrializzazione si completa il definitivo contrasto all’assetto agrario-feudale intrapreso dalla precedente borghesia mercantile, anche perché i privilegi e le immunità che competevano all’aristocrazia sono ormai disgiunti dalle funzioni pubbliche (di difesa militare e di governo) che in passato li legittimavano, sì da apparire come odiosi e ingiustificati: veri e propri “abusi feudali”. Inizia un percorso di produzione di massa che andrà progressivamente intensificandosi e dilatandosi fino a coprire i mercati mondiali. Con i piedi piantati nella economia commerciale ma con il volto rivolto ad assecondare le affioranti esperienze della produzione industriale, emergono i primi modelli di codici di commercio. Sull’esempio del cod. comm. francese del 1806, il cod. comm. del 1865 e ancor più il cod. comm. del 1882 introducono una legislazione particolare per gli atti di commercio. I contratti sono riguardati non più come modi di accesso alla proprietà (immobiliare), quale ricchezza finale (come era nella indole del code nap. e del cod. civ. del 1865), ma valutati e regolati quali strumenti dell’attività economica, rivolti all’approvvigionamento dei fattori della produzione e alla collocazione dei prodotti, dal cui scambio deriva la (nuova) ricchezza finale. Molti contratti trovano disciplina differente nel cod. civ. e nel cod. comm. (ad es. c’è la vendita civile e la vendita commerciale), con significative diversità in favore dell’impresa. In virtù dello stesso diritto statale è operata una diversità di regolazione giuridica in ragione della possibilità o meno di qualificare l’atto compiuto come “atto di commercio” per la qualifica degli autori dell’atto; gli atti 22 Negli opifici collocati nelle aree urbane accorrono e si concentrano soggetti che alienano la propria forza fisica in corrispettivo di salari: artigiani e contadini affluiscono progressivamente negli opifici, cedendo non più un prodotto finito (come per il passato) ma senz’altro una prestazione lavorativa alle dipendenze di chi organizza la produzione. Emerge la figura dell’imprenditore in senso moderno, come colui che combina e organizza i fattori della produzione, creando nuova ricchezza. Scriverà C. CIPOLLA (2005): “Da allora il mondo non fu più lo stesso”. La rivoluzione industriale – prosegue l’Autore – trasformò l’uomo da agricoltore-pastore in manipolatore di macchine azionate da energia inanimata. La maggior parte della popolazione tende a vivere in grossi agglomerati urbani; l’esasperata divisione del lavoro e il lavoro di gruppo implicano un più continuo, più preciso e nel contempo più impersonale e più opprimente rapporto con altri simili. Ormai anche tra i romanisti sta emergendo l’idea che, con il modello di produzione industriale, la storia è “spezzata” (A. SCHIAVONE 1996). Derivano forti mutamenti sociali, formandosi una classe operaia composta di contadini sradicati dalle campagne e artigiani allontanati dalle botteghe, che vanno ad ingrossare una platea indistinta di dipendenti nelle fabbriche, ormai sciolti dai legami di appartenenza sociale e territoriale.

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compiuti dal cittadino con un commerciante sono soggetti alla legge commerciale, di favore del commerciante 23.

4. Il codice civile tedesco (BGB). – Con le codificazioni le esperienze del giusnaturalismo e poi dell’illuminismo avevano trovato il proprio trionfo ma anche segnato l’inizio del declino, in quanto i principi di diritto maturati si depositavano in leggi scritte nazionali, perdendo il connaturato carattere di universalità ideale. Si sviluppa in Germania nella prima metà dell’800 la c.d. scuola storica del diritto 24 che ricostruisce la società come attraversata da una perenne evoluzione, contro la statica universalità razionale dei giusnaturalisti, che ormai si rivela una mera astrazione. C’è una riscoperta del diritto romano come essenziale antecedente dello sviluppo del pensiero giuridico; sull’esperienza di studio medievale del diritto romano si dà luogo ad un usus modernus pandectarum 25. Il diritto positivo, come per i giusnaturalisti, rimane l’unica realtà osservata dai giuristi; però è organizzato con criterio sistematico, sì da enucleare ed elaborare principi generali che ispirano l’ordinamento, onde governare logicamente l’applicazione del codice a nuove figure (c.d. dogmatica) 26. Massima espressione della dogmatica pandettistica fu l’elaborazione del codice civile tedesco (Burgerliches Gesetzbuch), comunemente indicato con le iniziali BGB, adottato nel 1896 e in vigore dal 1° gennaio 1900 (tuttora in vigore sebbene variamente novellato). La tradizione del diritto romano permea l’intero codice, adattata alla realtà socio23

Il cod. comm. del 1882 si apre con la indicazione: “In materia di commercio si osservano le leggi commerciali. Ove queste non dispongano, si osservano gli usi mercantili … In mancanza si applica il diritto civile” (art. 1). “Se un atto è commerciale per una sola delle parti, tutti i contraenti sono per ragione di esso soggetti alla legge commerciale, fuorché alle disposizioni che riguardano le persone dei commercianti, e salve le disposizioni contrarie della legge” (art. 54); a tale norma si connette l’altra, per cui “se l’atto è commerciale anche per una sola delle parti, le azioni che ne derivano appartengono alla giurisdizione commerciale” (art. 870). Ciò importava che, nei rapporti con le imprese, i comuni cittadini (cioè i consumatori) venivano assoggettati alla legge di favore per le imprese: scelta vivacemente criticata da C. VIVANTE (1895). 24 Lo studio storico del diritto è essenziale criterio di rilevazione e di comprensione del formarsi delle regole giuridiche: il diritto non proviene dalle sole fonti statali, assumendo un ruolo fondamentale la consuetudine. Per Savigny uno “spirito del popolo” (Volksgeist) attraversa ogni comunità nazionale informando le espressioni della cultura, compreso il diritto. Esiste una connessione tra materia (la realtà sociale espressa dalla storia) e forma (il diritto quale strumento di organizzazione sistematica della prima). 25 Il diritto romano, che mai aveva smesso di operare, riceve rinnovata vitalità. Con lo sviluppo della Scuola storica del diritto (sec. XVIII-XIX specie con Savigny), attraverso l’opera di Puchta, si ritornava al corpus giustinianeo studiando criticamente le Pandette ad opera della Pandettistica (nel sec. XIX specie Windscheid riassunse i risultati dell’intero movimento). 26 È il trionfo della c.d. scuola sistematica, che si oppone alla scuola esegetica formatasi nel segno del codice napoleonico. L’intero ordinamento è organizzato sistematicamente intorno a principi generali (come espressioni dello spirito del popolo) da cui derivano in forma piramidale i concetti di grado man mano inferiore e dunque le regole di ogni istituto giuridico. Sulle indicazioni del formalismo kantiano si afferma la funzione ordinante delle categorie logiche nella conoscenza scientifica, tendendo le costruzioni dottrinali a inquadrare logicamente la realtà: la verità scientifica è saggiata dalla coerenza interna delle categorie utilizzate. Osserva WINDSCHEID, figura emblematica della corrente c.d. pandettistica, come “considerazioni di carattere etico, politico o economico in quanto tali non sono materia propria del giurista”. All’autorità spetta solo di fissare la forma di organizzazione politica che garantisca la libertà individuale (sia personale che nell’utilizzo dei beni) in un contesto di uguaglianza formale dei privati e di neutralità del diritto, rinunziando a formulare un contenuto assiologico (impianto in prosieguo vivacemente contestato).

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economica del tempo, ormai pervasa dalla industrializzazione 27. Con un linguaggio colto e tecnico la materia del diritto privato è pensata ed organizzata secondo categorie logiche, generali ed astratte. Elaborato da professori, non è accessibile all’uomo comune ma ai tecnici del diritto, manifestando profondità culturale e valenza didattica 28. È significativa della struttura del codice la Parte generale dedicata alla disciplina di persone (fisiche e giuridiche), cose, negozi giuridici, decadenza e prescrizione, esercizio dei diritti e tutela 29. Il processo di astrazione in funzione della unità del soggetto di diritto trova la massima espressione con la formulazione della figura del negozio giuridico, come manifestazione di volontà rivolta ad uno scopo tutelato dall’ordinamento giuridico. Prende slancio da tale generale definizione un approfondito filone di elaborazione scientifica del negozio giuridico, che durerà a lungo 30.

5. Il codice civile del 1942. – Il legislatore italiano, che alla metà degli anni ’30 dà avvio all’opera di rinnovazione del codice civile, assimila i modelli di entrambe le grandi codificazioni del diritto privato 31. Il codice civile del 1942 32 muove dall’impianto del code nap. (e dunque del cod. civ. del 1865), ma utilizza tecniche di generalizzazione proprie del BGB, come la previsione di “disposizioni generali” (es. artt. 456 ss., 832 ss., 1470 ss.) e l’introduzione di “clausole generali” (es. artt. 1366, 1375). Quanto al contenuto, lo stesso, benché veda la luce durante il fascismo, non è pervaso dalle istituzioni proprie del regime (come il corporativismo), che sono regolate fuori dal codice nella Carta del lavoro 33, alla quale si rinvia mediante richiami: ciò ha fatto sì che, alla caduta del regime, sia stato possibile eliminare le sovrastrutture del regime mediante l’abrogazione dei richiami 34, perché il codice potesse continuare a svolgere la sua funzione. Il codice, nella sostanza, 27 Ha osservato F. WIACKER (1980) come il codice tedesco, quale diritto privato generale ed astratto, “orienta fondamentalmente il proprio sistema non a principi sociali di vita bensì alle manifestazioni concettuali del diritto soggettivo”. Il medesimo autore descrive la situazione della società da cui esso nasce come caratterizzata da una “rivoluzione industriale avanzante che fa della libertà contrattuale ed associativa mezzi di accumulazione di potere sociale ed economico”. 28 Influenzato dal codice civile tedesco, ma con felice sintesi tra diritto comune e tradizioni locali e un’apertura all’intervento del giudice, è il codice civile svizzero (codice della Confederazione elvetica), adottato il 10 dicembre 1907 e in vigore dal 1912; è del 1911 la legge federale di complemento del codice civile contenente il libro quinto relativo al diritto delle Obbligazioni (comprensivo del diritto commerciale). 29 Un epilogo di tale pensiero si avrà con la c.d. dottrina pura del diritto elaborata da KELSEN. Contro la deriva del naturalismo giuridico, il diritto è ricondotto alla sua ontologica matrice formale di comando, depurato di connotazioni sociali. L’attenzione è rivolta alla struttura del diritto, presentandosi il diritto come complesso organico di norme: il metodo di analisi e di elaborazione concettuale non può che essere quello positivista, per i caratteri di positività ed effettività del diritto. Anche questa dottrina sarà criticata. 30 La scuola sistematica si diffonde nei nostri studi, divenendo metodo generalmente accolto: la formazione della “Triplice alleanza” con Austria e Germania (dal 1882 al 1915) apre la cultura italiana e dunque anche gli studi giuridici ad una forte permeazione tedesca. 31 Significativa era stata la posizione di E. GIANTURCO che, già alla fine dell’800, invitava a non imitare i tedeschi o copiare i francesi, là dove era necessario disporsi a quel “giusto mezzo a cui inconsapevolmente tende l’intelletto italiano”. 32 Il codice è approvato con R.D. 16.3.1942, n. 262, ed entra in vigore il 21.4.1942, sostituendo i libri del codice stesso in precedenza autonomamente approvati. 33 La Carta del Lavoro è uno dei documenti fondamentali del fascismo: approvata il 21 aprile 1927, ne esprime i principi sociali, la dottrina del corporativismo, l’etica del sindacalismo e la politica economica. 34 Vedi R.D.L. 9.8.1943, n. 721, e D.Lgs.Lgt. 27.11.1944, n. 369.

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esprime la vicenda economico-sociale propria dell’Europa di quegli anni: codifica le grandi conquiste ideali del liberalismo dell’800, modellando i singoli istituti secondo le esigenze emerse dal mondo delle attività economiche o connaturate allo sviluppo dei traffici 35. Manca a tale codice (come del resto era mancata al codice tedesco) quella dimensione ideale rivoluzionaria che aveva caratterizzato il codice napoleonico. Quest’ultimo aveva consacrato l’esito di una lunga stagione di lotta per la conquista delle libertà dell’individuo contro il potere assoluto; al tempo della codificazione del 1942 tali ideali erano ormai un portato acquisito e comune delle società europee. L’esperienza tedesca della Costituzione di Weimar del 1919, che aveva formulato la tavola dei diritti sociali della persona umana, aveva avuto breve vita per essere stata travolta nel 1933 dall’avvento al potere del nazismo. Il nostro codice si attesta, per così dire, a metà strada: adotta scelte umanamente più avanzate oltre che tecnicamente più raffinate di quelle del cod. civ. del 1865; però rispecchia gli sviluppi del capitalismo dell’epoca e introduce ragioni di equità sociale. Tratto saliente del codice civile è la unificazione della normativa civilistica e di quella commercialistica in un unico codice, mentre nel resto d’Europa rimaneva la distinzione tra codice civile e codice di commercio 36. In realtà il cod. civ. del 1865 regolava in via esclusiva persone, famiglia, successioni e proprietà; mentre la disciplina di impresa e società (e della navigazione) era esclusivamente collocata nel codice di commercio: solo dunque obbligazioni e contratti erano disciplinati in entrambi i codici. Sicché la unificazione nel 1942 dei due codici di diritto privato (e l’autonoma organizzazione di un codice della navigazione) comportava sostanzialmente la unificazione della disciplina di obbligazioni e contratti. E in tale fusione, in presenza di un divario di disciplina tra i due codici, furono essenzialmente le norme del codice di commercio (quale codice dell’impresa) a prevalere sulle tradizionali regole del codice civile (quale codice della proprietà) 37. La tecnica legislativa adoperata fu il metodo dell’economia (come si usava dire al tempo della codificazione), perché le forme giuridiche corrispondessero alla sostanza economica dei fenomeni. Tale metodo fece prediligere soluzioni più congrue ad esigenze socio-economiche piuttosto che rispondenti ad elaborazioni concettuali. Non è prevista la categoria del negozio giuridico (come invece è presente nel codice civile tedesco), ma 35 Ha osservato R. NICOLÒ (1960): “Per la prima volta l’istituto giuridico dell’impresa, come situazione oggettiva che fa capo all’imprenditore, si pone al centro del sistema del diritto privato. Proprietà e impresa, come categorie parallele, costituiscono insieme alla categoria parallela del lavoro, i filoni fondamentali del nostro codice, e sotto questo profilo rappresentano esattamente gli aspetti primari della nostra organizzazione sociale e della nostra struttura economica”. 36 Per la Relaz. cod. civ. si voleva formulare un codice organico e unitario che contenesse la “disciplina dell’economia organizzata”, dove al concetto di “cittadino” della rivoluzione francese si sostituisse quello di “produttore”, cioè della persona che partecipa attivamente con la propria azione individuale all’azione comune di aumento della potenza e del benessere della Nazione, come potenza e benessere di tutti. Dal 1888 era venuta anche meno la duplicità della giurisdizione civile e commerciale. 37 Osserva la Relaz. cod. civ., n. 554, come l’unità del diritto delle obbligazioni fu realizzata riconoscendo virtù espansiva ad alcune norme del codice di commercio, nate nella vita rigogliosa e agile dell’attività mercantile, con tale duttilità che in gran parte potevano dimostrarsi adatte a soddisfare pure le nuove esigenze dell’economia nazionale.

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è regolato il contratto, come figura più aderente alla vita dei rapporti economici. E il contratto è disciplinato con particolare riguardo alla sua funzione di strumento di scambio in una economia di mercato 38. Il codice civile del 1942 è tuttora in vigore. A tale longevità hanno concorso due fondamentali circostanze: l’una interna al codice, per l’ampio impiego di clausole generali (come buona fede, diligenza, ecc.) che hanno consentito di attingere a criteri e regole di comportamento aderenti al mutare dei tempi; l’altra esterna al codice, per il processo di novellazione cui è continuamente assoggettato, vuoi con la sostituzione o modificazione di normative (es. la riforma del diritto di famiglia, la riforma della disciplina delle società di capitali e delle società cooperative), vuoi con l’aggiunta di nuove discipline (es. la normativa sull’amministratore di sostegno, quella sul patto di famiglia). Altre normative, anche rilevanti, sono fiorite accanto al codice civile (es. la normativa sul divorzio, il codice del consumo, il t.u. dell’intermediazione finanziaria, ecc.). Nonostante l’incalzare di leggi complementari, il codice civile conserva un ruolo sistematico fondamentale per esprimere, non solo la disciplina più nutrita del diritto privato, ma anche una trama di concetti e un linguaggio in grado di guidare la razionalizzazione e la sistemazione della frammentaria legislazione complementare. L’impianto concettuale del codice civile è di recente sottoposto a notevoli strappi e ripensamenti in conseguenza delle normative di origine europea spesso espressive di logiche e categorie estranee alla tradizione giuridica del codice. Le aree maggiormente stravolte risultano, da un lato, il diritto delle persone e della famiglia per l’emergere di nuovi modelli di relazioni familiari e l’affermazione dei diritti della persona umana, e dall’altro l’impresa per evolvere la sua rilevanza nel più generale diritto dell’economia, connotato dalle esigenze sociali della produttività, del mercato e dell’occupazione; anche la legge fallimentare che nello stesso anno vedeva la luce (R.D. 16.3.1942, n. 267), funzionale alla esecuzione concorsuale del credito, è sopravanzata dalla esigenza di salvezza della impresa in crisi (cui ha riguardo il D.Lgs. 12.1.2019, n. 14). L’affermazione dei diritti fondamentali della persona umana, secondo i valori espressi dalla Carta costituzionale e dal diritto europeo, costringe il codice civile ad una penetrante rilettura delle singole previsioni, per fornirne una interpretazione ammodernata ai nuovi valori emersi.

6. Le Costituzioni degli Stati moderni. – I valori che pervasero i codici di inizio ’800 orientarono anche le Costituzioni degli Stati moderni, che sancivano le conseguite libertà e garanzie dei cittadini verso lo Stato, segnando i rapporti tra lo Stato stesso ed i consociati (c.d. Stato costituzionale). Il costituzionalismo liberale (nella sua generale accezione) raffigura un potere rispettoso dei fondamentali diritti naturali del cittadino, di vita (nel senso del corpo fisico), di libertà (nel senso di non invadenza) 39 e di proprietà (l’interesse pubblico giustificante l’intervento sulla proprietà deve essere legalmente ac38 Significativamente, oggetto del contratto non è più “la cosa” (art. 1116 cod. civ. 1865), come in una economia proprietaria, ma “la prestazione” (artt. 1346 ss.), connaturata ad un’economica fondata sull’attività e sull’impresa. Per altre indicazioni, v. la Parte VIII. 39 Funzione precipua dello Stato è quella di garantire la coesistenza degli uomini consentendo a ciascuno di esplicare la libertà all’interno della propria sfera giuridica. Il ruolo della legge è nel definire le libertà dei cittadini, gli strumenti di tutela e i modi di partecipazione al potere.

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certato). Una successiva evoluzione delineerà un costituzionalismo democratico, che valorizza la rappresentatività democratica dei cittadini. È affermato il generale modello di Stato di diritto, caratterizzato dai seguenti principi: divisione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario); principio di legalità (tutti sono soggetti alla legge, anche i pubblici poteri; uguaglianza dei cittadini davanti alla legge (cui si connette uguaglianza di tutela giudiziaria). A tale principio si connetteva quello della certezza del diritto: non solo della esistenza della regola giuridica, ma anche della sua applicazione e tutela. Criterio guida dell’impianto era la garanzia di libertà e uguaglianza davanti alla legge. È il modello di stato che forgerà i codici della modernità, con le integrazioni valoriali della postmodernità. È un impianto che ha avuto il grande merito di consacrare le libertà faticosamente conseguite, ma che presenta il lato debole di essere svincolato dalla morfologia delle relazioni sociali, astraendo dai condizionamenti delle scelte volitive e dei contesti di vita 40. Espressione di tale stagione fu in Italia lo Statuto albertino 41 del 1848, emanato a seguito di vari moti rivoluzionari, poi esteso al regno d’Italia nel 1861. Ispirato alla costituzione francese del 1830, lo statuto (ottriato, flessibile e breve) regolava la organizzazione dello Stato con una doppia anima: da un lato, di presidio della “Corona” e del potere regio (nel Preambolo veniva definito Legge fondamentale perpetua e irrevocabile della monarchia); dall’altra, di rappresentazione di un governo parlamentare, con articolazione dei tre poteri. Con soli 9 articoli regolava “Dei diritti e dei doveri dei Cittadini”: proclamava l’uguaglianza di tutti davanti alla legge; attribuiva i diritti civili e politici, compreso il diritto di accedere alle cariche politiche, civili e militari; riconosceva i diritti di libertà personale, di domicilio, di stampa e di riunione. Non si faceva però menzione del diritto di associazione, che sarà uno dei diritti fondamentali della successiva Carta repubblicana. Tra i diritti garantiti, accanto a quello di libertà e come espressione dello stesso, c’era il diritto di proprietà: per l’art. 29 “Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili”.

7. La Costituzione repubblicana. Il primato della persona umana. – Dalla seconda metà dell’800 affiorano più eventi che sconvolgono il tessuto socio-conomico che aveva fatto da sfondo alle moderne codificazioni e alle costituzioni dell’epoca. Sul piano economico, la rivoluzione industriale progressivamente affianca, fino a sovrastare, la ricchezza agraria: emerge l’importanza della concentrazione dei capitali e dei valori mobiliari, con l’esigenza di tutela dei vari operatori del mercato; si formano associazioni di 40 Come si vedrà, entrambi i fondamenti dello stato di diritto sono scossi: l’unità del soggetto di diritto è smembrata nei tanti volti assunti dall’uomo nella varietà dei contesti in cui opera e in funzione delle appartenenze che lo connotano; la libertà incontra vari condizionamenti: il passato di ognuno, e poi la dimensione naturale e biologica, l’impellenza del bisogno economico, l’affettività vissuta. Anche la generale acquisizione del metodo democratico non mette al riparo dalla formazione di una autorità della maggioranza: si sviluppa il tema dei rapporti tra indipendenza individuale e controllo sociale, tra libertà e autorità; alla metà dell’Ottocento sono dirompenti i contribuiti di Tocqueville (sulla democrazia in America) e di Stuart Mill (sulla libertà). 41 È una Costituzione di carattere ottriato (in quanto derivante da una concessione del sovrano), ma con una sorta di approvazione popolare legata alle pronunce nei plebisciti. È inoltre una Costituzione flessibile in quanto modificabile con legge ordinaria.

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tutela dei consumatori per trasparenza contrattuale e riequilibrio delle regole imposte da moduli e formulari. Sul terreno sociale la industrializzazione determina la concentrazione della forza lavoro nelle aree industriali, con le rivendicazioni dei lavoratori per migliori condizioni salariali e di vita sul lavoro: si intensifica un “contromovimento” delle classi operaie in forme collettive sempre più organizzate fino alle formazioni sociali sindacali. In campo politico, l’universalismo proclamato dai giusnaturalisti è contraddetto dalla diversità delle realtà nazionali e dagli equilibri di potere che la borghesia emergente volta a volta instaura con le classi tradizionalmente detentrici del potere 42. Acquisiti come irrinunciabili i portati della rivoluzione liberale dei diritti del civis contro lo Stato, si guarda da più parti allo Stato per conseguire ausili all’azione economica e tutela delle debolezze esistenziali e sociali. Dal tronco del Settecento “illuminista” e dell’Ottocento “borghese” evolve una nuova fase storica che si è soliti delineare di “postmodernità”, che si svolge, dentro lo Stato, con l’affermazione di autonomie locali, società intermedie e gruppi organizzati; e oltre lo Stato, con l’apertura a relazioni internazionali, partecipazione alla comunità europea e crescita delle fonti del diritto. L’individuo isolato e astrattamente unitario, che aveva orientato la formazione dei codici moderni, viene reintegrato nella realtà delle relazioni sociali in cui vive ed opera, valorizzandosi appartenenze e contesti di collocazione 43 e i conflitti sociali determinati. Le tradizionali categorie giuridiche della rivoluzione illuministica escono ridisegnate, a cominciare dal diritto soggettivo che è ricostruito come “interesse giuridicamente protetto”, con ciò aprendosi la strada ad una generale limitazione dei diritti individuali, valorizzandosi il trattamento giuridico degli interessi. Il principio di uguaglianza davanti alla legge è considerato espressivo di uguaglianza formale, valorizzandosi una uguaglianza nella effettività di titolarità ed esercizio dei diritti. Si afferma un nuovo valore, del primato della persona umana, che il costituzionalismo moderno riassume nella indicazione del rispetto della “dignità umana”, come sintesi indistinta di libertà, uguaglianza e solidarietà. La Costituzione tedesca del 1949 si apre con l’affermazione “La dignità umana è inviolabile”, ripresa dalla Carta dei diritti fon42 L’illusione della “volontà generale” (Rousseau) quale fondamento di legittimazione del potere è smentita dalla ristretta base sociale avente diritto al voto. Anche la “divisione dei poteri” (Locke e Montesquieu) non impedisce che i singoli poteri siano espressioni delle medesime classi sociali. 43 Emergono più filoni teorici. L’istituzionalismo (specie con Hauriou) valorizza tutte le forme di organizzazione rivolte a realizzare uno scopo; elaborazione che, in modo distorto, è stata in prosieguo impiegata con riferimento a talune comunità (famiglia, associazioni, ecc.), per designare la prevalenza dello scopo comune rispetto alla persona dei componenti. Il socialismo giuridico (specie con A. Menger 1887 e A. Loria 1893) riceve dal socialismo materiale la lezione che non sussiste una eguaglianza degli individui concreti, per essere gli stessi costretti dalle specifiche condizioni socio-economiche (anche la c.d. libertà negoziale si rivela una mera astrazione): le rivendicazioni delle classi lavoratrici sono incanalate verso un catalogo di “diritti economici fondamentali”, sul modello dei diritti politici fondamentali conseguiti nel secolo precedente; rileverà G. SOLARI (1906), uno dei massimi studiosi italiani del socialismo giuridico, come non si possono impunemente rinnegare secoli di lotta per la conquista delle libertà individuali consacrate nei Codici; il socialismo giuridico si è ritratto da questo errore e anziché contrapporre individuo a società tende a conciliarli sul terreno del diritto privato. Il neogiusnaturalismo, con varie impostazioni, tende a porre un limite alla onnipotenza legislativa con l’affermazione di indisponibilità di alcuni valori essenziali: nella dimensione laica, espressi da acquisizioni etico-giuridiche irreversibili, rivelatrici della dignità umana; nella dimensione cristiana (specie cattolica), abbandonata l’idea di trasferire nella società civile il progetto divino salvifico dell’uomo, ricondotti alla dottrina sociale della Chiesa.

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damentali U.E. nel suo primo articolo. È il senso del costituzionalismo moderno, di imporsi ai cittadini, allo stato e allo stesso legislatore. In questo nuovo contesto le vite delle persone non sono riducibili ad astratti modelli normativi. Intrecciato con lo Stato di diritto, si sviluppa lo Stato dei diritti, che poi diventerà l’Europa dei diritti. Lo Stato di diritto ha riconosciuto libertà in natura, senza costi; lo Stato dei diritti assicura i diritti fondamentali, con soddisfacimento di bisogni che implicano costi di realizzazione, sostenibilità finanziaria e progressività tributaria. Le due declinazioni sono intrecciate, per essere essenziale la garanzia formale dei diritti fondamentali. L’impianto si ritrova nella nostra Costituzione. Una sinergia ideologica sorregge le scelte della Carta: le idee della rivoluzione liberale del secolo precedente e le nuove aspirazioni verso uno Stato socialista-marxista si intrecciano con i dettami della “dottrina sociale” della Chiesa cattolica (specie della enciclica Rerum novarum di Leone XIII del 1891), dando un contenuto sociale alla edificata democrazia (c.d. patto o compromesso costituzionale) 44. La Carta costituzionale, per un verso, reitera l’autonomia dei tre poteri formali tradizionali (legislativo, esecutivo e giudiziario), come esplicazione di neutralità operativa e di garanzia del cittadino; per altro verso, integra i principi di libertà, uguaglianza e fraternità nel primato della persona umana nella sua integralità di dignità umana e nel correlato dovere di solidarietà. A differenza dello Statuto albertino, la Costituzione repubblicana è rigida, in quanto la revisione richiede una procedura aggravata, non quella di modifica delle leggi ordinarie (art. 138). Contiene una disciplina nutrita dei valori essenziali, con la previsione di “Principi fondamentali” (artt. da 1 a 12) e di una Parte I dedicata a “Diritti e doveri dei cittadini” (artt. da 13 a 54). La Costituzione dovrà essere fedelmente osservata come “Legge fondamentale della Repubblica” da tutti i cittadini e dagli organi dello Stato (disp. XIV). Anche per l’epoca di formazione, la Costituzione si chiude con la previsione che la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale (art. 139), ma la Corte costituzionale ha ampliato l’area della inderogabilità ai valori essenziali 45. Gli artt. 2 e 3 delineano la tavola fondamentale del principio personalista, dal quale tutti gli altri valori derivano. Entrambe le norme sono strutturate nel medesimo modo: una prima parte è rivolta a riconoscere e garantire la inviolabilità dei diritti dell’uomo (espressi dalla tradizione o man mano emergenti); una seconda parte è indirizzata a imporre (a privati e pubblici poteri) l’obbligo di solidarietà politica, economica e sociale per realizzare in fatto il pieno sviluppo della persona umana. In particolare, il vincolo di so44

Sull’idea del primato della persona umana convergevano le ideologie fondamentali che diedero vita alla Carta, anche se le giustificazioni erano diverse: per i cattolici, rappresentava la “trascendenza” della persona, espressiva della divinità; per i marxisti, indicava l’approdo alla “scomparsa dello Stato” nella fase finale del comunismo; per i liberali e laici in genere, significava la “garanzia dei diritti” degli uomini verso lo Stato. Secondo l’immagine che fu data della Carta, la stessa si presentava come una “piramide rovesciata” con un criterio di socialità progressiva: l’uomo è considerato prima nella sua individualità, poi all’interno delle comunità minori, quindi nell’ambito del lavoro e infine dentro la comunità politica; segue quindi la organizzazione statale. 45 Con la fondamentale sent. 29-12-1988, n. 1146, la Corte ha affermato che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale “principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”.

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lidarietà dell’art. 2, da un lato, favorisce la partecipazione di tutti i consociati allo sviluppo del paese; dall’altro, vale a fronteggiare le posizioni di disuguaglianza, imponendo a ognuno il necessario supporto al superamento dello svantaggio altrui. L’art. 3, da un lato, fissa il divieto di discriminazioni (co. 1); dall’altro, impone azioni positive di favore verso posizioni svantaggiate (co. 2) (v. appresso II, 7.3): così l’intervento pubblico di aiuto diviene sostegno dello stesso principio di uguaglianza. Si delinea uno Stato sociale di diritto (v. appresso II, 7.8): ne sono significative espressioni il divieto di svolgere attività economiche in contrasto con l’utilità sociale e la dignità umana (art. 41), la funzione sociale della proprietà (art. 42 Cost.), il diritto del lavoratore ad una retribuzione in grado di assicurare una vita familiare libera e dignitosa (art. 36), l’attuazione di più diritti sociali pretensivi (quali il diritto alla salute, all’istruzione, al gratuito patrocinio), la progressività tributaria (art. 53) 46. Con la modifica degli artt. 9 e 41 Cost. (ad opera della L. cost. 11.2.2022, n. 1) l’ambiente ha assunto direttamente rilevanza costituzionale. I principi si irradiano sull’intero ordinamento, incidendo anche sul diritto privato: emerge una normativa costituzionale del diritto privato, sicché il codice civile e i testi normativi complementari vanno riletti alla luce della Carta costituzionale (si parlerà a lungo della evoluzione del principio di buona fede nella dimensione della solidarietà sociale: II, 7.5).

8. Segue. Il pluralismo ordinamentale e sociale. – Come portato dei nuovi valori ordinatori della società, è erosa la visione statalista del diritto che aveva contrassegnato l’epoca precedente, per cui il diritto si esauriva nella legge statale. C’è la fiducia del costituente nelle autonomie locali e nelle formazioni sociali, quali luoghi di svolgimento della persona umana, sicché la Repubblica deve favorirne la formazione e valorizzarne la vita democratica, tutelando le istanze dei gruppi e l’interesse dei singoli nei gruppi (art. 2, 2a parte). Vi è un’attenzione privilegiata alle comunità nelle quali l’uomo, sin dalla nascita, è inserito e poi liberamente si dispiega: gli statuti delle varie comunità (private e pubbliche) regolano i rapporti di appartenenza, con la previsione di regole di comportamento e la comminatoria di sanzioni in ragione della natura delle singole aggregazioni; solo l’irrogazione della pena della carcerazione, per l’afflizione fisica che comporta, è riservata alle strutture giudiziarie statali, a seguito di un giusto processo (artt. 25 e 111 Cost.). L’ispirazione pluralistica si esprime in due direzioni: ordinamentale e sociale. a) Il pluralismo ordinamentale (in senso stretto) sviluppa l’esperienza delle autonomie all’interno dell’ordinamento giuridico statale. Il criterio si lega alla dottrina della c.d. “pluralità degli ordinamenti” che aveva avuto già modo di considerare il coordinamento dell’ordinamento statale con il diritto convenzionale della comunità internazionale e con l’ordinamento della Chiesa cattolica: prospettive riprese e regolate dalla Carta repubblicana 47. 46 Secondo l’efficace immagine di SANTI ROMANO, “il diritto costituzionale è il tronco di un albero da cui si diramano le varie partizioni del diritto come singoli rami”. La Costituzione si configura come il tronco di un albero ad alto fusto da cui si dipartono molti rami, metaforicamente diritto pubblico, diritto amministrativo, diritto privato, diritto penale, diritto tributario, ecc., la cui linfa si ricollega al tronco. 47 Nella prospettiva internazionale, per l’art. 101 Cost., l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute; e per l’art. 11 Cost., l’Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. Secondo

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In tale ordine di idee si sviluppa un pluralismo istituzionale caratterizzato dall’articolazione del potere e delle decisioni in più strutture. Sono valorizzate le autonomie locali, accordando rilevanza giuridica ai rispettivi statuti: per l’art. 5 Cost., la Repubblica riconosce e promuove le autonomie locali; per l’art. 1142 Cost., i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione 48; per l’art. 117 le Regioni hanno potestà legislativa concorrente con lo Stato in particolari materie ed esclusiva nelle materie non espressamente riservata alla legislazione statale. Un peculiare campo di azione di tale esperienza è quello del fenomeno sportivo e delle relative articolazioni 49. L’autonomia dei singoli ordinamenti non importa separatezza degli stessi: la varietà di discipline è in ragione delle specifiche materie oggetto di regolazione; ogni statuto è assoggettato alla normativa costituzionale e comunitaria e alle normative di cornice e di competenza esclusiva nazionali. b) Il pluralismo sociale si è atteggiato dapprima come pluralismo politico e delle organizzazioni degli interessi dei gruppi. È stato visto come espressione di favore per le formazioni sociali giuridicamente rilevanti, valutate come mezzi privilegiati di sviluppo della persona umana (art. 2 Cost.). A tale atteggiamento si connette una imitazione del diritto statale in favore degli statuti dei gruppi (II, 7.3; IV, 3.1). Più di recente il pluralismo sociale si è aperto alle specificità dei soggetti reali, non solo attraverso l’attribuzione di diritti sociali che si affiancano ai tradizionali diritti civili, ma anche con l’attenzione alle particolarità identitarie delle persone: rilevano le connotazioni umane, le affettività di genere, le formazioni culturali e religiose e i percorsi personali di vita, attraverso una perenne costruzione della coesione sociale alimentata dal basso. Una correlazione di cittadinanza attiva e di responsabilità civica attraversa la relazionalità sociale e sostiene la convivenza civile. Sullo sfondo c’è la storia di un costituzionalismo nato e sviluppatosi come diritto interno statale (lo spazio della sovranità), presidiato dalla cittadinanza statale, e che tende a diventare universale per inerire alla dimensione esistenziale degli uomini: c’è una comune umanità al fondo del costituzionalismo dell’attualità.

9. Capacità e attività di diritto privato della pubblica amministrazione. – Coerentemente con le idee sopra delineate è in corso una progressiva attribuzione agli enti pubblici di qualificazioni e prerogative proprie dei soggetti privati, coinvolgenti la capacità e l’attività della pubblica amministrazione. l’art. 1171 Cost. “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Nei rapporti con le confessioni religiose, è accordata rilevanza costituzionale ai “patti lateranensi” (art. 7 Cost.) e sono previste “intese” con le altre confessioni religiose (art. 8 Cost.). 48 Cfr., L. 5.6.2003, n. 131, Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla L. cost. 18.10.2001, n. 3; D.Lgs. 18.8.2000, n. 267, Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali. 49 Per l’art. 1 D.L. 19.8.2003, n. 220 (Disposizioni urgenti in materia di giustizia sportiva), conv. con modif. con L. 17.10.2003, n. 280, la Repubblica riconosce e favorisce l’autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale, quale articolazione dell’ordinamento sportivo internazionale facente capo al Comitato Olimpico Internazionale; i rapporti tra l’ordinamento sportivo e l’ordinamento della Repubblica sono regolati in base al principio di autonomia, salvi i casi di rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo.

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a) Quanto alla capacità, per l’art. 11 c.c. le province, i comuni e gli enti pubblici riconosciuti come persone giuridiche godono dei diritti secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico 50. Manca il riferimento allo Stato, ma è opinione unanime che tutte le amministrazioni pubbliche, compresa quindi quella statale, godano di diritti e sono dunque dotate di capacità generale di diritto privato 51. Tutti gli enti pubblici sono dotati di personalità giuridica 52, mentre gli enti privati possono essere o meno dotati di personalità giuridica. Sul modello della capacità riconosciuta ai soggetti privati e agli enti privati, la capacità di diritto privato della pubblica amministrazione consiste nell’attitudine della stessa ad essere titolare di diritti e doveri (capacità giuridica) e di compiere atti giuridici (capacità di agire) (IV, 3.5). Perciò tutta la normativa di diritto privato (contenuta nel codice civile e in norme complementari) è di regola applicabile agli enti pubblici, tranne che norme particolari non vi deroghino espressamente. È conseguito da ciò (come si vedrà) che fondamentali categorie del diritto privato – come il dovere di buona fede, il principio del neminem laedere, la protezione del contraente nei contratti predisposti da una sola parte – siano state applicate dalla giurisprudenza nei confronti delle pubbliche amministrazioni. Una persona giuridica pubblica può essere nominata amministratore di sostegno (art. 408, ult. co.). b) Quanto all’attività, all’esito di un percorso di elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, la riscrittura dell’art. 1 della L. 7.8.1990, n. 241, relativo ai “principi generali dell’attività amministrativa” (ad opera dell’art. 1 della L. 11.2.2005, n. 15 e poi dell’art. 7 L. 69/2009) ha fissato alcuni fondamentali principi: l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell’ordinamento comunitario (art. 11); la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga 50 La capacità della pubblica amministrazione di stipulare contratti, correlata alla soggettività giuridica riconosciuta ex art. 11 c.c., sussiste quando sia esercitata conformemente alle procedure definite dal legislatore e alla delibera autovincolante per l’amministrazione, per il perseguimento di finalità di pubblico interesse (Cons. Stato 1-3-2010, n. 1156). 51 Ha rilevato M.S. GIANNINI (1950) che “l’ente pubblico è prima di tutto un ente (inteso come soggetto agente secondo il diritto comune), poi è pubblico”; e ha osservato A. FALZEA (1939) che “la qualità di soggetto giuridico non consiste in altro, se non nella posizione, in parte attuale e nella maggior parte potenziale, di destinatario degli effetti giuridici di un ordinamento, senza distinzioni od esclusioni di campi”. La giurisprudenza è ormai concorde nel riconoscere che “la capacità di diritto privato delle persone giuridiche è potenzialmente generale”, ma per gli enti pubblici incontra “il limite della competenza attribuita all’ente, che è delimitata da norme qualificabili come imperative” ai sensi dell’art. 1418 c.c., sicché la loro violazione comporta la radicale invalidità dell’atto compiuto dall’ente, in quanto affetto da incapacità negoziale (Cass. 21-4-2000, n. 5234). E ancora: “i divieti posti alle persone giuridiche pubbliche di svolgere determinate attività non toccano la capacità giuridica dell’ente, intesa come ‘astratta attitudine ad acquistare diritti ed a contrarre obblighi’, ma si configurano come limitazioni della legittimazione negoziale” (Cass. 10-6-1981, n. 3748). 52 La qualificazione come pubblica amministrazione di un’istituzione può risultare da forme diverse, potendo ricorrere per effetto del riconoscimento della personalità giuridica di diritto pubblico che rende l’istituzione un ente pubblico o anche allorquando l’istituzione si presenti come un’articolazione di una pubblica amministrazione, ovvero di un ente pubblico, eventualmente dotata di una soggettività distinta da esso, nel senso che sia abilitata ad agire senza il suo tramite, sebbene sempre per realizzare i suoi fini (Cass., sez. un., 8-9-2016, n. 17751; anche n. 17754).

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diversamente” (art. 11bis); i rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai principi della collaborazione e della buona fede (art. 12bis, comma aggiunto dall’art. 121, lett. 0a), D.L. 16.7.2020, n. 76, conv. con L. 11.9.2020, n. 120). Il procedimento deve svolgersi in una ragionevole durata (art. 2), e il provvedimento deve essere motivato (art. 3) 53. Le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’art. 11ter sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento (art. 2 bis) 54. Si è anche affermata una responsabilità civile della P.A. connessa ad attività provvedimentale illegittima 55. Gli enti pubblici economici vengono soggetti ad una disciplina di diritto privato 56. In una diversa angolazione sta imponendosi la consapevolezza che anche l’attività della P.A. debba esplicarsi in modo efficiente. Opera un metodo di contabilità parallelo a quello degli organismi privati 57, per cui le pubbliche amministrazioni agiscono secondo disposizioni di legge nel rispetto dell’equilibrio dei bilanci 58 e della sostenibilità del debito pubblico. Quando gli enti pubblici agiscano mediante strumenti di diritto privato (precipuamente i contratti), c’è da coniugare il principio dell’autonomia privata, improntato all’autodeterminazione e alla libertà di perseguimento degli interessi, con il principio di legali53 Il dovere di motivare i provvedimenti amministrativi rappresenta espressione dei principi di pubblicità e trasparenza che, ex art. 1 L. 241/1990, sovraintendono all’intera attività amministrativa, in quanto diretti ad attuare sia i canoni costituzionali di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), sia la tutela di altri interessi costituzionalmente protetti, come il diritto di difesa nei confronti della stessa amministrazione (Cons. Stato 13-1-2021, n. 414). 54 Le pubbliche amministrazioni e i soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento (art. 2 bis); l’azione amministrativa, anche se indirizzata alla repressione di condotte illecite, non si sottrae ai principi di economicità, adeguatezza ed efficacia allo scopo perseguito, sanciti dall’art. 1 L. 241/1990 che si riflettono sulla ragionevole durata del procedimento (Cons. Stato 14-2-2022, n. 1081). 55 Pur confermandosi la c.d. pregiudizialità amministrativa, l’amministrazione deve essere convenuta davanti al giudice ordinario in tutte le ipotesi in cui l’azione risarcitoria costituisca reazione alla lesione di diritti incomprimibili (come la salute o l’integrità personale), ovvero quante volte la lesione del patrimonio del privato sia l’effetto indiretto di un esercizio illegittimo o mancato di poteri, ordinati a tutela del privato (ad es. nell’ipotesi di occupazione “usurpativa”) (Cass., sez. un., 13-6-2006, n. 13659). 56 È irrilevante il fatto che gli enti pubblici economici “perseguano le proprie finalità istituzionali mediante un’attività disciplinata in tutto o in parte dal diritto privato” (Cass., sez. un., 22-12-2003, n. 19667). Con L. 9.1.2008, n. 2, la Società italiana degli autori e editori (SIAE) è configurata ente pubblico economico a base associativa, la cui attività è disciplinata dalle norme di diritto privato; anche le controversie concernenti le attività dell’ente sono devolute alla giurisdizione ordinaria. 57 La L. cost. 20.4.2012, n. 1, introduce il principio di “pareggiamento di bilancio”, modificando l’art. 81 Cost. nel senso che “lo stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico”, e modificando l’art. 119 Cost. nel senso che “i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci”. 58 L’equilibrio di bilancio, lungi dal rappresentare un mero dato ragionieristico, è stato concepito e riguardato come “bene pubblico” nel senso che è funzionale a sintetizzare e rendere certe le scelte dell’ente pubblico, in ordine all’acquisizione delle entrate e alla individuazione degli interventi attuativi delle politiche pubbliche (art. 81 Cost.); è una “clausola generale” del sistema contabile, in funzione dei principi di solidarietà sociale (art. 2 Cost.), di pluralismo e di autonomia (art. 5 Cost.), di concorso al sostegno della spesa pubblica (art. 53 Cost.), di eguaglianza formale e sostanziale (art. 3 Cost.) (Corte cost. 20-7-2016, n. 184; sent. 192/2012).

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tà dell’azione pubblica, per cui i pubblici uffici sono organizzati secondo “disposizioni di legge” in modo che siano assicurati il “buon andamento” e la “imparzialità” dell’amministrazione (art. 97 Cost.), al fine del perseguimento di interessi pubblici 59. L’intreccio dei due profili è reso possibile dal dovere di osservanza di un procedimento di evidenza pubblica, che è un procedimento interno all’ente, che precede la stipula dell’atto negoziale ed è svolto secondo scansioni fissate dalla legge al fine di garantire la realizzazione dell’interesse pubblico. La procedimentalizzazione amministrativa (cioè il susseguirsi concatenato e formalizzato di atti tipici da parte della pubblica amministrazione) nella determinazione dell’interesse da realizzare, nonché nella individuazione dei mezzi necessari allo scopo e nella scelta del contraente, consente di verificare il rispetto della legge e l’uso corretto della discrezionalità, garantendo la trasparenza dell’azione della pubblica amministrazione (che è presupposto essenziale per un controllo democratico della stessa quando compie attività di amministrazione mediante strumenti del diritto privato) 60; in tale azione opera la comune responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi 61. L’evidenza pubblica doppia la stipula privata, rappresentando la prima il presupposto della seconda ed operando la delibera amministrativa e il contratto stipulato come collegati. È inoltre riconosciuto alla pubblica amministrazione il potere di riesame del provvedimento amministrativo in autotutela, come espressione dell’interesse pubblico, che consente il ritiro del provvedimento, nella forma dell’annullamento o della revoca 62 (III, 3.4). I terreni dove maggiormente si svolge l’intreccio tra attività amministrativa di evidenza pubblica e impiego di moduli di diritto privato sono quelli dei contratti della pubblica amministrazione, specie appalti pubblici (IX, 2.2), e della costituzione di società (o partecipazione a società) della pubblica amministrazione.

10. Il diritto privato europeo. – Una esperienza giuridica europea si è formata nel tempo e proviene sin dal medioevo, non disgiunta da mire espansionistiche di singoli popoli, nello svolgersi di una complessa storia giuridica europea (v. sopra par. 2). 59

Per l’art. 3, lett. d, D.Lgs. 18.4.2016, n. 50 (codice dei contratti pubblici), si intende per “organismi di diritto pubblico”, qualsiasi organismo, anche in forma societaria, il cui elenco non tassativo è contenuto nell’allegato IV. 60 L’ordinamento comunitario ha valorizzato il principio della imparzialità della pubblica amministrazione anche come divieto di discriminazione tra soggetti in ragione della provenienza nazionale al fine di realizzare un mercato unico effettivamente concorrenziale. Come si vedrà, la pubblica amministrazione, quando fa uso della capacità di diritto privato e dunque opera nel mercato, è soggetta alle regole di tutela della concorrenza e del mercato (II, 6.4). 61 La responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi, sia da illegittimità provvedimentale che da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, ha natura di responsabilità da fatto illecito aquiliano e non di responsabilità da inadempimento contrattuale; è pertanto necessario accertare che vi sia stata la lesione di un bene della vita, mentre per la quantificazione delle conseguenze risarcibili si applicano, in virtù dell’art. 2056 c.c. – da ritenere espressione di un principio generale dell’ordinamento –, i criteri limitativi della consequenzialità immediata e diretta e dell’evitabilità con l’ordinaria diligenza del danneggiato, ex artt. 1223 e 1227 c.c., e non anche il criterio della prevedibilità del danno ex art. 1225 c.c. (Cons. Stato, ad. plen., 23-4-2021, n. 7). 62 Il decorso di un significativo lasso temporale (ad es. un periodo di oltre dieci anni) tra l’adozione di un provvedimento ed il ritiro in sede di autotutela determina un legittimo affidamento in ordine alla stabilità del provvedimento (Cons. Stato 20-8-2008, n. 3984).

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a) L’Europa quale istituzione è maturata più di recente, dopo le tragedie della seconda guerra mondiale, nutrita delle idee forti di pace e di civile convivenza e di rispetto della persona umana, che attingono alla tradizione del cristianesimo che aveva pervaso la società medievale e ai principi illuministici dello Stato di diritto affermatisi nell’età moderna, intrecciandosi con le matrici culturali comuni greco-latine della civiltà occidentale. Falliti l’ideale di una unità politica ed anche l’obiettivo di una federazione europea 63, più filoni di pensiero si sono intrecciati verso un processo di integrazione europea economica e sociale e in prospettiva politica 64 (in seguito si parlerà dell’attuale organizzazione normativa europea, trattando delle fonti del diritto: I, 3.6). L’U.E. ha aderito alla Convezione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4.11.1950 (rat. e resa esec. con L. 4.8.1955, n. 848), cui sono seguiti vari protocolli: i diritti fondamentali della Convenzione fanno parte del diritto dell’Unione in quanto “principi generali”; anche se l’adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati (art. 62,3 TUE) 65. L’U.E. ha riconosciuto la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, approvata a Nizza nel 2000 e confluita nel Trattato di Lisbona, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati, senza però estendere le competenze dell’Unione definite nei trattati (art. 61 TUE). È maturata una “Europa dei diritti”, in cui la dignità della persona umana, correlata alla solidarietà, è valore essenziale di coesione dell’unificazione giuridica. Si è delineato un acquis communautaire, quale insieme di principi giuridici ed obiettivi politici che accomunano e vincolano gli stati membri. b) Sta anche emergendo una “Europa del diritto”, legiferante regole uniformi di attribuzione di diritti e di condotte economiche e organizzative. Si vedrà come, affianco al diritto convenzionale, si sta dilatando il diritto derivato, che tocca versanti sempre più ambi della vita civile, sociale e economica. L’evoluzione del sistema giuridico europeo è sempre maggiormente opera delle Corti europee, specie attraverso il c.d. “rinvio pregiudiziale” (la Carta costituzionale, con gli artt. 10 e 11, si era aperta alle regole della vita 63 Era l’idea del “Manifesto di Ventotene”, che aveva come titolo “Per un’Europa libera e unita”, redatto da Altiero Spinelli e Ernesto Rossi durante il loro confino nell’isola pontina (uscito clandestinamente nel 1941), e che ispirò nel 1943 la formazione del Movimento federalista europeo. 64 Il primo approccio alla cooperazione europea in senso moderno avveniva con il Trattato di Parigi del 1951 istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), che sottoponeva sotto un’unica autorità la produzione carbo-siderurgica dei vari paesi, essenziale fattore di sviluppo economico dell’epoca, con lo scopo anche di mettere insieme le materie prime dell’armamento e così evitare ulteriori scontri bellici. Dopo vari progetti di integrazione e unificazione, veniva firmato a Roma il 25.3.1957 il Trattato istitutivo della Comunità economica europea (CEE) (nota come “mercato comune”) con alcuni obiettivi importanti: la libera circolazione di beni, persone e capitali, cui si affiancavano l’unione doganale, la tariffa unica verso l’esterno, una politica commerciale e agricola comune, la valorizzazione delle aree sottosviluppate. L’Atto unico Europeo del 17.2.1986 fissava l’obiettivo di creare un mercato interno e unico europeo anche di servizi e capitali. Il Trattato di Maastricht del 7.2.1992 istituiva l’Unione europea (U.E.); il 1° gennaio 2002 nasceva l’euro come moneta unica europea, anche se non tutti i paesi (es. Gran Bretagna) partecipavano all’eurozona. È seguito il Trattato di Amsterdam del 2.10.1997, con specifica attenzione ai diritti dell’uomo, all’occupazione e alle posizioni sociali deboli. 65 La Convenzione sui diritti dell’uomo (conclusa a Roma nel 1950) ha un proprio sistema di garanzia affidato alla Corte europea dei diritti dell’uomo con sede a Strasburgo; in virtù della detta adesione l’Unione deve sottoporsi alla Convenzione sui diritti dell’uomo con una conseguente modifica del proprio sistema di garanzia, sicché anche la Corte di giustizia U.E. è costretta ad uniformarsi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, che diventa la suprema corte giurisdizionale per il rispetto dei diritti fondamentali.

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internazionale) (I, 3.6). Uno strumentario logico e lessicale del diritto romano attraversa la cultura giuridica europea orientando dialoghi e scelte. L’Europa si presenta oggi come espressiva di uno spazio comune dove circolano persone, lavoro, capitali, cose, merci, servizi, diritti, in un quadro normativo di economia sociale di mercato. L’adozione dell’euro quale moneta unica europea ha comportato la cessione della sovranità nazionale nella politica monetaria, con la definizione delle istituzioni europee del patto di stabilità e crescita europea. In seguito, si parlerà del diritto europeo tra le fonti del diritto (I, 3.6). c) È in atto un processo di formazione di un diritto privato europeo attraverso un duplice percorso: da un lato, con la formazione di un diritto dell’Unione europea e cioè di una disciplina uniforme del diritto privato proveniente dall’alto, attraverso le Convenzioni europee (diritto europeo convenzionale) e l’intervento normativo delle istituzioni europee (diritto europeo derivato) (I, 3.6); dall’altro, con la elaborazione di un diritto comune e cioè di un insieme di criteri e categorie uniformi provenienti dal basso, mediante l’opera di centri culturali, studiosi e operatori del diritto. Il diritto privato europeo si atteggia quale insieme di principi e valori generali e di principi riferiti a singoli settori, che stimolano la modernizzazione degli ordinamenti nazionali (si pensi alla riforma del BGB del 2001-2002, alla riforma del code civil francese del 2016-2018); tali principi rappresentano un riferimento nella interpretazione non solo di disposizioni europee ma anche del diritto interno dei singoli Stati, funzionando come criteri di soluzione delle controversie, sia in sede giudiziale che negli arbitrati specie internazionali 66. Ormai tutti i settori del diritto privato sono in qualche modo attraversati dalla forza unificatrice del diritto europeo. Gli interventi necessariamente settoriali e frammentari delle istituzioni europee mettono a dura prova la organizzazione di un “diritto privato generale”. Talvolta si dà luogo alla formazione di un diritto strumentale uniforme che assicura la certezza di giurisdizione e la circolazione dei provvedimenti giudiziari in ambito europeo. Più spesso si dà luogo a normative di diritto materiale uniforme, con la regolazione uniforme di singoli settori. È emerso un diritto europeo dei contratti e dei consumatori, destinato a formare il nucleo forte di un futuro (eventuale) codice europeo di diritto privato. Come si vedrà, le varie direttive europee che si sono succedute hanno determinato la graduale sedimentazione di complesse normative a tutela del consumatore e relativamente ai contratti dei consumatori 67, principalmente confluite nel codice del consumo (D.Lgs. 6.9.2005, n. 206), continuamente emendato (v. appresso). Sono anche emerse nuove figure di responsabilità civile (come ad es. la responsabilità del produttore). Si aggiunga una nutrita normativa in materia di servizi e con riguardo al mercato e alla concorrenza; sono 66

È da tempo in corso l’aspirazione alla formazione di un codice civile europeo, attraverso progetti elaborati da scuole giuridiche europee. Allo stato sono fondamentali i Principi di diritto europeo dei contratti (PECL) del 1995, i Priciples of international commercial contracts (PICC) Unidroit del 2016 e il Draft Common Frame of Reference (DCFR) del 2008-2009, che è il progetto più complesso per contenere un insieme coordinato di regole relative a contratti, proprietà e responsabilità civile. 67 Vedi direttiva UE/2019/771 sulla garanzia legale di conformità e sulle garanzie commerciali per i beni di consumo (attuata con D.Lgs. 4.11.2021, n. 170); direttiva UE/2014/17 sui contratti di credito ai consumatori relativa a beni immobili residenziali (attuata con D.Lgs. 21.4.2016, n. 72).

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in corso altri significativi interventi europei di uniformazione della disciplina dei contratti. Per le operazioni compiute a mezzo internet è stata approvata la direttiva 2000/31/CE sul commercio elettronico, attuata con D.Lgs. 70/2003; rilevante anche la direttiva UE/2019/770. Ampio sviluppo ha avuto una normativa di tutela dei risparmiatori rispetto alla circolazione e alla gestione dei prodotti finanziari (v. appresso). Una normativa nutrita riguarda le società commerciali, al fine di tutela dei diritti delle minoranze, di garanzia della verità e precisione delle scritture contabili e di analiticità dei bilanci. Anche con riguardo alla proprietà, nonostante il c.d. “principio di neutralità” sancito dall’art. 345 TFUE – secondo cui “I trattati lasciano del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri” –, la previsione dell’art. 17 Carta dir. fond. U.E. fissa uno statuto base della proprietà. Più lenta è la formazione di un diritto uniforme delle persone e della famiglia, per il radicamento territoriale delle discipline nazionali (dove convergono consuetudini di vita, precetti religiosi, costumi sociali, tradizioni culturali, ecc.); sono però molte le raccomandazioni e le risoluzioni delle istituzioni europee verso un diritto uniforme e emergono principi uniformi 68. Pure in materia successoria la Commissione europea ha pubblicato il 1° marzo 2005 il libro verde “Successioni e testamenti” ove si evidenzia l’esigenza di uniformazione del diritto successorio. In tale disorganica emersione di normative europee l’attività delle Corti europee (Corte di giustizia U.E. e Corte europea dei diritti dell’uomo) elabora i formanti giurisprudenziali che circolano nei vari Stati (v. appresso).

11. Ambito attuale del diritto privato e il diritto pubblico. – Si è visto come, nella formazione degli stati moderni, la separatezza tra diritto privato e diritto pubblico si fonda su un divario tra società civile e Stato, per cui lo Stato non deve interferire con il naturale svolgersi delle relazioni private. Si è visto però come, con l’avvento della industrializzazione, la originaria forza della iniziativa individuale è erosa rispetto alla organizzazione e alla centralizzazione delle attività economiche e della società; la tradizionale idea della parità giuridica contrattuale è smentita dalla esperienza della produzione e distribuzione di massa, caratterizzata dalla predisposizione unilaterale dei contratti, cui l’altra parte può solo aderire (c.d. contratti per adesione). Anche il potere pubblico ha abbandonato la posizione di estraneità rispetto allo svolgersi delle relazioni economico-sociali, intervenendo nella sfera dei rapporti privati per orientare lo sviluppo sociale in funzione di benessere generale 69. È in atto una progressiva sinergia tra diritto privato e diritto pubblico, che ne ridisegna le sfere. 68 Con la Convenzione Edu del 1950 ha inizio una normazione europea per principi delle relazioni familiari (artt. 8 e 12), proseguita dalla Carta dir. fond. U.E. di Nizza del 2000 (artt. 7 e 9). In sostituzione del Reg. n. 1347/2000 del 29.5.2000 (c.d. Bruxelles 2), veniva approvato il Reg. n. 2201/2003 del 27.11. 2003 (c.d. Bruxelles 2 bis), che introduce la emblematica previsione di una “responsabilità genitoriale”, incidente nella configurazione delle relazioni familiari. Con il Reg. UE/1111/2019 è intervenuto “Il nuovo regime di circolazione dei provvedimenti cautelari ed urgenti in materia di famiglia”. 69 È un intervento che si snoda in più direzioni: ad es. incentiva certe aree geografiche disagiate e favorisce l’accesso a determinati beni di prima necessità; regola lo statuto di certi beni di interesse generale (es. beni artistici o ambientali) e controlla la gestione dei mezzi di produzione (per l’impatto sulla società); partecipa a società con privati, assume la gestione di servizi di pubblica utilità (es. sanità, trasporti).

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a) Resiste il criterio distintivo ulpianeo fondato sulla natura degli interessi regolati, per cui al diritto pubblico inerisce la cura dell’interesse generale, mentre al diritto privato è demandata la realizzazione degli interessi particolari (degli individui e dei gruppi) 70. È bene precisare che pure il diritto privato ha un fondamento di tutela nell’interesse generale della società, ritenendosi che il perseguimento degli interessi individuali, oltre che nutrire i diritti di libertà, sia anche maggiormente in grado di assicurare la produttività dei beni e la collocazione ottimale dei prodotti, che si riverberano a beneficio della società. b) Ha assunto rilevanza un criterio che ha riguardo alla tipologia dei mezzi per il perseguimento degli interessi, in ragione della natura degli strumenti utilizzati, se connessi a poteri autoritativi di sovranità o affidati a meccanismi di parità giuridica. Il meccanismo dell’autorità pubblica impegna istituzionalmente il diritto pubblico e realizza interessi generali; mentre il meccanismo della parità giuridica involge il diritto privato e realizza interessi particolari (di singolo o di gruppo). L’interesse generale è però realizzabile, oltre che con i meccanismi istituzionali del diritto pubblico (espressivi di sovranità), anche con gli strumenti del diritto privato (esplicativi di parità giuridica). Molto spesso, interessi di carattere generale possono essere realizzati con maggiore efficienza mediante strumenti di diritto privato: ad es., volendo la P.A. acquisire un’area per realizzare un’opera pubblica, può imporre un provvedimento di espropriazione oppure ricorrere a un contratto di compravendita; ancora, avendo urgenza di realizzare un presidio di forza pubblica o un posto sanitario o un plesso scolastico, può assumere un provvedimento amministrativo di requisizione di un edificio dal proprietario oppure stipulare un contratto di locazione con il proprietario dell’edificio. Spesso l’attività dello stato o di enti pubblici in economia è svolta con l’impiego di strumenti di diritto privato, quali principalmente il contratto e la società 71: è il percorso proprio dei contratti della pubblica amministrazione e delle società partecipate (di cui appresso). È diffusa l’esperienza di società con prevalente partecipazione pubblica per la gestione dei servizi pubblici di rilevanza economica (c.d. società in house): sono organismi di struttura privatistica che perseguono interessi pubblici 72. Quando è imboccata la strada del diritto privato, si dà luogo ad accordi tra pubblica amministrazione e privati con moduli negoziali 70 Secondo il celebre passo di Ulpiano: “Publicumjus est quod ad statum rei romanae spectat; privatum, quod ad singulorum utilitatem” (Dig. 1.1.1.2). Tale ripartizione resisterà a lungo nel pensiero giuridico. Minor seguito ha ricevuto la formulazione di Cicerone che radicava la distinzione nella fonte di provenienza del diritto: lex, senatus consultum, foedus nel diritto pubblico per riferirsi al populus; mentre tabulae, pactum conventum, stipulatio nel diritto privato per riflettere i privati. 71 Talvolta l’ente pubblico prende esso stesso la forma privatistica (specie s.p.a.), adottando atti che tendono a mutuare dal diritto privato i singoli effetti; talaltra l’ente pubblico rimane tale sul piano soggettivo, ma ricorre al diritto privato nell’esplicazione dell’attività. Nella prima ipotesi c’è vestimentum privatistico dello stesso ente; nella seconda ipotesi vestimentum privatistico della sola attività. 72 Il D.Lgs. 19.8.2016, n. 175 (t.u. in materia di società a partecipazione pubblica) detta regole per la costituzione di società da parte di amministrazioni pubbliche, nonché l’acquisto, il mantenimento e la gestione di partecipazioni da parte di tali amministrazioni, in società a totale o parziale partecipazione pubblica, diretta o indiretta. L’affidamento di servizi pubblici a una società in house ha natura ordinaria e non eccezionale e la relativa decisione dell’amministrazione, ove motivata, sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salva l’ipotesi di macroscopico travisamento dei fatti o di illogicità manifesta (Cons. Stato 18-7-2017, n. 3554).

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funzionali all’esercizio dell’attività amministrativa di realizzazione dell’interesse generale: la tecnica del consenso assurge a schema dialogico nell’esercizio della potestà pubblica. Per converso, con la valorizzazione dei diritti umani, si va ampliando la materia riferita al diritto privato, che ormai è possibile delineare nella duplice direzione di diritto privato patrimoniale (di più antica tradizione) e diritto privato non patrimoniale (di più recente emersione), con categorie giuridiche di riferimento di differente indole: nella prima direzione, caratterizzato da conflitti economici, sono attrattive le figure di proprietà, contratto, impresa, società e mercato; nella seconda direzione, connotata da dimensioni esistenziali, sono al centro le figure di persona, famiglia e associazionismo. È diffusa l’esperienza dell’impiego da parte dei privati di strumenti di diritto privato per la realizzazione di interessi generali: è il mondo del volontariato e del non profit (c.d. terzo settore o privato sociale) che realizza interessi sociali con strumenti privatistici. In definitiva, si è in presenza del diritto privato quando i soggetti, compresi lo stato e in genere l’ente pubblico, si comportano su un piano di parità giuridica, senza operare poteri autoritativi. Si è in presenza del diritto pubblico quando lo Stato e in genere l’ente pubblico si avvalgono della potestà pubblica di imperio esercitando poteri autoritativi che la legge conferisce per la realizzazione di interessi generali. Il diritto privato ha nel tempo acquisito la connotazione di diritto comune ai soggetti privati e ai soggetti pubblici, quando questi ultimi operino su un piano di parità giuridica con i privati. Le discipline relative a contratti, obbligazioni, proprietà, responsabilità civile, trovano applicazione sia ai soggetti privati che ai soggetti pubblici (tranne che, per qualche ragione, non assuma rilevanza la qualificazione pubblica di qualche profilo, come ad es. la condotta penalmente rilevante del funzionario che ha compiuto l’atto). c) Una ulteriore distinzione risiede nella tipologia delle di sanzioni. La violazione del diritto pubblico fa scattare, anche di ufficio (e dunque automaticamente) la sanzione, che può consistere anche nella coercizione fisica per la violazione di alcune norme di diritto penale (previo controllo dell’autorità giudiziaria che l’irroga); viceversa la violazione di una norma di diritto privato comporta, di regola, la reazione dell’ordinamento su impulso e richiesta del privato (di regola del soggetto leso), e la sanzione è di carattere economico o di ripristino (previo controllo dell’autorità giudiziaria che l’irroga). In molti paesi dell’area del common law (es. Inghilterra), più spesso il potere pubblico persegue interessi generali ricorrendo agli strumenti del diritto privato, rilasciando l’intervento autoritativo amministrativo alla tutela di esigenze fondamentali dello Stato (ad es., la sicurezza pubblica, la difesa dello stato, ecc.). Per una generale circolazione dei modelli giuridici anche da noi è in corso una espansione degli strumenti privatistici, specie nel settore dei servizi pubblici 73.

12. Il diritto dei privati. – Accanto al diritto dettato dallo Stato per i rapporti tra privati, pulsa un diritto espresso dagli stessi privati nei gruppi come nell’esplicazione delle relazioni commerciali. 73 L’art. 2 del D.Lgs. 6.9.2005, n. 205, prevede, tra i fondamentali diritti del consumatore, quello alla “erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza”. Già la L. 14.11.1985, n. 481, garantiva la promozione della concorrenza e dell’efficienza nel settore dei servizi di pubblica utilità, nonché adeguati livelli di qualità nei servizi medesimi in condizioni di economicità e di redditività, assicurandone la fruibilità e la diffusione in modo omogeneo sull’intero territorio nazionale.

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a) La vita dei gruppi sviluppa una autonomia collettiva che si esplica attraverso statuti che si impongono come diritto proprio delle singole comunità, spesso presidiato da sanzioni previste dagli stessi statuti. Fondamentale limite all’esplicazione dell’autonomia collettiva è che lo statuto si riveli coerente con i valori dell’ordinamento (in particolare è essenziale il rispetto del metodo democratico interno, come presidio di attuazione della stessa funzione dell’ente di valorizzare la personalità dei partecipanti al gruppo) (IV, 3.1). Collegato all’esperienza dei gruppi è il fenomeno delle associazioni di categoria con codici di autodisciplina, non solo all’interno ma anche nei rapporti esterni dei partecipanti. Stanno emergendo con rilevanza sempre più incisiva codici deontologici apprestati dai vari ordini professionali 74. b) Nelle relazioni commerciali rilevano formulari standard nella regolazione giuridica. Dopo una lunga stagione di “diritto dell’economia”, sta riemergendo un’esperienza di “economia del diritto”. Resiste, sul piano formale della organizzazione delle fonti, il criterio che solo gli usi normativi sono fonti di diritto e dunque operanti anche contro la volontà delle parti (I, 3.9); ma l’esperienza moderna dei rapporti commerciali è sempre maggiormente espressa da contratti-tipo o attraversata da clausole di significato standardizzato che si impongono sul mercato nei contratti di massa.

13. Segue. La nuova lex mercatoria. – Si è visto come un incremento del diritto consuetudinario era già avvenuto nel medio evo, con lo sviluppo del commercio e dei traffici marittimi. L’inadeguatezza del diritto romano a regolare le nuove esigenze favorì la formazione spontanea di uno ius mercatorum per coprire i rischi di spedizioni marittime, rastrellare risparmi, consentire circolazione di capitali. Le misure protezionistiche dei sec. XVI e XVII e successivamente la statalizzazione della legge e della giustizia segnarono un regresso di tale esperienza. Ma lo sviluppo della rivoluzione industriale, attraverso produzioni e distribuzioni di massa, rendeva necessaria l’apertura dei mercati oltre i confini degli stati nazionali: da alcuni anni la globalizzazione ha ripreso a far pulsare il cuore antico dello spontaneismo del diritto, attraverso un crescente fenomeno di elaborazione privata del “diritto” usato dagli operatori economici, che si è ormai soliti qualificare come una nuova “lex mercatoria”. È l’esperienza propria del commercio internazionale, dove principalmente operano prassi e modelli contrattuali e si riflettono le varietà di fonti e tipologie di regolazioni. L’ammodernamento delle tecniche di produzione e distribuzione di massa, l’evoluzione delle capacità e modalità di erogazione dei servizi, la dilatazione dei mercati finanziari, la diffusione e velocizzazione delle linee di 74

Si pensi ai codici previsti dall’art. 20 della Conv. internaz. contro il doping nello sport del 19.10.2005 (ratif. con L. 26.11.2007, n. 230); si pensi anche ai codici i fa riferimento nella normativa contro le pratiche commerciali scorrete nell’art. 19 cod. cons. Per Cass., sez. un., 10-7-2003, n. 10842, le disposizioni dei codici deontologici predisposti dagli ordini (o dai collegi) professionali, se non recepite direttamente dal legislatore, non hanno né la natura né le caratteristiche di norme di legge, come tali assoggettabili al criterio interpretativo di cui all’art. 12 prel., ma sono espressione di poteri di autorganizzazione degli ordini (o dei collegi), sì da ripetere la loro autorità, oltre che da consuetudini professionali, anche da norme che gli ordini (o collegi) emanano per fissare gli obblighi di correttezza cui i propri iscritti devono attenersi e per regolare la propria funzione disciplinare; le suddette disposizioni vanno interpretate nel rispetto dei canoni ermeneutici ex artt. 1362 ss., risultando denunciabile, anche in cassazione, la violazione o falsa applicazione dei suddetti canoni, con la specifica indicazione di quelli disattesi.

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trasporto intermodale, favoriscono lo sviluppo di relazioni economiche tra paesi e aree del mondo sempre più diverse e lontane. Talvolta sono categorie professionali e merceologiche a predisporre singoli formulari, più spesso sono società multinazionali ad imporre tecniche comportamentali e modelli contrattuali; talaltra ancora sono istituzioni private a predisporre regole da imporsi agli operatori. Un ruolo importante in tale direzione, per la vastità della ricaduta, è svolto dal W.T.O. (Organizzazione mondiale per il commercio), ormai fonte importante di un diritto convenzionale globalizzato. Per la tensione delle imprese ad una disciplina uniforme dei contratti, si muove ed ha fortuna anche l’opera della Camera di commercio internazionale che appresta regolazioni uniformi dei rapporti più significativi degli scambi internazionali 75. Sono regole normalmente richiamate dai contratti, assumendo la forza di patti contrattuali; in assenza di richiamo, operano come usi negoziali, perciò (come si vedrà) non funzionare contro la volontà delle parti. La circolazione di tali modelli e prassi fa emergere la formazione di culture giuridiche e di principi universalmente introitati e sentiti come diritto vigente.

14. Globalizzazione e convivenza mondiale. – Le nuove tecnologie informatiche e segnatamente le telecomunicazioni accompagnano la espansione di un mercato globale che segna una mondializzazione in senso moderno. La globalizzazione non è nuova 76: di nuovo ci sono il controllo del mercato globale ad opera di singole potenze economiche multinazionali e la coscienza umana globalizzata correlata alla totalità dell’esperienza umana. Si va delineando un nuovo ordine mondiale dell’economia e dei rapporti sociali: le strategie economiche si muovono più velocemente delle scelte politiche, come dimostrano le recenti ripercussioni mondiali delle crisi finanziarie che hanno esercitato una forte pressione sulla coesione sociale. Non vi è una universalizzazione di istanze ed esigenze, ma si rafforza un fenomeno di controllo privato dell’economia: la grande impresa riesce ad imprimere una standardizzazione comportamentale che non solo si dispiega nella uniformazione contrattuale, ma involge anche la organizzazione dei mercati e l’articolazione dei rapporti di lavoro. È in gioco pure una nuova frontiera delle relazioni industriali: dopo lunghi periodi di conflitti antagonistici affiorano modelli di sindacalismo partecipativo per la salvaguardia dell’occupazione. La competizione globalizzata non è più solo nella collocazione delle merci ma si è ampliata alla erogazione dei servizi. Di recente sta emergendo anche una competizione dei saperi, con la formazione di centri elitari di cultura che sovrastano e orientano le conoscenze mondiali, come tra l’altro mostra la gara tra le grandi università private mondiali, anche attraverso l’istruzione telematica, per rappresentare la conoscenza la più penetrante ragione di sviluppo di un paese. Espressione della moderna globalizzazione è la c.d. rivoluzione finanziaria dell’e75 Sono regolazioni adottate su base convenzionale dagli operatori. Fondamentali sono le Regole internazionali per l’interpretazione dei termini commerciali (c.d. Incoterms), le Norme ed usi uniformi relativi ai crediti documentari, le Norme uniformi relative agli incassi, le Regole applicabili ai documenti di trasporto multimodale. Da qualche tempo tali regole compaiono nelle Raccolte provinciali di usi, sotto una indefinita etichetta di “Appendice”. La diffusa e costante applicazione delle stesse fa immaginare il progressivo avanzamento a usi normativi, imponendosi in tal guisa anche contro la volontà delle parti. 76 Si è visto come il XV secolo avesse già segnato una “economia-mondo”, aperta ai mercati asiatici, attraverso una più efficace produttività del trasporto marittimo.

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conomia e del capitalismo, con l’accentuazione della mobilizzazione e della dematerializzazione della ricchezza. Come si vedrà, l’economia finanziaria che consente di orientare le sorti dell’economia sovranazionale e financo l’affidabilità degli stati e dei “debiti sovrani” con la commercializzazione di titoli finanziari e la speculazione sugli stessi. Le legislazioni nazionali si rivelano inadeguate a fronteggiare una economia finanziaria globalizzata. C’è un problema di regolazione globale dei flussi finanziari, in uno con la necessità di armonizzazione delle politiche economiche con quelle fiscali. Si sviluppa nel tempo una intersecazione tra regionalismo e multilateralismo, dapprima governato da istituzioni internazionali, poi acquisito dall’autoregolazione del mondo economico. La globalizzazione, come è stata perseguita, ha prodotto diseguaglianze e rivalse che hanno inciso le basi del consenso delle società coinvolte, esercitando una forte pressione sulle politiche di liberalizzazione e favorendo un progressivo regionalismo di ritorno, con riformulazione delle catene del valore. In generale le grandi migrazioni mondiali, sull’onda della ricerca del lavoro o degli insediamenti industriali, pongono problemi di confronto tra religioni, tradizioni e culture diverse, che una democrazia pluralista e multietnica non può ignorare, ma deve armonizzare al rispetto dei valori fondamentali espressi dalle convenzioni sui diritti umani: va compiuto un generale riconoscimento delle diversità, individuando nella tolleranza 77 e nella dignità della persona umana 78 i criteri essenziali di coesistenza di diverse lingue, religioni e culture. È in atto una sfida di crash of civilizations che impone una nuova sensibilità mondiale di gestione degli scontri e di regolazione delle convivenze.

15. Azione privata conformata e azione pubblica collaborativa. – All’esito del percorso compiuto emerge una complessità del rapporto tra diritto e potere, con molte interazioni della sfera privata con la sfera pubblica. È emersa la crescita di vincoli legali all’agire dei privati e dei pubblici poteri per le necessarie azioni di bilanciamento dei valori in campo. Si delineano un’area privata sinergica con istanze e prescrizioni di rilevanza pubblica, e un’area pubblica, attraversata da visuali privatistiche di parità di condizione giuridica con l’azione del privato. 77 Sono significative le stagioni di intolleranza religiosa ed umana. Si ricordi la persecuzione dei cristiani ad opera di Diocleziano (editti del 303 d.C.). Dopo la breve parentesi della libertà di culto ad opera di Costatino (editto di Milano 313 d.C.) che valse all’imperatore a rafforzare il reclutamento militare contro Massenzio, non fu meno crudele la persecuzione delle religioni diverse da quella cristiana ad opera di Teodosio: i non cristiani sono denominati “dementi e pazzi” (editto di Tessalonica 380 d.C.). Si pensi alla esperienza delle crociate nel segno di “Dio lo vuole” per combattere il male negli uomini e conquistare la salvezza eterna. Seguirà ancora un tormentato millennio di guerre espansionistiche, intrise di fanatismi religiosi e discriminazioni razziali. Ritorna di incredibile attualità la preghiera (laica) che VOLTAIRE rivolgeva a Dio nel Trattato sulla tolleranza (1763): “Tu non ci hai dato un cuore perché ci odiassimo, e meno che mai perché ci sgozzassimo. Fà che ci aiutiamo reciprocamente a tollerare il fardello d’una vita penosa e passeggera: che le minime differenze tra le vesti che coprono il nostro debole corpo, tra le nostre lingue insufficienti, tra tutti i nostri ridicoli costumi, tra tutte le nostre leggi imperfette, tra tutte le nostre insensate opinioni, tra tutte le nostre condizioni così sproporzionate ai nostri occhi e così simili davanti a Te; che tutte le minime sfumature che distinguono gli atomi chiamati uomini non siano segnali di odio e di persecuzione; impieghiamo l’attimo della nostra esistenza a benedire in varie lingue… la Tua bontà che ci ha accordato questo attimo”. È il manifesto dell’ecumenismo laico alla tolleranza e del relativismo culturale, che la storia recente talvolta ha seguito, talaltra ignorato e spesso negletto! 78 Sono idee comuni alle ideologie laiche e alle confessioni religiose di tutti i paesi occidentali, innanzi delineate e di cui si vedranno i riflessi nei vari campi.

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a) L’azione privata interagisce con la dimensione pubblica, sia in senso attivo di incidenza del diritto privato sulle modalità di svolgimento dell’attività della pubblica amministrazione, sia in senso riflessivo di svolgimento dell’azione privata secondo vincoli pubblicistici. L’azione privata deve risultare compatibile con la realizzazione degli interessi generali e dei fondamentali valori ordinamentali della dignità umana e della utilità sociale. In molte aree è attraversata da limitazioni comportamentali, come ad es. per talune condizioni familiari e dei minori 79 ovvero per le esplicazioni dell’autonomia privata con asimmetria di potere contrattuale 80, o anche rispetto all’uso di beni di interesse diffuso 81. In settori sensibili all’uso del territorio e all’equilibrio ecologico, si sono sviluppati statuti giuridici di azione privata conformata, che deve svolgersi secondo standard predeterminati di conformità amministrativa, con riguardo alla regolarità urbanistica e edilizia 82 e alla salvaguardia della natura e dell’ambiente 83; rilevanti sono anche l’area di rispetto della continuità storica e artistica 84, e quella di apertura alla digitalizzazione 85. L’azione privata ha inoltre rilevanza in diritto penale con la previsione come reati di molti comportamenti: basta pensare ai delitti contro la persona umana (artt. 575 ss. c.p.) e ai delitti contro il patrimonio (artt. 624 ss. c.p.). Poiché tutti i cittadini sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva, secondo criteri di progressività, i redditi privati e gli atti dispositi79 Si pensi ai regimi imperativi degli stati familiari, come ad es. il regime primario di contribuzione del matrimonio (artt. 143 e 159 cc.) e dell’unione civile (art. 111 L. 20.5.2016, n. 76), ovvero l’assetto dello stato unico di figlio (art. 315 bis c.c.) e la condizione minorile che valorizza l’interesse preminente del minore nella sua integrità morale e psicofisica (art. 337 ter c.c.). 80 La problematica, già presente nel codice civile con la previsione di predisposizione di condizioni generali di contratto (artt. 1341 e 1342), ha assunto diffusa rilevanza nell’ottica di tutela dei consumatori, con una nutrita normativa europea confluita nel codice del consumo (D.Lgs. 6.9.2005, n. 206). 81 È la problematica dei c.d. “beni comuni”, ovvero di beni di interesse generale, indipendentemente dalla titolarità formale di appartenenza. È avanzata l’idea di conferimento di un potere giuridico diretto alla comunità che ne gode, con una pratica di “commoning”, traducibile con “fare comune”, secondo un’antica esperienza medievale di usi civici, cui si avrà riguardo in seguito. 82 Ad es. è introdotta una conformazione dell’edificazione attraverso una particolareggiata disciplina del permesso di costruire (D.P.R. 6.6.2001, n. 380), che riguarda gli interventi subordinati al permesso (art. 10), le caratteristiche del permesso (art. 11), l’efficacia temporale e la decadenza del permesso (art. 15). Il termine di durata del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve seguire un provvedimento dell’amministrazione, che accerti l’impossibilità del rispetto del termine (Cons. Stato 10-1-2022, n. 149). Rilevano anche altri titoli abilitativi: Comunicazione di Inizio Lavori Asservata (CILA), Segnalazione Certificata di Inizio Attività (SCIA) e Super SCIA. 83 Le attività suscettibili di incidere sull’ambiente devono svolgersi secondo i criteri e i percorsi fissati dal Codice dell’ambiente (D.Lgs. 3.4.2006, n. 152, costantemente aggiornato e integrato, da ultimo con D.L. 1.3.2021, n. 22, conv. con L. 22.4.2021, n. 55). Nella Parte II del cod. amb., artt. 4 ss., sono fissate procedure per la valutazione ambientale strategica (VAS), per la valutazione d’impatto ambientale (VIA), e per l’autorizzazione ambientale integrata (IPPC). Sono procedure amministrative di controllo con funzione di bilanciamento dell’equilibrio ambientale con lo sviluppo socio-economico. Si tenga altresì conto delle periodiche determinazioni legislative e regolamentari in materia di transizione ecologica. 84 Rilevante è il Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs. 22.1.2004, n. 42, aggiornato e integrato, da ultimo con D.L. 16.7.2020, n. 76, conv. con L. 11.9.2020, n. 120). 85 Il settore della digitalizzazione del valore certificativo dei relativi risultati è regolato dal Codice dell’amministrazione digitale (D.Lgs. 7.3.2005, n. 82, periodicamente aggiornato, da ultimo con D.L. 16.7.2020, n. 76, conv. con L. 11.9.2020, n. 120). Sono molte le normative per la transizione digitale.

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vi di beni patrimoniali hanno rilevanza per il diritto tributario: basta pensare alle imposte sui redditi (D.P.R. 22.12.1986, n. 917) e alla imposta di registro (D.P.R. 26.4.1986, n. 131). b) L’azione pubblica interagisce con la dimensione privata, sia quando adotta moduli privatistici sebbene soggetti ad evidenza pubblica, sia quando opera con criteri pubblicistici secondo i nuovi canoni di svolgimento dell’attività pubblica, di cui si è detto. Alla stregua dell’art. 12bis L. 241/1990, che fa obbligo alla pubblica amministrazione di improntare i rapporti con i privati ai principi della “collaborazione” e della “buona fede” si è affermata un’azione pubblica collaborativa. È prevista una partecipazione al procedimento amministrativo, con comunicazione al destinatario di “avvio del procedimento” (art. 7) 86, dei “motivi ostativi” all’accoglimento dell’istanza (art. 10 bis) 87 e con la formazione di “accordi integrativi o sostitutivi” del provvedimento (art. 11) 88. È in generale delineato il diritto di accesso degli interessati ai documenti amministrativi (artt. 22 ss.) 89. In sede penale sono molte le previsioni di avvisi e informazioni all’indagato, di cui fondamentale è la “informazione di garanzia” 90. Vi è poi l’ampia previsione della L. 241/1990, per cui l’azione pubblica deve svolgersi secondo fondamentali criteri privatistici di economicità ed efficacia, nel rispetto di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza (art. 11); la pubblica amministrazione non può aggravare il procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria (art. 13): tutti criteri volti ad assicurare una produttività istituzionale. Emblematica in tale direzione è la novellazione del Capo 4 della L. 241/1990 intitolato “Semplificazione dell’azione amministrativa” (artt. 14 ss.), che fissa vari strumenti di semplificazione. Fondamentale è la conferenza di servizi 91, che può essere indet86 Per l’art. 9 qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, hanno facoltà di intervenire nel procedimento. Le garanzie procedimentali non solo devono essere osservate ma devono anche essere offerte in tempo utile al soggetto interessato, così da permettergli di presentare le proprie osservazioni in una fase preparatoria, nella quale siano aperte tutte le possibili opzioni (Cons. Stato 13-1-2021, n. 41). Le norme sulla partecipazione del privato al procedimento amministrativo vanno interpretate nel senso che la comunicazione è superflua – con prevalenza dei principi di economicità e speditezza dell’azione amministrativa – quando l’interessato sia venuto comunque a conoscenza di vicende che conducono all’apertura di un procedimento con effetti lesivi nei suoi confronti (Cons. Stato 28-8-2020, n. 5263). 87 Per l’art. 10 bis, nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l’autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all’accoglimento della domanda. 88 Per l’art. 11, in accoglimento di osservazioni e proposte presentate ex art. 10, l’amministrazione procedente può concludere, senza pregiudizio dei diritti dei terzi, e in ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero in sostituzione di questo (co. 1); per sopravvenuti motivi di pubblico interesse l’amministrazione recede unilateralmente dall’accordo, salvo l’obbligo di provvedere alla liquidazione di indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato (co. 4). 89 l diritto di accesso è un diritto soggettivo con consistenza autonoma, indifferente allo scopo per cui viene esercitato; prevale sull’esigenza di riservatezza di terzi quando sia esercitato per consentire la cura o la difesa processuale di interessi giuridicamente protetti e concerna un documento amministrativo indispensabile a tali fini, non altrimenti surrogabile (Cons. Stato 9-3-2020, n. 1664). 90 Per l’art. 369 c.p.p. novell. quando il pubblico ministero deve compiere un atto al quale il difensore ha diritto di assistere, invia alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa una informazione di garanzia con indicazione delle norme di legge che si assumono violate della data e del luogo del fatto e con invito a esercitare la facoltà di nominare un difensore di fiducia. 91 La conferenza è indetta dalla pubblica amministrazione quando c’è necessita di esaminare contestual-

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ta anche su richiesta del privato interessato, quando la sua attività sia subordinata ad atti di consenso di più amministrazioni pubbliche (art. 143). Con riguardo alla erogazione di servizi pubblici, un apposito titolo introdotto nel cod. cons., racchiuso nell’art. 101, fissa il fondamentale principio che il rapporto di utenza deve svolgersi nel rispetto di standard di qualità predeterminati e adeguatamente resi pubblici (co. 2) 92. La legge stabilisce per determinati enti erogatori di servizi pubblici l’obbligo di adottare, attraverso meccanismi diversificati in relazione ai settori, apposite carte dei servizi (co. 4). In definitiva, più si amplia la rilevanza degli interessi generali, maggiormente si dilata la conformazione pubblica dell’azione privata, per la emersione di nuovi valori da realizzare; correlativamente più avvertite sono la dignità della persona umana nelle relazioni sociali e il mercato nello sviluppo economico, maggiore è la pervasività dell’azione pubblica di strumenti privatistici, per la rilevanza delle garanzie civiche e l’esigenza di produttività istituzionale.

16. Verso un diritto privato uniforme. – Dopo la stagione del diritto comparato, teso allo studio del confronto tra vari ordinamenti nazionali (e dunque statali), è da tempo in corso una lunga marcia verso un diritto uniforme, stimolata dalla mobilità di persone, capitali e merci a seguito della produzione di massa e dello sviluppo dei trasporti e delle nuove tecnologie, e rinfocolata dalla diffusione dei diritti umani. Dapprima si è sviluppato un diritto strumentale uniforme e propriamente un diritto internazionale privato uniforme, allo scopo di fissare criteri uniformi di individuazione dell’ordinamento applicabile alla fattispecie che presenti elementi di collegamento con più ordinamenti (I, 3.12). Più di recente è in atto un percorso di formazione di un diritto processuale civile uniforme, volto a delineare criteri uniformi per la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni (III, 1.8). Con l’accrescersi delle relazioni tra cittadini di paesi diversi è fortemente avvertita l’esigenza di un diritto materiale uniforme e cioè di una regolazione uniforme delle singole materie, allo scopo di realizzare maggiore certezza dei rapporti giuridici. Aree sempre più vaste del diritto privato sono regolate dal diritto convenzionale, con la stipulazione di convenzioni internazionali rese esecutive nell’ordinamento interno. Tra le convenzioni più risalenti si pensi a quelle in materia di titoli di credito 93. Spesso convenzioni internazionali sono stipulate su impulso di singole organizzazioni 94 e specificamente dell’ONU: esemplare è la Convenzione sulla vendita di beni mobili di mente i vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo o in più procedimenti amministrativi connessi riguardanti i medesimi risultati e attività (c.d. conferenza di servizi istruttoria ex art. 141,3), oppure qualora debba acquisire intese, concerti, nullaosta o assensi, di più amministrazioni (c.d. conferenza di servizi decisoria ex art. 142, 1a parte, e 14 ter9). 92 Lo Stato e le regioni, nell’ambito delle rispettive competenze, garantiscono i diritti degli utenti dei servizi pubblici attraverso la concreta e corretta attuazione dei principi e dei criteri previsti della normativa vigente in materia (co. 1). Agli utenti è garantita, attraverso forme rappresentative, la partecipazione alle procedure di definizione e di valutazione degli standard di qualità previsti dalle leggi (co. 3). 93 Convenzioni di Ginevra del 7 giugno 1930 sulla cambiale e il vaglia cambiario e sull’assegno bancario, che diedero vita al R.D. 14.12.1933, n. 1669 e al R.D. 21.12.1933, n. 1736. 94 Sono molteplici le convenzioni sulla tutela del lavoro stimolate dalla Organizzazione internazionale del lavoro (OIL).

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Vienna 95 del 1980 che, pur tra paesi caratterizzati da ordinamenti non omogenei, ha ispirato molta normativa europea e legislazioni nazionali (es. codice del consumo). In altri settori, la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali di Roma del 1950, la Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989. Delle varie convenzioni internazionali si darà conto nelle singole sedi. Allo stato, è ancora impossibile o molto difficile prefigurare un governo mondiale dell’economia e in generale una disciplina universale delle relazioni umane 96. Sono le categorie giuridiche del diritto privato e del diritto pubblico a dovere tessere la trama di principi e concetti di relazioni giuridiche sopranazionali, fissando le regole fondamentali della convivenza mondiale, improntate alla difesa dei diritti umani e alla tutela del mercato. Mentre spetta alle varie istituzioni sociali (pubbliche e private), a cominciare dalla famiglia e dalla scuola, educare alla cultura della relazionalità di convivenza umana mondiale. L’uomo moderno, che si è liberato dall’oppressione politica, non deve cadere sotto il controllo dell’organizzazione tecnologica che il mondo contemporaneo ha creato.

17. La società tecnologica. Bioetica e ecologia. – Le scienze e le scoperte scientifiche, specie quando assumono le caratteristiche di rivoluzioni tecnologiche, non si limitano ad arricchire la conoscenza ma attraversano le declinazioni della realtà materiale, come potenti fattori di modificazione della vita umana e delle relazioni sociali, ai quali gli ordinamenti stentano ad adeguarsi e fanno fatica a governare. È ormai ricorrente l’intreccio tra “principio di innovazione” che tende a fare applicazione di tutti i risultati della ricerca scientifica e “principio di precauzione” che mira a segnare limiti di intervento alla scienza 97, attraverso un percorso di interazione tra scienza, etica e diritto 98. C’è da ergere vincoli, con controlli di diritto pubblico, perché l’azione privata non sia in contrasto con l’utilità sociale o di danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, secondo un bilanciamento tra più beni. a) Con riguardo alla bioetica, il governo tecnologico della vita attraversa la persona nelle sue potenzialità e espressioni 99. È in atto una progressiva penetrazione della scienza 95 Dopo l’esperienza delle due Convenzioni dell’Aja del 1964, è maturata la Convenzione di Vienna del 1980, ratificata e resa esecutiva con L. 11.12.1985, n. 765. 96 Anche l’e-government non si può tradurre in una trasformazione digitale di consuete azioni fisiche e pratiche burocratiche, ma implica riprogettazione dei meccanismi di coordinamento organizzativo e di regolazione delle relazioni sociali attraverso un nuovo sistema di interazione tra pubblica amministrazione e società civile. 97 Le tecnologie condividono con i farmaci un medesimo destino: utili strumenti di beneficio umano (si pensi all’ausilio e recupero di funzioni fisiche assenti o perdute, ovvero di acquisizione di conoscenze), ma anche ragioni di prostrazione della persona umana, così del suo corpo (attraverso un biopotere) come della sua cultura (mediante un divario di informazioni). Nel greco antico il termine phàrmakon indicava rimedio e veleno: le due traiettorie dell’impiego utile della salubrità o dell’utilizzo nocivo della tossicità. 98 La cultura greca era solita considerare la tecnica come necessariamente correlata all’etica e all’estetica, trovando in queste un limite insormontabile. Le scoperte scientifiche non si limitano ad arricchire la società, spesso la trasformano, incidendo sul modello di vita. Perciò la scienza non può da sola determinare “diritti individuali” senza la mediazione della politica che riconosca i portati della scienza compatibili con i valori storicamente vissuti dalla società. 99 Il corpo umano è sempre più spesso avvertito come un insieme di funzioni biologiche, i cui organi possono essere sottoposti a sostituzioni e trasformazioni, come a finire la vita prospettata. L’editing genetico consente ormai di intervenire sulle sequenze del DNA, dipanandosi sullo sfondo il tormentato problema della clonazione umana, che, per certe parti del corpo, è già in atto.

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nel corpo umano attraverso lo sviluppo delle biotecnologie. Ampie applicazioni stanno facendosi con l’utilizzo del DNA in varie direzioni, dal rintraccio di autori di reati alla ricerca di genitorialità, all’intervento di genetica procreativa. Anche quando è la stessa persona a disporre del proprio corpo, emergono egualmente inquietanti interrogazioni: entro quali limiti è eticamente lecito disporre del proprio corpo? Allo stato hanno trovato una regolazione giuridica l’interruzione della gravidanza, la rettificazione di sesso e la procreazione medicalmente assistita, con la procreazione per altri (maternità surrogata); ma l’uso delle tecnologie trascina verso la eutanasia, la clonazione e forse un domani verso la procreazione meramente tecnologica 100 (V, 4.6). Una fondamentale cultura della responsabilità deve attraversare e impegnare gli operatori delle tecniche (ricercatori, sanitari, intermediari) che, a vario titolo, stimolano, plasmano e organizzano la trama bioetica. In tale logica è emerso il problema della connessione della bioetica alla eugenetica: emerge il poliedrico divario tra bioetica e ricerca, che, in una prospettiva religiosa, attinge al dilemma tra fede e scienza. b) Rispetto alla ecologia, vengono in rilievo le tecnologie di produzione intensiva inquinante e di consumo indiscriminato di suolo. A fronte del volto benefico dell’edilizia che permette il soddisfacimento di esigenze abitative, il supporto delle attività economiche, il presidio della natura e la valorizzazione dell’arte, sussiste l’impiego distorto che si svolge in più direzioni, con compromissione di ambiente e territorio, oltre che di vivibilità e bellezza dei luoghi, e come alimento delle ricchezze illecitamente formate. L’acquisito dominio (illusorio) della natura attraverso le tecnologie alimenta una spietata logica estrattiva e un’intensiva attività di fabbricazione, squassando l’armonia della natura e l’equilibrio ecologico, pur di trarre profitto 101. Affianco agli interventi di presidio del territorio e dell’equilibrio ecologico, c’è da operare in più direzioni; da un lato, vietare lo spaccio degli immobili abusivi attraverso le comminatorie di invalidità degli atti dispositivi, oltre le sanzioni penali e amministrative; dall’altro verifica il tracciamento delle risorse economiche utilizzate e dei proventi conseguiti. Il Reg. UE/2020/852 (relativo all’istituzione di un quadro che favorisce gli investimenti sostenibili) stabilisce i criteri per determinare se un’attività economica possa considerarsi ecosostenibile, anche al fine di individuare il grado di ecosostenibilità di un investimento finanziario. 100 Per la Conv. di Oviedo del 1997 sui diritti dell’uomo e la biomedicina, gli Stati contraenti sono tenuti a “proteggere l’essere umano nella sua dignità e nella sua identità e a garantire ad ogni persona, senza discriminazione, il rispetto della sua integrità e dei suoi altri diritti e libertà fondamentali riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina” (art. 1), con la prescrizione che “Il corpo umano e le sue parti non debbono essere, in quanto tali, fonte di profitto” (art. 21); per la Carta dir. fond. U.E. “ogni persona ha diritto alla propria integrità fisica e psichica” (art. 31), con il “divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro” (art. 32, lett. c). Intorno ai differenti versanti si snoda il tormentato bilanciamento tra il diritto al figlio come compimento esistenziale dell’aspirante genitore e il diritto del figlio come prerogativa della persona a nascere senza malformazioni e in equilibrio psicofisico. Fondamentale il principio solidaristico dell’art. 1 Conv. europea di Strasburgo sull’esercizio dei diritti dei fanciulli e dell’art. 2 Conv. ONU di New York del 1989 sui diritti del fanciullo, organizzato in una dimensione di alterità di tutela dell’interesse superiore del minore. 101 Sono sempre più diffuse azioni, sostenute da tecnologie, di spianare pendici dei monti, ingabbiare rovesci dei mari, riscaldare fresche valli; come anche realizzare edificazioni intensive che modificano i luoghi delle città con la realizzazione di ghetti abitativi, presto fatiscenti, che diventano incubatori di emarginazioni e disperazioni. Ad opera del grande capitale, si realizzano di sovente periferie informi, con agglomerati edilizi senza anima, riducendosi anche le occasioni delle condivisioni sociali urbane e accentuandosi la crisi delle città, già in difficoltà nel fronteggiare le sfide dell’inquinamento e della multietnica che stenta a integrarsi e diventare interculturale.

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18. Segue. La rivoluzione digitale. Piattaforme, algoritmi, tecnocrazia e diritti. – È la più coinvolgente tappa della società tecnologica per innescare una dialettica sempre più stretta tra l’uomo e la tecnica 102, con vari risvolti socio-economici 103. a) Rispetto alle tecniche utilizzate, le piattaforme (hardware e software) sono ambienti dove sono sviluppati e/o eseguiti programmi o applicazioni che, interagendo, fissano le oscure regole comportamentali di accesso e navigazione. Gli algoritmi, collegati a specifiche piattaforme, segnano lo sviluppo ordinato e finito di tali regole, con la elaborazione di passi (operazioni o istruzioni) verso un determinato risultato. La Commissione europea ha presentato il 21.4.2021 una proposta di Regolamento U.E. con regole armonizzate sull’intelligenza artificiale (IA) e con modifica di alcuni atti legislativi dell’Unione 104. La bipolarità dell’informazione, attraverso il dovere di renderla e il diritto di acquisirla, ormai si accompagna ad una fluidità della comunicazione, per cui la interconnessione telematica comporta una naturale attivazione di informazioni della persona (della sua collocazione, della sua cultura come della sua condotta), divenendo costante terminale di controlli e pressioni: sono frequenti i furti di identità (con messaggi e immagini virali) per le finalità più varie (economiche, delinquenziali, sessuali, ecc.). Attraverso l’informatica (che realizza automazione) e la telematica (che determina comunicazione) è emersa una società digitalizzata connotata dalla interazione delle reti 105, dove il ciberspazio è, ad un tempo, “spazio comune” di dialogo mondiale e “bene comune” di accesso per soggetti, gruppi e istituzioni. Informatica e telematica ostentano una oggettività di relazionalità, con coerenza logica comportamentale e comunicativa; ma la storia si ripete: anche dietro la ingegneria robotica di neutralità e inevitabilità delle scelte, operano i “padroni del vapore” che organizzano la razionalità tecnologica attraverso algoritmi pensati e calcolati per competere nei mercati della produzione e degli scambi e catturare adesioni nelle maglie istituzionali; gli agenti telematici elaborano le regole sociali e morali che orientano l’ordine dei popoli e nell’universo, in luogo del confronto ideologico e religioso degli uomini. b) C’è l’esigenza di governo dell’impatto sociale delle tecnologie digitali, sia per garan102

Si va delineando una esperienza onlife e cioè di vita che scorre immersa nelle tecnologie interattive. Si prospetta una intelligenza artificiale produttiva di un “uomo aumentato” o addirittura di un “postumano”: le istanze sociali e politiche sono necessariamente destinate ad intrecciarsi con le fedi religiose circa il senso della vita. 103 Ad es., in campo giuridico, per la razionalizzazione e circolarità della giurisprudenza, applicate al processo; in campo economico, per la valutazione del merito creditizio e del rischio, nonché in azioni di marketing per alimentare desideri e bisogni; in campo medico per diagnosi e interventi sul corpo, oltre che come sistema di comprensione delle dinamiche neurologiche. Le videosorveglianze certamente rafforzano la sicurezza, ma indeboliscono la riservatezza. 104 Per l’art. 1 del Progetto, il Regolamento stabilisce: a) regole armonizzate per l’immissione sul mercato, la messa in servizio e l’uso dei sistemi di intelligenza artificiale (“sistemi di IA”) nell’Unione; b) il divieto di determinate pratiche di intelligenza artificiale; c)requisiti specifici per i sistemi di IA ad alto rischio e obblighi per gli operatori di tali sistemi; d) regole di trasparenza armonizzate per i sistemi di IA destinati a interagire con le persone fisiche, i sistemi di riconoscimento delle emozioni, i sistemi di categorizzazione biometrica e i sistemi di IA utilizzati per generare o manipolare immagini o contenuti audio o video; e) regole in materia di monitoraggio e vigilanza del mercato. 105 È in corso una unitizzazione della rete: il ricorso di cittadini, imprese e istituzioni all’uso della rete ha ormai sviluppato una economia di rete (net economy), espressione da preferire a quella più consueta di new economy, che, per la sua genericità, non esprime un aspetto contenutistico.

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tirne l’accesso generalizzato sia per la difesa dei singoli dagli attacchi nocivi 106. La garanzia di accesso alla rete prospetta un versante fondamentale di giustizia sociale, per la connessione del sapere al potere, che caratterizza la società dell’informazione 107. L’accesso alla rete costituisce un nuovo diritto fondamentale, per essere divenuto il più importante mezzo comunicativo, così da condizionare lo sviluppo individuale e sociale della persona 108 e quindi la stessa agibilità democratica della società 109. È un diritto di rilevanza costituzionale, per prevedere l’art. 21 Cost. il diritto di tutti di manifestare liberamente il proprio pensiero con “ogni mezzo” di diffusione, tra cui è oggi annoverabile Internet: è enucleabile dalla norma un principio di “pluralismo informativo”; il diritto di manifestare il proprio pensiero si ricollega allo “sviluppo della persona umana” e alla “effettiva partecipazione” all’organizzazione politica, economica e sociale (art. 32 Cost.). Consegue l’inclusione di tale diritto tra i diritti sociali, con il necessario sostegno finanziario pubblico, anche in partenariato con i privati, che consenta effettività di accesso alla connessione e alla conoscenza dei contenuti. Il digital divide, cioè lo squilibrio nella distribuzione (territoriale e individuale) delle tecnologie di accesso a web, rappresenta oggi una essenziale (anche se non l’unica) ragione di discriminazione nella distribuzione del benessere: ad es., tra gli obiettivi strategici dell’Europa, c’è la realizzazione di una società dell’informazione “inclusiva” (e-inclusion) ossia una società dell’informazione per tutti 110. La protezione dall’attacco della rete si svolge in più direzioni. C’è anzitutto da intensificare l’educazione alla selezione del sovraccarico di informazione, perché si produca effettiva conoscenza. Inoltre c’è da contrastare gli effetti perversi della comunicazione permanente dei dati della persona: la diffusività e la pervasività di internet consentono la circolazione 106 La telematica, consentendo immediatezza e universalità di comunicazione e dialogo, rischia di offuscare virtù individuali per attestarsi come il vero “idolo” della società moderna, omologante di opinioni e comportamenti. Il tremendo racconto biblico di Abramo e del figlio Isacco, con la voce di Dio “Non vi farete idoli”, ancora oggi ci interroga sul rapporto tra fede e ragione, tra diritto e morale, rispetto ad un cammino della civiltà verso l’idolo della tecnologia crescente che offusca ogni retroterra etico e religioso. 107 L’espressione società dell’informazione allude ad un sistema che fonda i rapporti interpersonali e l’assetto economico sull’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, pervenendo alla dematerializzazione di atti e di operazioni economiche. La possibilità di estrarre informazioni, di selezionarle, metterle in relazione ed elaborarle consente la produzione di nuovi beni da immettere sul mercato; ma anche di realizzare utilità rilevanti nelle dimensioni sociali, culturali, politiche. Perciò l’accesso all’informazione diventa oggetto di contesa sociale ed economica. 108 Sul piano nazionale, significativa è la “Carta dei diritti in Internet”, approvata il 28.7.2005, il cui art. 2 riconosce l’accesso ad Internet come “diritto fondamentale della persona” e condizione per il suo pieno sviluppo individuale e sociale, in condizioni di parità; mentre, per l’art. 6, ogni persona ha diritto di “accedere ai propri dati”, quale che sia il soggetto che li detiene e il luogo dove sono conservati, per chiederne l’integrazione, la rettifica, la cancellazione secondo le modalità previste dalla legge. 109 Nella prospettiva istituzionale si agita il delicato tema della democrazia digitale, che alimenta i due grandi fronti di ripensamento della mediazione dei partiti (democrazia rappresentativa) e di esaltazione della volontà generale espressa nelle forme telematiche (democrazia diretta). 110 Già la Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni di iniziativa europea 2010 di “partecipare alla società dell’informazione”, secondo l’indirizzo “e-inclusion: be part of it”. È seguita la Comunicazione della Commissione “Europa 2020”, con le conclusioni del Consiglio d’Europa del 17.6.2010, che delinea un quadro dell’economia di mercato sociale europea per il XXI sec. con “una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva”, caratterizzata da alti livelli di occupazione, produttività e coesione sociale e con tre priorità che si devono rafforzare a vicenda: crescita intelligente, sostenibile e inclusiva.

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universale di dati personali senza consenso del soggetto interessato (è l’esperienza propria dei social networks), con violazione dei diritti alla immagine, di autore, e della verità 111, con l’esigenza di tutela del diritto all’oblio 112 o almeno alla deindicizzazione 113. C’è poi il grande dilemma della identificazione elettronica in rete rispetto alla identità personale. L’informatica sviluppa una realtà di tracciamento della esperienza di vita, che consente una profilazione della esistenza umana, indirizzabile e economicamente utilizzabile e spendibile 114. La stimolazione del protagonismo nella rete fa acquisire conoscenze da utilizzare per l’orientamento all’assorbimento di beni e servizi. La tutela della privacy si atteggia come una questione politica centrale dell’era dell’informatica. L’art. 8 Carta dir. fond. U.E. riconosce il diritto alla protezione dei dati personali come un diritto fondamentale, con precisi vincoli al trattamento dei dati personali 115. Fondamentale il Reg. UE/2016/679 del 27.4.2016 (General Data Protecion Regulation o GDPR), relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati. 111

Si consideri anche il fenomeno, egualmente odioso, della disinformazione attraverso le fake news, con lesione della dignità umana e con riflessi sul mercato, spesso con offese all’onore e travisamenti della identità morale di soggetti (persone o enti). Una persona giuridica la quale lamenti che, con la pubblicazione su Internet di dati inesatti che la riguardano e l’omessa rimozione di commenti sul proprio conto, sono stati violati i suoi diritti della personalità, può proporre un ricorso diretto alla rettifica di tali dati, alla rimozione di detti commenti e al risarcimento della totalità del danno subito dinanzi ai giudici dello Stato membro nel quale si trova il centro dei propri interessi (foro della vittima) (Corte giust. U.E., grande sez., 17-10-2017, causa C-104/16). 112 La menzione di fatti trascorsi deve ritenersi lecita solo nell’ipotesi in cui si riferisca a personaggi che destino nel momento presente l’interesse della collettività, sia per ragioni di notorietà che per il ruolo pubblico rivestito; in caso contrario, prevale il diritto degli interessati alla riservatezza rispetto ad avvenimenti del passato che li feriscano nella dignità e nell’onore e dei quali si sia ormai spenta la memoria collettiva (Cass., sez. un., 22-7-2019, n. 19681). 113 Per l’art. 17 GDPR l’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano nei casi elencati nel medesimo articolo. Il diritto all’obblio nei casi riguardanti i motori di ricerca si concretizza con il concetto di deindicizzazione che “consente un’operazione sostanzialmente differente dalla rimozione/cancellazione di un contenuto: non lo elimina, ma lo rende non direttamente accessibile tramite motori di ricerca esterni all’archivio in cui quel contenuto si trova”. La deindicizzazione con cancellazione delle copie cache va bilanciata con l’interesse alla diffusione dell’informazione (Cass. 8-2-2022, n. 3952). 114 I cittadini sono contenti di usare servizi digitali online gratuiti; ma così consegnano la propria identità nella rete: le grandi piattaforme guadagnano vendendo spazi pubblicitari ritagliati su misura sugli utenti e per farlo li profilano. Il meccanismo della profilazione era già emerso in ambiente criminale attraverso il c.d. “criminal profiling”, attraverso lo studio degli omicidi seriali con il fine di penetrare le dinamiche psicologiche e comportamentali degli autori dei delitti. Significativa in tal senso è Corte giust. U.E. 5-4-2022, causa C140/20 che ha considerato contrastare con il diritto europeo misure legislative che prevedano, per finalità di lotta alla criminalità grave e di prevenzione delle minacce gravi alla sicurezza pubblica, la conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e all’ubicazione, rimodellando l’intero assetto di data retention secondo un principio di proporzionalità. 115 Ai sensi dell’art. 82 della Carta dir. fond. U.E. i dati di carattere personale devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o ad un altro fondamento legittimo previsto dalla legge; ogni persona ha diritto di accedere ai dati raccolti che la riguardano e di ottenerne la rettifica. La Corte di giustizia U.E., con sent. 13-5-2014, nella causa C-131/12, ha stabilito che, nel caso in cui, a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, l’elenco di risultati mostri un link verso una pagina web che contiene informazioni sulla persona in questione, questa può rivolgersi direttamente al gestore oppure, qualora questi non dia seguito alla sua domanda, adire le autorità competenti per ottenere, in presenza di determinate condizioni, la soppressione di tale link dall’elenco di risultati.

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Vi è poi la drammatica esperienza delle relazioni con i minori, frequentemente oggetto di abusi, che stimolano una tutela rafforzata della personalità degli stessi, sia con interventi strutturali di rete, che attraverso un sistema di “parental control”. c) Insidioso è il problema della imputazione giuridica dei fatti e degli atti compiuti a mezzo internet. Gli investimenti globali sulla intelligenza artificiale e la maturazione generalizzata di una cultura dell’AI potranno portare un domani (forse non troppo lontano) alla imputazione diretta degli atti e delle azioni alle piattaforme, attribuendo alle stesse una soggettività per la paternità degli algoritmi e degli effetti favorevoli o nocivi prodotti: è il terribile dilemma del rapporto tra l’uomo e la macchina, nel quale l’umo potrebbe essere condizionato e governato dalla macchina! Allo stato, c’è già una esigenza di razionalizzazione del sistema e di imputazione di atti e risultati dei meccanismi telematici, perché l’azione tramite internet, mentre è produttrice di vantaggi, non resti priva di controlli e di sanzioni per i danni inferti a persone, strutture e istituzioni. Si è aggiunto l’ulteriore problema di imputazione dei poteri privati esercitati dalle piattaforme: si può utilizzare un generale criterio di imputazione in capo a chi ha la disponibilità della tecnologia e specificamente del software. Si può guardare con interesse alla soluzione utilizzata, nella economia delle cose, attraverso la disciplina della responsabilità per danni da cose in custodia (art. 2051 c.c.), ovvero può guardarsi alla responsabilità per danni da prodotti difettosi (artt. 114 ss. cod. cons.). Può pensarsi che, non solo la responsabilità per danni, ma anche l’imputazione di fatti e atti vada ricondotta in capo a chi ha la disponibilità della tecnologia, salva la prova del caso fortuito; più correttamente va configurata senz’altro una responsabilità oggettiva del soggetto che ha il controllo delle piattaforme. d) Sta emergendo una tecnocrazia come esercizio del potere al tempo di internet. È il c.d. governo dei tecnici, con il pericolo che una classe dirigente di tecnocrati, depositaria di conoscenze e in grado di orientare informazioni e contegni, possa indirizzare i processi di selezione e le organizzazioni socio-economiche, senza una base di legittimazione democratica ma solo sostenuta dalle competenze tecniche e capacità gestionali. Accanto ai tre poteri giuridico-formali (legislativo, esecutivo e giudiziario) declinati dalla Carta costituzionale, stanno emergendo poteri di fatto. È da tempo maturata la formazione di un c.d. “quarto potere” 116, rappresentato dai mass media e dalla videocrazia, in qualche modo regolato (art. 21 Cost.); sta ora imponendosi un c.d. “quinto potere” 117, rappresentato dalla tecnocrazia informatica e dalla digitalizzazione in grado di massificare le persone e di indirizzarle e talvolta costringerle verso scelte razionalmente assunte secondo calcoli di efficienza economica. Si delinea un problema di democrazia politica contro i poteri di fatto, che orientano sia la concorrenza economica che la competizione politica e il confronto ideologico. Le tecnologie digitali hanno accentuato la globalizzazione dell’economia e delle relazioni sociali. È ora necessaria una governance egualmente globalizzata di presidio delle 116 L’espressione è nata in Inghilterra nel 1787, durante una seduta della Camera dei Comuni, allorché un parlamentare, rivolgendosi alla stampa, esclamò: “Voi siete il quarto potere”. Da allora la formula ha espresso le correlazioni degli organi di informazione con i tre poteri costituti, di denunzia o di asservimento. 117 L’espressione trae origine dal famoso film omonimo (network) del 1976, come graffiante satira del mondo televisivo statunitense degli anni settanta.

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PARTE I – ORDINAMENTO GIURIDICO

imputazioni e di garanzia delle debolezze. Ormai sono tanti i terreni di articolazione del potere digitale. Si pensi solo all’attività lavorativa, dove l’algoritmo manageriale caratterizza una intelligenza artificiale datoriale che automaticamente organizza il lavoro e il personale: c’è la necessità di salvaguardare una interfaccia personale consapevole della realtà dei lavoratori, con articolazione di una subordinazione lavorativa umana. Le tecnologie applicate all’azione amministrativa stanno poi facendo emergere un problema di bilanciamento tra esigenza di digitalizzazione della pubblica amministrazione e necessità di garanzia dei diritti fondamentali dei cittadini, per evitare che l’algoritmo di una intelligenza artificiale possa incidere automaticamente sulla vita delle persone, senza l’osservanza delle garanzie dello stato sociale di diritto. Va a tale scopo tutelato il diritto all’accesso all’algoritmo per conoscere il modulo digitale utilizzato con gli addestramenti impartiti, gli eventuali pregiudizi contenuti come gli obiettivi assegnati. Con la valorizzazione dell’accesso all’algoritmo, in un’ottica di trasparenza dell’azione amministrativa 118, è anche tutelato il diritto sostanziale all’impugnazione della determinazione del sistema informatico. L’Unione europea tende anche a rendere più sicure le tecnologie dell’informazione (TIC), secondo le previsioni degli artt. 179 ss. TFUE 119. La proposta di Regolamento relativo a un mercato unico dei servizi digitali (c.d. “legge sui servizi digitali”) del 15.12.2020 rappresenta una delle misure chiave nell’ambito della strategia europea per il digitale 120. In tale multiforme direzione volgerà la dialettica della politica con la scienza, nella sinergia tra obiettivi sociali e competenze necessarie nella società tecnologica, nella ricerca di uno stato di sviluppo sociale come sintesi di prosperità economica e benessere esistenziale.

118 Fondamentale Cons. Stato 8-4-2019, n. 2270: L’algoritmo attraverso il quale si concretizza la decisione robotizzata della P.A. deve essere “conoscibile”, secondo una declinazione rafforzata del principio di trasparenza, che implica anche quello della piena conoscibilità di una regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico; la conoscibilità dell’algoritmo deve essere garantita in tutti gli aspetti: dai suoi autori al procedimento usato per la sua elaborazione, al meccanismo di decisione, comprensivo delle priorità assegnate nella procedura valutativa e decisionale e dei dati selezionati come rilevanti; ciò al fine di poter verificare che gli esiti del procedimento robotizzato siano conformi alle prescrizioni e alle finalità stabilite dalla legge o dalla stessa amministrazione a monte di tale procedimento e affinché siano chiare – e conseguentemente sindacabili – le modalità e le regole in base alle quali esso è stato impostato. Vedi anche Cass. 25-5-2021, n. 14381. Il consenso al trattamento di dati personali è validamente prestato se espresso liberamente e specificamente in riferimento a un trattamento chiaramente individuato; nel caso di una piattaforma web (con annesso archivio informatico) preordinata all’elaborazione di profili reputazionali di singole persone fisiche o giuridiche, incentrata su un sistema di calcolo con alla base un algoritmo finalizzato a stabilire i punteggi di affidabilità, il requisito di consapevolezza non può considerarsi soddisfatto ove lo schema esecutivo dell’algoritmo e gli elementi di cui si compone restino ignoti o non conoscibili da parte degli interessati. 119 Fondamentali sono il Reg. 910/2014/UE sull’identità digitale, il Reg. 679/2016/UE sul trattamento dei dati personali, la direttiva UE/2016/1148, recante misure per un livello comune elevato di sicurezza delle reti e dei sistemi informativi nell’Unione. 120 Nella comunicazione del 19.2.2020, “Plasmare il futuro digitale dell’Europa”, la Commissione si è impegnata ad aggiornare le norme orizzontali che definiscono le responsabilità e gli obblighi dei prestatori di servizi digitali, in particolare delle piattaforme online, dichiarando che “le persone hanno diritto a tecnologie di cui possono fidarsi” e che “ciò che è illecito offline deve esserlo anche online”.

CAPITOLO 3

FONTI E APPLICAZIONE DEL DIRITTO (Efficacia e interpretazione) Sommario: 1. Regole giuridiche e fonti del diritto. – 2. Tecniche di normazione e caratteri delle norme giuridiche. – A) FONTI DEL DIRITTO. – 3. Fonti di produzione e fonti di cognizione. – 4. Tipologia e gerarchia delle fonti di produzione. – 5. Costituzione e leggi costituzionali (il controllo di legittimità costituzionale). – 6. Diritto europeo (fonti e armonizzazione). – 7. Leggi (statali e regionali). – 8. Regolamenti. – 9. Usi. – 10. Emersione di nuove fonti. – B) APPLICAZIONE DEL DIRITTO. – 11. Efficacia nel tempo (obbligatorietà delle norme). – 12. Efficacia nello spazio (diritto internazionale privato). – 13. Interpretazione delle norme giuridiche (criteri e valori). – 14. Risultati dell’interpretazione. L’analogia. – 15. L’equità. – 16. Diritto vivente (nomofilachia e overruling).

1. Regole giuridiche e fonti del diritto. – Il tema delle “fonti del diritto” ha una fondamentale importanza per caratterizzare la fisionomia dell’ordinamento giuridico. Anzitutto le fonti del diritto fissano la specificità delle regole giuridiche tra le tante regole (morali, religiose, di cortesia, ecc.) che sorreggono le relazioni sociali. Inoltre delineano l’organizzazione della società e perciò sono destinate ad evolvere con i mutamenti della stessa. In tal guisa le fonti del diritto sono esse stesse regolate. La disciplina delle fonti del diritto regola i modi nei quali sono generate le norme giuridiche e rese conoscibili ai consociati. Il tratto maggiormente caratterizzante lo Stato di diritto rispetto allo Stato assoluto sta proprio in ciò: la produzione delle norme giuridiche è disciplinata in modo vincolante, perché tutti (pubblici poteri e privati) siano soggetti alla legge (principio di legalità) e sia certa l’esistenza delle regole (principio di certezza del diritto). Correlativamente è anche essenziale una disciplina dell’applicazione del diritto, perché sia possibile pervenire ad una attuazione tendenzialmente uniforme del diritto, pur nella varietà delle vicende concrete e della formazione culturale dei soggetti che sono chiamati ad applicare il diritto. Si vedrà peraltro come le regole di settore sono sinergiche ai principi generali dell’ordinamento, che ne corroborano la precettività e ne orientano l’interpretazione. A suggellare l’importanza di tali esigenze, in apertura del codice civile sono dettate Disposizioni sulla legge in generale 1, con una normativa relativa alle “fonti del diritto” (artt. 1-9) ed un’altra relativa alla “applicazione della legge in generale” (artt. 10-16). La 1 Il R.D. 16.3.1942, n. 262, recante l’approvazione del testo del codice civile, testualmente dispone: “È approvato il testo del codice civile, il quale, preceduto dalle Disposizioni sulla legge in generale, avrà esecuzione a cominciare dal 21 aprile 1942, sostituendo da questa data i libri del codice stesso”.

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PARTE I – ORDINAMENTO GIURIDICO

collocazione della disciplina si giustifica per il valore storicamente avuto dal codice civile, come disciplina fondamentale e generale dei rapporti tra cittadini. Per tale collocazione le disposizioni sulla legge in generale sono anche comunemente denominate disposizioni preliminari al codice civile o senz’altro, in modo abbreviato, preleggi, per indicare appunto che precedono, costituendone quasi la premessa, la legge generale per antonomasia, cioè il codice civile. Vanno però subito compiute due notazioni, che l’analisi successiva svilupperà: per un verso, le disposizioni delle preleggi devono intendersi applicabili a tutti i rami dell’ordinamento e non solo al codice civile; per altro verso, le stesse preleggi vanno integrate con le fonti che successivamente sono emerse, specificamente la Carta costituzionale e i Trattati di diritto europeo, che essendo di rango superiore si applicano anche alle preleggi e prevalgono sulle stesse 2. È ormai tramontato il monopolio statale nella produzione del diritto. Come si vedrà, fonti di diversa provenienza (nazionale, europea e internazionale) e di diversa natura (pronunzie giurisprudenziali e regolamenti amministrativi, scelte delle attività professionali e delle prassi contrattuali) concorrono assieme alle leggi alla formazione del diritto vivente. L’affermazione dei diritti umani nei moderni ordinamenti impone poi applicazioni adeguatrici delle singole regole giuridiche ai diritti fondamentali e ai valori dell’ordinamento, come si è visto con l’analisi della evoluzione del diritto privato. La complessità delle vicende umane ed economiche implica interdisciplinarietà, come integrazione di saperi, nel comprendere e risolvere i problemi suscitati dall’esperienza giuridica (problem solving). Si dipana una valutazione storicizzata del diritto, che coinvolge la valutazione delle fonti del diritto.

2. Tecniche di normazione e caratteri delle norme giuridiche. – Trattando dell’ordinamento giuridico, si è anticipato della trama della normativa, per delineare le connessioni tra le varie regole (I, 1.4). Bisogna ora parlare delle tecniche e dei criteri di formulazione delle norme, e cioè della struttura delle norme. a) Tecniche di normazione. Esistono più tecniche di normazione, che di recente stanno ricevendo l’apporto dall’esperienza europea. 1) La tecnica tradizionale e più diffusa è per fattispecie (facti species). L’ordinamento prevede il fatto astratto, al cui realizzarsi in concreto conseguono gli effetti previsti dall’ordinamento. Con un percorso logico si procede alla sussunzione del caso concreto alla norma giuridica: si svolge un sillogismo tra una fattispecie astratta che prevede il fatto astratto regolato dall’ordinamento (premessa maggiore) ed una fattispecie concreta o materiale (premessa minore) che esprime il fatto concreto realizzatosi: la riconducibilità della fattispecie concreta alla fattispecie astratta comporta l’applicazione della norma. Più spesso la fattispecie astratta è formata da un precetto, che fissa la regola di comportamento (norma primaria), e da una sanzione, che stabilisce la conseguenza della inosservanza del precetto (norma secondaria), con funzione intimidatoria che esprime la imperati2

È ormai avvertita anche in Italia l’esigenza di una preventiva “analisi di impatto della regolazione” (Air), secondo lo strumento noto negli ambienti internazionali di “Regulatory Impact Analysis” (Ria). È un sistema consistente nell’esame delle possibili opzioni di intervento normativo per realizzare un determinato obiettivo, attraverso la verifica del prevedibile impatto sociale della regolazione, in termini di costi e benefici sui cittadini, sulle imprese e sulle pubbliche amministrazioni, così da incidere sulla qualità della regolazione (better regulation). Nelle formulazioni più evolute il metodo è aperto alle implicazioni sul territorio e sull’assetto istituzionale.

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vità dell’ordinamento giuridico. Sono queste le c.d. norme perfette (anche dette norme sanzionatorie o coercitive) per connettere all’antigiuridicità del comportamento la sanzione della relativa violazione. Più spesso i due profili (precetto e sanzione) sono contenuti nel medesimo articolo: ad es., chi cagiona ad altri un danno ingiusto è obbligato a risarcirlo del danno (art. 2043); il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno (art. 1218). Talvolta i due profili sono regolati da norme distinte: ad es., gli artt. 1325 ss. prescrivono i requisiti di validità del contratto, mentre gli artt. 1418 ss. e 1425 ss. dispongono le conseguenze della inosservanza con la sanzione, rispettivamente, di nullità o annullabilità del contratto. Non è raro che, ad un precetto (norma primaria), si connettano più sanzioni (norme secondarie), sia di diritto civile che di diritto penale (con formula di gergo, opera il “combinato disposto” di più norme): ad es. il comportamento (colposo o doloso) che cagiona ad altri un danno ingiusto, mentre integra l’illecito civile ex art. 2043 (con l’obbligo di risarcimento del danno a carico dell’autore), può integrare anche un illecito penale (reato) (con le relative pene afflittive imposte all’agente) 3. Non mancano precetti la cui osservanza è rimessa alla prospettiva di un vantaggio (c.d. norme premiali): tipici esempi sono le norme che prevedono incentivi e sussidi per chi investe in aree depresse o agevolazioni tributarie per chi reinveste nell’impresa gli utili prodotti. Esistono anche norme che si limitano ad una mera indicazione della condotta, senza prevedere conseguenze immediate, né per la violazione né per l’osservanza. Ciò avviene quando la norma intende solo fissare principi generali e valori del sistema o additare indirizzi generali di comportamento: sono considerate norme imperfette, per non connettere al precetto una conseguenza immediata e diretta (es. l’art. 315 bis fissa il dovere per il figlio di “rispettare i genitori”), ma indirizzano l’interpretazione e l’applicazione di tante norme giuridiche. Il lato debole di tale tecnica normativa, fondata su una operazione logica, è che, trascurando la morfologia della realtà, tende ad astrarre dalle circostanze concrete in cui il fatto concreto si realizza e dalla personalità degli autori del fatto. Il procedimento della sussunzione è stato perciò progressivamente adattato al rinnovato sistema giuridico o talvolta abbandonato in funzione di una valorizzazione della natura degli interessi coinvolti e del contesto di svolgimento delle vicende umane, secondo i valori ordinamentali di riferimento. La normazione per fattispecie, per comportare una operazione logica di applicazione della norma, ha il vantaggio della certezza della regola applicata e quindi della calcolabilità del comportamento da tenere; presenta però l’inconveniente di trascurare la morfologia della realtà, per astrarre dalle circostanze di verificazione del fatto, dalla natura degli interessi coinvolti e dalla personalità degli autori del fatto. Il procedimento della sussunzione è stato perciò progressivamente adattato al rinnovato sistema giuridico, con la valutazione del caso concreto nel contesto di sviluppo e secondo la complessità ordinamentale. 3

È il terreno delle sanzioni civili in sede penale: per l’art. 185 c.p. “ogni reato obbliga alle restituzioni, a norma delle leggi civili; se abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui” (ai sensi degli artt. 2043-2059 c.c.).

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2) È sempre più diffusa una tecnica di normazione per clausole generali. Il contenuto precettivo delle clausole non è determinato in modo compiuto, con la previsione di un comportamento, ma attraverso l’impiego di formule generali che si completano e concretizzano in ragione della varietà dei casi concreti e della evoluzione dell’ordinamento, operando come integrative e correttive degli atti e dei comportamenti dei privati (es. la clausola generale di buona fede) (II, 7.2). 3) Una più recente tecnica di normazione è per risultato. L’ordinamento si limita a prevedere l’obiettivo da realizzare, lasciando a enti e privati la scelta degli strumenti per conseguirlo. Un chiaro impiego è nella normativa europea, specie attraverso le direttive, rimettendosi agli stati membri la individuazione dei modi di attuare i risultati indicati. È una tecnica di normazione che spesso involge una tutela rimediale, per additare protezioni funzionali al caso concreto e alla tipologia e natura degli interessi coinvolti (III, 1.10). b) Caratteri delle norme giuridiche. Esprimono le proprietà delle norme e dunque sono essenzialmente modulati sulle tecniche di normazione utilizzate. È possibile delineare due fondamentali traiettorie, a seconda che esprimano caratteri riguardanti tutte le norme giuridiche (caratteri generali), ovvero riguardino tratti caratterizzanti di tipi di norme (caratteri particolari). I caratteri coesistono e si sovrappongono in ragione dell’angolo visuale della norma. 1) I caratteri generali hanno riguardo all’essenza della normatività delle regole giuridiche come disciplinatrici di vita sociale: sono la esteriorità e la plurilateralità. La esteriorità indica che le norme giuridiche sono riferite ai comportamenti giuridicamente rilevanti. La esteriorizzazione assicura la relazionalità civile; diversamente operano le regole non giuridiche (morali, religiose, di galateo, ecc.) che, per propria essenza, toccano la coscienza degli uomini. La plurilateralità (o alterità) indica che le norme sono rivolte a regolare le relazioni dei soggetti tra loro e con le istituzioni. Tutto l’ordinamento è in funzione degli uomini e dunque le singole norme segnano modi e misure di rapportarsi ed organizzarsi delle persone. La plurilateralità è connotata dal fondamentale principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 31 Cost.), applicato secondo i fondamentali criteri di ragionevolezza e proporzionalità (artt. 2 e 32 Cost.), non potendosi arbitrariamente introdurre una disparità di trattamento di situazioni uguali e non potendosi immotivatamente trattare in modo uguale situazioni materiali differenti (come più ampiamente si vedrà in seguito: II, 7.7). Trattamenti differenziati sono giustificati, in relazione ai privati, allo scopo di rimuovere gli ostacoli che, in fatto, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 32 Cost.); con riguardo alla pubblica amministrazione, in ragione del buon andamento e dell’efficienza economica, nel rispetto della imparzialità (art. 97 Cost.). 2) I caratteri particolari hanno riguardo al contenuto delle singole norme e sono declinabili in ragione della struttura, della funzione e della efficacia delle norme. – Rispetto alla struttura, rileva la formulazione della norma. Con la edificazione dello Stato moderno hanno preso a funzionare norme generali e astratte quali connotati della unitarietà del soggetto di diritto e della eguaglianza (formale) dei soggetti davanti alla legge (I, 2.3). Specificamente la generalità ha riguardo al profilo soggettivo del precetto, per indicare che la norma si applica a tutti i soggetti che si trovano nella particolare

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situazione o che hanno tenuto il determinato comportamento; l’astrattezza inerisce al profilo oggettivo del precetto, e vale ad indicare la situazione o il comportamento regolati dalla norma, prefigurati in astratto e cioè in via ipotetica, attraverso un processo di enucleazione dei caratteri tipici del fenomeno 4 (es. artt. 2043 e 1218). Pure in tale contesto opera un particolarismo giuridico per la specificità dei contesti o delle attività o degli obiettivi. Si articola in norme speciali (o di diritto speciale) che ineriscono a singole materie o a particolari settori (es. la materia della navigazione 5); ovvero riguardano categorie di soggetti deboli (es. disabili, lavoratori, consumatori) o sono applicabili in determinate aree o specifici luoghi (es. zone da sviluppare). Talvolta le norme speciali si atteggiano come norme eccezionali (e danno vita ad un diritto straordinario) per operare in circostanze specifiche o per far fronte ad evenienze particolari (ad es., leggi emergenziali in conseguenza di calamità naturali o sanitarie). Per l’art. 14 prel. le leggi penali e quelle che fanno eccezione alle leggi generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati; sono norme di stretta applicazione, non suscettibili di applicazione analogica. È in atto un processo di c.d. amministrativizzazione della legge, per cui si ricorre a leggi c.d. formali per imporre imperativi relativi a casi concreti e/o con riferimento a soggetti determinati (c.d. norme singolari o anche dette norme-provvedimento). – Rispetto alla funzione, rileva lo scopo perseguito dalla norma, in ragione degli interessi attuati: si distinguono norme strumentali e norme materiali. Le norme di diritto strumentale o formale (c.d. ordinative) sono organizzative dell’azione pubblica e dell’attività giuridica, tra le quali rientrano anche tutte le norme processuali per far valere in giudizio i propri diritti. La reazione dell’ordinamento per inosservanza di tali norme è la inefficacia in senso ampio dell’atto compiuto (per invalidità o altre ragioni); non si producono oppure vengono eliminati gli effetti, sicché il risultato perseguito con l’atto non è realizzato: ad es., l’assenza di uno degli elementi costitutivi del contratto comporta la nullità e quindi la inefficacia dell’atto (artt. 1325 e 1418); la mancata annotazione di una convenzione matrimoniale o la mancata trascrizione di una vendita immobiliare comporta la inopponibilità dell’atto ai terzi (artt. 162 e 2644). Le norme di diritto materiale o sostanziale (c.d. proibitive) sono attributive di situazioni giuridiche soggettive, conformative di interessi individuali o di gruppi. La reazione dell’ordinamento per la lesione di un interesse giuridicamente protetto è la imposizione di obblighi di reintegrazione del soggetto leso, con connesso risarcimento del danno inferto: es. l’obbligo di restituire le cose illegittimamente sottratte al proprietario o al possessore (artt. 948 e 1168); l’obbligo di risarcimento del danno per inadempimento del contratto o per lesione di un diritto altrui (artt. 1218 e 2043). È frequente che un medesimo fatto dia luogo alla violazione sia di una norma strumentale che di una norma materiale, così operando le sanzioni connesse a entrambi i tipi di norme violate: ad es., a fronte di un contratto che manca di uno degli elementi 4 La dicotomia è riassunta con il concetto di ripetibilità. Riferendosi la norma a uno schema astratto di situazione o comportamento, il precetto è destinato a ripetersi quante volte un soggetto si troverà nella situazione ipotizzata o compirà il comportamento prefigurato. 5 In ragione del mezzo tecnico impiegato (nave o aeromobile) il diritto della navigazione si atteggia quale “diritto speciale” in quanto si innesta nel diritto comune apportandovi gli adattamenti necessari a realizzare specifiche esigenze: gli aspetti non disciplinati, ove non operi l’analogia, sono soggetti al diritto comune.

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costitutivi per la sua validità, consegue senz’altro la nullità e dunque la inefficacia dell’atto (art. 1418) (norma strumentale); se però una delle parti conosceva la causa della nullità e non ne ha dato notizia all’altra, ha leso la libertà di autodeterminazione della controparte e perciò è tenuta a risarcire il danno da questa risentito (art. 1338) (norma materiale). È possibile che un contratto sia conforme alla norma strumentale e quindi valido, ma il comportamento di una parte sia in contrasto con una norma materiale per risultare lesivo di un interesse giuridicamente protetto: ad es., il dolo incidente non è causa di annullamento del contratto ma obbliga l’autore dei raggiri al risarcimento dei danni (art. 1440). – Rispetto alla efficacia, rileva la operatività della norma, che è graduata, a seconda che siano o meno in gioco valori fondamentali dell’ordinamento e dunque le basi stesse della coesistenza sociale. Si delineano norme imperative e norme dispositive. Le norme imperative (anche dette cogenti o inderogabili) non consentono deroghe dai privati: sono applicate anche contro la volontà delle parti (ad es. l’art. 160 vieta ai coniugi di derogare ai diritti e agli obblighi previsti dalla legge per effetto del matrimonio; l’art. 1229 dichiara nullo qualsiasi patto che esclude o limita preventivamente la responsabilità del debitore). Le norme dispositive aprono alla valutazione di convenienza dei soggetti: sono norme sì operative, ma non operano contro la volontà dei destinatari. Le norme dispositive, a loro volta, si atteggiano in duplice modo: come norme dispositive in senso stretto, quando sono derogabili dai privati (ad es. l’art. 1282 prevede la naturale fecondità del denaro, per cui i crediti liquidi ed esigibili producono di diritto interessi, “salvo che la legge o il titolo stabiliscano diversamente”); come norme suppletive, quando operano in via residuale, allorché i privati non abbiano apprestato una diversa regola pattizia (ad es. l’art. 159 impone il regime di comunione legale “in mancanza di diversa convenzione” dei coniugi).

A) FONTI DEL DIRITTO 3. Fonti di produzione e fonti di cognizione. – Il tema delle fonti porta ad esaminare i modi e le forme di derivazione del diritto e di conoscenza dello stesso. a) Le fonti di produzione sono le fonti in senso stretto del diritto: sono i fatti generatori delle regole giuridiche, rispetto ai quali le norme rappresentano il risultato ovvero il prodotto. Si è visto che, affinché tale effetto si produca, è necessario che le fonti siano previste e disciplinate da specifiche norme giuridiche, al fine di rendere noto il meccanismo di generazione delle norme: perciò sono “fonti legali” del diritto. La tipologia delle fonti determina anche il procedimento di formazione: ad es., le leggi ordinarie vanno formate secondo gli artt. 70 ss. Cost.; le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate secondo l’art. 138 Cost. Il risultato del procedimento di formazione, della legge come di ogni altro atto normativo, si concretizza in un testo che, debitamente pubblicizzato, consente di attingere la conoscenza della regola giuridica. b) Le fonti di cognizione sono fonti in senso lato del diritto: sono gli atti e gli strumenti pubblici rivolti a procurare la conoscibilità delle regole giuridiche; non sono dunque produttive di diritto, ma solo ne consentono la conoscenza. Nello stato di diritto la

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conoscenza del diritto è un presupposto essenziale della certezza del diritto: fonti di cognizione sono, ad es., la Gazzetta Ufficiale e il Bollettino Ufficiale della Regione 6. Quando, in singoli settori, più normative si stratificano nel tempo, è frequente il ricorso a testi unici che riordinano organicamente la disciplina di un settore, al fine di facilitarne la cognizione 7. Di regola i testi unici, redatti dal governo su delega del parlamento, si limitano a riorganizzare le norme esistenti, che mantengono la propria originaria forza precettiva; ma non mancano ipotesi in cui la legge delega attribuisca al governo anche il potere di modifica ed integrazione della normativa esistente. Con la legge delega 29.7.2003, n. 229, è stata prevista l’emanazione di codici di “riassetto normativo” di specifici settori, con finalità, sia di riforma sostanziale secondo un criterio di semplificazione, sia di raccolta organica delle norme del settore 8. Nonostante l’enfatico impiego del termine “codici”, si tratta di testi monotematici: il termine “codice” è quindi utilizzato in una accezione differente rispetto a quella tradizionale (emersa con lo stato moderno), di indicazione di un testo normativo complesso e organico di una intera materia (come i codici civile, penale, di procedura civile, di procedura penale, della navigazione) (I, 2.3).

4. Tipologia e gerarchia delle fonti di produzione. – Si è soliti distinguere le fonti di produzione del diritto in due grandi categorie: fonti-atto e fonti-fatto. Le fonti-atto afferiscono all’attività di particolari autorità cui è attribuita la potestà di produrre norme giuridiche (c.d. fonti soggettive o volontarie). Il diritto proveniente da fonti-atto è dunque tipicamente diritto scritto (es. leggi). Le fonti-fatto esprimono l’oggettivo operare di comportamenti e situazioni cui l’ordinamento attribuisce rilevanza giuridica, limitandosi a fissare i meccanismi di tale rilevanza (c.d. fonti oggettive). Proprio per l’emergere spontaneo del diritto dal corpo sociale trattasi di diritto non scritto (es. usi). Le disposizioni sulla legge in generale (preliminari al codice civile del 1942) prevedevano originariamente quattro specie di fonti del diritto, gerarchicamente organizzate: le leggi, i regolamenti, le norme corporative e gli usi (comprendendosi tra le “leggi” anche i codici, quali fondamentali discipline giuridiche delle singole branche). Da quella previsione sono sopravvenuti più fatti che hanno ridisegnato il sistema delle fonti. Anzitutto, dopo pochi anni, si verificava la caduta del regime fascista, che implicava la soppressione dell’ordinamento corporativo (R.D.L. 9.8.1943, n. 721) e delle connesse organizzazioni sindacali (D.L.L. 23.11.1944, n. 369). Si dava quindi luogo alla formazione della Costituzione repubblicana, approvata con deliberazione dell’assemblea costituente nella seduta del 22.12.1947 ed entrata in vigore il 1° gennaio 1948, che assumeva il ruolo di carta 6

La pubblicazione di leggi e regolamenti statali avviene nella Gazzetta ufficiale della Repubblica; la pubblicazione di leggi e regolamenti regionali avviene nel Bollettino ufficiale della Regione; la pubblicazione di regolamenti di Province e Comuni mediante affissione all’albo rispettivo. Per gli usi v. dopo. 7 Es.; testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (D.Lgs. 1.9.1993, n. 385); testo unico dell’edilizia (D.P.R. 6.6.2001, n. 380). 8 Ad es., codice della proprietà industriale (D.Lgs. 10.2.2005); codice dell’amministrazione digitale (D.Lgs. 7.3.2005, n. 82); codice del consumo, che contiene il riassetto normativo in materia di tutela dei consumatori (D.Lgs. 6.9.2005, n. 206); codice delle assicurazioni private, che contiene il riassetto normativo in materia di assicurazioni (D.Lgs. 7.9.2005, n. 209); codice della normativa statale in tema di ordinamento del turismo (D.Lgs. 23.5.2011, n. 79); codice dell’insolvenza (D.Lgs. 12.1.2019, n. 14). Anche tali codici sono soggetti a emendamenti.

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fondamentale dello Stato repubblicano, gerarchicamente sovrastante alle leggi. Iniziava poi un lungo percorso di integrazione europea che sarebbe approdato alla formazione della Comunità europea e poi dell’Unione europea, determinando la formazione di un diritto europeo sovraordinato rispetto alle leggi (l’art. 10 e più incisivamente gli artt. 11 e 117 Cost. contengono una chiara autolimitazione della sovranità dell’ordinamento nazionale in favore di quello europeo); si è anche dilatato un diritto di provenienza delle convenzioni internazionali, che però richiede una norma di ricezione nell’ordinamento (art. 10 Cost.). La L. cost. 18.10.2001, n. 3, ha poi modificato il titolo V della Parte II della Carta costituzionale, con ampliamento della potestà legislativa delle regioni. Dal susseguirsi di avvenimenti il sistema delle fonti (di produzione) del diritto esce profondamente modificato rispetto al quadro originario e perciò così ridisegnato e gerarchicamente organizzato: 1) Costituzione e leggi costituzionali; Diritto europeo; 2) Leggi (statali e regionali) e atti assimilati; 3) Regolamenti; 4) Usi. Con il ridimensionamento del primato della legge statale, convivono ormai vari livelli di legalità (europea, costituzionale, di legislazione statale e regionale). Discusso è il rango delle norme internazionali introdotte nell’ordinamento interno, in particolare la loro prevalenza o soccombenza rispetto a norme posteriori incompatibili. Per quelle consuetudinarie, si ritiene che l’incorporazione mediante l’art. 10, par. 1, Cost., attribuisca garanzia costituzionale. Per quelle pattizie il rango è invece, in linea generale, quello stesso del provvedimento di attuazione (legge costituzionale, legge ordinaria, decreto, etc.), salvo riconoscere ad esse una speciale “resistenza”, atta a farle prevalere su norme successive di pari rango (secondo un principio di specialità sui generis, accolto nell’art. 1171 Cost., come riformato dalla L. cost. 3/2001). All’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali concorrono, nell’esercizio delle rispettive competenze, tutti gli organi dello Stato; per la competenza delle Regioni, opera l’art. 1175 Cost. Alla stregua della nuova gerarchia delle fonti si articola anche il principio iura novit curia, che impone al giudice di “seguire le norme del diritto” (art. 113 c.p.c.), imponendo quindi al giudice di conoscere e rinvenire le fonti del “diritto applicabile” quale strutturato nell’ordinamento 9. Anche la scienza giuridica di ogni branca del diritto non si identifica più con la dottrina del codice di riferimento, ma è aperta al sistema (ad es. il diritto civile non ha più come unico referente il codice civile; allo stesso modo il diritto penale non ha più come unico referente il codice penale).

9 Il principio “iura novit curia” si riferisce alle vere e proprie fonti di diritto oggettivo, cioè a quei precetti contrassegnati dal duplice connotato della normatività e della giuridicità, dovendosi escludere dall’ambito della sua operatività sia i precetti aventi carattere normativo ma non giuridico (come le regole della morale o del costume), sia quelli aventi carattere giuridico ma non normativo (come gli atti di autonomia privata, o gli atti amministrativi), sia quelli aventi forza normativa puramente interna (come gli statuti degli enti e i regolamenti interni) (Cass. 20-12-2019, n. 34158). La natura di atti meramente amministrativi dei decreti ministeriali osta all’applicabilità del principio “iura novit curia” di cui all’art. 113 c.p.c., da coordinare con l’art. 1 delle disp. prel. c.c. (che non li comprende tra le fonti del diritto), con la conseguenza che spetta alla parte interessata l’onere della relativa produzione, la quale non è suscettibile di equipollenti (Cass. 15-10-2019, n. 25995): Conf. Cass. 12-2-2015, n. 2737.

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5. Costituzione e leggi costituzionali (il controllo di legittimità costituzionale). – La tradizionale discussione se dovesse considerarsi fonte gerarchicamente superiore la Carta costituzionale o il diritto europeo è oggi abbastanza superata con l’ormai acquisita evoluzione dell’ordinamento dell’Unione europea verso principi di democraticità e rispetto dei diritti umani, sicché l’osservanza dell’ordinamento europeo si armonizza con il rispetto della legalità costituzionale. Fondamentale in tale direzione è l’art. 6 del Trattato di Maastricht, che indica le tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri come “principi generali del diritto comunitario”. Dopo una stagione di stretto ossequio alla normativa europea 10, è ormai principio acquisito della Corte costituzionale che i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscono “controlimiti” alle limitazioni di sovranità (art. 11 Cost.), per rappresentare gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale, per ciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale. Operano come un limite all’ingresso delle norme internazionali generalmente riconosciute (art. 101 Cost.) e all’ingresso delle norme dell’Unione europea, oltre che all’ingresso delle norme di esecuzione dei Patti Lateranensi e del Concordato (art. 7 Cost.). È l’affermazione di uno spazio di sovranità intangibile, che dapprima è stato fatto valere nei riguardi del diritto internazionale convenzionale e segnatamente nei confronti della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) 11, poi anche con riguardo alla produzione giuridica dell’Unione europea 12. La Costituzione della Repubblica italiana è una Costituzione c.d. rigida, occorrendo uno speciale procedimento per la sua revisione (art. 138). Le leggi costituzionali, di revisione o integrazione della Carta costituzionale, quando non sono approvate da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi, sono sottoposte a referendum popolare (art. 138 Cost.). Si apre con la formulazione dei “Principi fondamentali”, che esprimono i valori portanti della Carta repubblicana; seguono due distinte parti: la prima, intitolata “Diritti e doveri dei cittadini”; la seconda, “Ordinamento della Repubblica”. In particolare i Principi fondamentali e la Prima parte attraversano il diritto privato, per riguardare le prerogative dei cittadini e i rapporti del cittadino con l’autorità pubblica, la dignità della persona e la solidarietà nei rapporti etico-sociali e nei rapporti economici (se ne è parlato innanzi: I, 2.7 e 8); i relativi articoli hanno efficacia precettiva e sono immediatamente efficaci nei confronti dello Stato e verso i privati e nei rapporti dei privati con lo Stato. 10 Si delineava una “ritrazione” dell’ordinamento italiano, sicché, nelle materie regolate da norme comunitarie direttamente applicabili, il giudice nazionale deve applicare le norme comunitarie “disapplicando” quelle interne incompatibili (Corte cost. 8-6-1984, n. 170; Corte cost. 14-6-1990, n. 285). 11 Con le c.d. sentenze gemelle nn. 348 e 349 del 24.10.2007, si è affermato che la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, pur essendo dotata di una particolare natura che la distingue dagli obblighi nascenti da altri Trattati internazionali, non assume, in forza dell’art. 11 Cost., il rango di fonte costituzionale né può essere parificata, a tali fini, all’efficacia del diritto comunitario nell’ordinamento interno. 12 Cfr. Corte cost. 22-10-2014, n. 238. Nel riconoscere il primato del diritto dell’U.E., ai sensi dell’art. 11 Cost., la giurisprudenza costituzionale afferma che l’osservanza dei principi supremi dell’ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili della persona è condizione perché il diritto dell’Unione possa essere applicato in Italia (Corte cost. 26-1-2017, n. 24; anche sent. 284/2007, 73/2001, 168/1991). Sul carattere accentrato del controllo di costituzionalità, con la spettanza alla sola Corte costituzionale della verifica di compatibilità con i principi fondamentali dell’assetto costituzionale e di tutela dei diritti umani, v. sent. 120/2014, 284/2007.

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PARTE I – ORDINAMENTO GIURIDICO

La Seconda parte disegna l’organizzazione e la struttura dello Stato e degli altri organi costituzionali, con la previsione delle garanzie e delle tutele del cittadino, ed è perciò di specifico interesse del diritto pubblico (diritto costituzionale e diritto amministrativo). La “costituzionalizzazione” della sovranità statale ha delineato nella modernità la formazione di uno stato costituzionale di diritto. Alla Corte costituzionale è rimesso il controllo di legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni (art. 134 Cost.) 13: è la c.d. giustizia costituzionale, quale controllo giurisdizionale di rispetto della Costituzione. La questione di legittimità costituzionale è sollevata, da una delle parti o di ufficio, innanzi al giudice dove pende un giudizio, che formalmente la incardina 14. Con la sentenza di accoglimento la Corte dichiara la illegittimità costituzionale della norma di legge o di altro atto avente forza di legge: la norma cessa di avere effetto dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione (art. 136 Cost.), normalmente con efficacia retroattiva, ma con salvezza degli effetti realizzati e dei rapporti esauriti 15. Si va delineando un indirizzo di modulazione degli effetti temporali della sentenza, secondo un criterio di bilanciamento dei valori costituzionali, in una visione unitaria del sistema costituzionale 16. Spesso le sentenze di accoglimento intervengono sul contenuto della disposizione impugnata (c.d. sentenze manipolative), con distinte modalità di intervento 17. 13 Tra gli “atti aventi forza di legge” si comprendono i decreti legislativi e i decreti legge. Sono esclusi dal controllo della Corte costituzionale i regolamenti: questi sono soggetti al controllo del giudice amministrativo, che può annullarli per contrasto con leggi e atti aventi forza di legge e con la Costituzione. 14 Il giudice, rilevata la pregiudizialità della legittimità costituzionale della norma da applicare nel giudizio in corso e verificata la non manifesta infondatezza della questione, con ordinanza di rimessione sospende il giudizio e rinvia gli atti alla Corte costituzionale, dando inizio al procedimento per il controllo di costituzionalità (c.d. giudizio incidentale). 15 Le pronunce di accoglimento, dichiarative di illegittimità costituzionale, eliminano la norma con effetto ex tunc, con la conseguenza che essa non è più applicabile, indipendentemente dalla circostanza che la fattispecie sia sorta in epoca anteriore alla pubblicazione della decisione, perché l’illegittimità costituzionale ha per presupposto l’invalidità originaria della legge – sia essa di natura sostanziale, procedimentale o processuale – per contrasto con un precetto costituzionale; gli effetti dell’incostituzionalità non si estendono ai rapporti ormai esauriti in modo definitivo, per avvenuta formazione del giudicato o per essersi verificato altro evento cui l’ordinamento collega il consolidamento del rapporto medesimo ovvero per essersi verificate preclusioni processuali o decadenze e prescrizioni non direttamente investite, nei loro presupposti normativi, dalla pronuncia d’incostituzionalità (Cass. 27-6-2018, n. 16990). V. anche Cass. 27-6-2008, n. 17746; Cass. 21-3-2008, n. 7698. 16 Con riferimento ad una imposizione tributaria, si è stabilito che gli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale decorrono dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione nella Gazzetta Ufficiale al fine di evitare che l’impatto macroeconomico delle restituzioni dei versamenti tributari connesse alla pronuncia determini uno squilibrio del bilancio dello Stato di entità tale da implicare la necessità di una manovra finanziaria aggiuntiva, e anche per non venir meno al rispetto dei parametri cui l’Italia si è obbligata in sede di Unione europea ed internazionale e, in particolare, alle previsioni annuali e pluriennali indicate nelle leggi di stabilità (Corte cost. 11-2-2015, n. 10). 17 Si distinguono: illegittimità di una sola parte della disposizione (c.d. sentenze di accoglimento parziale); illegittimità della disposizione nella parte in cui non prevede quanto avrebbe dovuto prevedere conforme a Costituzione, integrato dalla Corte (c.d. sentenze additive). Le sentenze additive si articolano a loro volta come: sentenze additive in senso proprio, che hanno efficacia immediatamente precettiva, risolvendosi automaticamente la dichiarazione di illegittimità della omissione in quella, speculare, di necessità costituzionale della inclusione del quid omissum nel testo normativo; sentenze additive di principio, che dichiarano la illegittimità costituzionale della mancata tutela di diritti fondamentali ovvero di meccanismi idonei a renderli effettivi (Corte cost. 26-6-1991, n. 295; v. anche Corte cost. 15-3-1996, n. 74); sentenze sostitutive, con dichiarazione di illegittimità della disposizione nella parte in cui prevede una disposizione anziché un’altra diversa conforme a Costituzione, sostituita dalla Corte.

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Con la sentenza di rigetto la Corte dichiara “non fondata” la questione di legittimità costituzionale prospettata dalla ordinanza di rimessione. Sono frequenti sentenze interpretative di rigetto con le quali la Corte dichiara infondata la questione di legittimità costituzionale perché il dubbio sollevato dal giudice si fonda su una errata interpretazione della disposizione impugnata: la Corte, nel rigettare la questione, fornisce nella motivazione la interpretazione “conforme a Costituzione” che vale ad evitare la illegittimità costituzionale della disposizione impugnata (c.d. sentenze adeguatrici) 18. Diversamente si atteggia la dichiarazione di inammissibilità, con la quale la Corte non entra nel merito della questione, ma si ferma ad accertare la insussistenza dei presupposti richiesti dalla legge per una pronuncia sulla fondatezza della questione, più spesso relativa a difetti riguardanti il giudizio a quo. Talvolta si dà luogo a decisioni c.d. monito o di indirizzo, con le quali si invita il parlamento a legiferare, per evitare che si pervenga ad una successiva dichiarazione di incostituzionalità.

6. Diritto europeo (fonti e armonizzazione). – È ormai acquisito il divario tra diritto internazionale e diritto europeo. Il diritto internazionale è formato da regole concordate tra Stati, che attuano nel territorio nazionale il diritto concordato con leggi di ratifica ed esecuzione; l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute (art. 10 Cost.). Il diritto europeo supera l’ottica del diritto internazionale, per consentire allo Stato, in condizioni di parità con altri stati, “limitazioni di sovranità” necessarie ad uno ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni, promuovendo e favorendo le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo (art. 11 Cost.). Per l’art. 47 TUE l’Unione ha personalità giuridica. In virtù della cessione di sovranità statale, nel quadro costituzionale, si caratterizza come una complessa organizzazione, con competenze legislative, esecutive e giudiziarie. Anche il diritto europeo opera come un sistema di diritti e di tecniche organizzative che si impongono allo Stato, entro i controlimiti di rilevanza costituzionale, con un duplice livello di armonizzazione: minima, con il solo coordinamento delle normative nazionali; massima, con l’unificazione delle normative nazionali attraverso la formazione di un diritto uniforme europeo 19. Collante permanente del diritto europeo con gli ordinamenti statali è costituito dai “diritti fondamentali” che assurgono a principi generali del sistema 20, dei cui riflessi sul diritto pri18

Di fronte ad una interpretazione consolidata della giurisprudenza ordinaria, la Corte assume la stessa come “diritto vivente”, cioè quale diritto applicato dalla giurisprudenza ordinaria, valutandone la conformità alla Costituzione. 19 Il giudice nazionale è tenuto a disapplicare le disposizioni contrastanti della legge interna, anteriore o posteriore, e ad interpretare il diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo del diritto europeo; e a ciò sono tenute anche le corti nazionali di ultimo grado. Analogo obbligo si è andato delineando con riguardo alla giustizia amministrativa, per il cui art. 1 cod. proc. amm. “la giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”. La L. 24.12.2012, n. 234, reca Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea (specie artt. 29 ss.). 20 Da tempo si confrontano una concezione monista di un ordinamento unitario (professata dalla Corte di

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vato si è già detto (I, 2.10). Va infine formandosi un indirizzo che tende a cristallizzare la nozione degli istituti fissata dall’ordinamento europeo quando non vi è rimessione agli Stati nazionali 21. Si è già visto della formazione di una Europa del diritto, legiferante regole comuni di condotta e di organizzazione, cui si connette una Europa dei diritti, per l’attribuzione di diritti fondamentali individuali (I, 2.10). Il diritto europeo, in ragione della formazione, si caratterizza come diritto convenzionale dei trattati, diritto derivato dalle organizzazioni europee e diritto giurisprudenziale maturato dalle Corti. a) Il diritto convenzionale (c.d. primario) è rappresentato dai Trattati con i quali la Comunità europea prima e la Unione europea dopo si sono costituite e gradualmente modificate. Naufragato il progetto di un Trattato sulla Costituzione europea del 2004, il Trattato di Lisbona del 13.12.2007 (ratific. e reso esec. con L. 2.8.2008, n. 130, in vigore dal 1.12.2009) segna il nuovo volto delle istituzioni europee. Emerge dal Trattato di Lisbona una istanza di legittimità democratica per il rafforzamento del ruolo del Parlamento europeo e per un maggiore coinvolgimento dei Parlamenti nazionali; è anche riconosciuta una “iniziativa dei cittadini” 22. Con tale Trattato il termine “Unione” sostituisce sempre quello di “Comunità”. Resta in vita il Trattato sull’Unione europea 23, con le modifiche apportate, contenente il diritto materiale convenzionale; mentre il Trattato C.E. diventa il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea 24, con le modifiche apportate, contenente il diritto strumentale convenzionale 25. Il Trattato di Lisbona ridisegna i criteri di equilibrio tra regole accentrate e scelte nazionali: sono riformulati i principi di “attribuzione”, “sussidiarietà” e “proporzionalità”, ora regolati dall’art. 5 TUE e che sono penetrati negli ordinamenti nazionali. Per il principio di attribuzione, l’Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che sono ad essa attribuite dagli Stati membri nei i trattati, per realizzare gli giustizia) e una concezione dualista di una duplicità di ordinamenti (sostenuta dalla Corte costituzionale), rinfocolata dalla previsione dei “controlimiti” costituzionali. 21 Dalla necessità di garantire un’applicazione uniforme del diritto dell’Unione discende che, laddove una sua disposizione non rinvii al diritto degli Stati membri per quanto riguarda una determinata nozione, quest’ultima deve essere oggetto, nell’intera Unione europea, di un’interpretazione autonoma e uniforme, da effettuarsi tenendo conto del contesto della disposizione stessa e della finalità perseguita dalla normativa in questione (Corte giust., 7-9-2017, causa C-247/16). 22 Con il Trattato di Lisbona è accentuata la marcia da un assetto intergovernativo a una integrazione di cittadini, con i diritti civili e sociali che li connotano. 23 Versione consolidata pubblicata in G.U. Un. eur. 26.10.2012, n. C 326. L’unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, della uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze; valori comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini (art. 2). L’Unione instaura un mercato interno; si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente; promuove il progresso scientifico e tecnologico (art. 3). 24 Versione consolidata pubblicata in G.U. Un. eur. 26.10.2012, n. C 326. Vi è “competenza esclusiva” e competenza concorrente” dell’Unione con gli Stati membri. Ampiamente nelle Fonti del diritto I,3.6. 25 L’adesione dell’U.E. alla CEDU e alla Carta dir. fond. U.E. non incide sulla competenza (art. 6 TUE). Diritti e principi previsti dai due testi normativi rilevano per l’Unione europea in quanto risultino di competenza della stessa (c.d. competenze di attribuzione).

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obiettivi da questi stabiliti. Vi è “competenza esclusiva” e “competenza concorrente” con quella degli stati membri (art. 52 TUE, art. 2 TFUE). Per il principio di sussidiarietà, di cui specificamente si dirà (II, 7.8), è realizzato un equilibrio di intervento tra U.E. e Stati membri, nel senso che, nei settori che non sono di competenza esclusiva, l’Unione interviene soltanto quando gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri (art. 53 TUE) 26. Per il principio di proporzionalità, di cui specificamente si dirà (II, 7.7), il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati (art. 54 TUE). In definitiva, a seguito di un lungo percorso, la Unione europea non è più solo uno spazio di libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali, secondo le istanze dei trattati originari; è anche una unione monetaria e vuole essere uno spazio di azione dei diritti fondamentali (dignità umana, libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza, sicurezza e giustizia) (c.d. Europa dei diritti) (I, 2.10). L’Unione Europea riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti dalla Carta dir. fond. U.E. (art. 61 TUE); aderisce alla Conv. eur. dir. uomo (art. 62 TUE), in entrambe le ipotesi senza modifiche di competenze. È in atto un processo di “europeizzazione” anche del diritto processuale civile e del diritto internazionale privato, oltre che di altri rami del diritto, mentre crescono le iniziative per il conseguimento dell’obiettivo finale di edificazione di un diritto materiale uniforme (anche se sporadicamente non mancano significative remore di alcuni stati). b) Il diritto derivato (c.d. secondario) è costituito dagli atti normativi che provengono dalle istituzioni europee 27. Il diritto convenzionale è gerarchicamente sovraordinato al diritto derivato. Le fonti del diritto derivato, già regolate dall’art. 249 del Trattato C.E., sono state confermate dal Trattato di Lisbona, che vi ha apportato le precisazioni emerse nella giurisprudenza della Corte di giustizia 28. Per l’art. 288 TFUE, per esercitare le competenze dell’Unione, le istituzioni adottano regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e pareri. Il regolamento ha portata generale: è obbligatorio in tutti i suoi elementi ed è direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri, anche in deroga a leggi nazionali incompatibili. Non necessita di un atto di adattamento dell’ordinamento interno. Spesso convenzioni internazionali sono trasfuse in regolamenti. La direttiva è, di regola, sfornita di immediata applicabilità: vincola lo Stato membro cui è rivolta relativamente al risultato da raggiungere, restando salva la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. È richiesto un atto di adattamento dell’ordinamento interno; con l’attuazione della direttiva si realizza una efficacia della stessa nei rapporti tra cittadini (c.d. efficacia orizzontale). La Corte di giustizia, al fine di favorire l’operatività del diritto europeo nei casi in cui lo Stato ne ritardi 26

Un’applicazione di tale principio è nella direttiva UE/2019/1771 sulla vendita di beni di consumo. Gli artt. 223 ss. TFUE fissano le Istituzioni dell’Unione, individuate in Parlamento europeo, Consiglio europeo, Commissione, Banca centrale europea, Corte dei conti e Corte di giustizia dell’Unione europea, alla quale ultima è conferito il controllo del rispetto del diritto dell’Unione e dunque anche dei “diritti fondamentali” da parte del diritto derivato. 28 La L. 24.12.2012, n. 234, detta le norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea (specie artt. 1 e 30). 27

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l’attuazione, ha ritenuto che, se la direttiva è precisa e priva di condizioni relativamente alla fattispecie e alla disciplina (c.d. “direttive dettagliate”), la relativa normativa è immediatamente operante e vincolante (autoesecutiva o self-executing) 29: opera nei rapporti tra cittadini e stato (efficacia verticale), non nei rapporti tra cittadini (efficacia orizzontale). Se è omessa o ritardata l’attuazione della direttiva e la direttiva non è autoesecutiva, lo Stato è obbligato al risarcimento dei danni nei confronti del cittadino danneggiato dalla mancata o ritardata o incompleta trasposizione nell’ordinamento interno (per inadempimento di obbligazione ex lege) 30, con il termine ordinario di prescrizione 31. La decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi per i destinatari designati. La raccomandazione e il parere non sono vincolanti. c) Va formandosi un diritto giurisprudenziale europeo delle Corti europee. Alla Corte di giustizia U.E. spetta il controllo del rispetto del diritto europeo; alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte Edu) spetta il controllo di applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) (del funzionamento delle Corti si dirà in seguito: III, 1.8). È un importante strumento di dialogo tra giudici nazionali e europei che agevola la sicurezza giuridica tramite un’applicazione uniforme del diritto dell’Unione europea. Con29

Secondo Corte cost. 18-4-1991, n. 168, occorre far riferimento alla giurisprudenza della Corte di giustizia C.E., secondo cui la diretta applicabilità, in tutto od in parte, delle direttive comunitarie non discende unicamente dalla qualificazione formale dell’atto fonte, ma richiede ulteriormente che la prescrizione sia incondizionata (sì da non lasciare margine di discrezionalità agli Stati membri nella loro attuazione) e sufficientemente precisa (nel senso che la fattispecie astratta ivi prevista ed il contenuto del precetto ad essa applicabile devono essere determinati con compiutezza, in tutti i loro elementi), e che inoltre lo Stato destinatario – nei cui confronti il singolo faccia valere tale prescrizione – risulti inadempiente per essere inutilmente decorso il termine previsto per dare attuazione alla direttiva. 30 Per Corte giust. U.E. 7-8-2018, C-122/17, un giudice nazionale, investito di una controversia tra singoli, è tenuto a procedere all’interpretazione conforme nel caso di contrasto tra il diritto interno e il diritto U.E. contenuto in una direttiva non recepita correttamente; se però non è possibile procedere all’interpretazione conforme del diritto nazionale, malgrado la direttiva abbia tutte le condizioni per produrre un effetto diretto, il giudice nazionale non è tenuto, sulla sola base del diritto dell’Unione, a disapplicare le norme interne nel caso di controversie tra privati; la parte lesa dalla non conformità del diritto nazionale al diritto dell’Unione può agire per ottenere dallo Stato membro inadempiente il risarcimento del danno subito. Per Cass., sez. un., 17-4-2009, n. 9147, in caso di omessa o tardiva trasposizione nel termine prescritto di direttive comunitarie non autoesecutive, sorge, conformemente ai principi più volte affermati dalla Corte di giustizia, il diritto degli interessati al risarcimento dei danni che va ricondotto allo schema della responsabilità per inadempimento dell’obbligazione ex lege dello Stato, quale responsabilità contrattuale, di natura indennitaria, dovendosi considerare la condotta dello Stato inadempiente come antigiuridica nell’ordinamento comunitario ma non anche alla stregua dell’ordinamento interno; il relativo risarcimento, avente natura di credito di valore, non è subordinato alla sussistenza del dolo o della colpa e deve essere determinato, con i mezzi offerti dall’ordinamento interno, in modo da assicurare al danneggiato un’idonea compensazione della perdita subita in ragione del ritardo oggettivamente apprezzabile, restando assoggettata la pretesa risarcitoria all’ordinario termine decennale di prescrizione. Conformi Cass. 12-2-2015, n. 2737; Cass. 10-3-2010, n. 5842. 31 Si è chiarito da Cass. 17-5-2011, n. 10813, che il termine decennale di prescrizione del diritto al risarcimento inizia a decorrere dal giorno in cui entra in vigore la normativa italiana di recepimento; se lo Stato non provvede alla trasposizione dell’atto U.E., non potrà essere applicato alcun termine di prescrizione. Per Corte giust. U.E. 19-5-2011, causa C-452/09, in virtù del principio di equivalenza e effettività, il termine di prescrizione può essere calcolato anche prima del recepimento della direttiva a condizione che lo Stato non sia responsabile dei ritardi nell’azionabilità dei ricorsi; è irrilevante il preliminare accertamento da parte della Corte U.E. della violazione dello Stato nei casi in cui la violazione sia evidente.

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corre alla enucleazione di principi generali dell’ordinamento europeo non sempre specificamente dichiarati dal diritto positivo europeo, atteggiandosi come diritto complementare europeo di carattere giurisprudenziale 32. Le interpretazioni delle Corti si riflettono sull’operato del giudice nazionale che è tenuto ad applicare il diritto europeo nella significazione espressa dalle stesse.

7. Leggi (statali e regionali). – La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni, nel rispetto della Costituzione nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento europeo e dagli obblighi internazionali (art. 1171). È ripartita tra Stato e Regioni, con l’attribuzione di alcune materie alla legislazione esclusiva dello Stato (art. 1172) e di altre materie alla legislazione concorrente di Stato e Regioni (art. 1173): ogni altra materia, non espressamente riservata alla legislazione (esclusiva o concorrente) dello Stato, spetta alla legislazione esclusiva delle Regioni (art. 1174). È un sistema complesso (ed eccessivamente intricato) di ripartizione della funzione legislativa, sicché da molto tempo si dibatte per una sua semplificazione e modifica, con un’accentuazione di competenze esclusive alle regioni (c.d. devolution). a) Quanto alla legislazione statale, la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere (art. 70 Cost.) in più modi. Il modo normale è quello che si svolge secondo le procedure regolate dagli artt. da 71 a 75 Cost., che portano all’adozione di leggi in senso stretto (o in senso formale): sono le c.d. leggi ordinarie. Altre procedure coinvolgono l’attività del Governo, che si affianca a quella delle Camere, dando vita ad atti aventi forza di legge (decreti legislativi e decreti-legge) 33. Sono meccanismi che valorizzano il ruolo del governo a scapito del parlamento (il cui abuso esautora la rappresentanza democratica). Le leggi (e gli atti aventi forza di legge) che recepiscono normative europee (es. direttive) assumono un rango superiore rispetto alle leggi ordinarie, per il primato del diritto europeo. Assimilati alle leggi e con il medesimo ordine nella gerarchia delle fonti sono i codici (nell’accezione tradizionale), quali testi organici ordinati e ordinanti di un’intera materia. Di specifica importanza per il diritto privato è il codice civile: la relativa normativa, per la vastità della materia regolata, la organicità della sistemazione, il linguaggio tecnico utilizzato e le categorie giuridiche rinvenienti, assume un ruolo fondamentale nella regolazione dei rapporti privati e nella elaborazione dello strumentario tecnico della materia (come innanzi si è visto). Diversa funzione assumono i codici di settore, che esprimono essenzialmente “riassetti” di disposizioni normative esistenti (talvolta con alcune aggiunte); spesso operanti come testi unici di riunione sistematica di varie normative vigenti in una stessa materia. 32 Tutte le disposizioni dell’Unione Europea, comprese le sentenze della Corte di giustizia, hanno efficacia vincolante, diretta e prevalente sull’ordinamento nazionale: Corte Cost. sent. nn. 113/1985, 170/1984, 168/1981. V. anche Corte giust. 18-12-2008, C-349/07. Cass. 30-12-2003, n. 19842 riconosce “valore normativo” alle sentenze della Corte di giust. 33 Con il d e c r e t o l e g i s l a t i v o o delegato la funzione legislativa è esercitata dal Governo su delegazione delle Camere, che, nella “legge delega”, determinano principi e criteri direttivi, nonché il limite di tempo e l’oggetto definito su cui legiferare (art. 76 Cost.). Con il d e c r e t o - l e g g e la funzione legislativa è esercitata dal Governo senza delegazione delle Camere, “in casi straordinari di necessità e d’urgenza”, ma il Governo deve il giorno stesso presentarlo per la conversione; il decreto perde efficacia sin dall’inizio se non è convertito in legge entro sessanta giorni dalla pubblicazione (art. 77).

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Nella prospettiva del diritto privato, lo Stato ha legislazione esclusiva in tema di: rapporti internazionali e con l’Unione europea; rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose; tutela del risparmio e mercati finanziari e tutela della concorrenza; cittadinanza, stato civile e anagrafe; ordinamento civile nella lata accezione di diritto privato; giurisdizione e norme processuali; determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (art. 1172 Cost.). b) Quanto alla legislazione regionale, spetta alla regione potestà legislativa concorrente con lo Stato in specifiche materie, riservandosi allo Stato la determinazione dei principi fondamentali (art. 1173); spetta inoltre alla regione potestà legislativa esclusiva residuale in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione statale (art. 1174). È dibattuta l’ammissibilità di un diritto privato regionale 34. Le leggi regionali devono rimuovere ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovere la parità di accesso fra donne e uomini alle carriere elettive (art. 1177): sono principi generali dell’ordinamento. Quando il Governo ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione, può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale; analogamente può fare la Regione quando ravvisi una lesione alla sua sfera di competenza ad opera di una legge o un atto avente valore di legge dello Stato o di altra Regione (art. 127 Cost.). Sono attribuiti al Governo poteri sostitutivi dell’inerzia delle Regioni nel legiferare in particolari materie 35. Il divario di competenze legislative si riflette nei meccanismi di ricezione delle direttive europee. Ogni Stato recepisce le direttive secondo l’ordine interno di competenze: in Italia secondo il divario di competenze (esclusive o concorrenti) tra Stato e Regioni; nell’inerzia delle regioni, intervengono i poteri sostitutivi del governo (art. 1202 Cost.).

8. Regolamenti. – La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni; spetta alle Regioni in ogni altra materia. I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite (art. 1176 Cost.; art. 7 D.Lgs. 18.8.2000, n. 267) (c.d. “principio di parallelismo” tra funzioni legislative e funzioni regolamentari). Per l’art. 3 disp. prel. il potere regolamentare del Governo è disciplinato da leggi di carattere costituzionale; il potere regolamentare di altre autorità è esercitato nei limiti delle rispettive competenze, in conformità delle leggi particolari. Esiste un doppio ordine gerarchico: tutti i regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni delle leggi (art. 41 disp. prel.); i regolamenti emanati da autorità diverse dal Governo non possono nemmeno dettare norme contrarie a quelle dei re34 La Corte cost. ha considerato per il passato non illegittimi alcuni interventi regionali in settori del diritto privato: ad es., sent. 29-9-2003, n. 300; sent. 6-11-2001, n. 352. Per Corte cost. 6-7-2021, n. 138, l’ordinamento del diritto privato si pone quale limite alla legislazione regionale, in quanto fondato sull’esigenza, sottesa al principio costituzionale di eguaglianza, di garantire sul territorio nazionale l’uniformità della disciplina dettata per i rapporti tra privati; conf. Corte cost. 21-4-2021, n. 75; Cass. 11-12-2006, n. 26319. 35 Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nei casi tassativamente fissati dall’art. 1202 Cost.

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golamenti emanati dal Governo (art. 42 disp. prel.) 36. La valutazione di legittimità dei regolamenti è operata dal giudice ai soli fini della disapplicazione 37; ma l’annullamento degli stessi è di competenza del giudice amministrativo. È frequente che una legge rinvii ad un regolamento di esecuzione per determinare i modi di applicazione della legge 38. Nel diritto privato assumono una particolare rilevanza i regolamenti comunali edilizi per effetto del richiamo di questi ad opera degli artt. 871 e 873 c.c.: in tal guisa le norme dei regolamenti diventano integrative di quelle del codice civile relativamente alle costruzioni e alle distanze tra le stesse 39. Diversi sono gli atti e provvedimenti amministrativi che sono espressioni di potestà amministrativa, non di potestà normativa 40, con la conseguenza che, per i regolamenti, quali fonti del diritto, vale il principio iura novit curia, che non vale per gli atti amministrativi. Le circolari sono atti interni all’amministrazione privi di rilevanza normativa. Mirano ad indirizzare e disciplinare in modo uniforme l’attività degli organi inferiori: sono dunque atti amministrativi.

9. Usi. – Come si accennava, gli usi si qualificano come fonti-fatto in quanto espressivi di comportamenti e situazioni cui l’ordinamento attribuisce rilevanza giuridica (I, 3.4). Proprio per l’emergere spontaneo del diritto dal corpo sociale trattasi di diritto non 36 I regolamenti sono tradizionalmente qualificati fonti normative secondarie (rispetto alla legge): sono espressioni del potere delle amministrazioni, alle quali le norme sulla competenza assegnano la potestà regolamentare e demandano la disciplina di settori specifici. Per i regolamenti governativi, ministeriali e interministeriali, v. L. 23.8.1988, n. 400. Relativamente agli enti locali, v. D.Lgs. 18.8.2000, n. 267. 37 Per la fondamentale regola dell’art. 5 L. 20.3.1865, n. 2248, All. E, le autorità giudiziarie applicano gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi. Quindi sia il giudice ordinario che il giudice amministrativo possono disapplicare il regolamento considerato illegittimo (per violazione di legge ovvero per eccesso di potere o incompetenza). Anche le commissioni tributarie, se ritengono illegittimo un regolamento o un atto generale rilevante ai fini della decisione, non lo applicano, salva l’eventuale impugnazione nella diversa sede competente (art. 7 D.Lgs. 546/1992). 38 Quando la legge rinvia a prescrizioni di decreti ministeriali l’attuazione particolareggiata del dettato legislativo, i decreti assumono la natura di disposizioni normative di carattere secondario, continuamente aggiornate, che completano il precetto normativo (cfr. Cass. 13-5-2020, n. 8883). 39 Il giudice deve applicare le norme dei regolamenti locali indipendentemente da ogni attività assertiva o probatoria delle parti, acquisendone conoscenza o attraverso la sua scienza personale o attraverso la collaborazione delle parti o attraverso la richiesta di informazioni ai Comuni (Cass. 3-2-1998, n. 1047). Anche il piano regolatore generale e le norme tecniche di attuazione dello stesso, per essere volti a disciplinare l’attività amministrativa per un migliore assetto dell’agglomerato urbano e i rapporti di vicinato in modo equo, sono fonti normative, facendo sorgere a favore del vicino danneggiato il diritto di chiedere la riduzione in pristino, ai sensi dell’art. 872 c.c. (Cass. 28-11-2006, n. 25225). 40 Gli atti e provvedimenti amministrativi generali sono destinati alla cura concreta di interessi pubblici, con effetti diretti nei confronti di una pluralità di destinatari non necessariamente determinati nel provvedimento, ma determinabili; mentre i regolamenti sono espressione di una potestà normativa attribuita all’amministrazione, con carattere secondario rispetto a quella legislativa, e disciplinano in astratto tipi di rapporti giuridici mediante una regolamentazione attuativa o integrativa della legge, ma egualmente innovativa rispetto all’ordinamento giuridico esistente, con precetti che presentano i caratteri della generalità ed astrattezza (Cass., sez. un., 28-11-1994, n. 10124; analogamente Cass. 27-9-2006, n. 20958). Per l’art. 174 Cost. i regolamenti governativi e quelli ministeriali ed interministeriali devono recare la denominazione di “regolamento”; inoltre l’esercizio della potestà normativa deve svolgersi con l’osservanza di un particolare procedimento (sono adottati previo parere del Consiglio di Stato, sottoposti al visto ed alla registrazione della Corte dei conti e pubblicati nella Gazzetta Ufficiale).

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scritto, legato al contegno dei consociati. La rilevanza degli usi, tradizionalmente operante nelle relazioni commerciali 41, è andata riducendosi contestualmente all’accrescersi della statualità del diritto: l’assunzione da parte dello Stato di funzioni di riequilibrio di condizioni sociali deboli è antitetica allo spontaneismo di regole giuridiche; anche se si assiste al riemergere di una c.d. lex mercatoria (I, 2.13). Gli artt. 1, 8 e 9 disp. prel. preferiscono il termine “uso”, proprio della tradizione privatistica, a quello di “consuetudine”, di più generale accezione nel linguaggio giuridico: ma trattasi di mera variante terminologica. Sono i c.d. usi normativi, appunto come fonti di diritto. La laconica regolazione sollecita tre ordini di problemi, relativi ai requisiti, alla rilevanza e alla conoscenza e dunque alla prova dell’uso. a) Quanto ai requisiti, nulla è detto dalla legge, sicché la relativa configurazione è rimessa alla elaborazione che tradizionalmente ne hanno fatto dottrina e giurisprudenza. È principio comunemente accolto che, per la configurabilità di un uso normativo, debbano ricorrere due requisiti: uno, di carattere oggettivo, relativo al comportamento tenuto, consistente nella uniforme e costante ripetizione di un dato comportamento; un altro, di carattere soggettivo o psicologico, relativo alla convinzione serbata, consistente nella consapevolezza di prestare osservanza ad un precetto giuridico (c.d. opinio iuris ac necessitatis). La giurisprudenza insiste sulla ricorrenza del requisito soggettivo, altrimenti il fenomeno consuetudinario si ridurrebbe alla mera prassi 42. b) Quanto alla rilevanza, per cominciare, gli usi non sono menzionati nella Carta costituzionale, sicché la rilevanza degli stessi non può mai interferire con quella di norme primarie (costituzionali o di derivazione europea). L’art. 8 disp. prel. si limita a prevedere che “nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti, gli usi hanno efficacia solo in quanto sono da essi richiamati”. Si delineano tre categorie di usi: secundum legem, praeter legem e contra legem. Gli usi secundum legem si caratterizzano per essere un atto normativo (legge o regolamento) a rinviare all’uso, che dunque assume la forza dell’atto normativo di richiamo. Tipici esempi ricorrono in tema di vendita, dove l’art. 1510 detta specifiche regole circa la consegna della cosa, che operano solo “in mancanza di patto o di uso contrario”: è cioè la legge stessa che rinvia all’uso della consegna, solo in assenza del quale trova applicazione la legge; analogamente, nella esecuzione dell’obbligazione, dove, per l’art. 1182, se il luogo di esecuzione della prestazione “non è determinato dalla convenzione o dagli usi” e non può 41 L’art. 1 del cod. comm. 1882 prevedeva che, ove le leggi commerciali non disponessero, trovassero applicazione gli usi mercantili (con prevalenza di quelli locali o speciali su quelli generali), e che, in mancanza di usi, si applicasse il diritto civile. 42 Nell’affermare tale principio la Suprema Corte ha escluso la natura di usi normativi delle norme bancarie uniformi emanate dall’Abi, qualificandole come usi negoziali ex art. 1340, perché imposte al cliente in base ad una mera prassi, sia pure ineludibile in quanto richiesta dall’istituto bancario (Cass. 8-5-2008, n. 11466; Cass. 28-3-2002, n. 4498). Analogamente le norme e gli usi uniformi della camera di commercio internazionale hanno natura giuridica di usi negoziali, ossia di clausole d’uso integrative della volontà dei contraenti, con la conseguenza che la loro interpretazione, effettuata dal giudice di merito con motivazione adeguata e non illogica, non è censurabile in sede di legittimità (Cass. 14-10-2009, n. 21833). È anche escluso il ricorrere dell’uso normativo nell’uso aziendale, trovando lo stesso origine nel comportamento dell’imprenditore di attribuire spontaneamente e per liberalità (e non sulla base del convincimento della sussistenza di un obbligo) a tutti i dipendenti (o soltanto ad un gruppo di essi) un trattamento non previsto né dal contratto individuale né dal contratto collettivo (Cass. 25-7-2000, n. 9764).

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diversamente desumersi, si applicano le norme previste dal medesimo articolo: la legge stessa rinvia all’uso di esecuzione delle prestazioni, in assenza del quale opera il criterio legale. Gli usi praeter legem operano nelle materie non regolate dalle leggi o dai regolamenti (art. 18). L’assenza di richiamo in leggi o regolamenti impedisce che l’uso possa essere in contrasto con una fonte normativa sovraordinata. Il sopraggiungere di legge o regolamento incompatibili con l’uso paralizzerà l’operatività di questo. Sono inammissibili gli usi contra legem: l’uso non può operare contro la legge o il regolamento, in quanto gerarchicamente subordinato 43. Il fenomeno ha assunto una particolare rilevanza con riferimento alla normativa sulle clausole vessatorie nei contratti dei consumatori: non può assumere rilevanza giuridica un uso che integri un significativo squilibrio giuridico a carico del consumatore (o di altro imprenditore debole) in quanto in contrasto con l’art. 33 cod. cons. (VIII, 2.16). c) Quanto alla conoscenza, integrando l’uso (come si è visto) una fonte-fatto e perciò non scritta, emerge il problema della prova della esistenza. Operano all’uopo raccolte ufficiali di usi, come quelle del Ministero dell’Industria per gli usi generali e quelle delle Camere di commercio per gli usi locali 44, che però essenzialmente raccolgono usi negoziali (art. 1340 c.c.). Per l’art. 9 disp. prel. gli usi pubblicati nelle raccolte ufficiali degli enti e degli organi a ciò autorizzati si presumono esistenti fino a prova contraria: la pubblicazione dell’uso implica una presunzione legale semplice di esistenza, che ammette la prova contraria di non sussistenza o permanenza 45. Di diversa natura ed efficacia sono gli usi contrattuali e gli usi interpretativi, legati all’attività contrattuale specie commerciale (VIII, 5.8). Diversi sono pure gli usi civici, che affondano le radici nella storia del feudo e della proprietà collettiva (VI, 3.9).

10. Emersione di nuove fonti. – Alle fonti del diritto, formalmente indicate come tali e gerarchicamente organizzate, si vanno aggiungendo ulteriori fonti, non sempre coordinate con le prime, che assumono una influenza sempre più rilevante. a) Anzitutto rileva l’attività delle Autorità amministrative indipendenti, in ragione della complessità istituzionale che le caratterizza e della varietà di poteri attribuiti (poteri di regolazione e indirizzo, nonché di controllo e repressione) 46. Sono ispirate alla 43 La regola dell’art. 1 cod. nav., per cui gli usi prevalgono sul diritto civile, si giustifica per la “prevalenza” del diritto speciale sul diritto comune. Non sono derogabili norme imperative o di ordine pubblico. 44 Il compito di accertare e revisionare periodicamente gli usi e le consuetudini, collegati alle attività economiche e commerciali, venne attribuito alle Camere di Commercio con L. 20.3.1910, n. 121, per il cui art. 34 ogni cinque anni sono istituite Commissioni provinciali per la revisione degli usi; poi ribadito dal R.D. 19.2.1911, n. 245 e dal D.M. 16.5.2000, rientrando fra le funzioni camerali in materia di armonizzazione del mercato previste dall’art. 2 della L. 580/1993. Con D.L. 4.7.2006, n. 223, conv. con L. 4.8.2006, n. 248, si è previsto che “dei Comitati tecnici istituiti presso le Camere di Commercio per la rilevazione degli usi commerciali non possono far parte i rappresentanti di categorie aventi interesse diretto nella specifica materia oggetto di rilevazione”: questi sono ora solo interpellati tramite specifiche audizioni, mentre il Comitato è composto da rappresentanti di organi professionali ed esperti super partes. 45 Per la Suprema Corte gli usi normativi – contemplati dall’art. 1, n. 4, disp. prel. – sono norme giuridiche che il giudice ha l’obbligo di applicare se le conosce, ma non ha l’onere di indagare personalmente per accertarne l’esistenza, disponendo ex officio attività istruttorie per sopperire all’inerzia delle parti (Cass. 21-11-2000, n. 15014). In tal senso già Cass. 17-4-1968, n. 1131; Cass. 19-12-1968, n. 2962. 46 L’Autorità garante della concorrenza e del mercato è organo amministrativo dotato di poteri discrezio-

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tradizione anglosassone, la cui istituzione è giustificata da istanze eterogenee; sono dotate di strutture organizzative diversificate e soggette a discipline variegate e operano in aree nelle quali maggiormente è avvertita l’esigenza di un’azione tecnica specializzata di pubblici poteri. Sono indipendenti dal Governo e dunque dalla politica: non c’è responsabilità ministeriale per l’operato delle stesse; né alle autorità indipendenti possono imporsi direttive ministeriali o attuarsi forme di controllo. Per il conseguimento degli obiettivi prefissi sono accordati poteri normativi (comunque sublegislativi) 47 e poteri amministrativi, oltre che poteri di giustiziabilità (III, 3.1). Nella prospettiva del diritto privato una generale funzione svolge l’Autorità del Garante per la protezione dei dati personali: l’Autorità ha la finalità di garantire che il trattamento dei dati personali si svolga nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell’interessato, con particolare riferimento alla riservatezza, all’identità personale e al diritto alla protezione dei dati personali (così l’art. 2 del D.Lgs. 30.6.2003, n. 196, recante il codice in materia di protezione dei dati personali); per l’art. 153 del codice il Garante opera in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione 48. Una rilevante funzione assume anche l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (connessa alla regolazione antitrust) (AGCM), istituita con L. 10.10.1990, n. 287, i cui poteri sono stati man mano ampliati (cfr. D.Lgs. 8.11.2021, n. 185). Altre Autorità operano in specifici settori 49. b) Ulteriori fonti provengono dal basso, attraverso i codici di autodisciplina, formulati da singole categorie e che si impongono in modo vincolante ai soggetti che vi aderiscono. Il più rilevante è il codice di autodisciplina pubblicitaria, caratterizzato anche da una propria giurisdizione interna (il Giurì). Più di recente è lo stesso ordinamento che, in un processo di delegificazione, rimette alla elaborazione di categorie sociali la formazione di codici di deontologia e buona condotta per specifici settori, rimettendo a strutture pubbliche il controllo di non contrarietà all’ordinamento 50. Ciò avviene principalmente in settori caratterizzati da frequenti innali, privo dell’essenziale requisito della terzietà e non qualificabile quale giudice neanche ai limitati fini del giudizio di costituzionalità (Corte cost. 31-1-2019, n. 13). 47 I regolamenti delle Autorità indipendenti rientrano nel potere normativo delle stesse e sono pertanto atti con valore normativo. La legittimazione costituzionale del potere normativo è nel fondamentale canone costituzionale di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 98 Cost.). 48 Il Garante per la protezione dei dati personali è organo amministrativo ed è investito di un procedimento di natura amministrativa: non ricopre una posizione di terzietà assimilabile a quella assicurata dal giudice nel processo, escludendosi che il provvedimento di talea autorità sia idoneo al passaggio in giudicato (Cass. 8-2-2022, n. 3952; Cass. 18-6-2018, n. 16061; Cass. 25-5-2017, n. 13151). 49 Si pensi alla Banca d’Italia, per la vigilanza sulle banche, i gruppi bancari e le società finanziarie; alla Consob per il controllo delle società quotate in borsa; all’Isvap per la vigilanza delle attività assicurative private. Grande rilevanza hanno anche le autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità, quali l’Autorità per l’energia elettrica e il gas; l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Una particolare funzione svolge l’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), che nel 2014 incorpora l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (AVCP). Si pensi anche all’Organismo Italiano di Contabilità (OIC), come fondazione privata che emana i principi contabili nazionali, per la redazione dei bilanci secondo le disposizioni del codice civile, perseguendo finalità di interesse pubblico. 50 Si è ritenuto che le regole deontologiche poste dagli ordini professionali sono soggette al controllo giurisdizionale quando violino precetti costituzionali o inderogabili o principi generali dell’ordinamento e in quanto incidano su oggetti estranei alla deontologia professionale (Cass. 4-6-1999, n. 5452).

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novazioni scientifiche e tecnologiche, che si tende a disciplinare anche con il ricorso a fonti più flessibili e maggiormente capaci di penetrare nella coscienza e nella professionalità delle categorie coinvolte 51: si pensi al Codice di deontologia medica; al Codice deontologico forense 52 e ai Principi di deontologia professionale dei notai 53.

B) APPLICAZIONE DEL DIRITTO 11. Efficacia nel tempo (obbligatorietà delle norme). – Delineate le fonti del diritto, bisogna aver riguardo all’applicazione delle norme nel tempo e nello spazio, oltre che delineare i modi di interpretare e applicare il diritto. Il capo II disp. prel. c.c. usa la formula “applicazione della legge in generale” per rappresentare a quell’epoca la legge il parametro della normatività. La disciplina va riferita a tutte le norme giuridiche, con i debiti coordinamenti rispetto alle singole fonti (sopra, par. 1). La efficacia della norma nel tempo indica la durata della obbligatorietà della stessa, cioè il tempo in cui la norma è vigente: tra l’entrata in vigore e la perdita di vigore. a) Per la entrata in vigore della norma non è sufficiente che sia esaurita la procedura di formazione; è anche necessario che la norma sia resa pubblica (pubblicata) e cioè legalmente conoscibile (par. 3). Le leggi sono promulgate dal Presidente della Repubblica entro un mese dall’approvazione, tranne il diverso termine indicato dalle Camere (art. 73 Cost.). Di regola è previsto un termine per l’entrata in vigore di leggi e regolamenti per consentirne la conoscenza 54: di solito nel quindicesimo giorno successivo a quello della loro pubblicazione, salvo che sia altrimenti disposto (artt. 10 disp. prel. e 73 Cost.) (c.d. vacatio legis) 55. In particolari circostanze è dichiarata la obbligatorietà della legge con la pubblicazione (c.d. leggi catenaccio). 51

Emblematico è il D.Lgs. 196/2003 sulla protezione dei dati personali, per il cui art. 12 il Garante promuove, nell’ambito delle categorie interessate, la sottoscrizione di codici di deontologia e di buona condotta per determinati settori, ne verifica la conformità alle leggi e ai regolamenti e contribuisce a garantirne la diffusione e il rispetto. 52 Testo modificato dal Consiglio nazionale forense il 23.2.2018, in vigore dal 12.6.2018. Le deliberazioni con le quali il Consiglio nazionale forense procede alla determinazione dei principi di deontologia professionale e delle ipotesi di violazione degli stessi, costituiscono regolamenti adottati da un’autorità non statuale in forza di autonomo potere in materia che ripete la sua disciplina da leggi speciali; trattandosi di legittima fonte secondaria di produzione giuridica, va esclusa qualsiasi lesione del principio di legalità (Cass., sez. un., 29-12-2017, n. 31227; Cass., sez. un., 11-7-2017, n. 17115). 53 Testo aggiornato dal Consiglio nazionale del notariato il 5.4.2008. Per Cass. 3-2-2017, n. 2979, la sanzione disciplinare ha come destinatari gli appartenenti ad un ordine professionale (nella specie notarile) ed è preordinata all’effettivo adempimento dei doveri inerenti al corretto esercizio dei compiti loro assegnati, sicché ad essa non può attribuirsi natura sostanzialmente penale. 54 L’art. 101 disp. prel. non si applica ai decreti ministeriali che recepiscono, senza trasformarli in regolamenti governativi, gli atti emanati da autorità non statali in forza di un potere normativo attribuito da leggi speciali (art. 32, disp. prel.), sicché i medesimi, anche se debbono essere pubblicati sulla G.U., non sono assoggettati ad periodo di “vacatio legis” e sono quindi immediatamente applicabili atteso il carattere di esecutorietà proprio degli atti amministrativi (Cass. 25-7-2016, n. 15315). 55 Gli effetti di uno “ius novum” più favorevole al reo sono applicabili, in pendenza di giudizio, anche durante il periodo della “vacatio legis”, in quanto la funzione di garanzia per i consociati, perseguita dagli artt. 733 Cost. e 10 prel., non preclude al giudice di tener conto di quella che è già una novazione legislativa (Cass. pen. 14-5-2019, n. 39977).

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Ogni atto normativo non può che disporre per l’avvenire, e perciò non ha effetto retroattivo (art. 11 disp. prel.): non può applicarsi a fatti verificatisi anteriormente alla entrata in vigore (principio della irretroattività della legge); è espressione del fondamentale principio di legalità, che si traduce nella salvezza dei diritti quesiti 56. La generale previsione di irretroattività è contenuta esclusivamente nelle disposizioni preliminari al codice civile; mentre la Carta costituzionale si limita a prevedere la irretroattività della sola norma penale, stabilendo che nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso (art. 252 Cost.). Fuori della materia penale è perciò emerso il principio che una legge o altra normativa possa regolare rapporti in corso, ancorché riferiti a fatti avvenuti in precedenza, purché ciò risulti espressamente o comunque in modo non equivoco dalla stessa normativa applicata che tende a regolare la sostanza del rapporto piuttosto che la costituzione dell’atto 57. Si pensi all’esperienza della legge sul divorzio del 1970 applicata alle coppie in precedenza coniugate, o alla riforma del diritto di famiglia del 1975 applicata alle famiglie in precedenza costituite. Eccezionalmente (sempre fuori della materia penale) la legge incide sul fatto generatore del rapporto (c.d. norme retroattive in senso stretto), previa espressa previsione. b) Quanto alla perdita di vigore, leggi e regolamenti sono abrogati, rispettivamente, da leggi e regolamenti successivi in modo espresso o tacito. Si ha abrogazione espressa quando c’è testuale abrogazione da parte dell’ordinamento; si ha abrogazione tacita quando le nuove disposizioni sono incompatibili con le precedenti o perché la nuova normativa regola l’intera materia già regolata in precedenza così da assorbirla (art. 15 disp. prel.). Per l’abrogazione è necessario che la normativa abrogante sia di grado superiore o omogeneo a quello della normativa abrogata. Se si determina un contrasto tra norme di pari grado prevale quella cronologicamente successiva. Uno speciale modo di abrogazione di leggi e atti aventi forza di legge è il referendum popolare, ammesso quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali (art. 75 Cost.). L’abrogazione non fa perdere efficacia alla norma per il tempo in cui è stata in vigore. Anche se una norma è abrogata, continua a regolare i fatti intervenuti sotto il suo vigore: è il principio regolatore della successione nel tempo delle leggi, per cui la validità degli atti è regolata dalla legge in vigore al tempo della formazione (tempus regit actum). In tale divenire normativo si rivela la importanza del diritto transitorio, che regola la efficacia intertemporale dei testi normativi (es. norme transitorie al codice civile, per i rapporti in corso alla data di entrata in vigore del codice). Profondamente diversa è la dichiarazione di incostituzionalità di una norma, cessando questa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione e con efficacia di regola retroattiva (art. 136 Cost.) (sopra par. 5). 56 In materia di rispetto delle distanze, lo “ius superveniens” che contenga prescrizioni più restrittive incontra la limitazione dei diritti quesiti e non trova applicazione con riferimento alle costruzioni che, al momento della sua entrata in vigore, possono considerarsi già sorte, in ragione dell’avvenuta realizzazione delle strutture organiche, costituenti punti di riferimento essenziali per la misurazione delle distanze (Cass. 23-10-2018, n. 26886). 57 La disciplina sopravvenuta è applicabile ai fatti, agli status e alle situazioni esistenti o venute in essere alla data della sua entrata in vigore, ancorché conseguenti ad un fatto passato, quando essi, ai nuovi fini, debbano essere presi in considerazione in se stessi, prescindendosi dal collegamento con il fatto che li ha generati (Cass. 2-8-2016, n. 16039). V. anche Corte cost. 14-9-2021, n. 24719; Cass. 16-4-2008, n. 9972.

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12. Efficacia nello spazio (diritto internazionale privato). – Lo sviluppo della industrializzazione e della globalizzazione ha comportato la crescita di circolazione di persone, capitali e merci; ha favorito la mobilità per ragioni di lavoro o anche solo di turismo, così instaurandosi relazioni tra persone soggette ad ordinamenti diversi. Può avvenire che un contratto sia stipulato tra soggetti di differente nazionalità o anche tra due cittadini relativamente ad un bene situato all’estero; come può avvenire che un cittadino italiano sposi una straniera o che due cittadini abbiano un figlio all’estero ovvero che intervenga separazione tra gli stessi in un paese diverso. In tali ipotesi la fattispecie, vuoi per la nazionalità dei soggetti, vuoi per la collocazione territoriale del bene o per altre ragioni, presenta profili di estraneità rispetto all’ordinamento italiano e viceversa criteri di collegamento con più ordinamenti, i quali per singoli versi potrebbero trovare applicazione. Quando non opera un diritto materiale uniforme bisogna accedere a regole giuridiche che consentano la soluzione dei c.d. conflitti tra ordinamenti, sì da stabilire la legge applicabile. C’è cioè l’esigenza di individuare l’ordinamento dello Stato dove “localizzare” il singolo rapporto per risultare l’ordinamento meglio in grado di regolarlo, nell’interesse dei singoli autori, ma più in generale per la certezza delle relazioni giuridiche. Lo sviluppo degli stati nazionali ha favorito la formazione di un diritto internazionale privato, che regola tali conflitti spaziali. Il diritto internazionale privato è un diritto interno che regola i rapporti tra privati e con enti aventi punti di contatto con più ordinamenti, determinando il diritto applicabile; è anche un diritto strumentale in quanto non è immediatamente regolatore della fattispecie ma si limita ad individuare l’ordinamento che deve regolarla. In Italia tale normativa è oggi costituita dalla L. 31.5.1995, n. 218, recante la riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato, che ha abrogato gli artt. da 17 a 31 delle disp. prel. c.c., che originariamente lo regolavano; resta in vigore l’art. 16 disp. prel. relativo al “trattamento dello straniero” (per cui lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti al cittadino a condizione di reciprocità e salve le disposizioni contenute in leggi speciali; analogamente avviene per le persone giuridiche straniere). Una integrazione della L. 218/1995 è avvenuta ad opera della L. 19.1.2017, n. 7, in attuazione della L. 20.5.2016, n. 76, con riguardo all’unione civile tra persone dello stesso sesso. Per l’art. 141 l’accertamento della legge straniera è compiuto di ufficio dal giudice. In tempi più recenti la marcia verso un diritto uniforme ha toccato anche il diritto internazionale privato, con l’emergere di un diritto internazionale privato uniforme, sia di origine convenzionale che di formazione europea. Nella prima direzione, di grande importanza è la Convenzione di Roma del 19 giugno 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, ratif. e resa esec. con L. 18.12.1984, n. 975, confluita nel Reg. CE/593/2008 (“Roma 1”), sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (a tale disciplina rinvia l’art. 57 L. 218/1995) 58. Nella seconda direzione, con il c.d. Programma dell’Aja pubblicato sulla G.U. del 3 marzo 2005 sono menzionati più regolamenti europei di diritto internazionale privato uniforme: significativo è il Reg. CE/864/2007 (“Roma 2”) concernente i conflitti di leggi in relazione alle obbligazioni extracontrattua58 Rilevante anche la Conv. Aja 1.7.1985 sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento (L. 16.10.1989, n. 364).

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PARTE I – ORDINAMENTO GIURIDICO

li 59. Consegue che lo spazio rilasciato al legislatore nazionale di legiferare in materia di diritto internazionale privato risulta sempre più ristretto. Alla stregua della normativa nazionale, il procedimento di individuazione dell’ordinamento applicabile si articola in due fondamentali passaggi. a) Anzitutto va compiuta la qualificazione del rapporto: bisogna cioè definire la natura del rapporto da regolare: es. rapporto coniugale, obbligatorio, successorio, ecc. Ciò avviene di regola in base all’ordinamento davanti al quale è posta la questione da decidere (c.d. lex fori). b) Successivamente si deve fissare il collegamento della fattispecie (come qualificata) con uno specifico ordinamento secondo i criteri fissati dalle norme di diritto internazionale privato. Ad es. il possesso e i diritti reali sono regolati dalla legge dello Stato in cui i beni si trovano (art. 51); le obbligazioni contrattuali sono regolate dalla richiamata Convenzione di Roma del 1980 (art. 57); la promessa unilaterale è regolata dalla legge dello Stato in cui viene manifestata (art. 58); la separazione personale e lo scioglimento del matrimonio sono regolati dalla legge nazionale comune dei coniugi al momento della domanda, in mancanza si applica la legge dello Stato nel quale la vita matrimoniale risulta prevalentemente localizzata (art. 31); rispetto al minore è di regola applicata la legge di maggior favore per il minore (artt. 31 ss.). Le norme del diverso ordinamento valgono all’interno dell’ordinamento dello Stato quando questo compie un rinvio a tali norme 60. È regolata l’ipotesi di un eventuale rinvio dell’ordinamento richiamato ad altro ordinamento 61. In ogni caso sussistono due limiti all’applicazione della legge straniera. Anzitutto operano le c.d. norme di applicazione necessaria 62; per l’art. 17 L. 218/1995, sui criteri di collegamento fissati dalla normativa di diritto internazionale privato, prevalgono le norme italiane che, in considerazione del loro oggetto e del loro sco59 Rilevanti anche Reg. UE/1259/2010 relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione personale; Reg. UE/650/2012 relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e all’accettazione e all’esecuzione degli obblighi in materia di successioni e alla creazione di un certificato successorio europeo; il Reg. 2019/1111/UE, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e responsabilità genitoriale, e alla sottrazione internazionale di minori. 60 Il rinvio è f i s s o (c.d. materiale o recettizio), quando è richiamato uno specifico atto in vigore in altro ordinamento, ordinandosi ai soggetti dell’applicazione del diritto (giudici e pubblica amministrazione) di applicare le norme di tale atto normativo come norme interne; è invece m o b i l e (c.d. formale o non recettizio) quando è richiamato non uno specifico atto di altro ordinamento ma una fonte di esso, così adeguandosi a tutte le modifiche che intervengono nella normativa posta dalla fonte richiamata. 61 Poiché il rinvio ad una legge straniera potrebbe incrociare una norma che a sua volta rinvia ad altro ordinamento (e così all’infinito) o addirittura allo stesso ordinamento italiano (come un gioco di ping-pong), la L. 218/1995 limita l’efficacia del rinvio dell’ordinamento straniero, stabilendo che si tiene conto del rinvio operato dal diritto straniero alla legge di un altro Stato solo se il diritto di tale Stato accetta il rinvio o se si tratta di rinvio alla legge italiana (art. 131). Il rinvio dell’ordinamento straniero ad altro ordinamento è escluso se l’applicazione della legge straniera è avvenuta sulla base della scelta effettuata in tal senso dalle parti interessate e in altre specifiche ipotesi (art. 132). 62 Le norme di applicazione necessaria sono spazialmente condizionate e funzionalmente autolimitate – perciò destinate ad applicarsi, nonostante il richiamo alla legge straniera – quali, tra le altre, le leggi fiscali, valutarie, giuslavoristiche, ambientali (Cass., sez. un., 5-7-2011, n. 14650). Sono norme della lex fori, operanti come limite all’applicazione del diritto straniero eventualmente richiamato da una norma di conflitto (Cass., sez. un., 20-2-2007, n. 3841).

CAP. 3 – FONTI E APPLICAZIONE DEL DIRITTO

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po, debbono essere applicate nonostante il richiamo alla legge straniera: ad es., lo straniero che vuole contrarre matrimonio nello Stato è soggetto alle disposizioni contenute negli artt. 85, 86, 87, n. 1, 2 e 4, 88 e 89 (art. 1162 c.c.); sono di applicazione necessaria le norme del diritto italiano che sanciscono l’unicità dello stato di figlio (art. 334 L. 218/1995). È un meccanismo paralizzante del funzionamento dei criteri di collegamento (controllo preventivo). Inoltre, quand’anche la legge straniera risulti formalmente applicabile, non è applicata se i suoi effetti sono contrari all’ordine pubblico (art. 16 L. 218/1995) (controllo successivo). L’ordine pubblico, quale limite all’applicabilità della legge straniera in Italia, è il c.d. ordine pubblico internazionale, che si identifica nelle norme di tutela dei diritti fondamentali 63; il divario con l’ordine pubblico interno, quale insieme delle norme inderogabili dell’ordinamento, tende a ridursi per la funzione assorbente assunta dai diritti e valori fondamentali in entrambe le direzioni (II, 7.9).

13. Interpretazione delle norme giuridiche (criteri e valori). – Ogni fenomeno dell’esperienza si presta ad essere analizzato e valutato. Uno spartito musicale, un dipinto, un libro, una pellicola cinematografica destano nell’osservatore sensazioni e stimoli per il messaggio che dagli stessi promana; ed ognuno avverte e dunque interpreta tali fenomeni in ragione della propria sensibilità, della propria formazione culturale, della propria professione politica o fede religiosa, e così via. Le percezioni, sia sensibili che intellettive, sono trasposte nella coscienza personale che le connota: da un oggettivo dato fenomenico derivano suggestioni diverse e colti significati differenti a seconda di ciò che si sceglie di valorizzare del fenomeno (il mero accadimento, la persona degli autori o delle vittime, la natura degli interessi coinvolti) e del tipo di rilevanza che si intende attribuire ai contesti nei quali i fatti si svolgono. Non diversamente avviene rispetto alla norma giuridica: anche questa si compone di un dato fenomenico, rappresentato dal testo e cioè dalla formula, e di un messaggio derivante da tale formula, che costituisce propriamente il precetto (la regola vincolante per i destinatari). Anche la norma giuridica ha bisogno di essere interpretata e richiede un’attività intellettiva di determinazione del relativo significato. C’è però un divario di destinazione dell’interpretazione: il fine della interpretazione artistica si esaurisce nella intimità dell’interprete, mentre il fine della interpretazione giuridica si proietta nella realtà esteriore, imponendosi come regola di comportamento (si è visto innanzi che caratteri 63 È indirizzo consolidato della giurisprudenza considerare, come ordine pubblico interno, le norme imperative dell’ordinamento civile, e come ordine pubblico internazionale i principi fondamentali e caratterizzanti l’atteggiamento etico-giuridico dell’ordinamento in un determinato periodo storico (Cass. 22-8-2013, n. 19405; Cass. 6-12-2002, n. 17349). Il problema è particolarmente avvertito con riguardo al riconoscimento delle sentenze straniere, che incontra, appunto, il limite dell’ordine pubblico (art. 64, lett. g), comunemente considerato quale ordine pubblico internazionale. Si è ad es. stabilito che il giudice italiano, chiamato a valutare la compatibilità con l’ordine pubblico dell’atto di stato civile straniero, i cui effetti si chiede di riconoscere in Italia, a norma degli artt. 16, 64 e 65 della L. 31.5.1995, n. 218 e dell’art. 18 del D.P.R. 3.11.2000, n. 396, deve verificare non già se l’atto straniero applichi una disciplina della materia conforme o difforme rispetto ad una o più norme interne, seppure imperative o inderogabili, ma se esso contrasti con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, desumibili dalla Carta costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cass. 30-9-2016, n. 19599).

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comuni alle norme giuridiche sono appunto la esteriorità e la plurilateralità: par. 2). Ciò implica una connotazione relazionale del risultato dell’interpretazione, funzionale all’applicazione del diritto. L’ordinamento giuridico esprime una complessiva visione e regolazione della realtà in un determinato periodo storico, attraverso un ponderato bilanciamento tra normative di settore e principi generali e tra gli stessi principi operanti (I, 1.4); per cui l’interpretazione delle norme deve svolgersi attraverso conoscenza giuridica e oculata prudenza (secondo l’etimologia della parola) 64. Si è già detto della funzione del metodo (I, 1.6). L’interpretazione come l’applicazione del diritto devono svolgersi con metodo funzionale finalizzato alla regolazione della realtà materiale. Bisogna quindi procedere sia alla intelligenza della complessità del fatto (accadimenti, contesti e interessi coinvolti), che alla valutazione del diritto applicabile, individuando le regole del fatto concreto secondo l’ordinamento attuale (si suole intingere nella “assiologia” con l’intento di richiamare la prospettiva filosofica della ‘dottrina dei valori’, per alludere a una scala di valori da tenere presente nella regolazione del fatto concreto). L’applicazione del diritto deve svolgersi secondo un metodo di apprezzamento funzionale, comprensivo sia della intelligenza del fatto (accadimenti, contesti e interessi coinvolti), che della valutazione delle norme, al fine di selezionare le regole applicabili al fatto secondo l’ordinamento attuale. Consegue che l’attività interpretativa delle norme è bipolare, rivolta alla individuazione di una regola dell’ordinamento attraverso l’analisi dei valori coinvolti dal fatto, riconosciuti dall’ordinamento (si suole parlare di “assiologia” con l’intento di richiamare la prospettiva filosofica della ‘dottrina dei valori’, per alludere a un giudizio di valore e a una scala di valori). L’unica interpretazione vincolante è l’interpretazione autentica, che è l’interpretazione proveniente dallo stesso organo che ha emanato la norma: tale interpretazione ha la funzione di chiarire i dubbi sollevati dalla relativa applicazione attraverso l’indicazione precettiva del significato da attribuire alla norma in modo retroattivo (c.d. norme interpretative) 65; peraltro anche le norme interpretative sono, a loro volta, soggette a interpretazione. L’art. 12 disp. prel. c.c. indica un catalogo di criteri di “interpretazione della legge”, perché l’interpretazione, da chiunque provenga, possa tendenzialmente pervenire ad un risultato omogeneo, sebbene con le ineliminabili varianti della personalità di ogni interprete. Si è visto però che, successivamente alla emanazione del cod. civ., sono intervenuti 64 Ad es., si è fatto rientrare lo jus eligendi sepulchrum nella categoria dei diritti della personalità e, come tale, non oggetto di trasferimento mortis causa ma esercitabile dal congiunto; eseguita la scelta indicata dal congiunto, il giudice, accertato che il luogo di sepoltura era stato originariamente determinato dal titolare del relativo diritto, deve valutare con oculata prudenza le giustificazioni addotte per pretendere di operare un trasferimento che comporta esumazione e ritumulazione del cadavere, posto che è avvertita dalla sensibilità degli uomini l’esigenza che le salme dei defunti non vengano, senza adeguate e gravi ragioni, trasferite da un luogo ad un altro (Cass. 14-11-2019, n. 29548). 65 La natura interpretativa di una disposizione normativa, comportando una deroga al principio della irretroattività della legge, nel senso di determinare l’applicazione della nuova disposizione anche al passato, principio senz’altro valido anche nel diritto comunitario, deve risultare chiaramente dal suo contenuto, il quale deve non solo enunciare il significato da attribuire ad una norma precedente, ma anche la volontà del legislatore di imporre questa interpretazione, escludendone ogni altra (Cass. 21-12-2012, n. 23827; Cass., sez. un., 29-4-2009, n. 9941). Conf. Cass. 19-1-2017, n. 1336.

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l’introduzione della Carta costituzionale e la formazione del diritto europeo, oltre che diffondersi convenzioni internazionali ratificate e rese esecutive, che hanno ridisegnato la gerarchia delle fonti (par. 4). Pertanto anche le regole dell’art. 12 disp. prel. vanno integrate nella tavola dei principi generali dell’ordinamento e applicate combinate con questi. In tale direzione le norme del codice civile e in generale tutte le norme sono sottoposte a una rilettura alla luce dei valori espressi dalla Carta costituzionale e dal diritto europeo, che non solo sono sopraggiunti al codice, ma l’hanno sopravanzato nella gerarchia delle fonti. C’è la necessità di una interpretazione conforme ai valori della Costituzione, prima di investire la Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale della singola norma: è ormai comune nelle decisioni dei giudici una “lettura costituzionalmente orientata” delle norme giuridiche 66. La pregnanza del diritto europeo sollecita poi una uniformità interpretativa delle regole di provenienza europea nei singoli paesi: nel dubbio, deve prevalere l’interpretazione conforme ai principi di diritto europeo. Nell’attualità i canoni ermeneutici dell’art. 12 disp. prel. si atteggiano come criteri tecnici del percorso interpretativo che involgono (non solo la legge ma) la complessità dell’ordinamento, per dovere ogni precetto risultare coerente al sistema, dal quale, nel suo insieme, deriva la regola applicabile. Per l’art. 121, nell’applicare la legge, non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole, secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore. Emergono dunque un criterio letterale e un criterio logico; a tali criteri è sempre immanente un criterio teleologico che tenga conto della finalità dell’interpretazione. In ogni caso bisogna svolgere una interpretazione evolutiva perché la regola da applicare risulti conforme all’ordinamento attuale. I vari criteri indicati dall’art. 12 disp. prel. concorrono alla determinazione della regola applicabile, intingendo comunque in una interpretazione valutativa, che attraversa l’intera esperienza giuridica, dei fatti sociali come degli atti normativi. a) L’interpretazione letterale è rivolta all’analisi delle parole, non solo nel loro significato lessicale, ma anche nel contesto in cui le stesse sono inserite secondo una connessione sintattica della proposizione normativa. b) L’interpretazione logica tende a penetrare e cogliere “l’intenzione del legislatore”. È preliminarmente da rilevare che l’impiego del termine “legislatore” si lega ad una visione antropomorfica risalente ad epoche in cui il potere normativo si esauriva in una persona fisica (il sovrano), dal quale tutto il diritto derivava: nei paesi di democrazia occidentale l’espressione, pure perpetuata nella nomenclatura, ha perduto il suo originario referente, per alludere oggi all’autorità dalla quale il diritto promana (più spesso il parlamento). Nella determinazione della “intenzione del legislatore” è essenziale la ricerca del fondamento della norma e dello scopo perseguito dal legislatore e cioè l’interesse soddisfatto con la emanazione della norma: la c.d. ragione giustificativa (ratio legis). Tali finalità sono conseguibili attraverso più percorsi. Anzitutto bisogna procedere ad una ricostruzione storica degli eventi che diedero luogo alla formazione della nor66 In ordine all’impossibilità di pervenire ad un’interpretazione adeguatrice, è sufficiente che il rimettente abbia plausibilmente escluso tale possibilità, anche solo perché improbabile o difficile, perché la questione debba essere scrutinata nel merito (Corte cost. 5-5-2021, n. 89).

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ma (la c.d. occasio legis). Un ruolo essenziale in tale direzione assumono i lavori preparatori e specie le relazioni che di regola accompagnano la emanazione degli atti normativi: ciò fa comprendere le istanze che ne reclamarono l’introduzione, come le motivazioni socio-economiche che ne sorressero l’elaborazione (interpretazione teleologica). Inoltre, un ruolo importante svolge la cornice ordinamentale in cui la specifica norma si collocava e dalla quale riceveva alimento: le norme vanno interpretate le une per mezzo delle altre, sicché il significato della singola disposizione è completato e chiarito dalle altre disposizioni (interpretazione sistematica). Ad es., per l’art. 1470, la vendita ha ad oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo: ma il significato del termine proprietà si ricava dagli artt. 832 ss. e dall’art. 42 Cost. In sostanza l’interpretazione logica è ad un tempo teleologica e sistematica. Si è a lungo discusso, e tuttora è oggetto di dibattito, se debba aprirsi ai criteri ermeneutici logici in presenza di chiarezza e univocità della lettera della legge. La giurisprudenza, specie di legittimità, è tradizionalmente attestata su posizioni negative, secondo l’antico aforisma in claris non fit interpretatio in funzione della certezza del diritto 67; anche se emerge una valorizzazione del significato logico 68. A ritenere che l’interpretazione logica debba operare pure in presenza di chiarezza della lettera vale già il dato testuale dell’art. 12, che congiunge con una “e” il criterio letterale e quello logico nell’attività di rendere palese il significato della legge. Anche l’invocata esigenza di certezza del diritto, che meglio sarebbe soddisfatta dalla riduzione del criterio logico a criterio sussidiario di interpretazione, non può sacrificare l’altro fondamentale valore della effettività del diritto: isolare la formula della proposizione normativa dalla ratio della sua introduzione e dal contesto dell’ordinamento significa recidere il radicamento sociale dell’ordinamento unitariamente inteso. c) La interpretazione evolutiva, anche se non prevista dall’art. 12 disp. prel., è essenziale criterio per attualizzare la norma nel contesto in cui è destinata ad operare. Anzitutto la norma da interpretare va integrata nell’ordinamento in cui si è formata, per ricercare la valutazione originaria del legislatore che la volle (c.d. legislatore storico); quindi va 67 Il primato dell’interpretazione testuale è un principio pacifico, che esprime l’assiomatica verità per cui l’ordinamento giuridico è costruito attraverso proposizioni formali, i cui enunciati son espressi in formulazioni linguistiche, con lo scopo di rendere chiaro e intellegibile il significato delle regole poste; la certezza del diritto è garantita innanzitutto dalla precisione del linguaggio e dalla univocità della relazione tra il significante ed il significato; gli altri canoni ermeneutici vengono in rilievo solo se l’interpretazione testuale è ambigua (Cons. Stato 5-5-2021, n. 3524. Conf. Cons. Stato 25-5-2020, n. 3298; Cons. Stato 30-6-2017, n. 3233; Cass. 14-10-2016, n. 20808). 68 In sede di interpretazione della legge, si deve preferire quella che attribuisce un senso alla frase, piuttosto che quella che la rende priva di senso e di effetti pratici; si deve inoltre preferire l’interpretazione più corrispondente alla ratio legis ed alla presumibile volontà del legislatore (ricostruibile anche mediante il riferimento al contesto politico-programmatico, alla evoluzione storica della legislazione, ecc.), e più coerente con il sistema (Cons. Stato 14-2-2014, n. 730). Tra le varie interpretazioni in astratto possibili debbono scegliersi quelle che non si pongono in contrasto con la Costituzione, e va privilegiata quella ad essa più conforme (Cass. 22-10-2002, n. 14900). Il criterio logico può assumere rilievo prevalente nell’ipotesi in cui l’effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo, invece, consentito all’interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle espressioni che la compongono nell’ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica della norma stessa (Cass. 4-10-2018, n. 24165).

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reintegrata nell’ordinamento nel quale opera al momento della interpretazione, per delineare la valutazione dell’ordinamento rinnovato (c.d. legislatore attuale). L’interpretazione evolutiva si atteggia come interpretazione valutativa dovendosi ricercare nella norma un significato coerente con l’evoluzione del sistema, con i principi e i valori che lo ispirano: è possibile ricavare, in epoche diverse, dal medesimo testo precetti differenti coerenti con il mutare dell’ordinamento nel suo complesso 69. Si delinea quindi una interpretazione assiologica, in relazione ai valori storicamente operanti dell’ordinamento. La reintegrazione dell’art. 12 disp. prel. nel sistema di pluralità delle fonti non può sconfinare nella creazione del diritto, dovendo operare secondo un criterio di elasticità del testo della norma secondo i principi e valori generali dell’ordinamento 70. Oltre il testo scritto, a parte la fonte normativa degli usi, si svolgono la tradizione di un popolo e lo sviluppo della coscienza civile che un testo scritto non può prevedere: l’interpretazione segna il costante adeguamento della legge scritta alla complessiva esperienza giuridica che si rinnova 71. In sostanza emerge la necessità di una interpretazione che può sinteticamente indicarsi come evolutiva-valutativa. Le fattispecie concrete vanno collocate nel contesto delle circostanze e dei rapporti socio-economici in cui emergono: l’interprete è chiamato a cogliere la trama materiale della singola vicenda, e poi a ricercare la regola ordinamentale adeguata al fatto della vita secondo criteri di proporzionalità (come proporzione del sacrificio al risultato realizzato, ovvero della sanzione alla gravità dell’azione) e di ragionevolezza (quale logicità e coerenza della scelta operata) (II, 7.7).

14. Risultati dell’interpretazione. L’analogia. – Lo svolgimento del procedimento interpretativo, attraverso l’impiego dei criteri delineati, conduce a determinare la portata della regola applicabile, talvolta attinta ad una sola norma, talaltra come esito del collegamento di più norme. a) I risultati della interpretazione sono altrettanti esiti dell’attività ermeneutica, secondo la dialettica tra canone letterale e canone logico nelle varianti indicate. Il modello più elementare è quello della interpretazione dichiarativa: la portata della regola coincide con il significato fatto palese dal testo normativo. Più spesso accade che si determini un distacco: si ha interpretazione estensiva quando il significato ricostruito della regola è più ampio di quello ricavabile dal testo della norma; all’opposto, si ha interpretazione restrittiva quando il significato ricavato è più limitato rispetto a quello derivante dal testo. 69 Secondo la suggestiva immagine di P. CALAMANDREI, gli articoli di legge, una volta usciti dalla mente del legislatore, sono come i figli mandati per il mondo in cerca di fortuna: messi a lottare con le difficoltà della pratica, talvolta tradiscono le speranze dei genitori e talaltra le sorpassano. 70 Un ormai consolidato indirizzo delle sezioni unite ha chiarito che la linea di confine oltre la quale l’attività interpretativa trasmoda in attività creativa, con invasione della sfera di attribuzioni del legislatore, è data dal limite di tolleranza ed elasticità del significante testuale, nell’ambito del quale la norma di volta in volta adegua il suo contenuto, in guisa da conformare il predisposto meccanismo di protezione alle nuove connotazioni, valenze e dimensioni che l’interesse tutelato nel tempo assume nella coscienza sociale, anche nel bilanciamento con contigui valori di rango superiore, a livello costituzionale o sovranazionale (Cass., sez. un., 20-12-2016, n. 26271; già Cass., sez. un., 15144/2011 e 27341/2014). 71 P. CALAMANDREI considerava “l’interpretazione evolutiva, l’analogia, i principi generali, finestre aperte sul mondo, dalle quali, se il giudice sa affacciarsi a tempo, può entrare l’aria ossigenata della società che si rinnova”.

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Quando un caso non sia riconducibile ad una specifica norma giuridica, pure interpretata estensivamente, il giudice è stretto tra due opposti principi: non può creare una nuova norma, perché ciò spetta al legislatore; ma neppure può negare giustizia, per il principio di completezza dell’ordinamento (I, 1.4). È il fenomeno delle c.d. lacune dell’ordinamento, in relazione alle quali si prospetta la necessità di porre rimedio mediante l’analogia. b) L’analogia è un criterio supplementare di applicazione del diritto. Per l’art. 12, co. 2, “se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo a disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato” (c.d. procedimento analogico). Quando dunque il caso concreto non è previsto dal legislatore, bisogna anzitutto ricorrere alla disciplina di “casi simili o di materie analoghe” (analogia legis). È questa la vera e propria analogia, appunto perché la regola del caso concreto è (pur sempre) mutuata da uno specifico testo normativo 72. Presupposto essenziale per il ricorso alla analogia legis è che il caso non regolato sia riconducibile alla ratio (e cioè alla ragione giustificatrice) di una specifica norma che regola una diversa fattispecie; il caso concreto, ancorché non previsto e regolato, sollecita un conflitto di interessi analogo a quello risolto da una disposizione di legge per una fattispecie diversa: il giudice può attingere a tale disposizione i criteri per risolvere il caso nuovo; da ciò consegue un analogo trattamento anche del caso non previsto dalla norma (principio di coerenza dell’ordinamento). In tal senso la interpretazione analogica si distingue dalla interpretazione estensiva: la “interpretazione analogica” tende a regolare un caso non previsto dalla legge attraverso un trattamento ispirato a norme che regolano casi o materie simili; la “interpretazione estensiva” tende a ricavare da una norma un significato più ampio di quello testualmente espresso, sì da applicare il relativo precetto anche a casi ulteriori (ma la distinzione, in concreto, non sempre è agevole) 73. Quando la verifica sopra indicata non sortisce alcun effetto, perché mancano nell’ordinamento disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe (con identità di ratio), bisognerà ricorrere all’applicazione dei “principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato” (c.d. analogia iuris). Trattasi di una norma di chiusura del sistema: la regola del caso concreto non è ricavabile dalla ratio di alcuna specifica disciplina, ma attinge ai principi generali immanenti nel sistema, quale complesso di valori che informano l’intero ordinamento 74. È bene chiarire: ogni norma deve essere valutata ed applicata in 72 Il ricorso all’analogia è consentito dall’art. 12 prel. solo quando manchi nell’ordinamento una specifica disposizione regolante la fattispecie concreta e si renda, quindi, necessario porre rimedio ad un vuoto normativo altrimenti incolmabile in sede giudiziaria (Cass. 5-5-2015, n. 8946). 73 Ad es., l’art. 844 c.c., che riconosce al proprietario il diritto di far cessare le propagazioni derivanti dal fondo del vicino che superino la normale tollerabilità, deve essere interpretato estensivamente, nel senso di legittimare all’azione anche altri titolari di diritti reali (il superficiario, l’enfiteuta, il titolare di usufrutto, di uso o di abitazione) e, inoltre, è applicabile per analogia a chi sia titolare di un diritto personale di godimento sul fondo (come il conduttore ovvero il promissario di vendita immobiliare che abbia ricevuto la consegna del bene in anticipo rispetto alla conclusione del contratto definitivo) (Cass. 11-11-1992, n. 12133). 74 Il riferimento all’ordinamento giuridico dello Stato risente dell’enfasi politica dell’epoca della codificazione. Il legislatore del 1865, più realisticamente, aveva avuto riguardo ai “principi generali del diritto” (art. 3 prel.). Oggi che la statualità del diritto è erosa dalle tante fonti non statali (basti pensare al diritto di

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coerenza con i valori espressi dalla Carta costituzionale e dal diritto europeo, come principi generali immanenti e sovraordinati dell’ordinamento giuridico, secondo quel criterio evolutivo-valutativo sopra delineato; nell’analogia juris vi è di peculiare che il caso concreto rimane regolato direttamente e soltanto dai principi generali 75. Le leggi eccezionali e le leggi penali non sono applicabili “oltre i casi e i tempi in esse considerati” (art. 14 disp. prel.). L’esclusione delle leggi eccezionali si giustifica per la deroga alle regole generali: ad es., le norme agevolative fiscali rispetto ai regimi generali di imposizione tributaria. L’esclusione delle leggi penali si giustifica per la limitazione che possono comportare alla libertà personale, essendo consentita la restrizione della libertà personale solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge (art. 132 Cost.). Consegue che, di tali norme, è consentita l’interpretazione estensiva ma non quella analogica 76. Anche per tali norme si delinea il problema della coerenza al sistema 77.

15. L’equità. – Nel nostro sistema giuridico l’equità non è fonte del diritto, e del resto non è annoverata tra le fonti previste dall’art. 1 disp. prel.: non esprime perciò la predeterminazione di regole per il futuro. Essa è invece un criterio di giudizio di cui si avvale il giudice per risolvere una controversia insorta, quando, per la peculiarità del caso concreto ovvero per la particolarità delle circostanze che lo accompagnano, la rigida applicazione delle regole giuridiche condurrebbe a risultati avvertiti come ingiusti (il criterio è tradizionalmente indicato come una giustizia del caso concreto); però il giudice non può decidere in contrasto con le norme, può solo far funzionare le stesse alla luce dei principi generali e in aderenza al caso concreto 78. Il ricorso all’equità non può contrastaderivazione europea) la formula di rinvio all’ordinamento giuridico dello Stato si rivela maggiormente incongrua. 75 Varie fattispecie, emerse nella società in virtù di nuovi valori affermatisi o a seguito di scoperte tecniche compiute e primieramente regolate con criterio analogico, hanno col tempo costituito oggetto di apposita disciplina (si pensi alla esperienza dei trasporti aerei, dapprima regolati con applicazione analogica della normativa sui trasporti marittimi e poi oggetto di autonoma disciplina nel codice della navigazione e in molte Convenzioni internazionali e leggi successive). 76 L’interpretazione estensiva di disposizioni “eccezionali” o “derogatorie”, se pure in astratto non preclusa, deve ritenersi circoscritta alle ipotesi in cui il plus di significato che si intenda attribuire alla norma interpretata non riduca la portata della norma costituente la regola con l’introduzione di nuove eccezioni, bensì si limiti ad individuare nel contenuto implicito della norma eccezionale o derogatoria altra fattispecie avente identità di ratio con quella espressamente contemplata (Cass. 1-9-1999, n. 9205). 77 L’eccezionalità che preclude l’estensione analogica ex art. 14 prel. va, per comune intendimento, acquisita come predicato di una norma che non sia riconducibile ai principi generali o fondamentali dell’ordinamento giuridico, ma che anzi faccia eccezione a detti principi o sia in contrasto con ess (Cons. Stato, sez. V, 2-8-2021, n. 5641). 78 La rilevanza della equità era già avvertita da ARISTOTELE, il quale poneva il problema dell’applicazione della legge al caso concreto che la norma non può prevedere nella sua singolarità. Era proposto un criterio di “convenienza” e di “adattamento” come correttivo all’astrattezza della norma, così da realizzare il giusto (chiamato equità) che va oltre la legge scritta; era anche avvertito il problema di equilibrio dell’intervento, in quanto la generalità è un ostacolo alla giustizia, rendendo necessario il correttivo dell’adattamento, ma è anche una garanzia della uguaglianza, potendo l’intervento di adattamento aprire la strada all’arbitrio e all’ingiustizia. L’equità è stata vista con disfavore dallo Stato moderno che ha ricondotto il diritto alla legge scritta: la crisi del diritto statuale, con l’ampliamento delle fonti del diritto, ha fatto riemergere il dibattito intorno alla rilevanza dell’equità.

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re il fondamentale principio di legalità (di rilevanza costituzionale) su cui si fonda sia la soggezione del giudice alla legge (art. 1012 Cost.), sia la garanzia di tutela giurisdizionale dei diritti (art. 241 Cost.) 79. L’equità trova espressa previsione nel codice di procedura civile quale regola di giudizio (artt. 113 e 114 c.p.c.). Il giudice può pronunziare secondo equità o perché la legge espressamente gli accorda il potere in tal senso (art. 113 c.p.c.) 80 o perché c’è concorde richiesta delle parti, quando si tratta di diritti disponibili (art. 114 c.p.c.). Esistono ipotesi nelle quali la legge consente il ricorso a criteri equitativi anche solo per la definizione di singoli profili della decisione, come ad es. per la determinazione del danno o di una indennità (es. artt. 1226, 1450, 20472, 2056) 81. Una significativa applicazione dell’equità è in materia contrattuale, configurandosi la stessa quale fonte di integrazione del contratto (artt. 1374, 1384, 1526) (VIII, 5.9) o criterio interpretativo residuale di equo contemperamento degli interessi delle parti nei contratti a titolo oneroso (art. 1371) (VIII, 5.3). Il ricorso al criterio di equità tende oggi a interagire con l’applicazione del principio di buona fede, specie nell’accezione di recente emersa nella giurisprudenza quale espressione del dovere di solidarietà (II, 7.5).

16. Diritto vivente (nomofilachia e overruling). – Si è visto come uno dei principi fondamentali dello stato di diritto è il principio di legalità: per l’art. 1012 Cost. “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”. La crescita delle fonti del diritto e la valorizzazione del principio di effettività della giurisdizione (di cui appresso) pongono il complesso problema dell’adeguatezza della decisione alla realtà sociale in cui il caso è calato. Inoltre, con l’affermazione dei diritti umani e del solidarismo quali portati del costituzionalismo liberale e sociale si è affermata la rilevanza della persona umana nella concretezza delle sue condizioni di vita e di relazioni sociali. In tale contesto è accresciuta la funzione del diritto vivente quale diritto applicato. Connotazione del diritto vivente è l’aderenza delle soluzioni giuridiche alle evoluzioni ordinamentali e sociali, con la elaborazione di soluzioni giuridiche adeguate alla morfologia del caso concreto e coerenti con l’attualità del sistema giuridico. Il diritto vivente   79 Il tradizionale dilemma, se l’equità costituisse un’alternativa al diritto positivo o se dovesse essere ad esso correlato, è risolto nel secondo senso dalla Corte costituzionale e dalla Corte di cassazione. Secondo Corte cost. 6-7-2004, n. 206, la sola funzione che può essere attribuita alla giurisdizione di equità è quella di individuare l’eventuale regola di giudizio non scritta che, relativamente al caso concreto, consenta una soluzione della controversia che risulti conforme alle caratteristiche specifiche della fattispecie concreta, “secondo i principi cui si ispira la disciplina positiva”, i quali non potrebbero essere posti in discussione dal giudicante attraverso una contrapposizione con le proprie categorie soggettive di equità e ragionevolezza. La sentenza secondo equità è quindi impugnabile in Cassazione anche per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ex art. 3601, n. 3, c.p.c. 80 Il giudice deve seguire le norme del diritto, salvo che la legge gli attribuisca il potere di decidere secondo equità (art. 1131 c.p.c.). Per l’art. 1132 c.p.c. il giudice di pace decide secondo equità alcune questioni; ma la Corte cost., con sent. additiva n. 206/2004 cit., ha dichiarato la illegittimità della norma nella parte in cui non prevede che il giudice di pace debba osservare i principi informatori della materia. 81 Il problema si è posto, in particolare, con riferimento al potere accordato dall’art. 1226 al giudice di valutare equitativamente il danno, quando questo non può essere provato nel suo preciso ammontare (come si vedrà in tema di risarcimento danni: VII, 4.3). Anche l’assegno divorzile concordato dai coniugi in unica soluzione (una tantum), deve essere ritenuto equo dal tribunale (art. 54 l. div.) (V, 3.5).

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trova la propria linfa, non solo nelle norme prodotte dalle fonti formali del diritto, ma nella complessità della esperienza giuridica quale si realizza nella società, attingendo a tutte le componenti che, in vario modo, applicano il diritto nella quotidianità 82. Si è detto della normatività del fatto (I, 1.6). Fondamentale importanza assume l’interpretazione della giurisprudenza, che segna la effettiva portata del diritto 83. La norma vive nella realtà giuridica nel significato normativo che ad essa attribuisce la giurisprudenza che l’applica 84. La giurisprudenza, pur non creando istituzionalmente diritto, concorre alla formazione del diritto in quanto decide i casi sottoposti al suo vaglio alla stregua dell’ordinamento giuridico storicamente operante, perciò anche secondo i valori sopravvenuti alla emanazione delle regole. Il giudice, quando ricorre a principi generali, deve indicarne e motivarne l’esistenza e l’attualità perché il risultato del giudizio sia coerente al sistema vivente e la motivazione concretamente controllabile, in grado di evidenziare come il processo logico abbia generato la sentenza. Quando ravvisa che una regola giuridica sia in contrasto con la Costituzione solleva la questione di legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni innanzi alla Corte costituzionale (art. 134 Cost.). Una essenziale rilevanza assumono le sentenze della Corte costituzionale, per l’adeguamento compiuto delle norme ai principi costituzionali (di cui sopra). Non esiste nel nostro sistema di civil law il valore vincolante del precedente, operante nel common law (dove vige il principio dello stare decisis) (I, 1.7), svolgendo il precedente una forza di persuasione. Esistono però pronunzie giurisprudenziali che, per l’autorevolezza degli organi da cui promanano, assumono una funzione di orientamento nell’applicazione successiva delle regole giuridiche. Fondamentali sono, anzitutto, le pronunzie della Corte di giustizia della Unione europea, per formulare il diritto europeo applicato, quando non è in contrasto con la Costituzione; grande rilevanza assumono anche le decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo (per l’attività delle due Corti, v. III, 1.9). 82

In tema di riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero, la compatibilità con l’ordine pubblico, richiesta dagli art. 64 ss. L. 218/1995, deve essere valutata alla stregua non solo dei principi fondamentali della nostra Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ma anche del modo in cui gli stessi si sono incarnati nelle disciplina ordinaria dei singoli istituti, nonché dell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione dà forma a quel diritto vivente dal quale non può prescindersi nella ricostruzione delle nozioni di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell’ordinamento in un determinato momento storico (Cass., sez. un., 8-5-2019, n. 12193). 83 Le sentenze sono rinvenibili nelle pubblicazioni specializzate (cartacee, banche dati su DVD o via internet). Talvolta sono riportate integralmente, più spesso sono indicate in modo sintetico, con le seguenti indicazioni: estremi della sentenza (organo giudicante, data e numero); rubrica (gli argomenti della sentenza); massima (il principio di diritto applicato). 84 Per la Suprema Corte, nel sistema costituzionale delle fonti, la disposizione è considerata parte di un testo non ancora confortato dal lavorio interpretativo, mentre la norma, in un’accezione più ristretta di quella comunemente adoperata, è un testo già sottoposto ad elaborazione interpretativa rilevante (il che si verifica più agevolmente quando, per il tempo intercorso tra l’emanazione della legge e la sua applicazione, siano intervenute pronunce dei giudici di legittimità o del giudice delle leggi); tali operazioni interpretative determinano la formazione di un “diritto vivente” in continua evoluzione che risulta più o meno differenziato dall’originario significato della disposizione scritta, introdotta in una certa epoca dal legislatore (Cass., sez. un., 2-8-1994, n. 7194).

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Forte autorevolezza hanno le decisioni delle Supreme Corti nazionali (Corte di cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei conti) e specialmente della Corte di cassazione per quella funzione di nomofilachia 85 che alla stessa è assegnata dall’ordinamento giudiziario: per l’art. 65 R.D. 30.1.1941, n. 12, la Corte suprema di cassazione, “quale organo supremo della giustizia”, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni; regola i conflitti di competenza e di attribuzione, ed adempie gli altri compiti ad essa conferiti dalla legge” 86. La funzione nomofilattica svolge un ruolo di incisivo orientamento specie se la sentenza è sorretta da un approfondito percorso logico e valoriale aderente alla evoluzione della società 87. Di recente è stata irrobustita la funzione nomofilattica accrescendosi l’autorevolezza delle sezioni unite, per cui se la sezione semplice non condivide il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, è tenuta a rimettere a queste ultime la decisione del ricorso con ordinanza motivata (art. 3743 c.p.c.) (III, 1.2): così le sentenze delle sezioni unite hanno una funzione nomofilattica rinforzata rispetto a quella delle sezioni semplici 88. Nella formazione del diritto vivente rileva anche, con differente rilevanza, la giurisprudenza di merito (ordinaria, amministrativa, contabile, tributaria) come di tutte le istituzioni che amministrano la giustizia (es. le Autorità indipendenti). Con l’acquisita rilevanza della interpretazione giurisprudenziale sta emergendo l’esigenza di una stabilità del precedente specie quando proviene dalla Corte di cassazione, per quella funzione nomofilattica delineata. La giurisprudenza delle sezioni unite ha fatto applicazione dell’overruling (I, 1.7), enucleando un principio di affidamento sulla perpetuazione della interpretazione antecedente 89; è stata anche ammessa la regolazione temporale degli effetti della sentenza 90. La Corte costituzionale ha applicato il principio 85 Il termine “nomofilachia” proviene dal greco ed è composto da nòmos (norma) e dal verbo fulàsso (proteggere con lo sguardo). 86 Il principio è stato più volte ribadito dalla Suprema Corte: cfr. Cass., sez. un., 6-5-2000, n. 295. 87 Anche un giudice di grado inferiore può motivatamente discostarsi dalle pronunce della Cassazione: il giudice di rinvio è tenuto ad uniformarsi al “principio di diritto” enunciato dalla Cassazione (art. 384 c.p.c.). 88 Oltre che nei casi specifici, il primo Presidente può disporre che la Corte pronunci a sezioni unite quando c’è contrasto tra le sezioni semplici su una questione di diritto o quando i ricorsi presentino una questione di particolare importanza (art. 3742 c.p.c.). Cfr. Cass., sez. un., 21-3-2017, n. 7155. 89 La innovativa interpretazione, imprevedibile e repentina rispetto al consolidato orientamento, costituisce un “overruling” processuale che non può recare pregiudizio alle parti che abbiano fatto affidamento sull’assetto interpretativo precedente (Cass., sez. un., 8-11-2018, n. 28575; Cass. 16-11-2018, n. 29506). Si è precisato: il rimedio dell’overruling è riconoscibile solo in presenza di stabili approdi interpretativi del giudice di legittimità, eventualmente a sezioni unite, se connotati dai “caratteri della costanza e ripetizione”, mentre non può essere invocato sulla base di alcune pronunce della giurisprudenza di merito, le quali non sono idonee ad integrare un “diritto vivente”; è invocabile dalla parte che abbia tenuto una condotta processuale ossequiosa delle forme e dei termini previsti dalla legge processuale, come interpretata dall’indirizzo interpretativo del giudice di legittimità dominante al momento del compimento dell’atto, al fine di evitare le conseguenze processuali negative (decadenze, inammissibilità, improponibilità) cui sarebbe esposta se dovesse soggiacere al sopravvenuto e imprevedibile indirizzo interpretativo di legittimità (Cass., sez. un., 12-2-2019, n. 4135). 90 In materia tributaria va dichiarata la cessazione degli effetti delle norme dichiarate illegittime dal giorno della pubblicazione della decisione nella Gazz. Uff., al fine di bilanciare i valori costituzionali coinvolti, ossia i principi di uguaglianza e di solidarietà, il vincolo dell’equilibrio di bilancio ed il rispetto degli obblighi comunitari e internazionali connessi (Corte cost. 11-2-2015, n. 10). V. anche Cass., sez. un., 21-5-2015, n. 10453; Cons. Stato, ad. plen., 22-12-2017, n. 13.

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dell’overruling anche rispetto all’efficacia di interpretazioni antecedenti a successive leggi di interpretazione autentica 91. Funzione peculiare ha l’apporto della dottrina, cioè degli studiosi del diritto, segnatamente del mondo universitario. È un’opera di interpretazione e di stimolo alla elaborazione di percorsi di assestamento e di rinnovamento dell’ordinamento giuridico. Con autorevolezza “morale” orienta la interpretazione giurisprudenziale e le soluzioni concrete, delineando formanti di sviluppo e applicazione del diritto. Un apporto significativo proviene anche dalle professioni. Una significativa rilevanza assumono la giustizia arbitrale e i pareri pro veritate resi da esimi giuristi. Nell’opera di adeguamento della norma alle esigenze della realtà materiale un ruolo particolare svolgono il notariato e l’avvocatura, quali figure di frontiera chiamate, nella immediatezza, ad elaborare soluzioni alle domande emergenti nella realtà sociale. Il notariato è una fondamentale fonte di fiducia dei cittadini nella veridicità delle informazioni acquisite (il logo del Consiglio nazionale del notariato è: fidei et veritatis anchora). Il notariato ha una natura duale, per svolgere una funzione pubblica sorretta da una professione privata. Il notaio è anche presidio di legalità, nel senso di corrispondenza all’ordinamento delle operazioni compiute, assicurando certezza dei risultati perseguiti e quindi stabilità al sistema. L’avvocatura è tradizionale ed essenziale trincea di difesa dei diritti dei cittadini. La democraticità di un ordinamento si rivela anche dalla rilevanza accordata alla funzione dell’avvocatura. Il bene giuridico della difesa ha una rilevanza costituzionale: per l’art. 24 Cost. la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del giudizio; è anche un diritto sociale pretensivo, per cui sono assicurati ai non abbienti i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione: il diritto alla difesa si atteggia con analoga rilevanza di altri diritti pretensivi, quali il diritto alla salute (art. 32 Cost.) e il diritto all’istruzione (art. 34 Cost.). Rilevante è pure la c.d. prassi amministrativa della pubblica amministrazione, che opera come fatto orientativo della interpretazione del diritto 92. Il fenomeno è ben visibile nel settore tributario dove circolari, interpelli e prassi dell’amministrazione finanziaria orientano la interpretazione delle norme tributarie. Tra le varie componenti dell’opera interpretativa si svolge una costante sinergia di decisioni, studi, opinioni, azioni che coinvolgono un’ampia “comunità interpretante” che matura la cultura giuridica della società. L’apertura ai “valori”, quali collanti del sistema, orienta l’interpretazione dell’ordinamento, delineando “giudizi di valore” circa i fatti della vita concreta. In tal guisa l’ermeneutica giuridica, forgiando l’applicazione del diritto, involge sempre maggiormente la formazione del diritto vivente che si delinea come diritto vigente. 91 Con riguardo ad una questione previdenziale relativa ad avvocati, i giudici delle leggi hanno considerato scusabile l’affidamento su un’opposta interpretazione in precedenza maturata in giurisprudenza, superata dalla legge d’interpretazione autentica (Corte cost. 22-4-2022, n. 104). 92 La prassi amministrativa – di cui sono espressione gli atti regolamentari, le circolari, le risoluzioni o i singoli provvedimenti della P.A. – non è suscettibile di produrre alcun diritto vivente vincolante per il giudice nell’interpretazione di disposizioni di legge, ma può contribuire, come dato fattuale concorrente con i dati linguistici del testo, ad orientarne l’esegesi nei limiti consentiti dal dettato normativo e dalle indicazioni della giurisprudenza (Cass. 24-11-2015, n. 23960).

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PARTE I – ORDINAMENTO GIURIDICO

PARTE II

CATEGORIE GENERALI

CAPITOLO 1

SOGGETTO E PERSONA Sommario: 1. Soggettività e personalità. – 2. Tipologia. – 3. Soggetto e status.

1. Soggettività e personalità. – Il codice civile non offre – e neppure impiega – la nozione di soggetto giuridico (o di diritto), dandola evidentemente per scontata. Nei primi due titoli del libro I, in effetti, i destinatari delle regole di cui si sostanzia l’ordinamento giuridico sono senz’altro identificati nelle persone fisiche (titolo I) e nelle persone giuridiche (titolo II): è così che anche il nostro ordinamento giuridico, come ogni altro, assolve alla essenziale funzione di individuare i propri soggetti, i titolari, cioè, degli interessi presi in considerazione e disciplinati mediante le regole (norme) finalizzate, appunto, alla risoluzione dei relativi conflitti. Tenendo presente che la composizione degli interessi di volta in volta coinvolti nelle relazioni regolate dall’ordinamento giuridico (rapporti giuridici) avviene attraverso l’attribuzione di situazioni giuridiche soggettive attive (favorevoli come i diritti) e passive (sfavorevoli come gli obblighi) (II, 3.1), con la formula di soggetto giuridico (o di diritto) si intende alludere, allora, alla qualità di possibile punto di riferimento di rapporti giuridici e, quindi, di possibile titolare di situazioni giuridiche soggettive. Una simile qualità, secondo la corrente elaborazione concettuale, risulta, insomma, frutto delle scelte dell’ordinamento, al quale compete l’individuazione dei centri di imputazione di situazioni giuridiche soggettive. In tale prospettiva, quella di soggetto giuridico è una nozione di carattere eminentemente formale, in quanto esclusivamente collegata alla potenziale titolarità di situazioni giuridiche soggettive, con il riconoscimento, da parte dell’ordinamento, di quella attitudine ad essere titolare di situazioni giuridiche soggettive che viene definita capacità giuridica (IV, 1.1). L’ordinamento, ovviamente, non può prescindere dalla realtà che vede l’uomo come naturale protagonista della vita associata. Con la elaborazione dell’accennato concetto di soggetto giuridico, però, soprattutto in vista delle esigenze di una organizzazione socioeconomica sempre più complessa, si è perseguito lo scopo di ritenere svincolato, almeno entro certi limiti, l’ordinamento stesso dalla realtà naturalisticamente intesa, consideran-

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PARTE II – CATEGORIE GENERALI

do autonome le sue valutazioni in ordine alla selezione dei destinatari delle proprie regole ed alla individuazione dei potenziali titolari delle situazioni giuridiche soggettive conseguentemente attribuite. Indubbio peso, al riguardo, ha assunto la constatazione che non sempre a tutti gli uomini è stata riconosciuta l’attitudine ad essere titolare di situazioni giuridiche soggettive, relegandone taluni, addirittura, al rango di mero oggetto di situazioni giuridiche altrui. Il conseguente riconoscimento dell’autonomia delle valutazioni dell’ordinamento in materia è risultato essenzialmente funzionale, comunque, alla estensione della capacità giuridica anche ad entità diverse dall’uomo. Ed è questo, probabilmente, il senso più significativo dell’operazione concettuale che ha condotto, nella elaborazione teorica del secolo XIX, alla formulazione della nozione di soggetto giuridico, quale categoria unitaria (di carattere, come sottolineato, formale), atta a comprendere sia le persone fisiche, sia le persone giuridiche. Le prime considerate senz’altro soggetti di diritto in quanto uomini, le seconde considerate soggetti di diritto solo in quanto riconosciute tali attraverso meccanismi specificamente predisposti dall’ordinamento. Il codice civile, nel suo impianto, risulta muovere, dunque, proprio dalla sostanziale identificazione del concetto di soggettività con quello di personalità, considerando, poi, suscettibile di articolazione e di graduazione la capacità giuridica, a seconda delle caratteristiche del soggetto (a seconda, cioè, che si tratti di persona fisica o giuridica, ovvero, addirittura, con una scelta ormai storicamente superata e moralmente condannata, discriminando tra loro le stesse persone fisiche). Ma il codice non manca, nello stesso libro I (precisamente, nel capo III del relativo titolo II), di contemplare la figura delle associazioni non riconosciute (artt. 36 ss.), finendo col trattarle, in realtà, forse pure al di là delle intenzioni e delle dichiarate posizioni di principio, quali veri e propri centri (in quanto caratterizzati da una larga autonomia) di imputazione di situazioni giuridiche. Di qui, anche in dipendenza della evoluzione dell’ordinamento (e, in particolare, della valorizzazione, nella Costituzione, delle formazioni sociali come luogo di sviluppo della personalità dell’uomo: IV, 3.1), la da tempo dominante tendenza – in dottrina e in giurisprudenza – a riferirsi ad una nozione di soggettività giuridica più ampia di quella presupposta, almeno in linea di principio, dal codice e non più coincidente con quella di personalità, in quanto tale da ricomprendere in essa, accanto alle persone (fisiche e giuridiche), gli enti privi di riconoscimento (peraltro legislativamente in misura sempre maggiore avvicinati, dal punto di vista della disciplina, a quelli riconosciuti come persona giuridica: IV, 3.8-9).

2. Tipologia. – Sono considerate soggetti giuridici, innanzitutto, le persone fisiche. Il codice civile non ha potuto che prendere atto del carattere assolutamente imprescindibile, nel quadro di una concezione moderna di società e di ordinamento giuridico, del riconoscimento ad ogni uomo, in quanto tale, della qualità di soggetto giuridico. Il carattere del tutto scontato di un simile riconoscimento – ulteriormente rafforzato, in un momento successivo, dall’essere stata concepita, con la Costituzione (in particolare, alla luce degli artt. 2 e 3), la persona umana quale reale centro di gravità dell’intero ordinamento giuridico 1 – ha indotto a ritenere inutile qualsiasi espressa dichiarazione in pro1 L’uomo è, infatti, in quanto tale considerato senz’altro titolare di “diritti inviolabili”, che la “Repubblica riconosce e garantisce” (art. 2 Cost.): il “pieno sviluppo della persona umana” rappresentando, del resto, l’obiettivo da perseguire in via del tutto prioritaria per l’ordinamento (art. 32 Cost.). Proprio valorizzando la

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posito, reputandosi opportuno semplicemente stabilire, come si legge nella Relaz. cod. civ., n. 35 2, “i requisiti necessari all’esistenza di una persona fisica quale soggetto di diritti”. E ciò si è fatto col ricollegare al “momento della nascita” l’acquisto della capacità giuridica (art. 11: IV, 1.2). Il riconoscimento – dato dunque per scontato – della uguale qualità di soggetto giuridico ad ogni uomo (in quanto considerato, come persona, centro di imputazione di situazioni giuridiche attive e passive), nell’impianto originario del codice civile non valeva, peraltro, ad evitare discriminazioni sul piano della capacità giuridica. In particolare, oltre alla persistenza di discriminazioni storiche, come quella caratterizzante la posizione della donna nella famiglia e nella società, l’ordinamento veniva ad orientarsi nel senso di una nuova odiosa discriminazione sulla base della razza. Alla legislazione del 1938 in materia, l’art. 13 c.c. faceva riferimento col prevedere che “le limitazioni alla capacità giuridica derivanti dall’appartenenza a determinate razze sono stabilite da leggi speciali” (e l’art. 292 poneva, poi, in particolare, lo specifico “divieto di adozione per diversità di razza”) 3. A prescindere dalla intervenuta abrogazione, nel 1944, di tali previsioni, è del tutto evidente come la persistenza – e l’eventuale introduzione – di qualsiasi discriminazione in tema di capacità sarebbe destinata a trovare un insormontabile ostacolo nell’art. 3 Cost., con il sancito principio della pari dignità sociale e della eguaglianza davanti alla legge “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, compito dell’ordinamento essendo, anzi, quello di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana” 4 (IV, 1.1). Quanto alle persone giuridiche, per “le associazioni, le fondazioni e le altre istituzioni di carattere privato” (secondo la formulazione dell’abrogato art. 12 e, ora, dell’art. 11 D.P.R. 361/2000) l’acquisto della personalità giuridica (e, quindi, della qualità di soggetto giuridico) è ricollegato al riconoscimento (in relazione agli enti disciplinati nel libro I, prospettiva costituzionale, non si è mancato di distinguere, con riguardo all’“uomo”, tra l’idea di “soggetto” e “soggettività”, espressiva del suo collegamento con l’ordine giuridico positivo, e quella di “persona” e di “personalità”, riferita alla sua appartenenza all’ordine sociale (condizione di cui l’ordinamento giuridico non potrebbe che prendere atto col riconoscimento dei diritti che a tale appartenenza risultano indissolubilmente legati, identificati, appunto, quali diritti della personalità: IV, 2.1). Con riguardo alla corrente – e dianzi delineata alla luce della impostazione del codice – nozione di “soggetto”, pur senza negarne l’importanza sul piano storico (quale rottura – nella prospettiva della eguaglianza – col precedente ordine fondato sulla rigida diversificazione giuridica degli stati personali), si tende sempre più diffusamente ad evidenziarne i limiti, sottolineando, in particolare, come essa, per il suo carattere unitario e formale, prescinda da qualsiasi considerazione circa la concreta posizione della “persona” nel contesto economico-sociale in cui si trova collocata (“gli ostacoli di ordine economico e sociale” al cui sviluppo l’art. 32 Cost. impone di rimuovere, in vista della realizzazione di una eguaglianza non più solo formale, ma anche sostanziale). 2 Vi si legge che nel titolo I (del libro I) si “sono raggruppate le norme che definiscono la persona fisica soggetto di diritto e fissano la disciplina dei principali diritti della personalità”. Non è sembrata necessaria, al riguardo, la previsione, pure contemplata nel progetto preliminare del libro I del codice civile, secondo la quale “l’uomo è soggetto di diritti dalla nascita fino alla morte”. 3 Nella Relaz. cod. civ., n. 35, la previsione era elevata addirittura al rango di principio, per il quale “l’appartenenza a determinate razze può influire sulla sfera della capacità giuridica delle persone”. 4 Ulteriore barriera nei confronti di qualsiasi discriminazione è ora eretta dagli artt. 20 (“uguaglianza davanti alla legge”) e 21 (“non discriminazione”) Carta dir. fond. U.E. (che, all’art. 23, contempla anche lo specifico principio della “parità tra uomini e donne”).

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ad esito di uno specifico procedimento: IV, 3.4) 5. È il formale riconoscimento, cioè, nella sistematica cui si ispirano i primi due titoli del libro I, ad assumere un valore costitutivo della qualità di soggetto giuridico, evidenziandosi, così, per gli enti, la dipendenza di tale qualità dalla volontà creatrice dell’ordinamento (espressa, in via generale e di principio, con la previsione della tipologia degli enti ammessi al relativo godimento; concretamente, poi, di volta in volta, attraverso lo specifico procedimento, appunto, di riconoscimento) 6. Nel contemplare la figura dell’associazione non riconosciuta (artt. 36 ss.), disciplinandola, in realtà, quale centro di imputazione di situazioni giuridiche 7, lo stesso codice civile, peraltro, ha finito col porre le premesse per mettere in crisi l’idea di una perfetta coincidenza tra qualità di soggetto giuridico e riconoscimento della personalità giuridica. Come dianzi accennato (e meglio si vedrà oltre: IV, 3.2, 3.4 e 3.9), la successiva evoluzione, soprattutto a livello costituzionale, dell’ordinamento, ha indotto a far venire meno qualsiasi remora all’estensione della qualità di soggetto giuridico anche agli enti pur se “non riconosciuti come persone giuridiche” (secondo la terminologia impiegata dall’art. 361: enti non riconosciuti). Proprio sfruttando la via aperta dall’avvenuto accreditamento di una nozione di soggettività giuridica estesa al di là del riconoscimento della personalità giuridica, col relativo acquisto della generale capacità giuridica, si è cercato, di recente, di conciliare il principio per cui tale acquisto avviene esclusivamente “dal momento della nascita” (art. 11) con quella dignità di uomo, che anche al concepito si tende a ritenere connaturata (alla luce, in particolare, degli sviluppi recenti della legislazione e della stessa giurisprudenza costituzionale). Il riferimento alla qualità di soggetto giuridico di quest’ultimo, così, è sembrato tale da assicurare il soddisfacimento delle esigenze sempre più imperiosamente avvertite al riguardo, col rispetto, allo stesso tempo, dei principi esistenti in materia di capacità giuridica (IV, 1.2).

3. Soggetto e status. – L’essere gli ordinamenti moderni fondati – a partire dalla fine del secolo XVIII, ma con un percorso che, come si è visto, ha dovuto affrontare ostacoli anche recenti – sul principio di eguaglianza, consente di guardare all’uomo come tale nella veste di soggetto giuridico, in una prospettiva unitaria, cioè, che prescinde da ogni considerazione relativa al suo stato o condizione sociale, intesi nel senso di appartenenza a classi, ceti e caste 8. Quello del superamento di qualsiasi rilevanza, dal punto di vista giu5

Per le società l’art. 13 rinvia alle disposizioni contenute nel libro V. È, secondo la Relaz. cod. civ., n. 60, solo il riconoscimento ad elevare l’ente “alla dignità di persona giuridica e le dà la qualità di soggetto di diritto”. 7 Nella stessa Relaz. cod. civ., n. 60, quale unico indice della affermata “condizione più ristretta di quella stabilita per le persone giuridiche”, in effetti, risulta evidenziato il solo carattere c.d. imperfetto della (già alla luce della disciplina codicistica e maggiormente di quella successiva) sussistente autonomia patrimoniale dell’ente (IV, 3.9). 8 Il riferimento è al tipo di organizzazione della società – fino alla rivoluzione francese e al modello di Stato da essa tenuto a battesimo – fondato sulla diversificazione delle regole giuridiche applicabili in base alla condizione sociale del soggetto (anche senza arrivare alla più remota contrapposizione tra liberi e schiavi, si pensi alla rilevanza accordata alla situazione di nobile, ecclesiastico o mercante), con conseguente diversificazione dei diritti e degli obblighi di cui ciascuno era (e poteva essere) titolare. L’affermazione dell’unità del soggetto di diritto – come destinatario delle norme e, conseguentemente, potenziale titolare di situazioni giuridiche – 6

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ridico, dell’appartenenza a classi, ceti e caste, in effetti, rappresenta il momento di passaggio dalla vecchia alla nuova concezione di organizzazione della società (e, di riflesso, di ordinamento giuridico), con l’affermazione – che sta, invero, storicamente alla base della idea medesima di codice civile (I, 2.3) – dell’applicabilità delle medesime regole a tutti i consociati: tutti, appunto semplicemente come uomini, riconosciuti portatori di una identica capacità giuridica, con le uguali potenzialità che ne derivano, quanto a titolarità di diritti e di obblighi. Con il concetto di stato (o status), allora, non ci si intende più riferire ad una qualità del soggetto, ricollegata alla classe, ceto o casta di appartenenza e atta a condizionarne e diversificarne la generale capacità. Si allude, piuttosto, ad una situazione giuridica soggettiva che indica la posizione del soggetto rispetto a determinati gruppi sociali organizzati e costituisce il presupposto dell’insieme di diritti e obblighi che si ricollegano alla relativa appartenenza 9. È da sottolineare che non si tratta di una mera modalità di comodo per indicare riassuntivamente l’insieme delle situazioni giuridiche attive e passive che derivano al soggetto dalla sua relazione col gruppo, ma di una autonoma situazione giuridica, la quale, proprio in quanto presupposto di tali specifiche situazioni, viene come tale tutelata dall’ordinamento. Particolare importanza assumono, pure sotto il profilo storico, lo stato di cittadino (status civitatis) e lo stato familiare (status familiae) del soggetto. Il primo, anche se preso in considerazione dai codici ottocenteschi (tra cui quello italiano del 1865) in apertura della parte dedicata alle persone, per la sua attinenza al diritto pubblico risulta attualmente disciplinato nel contesto della legislazione concernente le vicende della cittadinanza (L. 5.2.1992, n. 91) 10. Interessano, invece, il diritto privato gli status familiari (coniuge, genitore, figlio, nonché, a seguito della L. 20.5.2016, n. 76, unito civilmente e convivente): per l’importanza sociale che l’ordinamento conferisce alla famiglia ed alle relazioni al suo interno, i c.d. diritti di stato – quelli che competono, cioè, alla persona in ordine al riconoscimento ed al godimento della sua posizione familiare – costituiscono una categoria peculiare di diritti (reputati assoluti), assimilabili, quanto a caratteristiche, ai diritti della personalità (IV, 2.2). risulta, in effetti, costituire l’esito, proprio quale reazione ai preesistenti assetti sociali (ed alle relative giustificazioni), di una elaborazione concettuale che, attraverso le ideologie giusnaturalistiche e razionalistiche del secolo XVIII, si pone alla base delle codificazioni civili (il cui modello di riferimento è il code civil del 1804). 9 Pare opportuno, quindi, accennarne – anche per motivi di carattere storico – in questa sede, nel quadro, cioè, della delineazione della nozione di soggetto giuridico, piuttosto che più oltre (II, 3), nel contesto della tipologia delle situazioni giuridiche soggettive. 10 La condizione dello s t r a n i e r o – cui si riferisce l’art. 16 disp. prel. (I, 3.12) – viene disciplinata dalla L. 6.3.1998, n. 40 (e dal conseguente D.Lgs. 25.7.1998, n. 286). La “condizione di reciprocità”, alla quale l’art. 16 disp. prel. subordina il godimento dei diritti civili da parte dello straniero (peraltro contestata alla luce del nostro sistema costituzionale), risulta ridimensionata dal relativo art. 21, che riconosce “allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato … i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi del diritto internazionale generalmente riconosciuti”, nonché dall’art. 22, che estende allo “straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato” i “diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano, salvo che le convenzioni internazionali in vigore per l’Italia o la presente legge dispongano diversamente”. Si tenga presente che, ai sensi dell’art. 9 TUE e degli artt. 20 ss. TFUE, “chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro” gode, con le relative prerogative, della “cittadinanza dell’Unione”, la quale “si aggiunge alla cittadinanza nazionale e non la sostituisce”.

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Al riguardo, bisogna tenere presente come, se è vero che i fatti cui si riconnette la costituzione o la modificazione di uno status familiare possono dipendere dalla volontà dei soggetti interessati (si pensi al matrimonio), sia pur sempre l’ordinamento a fissarne rigidamente le condizioni e gli effetti in ordine allo status del soggetto: di qui il principio – tradizionale, anche se nei tempi più recenti contestato, almeno nella sua rigida assolutezza – della indisponibilità degli status familiari e delle azioni (azioni di stato, quali quelle previste in materia di filiazione: V, 4.3 e 4.4) tendenti a farli valere da parte dei soggetti cui per legge competono (per tali azioni risulta significativamente previsto l’intervento obbligatorio del pubblico ministero: art. 701, n. 3, c.p.c.). Al di là degli status familiari, si ritiene diffusamente possibile utilizzare il medesimo concetto con riguardo alla posizione del soggetto – con conseguente titolarità, da parte sua, della corrispondente situazione giuridica soggettiva – quale membro di altri gruppi organizzati, come associazioni e società (associato, socio). L’assenza di quella essenziale rilevanza sociale ricollegata dall’ordinamento agli status familiari rende comunque inapplicabili, al di fuori di tale materia, i principi che si è dianzi accennato caratterizzare i diritti di stato e le relative azioni. Piuttosto che di status, ove manchi un gruppo organizzato rispetto al quale si ponga il problema del riconoscimento della posizione del soggetto, pare il caso di parlare di sue particolari qualità (con riferimento, cioè, a quelle talvolta prese specificamente in considerazione dall’ordinamento giuridico, al fine di ricollegare una peculiare disciplina ai rapporti di cui il soggetto medesimo sia parte, appunto, in tale sua qualità). Si pensi, in proposito, a qualità connesse a situazioni dotate di una certa stabilità, in quanto relative all’attività abitualmente svolta dal soggetto 11, come quelle, ad es., di imprenditore e lavoratore subordinato. Una qualità che costituisce punto di riferimento di una disciplina peculiare dei rapporti in cui il soggetto assuma una simile veste è, poi, quella di consumatore, cliente o utente, la quale, peraltro, non attiene ad una posizione in cui il soggetto stesso si trovi costantemente, ma che è presa in considerazione per le esigenze di tutela di chi nel singolo caso rivesta, di volta in volta, il corrispondente ruolo nel rapporto 12.

11 In considerazione di ciò, tali qualità vengono spesso attualmente accostate a dei veri e propri status, data l’importanza che esse assumono complessivamente per la vita del soggetto e per la conseguente importanza sociale della disciplina dei relativi rapporti. Un simile richiamo, peraltro, non manca di essere ritenuto improprio e, comunque, inopportuno, perché atto a fare rivivere sul piano concettuale, almeno entro certi limiti, forme di organizzazione della società fondate su troppo rigide differenziazioni di stati personali (frequentemente, come il passato insegna, fonte anche di ingiustificati privilegi). 12 Peraltro, è da tenere presente che, in Germania (con una legge del 27.6.2000), nella parte iniziale del codice civile (libro I, sezione I, titolo I, conseguentemente ora intitolato “Persone fisiche, consumatore, imprenditore”), sono stati aggiunti i §§ 13 e 14, rivolti a definire, rispettivamente, il consumatore e l’imprenditore. Con ciò, indubbiamente, si è inteso conferire a tali qualità del soggetto una notevole rilevanza, fino a farne dipendere – evidentemente in una prospettiva di rottura dell’idea di unitarietà concettuale del soggetto giuridico come destinatario delle regole dell’ordinamento – una vera e propria generale caratterizzazione del soggetto sul piano complessivo dei rapporti economico-sociali e della relativa disciplina. In una prospettiva non dissimile, può essere intesa anche la raccolta delle norme destinate a tener conto, a fini di tutela, della qualità di consumatore – in contrapposizione a quella di professionista – in un unico testo (codice del consumo: D.Lgs. 6.9.2005, n. 205).

CAPITOLO 2

BENI GIURIDICI

Sommario: 1. Cosa, bene e oggetto di diritti. – 2. Beni immobili e beni mobili. – 3. Distinzioni ulteriori. – 4. Il danaro. – 5. Rapporti di connessione tra le cose. Le pertinenze. – 6. Le universalità. – 7. Azienda. – 8. Frutti. – 9. Patrimonio. – 10. Beni pubblici.

1. Cosa, bene e oggetto di diritti. – Come si è visto (II, 1.1), destinatari delle regole dell’ordinamento (norme) sono i soggetti, titolari degli interessi da organizzare per comporre i relativi conflitti rispetto a beni. L’interesse, infatti, può essere visto come una sorta di tensione tra soggetto e bene. Soggetti e beni costituiscono, allora, i termini di riferimento delle relazioni di cui l’ordinamento si occupa, organizzando con le proprie regole gli interessi dei soggetti rispetto ai beni. Ciò avviene con l’attribuzione di situazioni giuridiche soggettive (II, 3.1): il profilo oggettivo di esse è rappresentato, quindi, dai beni, in quanto entità atte a soddisfare interessi ritenuti meritevoli di considerazione e di tutela dall’ordinamento (beni giuridici). È in una simile prospettiva che è da leggere la definizione dell’art. 810, con la quale si apre il libro III del codice civile, secondo cui “sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti”. Dalla definizione, risulta evidente come quella di bene sia una nozione strettamente giuridica, come tale indipendente dalla realtà naturale: nozione legata ad una valutazione, da parte dell’ordinamento, di attitudine a soddisfare interessi – considerati rilevanti – in (attuale o potenziale) conflitto, così da farne possibile oggetto di diritti. Non tutte le cose, stando all’art. 810, sono suscettibili di essere considerate beni (e, quindi, possibile oggetto di diritti), così come oggetto di diritti (e, quindi, beni, per la relativa attitudine a soddisfare interessi) possono essere anche entità diverse dalle cose. L’idea di un esclusivo collegamento dei diritti alle cose, intese nella loro accezione naturalistica e materiale, quale loro unico possibile oggetto, è propria di una concezione della società e del diritto (e, in particolare, di quello privato) lontana nel tempo da quella attuale. Di fronte all’esigenza di allargare l’area degli interessi regolati dall’ordinamento e, quindi, dei beni considerati rilevanti (sia pure sempre in una prospettiva esclusivamente patrimonialistica), si è seguito, allora, l’indirizzo concettuale di configurare, accanto alle cose materiali (res corporales), delle cose immateriali (res incorporales), via via annoverando in una simile categoria tutto ciò che, pur privo di materialità, l’ordinamento veniva prendendo in considerazione quale fonte di possibile utilità economica per i soggetti, come tale da assoggettare a regole per comporre i conseguenti eventuali conflitti di interessi (con l’attribuzione di veri e propri diritti in ordine al relativo sfruttamento) (VI, 1.1 e

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1.10). In proposito, basti pensare alle opere dell’ingegno 1 ed alle invenzioni industriali, con l’esigenza, caratterizzante una realtà socio-economica ormai evoluta, di assicurarne lo sfruttamento, attraverso diritti quali quelli di autore (art. 2575) e di brevetto (art. 2584). Prevale, ormai, la tendenza ad abbandonare, in quanto artificioso, un simile tentativo di salvare ad ogni costo l’idea della univoca corrispondenza tra cosa e oggetto di diritti, riconoscendosi, piuttosto, una volta inteso il bene quale entità atta a soddisfare interessi giuridicamente rilevanti, una simmetria tra il concetto di bene e quello di oggetto di diritti. Ciò con la conseguenza di annoverare tra i beni giuridici (quale possibile oggetto di diritti), da una parte, i beni materiali (le cose) 2, dall’altra, i beni immateriali. Tale ultima categoria vale a comprendere sia le figure più tradizionali, come quelle già ricordate delle opere dell’ingegno e delle invenzioni industriali, disciplinate dal codice e nel quadro della legislazione ad esso collegata (L. 22.4.1941, n. 633, sul diritto di autore, e R.D. 29.6.1939, n. 1127, sui brevetti per invenzioni industriali, ora abrogato e confluito nel D.Lgs. 10.2.2005, n. 30, codice della proprietà industriale), sia i “prodotti” più recenti dell’evoluzione tecnico-scientifica, come, in particolare, il software (D.Lgs. 29.12.1992, n. 518) e le banche di dati (D.Lgs. 6.5.1999, n. 169). L’accennata bipartizione si limita a prendere in considerazione entità (materiali o ideali) che, comunque, si risolvono in utilità di carattere economico, con il conseguente riconoscimento di diritti patrimoniali che le hanno ad oggetto 3. La sempre maggiore attenzione dell’ordinamento – soprattutto, ovviamente, nel contesto del vigente sistema costituzionale – per la persona ed i suoi valori fondamentali ha indotto ad estendere con decisione l’area degli interessi ritenuti giuridicamente rilevanti, avvertendosi l’esigenza di provvedere alla tutela di quelli di natura personale attraverso il riconoscimento di corrispondenti diritti non patrimoniali (II, 3.2 e 3.5, nonché IV, 2.1-2). Il concetto di bene, così, ne è risultato ampliato, allargandosi a comprendere, quindi, anche ciò che costituisce fonte di quelle utilità, evidentemente non economiche, che il soggetto trae dall’esplicazione della sua personalità, nelle varie manifestazioni (fisiche e morali) che la caratterizzano, il godimento delle quali (libero da altrui interferenze) viene garantito, insomma, appunto quale vero e proprio bene oggetto di diritti soggettivi 4. 1 All’idea di appartenenza delle “produzioni dell’ingegno … ai loro autori” si riferiva già il codice civile del 1865 (art. 437), il quale comunque, quasi in contrapposizione al regime della proprietà delle “cose” (quale definita nell’art. 436), ne demandava la disciplina alle “norme stabilite da leggi speciali”. 2 La cui nozione resta, quindi, nel codice civile vigente, opportunamente limitata alla realtà del mondo materiale, sia pure, come si vedrà, intesa in senso ampio. È, in effetti, ad una concezione materiale delle cose che si riferiscono le disposizioni concernenti la rilevanza dei collegamenti tra esse (artt. 816-819), nonché, sempre nel libro III, la disciplina (e la nozione stessa) della proprietà e, in genere, dei diritti reali, quali diritti assoluti di carattere patrimoniale, aventi, appunto, ad oggetto una cosa (II, 3.5). Da ultimo, comunque, non si è mancato di estendere la nozione di “cosa” anche ai dati informatici e, in particolare, al file (in quanto entità pur sempre caratterizzata da “una dimensione fisica costituita dalla grandezza dei dati che lo compongono”: Cass. pen. 13-4-2020, n. 11959, ai fini dell’applicazione della disciplina penalistica concernente l’appropriazione delle “cose mobili”). 3 Il concetto di bene, nell’ampia accezione che lo ricollega a ciò che costituisce fonte di utilità economica, come tale possibile oggetto di diritti, tende ad essere esteso anche ai comportamenti umani e, in genere, ai s e r v i z i , ossia a quelle prestazioni del genere più vario che il soggetto si procura attraverso rapporti contrattuali con altri, al fine di soddisfare proprie esigenze esistenziali o professionali. 4 È da sottolineare, peraltro, come la sempre più estesa ammissibilità di un possibile lecito sfruttamento commerciale di aspetti legati alla personalità, quali l’immagine e la notizia, rendendoli fonte di utilità economica

CAP. 2 – BENI GIURIDICI

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Un ulteriore allargamento del concetto di bene in senso giuridico deriva, inoltre, dal fatto che anche gli stessi diritti (di natura patrimoniale) sono, almeno per certi riguardi, reputati tali 5. I diritti patrimoniali vengono presi in considerazione, cioè, di per se stessi, come entità dotate di una propria apprezzabilità in termini economici e possibile oggetto di rapporti giuridici e delle corrispondenti situazioni soggettive (si pensi, in particolare, alla circolazione dei diritti di credito, attraverso la relativa cessione, artt. 1260 ss.) 6. Del resto, solo in via traslata il soggetto può essere considerato titolare del bene: il bene, infatti, costituisce l’oggetto del diritto e, quindi, dal punto di vista giuridico, il soggetto è titolare del diritto avente ad oggetto il bene (e il patrimonio, come si vedrà, risulta formato, ove si voglia essere concettualmente precisi, non da beni ma da diritti relativi a beni). Il linguaggio legislativo stesso si presenta alquanto equivoco, come è attestato dall’art. 27401, laddove stabilisce che “il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri”. In realtà, infatti, a rispondere per le sue obbligazioni è il patrimonio del debitore (c.d. responsabilità patrimoniale), formato da diritti sui beni (proprietà, diritti reali, di credito, ecc.). Semmai, è da rilevare come sia in relazione alla proprietà che il legislatore (sia pure in modo concettualmente scorretto e secondo quanto accade, peraltro, nel linguaggio comune) tende ad immedesimare il diritto col suo oggetto, parlando talvolta di beni del soggetto 7 (è questo il senso che sembra da attribuire, ad es., ad una disposizione come quella dell’art. 3231, in cui si allude ai beni e diritti del minore) 8. Quanto alle cose che sono reputate beni, perché possibile oggetto di diritti (art. 810), è da tenere presente come un ampliamento della relativa nozione – indubbiamente da considerare legata alla realtà materiale – derivi dall’art. 814, che assimila ai beni (in particolare mobili) le energie naturali che hanno valore economico (le quali pur sempre afferiscono al mondo fisico). Ciò significa che la tutela accordata relativamente ai beni (si pensi a quella possessoria: VI, 5.8) è accordata anche con riguardo alle energie, risultato per il soggetto cui si riferiscono e per chi ne abbia acquisito il diritto di utilizzazione, induca ormai a ravvisare in essi anche dei veri e propri beni economici. In tale prospettiva, è alla stessa notorietà, intesa in senso comprensivo, cui non si manca di alludere come bene suscettibile di costituire oggetto di rapporti giuridici patrimoniali (IV, 2.2). Ancora più in generale, si pone in evidenza, “a fronte della tutela del dato personale quale espressione di un diritto della personalità … il fenomeno della ‘patrimonializzazione’ del dato personale, tipico delle nuove economie dei mercati digitali”, in considerazione del quale i dati personali “possono costituire un ‘asset’ disponibile in senso negoziale, suscettibile di sfruttamento economico e, quindi, idoneo ad assurgere alla funzione di ‘controprestazione’ in senso tecnico di un contratto” (T.A.R. Lazio 10-1-2020, n. 260). 5 Indubbia rilevanza assume, in proposito, l’art. 813, il quale espressamente assoggetta al regime dei beni anche i diritti (distinguendoli a seconda della relativa natura mobiliare o immobiliare). 6 In una simile prospettiva, sono da considerare possibile oggetto di rapporti giuridici, potendo essere come tali inclusi nel novero dei beni in senso giuridico, le azioni, le obbligazioni, le quote di fondi comuni di investimento e, in genere, i c.d. strumenti finanziari, in relazione ai quali evocativamente il legislatore parla di “prodotti” (prodotti finanziari sono definiti “gli strumenti finanziari e ogni altra forma di investimento di natura finanziaria”: art. 11, lett. u, D.Lgs. 24.2.1998, n. 58, testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria). 7 Una traccia di ciò sembra forse riscontrabile proprio nell’art. 2740, quasi che il legislatore (in una prospettiva legata, invero, a passate concezioni), parlando, appunto, di beni, abbia voluto alludere alle proprietà del soggetto ed ai suoi diritti, in quanto assimilabili a proprietà perché economicamente rilevanti. 8 Pure in relazione al possibile oggetto del pegno si allude separatamente ai “beni mobili” e agli “altri diritti aventi per oggetto beni mobili” (art. 27842).

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dell’intervento dell’uomo sull’ambiente fisico, come quella elettrica o nucleare e le stesse onde radioelettriche nell’etere. Non tutte le cose sono beni in senso giuridico 9. Non possono costituire oggetto di rapporti privati (e, in tale sfera di rapporti, non possono, quindi, essere considerate beni), le cose incommerciabili (res extra commercium), quali i beni demaniali (II, 2.10) 10. Un discorso particolare richiede il regime delle parti separate del corpo umano, solo per alcune delle quali è senz’altro ammessa una situazione di vera e propria proprietà, con conseguente libera disponibilità e circolazione (ad es., i capelli). Per altre parti, la situazione si presenta peculiare, in quanto, ferma la relativa incommerciabilità di massima, una limitata disponibilità ne è riconosciuta al soggetto e, comunque, senza mai possibilità di ricavarne un lucro (in tali limiti è consentita la c.d. donazione del sangue e di taluni tessuti e organi) 11. Non si considerano beni, secondo l’opinione tradizionale e ancora prevalente, le cose comuni a tutti (res communes omnium), in quanto, essendo liberamente disponibili in natura, risultano illimitate (quindi superiori ai bisogni) ed il loro godimento non è fonte di conflitti di interessi, che richiedano una regolamentazione da parte dell’ordinamento. Tali sono, almeno se considerate nel loro insieme, l’aria o l’acqua del mare. L’intervento dell’uomo può, peraltro, determinarne un valore economico, dandosi così luogo, sotto certi profili, all’esistenza di un bene anche per il diritto (si pensi allo sfruttamento dell’atmosfera come luogo di propagazione delle onde radioelettriche, da reputare beni mobili, ai sensi dell’art. 814) 12. 9 Anche se pare da precisare che qui si è, evidentemente, in presenza di concetti relativi: si pensi a quanto accennato a proposito dello sfruttamento delle possibilità (attualmente ma non in passato) consentite dall’etere, ovvero a quanto sarà precisato circa le parti del corpo umano, di cui potrebbe ipotizzarsi, in un ambiente culturale e giuridico ovviamente ben diverso dal nostro, una più o meno estesa commerciabilità. 10 Nell’ordinamento attuale, la medesima cosa si presta spesso ad essere vista quale punto di riferimento di una pluralità di interessi giuridicamente rilevanti di diversa natura, privati e generali, come tale finendo per rappresentare, contestualmente, il referente materiale di una pluralità di beni giuridici, a loro volta di diversa natura. Si pensi ai beni d’interesse storico e artistico (art. 839) e ai c.d. beni ambientali (nel cui ambito particolare rilevanza assume il paesaggio, con i valori che vi risultano connessi): in relazione ad essi è possibile considerare, allo stesso tempo, la medesima cosa come oggetto di proprietà (o altri diritti patrimoniali) di privati e come oggetto di aspettative di fruizione generale e di conseguente necessaria conservazione e valorizzazione in vista di preminenti interessi sociali (di rilevanza per l’ordinamento, che quindi detta regole specifiche per assicurarne il rispetto: D.Lgs. 22.1.2004, n. 42, codice dei beni culturali e del paesaggio, in attuazione dell’esigenza fondamentale di tutela prospettata dall’art. 92 Cost., col relativo riferimento al “paesaggio” ed al “patrimonio storico e artistico della Nazione”; D.Lgs. 3.4.2006, n. 152, norme in materia ambientale; L. 6.12.1991, n. 394, in materia di “aree protette”). La necessità di tutelare “ambiente”, “biodiversità” ed “ecosistemi”, “anche nell’interesse delle future generazioni”, si è inteso ora sottolineare espressamente nell’art. 93 Cost., quale introdotto ai sensi della L. cost. 11.2.2022, n. 1 (e v. anche la contestuale modifica dell’art. 412-3 Cost., con riguardo ai limiti dell’iniziativa economica privata ed alla finalizzazione dell’intervento pubblico in ordine allo svolgimento dell’attività economica). Per l’esigenza di “un livello elevato di tutela dell’ambiente”, v., del resto, l’art. 37 Carta dir. fond. U.E., nonché l’art. 1912 TFUE. 11 Il discorso si risolve, in realtà, in quello dei limiti previsti per gli atti di disposizione del proprio corpo (art. 5), che sarà sviluppato a proposito della tutela della persona (IV, 2.5). Problematica particolarmente delicata, poi, è quella dei limiti entro cui sia da ammettere la possibilità di guardare allo stesso embrione – ed ai gameti umani, in particolare all’ovulo – in un’ottica economica di prodotto (IV, 1.2). 12 Non si manca di sottolineare, peraltro, come simili cose comuni a tutti tendano oggi ad essere considerate – per le esigenze connesse al relativo sfruttamento (anche proiettato nel tempo) – oggetto di interessi ritenuti giuridicamente rilevanti della collettività e di ogni soggetto come suo membro, assurgendo, così, alla qua-

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Sono da considerare senz’altro beni anche le cose che, al momento, non costituiscono oggetto di diritti, ma sono suscettibili di diventarlo, attraverso la relativa appropriazione. Si tratta delle cose di nessuno (res nullius), come i pesci nel mare e le cose abbandonate (res derelictae) intenzionalmente dal proprietario (a differenza di quelle smarrite, diversamente considerate dal legislatore; il tema sarà approfondito con riguardo ai relativi modi di acquisto, occupazione e invenzione: V, 2.2 e 2.3) 13. Materia di crescente riflessione è anche la collocazione sistematica – in quanto essere senziente – dell’animale, se non addirittura in una prospettiva di soggettività, almeno come punto di riferimento di una disciplina che tenga adeguatamente conto di una simile sua peculiarità e della specificità delle sue relazioni con le persone 14.

2. Beni immobili e beni mobili. – Il codice civile vigente ha conservato la tradizionale (e persistentemente rilevante) distinzione tra beni immobili e beni mobili 15. L’art. lità di veri e propri beni giuridici. Così, ad un regime pubblicistico di protezione si affiancano, in effetti, pure strumenti di tutela accordati ai soggetti, in quanto loro diretti fruitori (la problematica si riconduce al tema degli interessi diffusi e della relativa tutela: II, 3.10). Per il dibattito concernente i c.d. beni comuni, II, 2.10. 13 In relazione a tale categoria di cose, ci si riferisce alla distinzione tra cose in patrimonio e cose fuori patrimonio (res in patrimonio e res extra patrimonium), per evidenziare che esse, pur essendo in commercio (in quanto suscettibili di costituire oggetto di diritti), sono, almeno per il momento, fuori patrimonio (non appartenendo ad alcuno). Deve trattarsi sempre, comunque, di cose mobili, poiché gli immobili non possono mai trovarsi nella condizione di cose fuori patrimonio, dato che, per l’art. 827, i beni immobili che non risultano di proprietà di alcuno (c.d. vacanti) spettano al patrimonio dello Stato (ai sensi dell’art. 67 dello Statuto Trentino-Alto Adige, D.P.R. 31.8.1972, n. 670, al patrimonio della Regione). Materia di discussione sono la possibilità e le conseguenze dell’abbandono del fondo da parte del proprietario: VI, 2.2. 14 Si pensi, al riguardo, alla disciplina concernente la relativa tutela penale, significativamente intitolata ai “delitti contro il sentimento per gli animali”, introdotta, con gli artt. 544 bis ss. c.p., dalla L. 20.7.2004, n. 189, e modificata dalla L. 4.11.2010, n. 201, di ratifica della “Convenzione europea per la protezione degli animali di compagnia”, Strasburgo, 13.11.1987. Esemplare può essere considerata anche la previsione dell’art. 77 L. 28.12.2015, n. 221, che ha integrato l’art. 514 c.p.c., disponendo l’assoluta impignorabilità degli “animali di affezione o da compagna tenuti presso la casa del debitore o negli altri luoghi a lui appartenenti, senza fini produttivi, alimentari o commerciali”, nonché degli “animali impiegati ai fini terapeutici o di assistenza del debitore, del coniuge, del convivente o dei figli”. In tale ottica, indirizzata a considerare le problematiche concernenti l’animale come estranee a quelle proprie delle “cose” (e v., in Germania, già nel 1990, l’introdotto § 90a BGB, secondo cui, espressamente, gli “animali non sono cose”; parla di “esseri viventi dotati di sensibilità” l’art. 515-14 code civil, quale inserito nel 2015; l’art. 13 TFUE allude al necessario rispetto delle esigenze “in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti”), si è ipotizzato – secondo un orientamento, per cui v., ad es., Trib. Roma 15-3-2016, tendente ad applicare analogicamente la disciplina concernente i minori, nonché, ad es., Trib. Sciacca 19-2-2019 (ma v., contra, Trib. Milano 27-2-2015) – di disciplinare specificamente l’“affidamento” dell’animale in caso di separazione, divorzio o morte del proprietario (secondo il criterio del suo “maggiore benessere”: PP.DD.LL. n. 795, Camera, XVII legislatura, e n. 16, Camera, XVIII legislatura). Peraltro, Cass. 25-9-2018, n. 22728, con riferimento al tema della compravendita, considera – una volta esclusa senz’altro la possibilità di reputarlo quale “soggetto di diritti” – anche l’animale (pure d’affezione) pur sempre “cosa mobile” in senso giuridico e, in particolare “bene di consumo”. E Cass. 23-10-2018, n. 26770, ha negato la stessa risarcibilità di un danno non patrimoniale per la “perdita, a seguito di un fatto illecito, di un animale d’affezione”. Comunque, notevole rilevanza sistematica risulta ora destinato ad assumere il secondo periodo del nuovo art. 93 Cost., quale introdotto dalla L. cost. 1/2022, in cui si prevede che “la legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”. 15 È da evidenziare come alla ricordata definizione di “bene”, enunciata dall’art. 810, seguisse, nell’abrogato – a seguito della soppressione, nel 1944, dell’ordinamento corporativo – art. 811, la previsione per cui “i beni sono assoggettati alla disciplina dell’ordinamento corporativo in relazione alla loro funzione economica e alle esigenze della produzione nazionale”: quello che la Relaz. cod. civ., n. 386, definisce quale “criterio fonda-

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8121-2 individua specificamente i beni immobili, mentre beni mobili sono considerati “tutti gli altri beni” (art. 8123). Per l’art. 8121, sono beni immobili “il suolo, le sorgenti e i corsi d’acqua, gli alberi, gli edifici e le altre costruzioni, anche se unite al suolo a scopo transitorio, e in genere tutto ciò che naturalmente o artificialmente è incorporato al suolo”. In proposito, è da rilevare che il termine “alberi” deve essere riferito a tutte le piante che traggono necessariamente vita dal suolo e che essi diventano beni mobili nel momento in cui si distaccano dal suolo. Immobili vengono anche considerati, ad es., i distributori di carburante, i serbatoi interrati, nonché le c.d. case mobili, in quanto, ai fini della relativa utilizzazione, devono essere fissate al suolo (pur se non definitivamente nello stesso luogo), anche per consentirne i necessari allacciamenti. Sono “reputati” 16 beni immobili, ai sensi dell’art. 8122, i mulini, i bagni e gli altri edifici galleggianti, a condizione che siano saldamente assicurati alla riva o all’alveo e, soprattutto, debbano necessariamente esserlo ai fini della loro utilizzazione (si pensi ai ristoranti lungo le rive dei fiumi o alle sedi di associazioni sportive fluviali). I beni mobili vengono identificati in via residuale (art. 8123), essendo ritenuti tali tutti i beni non rientranti tra quelli considerati immobili (ai sensi dell’art. 8121-2). Le energie naturali aventi valore economico, come già accennato, risultano espressamente assimilate ai beni mobili (art. 814). La disciplina concernente i beni immobili si applica anche ai diritti reali aventi ad oggetto beni immobili (servitù prediali, superficie, usufrutto relativo ad un immobile, ecc.) ed alle azioni relative 17. Quella concernente i beni mobili si applica “a tutti gli altri diritti” (art. 813). Decisiva per l’individuazione della disciplina applicabile è, insomma, la natura dell’oggetto (immobiliare o meno) del diritto: ai fini dell’applicabilità del regime dei beni mobili opera, dunque, pure per i diritti, il criterio (negativo) della residualità. È da sottolineare come, anche alla luce di tale disposizione, tra i beni mobili – categoria cui si ritiene appartenere il danaro – siano da annoverare pure le azioni di società, le obbligazioni e, in genere, i titoli di credito 18. La distinzione tra beni immobili e mobili ha sempre avuto notevole rilevanza, costituendo punto di riferimento di una disciplina notevolmente differenziata, essenzialmente sul presupposto della maggiore importanza economica della proprietà fondiaria. Si tratta, peraltro, di un assetto economico della società ormai da tempo largamente superato, mentale di distinzione dei beni nel nostro ordinamento, desunto dalla importanza dei beni stessi nell’economia produttiva della Nazione” (II, 2.10 e VI, 1.1). 16 L’impiego di tale termine da parte dell’art. 8122 induce taluno a parlare, al riguardo, di immobili per determinazione di legge, in contrapposizione agli altri, considerati immobili per natura. 17 L’allusione alle azioni è piuttosto equivoca, dato che esse, in quanto strumento (processuale) per far valere il diritto, non possono essere considerate entità economicamente autonome, non essendo trasferibili separatamente dal diritto cui si riferiscono. Il regime dei beni immobili, quanto all’assoggettamento a trascrizione dei relativi contratti, viene applicato dall’art. 2643, n. 2 bis, ai diritti edificatori (VI, 1.9). 18 Ciò era espressamente previsto dall’art. 418 cod. civ. 1865 (che in proposito parlava, nel quadro della elencazione dei beni mobili, di “mobili per determinazione della legge”) e si ricava attualmente dal combinato disposto degli artt. 8123 e 813. Per Cass. 26-5-2000, n. 6957, ad es., anche la quota di una società a responsabilità limitata costituisce “bene immateriale equiparabile al bene mobile non iscritto in pubblico registro ai sensi dell’art. 812 c.c., onde ad essa possono applicarsi, a norma dell’art. 813 c.c., le disposizioni concernenti i beni mobili”.

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dato il peso preponderante assunto dall’attività produttiva legata allo sviluppo industriale (e, comunque, non connessa allo sfruttamento del suolo, peraltro anch’esso sempre più dipendente dall’impiego di macchine e da conseguenti consistenti investimenti). A completare il quadro della c.d. mobilizzazione della ricchezza, poi, è l’accennato carattere di bene mobile – oltre che del danaro – conferito dall’ordinamento agli strumenti giuridici operativi degli investimenti (azioni di società, obbligazioni, titoli di credito, ecc.). In generale, ci si può limitare qui a sottolineare (rinviando ai diversi luoghi ove le rispettive problematiche saranno trattate) come la disciplina della circolazione dei diritti concernenti i beni immobili resti persistentemente circondata da maggiori formalità (si allude, in particolare, alla forma – atto scritto – richiesta per i relativi atti, nonché al complesso sistema, fondato sull’impiego di appositi registri, della pubblicità immobiliare, per assicurare certezza agli acquisti: artt. 1350 e 2643 ss.), rispetto a quella dei diritti concernenti i beni mobili, senz’altro notevolmente più snella (i relativi atti non richiedono forme particolari e la certezza degli acquisti è affidata al possesso: art. 1153) 19. In relazione alla loro particolare natura (e alla loro rilevanza economica), il codice riserva una peculiare disciplina – che li avvicina, in una certa misura, ai beni immobili – a talune categorie di beni mobili (navi e alcuni altri natanti, aeromobili, autoveicoli e taluni altri veicoli), per i quali è prevista l’iscrizione in pubblici registri (beni mobili registrati). L’art. 815 prevede che tali beni sono soggetti alle specifiche regole che li riguardano (con riferimento, in particolare, agli effetti del possesso, agli atti, alle garanzie, al sistema della pubblicità per quanto concerne la loro circolazione, ecc.). Solo in mancanza di simili regole di carattere specifico (alcune comuni, altre differenti a seconda della categoria cui appartiene il bene, dettate dal codice civile e da numerose leggi speciali) si applicano le disposizioni relative, in genere, ai beni mobili (dato che si tratta pur sempre di beni di tale tipo).

3. Distinzioni ulteriori. – Relativamente alle cose sono operate altre distinzioni, in quanto ne vengono a dipendere significative differenziazioni della disciplina concernente i diritti e gli atti che le riguardano. a) Una prima rilevante distinzione è quella tra cose generiche e cose specifiche. Si definiscono generiche le cose che vengono prese in considerazione semplicemente per la loro appartenenza ad un genere (ad un certo tipo, cioè, individuato sulla base di caratteristiche comuni: un cane pastore tedesco, una copia di un certo romanzo) 20. Specifiche, invece, sono le cose determinate, considerate per la loro individualità (il cane Rex, la copia del romanzo con una dedica dell’autore) 21. La distinzione si presenta rilevante in relazione alle regole di circolazione dei beni: nei contratti aventi per oggetto il trasferimento della proprietà di cose generiche (ad esempio, vendita) non basta, per trasmetterla (con le conseguenze che ne derivano, in par19 Conseguentemente diversi risultano anche i diritti reali di garanzia cui possono essere assoggettate le due categorie di beni: pegno per i mobili (artt. 2784 ss.), ipoteca per gli immobili (artt. 2808 ss.). 20 Si tende a ritenere che proprio la genericità e la fungibilità rappresentino caratteristiche del fenomeno della c.d. produzione di massa. 21 Si tratta, quindi, di una distinzione fondata non tanto su di un carattere naturale delle cose, quanto sul modo in cui le cose sono considerate dalle parti, come punto di riferimento dei loro interessi. La distinzione riguarda essenzialmente i beni mobili, anche se, eccezionalmente, gli stessi beni immobili possono essere considerati genericamente.

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ticolare, sulla sopportazione del rischio del relativo perimento), il semplice consenso (come per quelle specifiche: art. 1376), ma ne occorre anche la concreta individuazione (o specificazione) nell’ambito del genere (art. 1378: VIII, 6.7). Per le obbligazioni aventi ad oggetto cose generiche vale, poi, il principio per cui il debitore deve prestare cose di qualità non inferiore alla media (art. 1178). Anche la responsabilità del debitore si ritiene atteggiarsi diversamente per le cose generiche, dato che la relativa prestazione non può diventare mai impossibile (artt. 1218 e 1256), poiché il genere, in quanto tale, non è suscettibile di perimento (genus numquam perit) 22. b) Ulteriore distinzione è quella tra cose fungibili e cose infungibili. Essa si fonda sulla considerazione delle cose come interscambiabili (sostituibili, cioè, le une con le altre, in quanto di pari utilità). Fungibili sono tutte quelle considerate a peso, numero e misura (tipicamente tali sono le derrate alimentari ed i prodotti industriali). È da tenere presente che la qualifica di genericità e quella di fungibilità non corrispondono: a seguito della individuazione, la cosa generica viene considerata specifica (in particolare, in relazione alla sopportazione del relativo rischio di perimento), ma il suo carattere di fungibilità non viene meno. Significativo, al riguardo, si presenta il prestito che, a seconda della fungibilità o meno delle cose prestate, è mutuo (art. 1813) o comodato (art. 1803) (IX, 4.6-7). In proposito, è da rilevare come, dopo la consegna, ad es., di un certo quantitativo di grano, oggetto di contratto di mutuo, la cosa non sia più reputata generica, essendone avvenuta l’individuazione (il rischio del relativo perimento, da tale momento, grava sul mutuatario), ma la relativa fungibilità (la interscambiabilità, cioè, della cosa con altre dello stesso tipo) giustifichi la regola per cui dovranno essere restituite non le stesse cose consegnate, bensì “altrettante cose della stessa specie e qualità”: il mutuatario potrà dare alle cose a lui consegnate la destinazione che preferisce (le può soprattutto consumare, onde il mutuo è anche definito quale prestito di consumazione), essendo tenuto semplicemente a restituire il tantundem eiusdem generis. Nel caso del comodato, invece, concernendo esso cose considerate come infungibili, il comodatario è tenuto a restituire, dopo l’uso (il comodato è definito quale prestito d’uso), “la stessa cosa ricevuta” (art. 1803). La compensazione legale opera per i debiti reciproci relativi, oltre che al danaro, esclusivamente a cose fungibili (art. 1243). c) Si distingue, inoltre, tra cose consumabili e cose inconsumabili. Sono consumabili le cose la cui utilizzazione normale (per soddisfare, cioè, l’utilità in vista della quale sono prese in considerazione) ne comporta la distruzione quale entità (derrate alimentari, carburante, ecc.) 23. Sono inconsumabili quelle che si prestano ad una utilizzazione normale ripetuta nel tempo (libro, mobile, macchinario), anche se, ovviamente, non indefinitamente. La distinzione è rilevante, oltre per quanto dianzi accennato in relazione al prestito, soprattutto con riguardo all’usufrutto, dato che quando esso concerne cose con22 Proprio in relazione alle accennate problematiche, si presenta, a sua volta, come peculiare la disciplina delle cose appartenenti ad un genere limitato (genus limitatum: bottiglie di vino di una certa qualità, marca ed annata; cavalli di un certo allevamento). 23 L’art. 996 allude, in modo evocativo, alle cose consumabili come a quelle che si consumano “in un tratto”. Tale disposizione si riferisce, contrapponendole alle cose consumabili (e assimilandone, quindi, in sostanza, il trattamento a quello delle cose inconsumabili), alle cose deteriorabili (quelle, cioè, che “si deteriorano a poco a poco”). Una specifica disciplina è riservata alle cose deteriorabili, sempre in contrapposizione a quelle consumabili, ad es., in tema di collazione (art. 7502-3) e di mora del creditore (art. 1211).

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sumabili (c.d. quasi usufrutto), l’usufruttuario può servirsene (appunto consumandole), essendo tenuto a pagarne il valore al termine dell’usufrutto (art. 995) (mentre in tutti gli altri casi l’usufruttuario può servirsi delle cose secondo il loro uso cui sono normalmente destinate, dovendole restituire, alla fine dell’usufrutto, anche se deteriorate dall’uso, semplicemente nello stato in cui si trovano: cose deteriorabili, art. 996) 24. d) Importante è anche la distinzione tra cose divisibili e cose indivisibili. A tale fine il criterio di distinzione ha carattere essenzialmente economico-funzionale (dal punto di vista strettamente fisico, infatti, tutte le cose si presentano come scomponibili in entità più semplici). La divisibilità deve considerarsi sussistente quando la cosa può essere scomposta in parti omogenee (tra loro diverse solo dal punto di vista quantitativo), idonee allo stesso uso cui era destinata la cosa intera e solo di utilità e valore proporzionali all’intero (indivisibile è un quadro, un mobile, un animale vivo). Le conseguenze della indivisibilità si avvertono, oltre che in materia di obbligazioni (obbligazioni indivisibili, art. 1316), in relazione alla impossibilità di sciogliere la comunione operando la divisione in modo diretto (attraverso, cioè, una divisione materiale), occorrendo una diversa (e più complessa) procedura, che sia atta a salvaguardare comunque la pluralità degli interessi economici concorrenti sulla cosa (art. 720). L’indivisibilità, oltre che essere tale – come negli esempi accennati – per natura, può esserlo per legge (come, ad es., le parti comuni di un edificio in condominio: artt. 1117 e 1119), ovvero per convenzione (quando le parti abbiano considerato indivisibile una cosa che lo sarebbe, invece, per natura: art. 1316). e) La distinzione tra cose produttive e non produttive, dipende dall’attitudine della cosa alla produzione di frutti (II, 2.8). Ad essa è conferita rilevanza, in particolare, con la previsione di una specifica disciplina della locazione, quando abbia per oggetto il godimento, appunto, di una “cosa produttiva, mobile o immobile” (affitto: artt. 1615 ss.). f) È da tenere presente come, di recente, l’ordinamento riservi una disciplina sotto taluni profili peculiare ai c.d. beni di consumo, evidentemente nella prospettiva della tutela di chi, sul mercato, si presenti nella veste di consumatore (in contrapposizione al produttore). In proposito, assume particolare rilevanza la specifica e articolata regolamentazione della vendita dei beni di consumo, ora disciplinata negli artt. 128 ss. D.Lgs. 6.9.2005, n. 206, codice del consumo (IX, 1.8). Tale provvedimento (art. 3), oltre a individuare la nozione di “consumatore o utente” (“la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta”), contiene anche una generale definizione di “prodotto”, come “qualsiasi prodotto destinato al consumatore” (con talune precisazioni) 25.

4. Il danaro. – Nelle categorie accennate è usualmente inquadrato anche il danaro. Esso viene, nella teoria dei beni, correntemente qualificato come cosa mobile, generica, fungibile, consumabile, divisibile: in realtà, in ogni caso in cui il riferimento a simili categorizzazioni potrebbe risultare utile, si ritiene necessario, comunque, considerare in ma24

La qualifica di consumabilità deve essere distinta da quella di fungibilità: vi sono cose fungibili non consumabili (libri, macchine) e cose consumabili non fungibili (l’ultima bottiglia di vino di una certa annata). 25 L’art. 1282 definisce, in relazione alla specifica disciplina della vendita dei beni di consumo, il “bene di consumo” come “qualsiasi bene mobile, anche da assemblare” (con alcune eccezioni: beni oggetto di vendita forzata; acqua e gas non confezionati per la vendita; energia elettrica).

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niera autonoma le problematiche relative al danaro, avvertendosi il bisogno di operare precisazioni. Ciò emerge, del resto, dallo stesso linguaggio legislativo, in cui si tende a specificare, di volta in volta, la riferibilità pure al danaro delle regole che prendono in considerazione gli altri beni secondo determinate categorie 26. Anche con riguardo a un tipo tradizionale di circolazione monetaria, fondata su pezzi monetari (monete metalliche e banconote) aventi corso legale (art. 1277), è evidente, infatti, come questi, a differenza delle altre cose, assumano semplicemente una funzione strumentale, quale espressione, cioè, del valore patrimoniale di cui il soggetto è messo – sulla base di un ragguaglio numerico (somma) con l’unità valutaria dell’ordinamento valutario cui i pezzi stessi si riferiscono – in condizione di disporre, nella forma più astratta che una disponibilità patrimoniale possa rivestire (si parla, con riguardo alla funzione del danaro quale mezzo di scambio universale, di liquidità). È questo il motivo per cui il danaro e le obbligazioni che lo concernono (debiti pecuniari o di somma di danaro: VII, 1.16) ricevono un trattamento differenziato rispetto a qualsiasi altro bene ed ai relativi rapporti giuridici. È da tenere presente, poi, come, da una parte, la moneta assolva pure all’essenziale funzione di generale misura dei valori; dall’altra, il danaro si presenti in una pluralità di modi nei rapporti che lo riguardano 27. La perdita di peso, nella circolazione monetaria, degli accennati mezzi tradizionali di pagamento (pur sempre materiali) tende, inoltre, a rendere sempre più ideale non solo l’unità valutaria (ormai da tempo non definita in termini di equivalenza con una determinata quantità di metallo prezioso), ma anche lo stesso strumento di circolazione della moneta. Si tratta del fenomeno della c.d. smaterializzazione della moneta e del relativo trasferimento (quale moneta scritturale o bank money), che avviene oggi prevalentemente sul piano contabile, cioè attraverso sistemi che si avvalgono delle tecnologie maggiormente aggiornate (in proposito, si parla correntemente di moneta elettronica) 28.

5. Rapporti di connessione tra le cose. Le pertinenze. – In relazione ai diritti ed agli atti che le concernono, assume notevole rilevanza la considerazione unitaria o meno delle cose, sulla base dei collegamenti tra di esse, naturali od opera dell’uomo. 26 Così, ad es., in tema di compensazione, si allude a “debiti che hanno per oggetto una somma di danaro o una quantità di cose fungibili dello stesso genere” (art. 12431) e nella definizione del mutuo si parla di consegna di “una determinata quantità di danaro o di altre cose fungibili” (art. 1813). 27 Basti qui solo accennare al diverso modo di atteggiarsi del danaro come mezzo di pagamento e come capitale (in tale ultima veste presentandosi sicuramente tutt’altro che consumabile ed assumendo, invece, soprattutto nelle moderne economie, un carattere produttivo). 28 Sui complessi problemi legati all’emissione della moneta elettronica – definita come “il valore monetario memorizzato elettronicamente, ivi inclusa la memorizzazione magnetica, rappresentato da un credito nei confronti dell’emittente che sia emesso per effettuare operazioni di pagamento … e che sia accettato da persone fisiche e giuridiche diverse dall’emittente” (art. 12h-ter) – v. il titolo V-bis D.Lgs. 1.9.1993, n. 385, introdotto dalla L. 1.3.2002, n. 39, poi sostituito dal D.Lgs. 16.4.2012, n. 45. Di grande attualità è la discussione in ordine alla natura delle valute virtuali (c.d criptovalute, quale, ad es., il bitcoin), definite come “la rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente” (art. 12qq, D.Lgs. 21.11.2007, n. 231, quale modificato dal D.Lgs. 25.5.2017, n. 90 e dal D.Lgs. 4.10.2019, n. 125, significativamente prese in considerazione nel contesto della disciplina tendente alla prevenzione e repressione del fenomeno del riciclaggio).

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Si reputa cosa semplice quella che empiricamente risulta tale, dato che l’integrazione degli elementi (in cui qualunque cosa risulta pur sempre tecnicamente scomponibile) che la compongono ha fatto perdere la loro individualità (animale, forma di pane, coperta). Nella cosa composta, invece, gli elementi che concorrono a formarla conservano la propria individualità materiale, essendo possibile la relativa scomposizione, ma si presentano come complementari, onde consentire alla cosa di svolgere la sua funzione tipica (ruote, sterzo, proiettore, scocca, carburatore e moltissimi altri elementi compongono un’automobile). È da sottolineare come decisiva non sia la unione materiale dei diversi elementi, bensì la necessaria complementarietà economica, rilevante risultando la relativa unitarietà funzionale (ciascun elemento è parte della cosa composta). Cosa composta, così, è – secondo quanto, del resto, emerge anche dal linguaggio comune – un paio di guanti: manca, almeno secondo la normale destinazione economica della cosa (e, quindi, nella considerazione sociale cui l’ordinamento si adegua), almeno finché una simile destinazione viene conservata, l’individualità economica dei singoli elementi (con la conseguente autonomia giuridica). La distinzione in questione assume, comunque, scarso rilievo, dato che anche le cose composte, come quelle semplici, costituiscono oggetto unitario dei diritti e degli atti che li concernono. Il codice civile ha ritenuto opportuno definire il rapporto che si può venire ad instaurare tra cosa principale e cosa accessoria, precisando la nozione di pertinenza, nonché le conseguenze, sul piano giuridico, di un simile eventuale rapporto di connessione tra cose. La connessione per accessorietà si ha, appunto, quando tra più cose si venga ad instaurare un rapporto caratterizzato dall’essere l’una cosa principale e l’altra accessoria, pur conservando esse una propria individualità materiale ed economica (in ciò consistendo la differenza rispetto alla relativa confluenza nella cosa composta) 29, con la conseguenza di far seguire, almeno in linea di massima, alla cosa accessoria le vicende di quella principale 30. Per l’art. 8171, pertinenze sono “le cose destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di un’altra cosa”. La cosa non perde, quindi, la sua individualità e autonomia 31: ai fini della ricorrenza del concetto di pertinenza è determinante la instaurazione 29

Taluno distingue, nel quadro della accessorietà, la incorporazione dalla pertinenza, sotto il profilo, nel primo caso, della compenetrazione materiale di una cosa con un’altra, pur in assenza di quella complementarietà necessaria che caratterizza la cosa composta (statua nella nicchia predisposta nella casa). Il regime prospettato a seguito dell’incorporazione (in cui dominerebbe l’idea di completezza), data la supposta perdita, da parte della cosa incorporata, della propria oggettività economica, sembra peraltro finire sostanzialmente col coincidere con quello della cosa composta. 30 È da tenere presente che se le pertinenze vengono senz’altro ricondotte al concetto di accessorietà, non si manca di considerare non del tutto coincidenti i due concetti, reputando più ampio quello di accessorietà, fino a comprendervi anche i frutti. Nell’incertezza concettuale dei rapporti tra le categorie in questione – la stessa Cassazione talvolta (21-1-1972, n. 160) è parsa assumere un concetto di cosa accessoria come “parte integrante della cosa principale”, tale da risultarne funzionalmente inscindibile; talvolta ha reputato, invece, meno stretto di quello pertinenziale il vincolo che lega la cosa accessoria alla principale (18-1-1969, n. 101), con conseguente inapplicabilità del relativo regime – il legislatore, pur menzionandole distintamente, tende ad accomunarle, comunque, nel trattamento. Così, in tema di obbligazioni del venditore, per l’art. 14772, “la cosa deve essere consegnata insieme con gli accessori, le pertinenze e i frutti dal giorno della vendita” (in uguale prospettiva si pongono l’art. 2912, in materia di estensione del pignoramento, nonché l’art. 559 c.p.c., a proposito dell’obbligo di custodia dell’immobile pignorato). 31 La Relaz. cod. civ., n. 390, evidenzia che “le pertinenze non diventano parti della cosa principale ma

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di un legame di carattere economico-giuridico (per cui la pertinenza vale a conferire alla cosa principale maggiore utilità e/o pregio). L’esistenza di un legame anche materiale, peraltro, non ne esclude necessariamente la configurabilità: pertinenza è considerato, così, lo scaldabagno, ancorché congiunto al muro dell’abitazione (parti essenziali della cosa composta sono reputati, invece, l’ascensore e la caldaia dell’edificio in cui sono istallati, così come le imposte sulle finestre). Il rapporto di connessione funzionale instaurato – essendo richiesta una destinazione durevole – deve, inoltre, essere stabile e non legato ad esigenze di carattere occasionale (come gli ornamenti apportati ad edifici in occasione di particolari eventi) 32. Il rapporto di pertinenza può intercorrere tra cose mobili (cornice e quadro, piedistallo e statua), tra cosa mobile e cosa immobile (antenna televisiva ed edificio), tra cose immobili (la cantina rispetto all’appartamento, un’area adibita a stenditoio o a parco giochi rispetto all’edificio) 33. Un peculiare rapporto di pertinenza è stato legislativamente disciplinato con riferimento alle aree di parcheggio rispetto agli edifici 34. Particolarmente importanti, anche sul piano storico, sono i rapporti pertinenziali in campo produttivo: si tratta della pertinenza agricola (comprendente le scorte vive e le scorte morte, cioè gli animali, le attrezzature, le sementi e tutto ciò che si presenta come necessario alla conduzione del fondo) e della pertinenza industriale (l’attrezzatura di una miniera; i macchinari, ma solo nel caso che l’immobile assuma una funzione preminente sul piano economico-produttivo). conservano la loro individualità giuridica, nella stessa guisa che conserva la propria individualità ciascuna cosa mobile nella universalità di mobili”. 32 I requisiti soggettivi e oggettivi caratterizzanti il vincolo pertinenziale sono sintetizzati da Cass. 16-5-2018, n. 11970, in cui si accenna, in particolare, al “requisito oggettivo della contiguità, anche solo di servizio, tra i due beni, ai fini del quale il bene accessorio deve arrecare un’utilità a quello principale, e non al proprietario di esso”. 33 Si tenga presente che “la nozione di pertinenza urbanistica ha peculiarità sue proprie che la differenziano da quella civilistica, dal momento che il manufatto … deve essere anche sfornito di autonomo valore di mercato e dotato comunque di un volume modesto rispetto all’edificio principale, in modo da evitare il c.d. carico urbanistico” (con conseguente necessità, per la relativa realizzazione, di “conseguire il permesso di costruire”: Cons. Stato sez. VI, 4-1-2016, n. 19). 34 In materia di parcheggi privati (tali sono da intendere i posti auto scoperti, i boxes ed i garages), si è distinto tra obbligatori, facoltativi e liberi. Parcheggi obbligatori sono definiti quelli che devono essere necessariamente previsti nelle nuove costruzioni (a partire dalla L. 6.8.1967, n. 765). Dalla L. 28.2.1985, n. 47 era stato considerato derivarne un vincolo pertinenziale di carattere legale (e un diritto reale d’uso in favore dei condomini): tale configurazione è risultata superata, però, dalla L. 28.11.2005, n. 246, la quale ha stabilito che gli spazi di parcheggio realizzati ai sensi della legislazione in questione “non sono gravati da vincoli pertinenziali di sorta né da diritti d’uso a favore dei proprietari di altre unità immobiliari e sono trasferibili autonomamente da esse” (disciplina, questa, che Cass. 24-2-2006, n. 4264, negatone il carattere interpretativo o, comunque, retroattivo, ha reputato “destinata ad operare solo per il futuro, e cioè per le costruzioni non ancora realizzate o per quelle realizzate, ma per le quali non siano iniziate le vendite delle singole unità immobiliari”). Parcheggi facoltativi sono quelli realizzati in base alla c.d. legge Tognoli (L. 24.3.1989, n. 122), con particolari agevolazioni urbanistiche e civilistiche (in relazione alle maggioranze necessarie per le relative delibere condominiali istitutive). Il trasferimento della loro proprietà separatamente da quella dell’unità immobiliare di cui costituiscono pertinenza (anch’essa di carattere legale) è vietato (con conseguente nullità dell’atto con cui tale operazione è effettuata: Cass. 16-2-2012, n. 2248). I parcheggi liberi, che sono quelli non rientranti nelle due tipologie precedenti, non si presentano assoggettati a particolari vincoli, restando pienamente sottoposti alla disciplina generale del codice civile, al pari di qualsiasi altra pertinenza immobiliare. Le diverse tipologie di parcheggi privati, alla luce della evoluzione del quadro legislativo, sono con precisione individuate da Cass. 1-8-2008, n. 21003.

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Essenziale, perché sorga il rapporto di pertinenza, è la destinazione, la quale può essere effettuata esclusivamente dal proprietario della cosa principale (o dal titolare di un diritto reale su di essa) (art. 8172). Si ritiene trattarsi non di un atto negoziale, ma di un atto giuridico in senso stretto. Perché si abbia la costituzione del rapporto occorre che il proprietario della cosa principale sia tale anche della cosa accessoria. Circa la rilevanza del rapporto pertinenziale, l’art. 8181 prevede che gli atti e, in genere, i rapporti giuridici concernenti la cosa principale comprendono anche le pertinenze, salvo che non sia diversamente disposto. La vendita ed il legato della cosa principale, così, comprendono anche le pertinenze (artt. 14772 e 6671). Per escludere la operatività di tale regola occorre una inequivoca manifestazione di volontà. Le pertinenze, peraltro, poiché conservano la loro individualità giuridica, possono formare oggetto di atti e rapporti separatamente dalla cosa principale (art. 8182). La cessazione del rapporto pertinenziale non è opponibile ai terzi, salvo che non sia avvenuta prima dell’acquisto, da parte loro, di diritti sulla cosa principale (tale cessazione può avvenire, in particolare, con l’alienazione separata delle pertinenze rispetto alla cosa principale) (art. 8183). I diritti di terzi sulla cosa non possono essere pregiudicati dalla sua destinazione a pertinenza (da parte del proprietario dei beni coinvolti nel vincolo). Tuttavia, se la cosa principale è un immobile (o un mobile registrato), tali diritti sono opponibili agli acquirenti (della cosa principale) in buona fede solo ove risultino da scrittura privata avente data certa anteriore al loro acquisto (art. 819).

6. Le universalità. – Il rapporto di connessione tra le cose risulta più attenuato nel caso di universalità di mobili, anche se esso rileva per l’ordinamento sotto taluni profili: ad un simile insieme di beni, infatti, viene riservato un trattamento giuridico, almeno sotto certi profili, diverso da quello previsto, in via generale, per i beni mobili (e che si accosta, per certi versi, addirittura a quello degli immobili). Le universalità di mobili (tradizionalmente definite universalità di fatto: universitates facti) sono definite dall’art. 8161 come “pluralità di cose che appartengono alla stessa persona e hanno una destinazione unitaria”. Si tratta di complessi di cose – che si ritiene dover essere omogenee – le quali conservano in pieno la propria individualità e autonomia economico-funzionale (e, di riflesso, giuridica). Esempi tradizionali e tipici sono rappresentati da un gregge, una biblioteca, una collezione di quadri o di francobolli (il carattere di unificazione tra le cose che ne fanno parte risulta significativamente già dall’impiego di una specifica terminologia per indicare l’insieme). Il collegamento (giuridicamente rilevante) tra le cose deriva, innanzitutto, dalla comune appartenenza ad uno stesso soggetto. Occorre, poi, la relativa destinazione unitaria (da intendere come destinazione economico-funzionale), la quale sembra – pur nel silenzio della legge – poter essere impressa solo dal proprietario, in quanto solo soggetto competente a scegliere e ad imprimere alle cose la relativa destinazione economica (anche se taluni ritengano a ciò legittimato pure il possessore in quanto tale). Il tratto unificante delle cose, che conservano la propria identità in modo più marcato che nel caso dell’accessorietà (mancando il rapporto di subordinazione economica tra cosa principale e cosa accessoria), è dato dalla funzione complessiva che esse sono chiamate a svolgere a seguito dell’atto di organizzazione del soggetto che imprime la comune destinazione. A seguito di tale organizzazione funzionale, il complesso di beni assume,

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per l’ordinamento, una propria distinta fisionomia economico-giuridica (quale bene, insomma, considerato autonomo) 35, in quanto valutato come idoneo a realizzare uno specifico interesse, ulteriore rispetto a quello soddisfatto dai singoli beni che ne fanno parte. Con una regola simile a quella dettata in tema di pertinenze, l’art. 8162 prevede che le singole cose facenti parte dell’universalità di mobili possono formare oggetto di separati atti e rapporti giuridici. L’universalità di mobili si atteggia, in quanto tale, come possibile autonomo oggetto di atti dispositivi (vendita, legato) e la sua disciplina, come bene complessivo, tende a discostarsi da quella dei beni mobili. Essa risulta, così, in larga misura assimilata agli immobili sotto il profilo possessorio: si estende alla sua tutela l’azione di manutenzione (art. 1170); la regola possesso vale titolo (art. 1153) non si applica (art. 1156); l’usucapione è disciplinata, in sostanza, come per gli immobili (art. 1160). Regole particolari concernono, poi, l’usufrutto della mandria e del gregge (art. 994). Dalle universalità di mobili (o di fatto) si distinguono le universalità di diritto (universitates iuris). La considerazione unitaria di un complesso di beni non si presenta qui quale conseguenza di un atto di destinazione economica e organizzazione funzionale del proprietario, bensì di una valutazione normativa, la quale, alla luce di peculiari esigenze, vale a imprimere una destinazione unitaria ad una serie di rapporti della più diversa natura. L’universalità di diritto comprende, insomma, situazioni giuridiche soggettive attive e passive assolutamente non omogenee (relative a beni mobili e immobili, diritti reali e di credito, così come obblighi), quando il legislatore reputi opportuno, per certi aspetti, unificarne il regime. La ricorrenza della figura viene correntemente individuata nell’eredità (esempio tipico e, per molti, unico di universalità di diritto, di cui, non a caso, non si manca di contestare non solo l’accostamento alle universalità di fatto, ma anche la possibilità di assumerla come figura di carattere generale). Non solamente il patrimonio ereditario è trasferito nella sua globalità all’erede (si parla, infatti, di successione in universum ius), ma la sua gestione unitaria è assicurata prima dell’accettazione (artt. 528 ss.), la tutela ne è pure unitaria (art. 533) e ne è possibile la vendita come bene unico (artt. 1542 ss.), addirittura con specifici requisiti di forma (art. 1543).

7. Azienda. – Taluni annoverano, quale universalità di diritto, anche l’azienda , definita dall’art. 2555 come “complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”. Proprio in considerazione della rilevanza dell’intervento di organizzazione, atto ad imprimere ai beni una nuova e specifica funzione economica, altri preferiscono un accostamento dell’azienda alle universalità di fatto (che troverebbe, del resto, espressa conferma nell’art. 670, n. 1, c.p.c., il quale, a proposito del sequestro giudiziario, allude a “aziende o altre universalità di beni”) 36. Si tende, comunque, a precisare che l’azienda, rispetto ad ogni altra universalità, risulta avere caratteristiche peculiari. 35 È stato, al riguardo, sottolineato come, nell’universalità di mobili, i singoli beni concorrano a formare un nuovo bene senza perdere la loro rilevanza individuale, continuando a costituire oggetto di distinti diritti autonomamente tutelabili. Significativo del carattere di bene autonomo della universalità di mobili risulta l’art. 27842, concernente la relativa assoggettabilità a pegno. 36 All’azienda come “pluralità di beni unificata da una attività di organizzazione”, con la conseguente “possibilità di negozi giuridici” che l’abbia ad oggetto “quale entità produttiva autonoma distinta dagli stessi beni aziendali singolarmente considerati”, allude Cons. Stato, sez. IV, 29-2-2016, n. 811.

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Alla luce dell’art. 2555, l’azienda, quale complesso di beni, si distingue dall’impresa, consistente nell’attività economica in vista del cui esercizio un simile complesso di beni è organizzato dall’imprenditore (II, 6.2). In ogni caso, è da sottolineare come il codice detti regole specifiche relativamente a tale figura (nella prospettiva, appunto, di complesso di beni unitariamente considerato e da preservare nella sua autonoma rilevanza economica). Ciò, in particolare, per quanto concerne l’alienazione (da provare per iscritto, salva l’osservanza delle forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che la compongono: art. 25561), comportante un fenomeno di successione in tutti i rapporti giuridici (contratti, crediti, debiti) ad essa attinenti (artt. 2558 ss.), nonché l’usufrutto (art. 2561) e l’affitto (art. 2562) 37.

8. Frutti. – Tra i beni, il codice disciplina i frutti, distinguendoli in frutti naturali e frutti civili. Anche se, tradizionalmente, si reputa possibile abbracciare ambedue le figure in una nozione unitaria 38, si sottolinea spesso la profonda disomogeneità della categoria. Una simile disomogeneità risulta già a prima vista palese, trattandosi, nel primo caso, di cose materiali derivanti fisicamente dalla cosa madre, nel secondo, invece, di un reddito pecuniario che si trae da rapporti giuridici concernenti il bene. Sono considerati frutti naturali quelli che provengono dalla cosa direttamente, con o senza l’intervento dell’uomo (quelli, insomma, che la cosa produce in senso naturalistico) (art. 8201). Nell’idea di fruttificazione si tende a ritenere insita la conservazione della cosa madre nella sua sostanza e nella sua idoneità alla produzione normale e ricorrente (reditus) di cose economicamente apprezzabili. Peraltro, la disposizione ricordata, ponendo accanto ad esempi come “i prodotti agricoli, la legna, i parti degli animali” quello dei “prodotti delle miniere, cave e torbiere”, ha sicuramente allargato la nozione di frutto rispetto ad una simile idea, non trattandosi, in tale ultimo caso, di produzione, ma di sfruttamento che, progressivamente (anche se in tempi indubbiamente lunghi), impoverisce la stessa cosa madre. I frutti naturali seguono la sorte della cosa fruttifera fino alla separazione (art. 8202), ne fanno, cioè, parte fino a tale momento, che segna il momento dell’acquisto (come bene autonomo) da parte dell’avente diritto. È possibile, tuttavia, disporre di essi prima della separazione come cose mobili future (art. 8202), con applicazione, per la relativa vendita, dell’art. 1472, relativo, appunto, alla vendita di cose future. La separazione – il distacco dalla cosa madre, sia esso naturale ovvero opera dell’uomo – vale a determinare una autonoma identità giuridica dei frutti, facendo sorgere un diritto di proprietà su di 37 Circa la discussa configurabilità di un possesso dell’azienda nella sua unitarietà (con conseguente ammissibilità della relativa tutela possessoria con l’azione di manutenzione), Cass., sez. un., 5-3-2014, n. 5087, una volta reputata decisiva “l’oggettività dell’azienda, considerata unitariamente come oggetto di diritti”, ha ritenuto, “ai fini della disciplina del possesso e dell’usucapione”, “l’azienda … bene distinto dai singoli componenti, suscettibile di essere unitariamente posseduto e … usucapito”. È da sottolineare come la peculiarità dell’azienda con riferimento al fenomeno successorio risulti, in considerazione della rilevanza della sua funzione economica, alla base del nuovo istituto del patto di famiglia (XII, 3.7). 38 Considerandosi frutto tutto ciò che una cosa rende o di per sé o attraverso rapporti giuridici che ad essa si riferiscono, si valorizza, quale tratto comune, l’idea di proventi normali economicamente apprezzabili della cosa stessa (che troverebbe anche una testuale conferma nell’art. 1499, in cui si parla, a proposito degli interessi compensativi, di “cosa che produca frutti o altri proventi”).

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essi. Tale proprietà spetta al proprietario della cosa fruttifera (art. 8211), salvo che spetti ad altri soggetti quale effetto di un diritto di godimento vantato relativamente alla cosa madre (o in virtù della vendita che dei frutti sia stata fatta come cosa futura, ai sensi dell’art. 14721). Vale il principio per cui chi fa propri i frutti deve, entro il limite del relativo valore, comunque rimborsare colui che abbia fatto spese per la produzione ed il raccolto (artt. 8212 e 1149; per l’usufrutto, nei rapporti tra usufruttuario e proprietario in caso di successione nel godimento della cosa fruttifera nel corso del periodo produttivo, vale la regola specifica dell’art. 984). È da tenere presente come la disciplina relativa ai frutti, nel caso in cui il possessore debba restituire la cosa, abbia riguardo alla sua buona o mala fede (art. 1148) 39. Per frutti civili (categoria reputata già di per se stessa disomogenea) si intendono quelli che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che ne sia attribuito ad altri (quindi indirettamente, come effetto, cioè, di un rapporto giuridico di cui la cosa sia oggetto, diventando, così, fonte di reddito). L’art. 8203 elenca – non tassativamente, trattandosi di una elencazione di carattere solo esemplificativo – gli interessi dei capitali, i canoni enfiteutici, le rendite vitalizie e ogni altra rendita, nonché il corrispettivo delle locazioni 40. Anche i frutti civili, come quelli naturali, spettano al proprietario della cosa fruttifera, ovvero a chi abbia un diritto di godimento sulla cosa medesima. Il loro acquisto avviene a seguito della relativa maturazione (essi, infatti, si acquistano “giorno per giorno, in ragione della durata del diritto” a percepirli: art. 8213) 41.

9. Patrimonio. – Il patrimonio viene correntemente inteso come l’insieme delle situazioni giuridiche di rilevanza economica, di cui il soggetto è titolare. Ne restano, quindi, esclusi i diritti di natura non patrimoniale. Esso, finché la persona è vivente, non viene considerato dall’ordinamento quale unitario possibile oggetto di vicende giuridiche. Specifico apprezzamento unitario (quale universitas iuris), secondo quanto si è visto (II, 2.6), è riservato a seguito della morte, invece, al patrimonio ereditario. Una considerazione in prospettiva di unitarietà dell’insieme delle situazioni giuridiche di cui il soggetto risulti titolare indubbiamente si ricollega, comunque, alla previsione del principio per cui ciascuno risponde dell’adempimento delle proprie obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri (art. 27401, intitolato alla responsabilità patrimoniale) 42. Una rilevanza del patrimonio del soggetto nel suo complesso sembra, del resto, anche emergere, in particolare, dalla disciplina dell’azione revocatoria (art. 2901). È da tenere presente come, nel suo significato economico (a diffe39

Si è posto in evidenza come, in realtà, proprio alla luce dell’art. 1148, per cui chi possiede in buona fede la cosa madre fa suoi i frutti naturali separati ed i frutti civili maturati fino al momento della domanda giudiziale, sul titolare del diritto di godimento prevalga, appunto, il possessore di buona fede. 40 È controverso se possano essere considerati frutti civili anche i dividendi delle azioni. 41 Per cui, come evidenzia la giurisprudenza (già, ad es., Cass. 27-1-1964, n. 191), ai fini del calcolo dell’ammontare dei frutti civili (e, in particolare, degli interessi), si procede dividendo l’importo complessivo annuale per il numero dei giorni che compongono l’anno (365) e moltiplicando, poi, il quoziente per il numero di giorni di durata del diritto alla percezione dei frutti stessi. 42 Come si è accennato (II, 2.1), a seconda che le cose siano o meno nel patrimonio di qualcuno (solo quelle mobili, data la regola dell’art. 827 per gli immobili), si distinguono in cose in o fuori patrimonio.

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renza, quindi, che in quello giuridico dianzi accennato), il patrimonio tenda ad essere considerato al netto, dedotte, cioè, le passività. Ogni soggetto ha un solo patrimonio nel senso indicato, ma l’ordinamento riserva, talvolta, una considerazione peculiare a talune situazioni giuridiche facenti capo al soggetto, tenendole distinte dalle altre di cui egli sia titolare: ciò essenzialmente ai fini dell’atteggiarsi della sua responsabilità patrimoniale. In vista della rilevanza di specifiche esigenze, il legislatore consente, insomma, che a taluni rapporti giuridici del soggetto venga impressa una peculiare destinazione (si parla, infatti, al riguardo, di patrimoni di destinazione), dandosi vita, così, in particolare, a quelli che vengono definiti patrimoni separati 43. Ne risulta conseguentemente alterata l’operatività dell’accennato principio della responsabilità patrimoniale (di cui all’art. 27401), dato il diverso trattamento riservato ai creditori, a seconda della inerenza o meno delle obbligazioni del soggetto nei loro confronti al perseguimento delle esigenze avute di mira. Si deve, allora, ritenere che – nonostante un consistente indirizzo esegetico tendente a valorizzare, al riguardo, l’autonomia degli interessati – spetti esclusivamente al legislatore la previsione delle ipotesi in cui ciò possa avvenire, sulla base di una valutazione e di un bilanciamento degli interessi in gioco (come sembra confermato, del resto, dall’art. 27402, secondo cui “le limitazioni della responsabilità non sono ammesse se non nei casi stabiliti dalla legge”). Esempi significativi del fenomeno in questione sono offerti: dalla destinazione di beni che avviene con la costituzione del fondo patrimoniale (artt. 167 ss.: V, 2.13), con conseguente trattamento differenziato dei creditori (a seconda dell’essere stati essi a conoscenza o meno dell’inerenza del debito contratto al soddisfacimento di bisogni della famiglia: art. 170); dai fondi speciali per la previdenza e l’assistenza (art. 2117); dalla possibile costituzione, da parte di una società per azioni (e ora anche da parte degli “enti del Terzo settore dotati di personalità giuridica ed iscritti nel registro delle imprese”: art. 10 D.Lgs. 3.7.2017, n. 117), di patrimoni destinati ad uno specifico affare (artt. 2447 bis ss.). La crescente propensione del legislatore per il ricorso alla tecnica della separazione patrimoniale risulta indubbiamente attestata dalla – discussa sotto molteplici profili – inserzione nel codice dell’art. 2645 ter (con la L. 23.2.2006, n. 51, di conv. del D.L. 30.12.2005, n. 273), con cui sono stati regolati – ammettendo la possibilità della relativa trascrizione onde rendere opponibile ai terzi il vincolo che ne deriva (XIV, 2.11) – gli effetti degli atti di destinazione di beni immobili (o mobili registrati), finalizzati alla “realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche, ai sensi dell’articolo 1322, secondo comma” 44. 43

Di patrimonio autonomo, poi, si parla tradizionalmente con riferimento alla considerazione unitaria, da parte del legislatore, di un complesso di rapporti non collegati ad un soggetto cui sia riconosciuta una distinta capacità giuridica (in particolare, nel caso che essi facciano capo ad una pluralità di soggetti, non elevata dall’ordinamento, appunto, al rango di soggetto in senso giuridico). A tale categoria si tendeva a ricondurre il fondo comune delle associazioni non riconosciute, in una prospettiva, peraltro, ormai superata (IV, 3.1 e 3.9). Al concetto di patrimonio autonomo viene riferita da taluni anche l’eredità accettata col beneficio d’inventario (artt. 484 ss.), da altri, invece, considerata – a testimonianza dell’incertezza esistente nella delimitazione delle categorie in questione – esempio di patrimonio separato. 44 Alla figura dell’art. 2645 ter, accomunandola ad altre figure (come trust e “fondi speciali, composti di beni sottoposti a vincolo di destinazione e disciplinati con contratto di affidamento fiduciario”), allude la L. 22.6.2016, n. 112, finalizzata all’“assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare” (c.d. “dopo di noi”). Sulla figura del trust nel nostro ordinamento, VIII, 3.17.

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10. Beni pubblici. – Nell’intento di offrire un quadro tendenzialmente completo dei rapporti economico-sociali, il codice civile non ha mancato di delineare anche la particolare condizione giuridica dei beni appartenenti allo Stato ed agli enti pubblici. Al riguardo, peraltro, il codice si limita a prospettare alcuni principi di fondo, rinviando per la disciplina specifica – necessariamente articolata e complessa, oltre che prevedibilmente in continua evoluzione, in uno Stato che andava progressivamente accrescendo il proprio ruolo nell’economia – alla legislazione settoriale dettata in materia 45. Dai principi enunciati dal codice (che qui pare il caso semplicemente di accennare, costituendo la materia oggetto di approfondimento da parte delle discipline pubblicistiche e, in particolare, del diritto amministrativo), si può, in linea di massima, ricavare come, fermo restando che non tutti i beni sono suscettibili di essere indifferentemente pubblici o privati, ad assumere rilievo, più che la possibilità di appartenenza dei beni, sia la peculiarità delle regole disciplinanti il relativo regime in caso di appartenenza a soggetti diversi dai privati 46. In proposito, pare anche opportuno rilevare come, nel risultare decisive per determinare il carattere di bene pubblico, ad un tempo, l’appartenenza allo Stato o ad un ente pubblico e l’attitudine del bene all’immediato soddisfacimento di un interesse pubblico, non sempre interessi di carattere generale siano soddisfatti da beni pubblici. Interessi di tal genere possono essere soddisfatti, infatti, attraverso una peculiare regolamentazione del loro godimento e della loro circolazione, pure da beni di proprietà privata, appunto per questo identificati come beni di interesse pubblico 47. Proprio l’attenzione alla natura degli interessi che gravitano intorno al bene, considerando, in particolare, la relativa funzionalità allo sviluppo della persona (anche nella prospettiva delle esigenze delle generazioni future), non manca, poi, di indurre a delineare, con peculiari caratteristiche tipologiche, la categoria dei beni comuni 48. 45

Nell’originaria sistematica del codice civile, alla luce dell’ideologia politico-economica del regime fascista del tempo, assumeva un peso rilevate, nel contesto della disciplina complessiva dei beni, l’art. 811, relativo ai beni interessanti l’ordine corporativo: beni sottoposti, appunto, alla peculiare disciplina dell’ordinamento corporativo, “in relazione alla loro funzione economica e alle esigenze della produzione nazionale” (II, 2.2). In sostanza, si veniva, così, a delineare, come si legge nella Relaz. cod. civ., n. 386, una contrapposizione fondata non sull’appartenenza (anche, quindi, eventualmente privata) dei beni, ma sull’interessare essi “la produzione nazionale” o servire “all’uso o al godimento individuale”. La norma fu abrogata dal D.Lgs.Lgt. 14.9.1944, n. 287. Alla definizione generale del regime di appartenenza dei beni provvede, ora, l’art. 421 Cost. (per talune particolari categorie dei quali dispongono gli articoli successivi), sancendo il principio secondo cui “la proprietà è pubblica o privata” e “i beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati”, con ciò intendendo evidentemente evitare, come scelta di fondo in materia economica, preclusioni di principio in ordine all’appartenenza dei beni a seconda della loro funzione economico-produttiva (e facendosi salva, ovviamente, l’articolazione della relativa disciplina) (VI, 1.1). 46 La Relaz. cod. civ., n. 392, dopo avere delineato la disciplina (dianzi esaminata) dei beni in generale, sottolinea, appunto, che “l’appartenenza di beni allo Stato, ad altri enti pubblici e agli enti ecclesiastici determina per taluni di questi beni un regime particolare”. 47 Un esempio significativo è offerto dall’art. 839 per i b e n i d ’ i n t e r e s s e s t o r i c o e a r t i s t i c o , che rinvia alle leggi speciali in materia la specificazione delle regole finalizzate a consentire, nel caso di “cose di proprietà privata, immobili o mobili, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnografico”, il contemperamento delle ragioni del proprietario col rispetto delle esigenze della collettività legate alla conservazione, fruizione e valorizzazione di simili beni (la cui disciplina è ora contenuta nel D.Lgs. 22.1.2004, n. 42, codice dei beni culturali e del paesaggio: II, 2.1). 48 Facendo leva sugli artt. 2, 9 e 42 Cost., con la conseguente “esigenza interpretativa di ‘guardare’ al tema dei beni pubblici oltre una visione prettamente patrimoniale-proprietaria per approdare ad una prospettiva

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Taluni beni fanno parte del demanio pubblico (beni demaniali) per necessità, in quanto non ne è ammessa l’appartenenza a privati (c.d. demanio naturale o necessario): lido del mare, spiagge, rade e porti, fiumi, torrenti, laghi e altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia, opere destinate alla difesa nazionale (art. 8221). Fanno parte del demanio pubblico, solo se appartenenti allo Stato (o ad altri enti pubblici territoriali: art. 824) (c.d. demanio artificiale o accidentale) i numerosi altri beni elencati nell’art. 8222 (tra cui: strade, strade ferrate, aerodromi, immobili di interesse storico, archeologico e artistico, raccolte dei musei), che si riferisce, in genere, anche agli “altri beni che sono dalla legge assoggettati al regime proprio del demanio pubblico”. I beni demaniali sono inalienabili e possono formare oggetto di diritti di terzi solo nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano (art. 8231) (si pensi alle concessioni a privati del lido del mare per la realizzazione di stabilimenti balneari, ovvero di superfici marine o lacustri per impianti di acquicoltura) 49. L’autorità amministrativa, cui compete la tutela di tali beni, può provvedere a tale tutela o in via amministrativa (con gli strumenti pubblicistici, cioè, appositamente previsti), ovvero avvalendosi dei mezzi in via generale previsti a difesa della proprietà e del possesso (art. 8232). Risulta ammessa la c.d. sdemanializzazione – il passaggio dei beni dal demanio pubblico al patrimonio dello Stato o dell’ente pubblico territoriale cui appartengono – da parte dell’autorità amministrativa attraverso particolari procedure (art. 829) 50. personale-collettivistica”, Cass., sez. un., 14-2-2011, n. 3665, ha concluso che “là dove un bene immobile, indipendentemente dalla titolarità, risulti per le sue intrinseche connotazioni, in particolar modo quelle di tipo ambientale e paesaggistico, destinato alla realizzazione dello Stato sociale, detto bene è da ritenersi ‘comune’, vale a dire, prescindendo dal titolo di proprietà, strumentalmente collegato alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini”. Evidente sembra il riferimento al dibattito concernente il tema dei c.d. b e n i c o m u n i , la cui essenzialità per la collettività – in vista della quale “l’aspetto dominicale della tipologia del bene … cede il passo alla realizzazione di interessi fondamentali indispensabili per il compiuto svolgimento dell’umana personalità” – si ritiene reclamare garanzie giuridiche idonee a renderne compatibile una generalizzata accessibilità con la salvaguardia per le generazioni future. Alla elaborazione di una nuova categorizzazione dei beni – fondata su di una tripartizione (beni comuni, beni pubblici, beni privati) – sono stati, in effetti, finalizzati i lavori della Commissione Rodotà, istituita con D.M. 14.6.2007, le cui conclusioni, recepite nel D.D.L. n. 2031 (Senato, XVI legislatura) e, in larga misura nella P.D.L. n. 1744 (Camera, XVIII legislatura), sono risultate di recente oggetto di una proposta di legge di iniziativa popolare (n. 2237, presentata il 5.11.2019). Nel relativo testo, rivolto ad innovare anche il “regime della demanialità e della patrimonialità” dei beni pubblici, i “beni comuni” – oggetto di una peculiare disciplina di tutela e i cui “titolari … possono essere persone giuridiche pubbliche o soggetti privati” – sono individuati, appunto, come “cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona”, prevedendosi che “i beni comuni devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico anche a beneficio delle generazioni future”. Ad una categoria di beni, identificati come b e n i c o l l e t t i v i , ha riguardo la L. 20.11.2017, n. 168 (“Norme in materia di domini collettivi”, VI, 3.9). 49 Essi, in quanto beni fuori commercio, sono anche insuscettibili di usucapione, ai sensi dell’art. 11451, secondo cui è senza effetto il possesso delle cose di cui non si può acquistare la proprietà. Peraltro, una tutela possessoria riguardo ai beni demaniali è riconosciuta dall’art. 10452-3 nei “rapporti tra privati”. Gli atti tra privati concernenti beni demaniali sono, ovviamente, nulli. Si è anche precisato che “colui il quale occupa abusivamente il bene demaniale non vanta alcuna aspettativa giuridicamente rilevante o alcun titolo preferenziale al rilascio della concessione” (Cons. Stato, sez. VI, 31-1-2017, n. 394). 50 Si tende a ritenere, comunque, che il provvedimento (di declassificazione) dell’autorità amministrativa, quale previsto dall’art. 829, abbia “natura esclusivamente dichiarativa, cioè soltanto ricognitiva della perdita di destinazione ad uso pubblico del bene” (“il passaggio del bene pubblico al patrimonio disponibile dello Stato” consegue, insomma, “direttamente al realizzarsi del fatto della perdita della destinazione pubblica del bene, cosiddetta sdemanializzazione tacita” e, quindi, “prescinde dal provvedimento dell’autorità amministra-

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I beni appartenenti allo Stato e agli altri enti territoriali non compresi tra quelli considerati demaniali fanno parte del relativo patrimonio 51. Una distinzione è, al riguardo, da operare a seconda che essi facciano parte o meno del patrimonio indisponibile. Di quello dello Stato, fanno parte i beni indicati nell’art. 8262 (miniere, cave e torbiere, cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, i beni costituenti la dotazione della presidenza della Repubblica, le caserme, gli armamenti, gli aeromobili militari, le navi da guerra). Di quello dello Stato o dell’ente pubblico territoriale cui appartengono, fanno parte gli edifici destinati a sede di uffici pubblici con i relativi arredi e gli altri beni destinati a un pubblico servizio (art. 8263) 52. I beni che fanno parte del patrimonio indisponibile – il regime dei quali è sostanzialmente corrispondente a quello dei beni demaniali 53 – sono comunque vincolati alla loro destinazione e non possono essere ad essa sottratti se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano (art. 8282). Per i beni dello Stato e degli enti pubblici territoriali che non fanno parte del patrimonio indisponibile (beni patrimoniali disponibili) opera, invece, la disciplina dettata in generale dal codice civile per i diversi tipi di beni, almeno ove non siano previste regole particolari da leggi speciali (come in relazione alle procedure contrattuali che li concernono ed alle relative formalità) (art. 8281). Ciò vale anche per i beni appartenenti agli enti pubblici non territoriali (art. 8301), salvo che si tratti di beni destinati ad un pubblico servizio, applicandosi, in tal caso, la regola per cui essi non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalla legge (art. 8302) 54.

tiva, diversamente da quanto invece previsto dall’art. 35 c. nav. per il demanio marittimo e dall’art. 947, comma 3, c.c. per il demanio idrico”: Cass., sez. un., 7-4-2020, n. 7739). 51 Si ricordi come al patrimonio dello Stato spettino anche i beni immobili “che non sono in proprietà di alcuno” (art. 827). I beni immobili, dunque, non potranno mai essere cose di nessuno (res nullius). 52 È considerata costituire patrimonio indisponibile dello Stato, per esigenze di tutela ambientale, anche la fauna selvatica, ai sensi dell’art. 1 L. 11.2.1992, n. 157. 53 Anche in relazione ai beni patrimoniali indisponibili, come per quelli demaniali, la Cassazione (22-11-1993, n. 11491) ritiene, “attesa la comune destinazione alla soddisfazione di interessi pubblici”, che il relativo godimento possa essere attribuito a privati soltanto nella forma della concessione amministrativa. A definire il futuro assetto dei rapporti tra lo Stato e gli altri enti pubblici territoriali, con riguardo alla titolarità e valorizzazione dei beni pubblici, risulta finalizzato il D.Lgs. 28.5.2010, n. 85, attraverso, appunto, l’attribuzione a tali enti di “beni statali … a titolo non oneroso” (art. 21,5), pure in vista di una loro eventuale alienazione (previa relativa “valorizzazione”), avvenendo il trasferimento – con talune eccezioni (come, in particolare, con riguardo al “demanio marittimo, idrico e aeroportuale”) – al “patrimonio disponibile” degli enti beneficiari (art. 4). 54 Una considerazione particolare meritano i beni degli enti ecclesiastici. Per essi l’art. 8311 prevede l’assoggettamento alla disciplina generale dei beni, salvo quanto specificamente disposto dalle leggi speciali che li riguardano. Circa i beni appartenenti ad enti cattolici, una specifica regolamentazione risulta attualmente dettata dalla L. 20.5.1985, n. 222. In particolare, gli edifici destinati al pubblico culto cattolico, anche ove appartengano a privati, non possono essere sottratti alla loro destinazione, almeno finché questa non venga a cessare in conformità alle norme che li riguardano (art. 8312). Essi sono, quindi, alienabili, restando comunque assoggettati alla loro specifica destinazione al culto.

CAPITOLO 3

RAPPORTO GIURIDICO E SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE Sommario: 1. Interessi, rapporto giuridico e situazioni giuridiche soggettive. – 2. Diritto soggettivo (nozione). – 3. Diritto soggettivo (contenuto e limiti). – 4. Abuso del diritto. – 5. Tipologia dei diritti soggettivi (e corrispondenti situazioni giuridiche soggettive passive: dovere e obbligo). – 6. Diritto potestativo. – 7. Potestà. – 8. Aspettativa. – 9. Interesse legittimo. – 10. Interessi collettivi e diffusi. – 11. Onere.

1. Interessi, rapporto giuridico e situazioni giuridiche soggettive. – La funzione della regola giuridica (norma), come accennato, va ricercata nell’esigenza di ordinare le relazioni umane: ciò avviene, in particolare, per quanto riguarda la sfera delle relazioni cui ha riguardo il diritto privato, risolvendo i conflitti di interessi che, di volta in volta, si vengano eventualmente a determinare tra i diversi soggetti con riferimento ad un bene (II, 2.1). Se l’interesse può essere visto proprio come una sorta di tensione tra soggetto e bene, ne consegue la possibile (anzi inevitabile) insorgenza di conflitti, ove una pluralità di soggetti si presentino interessati allo stesso bene. L’ordinamento giuridico, allora, interviene con le sue regole per organizzare gli interessi in gioco, almeno quando si tratti di interessi meritevoli di essere presi in considerazione, in quanto coinvolti in relazioni che l’ordinamento stesso ritiene opportuno disciplinare (estranee alla disciplina giuridica e materia di ordini differenti di regole restando, così, le relazioni che si esauriscono sul piano della morale, della religione o della cortesia). Con il concetto di rapporto giuridico ci si intende riferire, dunque, alla relazione intersoggettiva che l’ordinamento disciplina, determinando quale tra gli interessi coinvolti sia da considerare meritevole di tutela ed assicurandone, di conseguenza, la realizzazione. A tal fine, l’ordinamento riconosce ai soggetti portatori degli interessi coinvolti nella relazione la titolarità di una situazione giuridica soggettiva, la quale, in sostanza, costituisce il riflesso, sul piano soggettivo, della regola giuridica (del diritto, cioè, inteso in senso oggettivo). La situazione giuridica soggettiva di cui risulta investito il soggetto a seguito dell’intervento regolatore dell’ordinamento è per lui di carattere favorevole, ove sia il suo interesse a venire considerato maggiormente meritevole di tutela e realizzazione, ovvero sfavorevole, ove sia il suo interesse a risultare subordinato a quello altrui. Si definisce attiva la situazione giuridica soggettiva di vantaggio, attribuita al soggetto del rapporto (definito, appunto, soggetto attivo del rapporto) per assicurargli la realizzazione del suo interesse; passiva la situazione soggettiva di svantaggio, attribuita

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PARTE II – CATEGORIE GENERALI

al soggetto del rapporto (soggetto passivo) tenuto a rendere possibile col suo comportamento la realizzazione dell’interesse altrui contrapposto al suo nella relazione regolata dal diritto. Anche se il rapporto giuridico si può atteggiare, a seconda dei casi, in modo assai diverso, esso rappresenta la struttura di base del diritto privato, rispecchiandone l’essenziale funzione di composizione dei conflitti intersoggettivi di interessi 1. Le situazioni soggettive attive e passive, pur nella loro conseguente diversità, acquistano senso proprio in quanto correlate tra loro nel rapporto giuridico. Ciò può risultare talvolta di più immediata percepibilità, come nel caso in cui il soggetto passivo sia tenuto ad uno specifico comportamento, strumentalmente finalizzato proprio alla realizzazione dell’interesse del soggetto attivo (situazione tipicamente ricorrente, come si vedrà, nel campo dei diritti di credito). Ma la configurabilità di un rapporto giuridico non pare venire meno neppure quando il comportamento cui è tenuto il soggetto passivo consista nel generico dovere di rispettare la posizione di vantaggio assicurata dall’ordinamento al soggetto attivo (come tipicamente si verifica nel campo dei diritti reali). In ambedue i casi, in effetti, ad una situazione di vantaggio di un soggetto corrisponde una situazione di indiscutibile svantaggio altrui rispetto allo stesso bene 2. Lo studio delle situazioni giuridiche soggettive deve, allora, procedere tenendo presente una simile correlatività, nel rapporto giuridico, di situazioni attive e passive. Di tali situazioni sono titolari i soggetti giuridici, destinatari delle regole giuridiche, i quali sono presi in considerazione, appunto, dall’ordinamento come (e correntemente definiti) centri di imputazione di situazioni giuridiche soggettive (II, 1.1).

2. Diritto soggettivo (nozione). – Nel codice civile – e, più in generale, nel linguaggio legislativo – la situazione giuridica soggettiva favorevole (attiva) riconosciuta ad un soggetto in relazione ad un bene è correntemente identificata con il termine di diritto (diritto al nome, diritto di proprietà, diritto di superficie, diritto di credito, diritto al risarcimento del danno, ecc.) 3. Si parla di diritto (inteso, quindi, in senso soggettivo) ogniqualvolta ad un soggetto viene garantita dall’ordinamento la realizzazione del suo interesse, riconoscendogli il potere di pretendere da colui (o da coloro) i cui interessi sono stati subordinati al suo il comportamento (attivo o di mera astensione) che tale realizzazione renda possibile, a questo fine anche azionando gli strumenti attuativi che l’ordinamento stesso gli mette a disposizione. La categoria del diritto soggettivo è stata elaborata nel secolo XIX proprio nello sfor1 Non si è mancato, invero, di considerare in termini di rapporto giuridico non solo la relazione giuridicamente rilevante tra persone, ma anche la relazione tra persone e beni. In realtà, se il diritto ha la funzione accennata nel testo (“ius est … hominis ad hominem proportio”, secondo la proverbiale definizione di Dante), riesce difficile configurare un rapporto giuridico tra persone e beni, questi ultimi rappresentandone, piuttosto, il profilo oggettivo, quale punto di riferimento degli interessi regolati, sempre facenti capo a soggetti. Di qui la prevalente prospettiva per cui il rapporto giuridico non possa necessariamente presentarsi che quale sintesi di situazioni giuridiche soggettive tra loro correlate. 2 Per identificare la posizione di subordinazione del soggetto passivo si parla, utilizzando il termine in un’accezione generale, di obbligo o, ancora più genericamente, da parte di altri, di dovere. 3 Ai diritti, del resto, alludono, da una parte, già l’art. 12 c.c. (a proposito della capacità giuridica e dei “diritti che la legge riconosce a favore del concepito”: IV, 1.2), dall’altra, l’art. 241 Cost. (per il quale “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”).

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zo di unificare nella relativa definizione tutte le possibili ipotesi in cui una simile situazione di favore ricorra. Il momento di unificazione fu inizialmente ricondotto, nel quadro della preminenza accordata nella dinamica del diritto alla volontà del soggetto, al potere di agire attribuito, appunto, alla volontà del soggetto. Successivamente, l’accento è stato posto, piuttosto, sul profilo funzionale dell’interesse giuridicamente tutelato. La difficoltà, comunque, è sempre stata quella di abbracciare in un concetto unitario, contestualmente, il campo dei diritti assoluti (in particolare dei diritti reali) e quello dei diritti relativi (in particolare dei diritti di credito), i due modelli fondamentali, cioè, di diritti riconosciuti dall’ordinamento: solo nei secondi, infatti, si presenta in primo piano e di maggiore evidenza la pretesa, cioè il potere di esigere, da parte del titolare del diritto (il creditore), uno specifico comportamento cui risulta tenuto un altro determinato soggetto (il debitore) 4. Ad aggravare quella che viene spesso definita la “crisi” del concetto di diritto soggettivo, trattandosi di figura inizialmente concepita in considerazione (e in vista della tutela) di interessi di natura patrimoniale, è stata, poi, la crescente attenzione dell’ordinamento agli interessi di natura eminentemente personale (come quelli legati all’integrità fisica e morale della persona e, in genere, all’esplicazione della personalità). Pure in relazione alle esigenze di tutela di simili interessi, di indubbia utilità si è presentato, peraltro, il riferimento allo schema del diritto soggettivo: solo un simile riferimento, in effetti, ne ha assicurato, in caso di lesione, la piena e diretta tutela, in particolare con quello strumento del risarcimento del danno, che del diritto soggettivo rappresenta, per così dire, la tradizionale rete di sicurezza 5. Di qui la prevalente ricostruzione (da parte della stessa giurisprudenza) in termini di diritto soggettivo anche delle situazioni giuridiche soggettive riconosciute al soggetto in vista della protezione degli emergenti interessi di natura personale. Piuttosto, pare da sottolineare come l’esigenza di assicurare la concreta realizzazione degli interessi legati alla salvaguardia della persona e del suo sviluppo abbia spinto l’ordinamento ad arricchire il tradizionale strumentario di garanzia degli interessi ritenuti meritevoli di tutela, fondato, appunto, essenzialmente sul risarcimento del danno (IV, 2.3). La categoria del diritto soggettivo, insomma, se ha visto decisamente ampliare la propria area di utilizzazione, al contempo, ha finito col perdere, almeno in parte, la sua utilità di formula riassuntiva (ed evocativa) di uno schema unitario di tutela, essendosi dovuto riconoscere come la diversità della natura degli interessi considerati meritevoli di protezione imponga, a seconda della relativa tipologia, strumenti e modelli di tutela diffe4

Nei diritti reali, il cui modello è rappresentato dalla proprietà, la pretesa all’altrui comportamento si è diffusamente ritenuta restare solo sullo sfondo, data l’indeterminatezza dei relativi destinatari (soggetti passivi del rapporto), in primo piano presentandosi, piuttosto, la facoltà di agire del soggetto titolare del diritto (soggetto attivo) in ordine ad un bene della vita, per soddisfare (immediatamente) su di esso il proprio interesse. 5 È da tenere presente come l’impostazione tradizionale, tendente a saldare in un binomio indissolubile il riconoscimento di meritevolezza dell’interesse del soggetto (con la sua configurazione in termini di diritto soggettivo) ed il relativo strumento di tutela (il risarcimento del danno in caso di violazione), risulti in certa misura superata dalla giurisprudenza, la quale ha significativamente ammesso il risarcimento del danno (ai sensi dell’art. 2043) in ogni caso di “lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento”, indipendentemente, cioè, dalla “qualificazione formale della posizione vantata dal soggetto” quale diritto soggettivo (Cass., sez. un., 22-7-1999, n. 500).

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renziati. Anche se la sua rilevanza, quindi, pare da ricercare ormai essenzialmente sul piano descrittivo delle scelte dell’ordinamento in merito alla selezione degli interessi reputati meritevoli della forma più intensa di tutela, sembra comunque da condividere la – persistentemente prevalente – tendenza a continuare ad avvalersi di tale categoria per inquadrare tutti i casi in cui viene riconosciuta una situazione di piena e diretta tutela dell’interesse del soggetto, con l’attribuzione al soggetto stesso del potere, garantito dall’ordinamento, di soddisfarlo 6.

3. Diritto soggettivo (contenuto e limiti). – È da tenere presente come il codice utilizzi correntemente la terminologia di diritto e diritti per indicare non la situazione giuridica di diritto soggettivo nel suo insieme, ma il suo contenuto. Ciò risulta chiaro, ad es., nell’art. 832, relativo al diritto di proprietà: la rubrica allude al “contenuto del diritto”, mentre il testo enuncia che “il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose”. Nell’uso legislativo, quindi, il termine “diritto” risulta alquanto ambiguo, in quanto spesso riferito, contestualmente, al diritto soggettivo ed al suo contenuto. In proposito, esattamente si sottolinea, allora, come i comportamenti che la norma consente al titolare della situazione giuridica soggettiva – nell’esempio fatto, al proprietario quale titolare del diritto di proprietà – non siano, in realtà, pur se indicati in termini di diritti, situazioni giuridiche soggettive autonome, bensì le consentite manifestazioni (il contenuto) dell’unico diritto soggettivo attribuito al soggetto. Tali manifestazioni, che valgono a delineare la concreta posizione del titolare del diritto, sono spesso descritte come facoltà. Così, sempre con riguardo all’art. 832, si dovrebbe più propriamente parlare, quindi, di facoltà di godere e di facoltà di disporre delle cose, quali comportamenti espressamente consentiti al titolare del diritto per soddisfare il suo interesse (in quanto considerato meritevole di tutela). Peraltro, neppure una simile enunciazione del contenuto del diritto risulta conforme a quella che sembra la più corretta impostazione concettuale della materia. Con maggiore precisione, infatti, a proposito del contenuto del diritto soggettivo, si tende ad operare una distinzione tra facoltà e poteri, anche se, nel linguaggio legislativo, una simile distinzione non emerge, alludendosi genericamente, come si è visto, al diritto (del titolare) di fare qualcosa, ovvero senz’altro a ciò che il titolare può fare: il proprietario “può fare qualsiasi escavazione od opera che non rechi danno al vicino” (art. 8401), “può chiudere in qualunque tempo il fondo” (art. 841), “le luci possono essere aperte dal proprietario del muro contiguo al fondo altrui” (art. 9031), “il proprietario 6 A differenziare nettamente, rispetto a quella originaria (o comunque più risalente), la concezione attuale del diritto soggettivo, vale, inoltre, la chiara consapevolezza che il riconoscimento di una simile situazione di vantaggio non può esimere dal considerare come l’esigenza di protezione dell’interesse sovraordinato, in quanto reputato maggiormente meritevole di tutela, debba in ogni caso essere contemperata con quella di non sacrificare l’interesse altrui al di là di quanto sia da ritenere strettamente necessario per la sua realizzazione. Una simile prospettiva – tendente ad evidenziare i limiti del diritto soggettivo ed a valorizzare la complessità della relativa situazione, in dipendenza della contestuale previsione di doveri a carico del suo titolare – affiora, come si avrà modo di vedere nel paragrafo che segue e nella successiva specifica trattazione, già nella delineazione dei diversi istituti nel codice civile e trionfa, poi, con l’impostazione solidaristica della Costituzione, attraverso il fondamentale ed energico richiamo (di cui all’art. 2 e sviluppato nell’intero testo costituzionale) dei consociati all’“adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà, politica, economica e sociale”.

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di un fondo contiguo al muro altrui può chiederne la comunione” (art. 874), “il proprietario che vuole atterrare un edificio sostenuto da un muro comune può rinunziare alla comunione di questo” (art. 883). È da osservare, in proposito, che mentre nei primi tre casi si tratta di attività consentite (lecite) al titolare rispetto al bene oggetto del suo diritto, nei rimanenti due si tratta di condotte del titolare cui l’ordinamento ricollega la produzione di specifiche conseguenze giuridiche (effetti giuridici): i due ordini di situazioni sono rispettivamente da qualificare, appunto, come facoltà e poteri. In relazione a quelli che l’art. 832 definisce – al fine di delineare il “contenuto del diritto” di proprietà – genericamente “diritti” del proprietario, allora, risulta più preciso parlare di facoltà di godimento e di potere di disposizione (tale intendendosi la possibilità riconosciuta al titolare di una situazione giuridica di porre in essere atti considerati dall’ordinamento idonei ad incidere su di essa, come, in particolare, estinguerla o trasferirla ad altri) 7. Il diritto soggettivo si presenta, dunque, quale situazione complessa, sintesi di facoltà e poteri. Proprio l’accrescersi di una simile complessità ha rappresentato il tratto forse più significativo dell’evoluzione recente della concezione della figura. Ciò soprattutto a seguito dell’abbandono di una visione tendente a guardare al diritto soggettivo nell’ottica di situazione di vantaggio attribuita incondizionatamente al soggetto ed esercitabile senza controlli, in quanto sfera di assoluta libertà riconosciuta alla volontà del soggetto stesso. Accanto alle facoltà ed ai poteri, ai fini della conformazione della posizione del titolare, così, si sono con sempre maggiore chiarezza evidenziati i relativi limiti, fino a giungere ad addossargli veri e propri obblighi, in vista della realizzazione di un socialmente opportuno contemperamento della situazione di vantaggio – che rappresenta per definizione il profilo qualificante del diritto soggettivo – con gli interessi degli altri soggetti che si trovano con lui in rapporto. Anche il medesimo diritto di proprietà, tradizionalmente espressione estrema del potere del titolare nei confronti degli altri consociati (e, in quanto tale, prototipo della figura del diritto soggettivo), già nel codice civile (art. 832), pur venendo configurato come situazione di massimo riconoscimento dell’interesse del soggetto rispetto ad un bene (“il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”), trova programmaticamente tutela solo “entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”. E basta scorrere la disciplina della proprietà – a partire dal divieto degli atti d’emulazione (art. 833) e dalla delimitazione verticale della situazione del titolare (art. 8402) – per accorgersi come la previsione di limiti alle prerogative del proprietario abbia assunto una curvatura spiccatamente attenta a quella esigenza di salvaguardia di interessi altrui, di carattere particolare o generale, che è alla base, poi, addirittura dell’imposizione a suo carico di obblighi della più diversa natura (VI, 1.1) 8. Né meraviglia, allora, che pure – e forse a maggior ragione – con riguardo al diritto di credi7 Così, per fare un altro esempio, “l’usufruttuario può cedere il proprio diritto” (art. 9801) e “ha diritto di godere della cosa” (sia pure non illimitatamente: art. 9811): nel primo caso si dovrebbe parlare di potere (di produrre l’effetto giuridico di trasferire ad altri il diritto), mentre nel secondo di facoltà (di svolgere lecitamente un’attività di godimento del bene oggetto del diritto). 8 La Relaz. cod. civ., n. 386, evidenzia come “quell’aspetto di diritto-dovere, pur dichiarato nella definizione stessa (art. 832)” della proprietà, sia destinato, poi, ad emergere diversamente, a seconda del tipo di beni che ne costituisce oggetto, in vista della loro “differente funzione economico-sociale”.

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to, il creditore, titolare del diritto, sia assoggettato ad obblighi significativi, in vista della necessaria considerazione da prestare all’interesse del debitore (esemplare quello di correttezza: art. 1175) 9. L’evoluzione della concezione del diritto soggettivo, nel senso di una sempre maggiore attenzione per le esigenze di contemperamento degli interessi in conflitto, indubbiamente già palese negli orientamenti del codice civile, ha ricevuto un decisivo impulso – in una nuova prospettiva solidaristica – con l’avvento del sistema costituzionale, ispirato al principio della promozione di quella uguaglianza sostanziale tra i consociati (art. 32), irrealizzabile al di fuori dell’“adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2). Esplicita è l’allusione al perseguimento della funzione sociale, quale obiettivo della disciplina della proprietà (art. 422), così come la previsione di limiti, indirizzi e controlli all’iniziativa economica privata, in vista della salvaguardia della utilità sociale e della integrità della salute, dell’ambiente, della libertà e della dignità umana, nonché del relativo coordinamento a fini sociali e ambientali (art. 412-3, quale ora integrato ai sensi della L. cost. 11.2.2022, n. 1). Simili scelte dell’ordinamento costituiscono, in effetti, in una con il rispetto degli accennati valori fondamentali di solidarietà, lo sfondo di un’attività del legislatore e dell’interprete (in primo luogo, quindi, della giurisprudenza) indirizzata a definire il contenuto dei diritti di volta in volta riconosciuti al soggetto alla luce di una valutazione della meritevolezza degli interessi da tutelare, tale da evitare ogni ingiustificato – sul piano economico e sociale – sacrificio di interessi altrui.

4. Abuso del diritto. – Si è avuto modo di vedere come, nella prospettiva fatta propria dagli ordinamenti moderni, alla conformazione del contenuto del diritto soggettivo concorrano, accanto a facoltà e poteri, anche limiti e, addirittura, obblighi. È tramontata, insomma, l’idea che alla volontà del soggetto, in vista della tutela del suo interesse, debba essere assicurata una sfera di assoluta libertà e che a ciò risulti finalizzato, appunto, il riconoscimento di un corrispondente diritto soggettivo. Si è affermata, cioè, l’esigenza di tenere sempre presente la necessità di evitare il sacrificio degli interessi altrui al di là di quanto sia strettamente necessario alla soddisfazione dell’interesse proprio ritenuto meritevole di tutela. Questo ha posto in primo piano il problema dell’opportunità o meno della previsione di un espresso divieto dell’abuso del diritto, quale limite generale all’esercizio del diritto soggettivo, ovvero, in mancanza di previsione espressa, della sua ricostruzione in via interpretativa, sulla base dei principi di fondo dettati dal legislatore in ordine alle varie figure di diritto soggettivo. Quello in questione si atteggia, appunto, come limite di carattere generale, consistente nel ritenere consentiti al titolare esclusivamente modi di esercizio del diritto conformi allo scopo, in vista del cui perseguimento l’interesse del soggetto sia stato valutato come meritevole di tutela. In una tale prospettiva, quindi, al di fuori di ciò che risulti concretamente funzionale alla realizzazione di un simile scopo, gli atti di esercizio del diritto – in quanto finalizzati, in realtà, alla realizzazione di uno scopo diver9 Proprio l’espressa previsione di limiti di portata così generale del diritto soggettivo e di obblighi di indubbia rilevanza a carico del titolare induce a riflettere circa la configurabilità, pure nel quadro del nostro ordinamento, della figura dell’abuso del diritto, esaminata nel paragrafo successivo.

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so da quello favorevolmente valutato dall’ordinamento 10 – restano non coperti dalla garanzia apprestata all’interesse del soggetto con il riconoscimento di un corrispondente diritto soggettivo 11. Il nostro legislatore, a differenza di altri 12, nel codice civile non ha previsto, in maniera esplicita e generale, un simile divieto: il timore che ne potesse venire troppo compromessa la certezza del diritto ha indotto a ritenere preferibile la formulazione del divieto stesso specificamente a proposito dei singoli istituti. L’esigenza che è alla sua base, così, ha trovato ampio riscontro nella disciplina generale delle figure fondamentali di diritti soggettivi, con norme di portata tale da consentire, in sostanza, il perseguimento degli obiettivi avuti di mira proprio con il richiamo alla figura dell’abuso del diritto. Il riferimento è, innanzitutto, all’art. 833 (che prevede, per il proprietario, il divieto degli atti emulativi: V, 1.3), ma, forse più 13, all’art. 1175, che impone anche al creditore (oltre che al debitore) di comportarsi secondo le regole della correttezza: prescrizione, quest’ultima, cui si ricollega il costante richiamo alla buona fede, quale fondamentale criterio di condotta delle parti nelle diverse fasi della vicenda contrattuale (artt. 1337, 1358, 1366, 1375) (II, 7.5) 14. Ed è significativo che, nell’ordinamento in cui il divieto dell’abuso del 10 Anche in giurisprudenza ci si riferisce espressamente alla ricostruzione dottrinale dell’abuso del diritto, ritenuto consistere, appunto, “nell’esercitare il diritto per realizzare interessi diversi da quelli per i quali esso è riconosciuto dall’ordinamento giuridico” (Cass. 18-10-2003, n. 15482). Al riguardo, Cass. 18-9-2009, n. 20106 (in un’ottica condivisa, ad es., da Cass. 30-9-2021, n. 26541; Cass. 29-5-2020, n. 10324; Cass. 7-5-2013, n. 10568), parla di “utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal legislatore” (con la conseguenza di “una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrificio cui è soggetta la controparte”). 11 Il carattere funzionale del riconoscimento di poteri al soggetto si pone in termini diversi nel caso di relativa attribuzione per la tutela di interessi altrui (come si vedrà a proposito delle potestà: II, 3.7). In tale ipotesi, infatti, maggiormente scontata si presenta l’esigenza che l’esercizio dei poteri stessi resti strettamente vincolato allo scopo in vista della cui realizzazione essi risultano riconosciuti, predisponendo l’ordinamento gli strumenti di controllo ritenuti opportuni ad evitare ogni abuso in tal senso. Un discorso particolare sembra meritare pure il problema del controllo dell’esercizio dei diritti potestativi, almeno quando essi siano espressione di una posizione complessiva di supremazia di una delle parti: in relazione ad essi, non a caso, da un lato, lo stesso legislatore impone spesso, quale limite alla relativa discrezionalità, il perseguimento di determinate (verificabili) finalità; dall’altro, la giurisprudenza utilizza le potenzialità offerte dal richiamo al principio della buona fede contrattuale (II, 3.6 e 3.9). 12 Il codice civile svizzero del 1907 prevede espressamente che “il manifesto abuso del proprio diritto non è protetto dalla legge” (art. 22). Una esplicita previsione al riguardo era contenuta nel progetto, elaborato tra le due guerre (1928), di un codice unico italo-francese delle obbligazioni. Il progetto ministeriale del codice civile, nella parte generale (art. 7), disponeva che “nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per cui il diritto medesimo gli è riconosciuto”. In una prospettiva peculiare, al “divieto dell’abuso del diritto” allude l’art. 54 Carta dir. fond. U.E. 13 Il tenore letterale dell’art. 833, indiscutibilmente restrittivo del divieto degli atti emulativi (con la preclusione al proprietario dei soli atti i quali abbiano esclusivamente lo scopo di nuocere o molestare altri), potrebbe, in effetti, prestarsi ad un giudizio di cautela – se non del tutto negativo – circa l’accoglimento, da parte del nostro ordinamento, dell’esigenza di un controllo dell’esercizio dei diritti soggettivi nella prospettiva dell’abuso del diritto. Si ricordi come il divieto in questione (Schikaneverbot) trovi, in Germania, col § 226 BGB, una collocazione nel quadro delle regole generali concernenti l’esercizio del diritto, traendosene argomento, di conseguenza, per una generale configurabilità del divieto dell’abuso del diritto. 14 La giurisprudenza non manca di ricordare che “specifica ipotesi di violazione dell’obbligo di buona fede nell’esecuzione del contratto viene considerata proprio l’abuso del diritto, individuato nel comportamento del contraente che esercita verso l’altro i diritti che gli derivano dalla legge o dal contratto per realizzare uno

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diritto ha trovato esplicito accoglimento (art. 22 cod. civ. svizzero), esso si presenti quasi corollario, appunto, del riferimento alla buona fede, quale criterio fondamentale cui deve essere sempre improntato l’esercizio dei propri diritti (oltre che l’adempimento dei propri obblighi) 15. È anche chiaro come la portata delle norme accennate 16 sia risultata decisamente esaltata dall’entrata in vigore della nostra Costituzione. Il relativo sistema si caratterizza, infatti, proprio per il ruolo riconosciuto alla solidarietà come regola basilare di comportamento per i consociati nei loro rapporti (art. 2 Cost.), anche in vista della realizzazione di un ordine sociale fondato su una effettiva uguaglianza (art. 3). Impostazione solidaristica, questa, la quale, già di per se stessa, è diffusamente ritenuta atta a influenzare la ricostruzione della posizione delle parti in ogni rapporto giuridico (II, 7.3). Essa, comunque, non può non costituire imprescindibile chiave di lettura delle disposizioni del codice civile e, ovviamente, soprattutto di quelle che già conferiscono, nell’esercizio dei diritti riconosciuti al soggetto, un peso decisivo alle esigenze di rispetto degli altrui interessi pure nel perseguimento dei propri 17. scopo diverso da quello cui questi diritti sono preordinati” (Cass. 15482/2003). Sottolinea Cass. 20106/2009 che, se “la buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell’equilibrio e della proporzione”, “criterio rivelatore della violazione dell’obbligo di buona fede oggettiva è quello dell’abuso del diritto”: “i due principi si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti … e prospettando l’abuso la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per il quale essi sono conferiti”. 15 Per l’art. 21, infatti, “ognuno è tenuto ad agire secondo la buona fede così nell’esercizio dei propri diritti come nell’adempimento dei propri obblighi”. 16 Alla luce delle quali, insomma, pare consentito solo un esercizio del diritto rispettoso della salvaguardia degli interessi altrui, pur nella legittima ricerca della realizzazione del proprio interesse entro i limiti in cui sia reputato meritevole di tutela da parte dell’ordinamento. Una simile prospettiva viene ritenuta operante anche in campo processuale, dato che il processo non potrebbe essere considerato “giusto” (ai sensi dell’art. 111 Cost.) “ove frutto di abuso, appunto, del processo, per esercizio dell’azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale, che segna il limite, oltreché la ragione dell’attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi” (Cass., sez. un., 15-11-2007, n. 23726, con riferimento al “frazionamento giudiziale di un credito unitario”). Al principio dell’abuso del diritto si è fatto ricorso, oltre che nella materia dei rapporti di lavoro (in particolare, in tema di condotta antisindacale del datore di lavoro, Cass. 8-9-1995, n. 9501; con riguardo ai comportamenti del lavoratore, Cass. 23-1-2016, n. 1248), anche in quella tributaria (in funzione antielusiva: Cass., sez. un., 23-10-2008, n. 30055; e v., in materia, l’art. 10 bis L. 27.7.2000, n. 212, concernente la “Disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale”: VIII, 3.9). 17 L’idea che il “dovere (inderogabile) di solidarietà, ormai costituzionalizzato (art. 2 Cost.)”, valga a dare un senso preciso alla “osservanza del dovere di correttezza (art. 1175 cod. civ.), che si porge nel sistema come limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva, attiva o passiva”, onde evitare che “l’ossequio alla legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale”, è energicamente affermata dalla giurisprudenza e applicata, in particolare, alla materia contrattuale, con il richiamo del “principio secondo cui ciascuno dei contraenti è tenuto a salvaguardare l’interesse dell’altro, se ciò non comporti un apprezzabile sacrificio dell’interesse proprio” (Cass. 20-4-1994, n. 3775). Ripetutamente è stata evidenziata la rilevanza da accordare, nei rapporti negoziali, ad “un concorrente dovere di solidarietà nei rapporti intersoggettivi (art. 2 Cost.)” (Cass. 24-9-1999, n. 10511), alla luce del quale la clausola generale della buona fede e correttezza si traduce nel “dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell’interesse della controparte” (Cass. 15-3-2004, n. 5240). La “regola di correttezza e buona fede” è senz’altro intesa, insomma, come “specificativa (nel contesto del rapporto obbligatorio) degli ‘inderogabili doveri di solidarietà’, il cui adempimento è richiesto dall’art. 2 Cost.” (Cass. 23726/2007), fino a ritenersi, portando alle estreme – non da tutti condivise – conseguenze una simile prospettiva, che “il precetto dell’art. 2 Cost.” entri “direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa, funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell’interesse del partner negoziale, nella misura in cui non collida con

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Alla luce della presenza e della centralità di simili principi nell’ordinamento, non si è mancato di concludere, da parte di taluni, come ormai addirittura superato si possa considerare il problema della autonoma rilevanza dell’abuso del diritto (in quanto il contenuto stesso del diritto soggettivo ne risulterebbe conseguentemente in ogni caso delimitato) 18. Certo è, comunque, come si presenti difficilmente contestabile che, ai fini del giudizio di legalità del comportamento del titolare del diritto, il sacrificio degli interessi altrui non si possa spingere al di là di quanto necessario alla realizzazione dello scopo, in vista del quale il diritto risulti attribuito, dato che solo in considerazione di un simile scopo l’ordinamento ha bilanciato gli interessi in conflitto 19. Ed è pure chiaro come la valutazione del comportamento stesso debba avvenire tenendo conto delle circostanze concrete in cui il soggetto si trovi ad operare, senza alcuna possibilità, per il soggetto medesimo, di approfittarne, invocando un formalistico ossequio delle prerogative presuntamente inerenti al suo diritto 20.

5. Tipologia dei diritti soggettivi (e corrispondenti situazioni giuridiche soggettive passive: dovere e obbligo). – La categoria del diritto soggettivo, si è visto, rappresenta il risultato dello sforzo tendente ad una ricostruzione in chiave unitaria delle situazioni in cui l’ordinamento garantisce al soggetto piena e diretta tutela del suo interesse relativamente a un bene. Situazioni la cui varietà dipende, ovviamente, dalla diversità degli interessi che l’ordinamento reputa meritevoli di tutela e dalla conseguente diversità delle modalità di realizzazione che li contraddistingue. In considerazione di una simile varietà, sulla base del peculiare atteggiarsi degli interessi e dei relativi modi di tutela, soprattutto con riferimento alle situazioni soggettive passive correlate nel rapporto, sono correntemente prospettate talune distinzioni di fondo e operate corrispondenti l’interesse proprio dell’obbligato” (Corte cost. ord. 2-4-2014, n. 77). Di recente, in una simile prospettiva, Cass. 14-6-2021, n. 16743 ha ritenuto “la Verwirkung” – intesa come “consumazione dell’azione processuale” – “nel senso appunto di abuso del diritto … istituto idoneo a venire in gioco anche nel nostro ordinamento” (con riferimento all’esercizio repentino del diritto – nella specie, richiesta dei canoni di locazione pregressi da parte del locatore – nonostante una “assoluta inerzia nell’escutere il conduttore”, caratterizzata da durata “assai considerevole … e suffragata da elementi circostanziali oggettivamente idonei a ingenerare nel conduttore una remissione del diritto di credito”). 18 In tale prospettiva, i comportamenti non rispettosi dell’esigenza solidaristica si collocherebbero, infatti, senz’altro al di fuori dall’area di quelli consentiti al titolare, in quanto appunto del tutto estranei al contenuto del diritto: il relativo compimento non costituirebbe, quindi, neppure esercizio del diritto, eventualmente da valutare in termini di abuso del diritto. Non si tratterebbe, insomma, di uno sviamento (abuso) del diritto, ma di un eccesso dal diritto. 19 Anche con riferimento alla proprietà, riguardo alla quale la norma dell’art. 833 sembrerebbe, come accennato, restringere le possibilità di controllo sull’esercizio del diritto, non è da dimenticare come il principio di solidarietà si rifletta nella previsione della relativa funzione sociale: questa, rappresentando l’obiettivo da perseguire costantemente nella sua disciplina (art. 422 Cost.), pare di conseguenza costituire anche imprescindibile criterio di valutazione dei comportamenti del titolare. 20 Si tenga presente come la circostanza rappresentata dalla situazione di inferiorità, sul mercato, di una delle parti del rapporto tenda ad essere assunta – nell’ottica della repressione di comportamenti abusivi – a fondamento di espressi interventi riequilibratori dell’ordinamento, come quelli diretti a vietare l’abuso di posizione dominante (art. 3 L. 10.10.1990, n. 287) e l’abuso di dipendenza economica (art. 9 L. 18.6.1998, n. 192). In un simile contesto, Cass. 20106/2009 allude alla più generale necessità che “il controllo e l’interpretazione dell’atto di autonomia privata” sia condotto “tenendo presenti le posizioni delle parti, al fine di valutare se posizioni di supremazia di una di esse e di eventuale dipendenza, anche economica, dell’altra siano stati forieri di comportamenti abusivi, posti in essere per raggiungere i fini che la parte si è prefissata”.

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classificazioni (pur con inevitabili varianti terminologiche e concettuali nella loro delineazione, in quanto frutto di elaborazione dottrinale). a) Una prima fondamentale (e preliminare) distinzione, basata sulla natura degli interessi considerati meritevoli di tutela, è quella tra diritti patrimoniali e diritti non patrimoniali, a seconda della relativa valutabilità o meno in termini economici. È da tenere presente che, tradizionalmente, il sistema del diritto privato è stato costruito essenzialmente con riguardo ai diritti patrimoniali, caratterizzati da un valore di scambio, allo scopo di regolare gli interessi economici ed i traffici che li concernono, solo di recente prestandosi sempre maggiore attenzione alle esigenze di tutela degli interessi personali. Proprio ciò ha costretto, da una parte, a elaborare nuovi strumenti di tutela, maggiormente idonei ad assicurare il soddisfacimento di simili interessi (come si vedrà a proposito della tutela dei diritti della personalità: IV, 2.3), dall’altra, ad adattare quelli tradizionali come il risarcimento del danno (con riferimento, in particolare, al problema del danno alla persona: X, 2.4). Carattere patrimoniale hanno il diritto di proprietà (nonché i diritti reali che su di esso si modellano) e i diritti di credito 21, mentre carattere non patrimoniale hanno i diritti finalizzati ad assicurare la tutela e lo sviluppo della persona (diritti della personalità), anche nelle relazioni familiari (diritti familiari). I diritti di natura personale non sono riconosciuti in considerazione del loro valore di scambio e, quindi, non fanno parte del patrimonio del soggetto (formato, appunto, dai diritti patrimoniali: II, 2.9), restando estranei, come tali, alla responsabilità patrimoniale del debitore (art. 27401). Anche quando essi presentano risvolti economicamente apprezzabili, come il diritto agli alimenti (V, 1.7), la natura personale dell’interesse in vista della cui realizzazione sono funzionalmente disciplinati ne condiziona, in modo decisivo, il regime, diversificandolo da quello dei diritti patrimoniali (basti pensare ai relativi caratteri di imprescrittibilità, irrinunciabilità, incedibilità e impignorabilità). b) Sotto il profilo strutturale, la distinzione di fondo si ritiene correntemente essere tra diritti assoluti e diritti relativi. Essa deriva, in sostanza, dalla generalizzazione della contrapposizione, in campo patrimoniale, tra il modello della proprietà (e degli altri diritti reali) e il modello dei diritti di credito. La distinzione si basa sul diverso modo in cui la posizione del soggetto titolare del diritto (soggetto attivo) si correla, nel rapporto, con la posizione di chi (soggetto passivo) col suo comportamento deve consentire la realizzazione dell’interesse che l’ordinamento ha reputato meritevole di tutela, collocandolo in posizione sovraordinata 22. 21

L’art. 1174, a proposito del rapporto obbligatorio, prevede che l’interesse del creditore possa essere anche non patrimoniale. La patrimonialità del diritto di credito deriva dal dover risultare la prestazione, oggetto dell’obbligazione, comunque “suscettibile di valutazione economica”. Il carattere della non patrimonialità dell’interesse resta, quindi, estraneo alla struttura del rapporto, non influenzandone il regime, disciplinato, piuttosto, in considerazione del valore economico che la prestazione assume secondo le correnti valutazioni sociali (sulla relativa problematica, VII, 1.7). 22 La distinzione in questione si proietta, secondo l’impostazione concettuale tradizionale, in quella dei modelli di responsabilità operanti in caso di violazione del diritto da parte del soggetto passivo del rapporto: responsabilità extracontrattuale (o aquiliana) per i diritti assoluti, responsabilità contrattuale per i diritti relativi. Il riconoscimento della c.d. tutela aquiliana dei diritti di credito ha indubbiamente inciso, almeno entro certi limiti, sulla armonica simmetria di un simile impianto logico (X, 1.4).

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Nel diritto assoluto, la realizzazione dell’interesse del titolare del diritto è assicurata dal dovere della generalità dei consociati di astenersi dall’interferire nell’esercizio delle prerogative (facoltà, poteri) riconosciute dall’ordinamento relativamente al bene. La caratteristica del diritto assoluto è individuata, quindi, nel potere del titolare di pretendere, da parte della generalità dei consociati, l’osservanza di un dovere negativo di rispetto, con conseguente possibilità di far valere la propria posizione nei confronti di tutti i consociati stessi (erga omnes) 23. Il titolare del diritto assoluto, insomma, non ha bisogno di una specifica attività di cooperazione altrui per realizzare il proprio interesse, in quanto egli lo realizza direttamente da sé (immediatezza). Per questo, nel tipo di situazione in questione, il rapporto si ritiene, da parte di taluni, intercorrere tra il soggetto (titolare del diritto) ed il bene. In realtà, anche se, indubbiamente, la posizione soggettiva passiva appare qui piuttosto sfumata, in quanto – almeno fino al momento dell’eventuale violazione – indeterminata, non si può trascurare che è pur sempre un comportamento altrui (sia pure di mera astensione da ingerenze) che consente l’attività realizzativa del proprio interesse da parte del titolare, risultando, così, sussistente il carattere intersoggettivo del rapporto. Ciò vale quale che sia la natura del bene, l’interesse al quale viene dall’ordinamento tutelato erga omnes: anche ove si tratti, cioè, non di un bene materiale, ma di un bene immateriale (II, 2.1), ovvero di un profilo della stessa personalità (fisica o morale) del titolare del diritto. La categoria dei diritti assoluti, nella sua corrente configurazione, vale, infatti, ad abbracciare – proprio per il peculiare atteggiarsi delle modalità di realizzazione dell’interesse del titolare e della conseguente struttura del rapporto e delle situazioni giuridiche soggettive in esso correlate – la proprietà (e, in genere, i diritti reali), i diritti sui beni immateriali (che risultano storicamente ricostruiti cercando di adattare il modello dei diritti reali alla particolare natura del bene, in quanto pur sempre preso in considerazione come fonte di utilità economiche) e i diritti della personalità. Nel diritto relativo, invece, la realizzazione dell’interesse del titolare è assicurata dall’obbligo di osservare uno specifico comportamento da parte del soggetto passivo, come tale preventivamente determinato. La caratteristica del diritto relativo è individuata, quindi, nel potere del titolare, nei confronti di un determinato soggetto passivo, di pretendere l’osservanza dell’obbligo di comportamento su di lui gravante, con conseguente possibilità di fare valere la propria posizione specificamente nei suoi confronti (in personam) 24. Il titolare del diritto relativo, quindi, ha bisogno, per realizzare il suo interesse, di una specifica attività di cooperazione da parte del (predeterminato) soggetto passivo del rap23

In relazione alla situazione passiva correlata, nel rapporto, a quella del titolare del diritto assoluto si tende, quindi, a utilizzare in un senso tecnicamente preciso la terminologia di dovere. Si ricordi come, peraltro, il termine dovere sia da taluni impiegato per identificare genericamente la posizione di subordinazione del soggetto passivo nel rapporto giuridico, in contrapposizione alla titolarità del diritto da parte del soggetto attivo (mentre altri preferiscono parlare, al riguardo, pure utilizzando il termine in un’accezione generale, di obbligo). Di recente, Cass. 13-10-2015, n. 20560, ha contrapposto al concetto di (“generico”) “dovere” (quale “obbligo di comportamento imposto al fine del soddisfacimento di esigenze di carattere generale”) quello di (“vero e proprio”) “obbligo” (quale “dovere specifico”, finalizzato “alla realizzazione di un particolare interesse di un soggetto determinato: sacrificio di un interesse proprio per il soddisfacimento di un interesse altrui”). 24 Il carattere relativo del diritto non muta nel caso di eventuale pluralità di soggetti passivi nel rapporto, restandone immutata la struttura. È da tenere presente, poi, come l’obbligo di comportamento del soggetto passivo possa anche avere carattere negativo e consistere, quindi, in un non fare.

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porto. È per questo che si ritiene da taluni attagliarsi solo alle situazioni di tipo relativo l’idea di rapporto giuridico, almeno se inteso in senso intersoggettivo. Non si manca anche di contrapporre ai diritti assoluti, quali situazioni finali, i diritti relativi, quali situazioni strumentali, in quanto mezzo per conseguire un bene, già a disposizione del titolare, invece, nei primi, a prescindere dall’altrui cooperazione. La categoria dei diritti relativi, nella sua corrente configurazione, abbraccia, oltre ai diritti di credito (o di obbligazione), contraddistinti dalla valutabilità in termini economici del comportamento dovuto, pure situazioni caratterizzate da uno specifico dovere di comportamento di natura strettamente personale di un soggetto determinato, atto a realizzare l’interesse (ovviamente non patrimoniale) del titolare del diritto, come si ritiene verificarsi, in particolare, in campo familiare (art. 1432, relativamente agli obblighi – di fedeltà, di assistenza, di collaborazione, di coabitazione – reciproci dei coniugi) 25. c) In campo patrimoniale, come si è avuto dianzi modo di accennare, la distinzione tra diritti assoluti e diritti relativi si concretizza in quella – di cui, del resto, ha costituto storicamente, in buona sostanza, una generalizzazione – tra diritti reali (a loro volta modellati sulla proprietà) e diritti di credito. La caratteristica dei diritti reali è quella di attribuire al titolare un potere immediato su una cosa 26, consentendogli di realizzare, così, direttamente il suo interesse, attraverso l’esercizio delle facoltà e dei poteri conferiti dall’ordinamento rispetto alla cosa stessa (immediatezza del diritto reale). Tale realizzazione non necessita, quindi, della collaborazione di alcuno, a tutti i consociati essendo imposto – in quanto diritti assoluti – il dovere (negativo) di astenersi dal turbarne l’esercizio. Proprio in considerazione della peculiare posizione riconosciuta al titolare del diritto reale rispetto alla cosa che ne costituisce oggetto e del conseguente stretto collegamento tra situazione giuridica soggettiva e cosa stessa, si parla anche di inerenza del diritto reale alla cosa. Ciò vale a connotare l’azione a sua difesa quale azione reale (actio in rem), in quanto indirizzata contro chiunque turbi l’esercizio delle prerogative del titolare sulla cosa, che può essere perseguita, per consentire il ripristino di tali prerogative, nelle mani di chiunque essa si venga a trovare (diritto di seguito). L’inerire i diritti reali alla cosa, conformando stabilmente l’assetto delle utilità che è consentito trarne, rappresenta la giustificazione, di radice economica, del principio di tipicità dei diritti reali (i quali si ritengono tradizionalmente costituire, di conseguenza, un numero chiuso, limitato, cioè, alle sole figure espressamente disciplinate dal legislatore, evidentemente a seguito di un giudizio di bilanciamento tra le posizioni riconosciute rispetto alla cosa stessa, soprattutto con riguardo al rapporto, con riferimento ad essa, tra il diritto di proprietà e gli altri diritti reali: VI, 3.1). 25 Proprio alla luce della terminologia impiegata nell’art. 143 e altrove (ad es., artt. 147 e 315 bis, con riguardo ai figli), prevale la tendenza a parlare, con riferimento alle situazioni passive correlate a diritti relativi concernenti comportamenti di natura strettamente personale, di doveri o di obblighi, riservando il termine obbligazioni ai soli rapporti di carattere patrimoniale. Di obbligo o dovere si parla, in particolare, pure a proposito della contribuzione ai bisogni della famiglia, cui sono tenuti i coniugi (art. 1433) ed eventualmente i figli (art. 315 bis4), in considerazione, più che dei relativi indubbi risvolti economici, della sua funzionalità a realizzare valori personali nel nucleo familiare (V, 2.9-10). 26 La definizione di reali, evidentemente, deriva ai diritti qui in esame dal loro riferimento, appunto immediato, ad una cosa (in latino, res).

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La proprietà si presenta come prototipo – tanto sul piano storico, quanto su quello concettuale – dei diritti reali (VI, 1.1-2). Significativamente, gli altri diritti reali, che si risolvono in una compressione della proprietà (come si coglie, del resto, dalla loro definizione quali diritti su cosa altrui: iura in re aliena), vengono qualificati, proprio in contrapposizione alla pienezza caratterizzante la proprietà, limitati (ovvero anche parziari o minori) (VI, 3.1). Essi si distinguono correntemente, a seconda dell’interesse in vista del quale il potere (immediato) sulla cosa risulta garantito dall’ordinamento, in diritti reali di godimento (superficie, usufrutto, servitù prediali, ecc.) e diritti reali di garanzia (pegno, ipoteca). Sul piano sistematico, mentre l’esame dei primi viene accostato a quello della proprietà, quello dei secondi – di cui non si manca diffusamente di negare l’omogeneità rispetto ai primi – è preferibilmente operato in connessione con il tema dell’obbligazione, in vista del cui adempimento risultano sostanzialmente strumentali. I diritti di credito (o di obbligazione) – in quanto diritti relativi (il cui concetto, del resto, risulta ricostruito tenendo essenzialmente presente proprio la categoria dei diritti di credito) – si caratterizzano per la pretesa che il titolare (creditore) ha nei confronti di uno o più soggetti determinati (obbligato/i o debitore/i) a che questi tengano uno specifico comportamento positivo o negativo (prestazione), suscettibile di valutazione economica (1174). È proprio (ed esclusivamente) tale comportamento che vale a soddisfare l’interesse del titolare del diritto, il quale, quindi, necessita della cooperazione del soggetto tenuto al comportamento stesso. All’immediatezza del diritto reale si contrappone, così, la mediatezza del diritto di credito, solo il comportamento del soggetto passivo permettendo la realizzazione dell’interesse considerato dall’ordinamento meritevole di tutela 27. L’azione a tutela del titolare (creditore), proprio perché indirizzabile esclusivamente nei confronti del soggetto passivo (debitore), il solo comportamento del quale vale a consentire la realizzazione dell’interesse dedotto nel rapporto obbligatorio, ha carattere personale (actio in personam) 28. È da tenere presente come l’accresciuta importanza dei diritti di credito nelle economie moderne – per la loro maggiore duttilità e conseguente funzionalità alle esigenze di una economia complessa e dinamica – abbia finito, nel passaggio dal codice civile del 1865 a quello del 1942, con lo spostare il baricentro della disciplina dei rapporti patrimoniali dalla proprietà (e diritti reali) alla obbligazione.

27 Questo vale anche per i c.d. diritti personali di godimento, nei quali l’accesso al godimento della cosa da parte del titolare e l’esercizio delle relative facoltà vengono considerati dall’ordinamento pur sempre mediati dal comportamento di chi si sia impegnato a mettere la cosa stessa a sua disposizione. Esemplare, al riguardo, è la differenza tra la configurazione dell’usufrutto e della locazione: nel primo caso, nella prospettiva propria del diritto reale, il titolare trae direttamente dalla cosa le utilità consentite (981 e 982); nel secondo, il godimento (iniziale e successivo) della cosa da parte del titolare è assicurato attraverso l’assolvimento degli obblighi a ciò specificamente finalizzati del locatore (1571 e 1575), presentandosi, quindi, la relativa posizione del titolare dipendente dalla sua. Peraltro, non si è mancato di sottolineare come profili di tutela erga omnes della posizione del titolare – tali da rendere alquanto ibrida la figura – risultino, in particolare, dal potere costui agire direttamente nei confronti delle molestie di terzi (che non accampino diritti sulla cosa: 15852). 28 Ciò non esclude che, rappresentando indubbiamente il diritto di credito un valore nel patrimonio del creditore, si ritenga, ormai da tempo, che costui trovi tutela anche contro comportamenti di soggetti estranei al rapporto, tali, però, da impedire la realizzazione del suo interesse. Si tratta della già accennata problematica della c.d. tutela aquiliana dei diritti di credito (X, 1.4).

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PARTE II – CATEGORIE GENERALI

6. Diritto potestativo. – Le precedenti classificazioni in tema di diritti soggettivi non sono sembrate tali da dar conto della peculiarità della posizione in cui si trova il soggetto, quando gli sia conferito dal legislatore il potere di determinare unilateralmente la modificazione di una situazione giuridica, realizzando così senz’altro il suo interesse. È stata, di conseguenza, individuata ed elaborata – dalla dottrina tedesca – una categoria, quella dei diritti potestativi, i cui caratteri (se non, addirittura, la loro stessa configurabilità quali veri e propri diritti soggettivi), peraltro, restano persistentemente materia di discussione. L’essenza della figura del diritto potestativo è da ricercare, come accennato, nel potere riconosciuto al soggetto di incidere su una situazione giuridica – costituendola, modificandola o estinguendola – con una propria manifestazione unilaterale di volontà 29. Il carattere particolarmente energico della tutela dell’interesse del soggetto cui sia conferito un simile potere risulta chiaro ove si tenga presente la correlatività, nel rapporto giuridico, tra ogni situazione giuridica soggettiva attiva e la corrispondente situazione giuridica soggettiva passiva. Al potere conferito al soggetto titolare del diritto potestativo corrisponde, infatti, una posizione di soggezione del soggetto passivo, che si trova nella condizione di essere costretto a subire, nella sua sfera, gli effetti giuridici derivanti dall’esercizio del diritto potestativo: la modificazione, cioè, deriva senz’altro dall’iniziativa del titolare del diritto. L’interesse di quest’ultimo, insomma, non si realizza attraverso un comportamento altrui (sia pure solo di doverosa astensione dal turbamento della posizione attribuita al titolare, come nei diritti assoluti), secondo quanto accade nelle altre ipotesi di diritto soggettivo: il risultato vantaggioso avuto di mira dal titolare viene ottenuto direttamente, quale conseguenza immediata della sua manifestazione di volontà. Proprio in dipendenza di ciò risulta del tutto indifferente l’atteggiamento del soggetto passivo esposto agli effetti determinati dall’esercizio del diritto potestativo, nulla dovendo (ma neppure potendo) fare, se non, appunto, soggiacere al potere del titolare del diritto 30. Le ipotesi ascritte alla categoria del diritto potestativo sono numerose. Un esempio è quello offerto dall’art. 874, concernente la comunione forzosa sul muro di confine: l’effetto costitutivo della situazione di comunione deriva immediatamente dall’iniziativa del proprietario del fondo contiguo al muro, non potendo l’originario proprietario esclusivo del muro fare altro che soggiacere ad un simile effetto 31. Analogamente si atteggiano il diritto di affrancazione del fondo che compete all’enfiteuta (art. 971), il diritto di prelazione eventualmente conferito dalla legge (prelazione legale, come negli artt. 230 bis5 e 732), ovvero, in materia contrattuale, indicativamente, il diritto di riscatto del venditore, in caso di vendita con patto di riscatto (art. 1500), il diritto di recesso unilaterale attri29 In considerazione di una simile configurazione della situazione del titolare, si è ricorsi anche all’espressione di diritti formativi o costitutivi, così traducendosi l’originario termine tedesco (Gestaltungsrechte). Dato il peso che assume la discrezionalità del titolare in ordine al relativo esercizio, si tende anche a parlare di diritti discrezionali. 30 In considerazione del fatto che il diritto potestativo inerisce ad una relazione tra soggetti determinati, esso si è ritenuto assimilabile ai diritti relativi. Si tratta, comunque, di un mero accostamento, dato che, come si è visto, manca qui quella situazione di obbligo (di cooperazione) del soggetto passivo, caratterizzante i diritti relativi, in quanto l’interesse del soggetto attivo si realizza del tutto indipendentemente dal suo comportamento. 31 È da sottolineare che nell’art. 874 (come spesso risulta contestualmente previsto in caso di attribuzione di diritti potestativi) si ritiene contemplato anche un onere (quello, in particolare, del pagamento di una somma di danaro) a carico del soggetto che intenda esercitare il diritto potestativo di rendere comune il muro di confine.

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buito ad una delle parti (art. 1373), il diritto di opzione (art. 1331), il diritto di avvalersi della clausola risolutiva espressa (art. 1456). In tutti questi casi, infatti, l’effetto giuridico avuto di mira dal titolare del diritto potestativo consegue alla sua manifestazione unilaterale di volontà, restandone la controparte semplicemente assoggettata 32. Dagli esempi fatti sembra anche confermata l’idea che i diritti potestativi presentino effettivamente un carattere di accessorietà rispetto ad un rapporto o diritto principale (risultandone, quindi, possibile il trasferimento solo contestualmente alla situazione cui accedono). Resta controverso se siano annoverabili tra i diritti potestativi pure quelle situazioni in cui la produzione dell’effetto, atto a soddisfare l’interesse del titolare, non consegue immediatamente ad una sua manifestazione di volontà, ma richiede una pronuncia giudiziale, sia pure su iniziativa del titolare stesso (il cui potere consiste e si esaurisce, quindi, nella possibilità di proporre la relativa domanda) 33. Esempio corrente è quello del diritto di ottenere la costituzione di una servitù coattiva (art. 1032): in caso di disaccordo, tale effetto deriva da una sentenza (costitutiva), pronunciata su iniziativa del soggetto che si trova nelle condizioni stabilite dalla legge. Altra ipotesi viene individuata nel potere riconosciuto a ciascuno dei partecipanti di domandare lo scioglimento della comunione (art. 1111). Nella stessa prospettiva, poi, sono prese in considerazione le azioni di impugnazione del contratto, come quelle di annullamento (art. 1441) e di risoluzione per inadempimento (art. 1453).

7. Potestà. – Caratteristica costante (e fondamentale) delle situazioni giuridiche soggettive attive sin qui considerate è quella di comportare l’attribuzione di poteri per la soddisfazione di interessi propri di coloro cui risultano attribuite. Talvolta, però, un pote32 Talvolta, a tutela della controparte, nelle situazioni caratterizzate da una posizione – secondo la valutazione fattane dal legislatore – di istituzionale supremazia di uno dei soggetti nel rapporto, la discrezionalità che caratterizza l’esercizio del diritto potestativo viene normativamente limitata, risultando espressamente subordinata alla ricorrenza di talune condizioni. Così, ad es., la disdetta del contratto di locazione da parte del locatore presuppone, in taluni casi, la sussistenza di sue esigenze abitative o di altre sue specifiche necessità (artt. 29 L. 27.7.1978, n. 392 e 3 L. 9.12.1998, n. 431). Nella medesima prospettiva, la ricorrenza di una giusta causa è richiesta per il licenziamento del lavoratore da parte del datore di lavoro (art. 1 L. 15.7.1966, n. 604). Sul piano giudiziale, poi, evidentemente in mancanza di più puntuali criteri legislativi finalizzati a delimitare la discrezionalità del titolare nell’esercizio del suo diritto, si presenta estesamente utilizzato, a fini di controllo dei poteri discrezionali, il richiamo al principio generale della buona fede contrattuale. Alla luce di tale principio tende, così, ad essere controllata la discrezionalità dell’imprenditore nell’esercizio dei suoi poteri nei confronti dei lavoratori: ad es., in relazione alla scelta di quelli da collocare in mobilità, è stata evidenziata la necessità di “valutare l’esecuzione del contratto a norma della disposizione generale dell’art. 1375 c.c.” (Cass. 9-9-2000, n. 11875). Anche in ambito associativo la giurisprudenza si mostra diffusamente orientata nel senso di controllare l’esercizio dei poteri di supremazia, facendo applicazione del principio in questione: in particolare, ne è stato dedotto il carattere di illegittimità della delibera assembleare, pur formalmente regolare, “adottata a proprio esclusivo vantaggio dai soci di maggioranza di una società di capitali in danno di quelli di minoranza” (Cass. 26-10-1995, n. 11151; Cass. 11-6-2003, n. 9353). In via generale, Cass. 18-9-2009, n. 20106, reputa necessario un controllo – secondo “i principi della buona fede oggettiva e dell’abuso del diritto” – dell’esercizio del convenuto potere di recesso, affinché esso, in presenza di “provata disparità di forza tra i contraenti”, non si trasformi “in un recesso arbitrario” (v. anche, ad es., Cass. 29-5-2020, n. 10324 e, in relazione ai rapporti bancari, ad es., Cass. 24-8-2016, n. 17291, nonché, sempre nell’ottica della valorizzazione del “principio di buona fede, sancito dall’art. 1375 c.c.”, Cass. 22-12-2020, n. 29317, con riguardo al recesso ad nutum della banca dal rapporto di apertura di credito). 33 Al riguardo, si parla, per distinguerli dagli altri diritti potestativi, di diritti potestativi giudiziali, sulla scia di una analoga distinzione terminologica operata dalla dottrina tedesca (Gestaltungsklagerechte).

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PARTE II – CATEGORIE GENERALI

re è riconosciuto al soggetto in vista della tutela e realizzazione di un interesse altrui. Tale peculiare situazione giuridica soggettiva è usualmente definita potestà 34. Un potere del genere può essere conferito dallo stesso titolare dell’interesse in gioco, come accade nel caso della rappresentanza diretta, nella quale al rappresentante è attribuito dal rappresentato il potere di concludere un contratto, destinato a produrre i suoi effetti direttamente nel patrimonio di quest’ultimo (art. 1388) (VIII, 8.2). I casi di maggiore interesse, comunque, anche per la complessità delle situazioni che ne derivano, sono però quelli in cui è la legge a conferire un tale potere: ciò avviene, in particolare, quando sussistono peculiari esigenze di tutela di interessi che, altrimenti, ne resterebbero privi. Esempi significativi di una simile situazione sono quelli della tutela (artt. 343 ss.) (IV, 1.9) e della responsabilità genitoriale (artt. 316 ss., secondo la impostazione del rapporto tra genitori e figli privilegiata – già sul piano terminologico col superamento del previgente riferimento alla potestà dei genitori – dalla L. 10.12.2012, n. 219, nonché sviluppata nel D.Lgs. 28.12.2013, n. 154, destinato ad attuarne i principi) (IV, 1.8 e V, 4.9). L’attribuzione del potere nell’interesse altrui determina una rilevante deviazione nei modi di esercizio del potere medesimo, rispetto ai casi in cui esso sia esercitato dal medesimo titolare dell’interesse da soddisfare. L’esercizio del potere, infatti, non si presenta, secondo quanto accade in genere, libero, bensì vincolato, appunto, alla realizzazione dell’interesse, in vista della cui realizzazione è attribuito. Ciò comporta l’evidente esigenza di prevedere forme di controllo dell’esercizio del potere (secondo modalità ovviamente diverse, quale riflesso della diversità delle singole situazioni). Nell’ipotesi della rappresentanza diretta, così, il titolare dell’interesse su cui il potere (di rappresentanza) è destinato ad incidere può reagire, chiedendone l’annullamento, contro gli atti di esercizio abusivo dello stesso, come si verifica in caso di contratto concluso dal rappresentante in conflitto di interessi col rappresentato (art. 1394) e di contratto del rappresentante con se stesso (art. 1395). Ove, poi, poteri vengano conferiti dalla legge per la tutela di interessi altrui nel quadro di un rapporto intersoggettivo complesso e destinato a durare nel tempo, come è caratteristico delle accennate potestà disciplinate in vista della protezione di soggetti incapaci (quali il minore o l’interdetto), il controllo sul relativo esercizio, oltre (e, forse, più) che riguardare singoli atti (come nel caso di conflitto di interessi: artt. 3206, 321, 323, 3601, 378), tende a coinvolgere, complessivamente, l’attività del soggetto cui la potestà è attribuita. La relativa investitura, infatti, avviene in vista della prioritaria esigenza di tutelare interessi che l’ordinamento reputa a tal punto rilevanti, da volerne assicurare comunque un’adeguata protezione. L’esercizio dei poteri connessi alla potestà viene ad assumere, di conseguenza, per il soggetto cui essa è attribuita, un carattere di vera e propria doverosità 35: è questo il moti34 Non vi è dubbio che, risolvendosi comunque nell’attribuzione di un potere al soggetto (sia pure con le precisazioni di seguito accennate), la potestà sia da considerare quale situazione giuridica soggettiva attiva. La relativa problematica si ricollega al controverso concetto di legittimazione, correntemente intesa quale potere riconosciuto al soggetto di agire con effetti su una determinata situazione giuridica (propria o altrui), disponendo degli interessi in essa coinvolti (VIII, 2.1). 35 È da sottolineare come un simile carattere di doverosità si ritenga riguardare anche la stessa assunzione della potestà, come si avrà modo di vedere esaminando le singole ipotesi.

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vo per cui situazioni di questo tipo vengono correntemente identificate pure in termini di potere-dovere o di ufficio di diritto privato (munus). Del tutto coerente, allora, nella regolamentazione di simili situazioni, si presenta la previsione della possibile rimozione del soggetto dalla titolarità della potestà, in caso di relativo esercizio tale da pregiudicare il soggetto i cui interessi sono in gioco. Esemplare, in tale prospettiva, si presenta l’articolato controllo sulla responsabilità genitoriale, fino alla possibile pronuncia della decadenza da essa (art. 330) 36, quando non siano sufficienti misure di minore gravità (quali quelle previste negli artt. 333 e 334). E particolarmente significativa risulta, in proposito, l’estensione della possibilità di richiesta di un simile controllo anche al pubblico ministero (art. 3361) 37.

8. Aspettativa. – Dalla situazione giuridica di diritto soggettivo si distingue la situazione di aspettativa, quando i requisiti che l’ordinamento pone per il sorgere del diritto soggettivo stesso (e la relativa attribuzione al soggetto) non si siano ancora completamente realizzati (quando, cioè, secondo l’impostazione concettuale corrente, non sono ancora presenti tutti gli elementi della fattispecie costitutiva). Quella di aspettativa può essere considerata, a sua volta, una situazione giuridica soggettiva, sia pure diversa dal diritto soggettivo al cui sorgere risulta preordinata. Ciò avviene ove (ed entro i limiti in cui) l’ordinamento riconosca al soggetto, in considerazione dell’essersi già realizzati taluni degli elementi necessari per il sorgere del diritto soggettivo, una qualche tutela del suo interesse a vedere completata la fattispecie costitutiva del diritto avuto di mira. Si tratta, quindi, per definizione, di una tutela e di una situazione giuridica di natura provvisoria e meramente strumentale all’acquisto, da parte del soggetto, della titolarità di un diritto, in quanto destinate a venire comunque meno o con il sorgere del diritto o con la definitiva interruzione del procedimento di formazione della fattispecie costitutiva del diritto stesso 38. Affinché si possa parlare di aspettativa, nel senso accennato (aspettativa giuridica o di diritto), occorre, dunque, che l’ordinamento consideri già attualmente meritevole di tutela un interesse del soggetto (quello, cioè, al regolare svolgimento del procedimento di formazione della fattispecie acquisitiva del diritto). Diversa è la situazione di mera speranza di un futuro diritto, ove l’ordinamento non consideri attualmente meritevole di tutela un interesse del soggetto, non essendosi ancora realizzato alcuno degli elementi della fattispecie costitutiva del diritto (ovvero la realizzazione degli elementi della fattispecie apparendo ancora insufficiente, in vista del riconoscimento di una qualche tutela del soggetto). Si parla, al riguardo, di aspettativa di fatto. Un esempio ne viene visto nella situazione in cui si trova il soggetto in ordine all’eredità di chi sia ancora vivente, anche se si tratti di uno di quei soggetti (come, ad es., i figli) che hanno diritto a una 36 Tale decadenza dalla responsabilità genitoriale può essere significativamente pronunciata, oltre che in caso di abuso dei relativi poteri, anche ove il genitore violi o semplicemente trascuri quelli che sono esplicitamente definiti quali doveri ad essa inerenti. 37 In analoga prospettiva, è da ricordare, in particolare, la possibile rimozione e sospensione del tutore, non solo nel caso di negligenza o di abuso dei poteri conferitigli, ma anche quando costui si sia semplicemente dimostrato inetto nell’adempimento dei suoi poteri (art. 384). 38 Le situazioni di aspettativa si ricollegano, quindi, alle ipotesi di c.d. fattispecie a formazione progressiva (II, 4.3), parlandosi significativamente, al riguardo, di diritto soggettivo in itinere o di un suo stadio anteriore.

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quota della relativa eredità, dato che è solo con la morte del soggetto da cui si conta di ereditare (e con la conseguente apertura della successione) che comincia a realizzarsi la fattispecie successoria (divenendo, allora, solo in tale momento giuridicamente rilevanti le aspettative in ordine all’eredità). Ipotesi esemplare di ricorrenza di una situazione di aspettativa di diritto si ritiene essere quella di chi acquisti un diritto sotto condizione sospensiva o l’alieni sotto condizione risolutiva (VIII, 3.21). Nella fase in cui è incerto l’avverarsi o meno della condizione (nella fase, cioè, della relativa pendenza, secondo quanto accade tipicamente in conseguenza dell’utilizzazione del meccanismo condizionale: art. 1353), non solo il soggetto può disporre della sua situazione, appunto di aspettativa, rispetto al diritto (in particolare trasferendola ad altri) (art. 1357), ma vede tutelato, in maniera incisiva, l’interesse al rispetto della sua aspettativa, da parte di chi sia controinteressato. Così, egli può compiere gli opportuni atti conservativi (art. 1356); la controparte deve “comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte” (art. 1358); la condizione, soprattutto, si considera avverata (c.d. finzione di avveramento) “qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento di essa” (art. 1359), col conseguente realizzarsi della situazione giuridica avuta di mira dal soggetto titolare della relativa aspettativa 39.

9. Interesse legittimo. – Quella di diritto soggettivo si presenta come situazione di piena e diretta tutela dell’interesse del soggetto. Non tutti gli interessi del soggetto ricevono, però, una simile tutela. Prescindendo dai c.d. interessi di fatto (o semplici), definiti tali proprio perché del tutto irrilevanti per l’ordinamento, taluni interessi sono considerati meritevoli di protezione, col conseguente riconoscimento di una situazione giuridica soggettiva, ma al titolare non è conferito un potere di carattere autonomo in vista del relativo soddisfacimento. Il soddisfacimento di un interesse di questo tipo, infatti, viene a dipendere dall’esercizio di un potere attribuito ad altri, nel senso che l’esercizio del potere da parte del soggetto cui è attribuito, nel soddisfare immediatamente l’interesse in vista del quale il potere stesso è conferito a tale soggetto, vale anche a soddisfare in via indiretta e mediata l’interesse del titolare della situazione giuridica soggettiva in questione. Con la terminologia di interesse legittimo si allude, appunto, ad una simile situazione, caratterizzata, secondo l’impostazione concettuale tradizionale, da una tutela solo indiretta dell’interesse del soggetto che ne è titolare. La categoria dell’interesse legittimo è stata teorizzata – in alcuni ordinamenti, tra cui il nostro, che si ispirano storicamente a quello francese – con riferimento al diritto pubblico ed all’esercizio dei poteri amministrativi, per definire la posizione del soggetto privato rispetto al loro esercizio nell’interesse pubblico, quando esso concerna un bene cui il soggetto stesso sia interessato 40. L’interesse del soggetto privato viene tutelato in 39 Una ipotesi di aspettativa giuridica viene ravvisata da taluno, con riferimento alla materia successoria (art. 462), nella peculiare situazione del nascituro (IV, 1.2). Ciò in considerazione del carattere conservativo e provvisorio della tutela riconosciuta alla relativa posizione, considerata assimilabile, secondo una simile opinione, a quella di chi abbia acquistato un diritto sotto condizione sospensiva. 40 La materia, di conseguenza, viene qui solo accennata, costituendo oggetto di specifico approfondimento nel quadro del diritto pubblico e, in particolare, del diritto amministrativo.

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quanto coincidente con l’interesse pubblico e si sostanzia nella pretesa ad un esercizio corretto del potere da parte della pubblica amministrazione (si ricordi, al riguardo, come l’art. 981 Cost. imponga che “siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”) 41. L’esigenza di una tutela dell’interesse del privato è particolarmente avvertita, ovviamente, in quei casi in cui l’interesse legittimo risulti tale in seguito all’esercizio di poteri della pubblica amministrazione incidenti su una precedente situazione di diritto soggettivo, come accade, ad es., nel caso di espropriazione per pubblico interesse (artt. 834 e 423 Cost.): il proprietario è, come tale, titolare di un diritto soggettivo, ma, in considerazione del potere riconosciuto alla pubblica amministrazione di espropriare beni, quando ciò sia necessario nell’interesse generale, nei confronti della pubblica amministrazione la sua posizione degrada a quella di titolare di un mero interesse legittimo al corretto esercizio del potere di espropriazione (con riguardo alle ipotesi del genere si tende a parlare di diritti affievoliti). La distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi ha assunto storicamente rilevanza, nel nostro ordinamento, sotto diversi profili: innanzitutto, dal punto di vista delle competenze in ordine alla relativa tutela giurisdizionale (comunque assicurata per ambedue le situazioni, ai sensi dell’art. 241 Cost.), operando per la tutela dei diritti soggettivi la competenza del giudice ordinario, mentre per la tutela degli interessi legittimi quella del giudice amministrativo (c.d. riparto delle giurisdizioni) (III, 1.1); inoltre, sotto il profilo della diversità delle modalità di tutela degli interessi legittimi rispetto a quella dei diritti soggettivi (il risarcimento del danno risultando limitato alla violazione dei diritti soggettivi); infine, per la diversità dei poteri del giudice amministrativo rispetto a quelli del giudice ordinario (al primo essendo consentito solo eliminare l’atto illegittimo e non condannare al risarcimento del danno, anche se dal provvedimento annullato sia derivata la lesione di un diritto soggettivo). Un simile quadro consolidato e tradizionale della materia è, peraltro, profondamente mutato negli anni più vicini. Con importanti interventi del legislatore (D.Lgs. 31.3.1998, n. 80 e L. 21.7.2000, n. 205), sono state, infatti, sempre più estese le materie in relazione alle quali il giudice amministrativo è stato ritenuto competente a giudicare anche le controversie aventi ad oggetto diritti soggettivi (c.d. giurisdizione esclusiva del giudice am41 Un esempio ricorrente è quello della posizione del soggetto con riferimento ad un concorso pubblico. Il concorrente – a differenza del cittadino in quanto tale che è portatore, al riguardo, di un mero interesse di fatto – ha un interesse giuridicamente rilevante (interesse legittimo) ad uno svolgimento del concorso secondo le regole stabilite dalla legge per disciplinare le relative procedure: regole dettate in vista del soddisfacimento di un interesse pubblico (quello alla scelta dei candidati maggiormente idonei a ricoprire i posti messi a concorso), ma il cui rispetto può essere preteso dal concorrente stesso in vista del soddisfacimento del suo interesse personale (ad accedere, se meritevole, al posto messo a concorso), in quanto coincidente con quello pubblico. Al soggetto privato, di conseguenza, è riconosciuta, in una simile situazione, la possibilità di azionare strumenti di controllo (in particolare giudiziale) sull’operato della pubblica amministrazione, in modo da vedere tutelato, in una con l’interesse pubblico, il suo interesse personale. Il campo cui ci si riferisce, secondo la corrente distinzione in materia, è quello delle c.d. norme di azione, che disciplinano il buon funzionamento della pubblica amministrazione; altre norme (c.d. norme di relazione), invece, disciplinano specifici rapporti tra privati e pubblica amministrazione, determinando il sorgere di diritti e obblighi reciproci. Così, continuando l’esempio dianzi proposto, con l’assunzione in servizio viene ad esistenza un rapporto di impiego, in dipendenza del quale l’impiegato pubblico ha un vero e proprio diritto soggettivo al pagamento della retribuzione.

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ministrativo) (in particolare, edilizia, urbanistica e servizi pubblici) e al giudice amministrativo è stato conferito, in tali materie, il potere di condannare la pubblica amministrazione al risarcimento del danno conseguente ad un provvedimento illegittimo (prima rientrante nella sola competenza del giudice ordinario, in un separato giudizio successivo a quello di annullamento del provvedimento illegittimo da parte del giudice amministrativo) 42. La giurisprudenza, da parte sua, con un fondamentale intervento della Cassazione a sezioni unite, ha sancito, da un lato, in via di principio, la risarcibilità del danno conseguente alla lesione di un interesse legittimo, ai sensi dell’art. 2043 (precedentemente, come accennato, categoricamente esclusa), sia pure con opportune precisazioni circa le concrete ipotesi di risarcibilità (in dipendenza della tipologia degli interessi legittimi in gioco) 43; dall’altro, ha riconosciuto al giudice ordinario la possibilità di giudicare le controversie concernenti la violazione di interessi legittimi, eventualmente condannando la pubblica amministrazione al risarcimento del danno (senza necessità, quindi, del previo annullamento del provvedimento illegittimo da parte del giudice amministrativo) 44. Tale ultimo intervento giurisprudenziale – prescindendo qui dalla sua fondamentale importanza sistematica in tema di responsabilità civile (X, 1.3) – risulta ispirato ad una concezione dell’interesse legittimo e della relativa distinzione rispetto al diritto soggettivo alquanto differente da quella più tradizionale (cui si è fatto cenno dianzi). All’attribuzione di un interesse legittimo si è inteso conferire valore di riconoscimento, da parte dell’ordinamento, di rilevanza sostanziale all’interesse del titolare ad un bene della vita: come tale, quindi, in caso di relativa lesione, suscettibile – appunto in quanto interesse giuridicamente rilevante per l’ordinamento – di tutela di carattere risarcitorio (alla pari, insomma, del diritto soggettivo). In una simile prospettiva, allora, l’interesse legittimo finisce con l’assumere la veste di interesse direttamente protetto (e non protetto solo indirettamente, in quanto coincidente con l’interesse pubblico), quale situazione giuridica soggettiva di vantaggio riconosciuta ad un soggetto rispetto ad un bene della vita, tutelata 42 Peraltro, Corte cost. 6-7-2004, n. 204, ha alquanto ridimensionato, sulla base dell’art. 1031 Cost. (concernente la giustizia amministrativa), l’area della giurisdizione esclusiva riconosciuta al giudice amministrativo, conservando, comunque, a tale giudice il potere di disporre il risarcimento del danno (v. anche III, 1.1). Ulteriori precisazioni circa la legittimità della devoluzione di materie alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ha operato Corte cost. 11-5-2006, n. 191. Si ritiene, comunque, consentito affidare al giudice amministrativo anche la “tutela dei diritti costituzionalmente protetti” (Corte cost. 27-4-2007, n. 140). 43 Stando all’impostazione di Cass., sez. un., 22-7-1999, n. 500 (seguita dalla successiva giurisprudenza: ad es., Cass. 13-10-2011, n. 21170 e, più di recente, Cass. 12-1-2018, n. 651), viene in rilievo, in proposito, la corrente distinzione “tra ‘interessi oppositivi’ e ‘interessi pretensivi’, secondo che la protezione sia conferita al fine di evitare un provvedimento sfavorevole ovvero per ottenere un provvedimento favorevole: i primi soddisfano istanze di conservazione della sfera personale e patrimoniale del soggetto, i secondi istanze di sviluppo della sfera personale e patrimoniale del soggetto”. In materia di interessi pretensivi, così, si tende a seguire criteri ispirati a maggiore cautela, subordinando il risarcimento conseguente alla relativa lesione “all’accertamento, in termini di certezza o, quanto meno, di probabilità vicina alla certezza, della spettanza del bene della vita oggetto dell’aspettativa giuridicamente tutelata” (Cons. Stato, sez. V, 19-8-2019, n. 5737; ad una “situazione che, secondo la disciplina applicabile, era destinata, in base a un criterio di normalità, ad un esito favorevole”, allude Cons. Stato, sez. IV, 27-2-2020, n. 1437). 44 È da segnalare, peraltro, come la problematica del riparto di giurisdizione in materia risarcitoria sia rimasta persistentemente controversa, con ricorrenti contrasti tra la giurisprudenza ordinaria e quella amministrativa.

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mediante il conferimento al titolare di un vero e proprio potere di realizzare il suo interesse (non diversamente che in caso di diritto soggettivo) 45. La problematica in esame è stata, da ultimo, disciplinata in maniera sistematica dal D.Lgs. 2.7.2010, n. 104, con cui ha avuto attuazione l’art. 44 della L. 18.6.2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo 46. Con il fondamentale – e atteso – art. 30, si è inteso tentare di risolvere i contrasti insorti circa l’esperibilità dell’azione risarcitoria indipendentemente dalla necessità di impugnare il provvedimento amministrativo lesivo 47. In proposito, si è stabilito che l’azione di condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria può essere proposta anche in via autonoma (c.d. azione risarcitoria pura) 48. 45 Cass. 500/SU/1999, ha con decisione affermato che “anche nei riguardi della situazione di interesse legittimo, l’interesse effettivo che l’ordinamento intende proteggere è pur sempre l’interesse ad un bene della vita”, “la cui lesione (in termini di sacrificio o di insoddisfazione) può concretizzare danno” (come tale risarcibile): “ciò che caratterizza l’interesse legittimo e lo distingue dal diritto soggettivo è soltanto il modo o la misura in cui l’interesse sostanziale ottiene protezione”. L’interesse legittimo viene, inteso, insomma, in aderenza ad una concezione più attuale della materia, “come la posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita oggetto di un provvedimento amministrativo e consistente nell’attribuzione a tale soggetto di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione dell’interesse al bene” (analogamente, in sostanza, pure Cons. Stato, ad. plen., 23-3-2011, n. 3). La risarcibilità della relativa lesione consegue, poi, al rientrare, in via del tutto generale, nell’“area della risarcibilità” ogni “lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento”, indipendentemente dalla “qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto” (in termini, cioè, di diritto soggettivo), purché risulti che “l’ordinamento assicura tutela all’interesse danneggiato … manifestando una esigenza di protezione”. 46 La sempre controversa (dianzi accennata) materia della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo è stata ora regolata nell’art. 133. 47 Sulla questione della c.d. pregiudiziale amministrativa persistente si era dimostrato il contrasto tra la giurisprudenza del Consiglio di Stato e quella della Cassazione. Quest’ultima, infatti, ha continuato a sostenere l’erroneità dell’avviso della prima (Cons. Stato, ad. plen., 22-10-2007, n. 12), ferma nel negare la “tutela risarcitoria degli interessi legittimi sul presupposto che l’illegittimità dell’atto debba essere stata preventivamente richiesta e dichiarata in sede di annullamento” (così sintetizza l’opinione criticata, Cass., sez. un., 23-12-2008, n. 30254; v. anche Cass., sez. un., 3-3-2010, n. 5025 e, di recente, Cass. 20-6-2018, n. 16196). La svolta legislativa, nel senso dell’“abbandono del vincolo derivante dalla pregiudiziale amministrativa”, viene evidenziata da Corte cost. 4-5-2017, n. 94. 48 Si è anche contemplata la possibilità, sussistendone i presupposti previsti dall’art. 2058 (X, 2.2), di chiedere il risarcimento del danno in forma specifica. La giurisprudenza amministrativa si è orientata – “per l’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o per il mancato esercizio di quella doverosa” – nel senso “della riconducibilità del danno per lesione di interessi legittimi al modello della responsabilità per fatto illecito”, in considerazione di quella “asimmetria delle posizioni” tra pubblica amministrazione e privato, che vale a caratterizzare “il rapporto amministrativo … per l’esercizio unilaterale del potere nell’interesse pubblico” (così che la prima “non possa essere assimilata al ‘debitore’ obbligato per contratto ad ‘adempiere’ in modo esatto nei confronti del privato”: Cons. Stato, ad. plen., 23-4-2021, n. 7). Peraltro, la giurisprudenza civile (anche ai fini del deferimento delle relative controversie alla giurisdizione ordinaria) tende a ricostruire – “nei casi in cui il danno derivi non dalla violazione delle regole di diritto pubblico che disciplinano l’esercizio del potere amministrativo, ma dalla violazione delle regole di correttezza e buona fede, di diritto privato, cui la pubblica amministrazione è tenuta a conformarsi al pari di qualunque altro soggetto” – la “responsabilità da lesione dell’affidamento del privato entrato in relazione con la pubblica amministrazione in termini di responsabilità da contatto sociale” (“responsabilità relazionale o da ‘contatto sociale qualificato’”, come tale riconducibile, quindi, “allo schema della responsabilità contrattuale”: VII, 4.3; X, 2.3): Cass., sez. un., 28-4-2020, n. 8236, seguita da Cass., sez. un., 15-1-2021, n. 615. Da ultimo, Cons. Stato, ad. plen., 29-11-2021, nn. 19, 20 e 21, alla luce del proprio consolidato indirizzo favorevole all’applicabilità delle regole di correttez-

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Un disincentivo, comunque, all’esercizio in via autonoma dell’azione risarcitoria per la lesione di interessi legittimi – tale da indurre a reputare evanescente la concreta rilevanza della relativa affermata possibilità – deriva dalla previsione della esclusione del risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso gli strumenti di tutela previsti 49. Inoltre, da una parte, si è riservata alla cognizione esclusiva del giudice amministrativo ogni domanda di condanna al risarcimento di danni per lesioni di interessi legittimi (nonché per lesioni di diritti soggettivi nelle materie di giurisdizione esclusiva) 50; dall’altra, si è assoggettato l’esercizio dell’azione risarcitoria ad un breve termine di decadenza (120 giorni: disciplina, questa, della cui legittimità costituzionale non si è mancato immediatamente di dubitare) 51. Non meraviglia che, ad esito degli accennati interventi legislativi e giurisprudenziali, i quali hanno reso sicuramente più problematica – e, tutto sommato, assai meno significativa che in passato – la distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo, crescente consenso riceva l’opinione nel senso di un radicale superamento della distinzione medesima, pure in base alla considerazione secondo cui, nel contesto dell’Unione europea, solo gli ordinamenti di taluni paesi la conoscono e continuano ad ispirarsi ad essa (un simile superamento potendo valere, allora, anche a semplificare le relazioni all’interno della nostra area giuridica continentale). za e buona fede anche all’attività della pubblica amministrazione, hanno reputato senz’altro tutelabile l’affidamento del privato sul legittimo esercizio, da parte di essa, del potere pubblico, e ciò anche in relazione al caso di annullamento di provvedimento favorevole su ricorso di terzi. Discorrendosi di “apparenza ingenerata sul piano extracontrattuale”, pare emergere, però, la propensione della giurisprudenza amministrativa per una qualificazione, anche in tal caso, della responsabilità in questione in chiave aquiliana, con devoluzione al giudice amministrativo delle relative controversie (e, quindi, in contrasto col ricordato orientamento della giurisprudenza civile). 49 Nel quadro di simili strumenti di tutela, un rilievo preminente assumendo, evidentemente, proprio l’esperimento dell’azione di annullamento dell’atto, alla cui illegittimità si ricollega la lesione dell’interesse legittimo. Con ciò, in pratica, costringendo quasi sempre il danneggiato a proporre – nel previsto termine di 60 giorni (art. 29) – l’azione di annullamento dell’atto da cui pretenda di essere stato leso. Si è ritenuto (Cons. Stato, ad. plen., n. 3/2011) che, così, il legislatore, suggellando “un punto di equilibrio capace di superare i contrasti ermeneutici registratisi tra le due giurisdizioni”, “ha mostrato di non condividere la tesi della pregiudizialità pura di stampo processuale al pari di quella della totale autonomia dei due rimedi, approdando ad una soluzione che, non considerando l’omessa impugnazione quale sbarramento di rito, aprioristico ed astratto, valuta detta condotta come fatto concreto da apprezzare, nel quadro complessivo del comportamento delle parti, per escludere il risarcimento dei danni evitabili per effetto del ricorso all’annullamento”. In tale prospettiva, Cons. Stato, sez. V, 2-11-2011, n. 5837, ha ritenuto che “la tardività dell’impugnazione giurisdizionale proposta costituisce fattore di mitigazione del danno risarcibile” (richiamandosi al collegamento operato nella decisione dianzi ricordata tra l’art. 303 D.Lgs. 104/2010 e i principi enunciati dal codice civile agli artt. 1175 e 1227). 50 Si ricordi come sia previsto che, nei casi di giurisdizione esclusiva, possa essere anche chiesto il risarcimento del danno da lesione di diritti soggettivi. 51 La previsione del termine di decadenza in questione è stata considerata legittima da Corte cost. 94/2017, in quanto “espressione di un coerente bilanciamento dell’interesse del danneggiato di vedersi riconosciuta la possibilità di agire anche a prescindere dalla domanda di annullamento (con eliminazione della regola della pregiudizialità), con l’obiettivo, di rilevante interesse pubblico, di pervenire in tempi brevi alla certezza del rapporto giuridico amministrativo, anche nella sua declinazione risarcitoria”, nonché con “l’interesse, di rango costituzionale, di consolidare i bilanci delle pubbliche amministrazioni” (la diversità di disciplina rispetto “all’azione risarcitoria del danno da lesione di diritti soggettivi” risultando comunque giustificata “dalla non omogeneità delle posizioni soggettive poste a raffronto”).

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È da tenere presente come della figura dell’interesse legittimo sia stata proposta l’utilizzazione anche al di fuori dei rapporti con la pubblica amministrazione, per definire particolari situazioni ricorrenti nei rapporti che interessano il diritto privato. Questo, in particolare, in quelle ipotesi in cui il soggetto si venga a trovare in una situazione di soggezione a poteri discrezionali altrui (entro certi limiti comparabile, quindi, con la situazione in cui il privato si viene a trovare nei confronti della pubblica amministrazione), come accade con riguardo all’azione delle c.d. autorità private (di cui si ritengono esempi famiglia, associazione e impresa). Per tale via si è perseguito lo scopo di conferire rilevanza giuridica (e conseguente tutela) all’interesse del soggetto ad un corretto esercizio dei poteri in questione (pure se attribuiti al titolare nel proprio interesse), quando siano destinati ad incidere sulla sua sfera giuridica 52. Peraltro, almeno nelle situazioni socialmente più rilevanti, l’esigenza di controllo sull’esercizio dei poteri privati risulta assicurata dallo stesso ordinamento attraverso strumenti appositamente a ciò finalizzati (si pensi alla materia dell’esercizio dei poteri dell’imprenditore in tema di licenziamento del lavoratore, ovvero a quella dell’esercizio della responsabilità genitoriale in ordine alle decisioni relative ai figli). Maggiormente garantistico si presenta, del resto, l’indirizzo che propende per il riconoscimento, in capo al soggetto sottoposto al potere altrui, di una situazione di vero e proprio diritto soggettivo (con conseguente invocabilità dei relativi strumenti di tutela e, in particolare, del risarcimento del danno, eventualmente per violazione del dovere di buona fede, quale criterio di comportamento cui deve ispirarsi, nei rapporti intersoggettivi, pure l’esercizio di ogni potere) 53.

10. Interessi collettivi e diffusi. – Carattere comune delle situazioni giuridiche soggettive fin qui considerate è quello di tutelare l’interesse del soggetto, conferendogli una specifica posizione di vantaggio rispetto ad un bene: differenziando, insomma, la sua posizione rispetto a quella degli altri soggetti eventualmente interessati allo stesso bene (ove ritenuto possibile oggetto di diritti individuali, di carattere anche non patrimoniale: II, 2.1). Nella evoluzione più recente dell’ordinamento, soprattutto in considerazione della centralità in esso assunta dalla persona umana con le sue esigenze di sviluppo, crescente attenzione è stata prestata per interessi facenti capo al soggetto in quanto appartenente ad una determinata collettività (gli appartenenti alla quale hanno, evidentemente, interessi omogenei), ovvero semplicemente in quanto membro della comunità nel suo complesso. La tutela del primo genere di interessi, correntemente definiti interessi collettivi, ha presentato (e presenta) difficoltà minori, dato che trova il suo naturale punto di riferimento nell’attribuzione del potere di agire per la relativa salvaguardia ad enti, di struttura tipicamente associativa, espressione della organizzazione dei soggetti portatori degli 52 La problematica accennata finisce col concernere, in sostanza, la delineazione dei limiti posti all’esercizio dei poteri inerenti a situazioni classificabili in termini di diritto potestativo e potestà, anche alle cui trattazioni, quindi, si rinvia (II, 3.6-7). 53 Per il controllo giudiziale, alla luce del principio di buona fede, dell’esercizio dei poteri discrezionali da parte del datore di lavoro e in campo associativo, v. quanto accennato in tema di esercizio dei diritti potestativi (II, 3.6).

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PARTE II – CATEGORIE GENERALI

interessi omogenei (si pensi agli appartenenti ad una categoria professionale, i cui interessi sono fatti valere attraverso l’azione del rispettivo ordine professionale, ovvero, più in generale, al ruolo legislativamente riconosciuto alle rappresentanze sindacali per la tutela del lavoratore dipendente, anche con riguardo, ad es., alla sua salute ed integrità fisica: art. 9 L. 20.5.1970, n. 300, c.d. statuto dei lavoratori) 54. Più problematica risulta la tutela degli interessi del secondo genere, identificati come interessi diffusi. Si tratta di interessi che, in genere, si ricollegano a valori di rango costituzionale, come quelli relativi alla salvaguardia della salute e dell’ambiente (alla luce degli artt. 92 e 32 Cost.), ovvero alla protezione dei consumatori (nella prospettiva dell’art. 412 Cost., che impone all’iniziativa economica di non “recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”) 55. Al di là della tutela che simili interessi trovano, sul piano generale, con la repressione penale dei comportamenti posti in essere in spregio ad essi, nonché, sul piano individuale, quando i comportamenti stessi possano reputarsi lesivi di specifiche situazioni giuridiche soggettive (in tal caso essendo l’interessato ammesso ad azionare gli ordinari strumenti previsti per la tutela dei suoi diritti), con crescente frequenza la via seguita dall’ordinamento consiste nella selezione (e nella promozione) di enti, ai quali riconoscere il potere di agire (o almeno di intervenire nei giudizi) a difesa, appunto, degli interessi diffusi 56. Così, in tema di ambiente, il D.Lgs. 3.4.2006, n. 152, pur abrogando la precedente disciplina del danno ambientale (ora regolamentata nei relativi artt. 298 bis ss.: X, 2.1), ha fatto salvo proprio il co. 5 dell’art. 18 L. 8.7.1986, n. 349, che consente alle associazioni competenti in materia l’intervento nei giudizi per danno ambientale, oltre alla possibilità di ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi. Nel campo della tutela dei consumatori, gli artt. 139 e 140 D.Lgs. 206/2005 (codice del consumo), ora abrogati dalla L. 12.4.2019, n. 31 (“Disposizioni in materia di azione di classe”), conferivano alle associazioni dei consumatori (individuate ai sensi dell’art. 137) la legittimazione ad agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti, quali risultanti essenzialmente dalla enunciazione dei “diritti dei consumatori” di cui all’art. 2. È anche da ricordare come un ulteriore strumento di tutela – utilizzato largamente altrove e di cui si è a lungo discusso circa l’introduzione anche nel nostro ordinamento – sia costituito dalla previsione di azioni collettive (o di categoria: class actions, secondo la terminologia in uso negli ordinamenti che le conoscono), consistenti nel consentire (se54 È la stessa attività sindacale ad essere considerata meritevole di tutela, in particolare attraverso il riconoscimento del potere di azione agli organismi sindacali: art. 28 L. 300/1970, concernente la repressione della condotta antisindacale. 55 La “protezione dei consumatori” è contemplata, ad esito della costante attenzione prestata a tale materia in ambito comunitario, dall’art. 38 Carta dir. fond. U.E., che garantisce ad essi “un livello elevato di protezione” (l’art. 35 assicura un “livello elevato di protezione della salute umana” e l’art. 37 un “livello elevato di tutela dell’ambiente”). Con D.Lgs. 6.9.2005, n. 206, nell’intento di riunire e riordinare i diversi provvedimenti a protezione dei consumatori, è stato emanato il “codice del consumo”. 56 In relazione alla sempre maggiore valorizzazione della funzione degli enti esponenziali di interessi di carattere superindividuale, si tenga presente come l’art. 91 c.p.p. consenta, in via del tutto generale, a enti e associazioni senza scopo di lucro aventi “finalità di tutela degli interessi lesi dal reato” la possibilità di esercitare nel procedimento penale “i diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa dal reato”.

CAP. 3 – RAPPORTO GIURIDICO E SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE

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condo particolari e non ovunque identiche modalità) a soggetti singoli o ad enti di prendere l’iniziativa contro i comportamenti lesivi di interessi diffusi, in rappresentanza di tutti i soggetti interessati, per ottenere la relativa inibizione (oltre che forme particolari di risarcimento). Solo con la L. 24.12.2007, n. 244, si è avuta la definizione di uno strumento del genere (azione collettiva risarcitoria), la cui disciplina, introdotta nel codice del consumo (art. 140 bis), è stata, poi, radicalmente innovata dalla L. 23.7.2009, n. 99, con la previsione di una azione di classe, diretta a tutelare (nel testo successivamente risultante ai sensi del D.L. 24.1.2012, n. 1, conv. in L. 24.3.2012, n. 27) “i diritti individuali omogenei dei consumatori e degli utenti” (nonché “gli interessi collettivi”), potendo agire, “a tal fine ciascun componente della classe, anche mediante associazioni cui dà mandato o comitati cui partecipa”. Infine, a conclusione di una lunga e controversa gestazione, è intervenuta, nella prospettiva della generalizzazione della portata dello strumento in questione, la ricordata L. 31/2019, la quale ha abrogato, oltre agli art. 139 e 140 del codice del consumo, anche il relativo art. 140 bis, introducendo un titolo VIII bis del libro IV del codice di procedura civile (intitolato “Dei procedimenti collettivi”: artt. 840 bis ss.), appunto finalizzato a tutelare, in via del tutto generale (ai sensi dell’art. 840 bis), “i diritti individuali omogenei”, attraverso la disciplina dell’“azione di classe” da parte di “un’organizzazione o un’associazione senza scopo di lucro i cui obiettivi statutari comprendano la tutela dei predetti diritti … ferma la legittimazione di ciascun componente della classe” (e contestualmente prevedendosi, pure in termini generali, un’“azione inibitoria collettiva”: art. 840 sexiesdecies) (III, 1.7) 57.

11. Onere. – La legge utilizza, talvolta, la medesima terminologia impiegata per indicare la posizione del soggetto passivo del rapporto – definendo, cioè, doverosi taluni comportamenti – anche per alludere ad una diversa situazione: quella nella quale un soggetto sia tenuto ad un certo comportamento, non al fine di realizzare un interesse altrui (come tipicamente accade nell’obbligo), ma in vista della realizzazione di un interesse proprio. Il sacrificio di un proprio interesse (in ciò si risolve, in sostanza, la necessità di tenere il comportamento prescritto dall’ordinamento), insomma, è imposto per soddisfarne un altro, sempre proprio. Tale figura viene correntemente qualificata come onere. Al di là della non sempre facile individuazione delle relative singole ipotesi, data l’accennata ambiguità del tenore letterale delle norme che le contemplano, alquanto incerta risulta, addirittura, la medesima collocazione dell’onere tra le situazioni giuridiche soggettive passive o tra quelle attive. Il comportamento stesso, infatti, è libero (dato che la sua inosservanza non comporta, a carico del soggetto, il sorgere di alcuna responsabilità nei confronti di altri, secondo quanto accade, invece, in caso di inosservanza di un obbligo), ma al contempo necessitato (ove il soggetto intenda realizzare il suo interesse al conseguimento di una certa situazione giuridica di carattere favorevole) 58. 57 Circa “la compatibilità del risarcimento del danno non patrimoniale con il ricorso alle forme processuali dell’azione di classe” (ovviamente dove ne “siano posti rigorosamente in risalto i tratti in qualche modo comuni a tutti i membri della classe”), v. Cass. 31-5-2019, n. 14886. 58 Sinteticamente, Cass. 13-10-2015, n. 20560, chiarisce che “la figura dell’onere (c.d. dovere libero) si concreta in un comportamento necessitato per legge, imposto per la realizzazione di un interesse proprio dello stesso titolare”. Da non confondere con la figura di situazione giuridica soggettiva in questione, è l’onere di-

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Esempio corrente, in proposito, è quello dell’onere della prova. Ai sensi dell’art. 26971, “chi vuol fare valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”. L’attività (probatoria) – anche se la legge usa il termine “deve” – non è oggetto di un obbligo (in quanto, se non la esplica, il soggetto non incorre in alcuna responsabilità), ma è per lui necessitata, nel senso che, in mancanza, non riuscirà a far valere il suo diritto in giudizio (e vederlo conseguentemente tutelato) 59.

sciplinato in materia di liberalità (testamento: artt. 647 e 648; donazione: artt. 793 e 794), definito anche modus, il quale si ritiene rientrare, invece, nella categoria dell’obbligo (XII, 2.13). 59 Analogamente, l’art. 2643 prevede che taluni atti “si devono rendere pubblici col mezzo della trascrizione”: si tratta anche qui di un onere, dato che, in mancanza di trascrizione, la sola conseguenza è che il soggetto non potrà godere dei relativi effetti, a lui favorevoli, stabiliti dall’art. 2644. Talvolta si individuano ipotesi di oneri anche quando il legislatore parla di obblighi, come nel caso dell’art. 1502, a proposito degli “obblighi del riscattante”, in tema di vendita con patto di riscatto. Alla figura dell’onere tende ad essere ricondotta pure la frequentemente prevista necessità di attivazione del soggetto per evitare decadenze (come nel caso della denunzia dei vizi della cosa per potersi avvalere della relativa garanzia nella vendita: 14951).

CAPITOLO 4

I FATTI GIURIDICI. EFFETTI, VICENDE E CIRCOLAZIONE Sommario: 1. Fenomenologia materiale e rilevanza giuridica. – A) TIPOLOGIA DEI FENOMENI GIURIDICI. – 2. Fatti ed effetti giuridici (la causalità complessa). – 3. Struttura dei fatti giuridici. – 4. Rilevanza dei fatti giuridici. Fatti giuridici in senso stretto. – 5. Segue. Atti giuridici (tipologie e caratteri). – 6. Attività. – 7. Titoli di acquisto e vicende giuridiche. La circolazione giuridica. – B) INFLUENZA DEL TEMPO. (PRESCRIZIONE E DECADENZA). – 8. Funzione del tempo. Computo dei termini. – 9. La prescrizione. – 10. Segue. Sospensione e interruzione. – 11. Le prescrizioni presuntive. – 12. La decadenza. – C) INFLUENZA DELLO SPAZIO. – 13. La correlazione territoriale. – 14. Individuazione del diritto applicabile.

1. Fenomenologia materiale e rilevanza giuridica. – Ogni fatto materiale (naturale o umano) è preso in considerazione dall’ordinamento in quanto incida su interessi rilevanti giuridicamente (I, 1.3). Peraltro ogni struttura sociale produce il suo diritto, sicché il mutare della realtà sociale ed economica, con il connesso evolvere della tavola di valori che innerva l’ordinamento, fa sì che un certo fatto possa subire nel tempo una modificazione di giudizio e dunque di rilevanza giuridica. Così fatti considerati indifferenti per l’ordinamento in una epoca storica possono diventare, a seguito dell’evoluzione tecnologica, fonte di interesse (si pensi al progressivo utilizzo che hanno ricevuto l’atmosfera, come strumento di attraversamento delle frequenze sonore, o le radiazioni solari quali fonti alternative di energia). La emersione e il progressivo evolvere della telematica stanno facendo emergere nuovi campi di incidenza del diritto, vuoi per le operazioni economiche realizzate (si pensi al commercio elettronico), vuoi per la tutela del diritto d’autore (si pensi alla sottrazione di dati protetti), vuoi per la tutela della persona (si pensi alle diffamazioni compiute e alla protezione dei dati personali in rete), vuoi anche per la diffusa profilazione delle persone: rispetto a tutti tali aspetti si pone il problema della tutela giudica dell’utente. Analogamente, è possibile che comportamenti considerati meritevoli in un’epoca storica vengano successivamente ritenuti difformi dall’ordinamento (si pensi ai comportamenti ispirati a modelli di organizzazione delle relazioni familiari fondati sulla supremazia del marito come capofamiglia, un tempo considerati normali e dunque leciti e poi vietati in ragione del principio di uguaglianza (artt. 2, 3 e 29 Cost. e 143 c.c.); si pensi anche ai prestiti di danaro con interessi convenzionali elevati, di recente considerati usurari e causa di reato (ex art. 18152). All’opposto, fatti considerati vietati, sono successivamente ritenuti ammessi: si pensi alla procreazione medicalmente assistita, che tende pro-

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gressivamente ad ampliare le maglie della liceità (prima con la L. 40/2014, poi con le sentenze additive della Corte costituzionale).

A) TIPOLOGIA DEI FENOMENI GIURIDICI 2. Fatti ed effetti giuridici (la causalità complessa). – Nel quadro delineato si snodano le varie categorie di fenomeni giuridici. Manca una disciplina generale dei fatti e degli effetti giuridici: trattasi di categorie logico-giuridiche ricostruite sul sistema, in grado di comprendere e ordinare le varie figure in funzione della normativa applicabile. a) I fatti giuridici sono gli accadimenti della realtà materiale (naturale o umana) rilevanti per l’ordinamento giuridico. Non ogni fatto materiale è anche giuridicamente rilevante: perché ciò avvenga è necessario che sia preso in considerazione dall’ordinamento come ragione di produzione di un effetto giuridico. Quando il fatto materiale è considerato dall’ordinamento, è raffigurato come “fattispecie” astratta disciplinata; talvolta l’ordinamento prende in considerazione una pluralità di fatti, unitariamente considerati, cui attribuisce rilevanza giuridica, dotandoli di effetti giuridici connessi. Va tenuto distinto il fatto dall’eventuale documento che lo rappresenta, che è aggiuntivo rispetto al fatto che ne sta a fondamento: ad es. l’atto di stato civile rispetto al matrimonio o alla nascita o alla morte; il testo scritto rispetto al contratto stipulato: un documento può contenere più fatti giuridici; come un fatto giuridico può risultare da più documenti: tipicamente un contratto tra persone lontane, dove la proposta e l’accettazione sono contenute in documenti diversi ma che concorrono alla formazione dell’unitario fatto giuridico del contratto (art. 1326). Come si vedrà, il documento rappresenta una prova tipica, precostituita, di quanto in esso rappresentato; la data vale a collocarlo nel tempo e nello spazio (III, 2.2). Si vedrà peraltro come, talvolta, tali prove esprimano documentazioni vincolate di volontà negoziale, rilevando come forma a pena di nullità (forma ad substantiam) (VIII, 4.2) o come mezzo di prova (forma ad probationem) (VIII, 4.3). Si è già detto del funzionamento del c.d. sillogismo giuridico, per cui la riconduzione della fattispecie materiale alla fattispecie astratta determina l’applicazione del diritto (I, 3.2). Tale tecnica è stata profondamente scossa dalla formazione dei diritti fondamentali quali principi generali del diritto, ad opera della Carta costituzionale, dei Trattati dell’Unione europea e delle Convenzioni internazionali, atteggiandosi i principi generali quali fonti primarie del diritto (II, 7.1), che si impongono alle regole organizzative delle fattispecie, orientando la valutazione dei fenomeni giuridici secondo un bilanciamento dei valori, quali periodicamente evolvono e si impongono (c.d. sistema multilivello). Così le fattispecie, pure iscritte nell’ordinamento, sono rigenerate dai principi generali che ne orientano l’applicazione secondo criteri di ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza. Peraltro la fluidità delle vicende economiche, in un mercato dinamico e tendenzialmente globalizzato, mal si presta ad essere irretita in una previsione stabile e predeterminata di fattispecie. Quando si fa applicazione di valori e principi dell’ordinamento non si indulge a ideologie politiche o filosofiche, ma si fa applicazione del diritto positivo, nella sua sistematicità e vitalità, secondo la sua evoluzione storica. b) Gli effetti giuridici esprimono le conseguenze giuridiche della rilevanza assunta dal fatto materiale nell’ordinamento giuridico. I fatti non sono produttori materiali e naturalistici di effetti giuridici: alla produzione degli effetti concorrono più concause.

CAP. 4 – I FATTI GIURIDICI. EFFETTI, VICENDE E CIRCOLAZIONE

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Anzitutto la materialità del fatto come avvenimento naturale o umano che produce un evento, vuoi naturalistico vuoi personale. Rappresenta il prodotto della forza naturale e/o o il risultato della mente umana. Vi è poi la valutazione dell’evento come essenziale opera di interpretazione del fatto, che vale a comprendere le componenti dell’azione materiale e dell’evento e individuare gli interessi coinvolti. In tale opera si compie anche una selezione gerarchia degli interessi coinvolti. L’interpretazione del fatto svolge una funzione mediativa rispetto all’ordinamento: gli stessi fatti, osservati in epoche diverse, implicano differenti valutazioni in ragione della evoluzione dell’ordinamento e della vita sociale. In tal senso la valutazione dei fatti vale a corroborare il fatto materiale nell’esperienza, facendone emergere contesti e peculiarità, indirizzando la regolazione dell’ordinamento. Vi è infine la rilevanza giuridica che è l’esito della valutazione che ne compie l’ordinamento giuridico, quale risposta che l’ordinamento fornisce alla sollecitazione dei concreti fenomeni reali. Vi è una costante osmosi tra la valutazione del fatto e la rilevanza nell’ordinamento in quanto l’evoluzione storica dell’ordinamento conferisce ammodernate chiavi di lettura del fatto: col tempo può modificare la gerarchia degli interessi da tutelare con conseguente evoluzione della valutazione del fatto e della rilevanza giuridica: basti solo pensare all’affermazione dell’interesse del minore, diventando il best interest of the child principio informatore di valutazione delle relazioni familiari e di applicazione della normativa a tutela del fanciullo Il tradizionale dibattito tra causalità materiale o causalità legale degli effetti giuridici, a seconda che siano imputati al fatto materiale o all’ordinamento, va superato in una ricostruzione di causalità complessa che coinvolge sia la realtà materiale che quella giuridica attraverso l’opera mediativa della interpretazione del fatto e dell’ordinamento, che consente la intelligenza del fatto e la riconduzione del fatto all’ordinamento. Il fatto rileva in funzione degli accadimenti, dei contesti e degli interessi coinvolti, oltre che della condizione dei soggetti autori del fatto, tutti profili che orientano la rilevanza giuridica e quindi l’efficacia giuridica, secondo l’ordinamento storico operante (I, 3.13). Si realizza una normatività del fatto, nel senso che il fatto concreto indirizza la disciplina da applicare. La rilevanza giuridica del fatto materiale determina la produzione di effetti giuridici che, talvolta, coincidono con le conseguenze materiali, talaltra le sovrastano per essere più ampi o di minore portata (ad es. la morte della persona fisica comporta naturalisticamente la fine della persona, e così anche per l’ordinamento, con l’iscrizione della morte negli archivi di stato civile (artt. 10 e 71 D.P.R. 396/2000); ma l’ordinamento ricollega al fatto naturale della morte ulteriori effetti quali l’apertura della successione del defunto: art. 456). Non bisogna essere tratti in inganno da alcune formulazioni letterali: ad es., “fonti dell’obbligazione” sono il contratto, il fatto illecito o “ogni altro atto o fatto” idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico” (art. 1173); analogamente, con riguardo alle previsioni che il “contratto” produce effetti tra le parti (art. 1372) e che il “fatto illecito” produce l’obbligo di risarcimento del danno (art. 2043): non è la materialità del contratto o del fatto illecito, come tale, a produrre naturalisticamente effetti giuridici; è la rilevanza del fatto per l’ordinamento a determinare la determinazione di effetti giuridici (si vedrà come gli effetti giuridici del contratto, talvolta coincidono con quelli perseguiti dalle parti, talaltra li sovrastano attraverso la integrazione: art. 1374; analogamente l’obbligazione di risarcimento del danno conseguente al

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PARTE II – CATEGORIE GENERALI

fatto lesivo si atteggia diversamente in ragione della rilevanza che assumono nell’ordinamento la posizione dell’autore del danno e la circostanza del fatto dannoso: artt. 2047 ss.). È un periodare diffuso: sono anche previsti gli “effetti del possesso” (artt. 1148 ss.), quali effetti connessi dalla legge al potere di fatto sulla cosa con le caratteristiche previste dalla legge stessa; sono pure previsti gli effetti del matrimonio, quali diritti e doveri previsti dalla legge in funzione della relazione coniugale (artt. 143, 144, 160); significativamente, per l’unione civile non opera l’effetto del dovere di fedeltà per la diversa considerazione ordinamentale dell’unione civile (co. 11, L. 76/2016). Certo i privati, agendo nella realtà giuridica, perseguono effetti giuridici; ma è la rilevanza del fatto per l’ordinamento a dotare il fatto di effetti giuridici. All’attività giudiziaria spetta la delicata mediazione tra la verifica del fatto materiale e la ricerca degli effetti giuridici, secondo un percorso che si diparte dall’interpretazione e accertamento del fatto materiale per poi spingersi alla qualificazione giuridica dello stesso e dunque alla individuazione degli effetti che sono attribuiti dall’ordinamento giuridico 1. L’effetto consiste nella modificazione della realtà giuridica (ovvero della realtà materiale giuridicamente rilevante). Più spesso l’effetto è coevo al fatto (efficacia immediata): ad es., nei contratti di trasferimento della proprietà di cosa determinata o di altro diritto, la proprietà o il diritto si trasmettono per effetto e al momento del consenso (art. 1376). Altre volte la produzione dell’effetto avviene in un momento diverso, che può essere successivo (efficacia differita) (ad es. le parti differiscono la produzione dell’effetto di un contratto ad un tempo successivo), o anche antecedente (efficacia retroattiva) (ad es., l’eredità si acquista con l’accettazione, ma l’effetto dell’accettazione risale all’apertura della successione e cioè al momento della morte: art. 459). Più specificamente, l’effetto giuridico determina vicende di situazioni giuridiche soggettive: con la produzione dell’effetto, si realizzano (e permangono) nella realtà giuridica le situazioni soggettive prodotte dagli effetti giuridici. Si vedrà come le vicende effettuali si atteggiano come costitutive, estintive o modificative in ragione della dinamica delle situazioni giuridiche (II, 4.7). Dallo stesso fatto possono derivare più effetti: ad es., dal contratto di vendita derivano sia l’effetto traslativo del diritto sul bene che l’effetto costitutivo della obbligazione di pagamento del prezzo (artt. 1470 ss.). Non mancano peraltro vicende di diverso tenore, come in particolare l’accertamento di una situazione giuridicamente dubbia: in tal caso l’effetto giuridico sta nella produzione, nella realtà giuridica, di una certezza in luogo della originaria ambiguità. Sul modo di operare delle vicende giuridiche si parlerà in seguito (par. 7) è più diffusamente con riguardo al rapporto obbligatorio, rispetto al quale maggiormente operano e hanno diffusa disciplina (VII, 1.1, 2 e 3). Si distinguono due fondamentali categorie di effetti giuridici: effetti necessari (o inderogabili), nel senso che provengono dall’ordinamento e non è consentito ai privati derogarvi; effetti naturali (o dispositivi), nel senso che, pur provenendo dall’ordinamento, è consentito derogarvi (la formula legislativa è di regola espressa con un inciso del genere “salvo patto o uso contrario”).   1 È compito del giudice individuare gli effetti giuridici derivanti dai fatti dedotti in causa, sicché la enunciazione che la parte faccia delle ragioni di diritto sulle quali la pretesa si fonda può valere a circoscrivere la cognizione del giudice nella misura in cui essa stia a significare che la parte ha inteso trarre dai fatti esposti soltanto quelle conseguenze (Cass. 27-10-2000, n. 14142; Cass. 13-12-1996, n. 11157).

CAP. 4 – I FATTI GIURIDICI. EFFETTI, VICENDE E CIRCOLAZIONE

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3. Struttura dei fatti giuridici. – La peculiarità di ogni fatto concreto non consente una ferrea articolazione dei fatti giuridici. Possono solo delinearsi generali categorie logiche di rappresentazione, che è possibile ricondurre a due fondamentali traiettorie: la struttura del fatto, cioè la composizione del fenomeno (di cui si parla nel presente paragrafo) e la rilevanza giuridica del fatto, cioè l’attitudine alla produzione di effetti (di cui si parla nei successivi paragrafi). La struttura del fatto risente del modello di formazione. Sono istantanei quando si esauriscono nell’unità di tempo; sono di durata quando si protraggono nel tempo; e ancora: sono positivi quando si realizza un accadimento, come ad es. il comportamento attivo del soggetto, che compie un’azione; sono negativi quando rileva giuridicamente il non verificarsi di un accadimento, come ad es. il contegno di astensione o comunque inerte di un soggetto. La struttura del fatto connota la fattispecie giuridicamente rilevante, che si atteggia come semplice, complessa o a formazione progressiva. La fattispecie semplice si esaurisce in un unico accadimento: ad es. la nascita, ai fini dell’acquisto della capacità giuridica (art. 1); la morte, ai fini dell’apertura della successione (art. 456). La fattispecie complessa comprende più fatti, che rilevano come elementi costitutivi dell’unitaria fattispecie produttiva di effetti giuridici; ad es., per realizzarsi l’acquisto per usucapione decennale, devono concorrere: il possesso (continuo, pubblico e pacifico), l’atto di acquisto (astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà), la buona fede dell’acquirente, la trascrizione dell’atto e il decorso di dieci anni dalla trascrizione (art. 1159). La fattispecie a formazione progressiva è una variante della fattispecie complessa, quando i vari fatti sono previsti dall’ordinamento in sequenza cronologica ma logicamente coordinati (c.d. procedimento): la sequenza degli atti e fatti giuridici, provenienti da uno o più soggetti, è finalizzata alla validità ed efficacia dell’atto terminale del procedimento. È una ritualità propria dell’azione della pubblica amministrazione, in funzione dell’atto terminale del provvedimento, all’esito del procedimento. Come nel diritto amministrativo, anche nel diritto privato può strutturarsi una procedimentalità, con progressiva verificazione temporale di fatti elementari costituenti la fattispecie; è spesso accordata dall’ordinamento una protezione dell’aspettativa rispetto al conseguimento del risultato finale. Ad es., nel contratto condizionato, la produzione dell’efficacia contrattuale è subordinata al prodursi dell’evento futuro e incerto; ma intanto alcuni effetti si producono in capo alle parti (VIII, 3.21). 4. Rilevanza dei fatti giuridici. Fatti giuridici in senso stretto. – La rilevanza dei fatti giuridici esprime la considerazione dell’ordinamento per l’accadimento materiale (naturale o umano). Connessa è la efficacia dei fatti giuridici, che indica la situazione effettuale apprestata dall’ordinamento, conseguente alla valutazione di rilevanza. Rimangono fuori dell’area dei fatti giuridici i fatti che si connettono a interessi di mero fatto (futili o comunque indifferenti) ai quali la società (e dunque l’ordinamento) non conferisce alcuna rilevanza (né di approvazione né di contrasto). Nella qualificazione dei fatti giuridici assume una fondamentale importanza verificare se l’ordinamento presti tutela all’accadimento come tale oppure anche alla parteci-

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PARTE II – CATEGORIE GENERALI

pazione umana al fatto. Il criterio di rilevanza accordato alla partecipazione umana alla formazione del fatto dà luogo ad una fondamentale distinzione dei fatti giuridici, che è possibile ricondurre alla dicotomia di “fatti giuridici in senso stretto” e “atti giuridici”. Per fatti giuridici in senso stretto si intendono i fatti materiali (naturali o umani) rispetto ai quali l’ordinamento prescinde da ogni verifica di carattere soggettivo per la produzione dell’effetto giuridico. Il fatto come tale (e perciò l’interesse immediato attuato) assume importanza per l’ordinamento, prescindendosi dalla circostanza che esso provenga o meno dall’uomo e che sia o meno volontario. Sono fatti in senso stretto, innanzi tutto, i meri accadimenti naturali (ad es., gli spostamenti di terreni, conseguenti ad alluvione e avulsione, producono l’acquisto della proprietà in favore del proprietario del fondo cui la parte di fondo si è unita: artt. 941 e 944). Sono anche fatti in senso stretto i fatti che ineriscono all’uomo ma rispetto ai quali rileva il mero dato fenomenico dell’accadimento in sé: anzitutto nascita o morte, ma anche altri fatti: ad es. le opere fatte sopra o sotto il suolo comportano l’acquisto della relativa proprietà per accessione (art. 934); la costruzione (di un fabbricato come di una nave o di un aeromobile) comporta la specificazione e dunque l’acquisto della proprietà della res nova da parte dello specificatore (art. 940). In tutte tali ipotesi la capacità di agire del soggetto e la volontarietà e consapevolezza del fatto, quand’anche esistenti, sono irrilevanti.

5. Segue. Atti giuridici (tipologie e caratteri). – Sono atti giuridici i fatti umani compiuti consapevolmente da persona capace cui l’ordinamento ricollega effetti giuridici. A differenza dei fatti giuridici in senso stretto rileva lo stato soggettivo degli autori dell’atto e precisamente la volontarietà e la consapevolezza del comportamento tenuto. Non sono dunque semplicemente emanazione dell’uomo bensì espressione della individualità umana realizzatasi concretamente 2. Con la conseguenza che rilevano giuridicamente la capacità di agire del soggetto e la volontarietà e consapevolezza del fatto. È possibile distinguere gli atti giuridici in varie classi in ragione di specifici criteri: la tipologia di incidenza umana; la modalità di esplicazione; la valutazione che ne compie l’ordinamento. È possibile delineare tre tipologie di atti giuridici in funzione di specifici criteri, quali la incidenza umana; la esplicazione dell’atto; la valutazione ordinamentale. a) In ragione della incidenza umana nella realizzazione degli effetti giuridici si svolge una fondamentale distinzione tra atti giuridici in senso stretto e negozi giuridici. Il termine “atti” è utilizzato in modo generico nell’ordinamento, riferendosi talvolta agli atti in senso stretto, talaltra ai negozi giuridici, talaltra ad entrambe le categorie, anche per l’assenza di una testuale previsione dei negozi giuridici (come si vedrà). Gli atti giuridici in senso stretto (o meri atti giuridici), più spesso delineati solo come “atti giuridici”, sono i fatti dell’uomo per i quali assume rilevanza la mera volontarietà e consapevolezza della materialità dell’atto. L’ordinamento cioè considera gli interessi attuati da tali atti degni di tutela, sol che il fatto sia compiuto con volontarietà e consapevolezza, indipendentemente dalla previsione degli effetti e dalla volontà di conseguirli   2 Efficace è la distinzione nel diritto canonico tra actus hominis ed actus humanus. Il primo, pure essendo connesso alla natura umana, è riconducibile al genere dei corpi animati in quanto irragionevole e quindi non controllabile: avviene indipendentemente dalla volontà dell’uomo e perciò rileva come fatto giuridico in senso stretto. Il secondo indica l’atto assunto con deliberazione: è riferito alla sua ragione e alla sua volontà libera (actus voluntatis) e perciò rileva come atto giuridico.

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da parte degli autori dell’atto; anzi molto spesso gli effetti intervengono contro la volontà degli autori dell’atto. In sostanza la volontà è connessa alla struttura e non alla funzione dell’atto e cioè al risultato perseguito: la produzione degli effetti prescinde, non solo dalla volontà di conseguirli, ma anche dalla conoscenza degli stessi. È sufficiente la capacità naturale di intendere e volere. Si pensi alla richiesta di adempimento fatta per iscritto dal creditore al debitore (art. 1229): tale atto comporta per legge la costituzione in mora del debitore, con tutti gli effetti previsti dalla legge (risarcimento del danno, assunzione del rischio per la sopravvenuta impossibilità della prestazione di consegna: artt. 1218 e 1221), indipendentemente dal fatto che il creditore voglia o anche solo conosca gli effetti della richiesta di adempimento (VII, 4.2). Si pensi ancora all’atto di adempimento del debitore: la sussistenza di un obbligo ad adempiere comporta per legge l’estinzione dell’obbligazione, anche senza la sussistenza di un animus solvendi (artt. 1176 ss.) (VII, 3.2); rileva il campo dei c.d. atti dovuti che alcuni autori considerano come “fatti in senso stretto”. Essendo gli effetti giuridici preordinati dall’ordinamento indipendentemente da un intento degli autori, gli atti in senso stretto sono per necessità tipici (cioè tassativamente previsti dall’ordinamento), sia nella struttura e quindi nella formazione, che nel contenuto e dunque nel risultato attuato: il fatto materiale, come tale, è presupposto degli effetti disposti dall’ordinamento. Manca una disciplina generale degli atti in senso stretto, essendo i correlativi effetti connessi ai singoli schemi di atti approntati dalla legge. Agli stessi non si applica neppure l’art. 1324 se non per analogia, essendo la norma rivolta ad estendere le norme sul contratto agli atti negoziali tra vivi a contenuto patrimoniale. Una particolare fisionomia assumono le c.d. dichiarazioni di scienza; sono atti che hanno la unica funzione di affermare la verità o formulare la ricognizione intorno a fatti avvenuti: si pensi alla confessione (art. 2730) e alle registrazioni nelle scritture contabili (art. 2709). I negozi giuridici 3 sono atti giuridici esplicativi della “autonomia privata”. Strutturalmente sono manifestazioni di volontà rivolte ad uno scopo pratico tutelato dall’ordinamento; rilevano giuridicamente, non solo la volontarietà e consapevolezza del comportamento, ma anche la volontarietà degli effetti e cioè del risultato perseguito (tipico esempio è il contratto: art. 1321): è proprio questo secondo profilo del perseguimento di un risultato a segnarne la caratterizzazione all’interno della generale categoria degli atti giuridici. Funzionalmente sono autoregolamenti di interessi, cui l’ordinamento connette effetti giuridici tendenzialmente conformi agli scopi perseguiti dai privati (previa valutazione di meritevolezza e liceità dell’assetto di interessi realizzato) (saranno approfonditi trattando dell’autonomia privata: II, 5). b) In ragione della esplicazione dell’atto, gli atti giuridici si presentano secondo i modelli della dichiarazione e del contegno. – Quando sono contrassegnati dalla dichiarazione (atti dichiarativi), gli atti sono orientati ad esprimere all’esterno, ed effettivamente esprimono, a destinatari (specifici o alla generalità) l’intento volitivo, mediante lo scritto, la parola o altri segnali. Alcune volte gli atti dichiarativi comunicano alcuni fatti giuridici, come ad es. la notificazione di una sentenza, la comunicazione di convocazione di un’assemblea, ovvero la comunicazione di un   3 Il termine “negozio” deriva dal latino negotium, composto di nec e otium. Però l’otium romano non indicava inerzia ma solo riposo dagli affari e dal lavoro, per dedicarsi alle espressioni dello spirito.

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contegno da cui derivano effetti giuridici (es. costituzione in mora ex art. 1219). Altre volte gli atti dichiarativi manifestano una volontà di perseguire uno scopo, come nella formazione dei negozi giuridici (es. proposta di contratto): delle dichiarazioni di volontà negoziale si parlerà diffusamente nel prossimo capitolo trattando dell’autonomia privata. Per riferirsi la dichiarazione al linguaggio, le modalità dichiarative mutano con la modificazione del linguaggio; col tempo emergono nuovi modelli linguistici che gradualmente depongono altri precedentemente in uso. Gli atti dichiarativi si distinguono a loro volta in recettizi e non recettizi. Sono atti recettizi gli atti dichiarativi rivolti a terzi che producono effetto nel momento in cui pervengono a conoscenza del destinatario. Sono dunque atti affidati alla comunicazione ad uno o più destinatari, assumendo efficacia in ragione (e quindi a seguito) di tale comunicazione (es. la disdetta da un rapporto locativo, al fine di impedire il rinnovo del contratto in corso: art. 1596) 4. Opera nel nostro ordinamento il principio della cognizione (e non della recezione), temperato da una presunzione di conoscenza fissata dall’art. 1334, per cui “la proposta, l’accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta a una determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia”: a fronte dell’arrivo della comunicazione all’indirizzo del destinatario, spetta al destinatario fornire la prova della impossibilità di prenderne conoscenza. Il rifiuto del destinatario di ricevere un atto recettizio non esclude che la comunicazione debba ritenersi avvenuta e produca i relativi effetti. Dall’impianto dell’art. 1334 che, sotto la rubrica di “efficacia degli atti unilaterali” regola gli atti recettizi, si ricava il principio che, di regola, gli atti unilaterali sono recettizi. Sono atti non recettizi quelli che non sono destinati a terzi e pertanto producono effetto in virtù della mera redazione; peraltro l’efficacia dell’atto può essere subordinata ad eventi futuri, come ad es. il testamento rispetto all’evento morte (art. 587). – Quando sono contrassegnati dal contegno (atti attuosi), l’atto, pur non contenendo una compiuta determinazione volitiva, presenta indici della stessa dai quali è possibile ricostruirla: es. l’accettazione tacita dell’eredità desunta dal compimento di atti che il chiamato all’eredità non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede (art. 476). A volte è la legge a fare derivare alcuni effetti da specifici comportamenti: es. c’è attribuzione legale dell’eredità a seguito di vendita, donazione o cessione dei diritti successori che il chiamato compie in favore di estranei (art. 477). Una specifica categoria è quella dei c.d. negozi di attuazione, nel senso che l’atto rileva giuridicamente, ad un tempo, come espressivo di intento e come esecutivo; nel suo stesso svolgersi attua la modificazione del mondo esterno (es. l’occupazione di una cosa mobile abbandonata: art. 923): come si vedrà, è una categoria in continua crescita con l’intensificarsi dell’automazione indotta dalle ricerche tecnologiche.   4

Quando l’atto deve essere comunicato entro un termine preciso ed è utilizzato un procedimento notificatorio che impegna un ufficio per la notificazione dell’atto, vale il principio della scissione degli effetti della notificazione tra notificante e destinatario, per cui l’atto si considera notificato per il soggetto notificante al momento della consegna del plico all’ufficiale giudiziario e per il destinatario al momento della consegna al destinatario o in cui ne abbia legale conoscenza (art. 1493 c.p.c.). Il principio è esteso alle comunicazioni a mezzo posta, anche dell’Amministrazione finanziaria (Cass. 21-10-2014, n. 22320).

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c) In relazione alla valutazione, vale la distinzione tra atti leciti e atti illeciti, a seconda della conformità o meno all’ordinamento giuridico. Gli atti leciti sono atti voluti dall’agente e conformi all’ordinamento giuridico, ai quali l’ordinamento riconduce effetti giuridici prefissati (se atti in senso stretto) ovvero tendenzialmente conformi a quelli perseguiti dalle parti (se negozi giuridici). Gli atti illeciti sono atti contrari all’ordinamento giuridico. Possono riguardare la violazione di doveri generali comportamentali, che si riflettono sulla collettività (es. un atto di inquinamento); come possono integrare la violazione di obblighi particolari verso singoli soggetti, con lesione di interessi specifici protetti dall’ordinamento: in tale direzione, vuoi con l’inadempimento di un obbligo assunto (illecito da inadempimento), vuoi con la lesione di un una situazione soggettiva altrui, sia relativa alla persona (es. diffamazione o violenza) che riguardante cose (es. disturbo all’esercizio della proprietà). Anche se l’art. 2043 definisce genericamente gli atti illeciti come “fatti illeciti”, la rilevanza degli stessi è di regola connessa alla “imputabilità” del fatto dannoso all’autore del fatto: per l’art. 2046 non risponde delle conseguenze del fatto dannoso chi non aveva “la capacità d’intendere o di volere” al momento in cui lo ha commesso (la generale formulazione di “fatti illeciti” tende a includere anche le ipotesi di responsabilità oggettiva, quando cioè la esigenza di tutela del danneggiato comporta la riconduzione della responsabilità indipendentemente dallo stato soggettivo dell’agente: se ne parlerà in seguito X, 1.7). A parte le diverse tipologie di sanzioni apprestate dall’ordinamento, di ordine penale e amministrativo, la sanzione civilistica è sempre nell’obbligo di risarcimento del danno (di cui si dirà: X, 2.1). In ogni caso si produce un effetto giuridico (la sanzione) che addirittura è in contrasto con il fine perseguito dall’autore del fatto dannoso.

6. Attività. – Di sovente singoli fatti e atti giuridici rilevano per l’ordinamento, oltre che isolatamente considerati, anche nella connessione tra gli stessi. Si dà luogo in tali casi alla c.d. attività, che è la coordinazione di più fatti e atti preordinati e svolti verso il conseguimento di uno scopo unitario. I singoli atti, quand’anche possano rilevare autonomamente, sono altresì presi in considerazione dall’ordinamento come frammenti di una serie coordinata e teleologicamente orientata con una continuità e direzione ad uno scopo. È la unificazione dei singoli atti sul piano sociale per il raggiungimento di un risultato unitario a dare luogo ad una rilevanza di tale unificazione come peculiare fattispecie giuridica. L’ordinamento attribuisce all’insieme degli atti effetti ulteriori e diversi rispetto a quelli ricollegabili ai singoli atti, autonomamente considerati. Si pensi all’attività economica che contraddistingue l’esercizio dell’impresa: per l’art. 2082 “è imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi”; e per l’art. 2247, “con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili”; c’è un riferimento all’attività anche nella regolazione della concorrenza (es. art. 2596) (II, 6): i singoli fatti economici e giuridici rilevano come attività rivolta a uno scopo. Nella materia del lavoro, rileva la prestazione continuativa del lavoratore subordinato (art. 2094); analogamente per tutte le attività professionali, relativamente alla esecuzione del contratto d’opera (art. 2222). Spesso poi sono gli stessi privati a programmare un c.d. collegamento negoziale di più atti verso il perseguimento di uno scopo unitario (VIII, 3.12).

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7. Titoli di acquisto e vicende giuridiche. La circolazione giuridica. – Le relazioni socio-economiche comportano un costante mutamento nella titolarità e nella vita delle situazioni giuridiche e dei rapporti giuridici cui più spesso sono correlate le singole situazioni soggettive (II, 3.1). In tal senso rilevano i titoli di acquisto e le vicende giuridiche realizzate, che producono la circolazione giuridica. a) I titoli di acquisto sono i fatti giuridici posti a fondamento delle singole vicende acquisitive e dunque della circolazione dei diritti. È possibile distinguere i titoli di acquisto in due grandi categorie: a titolo derivativo e a titolo originario. Gli acquisti a titolo derivativo producono la vicenda acquisitiva del diritto in capo ad un soggetto in ragione di un rapporto giuridicamente rilevante con il precedente titolare, che è necessario presupposto. Esprimono il fenomeno successorio nella titolarità della situazione giuridica: un soggetto perde il diritto (come dante causa o alienante) a vantaggio di un soggetto che acquista il diritto (come acquirente o avente causa); si suole ricorrere alla qualificazione del soggetto che perde il diritto come dante causa (o alienante) e del soggetto che acquista il diritto come acquirente (o avente causa); si è anche soliti parlare, rispettivamente, di autore e di successore. Rispetto a tali acquisti vale il principio che nessuno può traferire maggiori diritti di quelli che ha (nemo plus iuris in alium trasferre potest quam ipse habet); cui si collega l’ulteriore criterio che regola l’acquisto a titolo derivativo, per cui il venir meno del diritto del dante causa fa venire meno anche il diritto di chi abbia da lui acquistato (resoluto iure dantis, resolvitur et ius accipentis): si vedrà peraltro delle deviazioni a tali criteri logici per l’esigenza di tutela della circolazione giuridica. Limiti all’acquisto possono essere imposti dalla legge con vincoli rispetto ad alcuni beni (es. art. 839) o per taluni soggetti (es. art. 1471) o dall’autonomia privata con limitazioni convenzionali del potere di disposizione (es. art. 1379) (v. VIII, 2.22). Gli acquisti possono intervenire per atto tra vivi (con scambio di dichiarazioni) o a causa di morte (per disposizione del testatore o della legge), per essere entrambi i trasferimenti connessi al rapporto con il precedente titolare. Entrambe le specie di successione possono avere un oggetto specifico o riguardare una pluralità di beni. Si ha successione a titolo universale quando si subentra nella complessiva posizione (attiva e passiva) di un soggetto; si ha successione a titolo particolare quando si subentra in una specifica situazione soggettiva (attiva o passiva). Per la successione a causa di morte si parla di eredità (acquisto a titolo universale) e di legato (acquisto a titolo particolare) (XII, 1.1). La rilevanza assunta dal debito nella moderna realtà economica come essenziale strumento di finanziamento dell’azione economica ne ha comportato una crescente circolazione per la sua attuazione; perciò la successione nel debito rileva, non solo con riguardo al fenomeno successorio nel rapporto obbligatorio, ma anche per la collocazione che se ne suole fare sul mercato con l’assunzione da parte di singoli o più spesso di soggetti finanziariamente specializzati; le vicende circolatorie vanno dunque riferite alla circolazione delle situazioni soggettive attive e passive, con le proprietà di ciascuna categoria e in ragione dei contesti di svolgimento (v. VII, 2.9). Gli acquisti a titolo derivativo, a loro volta, si distinguono in due sottocategorie (derivativo traslativo e derivativo costitutivo). Si ha acquisto a titolo derivativo-traslativo quando il diritto acquistato è lo stesso che era in capo al dante causa, che pertanto lo perde. C’è trasmissione del medesimo diritto, che si perde dall’un soggetto per acquistarsi dall’altro. Ad es. la vendita realizza la vicen-

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da traslativa del diritto dal venditore al compratore, producendo nel patrimonio del venditore la perdita e nel patrimonio del compratore l’acquisto. Si ha acquisto a titolo derivativo-costitutivo quando il diritto acquistato non esisteva nella realtà giuridica, per non sussistere come tale in capo all’alienante; però promana dal diritto dell’alienante, comportandone una restrizione: l’acquisto della nuova situazione avviene in forza del rapporto con il precedente titolare. Si pensi alla costituzione di un diritto di usufrutto: prima della costituzione non esisteva nella realtà giuridica un diritto di usufrutto; ma questo è costituito dal proprietario in ragione della proprietà piena che ha sul bene, sicché, a seguito della costituzione, esistono nella realtà giuridica ed insistono sul medesimo bene una proprietà dal contenuto più ridotto (c.d. nuda proprietà) in capo al dante causa e un diritto reale limitato di usufrutto in capo all’avente causa; si pensi anche alla costituzione dei diritti reali di garanzia di pegno e ipoteca. Gli acquisti a titolo originario realizzano l’acquisto di un diritto nuovo, indipendentemente da un rapporto con l’originario titolare. L’acquisto avviene, talvolta, in assenza di un diritto di altro titolare su un bene (es. occupazione: art. 923), talaltra addirittura contro il precedente titolare che conseguentemente lo perde. L’usucapione, fondata sul possesso continuato, non violento e non clandestino, costituisce il modo più diffuso di acquisto a titolo originario della proprietà di beni immobili, di beni mobili e di universalità di beni mobili, come di diritti di godimento sugli stessi (artt. 1158 ss., 1160 e 1161) (VI, 5.7). b) Le vicende giuridiche sono i mutamenti delle situazioni giuridiche e dei rapporti (c.d. modificazioni dei diritti): esprimono la dinamica delle situazioni giuridiche, dalla nascita fino all’estinzione, determinando la sorte dei corrispondenti poteri e obblighi in capo ai singoli titolari. Si distinguono vicende costitutive, modificative e estintive. Le vicende costitutive segnano la nascita di situazioni giuridiche soggettive e dunque l’acquisto in capo ad un soggetto di un diritto che non esisteva o di cui non era titolare. Ad es., con il contratto di locazione, nasce in capo al locatore il diritto al corrispettivo del canone e l’obbligo di far godere il bene (art. 1571); a seguito del possesso continuato con alcune caratteristiche di un bene, il possessore acquista la proprietà per usucapione (artt. 1158 ss.). Le vicende estintive segnano la cessazione di situazioni giuridiche soggettive, nel senso della perdita della situazione soggettiva per il titolare: la situazione (prima esistente) in capo ad un soggetto viene meno. L’estinzione può realizzarsi a seguito del soddisfacimento del diritto (es. l’adempimento dell’obbligazione produce il soddisfacimento del creditore e quindi l’estinzione del rapporto obbligatorio ex artt. 1176 ss.); come senza soddisfacimento (es. impossibilità sopravvenuta della prestazione ex art. 1256); analogamente gli atti abdicativi, tra i quali la remissione del debito (art. 1236). Si può anche dare luogo alla sostituzione di rapporto, che si estingue, con costituzione di nuovo rapporto (es. novazione ex art. 1230). Le vicende modificative determinano il mutamento di una situazione giuridica, più spesso rispetto al soggetto, eccezionalmente con riguardo all’oggetto. Di regola il mutamento non incide sulla esistenza del rapporto, che continua a vivere. Bisogna verificare in concreto se si sia voluta (anche) una sostituzione del rapporto (con la estinzione dell’originario e costituzione di uno nuovo) ovvero valutare la coerenza della modificazione con la sostanza del rapporto, tale da non implicarne una sostituzione.

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La modificazione soggettiva produce il mutamento della titolarità della situazione giuridica, attiva o passiva, tecnicamente indicata come successione. Quando la perdita di un diritto per un soggetto si intreccia con l’acquisto per un altro soggetto (c.d. acquisto derivativo) si ha trasferimento della situazione soggettiva. La successione può essere volontaria (es. cessione volontaria del credito) o legale (es. per espropriazione e vendita coatta). Si vedrà, trattando delle obbligazioni, come sia più agevole la successione nel lato attivo (es. cessione del credito ex art. 1260), perché di regola è indifferente per il debitore il destinatario del pagamento; mentre più complessa è la successione nel lato passivo perché rileva per il creditore la persona del debitore (l’assunzione del debito altrui non può compiersi contro la volontà del creditore ex artt. 1268 ss.). Esistono anche situazioni soggettive indisponibili per la natura degli interessi coinvolti, che l’ordinamento intende preservare: si pensi al diritto di uso e di abitazione (art. 1024) e al diritto agli alimenti (art. 447). La modificazione oggettiva determina un mutamento nell’oggetto o nel contenuto del rapporto, in modo coerente con la sostanza del rapporto giuridico, che permane: ad es. la rinegoziazione nel periodo di pandemia per Covid 19, con la riduzione dell’ammontare del canone di locazione; la surrogazione reale, con subingresso del creditore nei diritti del debitore in dipendenza del fatto che ha causato l’impossibilità della prestazione (art. 1259); la costituzione di un vincolo di destinazione sul bene (art. 2645 ter). Come si è visto, è anche possibile dare luogo alla sostituzione del rapporto, con estinzione del rapporto originario e costituzione di un nuovo rapporto (es. novazione oggettiva ex art. 1230). c) La circolazione giuridica rappresenta la dinamica delle situazioni giuridiche intrecciando le singole vicende giuridiche con i titoli di acquisto. È essenziale meccanismo di coesione sociale per realizzare lo spostamento tra gli uomini dei beni, consentendo la utilizzazione da parte di più soggetti (in modo successivo o anche concorrente), allo scopo di soddisfare un bisogno o esplicare un’attività economica. La tutela della circolazione giuridica è anche esigenza fondamentale della economia di mercato perché tende ad assicurare la collocazione dei prodotti in modo veloce e sicuro. Una tutela privilegiata dei diritti soggettivi e segnatamente della proprietà osserva il mutamento giuridico nella prospettiva del titolare, perché la modificazione sia espressiva della volontà del titolare (come era per il cod. civ. del 1865). Una tutela privilegiata della produzione valuta il mutamento giuridico nella prospettiva dell’acquirente, perché resti protetto l’affidamento legittimamente riposto nel mutamento e specificamente nell’acquisto compiuto (è il sistema accolto dal cod. civ. del 1942) (v. quanto si dirà sull’affidamento: II, 7.4) e in tema di pubblicità (XIV, 2.17). Gli ind ici di circolazione sono i segnali della circolazione giuridica, che rendono conoscibili le vicende giuridiche. Sono apprestati dall’ordinamento al fine di risolvere i conflitti tra situazioni giuridiche incompatibili. Il più diffuso indice di circolazione è rappresentato dalla pubblicità. Si parlerà in seguito ampiamente del ruolo che assume la pubblicità, degli atti soggetti a pubblicità, della efficacia e delle modalità di esecuzione della stessa (XIV, 1.2). All’uopo sono predisposte strutture pubbliche depositarie di pubblici registri dove è possibile scritturare e visionare i dati di cui si vuole assicurare la notorietà (es. registri di stato civile, registri immobiliari, registri dei mobili registrati, registro delle imprese): è questa propriamente la c.d. pubblicità legale. L’esistenza di un apparato pubblicitario produce la c.d. cono-

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scenza legale dei dati ivi riportati perché si prescinde dal conseguimento della conoscenza effettiva. È ancora l’ordinamento a ricondurre al fatto della pubblicità specifici effetti giuridici, quali la mera conoscenza, la opponibilità ai terzi o addirittura la costituzione di diritti. Con riguardo alla circolazione degli immobili e dei mobili registrati, la trascrizione degli atti dispositivi vale a risolvere i conflitti tra più aventi causa dal medesimo autore titolare del diritto, prevalendo tra più acquirenti dal medesimo alienante quello che per primo ha trascritto il proprio atto di acquisto (artt. 2644 e 2684). Altro indice di circolazione è la consegna, che implica un’apprensione materiale della cosa. Ad es., se con diversi contratti una persona cede a più persone un diritto personale di godimento sulla stessa cosa (locazione o comodato), prevale tra i cessionari quello che per primo ha conseguito il godimento della cosa. Fondamentale indice di circolazione è infine il possesso che implica un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale. Si vedrà come il possesso rappresenti il più alto grado di manifestazione dell’apparenza di titolarità del diritto. Con riguardo alla circolazione dei beni mobili (non registrati), non potendo operare registri di pubblicità, tra più acquirenti dal medesimo alienante titolare del diritto prevale chi per primo ne ha acquistato il possesso in buona fede (art. 1555). Diversamente operano la comunicazione e la notificazione che indirizzano la conoscenza verso specifici soggetti. Ad es. con riguardo alla cessione del credito, tra più cessioni dello stesso credito, prevale quella che per prima è stata notificata al debitore o per prima è stata accettata dal debitore con atto di data certa (art. 1265).

B) INFLUENZA DEL TEMPO. (PRESCRIZIONE E DECADENZA) 8. Funzione del tempo. Computo dei termini. – Ogni fenomeno giuridico incide nella realtà materiale e dunque rileva nella realtà giuridica in una duplice dimensione: temporale e spaziale. Tempo e spazio esprimono le modalità, cronologica e spaziale, di svolgimento dei fatti giuridici: sono modi di essere dei fatti giuridici, che influenzano la determinazione delle vicende giuridiche e perciò la stessa vita delle situazioni giuridiche. Il tempo può rilevare nel suo correre e perciò con riguardo alla durata o può rilevare con riferimento ad un momento specifico e perciò come data. Ad es., in un contratto di locazione, il tempo fissa il termine di efficacia del contratto (la durata della locazione), e segna il termine di scadenza del pagamento del canone (es. entro il cinque di ogni mese). Il tempo ha assunto un’autonoma rilevanza anche nel diritto amministrativo, dove è emersa la risarcibilità del danno da ritardo come interesse in sé endoprocedimentale, che è diverso dall’interesse finale al conseguimento del provvedimento. Il tempo diventa, come tale, un bene della vita la cui lesione obbliga la P.A. al risarcimento del danno prodotto (art. 2 bis, L. 241/1990, introdotto dalla L. 69/2009) 5. Per l’essenziale rilevanza della dimensione temporale dei fatti giuridici, la legge dedi  5 Il ritardo nell’emanazione di un atto amministrativo è elemento sufficiente per configurare un danno ingiusto, con conseguente obbligo di risarcimento, nel caso di procedimento amministrativo lesivo di un “interesse pretensivo dell’amministrato”, ove tale procedimento sia da concludere con un provvedimento favorevole per il destinatario; ciò in quanto il tempo è un “bene della vita” per il cittadino ed il ritardo nella conclusione di un qualunque procedimento ha sempre un costo (Cons. Stato 7-3-2013, n. 1406).

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ca una specifica normativa al computo dei termini. Il codice civile la colloca nel capo dedicato alla prescrizione (artt. 2962 e 2963) ed a quest’ultima la riferisce; ma si tratta di una disciplina applicabile a tutte le ipotesi di computo del termine, anche per l’assenza di una diversa normativa in proposito (un espresso rinvio all’art. 2963 è nell’art. 1187 per il computo del termine di adempimento dell’obbligazione). Regola generale è che i termini contemplati dal codice civile e dalle altre leggi si computano secondo il calendario comune, con le precisazioni introdotte. Il riferimento al tempo non è limitato al momento della giornata ma al giorno per l’intera durata (24 ore). Solo in ipotesi tassativamente indicate rileva il momento della giornata: ad es., in tema di iscrizione ipotecaria, “l’ipoteca prende grado dal momento della sua iscrizione” (art. 2852). Non si computa il giorno iniziale del termine e si computa invece il giorno finale. Il computo dei termini a mesi si fa con riguardo al mese di scadenza e nel giorno di questo corrispondente al giorno del mese iniziale; se nel mese di scadenza manca tale giorno, il termine si compie con l’ultimo giorno dello stesso mese (es. il termine di un mese con decorrenza 5 febbraio scade il 5 marzo, anche se il mese di febbraio è di 28 giorni). Analogamente, per il computo del termine ad anni, si deve avere riguardo all’anno di scadenza con riferimento al giorno e al mese corrispondenti a quelli iniziali. Di regola il termine si considera continuo, comprensivo cioè anche dei giorni festivi, tranne che questi non siano espressamente esclusi. Solo se l’ultimo giorno è festivo, è prorogato al giorno successivo non festivo. Particolare rilevanza assumono, per l’incidenza del tempo nella vita dei diritti soggettivi, gli istituti della usucapione (anche detta prescrizione acquisitiva 6) per l’acquisto di alcuni diritti reali e della prescrizione estintiva (anche detta soltanto prescrizione) e decadenza per l’estinzione dei diritti. Si parla in questa parte della prescrizione estintiva e della decadenza, per l’influenza esclusiva del tempo nella realizzazione delle stesse; si rinvia invece alla trattazione dei diritti reali l’esame dell’usucapione per incidere anche il possesso dei beni: l’usucapione premia il possesso dei beni (artt. 1158 ss.) (VI, 5.7).

9. La prescrizione. – La prescrizione c.d. estintiva si atteggia quale generale modo di estinzione dei diritti per mancato esercizio (art. 2934): il decorso del tempo rileva nella prospettiva della durata di non esercizio dei diritti. a) È da sempre dibattuto il fondamento dell’istituto della prescrizione. Tradizionalmente e più diffusamente è stato ravvisato nell’inerzia del titolare nell’esercizio del diritto, come espressione di non interesse alla titolarità del singolo diritto. Talvolta si è fatto riferimento ad una sorta di sanzione per il soggetto che si disinteressa dei suoi diritti, non esercitandoli e lasciando deperire i beni; talaltra si è invocata una esigenza di liberazione   6 In passato si era soliti anche parlare di prescrizione acquisitiva con riguardo al diverso ed opposto fenomeno dell’acquisto dei diritti per il maturare del tempo: l’art. 2105 cod. civ. abr. considerava la prescrizione come un mezzo con cui, col decorso del tempo e sotto condizioni determinate, taluno acquista un diritto o è liberato da un’obbligazione. Era un sistema che si fondava sulla presunzione che il proprietario e il creditore che per lungo tempo non esercitavano i propri diritti avessero inteso abbandonarli. Il nuovo codice configura l’usucapione come modo di acquisto della proprietà (artt. 922 e 1158 ss.), orientando l’osservazione sull’attività del soggetto che in fatto utilizza un bene altrui attuando il contenuto della proprietà o di altro diritto reale.

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dai vincoli che gravano sui beni o comprimono la libertà di comportamento delle persone. Più di recente è stato riposto nella esigenza di tutelare l’affidamento dei terzi circa la corrispondenza della situazione di fatto a quella di diritto. In realtà le varie spiegazioni concorrono a delineare il diversificato fondamento nelle singole ipotesi, tutte tenute insieme da una esigenza di ordine pubblico di certezza delle situazioni giuridiche, per l’adeguamento nel tempo delle qualifiche formali di diritto alle situazioni materiali di fatto 7. Altro tradizionale dibattito è quello relativo all’oggetto della prescrizione: l’art. 2135 cod. civ. abr. lo riferiva alle azioni (“tutte le azioni, tanto personali che reali, si prescrivono col decorso di trent’anni); il nuovo cod. civ. lo riferisce senz’altro ai diritti: per l’art. 2934 c.c. “ogni diritto si estingue per prescrizione, quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge”, ove l’estinzione del diritto comporta naturalmente l’estinzione dell’azione. Non mancano ipotesi nelle quali il riferimento è alla prescrizione dell’azione, quando rilevano situazioni giuridiche opposte paralizzanti l’azione: ad es. sono imprescrittibili l’azione di rivendicazione (art. 9483), l’azione di petizione di eredità (art. 533), l’azione di nullità del contratto (art. 1422), salvi gli effetti dell’usucapione altrui; le azioni di contestazione e reclamo dello stato di figlio (artt. 2482 e 2492), in vista della continuità affettiva del figlio. Analogamente è disposta la imprescrittibilità dell’eccezione (es. la imprescrittibilità dell’eccezione di annullamento del contratto proposta dalla parte convenuta per l’esecuzione ex art. 14424), che fa valere una situazione giuridica opposta. Sono imprescrittibili i diritti indisponibili e gli altri diritti indicati dalla legge (art. 29342). Tra questi rientrano massimamente i diritti della personalità e quelli connessi agli stati e alle responsabilità familiari. Una situazione articolata si realizza rispetto alla filiazione: l’azione di disconoscimento del figlio nato durante il matrimonio è imprescrittibile per il figlio, mentre si prescrive in un anno per il marito della madre (art. 244); analogamente l’azione di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità è imprescrittibile per il figlio mentre si prescrive in un anno per l’autore del riconoscimento (art. 263). Tra i diritti patrimoniali è imprescrittibile il solo diritto di proprietà, come si ricava dalla non prescrizione dell’azione di rivendicazione (artt. 9483, 9352), vuoi per essere il non uso una forma di esercizio, vuoi, ancor più, per il riconoscimento compiuto dal legislatore del 1942 alla categoria come configurata dalla tradizione liberale dell’epoca: l’equilibrio è stato realizzato facendosi salvo l’acquisto per usucapione della proprietà e con la previsione di limiti negativi e obblighi positivi introdotti al contenuto del diritto di proprietà, per assicurarne efficienza economica e coerenza con il generale sistema produttivo (tipicamente art. 838, ma anche artt. 833, 840 e 844 c.c.) e i generali criteri di collaborazione e solidarietà (artt. 851 e 860) 8. I beni immobili vacanti spettano al patrimonio dello stato (art. 827); le cose mobili abbandonate sono oggetto di occupazione (art. 923).   7 La Relaz. cod. civ., n. 1065, rileva: “l’inerzia o il silenzio troppo a lungo protratti determinano degli assestamenti di fatto, che non sarebbe ormai provvido turbare, anche se intrinsecamente e in origine potessero dar luogo a legittime azioni o reazioni altrui”. 8 Per la Relaz. al cod. civ. “La proprietà è riconosciuta e protetta perché è considerata come lo strumento più efficace e più utile per la produzione” (n. 23); “il titolare del diritto non può rimanere inerte; il lavoro è un dovere sociale e il proprietario deve provvedere all’utilizzazione dei propri beni per conseguirne la massima produttività” (n. 25).

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In ragione della tutela di esigenze generali, la disciplina della prescrizione è di ordine pubblico, nel senso che non è derogabile dai privati. È nullo ogni patto diretto a modificare la disciplina legale della prescrizione (art. 2936), che pertanto non è derogabile, né è prorogabile o abbreviabile. Le disposizioni generali sulla prescrizione, quelle relative alle cause di sospensione e d’interruzione e al computo dei termini si osservano, in quanto applicabili, rispetto all’usucapione (art. 1165) (VI, 5.7). b) L’operatività della prescrizione è conseguenziale. Non essendo coinvolti valori fondamentali, la prescrizione non è rilevabile d’ufficio dal giudice, ma deve essere opposta (art. 2938) (c.d. eccezione in senso stretto), in coerenza con il principio che il giudice non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti (art. 112 c.p.c.), ma individua le norme applicabili. È cioè rimessa alla valutazione del soggetto interessato la decisione se avvalersi o meno della prescrizione; se intende avvalersene, ha l’onere di opporre la prescrizione, con allegazione della stessa 9. Non è sufficiente una formulazione generica, dovendosi indicare il fatto costitutivo 10, mentre non sono necessarie formule sacramentali, anche rispetto a diritti reali 11. La prescrizione può essere opposta da terzi interessati (art. 2939) 12. La valorizzazione della certezza delle situazioni giuridiche giustifica la inderogabilità delle norme sulla prescrizione : è nullo ogni patto diretto a modificare la disciplina legale della prescrizione (art. 2936), sia rispetto alla operatività che alla durata della prescrizione. Un ulteriore risvolto è in tema di rinunzia alla prescrizione. Non può rinunziare alla   9 Nel processo civile il convenuto deve proporre, nella comparsa di risposta, a pena di decadenza, le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio (art. 167 c.p.c.), tra cui rientra, ex art. 2938 c.c., quella di prescrizione. Ciò implica che alla parte sia fatto onere soltanto di allegare l’inerzia del titolare e di manifestare la volontà di profittare di quell’effetto, non anche di indicare direttamente o indirettamente (cioè attraverso specifica menzione della durata dell’inerzia) le norme applicabili al caso di specie, l’identificazione delle quali spetta al potere-dovere del giudice, con la conseguenza, sia della possibilità di una diversa indicazione del termine nel corso di giudizio, sia che il riferimento della parte ad un termine non priva il giudice del potere officioso di applicazione (previa attivazione del contraddittorio sulla relativa questione) di una norma di previsione di un termine diverso (Cass., sez. un., 25-7-2002, n. 10955). Conformi Cass. 19-4-2016, n. 7749; Cass. 21-3-2013, n. 7130). Solo in caso di pluralità di crediti azionati, il convenuto deve precisare il momento iniziale dell’inerzia in relazione a ciascuno di essi (Cass. 8-3-2004, n. 4668). 10 L’eccezione di prescrizione deve sempre fondarsi su fatti allegati dalla parte ed il debitore che la solleva ha l’onere di allegare e provare il fatto che, permettendo l’esercizio del diritto, determina l’inizio della decorrenza del termine, ai sensi dell’art. 2935 c.c., restando escluso che il giudice possa accogliere l’eccezione sulla base di un fatto diverso (Cass. 18-6-2018, n. 15991). Non viola il principio dispositivo della prescrizione (art. 2938) né quello della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato (art. 112 c.p.c.) la decisione che accolga l’eccezione di prescrizione ordinaria sulla base di una ragione giuridica diversa da quella prospettata dalla parte che l’ha formulata, poiché spetta al giudice individuare gli effetti giuridici dei singoli atti posti in essere, attribuendo o negando a ciascuno di essi efficacia interruttiva o sospensiva della prescrizione (Cass. 21-1-2020, n. 1149). 11 La prescrizione delle servitù per non uso, ex art. 1073 c.c., formando oggetto di un’eccezione in senso proprio, deve essere specificamente opposta, anche senza l’impiego di forme sacramentali, dalla parte che intenda avvalersene (Cass. 18-3-2019, n. 7562). 12 Conformemente ad un principio generale che consente al creditore di s u r r o g a r s i al proprio debitore nell’esercizio di diritti ed azioni che questi trascura di esercitare verso terzi (art. 2900), la prescrizione può essere opposta anche dal creditore e da chiunque vi ha interesse, qualora la parte non la faccia valere; e può essere opposta anche se la parte vi ha rinunziato (art. 2939).

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prescrizione chi non può disporre validamente del diritto (art. 29371). È vietata la rinunzia preventiva alla prescrizione o intervenuta durante il decorso del termine di prescrizione, al fine di evitare abusi di una parte a danno dell’altra (ad es. all’atto della conclusione di un contratto o durante l’esecuzione): si può rinunziare alla prescrizione solo quando questa è compiuta (art. 29372), perché il soggetto cui profitta ritiene più utile non avvalersene, anche solo per ragioni morali o sociali. La rinunzia può essere espressa o tacita e cioè risultare da un fatto incompatibile con la volontà di valersi della prescrizione (art. 29373). Il condebitore che ha rinunziato alla prescrizione non ha regresso verso gli altri debitori liberati in conseguenza della prescrizione medesima (art. 13103). Per una ragione morale e proprio in quanto la prescrizione non opera di diritto, non è ammessa la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato in adempimento di un debito prescritto (art. 2940), situazione che si è soliti qualificare come obbligazione naturale (art. 2034), rispetto alla quale opera la regola della c.d. soluti retentio (VII, 1.10) 13. La prescrizione decorre dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935) (actio nondum nata non prescribitur, secondo l’impostazione romana che radicava nell’azione la sostanza del diritto). Fino a quando il diritto non è costituito non può neppure operare la prescrizione per inerzia dell’esercizio. Perciò, rispetto a un diritto la cui nascita è sottoposta a condizione sospensiva o a termine iniziale, la prescrizione comincia a decorrere dall’avveramento della condizione o dalla scadenza del termine. In ogni caso non corre la prescrizione quando il diritto non può essere fatto valere (contra non valentem agere non currit praescriptio) 14 (v. anche art. 1166). Deve trattarsi di una impossibilità giuridica, a nulla rilevando gli impedimenti di fatto o soggettivi all’esercizio del diritto 15, salve le eccezioni stabilite dalla legge. Molto spesso è la legge stessa a specificare il giorno dal quale decorre il termine della prescrizione (ad es. con riguardo all’azione di annullamento del contratto ex art. 1442). Nelle prestazioni periodiche è importante la configurazione delle singole rimesse 16.   13 Tale profilo, unitamente a quello della non rilevabilità di ufficio, ha fatto diffusamente dubitare della natura della prescrizione come causa estintiva del diritto, ed avanzare l’idea che, con la prescrizione, il diritto non si estingua ma solo si indebolisca. 14 L’impossibilità di far valere il diritto, quale fatto impeditivo della decorrenza della prescrizione ex art. 2935 c.c., è solo quella che deriva da cause giuridiche che ne ostacolino l’esercizio e non comprende anche gli impedimenti soggettivi o gli ostacoli di mero fatto (Cass. 31-7-2019, n. 20642; Cass. 11-9-2018, n. 22072; Cass. 7-12-2016, n. 25253; Cons. Stato 26-4-2016, n. 1616). Nel caso di obbligazione solidale al risarcimento dei danni ex art. 2055 c.c. la prescrizione dell’azione di regresso di uno dei coobbligati decorre dall’avvenuto pagamento e non già dal giorno dell’evento dannoso, poiché il diritto al regresso, ex art. 2935 c.c., non può esser fatto valere prima dell’evento estintivo dell’obbligazione (Cass. 11-10-2019, n. 25698). 15 In materia di risarcimento del danno, la decorrenza della prescrizione inizia nel momento in cui il danneggiato, con l’uso dell’ordinaria diligenza, è in grado di avere conoscenza dell’illecito, del danno e della derivazione causale dell’uno dall’altro, nonché dello stesso elemento soggettivo del dolo o della colpa che connota l’illecito (Cass. 21-2-2020, n. 4683; Cass. 18-7-2016, n. 14662). Il danno deve essere attuale e non solo potenziale, nonché oggettivamente percepibile e riconoscibile da parte di chi intenda ottenerne il ristoro (Cass. 7-4-2016, n. 6747). Ad es., il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da responsabilità professionale inizia a decorrere non dal momento in cui la condotta del professionista determina l’evento dannoso, bensì da quello in cui la produzione del danno si manifesta all’esterno, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile da parte del danneggiato (Cass. 22-9-2016, n. 18606). 16 Con riguardo a prestazioni periodiche, bisogna verificare se le stesse sono frazioni di una prestazione unitaria o autonome prestazioni. Nella prima ipotesi, la prescrizione decorre dalla data della mancata esecu zione della prima frazione: i singoli importi, avendo contenuto patrimoniale, sono soggetti alla comune regola

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c) La durata della prescrizione è diversificata. Regola generale è che i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni (c.d. prescrizione ordinaria), salvi i casi in cui la legge dispone diversamente (art. 2946). Sono però molte le ipotesi per le quali è previsto un termine diverso di prescrizione: talvolta più lungo (ad es. i diritti reali di godimento su cosa altrui si prescrivono per non uso protratto per venti anni: artt. 954, 970, 1014, 1073); talaltra più breve (c.d. prescrizione b reve) (artt. 2947-2952). In ragione della specificità dei singoli diritti, sono previste varie prescrizioni brevi: ad es. il diritto al risarcimento del danno si prescrive in cinque anni, e al risarcimento del danno prodotto dalla circolazione dei veicoli si prescrive in due anni (art. 2947) 17; in cinque anni si prescrive il diritto agli interessi e, in generale, a tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi (art. 2948, n. 4) 18. Quando, riguardo ai diritti soggetti a prescrizione breve, è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, i diritti restano soggetti alla prescrizione ordinaria (art. 2953): ciò in quanto la fonte originaria del diritto è sopravanzata dalla novità e stabilità della sentenza passata in giudicato 19.

10. Segue. Sospensione e interruzione. – Quando il diritto è nato e può essere fatto valere, rilevano due distinte serie di ragioni che diversamente operano sulla prescrizione: la sospensione e la interruzione. a) Si ha sospensione della prescrizione quando il mancato esercizio del diritto è dalla  

che tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termine più breve si prescrive in cinque anni (art. 2948, n. 4, c.c.). Nella seconda ipotesi, decorre dalle date di scadenza delle singole prestazioni. Relativamente alla prescrizione del diritto all’assegno di mantenimento, la periodizzazione del pagamento, di regola mensile, determina una attualizzazione periodica del debito: trattandosi di prestazioni autonome e periodiche, la prescrizione non decorre da un unico termine (la data della sentenza di separazione o di divorzio o del passaggio in giudicato), bensì dalle singole scadenze di pagamento, iniziando a decorrere dal mese successivo a quello di riferimento. Analogamente per i tributi, dove il termine prescrizionale per una debitoria per più annualità è calcolato con riferimento alle singole annualità. 17 Se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile di risarcimento danni (art. 29473). Anche se il giudizio penale non sia stato promosso, l’eventuale più lunga prescrizione prevista per il reato si applica all’azione di risarcimento “quando il giudice civile accerti, incidenter tantum e con gli strumenti probatori e i criteri propri del procedimento civile”, la sussistenza del fatto-reato (Cass., sez. un., 18-11-2008, n. 27337). Se però il reato è estinto per causa diversa dalla prescrizione o è intervenuta sentenza irrevocabile nel giudizio penale, il diritto al risarcimento del danno si prescrive, secondo i primi due commi dell’art. 2947, con decorrenza dalla data di estinzione del reato o dalla data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile (art. 29473). 18 Per ulteriori prescrizioni quinquennali, v. artt. 2948 e 2949; per prescrizione annuale, v. artt. 2950 e 2951. Un termine differenziato in materia assicurativa (art. 2952). 19 La prescrizione decennale da actio iudicati ex art. 2953 decorre dal passaggio in giudicato della sentenza e, se appellata, dalla declaratoria giudiziale che rende definitiva la decisione, effetto questo che, rispetto al giudizio di ottemperanza ex art. 70 D.Lgs. 546/1992, si produce anche con riguardo ad una pronuncia di rito, in quanto idonea a chiudere il processo in senso sfavorevole a una parte, fondando la definitività della pretesa avanzata dall’altra (Cass. 16-12-2019, n. 33039). Nel caso in cui la sentenza penale di condanna generica al risarcimento dei danni in favore della persona offesa, costituitasi parte civile, sia passata in giudicato, la successiva azione volta alla quantificazione del danno non è soggetta al termine di prescrizione breve ex art. 2947 c.c., ma a quello decennale ex art. 2953 c.c. decorrente dalla data in cui la sentenza stessa è divenuta irrevocabile, atteso che la pronuncia di condanna generica, pur difettando dell’attitudine all’esecuzione forzata, costituisce una statuizione autonoma contenente l’accertamento dell’obbligo risarcitorio in via strumentale rispetto alla successiva determinazione del quantum (Cass. 18-6-2019, n. 16289).

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legge giustificato in considerazione di specifiche situazioni che impediscono o anche solo ostacolano l’esercizio del diritto 20. Trovando il suo fondamento nella giustificazione del mancato esercizio, opera con riferimento al solo periodo del protrarsi dell’inerzia giustificata. Per effetto della sospensione il periodo anteriore al verificarsi della causa di sospensione si somma al periodo successivo alla cessazione della sospensione. Il periodo di sospensione esprime una parentesi nel computo del termine di prescrizione: il tempo dell’inerzia giustificata non è calcolato ai fini del compimento della prescrizione. La legge prevede due categorie di fattispecie, riconducibili a due fondamentali ragioni di giustificazione. La prima categoria è inerente alla relazione giurid ica che lega il titolare del diritto con il soggetto passivo (art. 2941). La prescrizione rimane sospesa tra i coniugi 21 (art. 2941, n. 1) e tra le parti dell’unione civile (art. 118 L. 76/2016) 22; è altresì sospesa tra chi esercita la responsabilità genitoriale o tutoria e le persone che vi sono sottoposte, come tra il curatore e il minore emancipato o l’inabilitato (art. 2941, n. 2-4); tra l’erede e l’eredità accettata con beneficio d’inventario, tra le persone con patrimonio soggetto ad amministrazione e gli amministratori, tra le persone giuridiche e i loro amministratori (art. 2941, n. 5-7); tra il debitore che ha dolosamente occultato l’esistenza del debito e il creditore finché il dolo non sia stato scoperto (art. 2941, n. 8) 23.   20 L’eccezione di sospensione della prescrizione ex art. 2941, n. 8, integra un’eccezione in senso lato e, pertanto, può essere rilevata d’ufficio dal giudice, anche in grado di appello, purché sulla base di prove ritualmente acquisite agli atti (Cass. 12-7-2019, n. 18771). 21 La previsione della sospensione della prescrizione “tra i coniugi” (art. 2941, n. 1) ha sollevato il problema dell’applicazione della norma durante il periodo di separazione, specie ai fini del conseguimento del mantenimento. A fronte di una tradizionale interpretazione letterale che considerava operare la sospensione fino al perdurare del vincolo coniugale (che viene meno con l’annullamento o il divorzio) (Corte cost. 19-2-1976, n. 35), una interpretazione evolutiva e adeguatrice della norma riferisce la sospensione al rapporto coniugale nella sua interezza e cioè in comunione di vita, con esclusione della sospensione della prescrizione tra coniugi relativamente al credito dovuto per l’assegno di mantenimento previsto nel caso di separazione personale, non ritenendosi più sussistere la riluttanza a convenire in giudizio il coniuge, collegata al timore di turbare l’armonia familiare (Cass. 4-10-2018, n. 24160; Cass. 7981/2014; Cass. 18078/2014). 22 In relazione ai conviventi, Corte cost. 29-1-1998, n. 2, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della norma per mancata previsione della convivenza, in ragione della esigenza di certezza e stabilità del rapporto quale risulta dal matrimonio. Ma con la introdotta possibilità di registrazione anagrafica della “stabile convivenza” (art. 137 L. 76/2016), il presupposto della incertezza di risultanza della relazione è venuto meno, sicché la questione si ripropone. Anzi è da ritenere che, già in via di interpretazione estensiva o analogica, possa accedersi all’ammissione di sospensione della prescrizione tra conviventi durante il tempo di registrazione della convivenza. 23 L’operatività della causa di sospensione ex art. 2941, n. 8, ricorre quando sia posto in essere dal debitore un comportamento intenzionalmente diretto ad occultare al creditore l’esistenza dell’obbligazione, sì da comportare, per il creditore, una vera e propria impossibilità di agire, e non una mera difficoltà di accertamento del credito (Cass. 25-10-2019, n. 27393; Cass. 7-3-2019, n. 6677). La norma ha un correlato con la sospensione della prescrizione del diritto al risarcimento del danno erariale, che si prescrive in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta (art. 12 L. 20/1994): tale norma presuppone un’attività consapevole del titolare del rapporto di servizio diretta ad occultare il fatto generatore del danno erariale ed un elemento obbiettivo dato da una situazione che precluda la scoperta del fatto stesso (Corte dei Conti 12-7-2016, n. 308; Corte dei Conti 12-5-2016, n. 493). Altre ipotesi di sospensione operano: 3) tra il tutore e il minore o l’interdetto soggetti alla tutela, finché  non sia stato reso e approvato il conto finale, salvo quanto è disposto dall’art. 387 per le azioni relative alla

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PARTE II – CATEGORIE GENERALI

La seconda categoria riguarda la condizione del titolare del diritto (art. 2942). Ad es. la prescrizione rimane sospesa contro i minori e gli interdetti per il tempo in cui non hanno rappresentante legale e per sei mesi successivi alla nomina del medesimo o alla cessazione dell’incapacità 24; analogamente per i militari in guerra. Non rilevano condizioni soggettive di mero fatto 25. b) Si ha interruzione della prescrizione quando intervengono fatti giuridici di esercizio del diritto. Nella sospensione c’è giustificazione dell’inerzia; nella interruzione c’è cessazione dell’inerzia. L’eccezione di interruzione non integra una eccezione in senso stretto e perciò è rilevabile di ufficio dal giudice 26. Per effetto della interruzione inizia un nuovo periodo di prescrizione (art. 29451). A differenza della sospensione, il periodo antecedente alla interruzione non è calcolato nel computo del termine della prescrizione. La legge tipizza le ipotesi di interruzione. Regola generale è che la prescrizione è interrotta dalla notificazione dell’atto con il quale si inizia un giudizio 27 (anche se il giudice adito è incompetente 28), o dell’atto di accesso arbitrale (art. 2943), o anche dalla comunicazione alle altre parti della domanda di mediazione (art. 56 L. 28/2010). Nel caso di domanda giudiziale, la prescrizione non corre fino al momento del passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio (art. 29452) 29; analogamente, nel caso di domanda di accesso arbitrale, la prescrizione non corre sino al momento in cui il lodo che definisce il giudizio non è più impugnabile ovvero passa in giudicato la sentenza resa sull’impugnazione (art. 29454). Con riguardo ai rapporti obbligatori, la prescrizione è inter 

tutela; 4) tra il curatore e il minore emancipato o l’inabilitato; 5) tra l’erede e l’eredità accettata con beneficio d’inventario; 6) tra le persone i cui beni sono sottoposti per legge o per provvedimento del giudice all’amministrazione altrui e quelle da cui l’amministrazione è esercitata, finché non sia stato reso e approvato definitivamente il conto; 7) tra le persone giuridiche e i loro amministratori, finché sono in carica, per le azioni di responsabilità contro di essi. È da ritenere che la disciplina della sospensione valga anche nei rapporti tra amministratore di sostegno e beneficiario per la specifica relazione intercorrente tra gli stessi, assimilabile a quella intercorrente tra tutore o curatore e interdetto o inabilitato. 24 La disposizione deve valere anche rispetto al beneficiario di amministrazione di sostegno, con la conseguenza che la prescrizione dei diritti di cui è titolare l’amministrato rimane sospesa per i sei mesi successivi alla nomina dell’amministratore di sostegno (Trib. Roma, 5-9-2011; Trib. Roma, 1-9-2011). 25 Ai fini della sospensione del termine di prescrizione rileva l’impossibilità che derivi da cause giuridiche, non anche impedimenti soggettivi o ostacoli di mero fatto, tra i quali devono annoverarsi l’ignoranza del fatto generatore del diritto, il dubbio soggettivo sull’esistenza di esso e il ritardo indotto dalla necessità del suo accertamento (Cass. 14-1-2022, n. 996). 26 L’eccezione di interruzione è una eccezione in senso lato, in quanto tale rilevabile d’ufficio dal giudice in qualunque stato e grado del processo sulla base di prove ritualmente acquisite agli atti (Cass., sez. un., 27-7-2005, n. 15661; Cass. 14-3-2006, n. 5490). 27 La Corte cost. ha stabilito che la notificazione si perfeziona, nei confronti del notificante, nel momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario (sent. 23-1-2004, n. 28; sent. 26-11-2002, n. 477); con la conseguenza che consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario è sufficiente a produrre l’effetto interruttivo della prescrizione, che si consolida definitivamente con il perfezionamento del procedimento di notificazione. 28 L’atto di citazione – anche se invalido come domanda giudiziale e, dunque, inidoneo a produrre effetti processuali – può tuttavia valere come atto di costituzione in mora ed avere, perciò, efficacia interruttiva della prescrizione qualora, per il suo specifico contenuto e per i risultati a cui è rivolto, possa essere considerato come richiesta scritta di adempimento rivolta dal creditore al debitore (Cass. 8-1-2020, n. 124). L’effetto interruttivo della prescrizione si estende solo a quei fatti che siano conseguenti alla vicenda cui essa si riferisce, vale a dire che costituiscano il logico sviluppo di un dato presupposto necessario (Cass. 20-12-2019, n. 34154). 29 Se il processo si estingue, rimane fermo l’effetto interruttivo, e il nuovo periodo di prescrizione comincia dalla data dell’atto interruttivo (art. 25453).

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rotta da ogni altro atto di manifestazione della volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto nei confronti del soggetto passivo, con l’effetto di costituirlo in mora (art. 29434) 30. La prescrizione è anche interrotta dal riconoscimento del diritto da parte di colui contro il quale è fatto valere (art. 2944): non è richiesta una formula sacramentale, ma deve emergere la volontà di riconoscere il diritto 31; anche la richiesta di rateazione del pagamento può essere sintomo di riconoscimento del debito 32. Le disposizioni generali sulla prescrizione, quelle relative alle cause di sospensione e interruzione e al computo dei termini si osservano, in quanto applicabili, rispetto all’usucapione (art. 1165) (VI, 5.7).

11. Le prescrizioni presuntive. – La prescrizione presuntiva ha natura e disciplina diverse dalla prescrizione estintiva. Come si è visto, la prescrizione estintiva si atteggia come causa estintiva del diritto per mancato esercizio del diritto per un determinato periodo di tempo, perseguendo l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici; la prescrizione presuntiva (o impropria) muove dalla presunzione che un determinato debito, per la particolare natura, sia stato adempiuto o sia comunque estinto 33. In tal guisa le prescrizioni presuntive stabiliscono la presunzione di estinzione del diritto. La caratteristica di tali prescrizioni è di operare sul terreno della prova, nel senso che la legge presume che alcuni rapporti siano usualmente estinti in un breve lasso di tempo e senza formalità (rilascio di ricevute, ecc.) 34: le prescrizioni presuntive sono tutte brevi.   30 L’atto interruttivo della prescrizione, quale mero atto unilaterale recettizio, produce effetti anche quando il suo destinatario sia un incapace naturale, purché gli pervenga nel rispetto delle previsioni di cui agli artt. 1334 e 1335 (Cass. 23-5-2018, n. 12658). Nel contratto di vendita costituiscono atti interruttivi della prescrizione dell’azione di garanzia per vizi ex art. 14953 le intimazioni stragiudiziali compiute nelle forme di cui all’art. 12191 con cui il compratore manifesta la propria volontà di avvalersi della garanzia (Cass., sez. un., 11-7-2019, n. 18672). 31 Il soggetto che riconosca l’altrui diritto compie una dichiarazione di scienza, avente ad oggetto il diritto della controparte, dagli effetti esclusivamente interruttivi della prescrizione, diversamente dall’istituto della rinuncia alla prescrizione che è caratterizzato dalla manifestazione di una volontà negoziale con effetto definitivamente dismissivo, avente ad oggetto il proprio diritto alla liberazione dall’obbligo di adempimento (Cass. 6-2-2020, n. 2758). Il riconoscimento del diritto, idoneo ad interrompere la prescrizione, può anche essere tacito e rinvenibile in un comportamento obiettivamente incompatibile con la volontà di disconoscere la pretesa del creditore; il pagamento parziale, ove non accompagnato dalla precisazione della sua effettuazione in acconto, non può valere di per sé come riconoscimento, rimanendo rimessa al giudice di merito la valutazione di fatto (Cass. 2-9-2019, n. 21947; Cass. 27-3-2017, n. 7820). Il riconoscimento dell’altrui diritto non ha natura negoziale, ma costituisce un atto giuridico in senso stretto di carattere non recettizio, che non richiede in chi lo compie una specifica intenzione ricognitiva, occorrendo solo che esso rechi, anche implicitamente, la manifestazione della consapevolezza dell’esistenza del debito e riveli il carattere della volontarietà (Cass. 12-4-2018, n. 9097). 32 Si è precisato che la rateizzazione chiesta dal contribuente sulla cartella di pagamento non costituisce di per sé acquiescenza al contenuto imperativo della stessa cartella e, pertanto, non rappresenta una manifestazione di rinuncia al diritto di contestare in giudizio la pretesa e non comporta interruzione della prescrizione (Cass. 8-2-2017, n. 3347). V. però Cass. 26-4-2017, n. 10327. 33 È giurisprudenza costante: es. Cass. 3443/2005, Cass. 8735/2014. 34 Le prescrizioni presuntive, trovando ragione nei rapporti che si svolgono senza formalità, dove il pagamento suole avvenire senza dilazione, non operano se il credito trae origine da contratto stipulato in forma scritta; tuttavia delle stesse si può avvalere anche un soggetto obbligato a tenere le scritture contabili, non interferendo tale disciplina con quella dei requisiti di forma dei contratti (Cass. 13-1-2017, n. 763).

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PARTE II – CATEGORIE GENERALI

Sollevano il debitore dall’onere della prova dell’adempimento o di altra causa di estinzione dell’obbligazione 35, potendo limitarsi ad allegare il decorso del termine di prescrizione previsto dalla legge: ad es. si prescrive in sei mesi il diritto degli albergatori e degli osti per l’alloggio e il vitto (art. 2954); in un anno, il diritto dei commercianti per il prezzo delle merci vendute a chi non ne fa commercio (art. 2955, n. 5); in tre anni, il diritto dei professionisti per il compenso dell’opera prestata e per il rimborso delle spese correlative (art. 2956, n. 2) 36. Regole particolari ineriscono alla decorrenza delle singole prescrizioni (art. 2957). La prescrizione decorre anche se vi è stata continuazione di somministrazioni o di prestazioni (art. 2958). Anche la prescrizione presuntiva va eccepita dal soggetto che intende avvalersene (debitore), ma con funzione peculiare: il tempo trascorso (fatto noto) fa presumere l’avvenuto pagamento o comunque l’estinzione (fatto ignorato), attraverso un meccanismo di presunzione semplice di estinzione 37, vincibile in due modi, rispettivamente dal creditore o dal debitore. Da parte del creditore, con il deferimento al debitore del giuramento decisorio: colui al quale la prescrizione è stata opposta può deferire all’altra parte il giuramento per accertare se si è verificata l’estinzione del debito (art. 29601). Il giuramento può anche essere deferito al coniuge superstite e agli eredi o ai loro rappresentanti legali affinché dichiarino se hanno notizia dell’estinzione del debito (art. 29602). Se il debitore, giurando il falso, dichiara che l’obbligazione è stata adempiuta o in altro modo estinta, il diritto si considera estinto 38: se però non c’è stata estinzione, il debitore incorre nel reato di falso giuramento, per avere, come parte in giudizio civile, giurato il falso (art. 371 c.p.). Da parte del debitore, con l’ammissione del mancato adempimento: se chi oppone la prescrizione ha comunque ammesso che l’obbligazione non è stata estinta, la prescrizione non opera, e quindi la relativa eccezione deve essere rigettata (art. 2959): l’ammissione dell’inadempimento può risultare anche implicitamente, ad es., contestandosi la validità del titolo o l’entità della somma richiesta o chiedendosi una rateazione 39.   35 Mentre il debitore, eccipiente, è tenuto a provare il decorso del termine previsto dalla legge, il creditore ha l’onere di dimostrare la mancata soddisfazione del credito, e tale prova può essere fornita soltanto con il deferimento del giuramento decisorio, ovvero avvalendosi della ammissione, fatta in giudizio dallo stesso debitore, che l’obbligazione non è stata estinta (Cass. 14-3-2018, n. 6245). 36 A fronte di un divario se possa eccepirsi solo il pagamento, la giurisprudenza più recente è incline a ritenere che le prescrizioni presuntive riguardino, non soltanto il pagamento, ma ogni ipotesi di estinzione dell’obbligazione per effetto di tutti gli altri modi previsti dalla legge ex artt. 1230 ss. (Cass. 20-1-2022, n. 1768. Per l’incompatibilità, Cass. 1970/2019; Cass. 2124/1994). 37 Se sia formulata genericamente un’eccezione di prescrizione, senza che il tempo per quella estintiva sia decorso, il giudice del merito può esaminare quella presuntiva, malgrado la logica incompatibilità con la prima, desumendone l’implicita proposizione dalla proposizione della difesa in mancanza di maturazione della prescrizione estintiva (Cass. 5-7-2017, n. 16486; Cass. 18-1-2017, n. 1203). 38 In tema di prescrizione presuntiva, mentre il debitore, eccipiente, è tenuto a provare il decorso del termine previsto dalla legge, il creditore ha l’onere di dimostrare la mancata soddisfazione del credito, e tale prova può essere fornita soltanto con il deferimento del giuramento decisorio, ovvero avvalendosi dell’ammissione, fatta in giudizio dallo stesso debitore, che l’obbligazione non è stata estinta (Cass. 25-1-2021, n. 1435; Cass. 785/1998). 39 L’indagine sul contenuto della dichiarazione del debitore, se importi o meno ammissione della non avvenuta estinzione del debito agli effetti dell’art. 2959, dà luogo ad apprezzamento di fatto, incensurabile in sede   di legittimità se congruamente motivato (Cass. 1-3-2022, n. 6727). Se il debitore nega l’autenticità della

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12. La decadenza. – Inerisce alla dimensione temporale nella sua oggettività, senza riguardo alla persona del titolare della situazione soggettiva. C’è la necessità oggettiva che un diritto, molto più spesso un potere, sia esercitato “entro un determinato termine” (art. 2964): il decorso del tempo, a differenza della prescrizione, rileva non come durata del comportamento di inerzia nell’esercizio del diritto ma nella prospettiva della scadenza del termine entro il quale il titolare del diritto avrebbe potuto esercitarlo, senza riguardo alle ragioni soggettive del mancato esercizio. Alla base è l’esigenza rinforzata di certezza delle situazioni giuridiche, indipendentemente dalle condizioni dei soggetti e dalle ragioni del non esercizio. Per il modo di operare della decadenza, se ne propone spesso la qualificazione come fattispecie in cui il decorso del tempo determina impedimento all’acquisto di un diritto o all’esercizio di un potere (es. scadenza del termine di presentazione di una domanda) 40. Più spesso la decadenza è di origine legale: la legge qualifica testualmente il termine come di decadenza (ad es., il termine di impugnazione delle deliberazioni dell’assemblea di condominio: art. 1137); sono anche di decadenza molti termini relativi allo svolgimento del processo, che la legge qualifica come “perentori” (es. artt. 326 e 327 c.p.c.); in materia tributaria, il termine di notifica dell’avviso di accertamento (art. 43 D.P.R. 688/1973). Talaltra la natura del termine deriva dalla ratio della norma (ad es., l’azione di disconoscimento della paternità: art. 244). Talaltra ancora la legge, con riguardo alla medesima figura, prevede espressamente termini di diversa natura: ad es., per la vendita di cose mobili, il termine di denunzia dei vizi (di otto giorni dalla scoperta) è di decadenza; mentre il termine di proposizione dell’azione (entro un anno dalla consegna) è di prescrizione (art. 14951, 3) 41. In ragione della funzione assolta dalla decadenza, per l’art. 2964, non si applicano le norme relative alla interruzione della prescrizione; del pari non si applicano le norme che si riferiscono alla sospensione, salvo che sia disposto altrimenti 42. Più specificamente, quanto all’interruzione, rilevando per l’ordinamento il fatto in sé dell’esercizio del diritto, con il compimento dell’atto viene meno la stessa ragione  

propria sottoscrizione su alcuni buoni di consegna, tiene una linea difensiva “incompatibile con la presunzione di estinzione dell’obbligazione” (Cass. 23-1-2007, n. 1381). La contestazione, da parte del debitore, dell’esattezza dei conteggi allegati dall’attore a fondamento di una pretesa creditoria “implica l’ammissione della mancata estinzione dell’obbligazione” e comporta il rigetto dell’eccezione di prescrizione presuntiva (Cass. 27-11-1999, n. 13291; Cass. 3-3-2001, n. 3105). 40 All’istituto della decadenza non è applicabile la regola di efficacia dell’eccezione anche oltre i limiti temporali segnati dall’intervenuta decadenza (“quae temporalia ad agendum, perpetua ad excipiendum”), non potendo rivivere, sotto forma di eccezione, il diritto ormai estinto perché non fatto valere nel termine perentorio (Cass. 6-10-2021, n. 27062). 41 Il divario tra i due istituti ha specifica rilevanza in materia tributaria, dove, tendenzialmente, la decadenza attiene allo svolgimento del procedimento amministrativo da parte dell’amm. finanz., ovvero alla omissione di un comportamento attivo da parte del contribuente; mentre la prescrizione inerisce all’esercizio del diritto di credito acquisito. 42 La giurisprudenza tende a configurare la normativa sulla decadenza come di stretta interpretazione, considerando inapplicabili alla decadenza soltanto le norme relative alla interruzione ed alla sospensione della prescrizione e ritenendo anzi che le norme disponenti decadenze devono essere interpretate in senso favorevole al soggetto onerato e, quindi, secondo il criterio del tempo utile. Così, in tema di computo dei termini di prescrizione, l’art. 29633, secondo il quale “se il termine scade in giorno festivo, è prorogato di diritto al giorno seguente non festivo”, è considerato un principio generale applicabile, in assenza di diversa previsione, anche in materia di decadenza (Cass. 13-8-2004, n. 15832).

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della decadenza; sicché la interruzione non è di per sé ammissibile 43. Quanto alla sospensione, è di regola irrilevante la motivazione dell’inerzia stante l’esigenza di esercitare senz’altro il diritto “entro un dato tempo”. Raramente e in modo testuale la legge, in considerazione della condizione giuridica del titolare del diritto, accorda la sospensione del termine: nell’esempio fatto, se la parte interessata a proporre l’azione di disconoscimento di paternità si trova in stato di interdizione per infermità di mente, la decorrenza del termine è sospesa nei suoi confronti sino a che dura lo stato di interdizione (art. 245). Talvolta è disposta la sospensione a seguito di eventi eccezionali. La decadenza, di regola, non può essere rilevata di ufficio dal giudice; con la conseguenza che, per la sua operatività, deve essere eccepita dalla parte (come la prescrizione). Può essere rilevata di ufficio dal giudice quando, trattandosi di materia sottratta alla disponibilità delle parti, il giudice debba rilevare le cause d’improponibilità dell’azione (art. 2969 c.c. e art. 112 c.p.c.) 44. Se la decadenza è connessa alla proposizione di una domanda giudiziale, segue la sorte del processo 45. È consentita la fissazione di una decadenza contrattuale; ma è nullo il patto con il quale si stabiliscono termini di decadenza che rendono eccessivamente difficile a una delle parti l’esercizio del diritto (art. 2965). Il termine di decadenza deve essere congruo in relazione alle circostanze del caso concreto e perciò con riguardo, sia alla durata del termine pattuito, che alla situazione del soggetto obbligato a svolgere l’attività prevista per evitare la decadenza. È vessatoria la clausola contrattuale che sancisce decadenze a carico di un contraente aderente a un contratto predisposto dall’altra parte (artt. 13412) e in particolare nell’ipotesi di adesione del consumatore a un contratto predisposto da un professionista (art. 332, lett. t, D.Lgs. 206/2005). Se si tratta di un termine stabilito da un contratto o da una norma di legge relativa a diritti disponibili, la decadenza può essere impedita con il riconoscimento del diritto proveniente dalla persona contro la quale si deve far valere il diritto soggetto a decadenza (art. 2966). Quando la decadenza è impedita, il diritto rimane soggetto alle disposizioni sulla prescrizione (art. 2967). Le parti possono anche modificare la disciplina legale della decadenza e rinunziare alla decadenza medesima (art. 2968) 46. Con riguardo ai diritti indisponibili, le parti non possono modificare la disciplina legale della decadenza, né possono rinunziare alla decadenza medesima (art. 2968).   43 La comunicazione alle altre parti della domanda di mediazione impedisce la decadenza per una sola volta; se il tentativo fallisce, la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente dal deposito del verbale definitivo presso l’organismo (art. 56 L. 28/2010). 44 È materia sottratta alla disponibilità delle parti non solo quella relativa a diritti per loro natura indisponibili ma anche quella disciplinata da un regime legale che escluda qualsiasi potere di disposizione delle parti. (Cfr. Cass. 19-10-2012, n. 18078; Cass. 28-11-2001, n. 15131). 45 La domanda giudiziale è un evento idoneo ad impedire la decadenza di un diritto non in quanto costituisce la manifestazione di una volontà sostanziale, ma perché instaura un rapporto processuale diretto ad ottenere l’effettivo intervento del giudice, sicché l’esercizio dell’azione giudiziaria non vale a sottrarre il diritto alla decadenza, qualora il giudizio si estingua, facendo venire meno il rapporto processuale (Cass. 14-3-2018, n. 6230; Cass. 7-11-2017, n. 26309). 46 La rinuncia ad avvalersi della decadenza può avvenire anche per facta concludentia. Si è così ravvisata la rinuncia del venditore ad eccepire la decadenza del compratore dalla garanzia per vizi se, malgrado la denuncia oltre il termine di legge, quegli ha inviato un suo tecnico per esaminare il guasto o ha richiesto l’invio del bene per tentarne la riparazione (Cass. 24-4-1998, n. 4219; Cass. 30-1-1990, n. 587).

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C) INFLUENZA DELLO SPAZIO 13. La correlazione territoriale. – La persona opera nello spazio, assumendo importanza il rapporto che instaura con un determinato luogo. Rilevano la residenza, come dimora materiale abituale (art. 432); il domicilio, come sede principale di affari e interessi (art. 431). Nei rapporti di famiglia, ciascuno dei coniugi ha il proprio domicilio nel luogo in cui ha stabilito la sede principale dei propri affari o interessi; il minore ha il domicilio nel luogo di residenza della famiglia o quello del tutore; se i genitori sono separati o il loro matrimonio è stato annullato o sciolto o ne sono cessati gli effetti civili o comunque non hanno la stessa residenza, il minore ha il domicilio del genitore con il quale convive (art. 45) (V, 4.11). Il trasferimento della residenza non può essere opposto ai terzi di buona fede se non è stato denunciato nei modi prescritti dalla legge (con pubblicità nel registro dell’anagrafe: D.P.R. 30.5.1989, n. 223, recante il nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente); quando una persona ha nel medesimo luogo il domicilio e la residenza e trasferisce questa altrove, di fronte ai terzi di buona fede si considera trasferito pure il domicilio, se non si è fatta una diversa dichiarazione nell’atto in cui è stato denunciato il trasferimento della residenza (art. 44). Rispetto agli enti, quando la legge fa dipendere determinati effetti dalla residenza o dal domicilio, si ha riguardo al luogo in cui è stabilita la loro sede (art. 46). Residenza e domicilio rilevano anche ai fini della determinazione del foro generale territorialmente competente nelle procedure giudiziarie (artt. 18 ss. c.p.c.). Lo spazio segna anche la collocazione territoriale dei fatti giuridici e dunque delle vicende giuridiche che ne derivano, come luogo di attuazione dei diritti: così, con riferimento alle obbligazioni, l’adempimento deve avvenire nel luogo determinato nel contratto o, se non è stabilito, in uno di quelli fissati dall’art. 1182 (VII, 3.2). Rispetto agli immobili, la collocazione è criterio di determinazione dello statuto del bene (in ragione degli strumenti edilizi del luogo), influenzandone il godimento e la circolazione. La collocazione territoriale individua i registri di pubblicità immobiliare. 14. Individuazione del diritto applicabile. – Nei rapporti tra soggetti di differente nazionalità lo spazio rileva come collegamento per la individuazione del diritto applicabile a situazioni con profili di estraneità rispetto all’ordinamento: determinandosi un conflitto di leggi nello spazio, bisogna ricorre alle regole del diritto internazionale privato. C’è la necessità di ricercare, attraverso criteri di collegamento legislativamente previsti, il diritto applicabile al singolo fatto giuridico o alle singole situazioni. Vedi trattazione sull’applicazione della legge nello spazio (I, 3.12).

CAPITOLO 5

AUTONOMIA PRIVATA (Il negozio giuridico e l’autonomia negoziale)

Sommario: 1. I principi ispiratori. – 2. La categoria del negozio giuridico ed il suo sviluppo storico. – 3. La realtà dell’autonomia negoziale. – 4. Negozio e negozialità. – 5. Elementi del negozio giuridico. – 6. Soggetti e parte del negozio. La legittimazione. – 7. La volontà dei gruppi. – 8. Le fondamentali categorie di negozi giuridici. – 9. Segue. I negozi di disposizione e i terzi. – 10. Presupposti del negozio giuridico. – 11. L’incidenza tributaria (bollo e registrazione).

1. I principi ispiratori. – L’espressione autonomia privata indica tecnicamente il potere dei privati di darsi autonomamente le regole impegnative 1. L’autonomia è dunque storicamente collocata in opposizione all’eteronomia, che allude a regole provenienti dall’esterno rispetto ai soggetti. L’autonomia è concetto più complesso dell’autodeterminazione: questa esprime la mera tensione individuale volitiva verso un risultato; l’autonomia, come è nella sua radice semantica, mira anche a dettare una regola e quindi a governare. Si è già detto come, tradizionalmente, l’autonomia privata si sia esplicata attraverso la categoria, concettualmente unitaria, del negozio giuridico (II, 4.7); come è stato delineato il contesto storico di emersione della categoria del negozio giuridico (I, 2.2). Va però approfondito come il principio di autonomia privata sia evoluto e come sia sentito e operi nell’attualità. Al fondo del riconoscimento dell’autonomia privata c’è una duplice scelta dell’ordinamento, ideale e economica: sul piano ideale, di ritenere l’autonomia privata quale essenziale espressione delle libertà fondamentali, per cui libertà e autonomia privata insieme si tengono o insieme cadono; sul piano economico, di considerare l’autonomia privata, con la connessa economia di mercato, come sistema maggiormente in grado di procurare il benessere generale. Rispetto a entrambi i postulati conseguono due fondamentali controspinte normative: da un lato, garantire che l’autonomia privata si dispieghi in una guisa da consentire l’eguale esplicazione di autonomia dei soggetti coinvolti; dall’altro, proteggere e valorizzare le posizioni (sociali ed economiche) deboli che da un mercato senza regole rimarrebbero espunte o sacrificate, determinando anche il fallimento del mercato.   1 Il termine “autonomia” proviene dal greco autonomia, composto di autos (stesso) e deriv. di nemo (governare): significa letteralmente governarsi con leggi proprie, senza ingerenze da parte di altri. È contrapposto a “eteronomia”, dal greco heteros (altro, diverso) e deriv. di nemo: letteralmente essere governato da altri e precipuamente dalla normativa di derivazione statale o di altre autorità.

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Sia nella Costituzione che nel diritto europeo non c’è un espresso e formale riconoscimento dell’autonomia privata, ma la sua rilevanza giuridica deriva indirettamente dal complessivo contesto che necessariamente la implica, con i limiti di compatibilità con l’ordinamento. Nella Carta costituzionale l’art. 2 riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, come singolo e nelle formazioni sociali, limitandone l’esercizio con il rispetto di doveri inderogabili di solidarietà, quale generale espressione del principio personalista (I, 2.7). Specifico riscontro è nella c.d. costituzione economica: la proprietà privata è riconosciuta e garantita, determinandosi i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti (art. 422 Cost.); l’iniziativa economica privata è libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno all’ambiente, alla salute, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (oltre che rimanere soggetta agli ulteriori limiti derivanti dalla previsione di controlli, indirizzi, riserve e trasferimenti coattivi di imprese di carattere generale) (artt. 41 e 43 Cost.) 2; è incoraggiato e tutelato il risparmio, favorendo l’accesso del risparmio popolare alle c.d. proprietà personali (la proprietà dell’abitazione e la proprietà diretto-coltivatrice) e all’investimento azionario nei grandi complessi produttivi del paese (art. 47 Cost.) 3. Il diritto europeo prevede un mercato interno caratterizzato da una “economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale” (art. 3 TUE). Per la Carta dir. fond. U.E. è riconosciuta la libertà d’impresa, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali (art. 16); ogni persona ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquisito legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità (art. 17). Dal complessivo impianto deriva una copertura costituzionale e di diritto europeo dell’autonomia privata, come mezzo per esercitare l’impresa e accedere alla proprietà. Analogamente il codice civile non contiene una generale formulazione dell’autonomia privata. Però la previsione del contratto (artt. 1322 ss.), del testamento (artt. 587 ss.), del matrimonio (artt. 84 ss.) e di altri negozi unilaterali (artt. 1987 ss.), come il riconoscimento della libertà di costituzione dei gruppi e dell’elaborazione degli statuti delle organizzazioni collettive ne implicano il riconoscimento. È anche riconosciuta autonomia di organizzazione e di indirizzo del gruppo familiare (art. 144). Dalla complessiva normativa emergono alcuni essenziali principi ispiratori dell’autonomia privata, che è possibile delineare come di seguito. a) Compatibilità con l’ordinamento. L’autonomia privata è espressione di libertà, con i vincoli fissati dall’ordinamento. L’autonomia privata non è funzionalizzata ad un risultato ordinamentale, ma deve risultare compatibile con la complessità delle relazioni   2 L’autonomia contrattuale dei singoli è tutelata, a livello costituzionale, indirettamente, in quanto “strumento di esercizio di libertà costituzionalmente garantite”; ad es. l’art. 411 Cost. “tutela l’autonomia negoziale come mezzo di esplicazione della libertà di iniziativa economica”, la quale si esercita normalmente in forma di impresa (Corte cost. 30-6-1994, n. 268). È anche consolidato indirizzo che le restrizioni dell’autonomia privata rispondono ad interessi pubblici e, come tali, “sono ammissibili, entro limiti di ragionevolezza e sempreché non comportino totale soppressione o grave affievolimento del diritto di libertà dei singoli” (Corte cost. 28-11-1986, n. 248). 3 La costituzione economica esprime le tre matrici ideologiche che diedero vita alla Carta costituzionale: l’idea liberale della garanzia della libertà di esplicazione dell’autonomia; l’anima cattolica, specialmente emersa nella enciclica rerum novarum, di conciliare le libertà con la solidarietà; il progetto marxista di presenza forte di uno Stato nell’economia attraverso specifici piani e nazionalizzazioni.

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sociali sulle quali incide; in tal guisa rileva giuridicamente entro i limiti segnati dai valori che storicamente la società e dunque l’ordinamento si pongono. La incidenza è tanto più penetrante quanto maggiormente sono coinvolte identità esistenziali, ovvero interessi generali o interessi di fasce sociali che l’ordinamento mira a proteggere, attraverso un controllo di liceità e meritevolezza del contenuto degli atti di autonomia (limiti funzionali); in talune materie sono addirittura previsti solo atti tipici (es. matrimonio, testamento). Rispetto alla formazione dell’atto negoziale e alla sua struttura operano dei limiti perché l’atto sia consapevole esplicazione di autonomia privata e conforme all’ordinamento (limiti strutturali) (es. artt. 1325 ss.). b) Tendenziale ind ipendenza d elle sfere giuridiche individ uali . È un fondamentale criterio di competenza dell’autonomia privata rispetto agli interessi regolati, per cui è possibile comandare in casa propria, non in casa altrui. E ciò in un duplice senso: con la propria volontà si può modificare la sfera giuridica propria; non si può incidere la sfera giuridica altrui contro la volontà del titolare (il contratto è il simbolo della necessità dell’accordo per disporre la regolazione di interessi tra due o più parti: art. 1322). Nello spirito di solidarietà che anima il nostro ordinamento è consentito ed anzi incentivato procurare unilateralmente un vantaggio ad altri, non però contro la volontà del beneficiario: per gli atti tra vivi, quando non interviene il consenso del beneficiario (come nella donazione: art. 769), questi ha comunque diritto di rifiutare il beneficio accordatogli (art. 1333) 4; in materia successoria, l’eredità si acquista con l’accettazione (art. 459), e il legato si acquista automaticamente ma è oggetto di rinunzia (art. 6491) (rectius rifiuto). c) Normale conservazione d ell’attività giuridica negoziale . Di regola l’attività giuridica non deve andare sprecata essendo essenziale risorsa del sistema economico, salvo regolarne modi e termini di svolgimento (es. art. 1367). Alla base c’è l’idea chiave dell’economia di mercato di considerare l’autonomia privata come sistema privilegiato di realizzazione dell’interesse economico collettivo. Nella contemporaneità si è aggiunta l’ulteriore motivazione di preservare la disponibilità dei beni acquisiti (specie da fasce sociali più deboli). Anche la conservazione dall’attività negoziale deve svolgersi in conformità ai valori ordinamentali.

2. La categoria del negozio giuridico ed il suo sviluppo storico. – Si è anticipato che i negozi giuridici si specificano rispetto agli atti giuridici in senso stretto in quanto assumono rilevanza, non solo la consapevolezza e volontarietà dell’atto nella sua materialità, ma anche la consapevolezza e volontarietà degli effetti, apprestando l’ordinamento effetti giuridici tendenzialmente conformi allo scopo pratico-giuridico perseguito dagli autori (II, 4.5). Tradizionalmente il dibattito sulla autonomia privata si è riflessa sulla discussione intorno alla categoria del “negozio giuridico”, come massima esplicazione della stessa: l’autonomia negoziale indica l’autonomia privata espressa mediante negozi giuridici (c.d. autonomia privata negoziale). Va approfondito come la categoria del negozio sia emersa e sia evoluta e come sia sentita e operi nell’attualità. a) Si è visto come una consapevole elaborazione della categoria del “negozio giuridi  4 Il tema è diventato di grande attualità a seguito dell’approvazione del Codice del terzo settore (D.Lgs. 3.7.2017, n. 117), che regola le finalità, l’organizzazione e l’attività del c.d. privato sociale.

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co” sia maturata essenzialmente tra il sec. XVIII e gli inizi del sec. XIX, nello sviluppo del pensiero del giusnaturalismo razionale e della successiva scuola storica, con gli apporti dell’illuminismo, attraverso la coniugazione della forza rivoluzionaria della libertà con la potenza vitale della volontà. Da tale intreccio derivava uno strumentario di categorie giuridiche che attraversava più ricostruzioni e vari istituti (diritti soggettivi, proprietà, contratto, responsabilità), cementati dal riconoscimento al soggetto, come tale, del diritto naturale inviolabile di regolare i propri interessi e di rispondere per i soli atti di esercizio della libera volontà (I, 2.2). Il negozio giuridico rileva come atto di volontà regolatore di interessi privati, la cui nozione è di “manifestazione di volontà rivolta a uno scopo pratico tutelato dall’ordinamento”, così atteggiandosi come atto indirizzato a produrre effetti giuridici che l’ordinamento realizza in quanto voluti dagli autori e conformi all’ordinamento (c.d. teoria soggettiva). Dal punto di vista dei soggetti, ciò significava riconoscere la unità del soggetto di diritto (unitarietà astratta del civis), contro la stratificazione sociale e giuridica di derivazione medievale. La volontà, quale espressione della libertà dell’individuo, è la forza creatrice degli effetti giuridici: volontà e libertà si pongono come un’endiadi indissolubile. La valorizzazione della signoria della volontà tende a garantire che l’atto di disposizione sia il frutto di una libera e consapevole scelta: ogni anomalia nella formazione della volontà o/e nella sua manifestazione vulnera la validità dell’atto. Dal punto di vista dell’atto, ciò comportava la elaborazione di una categoria unitaria, generale ed astratta, dell’agire giuridico: il negozio giuridico esprime una categoria logico-giuridica ordinante dei rapporti privati, con astrazione dalla complessità del tessuto sociale (contratto, matrimonio, testamento sono accomunati come esplicazioni di volontà). La costruzione unitaria riduce il negozio a struttura (visione statica del negozio) in grado di determinare effetti giuridici in quanto formulato secondo i requisiti previsti dall’ordinamento (c.d. elementi o requisiti essenziali dell’atto). In una prospettiva economica, il perseguimento individuale del proprio interesse avrebbe condotto alla realizzazione dell’interesse economico generale, secondo i postulati del liberismo. La tutela di una libera volontà, per un verso, garantiva all’aristocrazia di non essere privata della proprietà senza una propria volontà, e, per l’altro verso, assicurava alla borghesia di accedere alla proprietà e ai mezzi di produzione con un proprio atto di volontà. La categoria del negozio presidiava anche la proprietà: significativamente il cod. civ. nap. e poi il cod. civ. del 1865 collocavano il contratto nel Libro III dedicato ai “Modi di acquistare e trasmettere la proprietà”, quale meccanismo di circolazione di ricchezza. In definitiva si elaborava una categoria logica (per l’astrazione dalle singole morfologie della realtà) che diveniva anche categoria ideologica (per l’espressione di un unitario atto di libertà in funzione di un unitario soggetto giuridico). Una previsione dei “negozi giuridici” come categoria generale penetrava nel codice civile tedesco del 1900 (BGB), collocata nel libro I dedicato alla parte generale, mentre non faceva ingresso né nel cod. civ. nap., né nel cod. civ. del 1865 (dai quali era però presupposta). Una remora alla teoria soggettiva proveniva dalla teoria della responsabilità (specificamente autoresponsabilità) nel senso che l’autore della dichiarazione non poteva accampare una volontà interna diversa da quella dichiarata quando il divario fosse imputabile a sua colpa.

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b) Con lo sviluppo dell’industrializzazione e dunque di un’attività economica di impresa, emergeva la funzione del negozio come strumento di autoregolazione di interessi (visione dinamica del negozio). Il negozio rilevava come un atto economico, con la conseguenza che il controllo di conformità dell’atto di autonomia privata all’ordinamento era compiuto, bensì sulla struttura dello stesso, ma avendosi massimamente riguardo all’assetto di interessi attuato dai privati. Fedele al c.d. metodo dell’economia, per cui le forme giuridiche devono riflettere la sostanza dei fenomeni materiali, il cod. civ. del 1942, non solo non contiene una normativa generale sul negozio giuridico come atto (come aveva già fatto il cod. civ. abr.), ma disancora la disciplina del contratto dalle vicende della proprietà per impegnare l’intera realtà economica: il contratto è collocato nel Libro IV dedicato alle “Obbligazioni”, come rilevante fonte delle stesse (art. 1173), mentre la proprietà è collocata in un autonomo Libro III, intitolato alla “Proprietà”. Per la Relaz. cod. civ., n. 604, il contratto è “centro della vita degli affari”; riceve una trattazione autonoma quale generale strumento di regolamento di interessi nella vita economica 5. Il contratto è sospinto verso la organizzazione dei rapporti obbligatori, funzionale all’attività di impresa. Correlativamente assume rilevanza la esternazione della volontà ed il modo come la stessa è avvertita nella società, perché c’è da garantire la certezza degli scambi. È accordato valore prevalente alla dimensione sociale dell’atto di autonomia (c.d. teoria oggettiva): la prevalenza della dichiarazione è coerente all’esigenza di sicurezza del traffico giuridico, quale postulato essenziale di una economia di mercato, che reclama la spedita e certa collocazione dei prodotti di impresa. In tale quadro il contratto (e specificamente l’atto di scambio) si atteggia come strumento di formazione di ricchezza per il ruolo essenziale svolto nell’esplicazione dell’attività dell’impresa (nella organizzazione dell’attività economica, come nella collocazione dei prodotti). Una remora alla teoria oggettiva proviene dalla teoria dell’affid amento, nel senso che il destinatario della dichiarazione o altro soggetto interessato non può accampare il valore della dichiarazione contro la volontà dell’autore quando il divario sia imputabile a sua colpa (rilevante è solo l’affidamento incolposo) 6. c) L’evoluzione dei diritti umani ai valori della persona umana e della solidarietà apre l’autonomia privata alla complessità della relazionalità, facendosi funzionare, per un verso, le esigenze economiche del mercato e della concorrenza, e per altro verso le circostanze di esercizio dell’autonomia privata e le connotazioni degli autori dell’atto. Il negozio rileva, non solo come fatto regolante, ma anche come fatto regolato in ragione dell’assetto di interessi attuato. È aperta la strada ad una valutazione dei modi e delle circostanze di emersione e composizione degli interessi nel concreto atto negoziale: vengono in rilievo i contesti sociali di maturazione degli scambi e in genere di attuazione degli assetti di interessi e le tecniche impiegate di formazione e in genere di conclusione   5 Per E. BETTI (1950) il negozio giuridico è essenzialmente un precetto dell’autonomia privata in ordine a concreti interessi propri di chi lo pone. Rileva la Relaz. cod. civ., n. 602, i “negozi di diritto familiare” non sono sostanzialmente omogenei agli altri che hanno un oggetto patrimoniale e quindi la relativa disciplina deve essere in gran parte diversa. 6 Secondo l’efficace sintesi di F. SANTORO-PASSARELLI (1944, ult. ed. 1966), dalle varie norme del codice civile si trae un principio del “rischio del dichiarante per l’affidamento senza colpa del destinatario o di altro interessato nella dichiarazione” (es. artt. 428, 1431, 1439, 1445).

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dell’atto; inoltre rilevano la specificità degli autori del negozio e delle qualifiche ricoperte, come rilevano la natura degli interessi coinvolti. La figura del negozio, come categoria generale, esce ridisegnata 7. Anzitutto il carattere patrimoniale del contratto sollecita criteri di soluzione dei conflitti di interessi che non si addicono ai negozi con contenuto non patrimoniale (es. negozi familiari), che coinvolgono la esplicazione di una dimensione esistenziale. Inoltre, anche con riguardo al contratto, la libertà di contrarre (cioè di stipulare un contratto) non si accompagna più indissolubilmente con la libertà di contrattare (cioè di incidere sul contenuto del contratto). È evidente il divario tra la compravendita di un immobile tra due privati e l’acquisto di un prodotto di serie collocato dalla impresa: nella prima ipotesi, c’è esercizio di autonomia, sia di contrarre che di contrattare, svolgendosi tra le parti una negoziazione circa il trasferimento del diritto e l’ammontare del prezzo; nella seconda ipotesi, in capo al compratore (consumatore) emerge solo autonomia di contrarre e dunque di scelta del contraente e del prodotto, con mera adesione ad un contenuto unilateralmente predisposto dalla controparte, senza possibilità di incidere sull’assetto di interessi. Si vedrà come emerge e si diffonde la valutazione della specificità dell’operazione (causa concreta) (VIII, 3.5). Peraltro lo sviluppo della pubblicità sublimale induce spesso all’accesso compulsivo a beni di consumo con riduzione della valutazione e consapevolezza della scelta. In tale contesto l’efficacia giuridica del negozio è legata al trattamento che l’ordinamento compie del singolo negozio, secondo la struttura e la funzione dello stesso. L’ordinamento può non dotare di effetti giuridici il singolo negozio, per considerarne la formazione viziata ovvero valutarne il contenuto e/o il risultato perseguito illeciti o comunque non meritevoli di tutela; come può ridurre o integrare o anche sostituire imperativamente parte del risultato programmato, con la privazione di alcuni effetti giuridici o l’attribuzione di altri che sopravanzano lo scopo perseguito o sono più limitati rispetto allo stesso (fondamentali sono gli artt. 1339 e 1374).

3. La realtà dell’autonomia negoziale. – Una valutazione complessiva della problematica delineata può consentire una generale rimeditazione del percorso storico, delineando i profili originari di perdurante attualità e le molte innovazioni indotte dalla sopravvenuta realtà sociale e ordinamentale. a) Rispetto alla elaborazione dottrinale della categoria, è possibile avvertire come le due fondamentali teorie storiche (volontaristica e dichiarazionistica) del negozio, sfrondate dei relativi eccessi, non siano alternative ma esprimano differenti prospettive di osservazione di una unitaria realtà (l’autonomia privata): la prima enfatizza la tensione soggettiva verso il risultato, che però inevitabilmente si concreta in un autoregolamento di interessi; la seconda valorizza l’assetto di interessi attuato, che però necessariamente implica una manifestazione di volontà che lo sorregge e persegue. Un articolato filone dottrinale rileva la insufficienza della volontà nella difesa dei propri interessi, per non essere la stessa sempre in grado di esplicarsi adeguatamente,   7 Una lucida e appassionata difesa della categoria del negozio giuridico a garanzia della libertà dei soggetti, pure nel nuovo codice civile del 1942, è compiuta da L. CARIOTA FERRARA (1948), di cui già il titolo dell’opera (“Il negozio giuridico nel diritto privato italiano”) esprime l’idea culturale di accreditare la categoria del negozio giuridico anche alla stregua di un codice e di un modello economico fondati sulla centralità dell’impresa.

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reclamandosi un intervento eteronomo correttivo o di sostegno; e d’altra parte denunzia come l’assoluta dimensione produttivistica non si traduce automaticamente in benessere economico collettivo. Le varie dimensioni, come si vedrà, sono destinate a convivere in una società che si riconosca nei valori della libertà e della solidarietà, nonché della economia di mercato. La fiducia nell’autonomia privata (come ragione di sviluppo della società) e nel mercato (come meccanismo di allocazione delle risorse e dei beni) deve conciliarsi con le identità esistenziali e le appartenenze sociali degli autori dell’atto, come con le articolazioni del mercato in cui il singolo negozio si colloca: a meccanismi di garanzia di esplicazione dell’autonomia privata vanno affiancati interventi di riequilibrio autoritativo del regolamento di interessi, con interventi di regolazione del mercato e di neutralizzazione delle asimmetrie informative e di conoscenza, oltre che di sostegno delle posizioni deboli. Si aggiunga che la globalizzazione fa emergere una autonomia privata del grande capitale e delle organizzazioni di categoria che escogitano modelli e equilibri che si impongono anche agli imprenditori deboli e addirittura al potere normativo dei singoli Stati. Emerge dunque l’esigenza di una governance dell’autonomia privata che impegna le organizzazioni internazionali (a cominciare dall’Unione europea) per un riequilibrio tra libertà e giustizia, tra produttività e vivibilità. b) Con riguardo alla realtà legislativa, in assenza di una disciplina del negozio giuridico, il contratto, per avere ricevuto nel codice civile ampia disciplina, ha finito di fatto con l’influenzare le riflessioni sulla elaborazione della categoria del negozio. Si aggiunga la problematicità di un dato testuale: per l’art. 1324, “salvo diverse disposizioni di legge, le norme che regolano i contratti si osservano, in quanto compatibili, per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale”; la norma ha rappresentato il più importante crocevia di osservazioni circa l’accoglimento o meno nel nostro ordinamento giuridico di una “categoria del negozio giuridico”. A tale norma hanno fatto riferimento sia gli assertori della tesi positiva, vedendo nella stessa l’orientamento di estendere la disciplina del contratto agli atti negoziali unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale, sia i sostenitori della tesi negativa, rinvenendo nel richiamo alla compatibilità un ostacolo fondamentale alla configurazione di una categoria unitaria. In realtà la norma fornisce una duplice indicazione: da un lato, subordina a una verifica di compatibilità l’applicazione della normativa sui contratti ai negozi unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale 8; dall’altro, implicitamente, esclude una generale compatibilità di applicazione della normativa sui contratti sia agli atti bilaterali a contenuto non patrimoniale, sia agli atti mortis causa. Si conferma, sul piano testuale, come non sia configurabile nell’ordinamento una ca  8

La giurisprudenza ha fatto ricorso all’art. 1324 in più direzioni. Anzitutto con riguardo alla interpretazione dei negozi unilaterali: Cass. 7-5-2004, n. 8713; Cass. 2-3-2004, n. 4251. La presunzione ex art. 1352 di riferimento della forma convenzionale alla validità del contratto si applica al recesso per il quale le parti abbiano convenuto la forma scritta, in quanto atto negoziale unilaterale di contenuto negativo che pone fine agli effetti sostanziali della permanenza del contratto rispetto al quale si esplica (Cass. 9-7-2019, n. 18414). La domanda di partecipazione ad una procedura di gara, cui si accompagna l’offerta dell’operatore economico, costituisce un atto unilaterale recettizio, che contiene la proposta contrattuale poiché l’operatore economico dichiara la propria volontà di stipulare il contratto con la pubblica amministrazione e, dunque, la disponibilità ad accettare le condizioni previste dal bando per la realizzazione dell’opera, del servizio o della fornitura: ai sensi dell’art. 1324, sono applicabili gli artt. 1427 ss. c.c. che disciplinano l’annullabilità del contratto per errore (Cons. Stato 20-6-2019, n. 4198).

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tegoria del negozio giuridico quale atto unitario, mentre mantenga perdurante attualità la categoria dell’autonomia negoziale, quale espressione della generale prerogativa di autodeterminazione dei privati. In questa prospettiva è possibile rappresentare l’autonomia negoziale come un ordito logico, per essere generale strumento di regolazione delle relazioni sociali ed economiche, e una prerogativa ideologica per la rivendicazione ai privati della (tendenziale) libertà di autoregolare i propri interessi, al riparo da due fondamentali crinali: da un lato, rimanere giuridicamente soggetti esclusivamente all’eteronomia pubblica; dall’altro, soggiacere in fatto all’abuso di posizione dominante. Il dato significativo della contrattazione di massa è proprio che i contratti conclusi sono in debito di autonomia negoziale per l’asimmetria di potere delle parti. Nel delineato ordine di idee l’area dell’autonomia negoziale si amplia progressivamente. Si sviluppa l’autonomia negoziale collettiva dei gruppi e delle formazioni sociali, a cominciare dalla famiglia, estesa a sindacati e partiti e a tutto il mondo dell’associazionismo. Si dilata l’area di svolgimento dell’autonomia negoziale assistita, con strutture di supporto a soggetti deboli nella conclusione di contratti. Di recente moduli negoziali sono anche operanti nella esplicazione dell’attività della pubblica amministrazione, con il correlato ritrarsi della sovranità (art. 1 L. 241/1990, come modificato e integrato dall’art. 1 L. 15/2005) (I, 2.17). Una tecnica negoziale ha pervaso pure il campo della tutela dei diritti, con conseguente erosione del dogma della statualità della giurisdizione, attraverso le varie tecniche degiurisdizionalizzate di soluzione delle controversie (III, 3.3).

4. Negozio e negozialità. – La concettualizzazione del negozio giuridico quale categoria ordinante dei rapporti privati, per l’epoca in cui maturò, ebbe il merito di rappresentare gli esiti di uno sviluppo storico di valorizzazione della dignità dell’individuo come tale, e perciò dell’unità del soggetto giuridico. Tale costruzione ebbe però il limite di astrarre i propri risultati dall’esperienza storica dalla quale aveva tratto le maggiori sollecitazioni, fino a configurare i risultati stessi come espressivi della verità assoluta ed immutabile di un dogma, che mal si addice ad un ordinamento civile il cui scopo è quello di regolare le relazioni della società civile, in perenne evoluzione. A distanza di tempo si può anche immaginare che forse quel processo di ipostatizzazione della realtà, con la connessa astrazione logica, possa essere stato consapevolmente sorretto dalla necessità di preservare i risultati conseguiti di uguaglianza contro ritorni al passato di divari sociali e privilegi di classe; ma la deriva dogmatica che accompagnò i risultati conseguiti ha finito con il travolgere la stessa essenza del problema che la categoria del negozio intendeva risolvere e cioè il rapporto tra individuo e ordinamento giuridico (e perciò tra libertà e autorità). La categoria del “negozio”, quale figura unitaria e astratta, è certamente incongrua rispetto all’emergere di articolazioni del mercato indotte dallo sviluppo della grande impresa (industriale e di distribuzione), oltre che essere pericolosa, perché non lascia evidenziare il tasso di effettiva esplicazione dell’autonomia negoziale esercitata dai singoli autori degli atti. La vicenda storica che viviamo fa emergere un’accentuazione degli obblighi di trasparenza e informazione, come efficaci antidoti alla sopraffazione economica, e un’amplificazione di eteronomia e integrazione come rimedi di recupero di interessi restati esclusi o inappagati. Nella descritta logica di formulazione di autonomia negoziale, bisogna guardare alla

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negozialità come categoria di frontiera da recuperare, per verificare la partecipazione attiva dei soggetti alla regolazione privata. Deve dunque trattarsi di una autonomia negoziale, non solo presupposta in capo ad ogni cittadino come garanzia di uguaglianza e libertà, ma anche presidiata nella effettività di esercizio, quale segno di esplicazione della persona umana. Consegue che l’osservazione ordinamentale non può essere circoscritta alla struttura dell’atto (volontà e dichiarazione) ma deve aprirsi al contenuto regolamentare (assetto di interessi) nel contesto in cui il singolo negozio matura e si svolge. Il divario di forza contrattuale può essere colmato dall’ordinamento attraverso due meccanismi: a) riarmand o la libertà dei privati (autonomia), con la predisposizione di strumenti accentuativi di doveri di informazione e di presidio alla trasparenza, sì da garantire consapevolezza delle scelte operate ed effettività del consenso prestato (anche con il ricorso a meccanismi di sostegno e assistenza: c.d. autonomia assistita); b) intervenendo autoritativamente (eteronomia), con disposizioni che integrano il regolamento dei singoli negozi, amputandone e/o ampliandone il contenuto oltre la volontà degli autori dell’atto. Si vedrà come significative indicazioni in entrambe le direzioni sono già nel codice civile e vanno dilatandosi negli interventi normativi (VIII, 5.6). Va emergendo un quadro variegato di rimedi che affiancano quelli tradizionali nella tutela dei diritti: da un lato, un controllo preventivo, per inibire clausole contrattuali e comportamenti lesivi di interessi dei consumatori, indipendentemente dall’insorgere di una lite; dall’altro, una tutela di massa, attraverso le associazioni di categoria; dall’altro ancora, la previsione di autonomi interventi istituzionali (es. Ministeri o Camere di Commercio); dall’altro ancora, il ricorso a organismi di autodisciplina. Sta anche emergendo una tecnica di tutela collettiva di classe (III, 1.7). Nel quadro innanzi delineato può ancora riuscire utile il riferimento al “negozio giuridico”, inteso come espressione di negozialità, e cioè come esercizio di autoregolazione, per verificare la partecipazione attiva alla regola privata assunta. Peraltro la categoria del negozio, per la prolungata tradizione che la sorregge e la vastità di studi che ha sollecitato, ha finito con il maturare nel tempo un significativo strumentario di concetti, tecniche e nomenclature, tuttora utilizzato nella pratica e nella vita giudiziaria per la verifica delle esplicazioni dell’autonomia dei soggetti (parlandosi correntemente di volontà negoziale, effetti negoziali, ecc.), anche solo per fare emergere simulacri di volontà e dunque assenza di negozialità. È comunque da rilevare che la categoria del negozio non ha riscontri in significativi ambienti europei (la c.d. area del common law). Il processo di uniformazione del diritto privato si muove nella direzione del contratto e non del negozio: sicché inevitabilmente la categoria unitaria del negozio è destinata a stemperarsi nei singoli atti impiegati nella realtà (contratto, testamento, matrimonio, ecc.) nei quali si esplica una negozialità. Con tale consapevolezza, è possibile delineare alcuni tratti comuni dell’autonomia negoziale, che poi vanno a specificarsi in relazione ai singoli schemi utilizzati e con riguardo ai particolari atti compiuti.

5. Elementi del negozio giuridico. – Una nutrita elaborazione dottrinale ha delineato specifici “elementi del negozio giuridico”, variamente intesi, quali tratti costitutivi essenziali del negozio, che continua a orientare criteri e logiche di valutazione dell’esercizio dell’autonomia privata. Mancando una formulazione del negozio giuridico, neppu-

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re sussiste una indicazione degli elementi; gli stessi sono attinti alla disciplina degli atti negoziali più rilevanti, specialmente del contratto che contiene la disciplina più nutrita, attraverso un’opera di generalizzazione logica 9. Gli elementi del negozio sono tradizionalmente costruiti come essenziali, accidentali e naturali (rectius effetti naturali): non sono autonomi e distinti, ma operano come profili di una realtà unica ed unitaria di esercizio di autonomia privata, assumendo specifica impronta in ragione della tipologia di atti e con riferimento ai concreti negozi. a) Elementi essenziali. Sono gli elementi costitutivi del negozio, tradizionalmente identificati come volontà negoziale, manifestazione, causa, forma vincolata. La mancanza di uno di tali elementi rende il negozio nullo (art. 14182). Con riguardo al contratto, sono qualificati come “requisiti del contratto” (artt. 1325 ss.), per alludere alla validità dell’atto. Sono terminologie correlate: costituiscono elementi essenziali della struttura dell’atto in quanto requisiti di validità per l’ordinamento (VIII, 1.3). Anzitutto rileva la volontà negoziale, quale autodeterminazione libera e consapevole di conseguimento di uno scopo: rileva nella duplice prospettiva, sequenziale, della formazione, come azione dinamica di intento (volere), e della regolazione come assetto di interessi attuato (voluto). Nel significato proprio di “autonomia” la volontà negoziale esprime la volontà di darsi autonomamente regole e quindi autoregolare i propri interessi. Sussistono statuti di disciplina delle anomalie della volontà negoziale, per assenza o vizi della stessa (errore, violenza e dolo), che operano diversamente in ragione della natura dell’atto, tra vivi o a causa di morte, e della struttura dell’atto, bilaterale o unilaterale. La manifestazione della volontà è essenziale strumento di rilevanza sociale di ogni determinazione volitiva. A differenza degli ordinamenti religiosi, che hanno una rilevanza nel foro interno delle persone, negli ordinamenti civili le regole rilevano nei rapporti con i consociati: perciò è necessario che la volontà negoziale sia manifestata, e cioè esteriorizzata. Quale che possa essere la forma richiesta dell’atto, una manifestazione non può mai mancare. Come ogni regola giuridica, anche la regolazione privata ha necessità di effettività sociale: implica dunque una manifestazione di volontà 10. Più spesso la volontà è manifestata attraverso apposita dichiarazione (negozi dichiarativi). La dichiarazione è espressa se è palese, indicando lo scopo perseguito (es. contratto di vendita di un bene: art. 1470); è tacita se è ricavata da una diversa volontà negoziale, che non si potrebbe compiere senza una implicita e ulteriore volontà (es. la vendita di diritti ereditari implica accettazione tacita dell’eredità: artt. 476 e 477).   9 Gli atti negoziali tradizionalmente ricondotti alla categoria del negozio giuridico trovano regolamentazione in distinte parti del codice civile, coerentemente con la materia cui afferiscono: il matrimonio, nel libro primo in tema di famiglia (artt. 79 ss.); il testamento, nel libro secondo dedicato alle successioni (artt. 587 ss.); il contratto, nel libro quarto intitolato alle obbligazioni (artt. 1321 ss.). 10 Si è tradizionalmente posto il problema se la tensione dei privati debba essere verso uno scopo materiale o verso gli effetti giuridici disposti dall’ordinamento. In realtà è necessario che l’intento dei privati sia rivolto a conseguire una finalità pratica rilevante per l’ordinamento giuridico, nel senso che si intende realizzare con l’atto un risultato pratico concreto giuridicamente efficace (perciò uno scopo pratico-giuridico), anche se poi gli effetti attribuiti dall’ordinamento non sempre sono conformi a quelli divisati dagli autori dell’atto. È sufficiente che i soggetti del negozio siano consapevoli della giuridicità degli effetti che dall’atto di autoregolamento derivano. Il tema è particolarmente avvertito con riguardo ai tanti rapporti interpersonali quotidiani, dettati da cortesia o amicizia o altruismo, che, quand’anche coinvolgano interessi patrimoniali, di regola non sono compiuti con l’intento di conseguire un risultato anche giuridico.

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Talvolta la volontà è manifestata unitamente all’attuazione dello scopo, senza una preventiva dichiarazione (negozi attuativi) (es. conclusione del contratto mediante esecuzione ex art. 1477). Si vedrà come i fondamentali mezzi di manifestazione della volontà sono: il linguaggio, che incarna una dichiarazione esplicita della volontà, con parole, scritti, alfabeti convenzionali, ecc.; il contegno, che realizza una manifestazione di volontà attraverso una specifica condotta, da valutare in funzione delle circostanze (VIII, 2.5). Con riguardo al contratto, è necessario che le manifestazioni di volontà di due o più parti si combinino in un accordo (artt. 1326 ss.), che incarna la concorde volontà delle parti ed integra, così, la necessaria (e unitaria) volontà negoziale. Si vedrà dei vari modi previsti dalla legge per la formazione del consenso (VIII, 2.13). La causa indica la funzione concreta svolta dal singolo negozio, come autoregolamento di interessi; in essa si condensa lo scopo pratico-giuridico perseguito dell’autore del negozio. La presenza della causa consente il controllo ordinamentale dell’atto di autonomia privata, al fine di verificare la meritevolezza e la liceità dello scopo perseguito; ciò che apre alla verifica anche dell’oggetto dell’atto, come rappresentazione dei beni dedotti nell’atto. La correlazione della causa con l’oggetto delinea il contenuto dell’atto che fissa il regolamento negoziale voluto (se ne parlerà ampiamente rispetto al contratto: VIII, 3). La forma vincolata (o necessaria) rileva quando è richiesta dalla legge a pena di nullità. Una manifestazione non può mai mancare, in quanto mezzo di esteriorizzazione della volontà negoziale; talvolta la manifestazione è assoggettata ad una forma vincolata per la validità dell’atto (c.d. forma ad substantiam). Quando è richiesta una specifica forma della manifestazione, si parla di negozi solenni (es. gli atti di trasferimento della proprietà di immobili ex art. 1350). Si vedrà come un vincolo di forma possa essere prescritto in ragione di più esigenze (richiamo della ponderazione dell’autore dell’atto dispositivo, circostanze della formazione dell’atto, natura dello scopo perseguito, tipologia degli interessi coinvolti, ecc.: è in atto una evoluzione del formalismo in funzione di tutela di interessi deboli (v. VIII, 4.1). Se nulla è prescritto dalla legge, la modalità di manifestazione è rimessa alla libertà degli autori del negozio. b) Elementi accidentali. Sono determinazioni che arricchiscono lo schema negoziale ampliandone il contenuto. Possono o meno sussistere senza influenzare la validità dell’atto; se presenti, arricchiscono il contento del negozio, non senza rilevanza. L’accidentalità è rispetto allo schema negoziale tipico utilizzato; quando sono adottati interagiscono con l’assetto di interessi, concorrendo alla elaborazione della volontà negoziale; perciò di tali ulteriori determinazioni bisogna tenere conto nella valutazione dell’assetto di interessi. Per la diffusione che sempre li ha caratterizzati, sono regolati specificamente nel codice civile condizione, termine e onere. La condizione e il termine realizzano una manovra degli effetti; il modo amplia la portata degli effetti. La condizione incide sulla sorte degli effetti, subordinando l’efficacia o la risoluzione dell’atto ad un avvenimento futuro e incerto (condizione sospensiva o risolutiva). Il termine incide sul tempo degli effetti, segnando l’inizio o il termine della produzione degli effetti (termine iniziale o finale). Il modo amplia gli effetti degli atti di liberalità, imponendo un obbligo in capo al beneficiario (donatario o erede).

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Alcuni negozi non consentono l’apposizione di elementi accidentali, per non essere modificabile lo schema tipico previsto (c.d. atti puri o legittimi): ciò avviene essenzialmente per i negozi relativi a diritti indisponibili (es. matrimonio e riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio). Si parlerà ampiamente di tali elementi trattando del contenuto del contratto (VIII, 3.19 ss.) e del testamento (XII, 2.12 e 13). c) Elementi (effetti) naturali. Sono gli effetti legali derogabili. Tradizionalmente venivano configurati come elementi naturali, per distinguerli dagli elementi essenziali e accidentali di cui si è detto. È da tempo che si parla più correttamente di effetti naturali per dipendere dalla legge, consentendosi ai privati di escluderli o limitarli: ad es. la garanzia legale per evizione e vizi della cosa venduta, che può essere esclusa dalle parti (artt. 1487 e 1490); la corresponsione degli interessi al mutuante, salvo diversa volontà delle parti (art. 1815).

6. Soggetti e parte del negozio. La legittimazione. – La valutazione del negozio giuridico nella prospettiva soggettiva fa emergere le figure di soggetti, parte e legittimazione. a) I soggetti sono gli autori dell’atto; non sono elementi dell’atto, restandone all’esterno come artefici dello stesso. È necessario che i soggetti, quali autori dell’atto, abbiano la capacità giuridica, come idoneità alla titolarità di diritti e doveri (art. 1), e la capacità di agire, come capacità di intendere e di volere, che di regola si acquista con la maggiore età, tranne che non sia stabilità una età diversa (art. 2) (IV, 1.1 e 6). b) La parte esprime il centro di interessi, che può riguardare un solo soggetto (c.d. parte semplice o unisoggettiva) o involgere più soggetti, persone fisiche o enti (c.d. parte complessa o plurisoggettiva). Il riferimento all’interesse inciso dal negozio diversifica la figura di parte da quella di soggetto e tanto più da quella di persona fisica. Il riferimento all’interesse inciso dal negozio. La figura non si riduce a quella di soggetto e tanto meno a quella di persona fisica. Esprime il centro di interessi, che può riguardare un solo soggetto (c.d. parte semplice o unisoggettiva) o involgere più soggetti, persone fisiche o enti (c.d. parte complessa o plurisoggettiva). Nell’ipotesi di atto compiuto da una parte plurisoggettiva emerge l’esigenza di delineare come concorrono le singole volontà all’assunzione della decisione finale. Si ha atto complesso quando si determina la fusione delle varie volontà in una volontà unitaria, nel senso che tutte le volontà devono concorrere alla decisione finale. In tal senso si realizza una dichiarazione complessa, per cui, se una volontà è viziata, è viziato lo stesso atto: ad es. nell’atto compiuto dal soggetto inabilitato con il curatore, se è viziata la volontà di uno dei due l’atto è invalido. Si ha atto collettivo quando si realizza la somma delle volontà verso un risultato comune, conservando ogni volontà autonoma rilevanza, e rilevando la maggioranza delle volontà espresse secondo criteri stabiliti dalle parti o dalla legge (es. deliberazione dei partecipanti di una comunione). Una specificazione è l’atto collegiale, che impegna il terreno proprio dei gruppi e delle organizzazioni collettive (società, associazioni): le singole volontà concorrono al perseguimento di un interesse del gruppo, e l’atto è riferito all’ente esponenziale che lo incarna, quale soggetto diverso da quelli che lo compongono. Sempre le dichiarazioni di voto sono soggette a controllo circa la regolare formazione e manifestazione delle volontà individuali (anche rispetto alla conoscenza dell’ogget-

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to). Se è viziata una volontà la cui mancanza non altera la maggioranza richiesta, risulta validamente dichiarata la volontà del gruppo (c.d. prova di resistenza). La formazione della dichiarazione di volontà, talvolta, integra un negozio giuridico come negozio unilaterale (plurisoggettivo) (es. disdetta da un contratto di locazione); talaltra, integra un atto unilaterale (plurisoggettivo) non negoziale, destinato a combinarsi con dichiarazioni di altre parti per dare vita ad un negozio bilaterale o plurilaterale e specificamente ad un contratto (es. dichiarazione di proposta o di accettazione di un contratto). c) La legittimazione indica la competenza del soggetto di incidere sugli interessi disposti (VIII, 2.1). Più spesso l’autore formale dell’atto è anche titolare dell’interesse inciso dal negozio 11: in tal caso vi è sovrapposizione di prospettive. Talvolta c’è una dissociazione, quando l’autore dell’atto non coincide con il titolare del diritto inciso: tipicamente ciò avviene con riguardo alla rappresentanza, per cui un soggetto (rappresentante) agisce e conclude un contratto in nome e per conto di altro soggetto (rappresentato) che è titolare dell’interesse, in virtù di conferimento di potere rappresentativo da parte della legge o del soggetto interessato (procura), sicché il contratto concluso dal rappresentante produce direttamente effetto nei confronti del rappresentato (art. 1388) (VIII, 8.2). In tale contesto logico si svolge da tempo una esigenza di tutela del soggetto che acquista da chi non è titolare senza esserne a conoscenza, come meccanismo di presidio della sicurezza della circolazione dei beni. Rilevano le problematiche dei negozi sul patrimonio altrui (II, 5.9) e quelle sulla tutela dell’affidamento e dell’apparenza (II, 7.4), di cui si parlerà in seguito.

7. La volontà dei gruppi. – È importante distinguere il profilo genetico dell’ente (espresso dall’atto costitutivo e dallo statuto) inteso quale negozio giuridico, con il quale uno o più soggetti 12 stabiliscono di costituire l’ente e di svolgere un’attività fornendo i mezzi economici necessari, dal profilo funzionale inteso quale organizzazione, con cui l’ente (associazione o società) opera quale centro di imputazione di diritti ed obblighi, autonomo rispetto al soggetto o ai soggetti che lo hanno eretto e/o lo compongono (associati o soci), assumendo le varie deliberazioni (c.d. delibere). Nella prima direzione rilevano le singole volontà delle parti, nella seconda direzione rileva la delibera adottata. Le delibere sono atti unilaterali plurisoggettivi, integrino o meno un negozio giuridico, ricondotte all’organo di una entità giuridica autonoma (ad es. la decisione di assemblea di società o di associazione o di condominio). Il tratto comune è espresso dal concorso delle singole dichiarazioni verso una unica dichiarazione di volontà. Si è visto sopra del modo di disporsi delle volontà negli atti plurisoggettivi, attraverso la dicotomia di atto complesso e di atto collettivo e specificamente collegiale (par. 6): nella formazione della volontà dei gruppi, l’esigenza di funzionamento della organizzazione privilegia il metodo collegiale dando vita ad un atto collegiale (la delibera), con imputazione del risultato voluto in capo all’ente.   11 Il fenomeno trova un significativo riscontro nel processo civile, dove il potere di azione è correlato alla titolarità della situazione giuridica dedotta: per l’art. 81 c.p.c. nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui, tranne diversa previsione normativa (III, 1.2). 12 È consentito costituire una società a responsabilità limitata unipersonale con atto unilaterale (art. 2463) e una società per azioni unipersonale con atto unilaterale (art. 2328), da indicare negli atti e nella corrispondenza della società (art. 2250, ult. co.).

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La delibera assunta dalla organizzazione collettiva mira al perseguimento dello scopo proprio di un soggetto giuridico (l’ente) diverso da quelli che concorrono a formare la volontà dell’ente: è la regola organizzativa interna, imposta dalla legge o prevista dallo statuto, che consente di riferire all’ente la delibera assunta senza unanimità. In ragione del metodo collegiale, se è viziato un voto la cui mancanza non altera la maggioranza richiesta, la delibera rimane valida e dunque risulta validamente manifestata la volontà dell’ente (c.d. prova di resistenza). Poiché la vita del gruppo è scandita normalmente dalla formazione di una maggioranza e di una minoranza, affianco alla illegittimità della delibera assunta per violazione di norme di legge e/o dello statuto, è da tempo emersa una figura di illegittimità della delibera in ragione della funzione svolta e che, mutuata dal diritto amministrativo, è delineata come “abuso o eccesso di potere” per abuso della regola della maggioranza 13.

8. Le fondamentali categorie di negozi giuridici. – Si vogliono in questa sede delineare alcune fondamentali categorie di negozi giuridici in ragione di generali criteri direttivi, rinviando l’analisi delle varie figure alla trattazione riservata ai singoli istituti. È bene subito chiarire che il criterio della liceità o della meritevolezza non valgono a delineare contrapposte categorie di negozi (negozi leciti e meritevoli ovvero negozi illeciti o non meritevoli) in quanto la liceità e la meritevolezza sono criteri di valutazione di tutti i negozi giuridici per delineare la conformità o meno all’ordinamento. Il senso di delineare criteri di raggruppamento di negozi è in funzione della rilevanza giuridica che assumono le singole classi, per gli effetti che ne conseguono. Perciò uno stesso negozio è ascrivibile a più categorie in ragione del criterio di osservazione. a) Soggetti. Si suole distinguere tra negozi unilaterali, negozi bilaterali e negozi plurilaterali a seconda del numero delle parti (e cioè dei centri di interesse) che concorre alla determinazione dell’intento negoziale, indipendentemente dal fatto che la parte (al suo interno) sia unisoggettiva o plurisoggettiva. 1) Il negozio è unilaterale quando proviene da un sola parte: esprime la manifestazione di intento negoziale di un solo centro di interessi, tanto se l’intento è espresso da un solo soggetto, perciò atteggiandosi quale negozio unilaterale unisoggettivo (es. testamento), quanto se l’intento negoziale è il risultato del concorso delle volontà di più soggetti, perciò atteggiandosi come negozio unilaterale plurisoggettivo (es. disdetta da un contratto di locazione proveniente dai coniugi comproprietari dell’immobile); in tale ipotesi gli interessi dei soggetti, ancorché separati e sorretti da giustificazioni diverse, non si presentano in conflitto, ma concorrono verso uno scopo unitario. La vocazione dei negozi giuridici a incidere la sfera giuridica di soggetti diversi dall’agente comporta che, di regola, i negozi unilaterali sono tipici nel senso che sono fissati e regolati dalla legge, che li considera meritevoli di tutela. C’è un principio di tipicità dei negozi unilaterali che sono fonti di obbligazioni (per l’art. 1987, la promessa unilaterale   13

L’abuso della regola di maggioranza (c.d. abuso o eccesso di potere) è causa di annullamento delle deliberazioni assembleari allorquando la delibera non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società – per essere il voto ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse personale antitetico a quello sociale – oppure sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci maggioritari diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza “uti singuli” (Cass. 29-9-2020, n. 20265; Cass. 27387/2005).

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di una prestazione non produce effetti obbligatori se non nei casi previsti dalla legge). Fuori di tale ambito, quando incidono sulla sfera giuridica altrui, incontrano il generale limite della tendenziale indipendenza delle sfere giuridiche, di cui sopra (par. 1), per cui anche l’effetto favorevole è oggetto di rifiuto da parte del beneficiario (invito beneficium non datur): non è possibile incidere la sfera giuridica altrui contro la volontà del titolare. Gli atti unilaterali sono di regola recettizi, nel senso che producono effetto dal momento in cui pervengono a conoscenza del destinatario (art. 1334): la previsione esprime un criterio generale di applicazione per tutti gli atti unilaterali, anche di natura negoziale. Gli atti non recettizi producono effetto a prescindere dalla conoscenza del terzo (es. testamento, la cui efficacia è legata al fatto della morte: art. 587) (II, 4.5). 2) Il negozio è b ilaterale quando proviene da due parti: esprime un regolamento di interessi in grado di apprestare soluzione alle tensioni di due parti tendenzialmente conflittuali. Se ha un contenuto patrimoniale, in quanto verte su un oggetto suscettibile di valutazione economica, integra un contratto (es. vendita, appalto, trasporto, ecc.). A nulla rileva che la parte al suo interno sia formata da più soggetti: ad es. due coniugi vendono un cespite che è acquistato da altri due coniugi (il contratto è bilaterale per correre tra una parte venditrice e una parte compratrice). Un esempio emblematico di negozio bilaterale non contrattuale (in quanto a contenuto non patrimoniale) è il matrimonio o l’unione civile. 3) Il negozio è plurilaterale quando è finalizzato al soddisfacimento degli interessi di più di due parti, più spesso attraverso il conseguimento di uno scopo comune (es. costituzione di una società con più di due soci), talvolta anche senza comunione di scopo. I contratti plurilaterali con comunione di scopo sono regolati dagli artt. 1420, 1446, 1459, 1466, estensibili a tutti i contratti plurilaterali. L’art. 1321 qualifica il contratto come l’accordo di due o più parti. b) Contenuto. Una fondamentale dicotomia è articolata intorno alla natura patrimoniale o meno degli interessi attuati; delle varie specificazioni relativamente ai contratti si parlerà in seguito (VIII, 3.18). 1) Sono negozi con contenuto patrimoniale quelli che incidono su interessi di natura economica dei soggetti, vuoi con attribuzioni patrimoniali (specie con spostamenti di ricchezza), vuoi con assunzione di obbligazioni, vuoi con la costituzione di vincoli di destinazione; possono attuare senz’altro interessi patrimoniali (es. un contratto di vendita) o anche interessi di carattere non patrimoniale, purché trovino una contropartita in un valore economico (es. contratti per assistere ad una competizione sportiva o a una rappresentazione teatrale, ecc.). Nel prossimo paragrafo si parlerà specificamente dei negozi di disposizione per le correlazioni che si determinano con i problemi della circolazione giuridica. Correlata a tale qualificazione è la distinzione tra negozi a titolo oneroso e negozi a titolo gratuito, in ragione della connessione o meno del sacrificio subito con un vantaggio corrispettivo e perciò in funzione o meno di uno scambio. Tra i negozi a titolo oneroso (che coprono pressoché l’intera area della vita economica), si pensi ai contratti di vendita, appalto, trasporto, ecc.; tra i negozi a titolo gratuito, si pensi al testamento come atto di attribuzione gratuita di ultima volontà; per gli atti tra vivi si pensi alla donazione (connotata dai caratteri della liberalità e del depauperamento del donante e della forma solenne), oltre le ulteriori liberalità non donative. 2) Sono negozi con contenuto non patrimoniale quelli che incidono sulla sfera esistenziale dei soggetti, nella dimensione personale del soggetto o nella dimensione col-

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lettiva delle formazioni sociali, senza che una previsione di carattere economico, quand’anche presente, possa assumere la funzione di corrispettivo. Per la dimensione personale, si pensi agli atti di disposizione del proprio corpo, ammessi solo in quanto non cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica o non siano contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume (art. 5). Si pensi anche agli atti di consenso informato rispetto agli interventi sanitari (art. 32 Cost.) 14; alle dichiarazioni di volontà in ordine alla donazione di organi e tessuti del proprio corpo successivamente alla morte per fini di prelievi o trapianti (art. 4 L. 1.4.1999, n. 91); agli atti autorizzativi dell’uso della propria immagine (art. 10) (IV, 2.2). Per la dimensione collettiva, si pensi ai negozi giuridici familiari, a cominciare dal matrimonio, che hanno causa nella relazione affettiva (5.1.5). Si pensi anche ai negozi connessi al variegato mondo dell’associazionismo e del volontariato (IV, 3.2). c) Forma. Si è anticipato come una manifestazione della volontà non può mai mancare per esternare l’intento negoziale. Talvolta la manifestazione assume una forma vincolata. Sono negozi solenni (o con forma vincolata) quelli per i quali è prescritta una determinata forma per la validità dell’atto (VIII, 4). Più spesso il vincolo è di provenienza legale (es. artt. 1350, 601); talvolta può derivare da un preventivo accordo scritto degli autori dell’atto (es. art. 1352). Sono negozi non solenni (o con forma libera) tutti gli altri, per i quali vale un principio di libertà di forma, nel senso che la volontà può essere manifestata nei modi ritenuti più opportuni dagli autori dell’atto. Si vedrà peraltro come una forma vincolata possa essere richiesta a più fini (VIII, 4). Sussiste un generale principio di libertà di forma, nel senso che la volontà può essere manifestata nei modi ritenuti più opportuni dagli autori dell’atto, salvo espressa imposizione di vincolo di forma. Si vedrà come stia emergendo un nuovo volto del formalismo, non di ponderazione dell’alienante, ma di riflessione degli acquirenti, nella evoluta funzione di tutela dei soggetti deboli; una forma vincolata può essere richiesta a più fini (VIII, 4). d) Efficacia. Una fondamentale distinzione è tra negozi con “effetti reali” e negozi con “effetti obbligatori”. In realtà ogni negozio (come si è visto) tende in senso lato a incidere su determinati interessi e quindi a disporne: con la ripartizione in esame si ha riguardo a un significato specifico e tecnico della disposizione. 1) I negozi con effetti reali , anche detti negozi di alienazione 15 (o dispositivi in senso stretto), realizzano lo scopo perseguito dai privati, non solo in virtù del negozio ma anche per effetto dello stesso, ricollegandosi direttamente al negozio l’effetto finale avuto di mira. Si pensi agli acquisti a titolo derivativo: i negozi derivativo-traslativi realizzano il trasferimento del diritto con la perdita per un soggetto e l’acquisto per un altro (es. vendita della proprietà o di altro diritto); i negozi derivativo-costitutivi realizzano la costituzione del diritto in capo ad un diverso soggetto (es. costituzione del diritto di usufrutto o di altro diritto reale) (fondamentale è il titolo di acquisto: II, 4.7).   14 Per l’art. 5 Conv. di Oviedo del 4.4.1997 sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina (ratif. e resa esec. con L. 28.3.2001, n. 145) un intervento nel settore sanitario può avvenire soltanto previo consenso libero e consapevole dell’interessato. Il consenso informato è definito e disciplinato dalla L. 22.12.2017, n. 219, che detta anche legge sulle disposizioni anticipate di testamento (biotestamento). 15 Il termine “alienazione” deriva dal latino alienare, derivato di alienus (altrui), da cui l’espressione alienum facere.

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2) I negozi con effetti obbligatori , anche detti senz’altro negozi obbligatori, producono la costituzione di obbligazioni a carico delle parti, sicché la realizzazione dello scopo perseguito attraverso il negozio avviene solo successivamente a seguito dell’adempimento delle obbligazioni. L’esatta esecuzione della prestazione dovuta soddisfa l’interesse del creditore e dunque realizza lo scopo programmato dalle parti. Ad es., con un contratto di appalto, l’appaltatore assume l’obbligazione di compiere un’opera: solo l’esecuzione dell’opera e dunque l’adempimento dell’obbligazione assunta attua l’interesse del committente. Come si vedrà, è frequente che risultino combinati effetti reali ed effetti obbligatori: es. la vendita realizza il trasferimento del diritto dal venditore al compratore e costituisce in capo al compratore l’obbligo di pagare il prezzo. 3) Una categoria autonoma, sempre controversa, è quella dei c.d. negozi d i accertamento. Secondo una impostazione diffusa, da tali negozi non consegue una vera e propria modificazione della realtà giuridica esistente, avendo la sola funzione di eliminare, immediatamente e con efficacia retroattiva, il dubbio circa un determinato rapporto. Funzione del negozio di accertamento, che ne segna l’essenza e ne segna l’efficacia, è la produzione di una certezza giuridica in luogo della pregressa situazione controversa. Perciò i negozi di accertamento sono destinati ad operare con riguardo sia ai rapporti con contenuto patrimoniale che ai rapporti con contenuto non patrimoniale (es. accertamento del contenuto di un negozio simulato) 16. Contigua ma diversa è la transazione che muove, sì da una situazione di dubbio, ma presuppone l’esistenza di una lite incominciata o che può sorgere e che le parti conciliano con reciproche concessioni (art. 1965) (IX, 6.1). e) Vita/morte. In una logica diversa dalle categorie di negozi sopra delineate si colloca la distinzione tra negozi tra vivi e negozi a causa di morte per rilevare le vicende delle persone. Alla prima categoria (inter vivos) appartiene la più diffusa esplicazione dell’autonomia privata, specie mediante l’esercizio dell’autonomia contrattuale (es. vendita, appalto, ecc.). Alla seconda categoria (mortis causa) appartengono i negozi per i quali la morte assume una efficienza causale nella produzione degli effetti, realizzandosi la successione nei rapporti giuridici del defunto alla morte e per la morte del dichiarante. Negozio tipico mortis causa è il testamento, quale atto di disposizione di ultima volontà, con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte o di parte delle proprie sostanze (art. 587): tale peculiarità comporta una specificità della relativa disciplina, non potendo l’atto essere ripetuto dopo la morte. Vi è l’espresso divieto dei patti successori (art. 458), a salvaguardia della libertà del volere del testatore fino alla morte; ma si vedrà come la regola trovi ormai smentite normative (es. patto di famiglia: art. 768 bis) e critiche nella elaborazione della dottrina. f) Previsione normativa. L’ordinamento regola alcuni schemi negoziali, la cui funzione è preventivamente considerata meritevole di tutela (c.d. negozi tipici o nominati) (es. vendita, locazione, appalto, donazione, ecc.), salva la valutazione in concreto dell’assetto di interessi realizzato mediante l’impiego di tale schema.   16 La funzione e l’efficacia retroattiva dell’accertamento sono incompatibili con l’effetto traslativo della proprietà (Cass. 9-12-2015, n. 24848). Se non rileva l’intento negoziale, non si è in presenza di negozi di accertamento ma di atti giuridici in senso stretto: es. la confessione (art. 2730), il riconoscimento di figlio fuori del matrimonio (art. 250).

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È consentito elaborare ulteriori schemi negoziali o modificare quelli previsti (c.d. negozi atipici o innominati), purché meritevoli di tutela. Vi è nell’ordinamento una generale fiducia nella capacità dei privati di autoregolare i propri interessi patrimoniali, perciò è attribuita ai privati un’ampia facoltà di organizzare relazioni economiche non previste dall’ordinamenti: per l’art. 1322, intitolato all’autonomia contrattuale, “le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge”; possono “concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”. Nella materia dei rapporti personali e specificamente familiari opera una tipicità dei negozi giuridici, per essere la materia maggiormente sensibile a emotività e debolezze degli autori e per volere l’ordinamento valutare le organizzazioni umane instaurate. Però anche in tale campo si sta dilatando l’area dell’autonomia negoziale e sempre maggiormente stanno ottenendo rilevanza giuridica rapporti affettivi instaurati in fatto senza la mediazione di negozi familiari tipici.

9. Segue. I negozi di disposizione e i terzi. – Propulsore del dinamismo delle situazioni giuridiche soggettive è il potere di disposizione del titolare, espressione dell’esercizio di diritti soggettivi. Gli atti dispositivi determinano anche ragioni di conflitto tra soggetti aventi causa di diritti incompatibili, con l’esigenza di tutela della circolazione giuridica (II, 4.7). Indipendentemente dalla ricostruzione del potere di disposizione, dentro il diritto soggettivo (come partecipe del contenuto) o fuori del diritto soggettivo (come espressione della capacità), sempre l’esercizio del potere di disposizione attua vicende di situazioni giuridiche. a) È possibile declinare i negozi di disposizione in tre fondamentali classi: negozi di attribuzione, negozi di dismissione e negozi di destinazione. Si vedrà come il nostro ordinamento è caratterizzato dal principio del consenso traslativo per cui i diritti (proprietà o altro diritto) si trasferiscono e i diritti reali si costituiscono per effetto del consenso legittimamente manifestato (art. 1376); analogamente avviene per i negozi di dismissione e per quelli di destinazione. I negozi di attribuzione sono atti con i quali si procura un vantaggio ad altri soggetti, con corrispondente titolarità di diritti, a fronte di una diminuzione del proprio patrimonio. Si declinano in due varianti: negozi di trasferimento del diritto da un soggetto ad un altro, con la perdita del diritto per l’alienante e l’acquisto del medesimo diritto per l’acquirente (con titolo derivativo traslativo); negozi di costituzione di nuovi diritti in capo ad un soggetto in virtù della titolarità del diritto (con titolo derivativo-costitutivo) (della dicotomia si è già parlato: II, 4.7). A tale categoria è possibile accomunare i negozi costituivi di una obbligazione, per l’obbligo di comportamento assunto dal debitore di procurare un bene (come utilità) al creditore. I negozi di dismissione sono atti di abdicazione di una situazione giuridica. Tipica è la rinunzia in senso stretto, consistente in un negozio unilaterale di dismissione di un diritto dal patrimonio del rinunciante (rinunzia abdicativa) 17. La rinunzia comporta solo   17 La rinunzia abdicativa si differenzia dal r i f i u t o che integra la manifestazione di volontà di precludere l’incremento della propria sfera giuridica: può essere impeditivo, in quanto impedisce l’ingresso del diritto nella pro 

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PARTE II – CATEGORIE GENERALI

perdita del diritto non anche liberazione dalle posizioni passive, comprese obbligazioni, che si connettono alla titolarità del diritto. L’eventuale acquisto del diritto dismesso dal rinunciante è un effetto ulteriore derivante dalla legge: es. la consolidazione della proprietà per rinunzia ai diritti reali limitati in virtù della elasticità della proprietà (VI, 1.2); rinunzia al credito e correlazione con la remissione del debito (VII, 3.14). Un problema si è posto con riguardo alla ipotizzabilità della rinuncia alla proprietà per la natura di diritto pieno e assoluto 18. Figure specifiche di rinunzia sono quelle del c.d. abbandono liberatorio, ad es. con riguardo al diritto di proprietà su beni comuni (art. 1070) o al diritto di proprietà su immobili gravati da una servitù (art. 1104). Si è in presenza di obbligazioni reali, in quanto sono connesse alla titolarità di un diritto reale, sicché il relativo adempimento è necessario per l’esercizio del diritto reale. La rinunzia al diritto reale si atteggia come mezzo per liberarsi dalle obbligazioni allo stesso connesse. Diversa è la c.d. “rinunzia traslativa”, che implica una volontà di trasferimento a terzi, di regola compenetrata in un contratto, regolata come negozio di attribuzione. I negozi di destinazione sono atti costitutivi di vincoli alla utilizzazione di un bene, funzionali ad un dato scopo; sono determinativi della conformazione dello statuto del bene e dunque dei diritti che vi ineriscono (art. 2645 ter). Quando la destinazione si connette ad un’attribuzione si realizza, insieme, il trasferimento del diritto o la costituzione di un diritto nuovo con il limite della destinazione ad uno scopo. I negozi di destinazione possono essere compiuti sia con negozi unilaterali che bilaterali: si tende a ricondurre a tali negozi il trust, il cui atto costitutivo più spesso è compiuto con altro soggetto, ma anche ammesso come “autodichiarato”, in cui soggetto disponente e trustee coincidono nello stesso soggetto (v. VIII, 3.17). b) La posizione dei terzi assume una importante rilevanza nell’esercizio del potere di disposizione. Si è già anticipato che più ragioni militano a favore della circolazione giuridica dei beni (II, 4.7): c’è l’esigenza di conoscenza degli atti dispositivi a beneficio dei consociati perché, sulle risultanze di tali atti, possano organizzare con sicurezza l’azione economica. I risultati perseguiti dai negozi di disposizione vanno coordinati con le esigenze di certezza reclamate dal mercato attraverso indici legali di conoscenza (specialmente la pubblicità, il possesso, la consegna): la tutela dei terzi può provocare l’attribuzione di diritti in modo diverso da come il logico e naturale dispiegarsi del potere di disposizione comporterebbe. È prevista la trascrizione degli atti di disposizione di immobili,  

pria sfera giuridica (es. rifiuto della proposta con obbligazioni del solo proponente ex art. 1333); eliminativo, in quanto elimina gli effetti già prodotti e non ancora stabilizzati (es. rifiuto del terzo ex 1411 o rinuncia al legato). 18 È ipotizzabile la rinunzia alla proprietà, come deriva da alcuni elementi testuali in materia di forma (art. 1350, n. 5) e di trascrizione (art. 2643, n. 5). Viene però in rilievo l’effetto riflesso relativo ai “beni immobili vacanti”, per cui i beni immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello stato (art. 827), con un acquisto a titolo originario. Per assicurare l’ordinamento una “funzione sociale” (art. 422 Cost.), è da escludere la possibilità della rinunzia quando si persegua lo scopo di disfarsi di una proprietà damnosa (es. per immobili fatiscenti e inquinanti ovvero antieconomici), ribaltando sullo stato i costi di riattivazione o demolizione ovvero gestione dell’immobile; in tal caso, secondo un generale principio di buona fede, è da consentire alla pubblica amministrazione di rifiutare l’ingresso della proprietà nella propria sfera giuridica (Cfr. T.A.R. Lombardia Milano 18-12-2020, n. 2553). Per T.A.R. Piemonte Torino 28-3-2018, n. 368, il legislatore ha ammesso solo quelle fattispecie di rinunzia abdicativa a diritti immobiliari che non determinano una vacatio nella titolarità del bene, con conseguente nullità dei negozi potenzialmente idonei a determinarla e, su tutti, della rinunzia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare.

CAP. 5 – AUTONOMIA PRIVATA

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sia di attribuzione e rinunzia (art. 2643), che di destinazione (art. 2645 ter), come meccanismo di soluzione dei conflitti di posizioni incompatibili (XIV, 2.7). Una problematica particolare si pone con riferimento agli atti di disposizione del patrimonio altrui. Si vedrà come, per il cod. civ. del 1942, a differenza del cod. civ. del 1865, la vendita di cosa altrui è valida ma inefficace, produce i suoi effetti nel momento in cui il venditore acquista la proprietà dal titolare di essa (art. 1478) (VIII, 6.15). Fuori di tale ipotesi, sono accordate tutele all’avente causa in buona fede dal non proprietario (acquisto a non domino), con la previsione di specifici presupposti di acquisto rispetto alle singole tipologie di diritti 19, determinando un acquisto a titolo originario 20; e si è propensi a ritenere che si acquisti la proprietà della cosa libera da diritti altrui sulla cosa non risultanti dal titolo se l’acquirente è di buona fede (c.d. usucapio libertatis), interpretandosi analogicamente l’art. 11532. Per l’assenza di atto dispositivo, la maturazione dell’usucapione diventa titolo privilegiato di acquisto contro il titolare del diritto e gli aventi causa dallo stesso. In definitiva sussiste nel codice civile un tendenziale favore per la circolazione giuridica, prediligendosi la certezza dell’acquisto alla conservazione della titolarità dei diritti. La naturale logica della disposizione dei diritti soccombe rispetto all’esigenza economica di conservazione delle posizioni acquisite: nella prospettiva del diritto dell’economica, le esigenze del mercato prevalgono sulle ragioni della proprietà. Si vedrà come sono emerse ragioni di tutela, connesse a posizioni personali, più forti anche della generica esigenza di circolazione (es. prelazione legale) (XIV, 2.18).

10. Presupposti del negozio giuridico. – In relazione a singole operazioni assumono rilevanza specifici presupposti dell’atto, quali fatti giuridici (positivi o negativi) che non concorrono alla formazione dell’atto, ma che la relativa esistenza incide sul regime dell’atto. È una categoria articolata, anzitutto rispetto alla provenienza dei presupposti, per essere imposti dalla legge o considerati dai privati, e poi per la differente rilevanza, incidendo sulla validità e/o sulla efficacia dell’atto. Viene in gioco la generale prospettiva dei presupposti della fattispecie, per cui non può compiersi un fatto giuridico senza il fatto presupposto.   19 In relazione ai beni immobili, la trascrizione del titolo e il successivo decorso decennale del possesso consentono l’usucapione abbreviata (fattispecie complessa) (art. 11591); la stessa disposizione si applica nel caso di acquisto degli altri diritti reali di godimento sopra un immobile (art. 11592). Analoghi principi valgono per l’acquisto a non domino della piccola proprietà rurale, con la previsione di un possesso di cinque anni dalla trascrizione (art. 1159 bis), di beni mobili iscritti in pubblici registri, con la previsione di un possesso di tre anni dalla trascrizione (art. 1162), di universalità di mobili (art. 1160), con la previsione di un possesso di dieci anni ma con esclusione della trascrizione per non sussistere registri di pubblicità. Per i beni mobili (non registrati e non oggetto di universalità di mobili), per l’assenza di registri di pubblicità, vale il principio “possesso vale titolo” per cui sono sufficienti il titolo astrattamente idoneo al trasferimento e il possesso di buona fede per acquistarne la proprietà (libera da diritti altrui sulla cosa, se questi non risultano dal titolo e vi è la buona fede dell’acquirente) (art. 11531-2); nello stesso modo si acquistano i diritti di usufrutto, di uso e di pegno (art. 11533) (VI, 5.6). In ogni caso, si acquista la proprietà per usucapione dei beni immobili con il possesso continuato ventennale (art. 1158) e dei beni mobili con il possesso continuato decennale (art. 1161). Talvolta si fa a meno anche del possesso, come ad es. nell’ipotesi di acquisto dall’erede apparente (art. 534). Se ne parlerà ampiamente nelle sedi specifiche. 20 Come ha rilevato L. MENGONI, l’alienazione del bene altrui ottiene rilevanza giuridica non come negozio ma come fatto che concorre con altri fatti (tra cui, immancabile, la buona fede dell’acquirente) a integrare una fattispecie legale di acquisto, predisposta a tutela dell’affidamento del terzo.

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PARTE II – CATEGORIE GENERALI

Anzitutto rilevano i presupposti legali quali situazioni soggettive o fatti richiesti dalla legge, che incidono, talvolta, sulla validità dell’atto (es. alcune qualifiche soggettive), talaltra sulla efficacia (es. legittimazione) (par. 6). Vi è poi l’ampio campo delle autorizzazioni amministrative, la cui assenza, a seconda della situazione di riferimento, è in grado di incidere sia sulla validità che sulla efficacia. Altre volte è l’ordinamento a fissare la sequenza dei fatti: si pensi all’occupazione di cosa mobile che presuppone l’abbandono del titolare (art. 923 c.c.). I presupposti di fatto di regola incidono sulla efficacia dell’atto; il tema si intreccia con il fenomeno della condizione (VIII, 3.20). Una figura peculiare di presupposto dell’atto è la presupposizione, quale situazione di fatto o di diritto tenuta presente dalle parti e inespressa; non è prevista ma da tempo analizzata e considerata rilevante (v. VIII, 3.11).

11. L’incidenza tributaria (bollo e registrazione). – Si è visto come ogni fatto giuridico e a maggior ragione l’esplicazione dell’autonomia privata si svolge nella complessità dell’esperienza giuridica. Un ruolo sempre maggiore assume il carico tributario, calcolato in misura fissa o proporzionale al valore economico dell’operazione compiuta. Tipicamente operano il bollo e la registrazione (di cui appresso): si pensi all’imposta ipotecaria e catastale per il trasferimento di immobili (D.Lgs. 31.10.1990, n. 347); si pensi all’imposta sul valore aggiunto (iva) sulle cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate nell’esercizio di imprese o di arti e professioni (D.P.R. 26.10.1972, n. 633). Ormai la imposizione tributaria non è più componente accessoria nella esplicazione dell’autonomia privata ma fattore concorrente nelle determinazioni dei privati. Interventi diffusi sono il bollo e la registrazione, con implicazioni anche civilistiche. Il bollo è essenzialmente regolato dal D.P.R. 26.10.1972, n. 642 (Disciplina dell’imposta di bollo) 21. L’omesso od insufficiente pagamento dell’imposta ed omessa o infedele dichiarazione di conguaglio non incide sulla validità o efficacia dell’atto, ma lo rendono irregolare; l’atto va regolarizzato con pagamento dell’imposta e comminatoria della sanzione amministrative a carico dei soggetti dell’atto (art. 25) e dei pubblici funzionari e altri soggetti che li ricevono per le incombenze cui sono tenuti (artt. 19 e 24). Il bollo svolge una funzione sostanziale rispetto ai titoli di credito 22. La registrazione è essenzialmente regolata dal D.P.R. 26.4.1986, n. 131 (t.u. disposizioni concernenti l’imposta di registro – TUR) 23. Gli artt. 20 ss. regolano le modalità di   21 La Tariffa allegata è riferita a atti, documenti e registri soggetti all’imposta fin dall’origine (Parte I); atti e scritti soggetti all’imposta di bollo solo in caso d’uso (Parte II), cui segue una Tabella indicante atti, documenti e registri esenti in modo assoluto dall’imposta di bollo. 22 La cambiale, il vaglia cambiario e l’assegno bancario non hanno la qualità di titoli esecutivi se non sono stati regolarmente bollati sin dall’origine e, provenendo dall’estero, prima che se ne faccia uso; il portatore o possessore non può esercitare i diritti cambiari inerenti al titolo se non abbia corrisposto l’imposta di bollo e pagato le sanzioni amministrative; la inefficacia come titolo esecutivo deve essere rilevata e pronunciata dai giudici anche d’ufficio (art. 20). 23 La Tariffa allegata è riferita a atti soggetti a registrazione in termine fisso (Parte I); atti soggetti a registrazione solo in caso d’uso (Parte II), cui segue una Tabella di atti per i quali non vi è obbligo di chiedere la registrazione. L’imposta di registro si applica, nella misura indicata nella Tariffa, agli atti soggetti a registrazione e a quelli volontariamente presentati per la registrazione (art. 1).

CAP. 5 – AUTONOMIA PRIVATA

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applicazione dell’imposta, delineando le specifiche vicende degli atti registrati; è una imposta riferita agli atti in funzione delle operazioni esposte 24. L’art. 10 indica gli ulteriori soggetti (oltre i soggetti dell’atto) obbligati a richiedere la registrazione, tra cui rileva massimamente per il diritto privato la figura del notaio, come responsabile di imposta solidalmente obbligato con i soggetti dell’atto, ormai operante come obbligato principale 25. La mancata registrazione dell’atto comporta mera irregolarità dell’atto: chi omette la richiesta di registrazione degli atti e dei fatti rilevanti ai fini dell’applicazione dell’imposta, ovvero la presentazione delle denunce di eventi successivi alla registrazione ex 19, è punito con la sanzione amministrativa (art. 69), oltre sanzioni ulteriori per infrazioni più gravi (artt. 74 e 75). La registrazione svolge anche una funzione sostanziale: attesta l’esistenza degli atti ed attribuisce “data certa” di fronte ai terzi a norma dell’art. 2704 c.c. (art. 181) (III, 2.2).

  24 Se un atto contiene più disposizioni che non derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, ciascuna di esse è soggetta ad imposta come se fosse un atto distinto (art. 21) (es. l’accettazione tacita dell’eredità contenuta in un atto di alienazione); se in un atto sono enunciate disposizioni contenute in atti scritti o contratti verbali non registrati e posti in essere fra le stesse parti intervenute nell’atto che contiene la enunciazione, l’imposta si applica anche alle disposizioni enunciate (art. 22). 25 Per l’art. 10, lett. b, i notai (e gli altri soggetti ivi indicati) hanno l’obbligo di richiedere la registrazione per gli atti da essi redatti, ricevuti o autenticati. Per gli artt. 57 e 58 i notai sono coobbligati solidali con le parti contraenti per il pagamento dell’imposta dovuta per la registrazione degli atti stessi, con diritto di surroga, in tutte le ragioni, azioni e privilegi spettanti all’amministrazione finanziaria, per il recupero dell’imposta pagata nei confronti dei soggetti nei cui confronti fu richiesta la registrazione. La intervenuta obbligatorietà della registrazione telematica da parte del notaio, attraverso il Modello unico informatico (MUI), sta caricando la figura del notaio di una funzione ulteriore di liquidazione e pagamento dell’imposta di registro, ipotecaria e catastale (art. 3 bis D.Lgs. 463/1997 e D.P.R. 308/2000); emerge un obbligo di corresponsione come debitore principale nei confronti dell’ente impositore, cui si connette la modifica dell’art. 22 l. not.) (cfr. Cass. 5016/2015, 18493/2010 e 13653/2009).

CAPITOLO 6

INIZIATIVA ECONOMICA (L’impresa e il mercato)

Sommario: 1. Iniziativa economica, impresa e società. – 2. L’azienda e i segni distintivi. – 3. L’iniziativa economica nella Costituzione e nella normativa europea. – 4. Concorrenza e mercato. L’economia sociale di mercato. – 5. Aree e fattori dell’azione economica.

1. Iniziativa economica, impresa e società. – Nell’accezione comunemente impiegata l’iniziativa economica è l’attività di combinazione e organizzazione dei fattori dell’azione economica (significativamente capitale e lavoro) per creare ricchezza. Il concetto di iniziativa economica è pertanto sinergico con quello di impresa: il codice civile contiene la definizione di “imprenditore” e non di impresa per essere l’imprenditore, secondo il metodo dell’economia utilizzato nella codificazione, il soggetto reale che esercita l’attività economica. Intorno alla vita dell’impresa e delle società si svolge una significativa area di esplicazione dell’attività dei privati e quindi del diritto privato. Lasciando al diritto commerciale e al diritto del lavoro l’esame delle singole categorie, è importante in questa sede fissare le generali coordinante dell’azione economica regolate dal diritto privato. a) È imprenditore “chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata ai fini della produzione o dello scambio di beni o di servizi” (art. 2082). Non è dunque necessario che l’imprenditore sia proprietario dei mezzi di produzione: è sufficiente che se ne assicuri la disponibilità. Mediante i contratti l’imprenditore si procura i mezzi di produzione (materiali e immateriali) in proprietà e/o in mero godimento, attinge ai finanziamenti necessari, stringe i rapporti di lavoro con la mano d’opera, si approvvigiona delle risorse necessarie alla produzione, colloca sul mercato i prodotti (cose o servizi). Essenziale è la “organizzazione” dell’attività economica, come combinazione dei fattori dell’attività. La qualifica dell’attività come “economica” implica un’attività in grado di conseguire la remunerazione dei fattori produttivi mediante il risultato della stessa, anche senza prefiggersi necessariamente il conseguimento di un profitto (c.d. lucro oggettivo) 1. Inoltre, deve essere un’attività esercitata professionalmente e cioè stabilmente e con   1 È il fenomeno proprio dell’attività imprenditoriale di enti non profit e di enti pubblici, che realizzano scopi di natura culturale, ricreativa, assistenziale, ecc., mediante un’attività economica (e perciò remunerativa) senza produzione di utili. Per Cass. 26-9-2006, n. 20815, il fine spirituale o comunque altruistico perseguito dall’ente religioso non pregiudica l’attribuzione del carattere dell’imprenditorialità dei servizi resi, ove “la pre stazione sia oggettivamente organizzata in modo da essere fornita previo compenso adeguato al loro costo”.

CAP. 6 – INIZIATIVA ECONOMICA

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abitualità, seppure non continuativamente (si pensi alle attività economiche stagionali) e non in via esclusiva (lo stesso soggetto può svolgere più attività economiche). Infine, l’attività di impresa può indirizzarsi verso la produzione di nuovi prodotti (attività industriali) oppure verso lo scambio degli stessi (attività commerciali): sono le essenziali componenti del sistema economico, per inerire la prima alla realizzazione di nuovi beni e servizi e la seconda alla distribuzione degli stessi. La qualifica di imprenditore si acquista in fatto in ragione dell’attività economica svolta, quale serie coordinata di atti funzionale alla produzione o allo scambio di beni e servizi (v. II, 4.6). L’imprenditore assume il rischio della intrapresa e cioè del divario tra costi dell’attività economica e ricavi, che può comportare un passivo (perdite) come procurare un attivo (utili) 2; dirige il processo produttivo: è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori (art. 20861), nei limiti atti a tutelare l’integrità fisica e la personalità dei prestatori di lavoro (art. 36 Cost.; art. 2087 L. 20.5.1970, n. 300). Uno specifico statuto è riservato alle imprese commerciali, prevedendosi, per tali imprese, l’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese (art. 2195) 3 (XIV, 1.3); la tenuta delle scritture contabili e la soggezione a fallimento (oggi liquidazione giudiziale: VII, 8.3) (artt. 2188 ss. c.c.); inoltre sono attribuite a figure tipiche di ausiliari dell’imprenditore (institore, procuratore, commessi) specifici poteri rappresentativi (artt. 2203 ss.). Non sono soggetti a tale statuto il piccolo imprenditore (art. 2083) e l’imprenditore agricolo (artt. 2135 ss.) 4. b) Le società rappresentano le imprese di maggiore rilevanza economica. L’impresa può essere esercitata in forma individuale o in forma collettiva, dando luogo, appunto, alle società. Per l’art. 2247, con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili. Trattasi di un contratto con comunione di scopo, per conferire le parti le singole prestazioni al fine dell’esercizio in comune dell’attività economica 5 (VIII, 3.18). È stata consentita la costituzione di società a responsabilità limitata unipersonale con atto unilaterale (art. 2463) e la società per azioni unipersonale con atto unilaterale (art. 2328). L’imprenditore che operi in forma societaria o collettiva ha il dovere di istituire un assetto  

Talvolta i detti enti perseguono anche uno scopo di lucro, ma questo è strumentale rispetto allo scopo istituzionale in quanto gli utili realizzati non sono distribuiti ma sono rivolti a perseguire (indirettamente) lo scopo istituzionale (è il caso di associazioni che svolgono attività imprenditoriali per il perseguimento degli scopi ideali associativi). 2 Nella redazione del bilancio si distingue tra contenuto dello stato patrimoniale (art. 2424) e contenuto del conto economico (art. 2425). 3 Per costante giurisprudenza la disposizione dell’art. 2195 sostanzialmente esaurisce, ai nn. 1 e 2, l’ambito della nozione di imprenditore (di cui all’art. 2082) mediante la previsione delle imprese industriali e di quelle commerciali in senso stretto, sicché “le successive previsioni, contenute nei numeri 3, 4 e 5 sono mere specificazioni delle categorie generali dei primi due punti” (Cass. 27-1-2006, n. 1727). 4 L’esercizio di nave (assunto dall’armatore) o l’esercizio di aeromobile (assunto dall’esercente), che pure integra una c.d. “impresa di navigazione” (artt. 265 ss. e artt. 874 ss. cod. nav.) non comporta di per sé il ricorso della figura dell’imprenditore secondo il codice civile, dovendo a tal fine ricorrere tutti i presupposti dell’attività imprenditoriale. 5 Nella società la contitolarità dei diritti è funzionale allo svolgimento di un’attività economica comune per ricavare da questa un profitto. Invece nella comunione la contitolarità dei diritti reali è indirizzata al mero godimento dei beni, per realizzare una utilizzazione di questi (diretta o a mezzo di altri ricavandone una rendita) (Cass. 6-2-2009, n. 3028; Cass. 1-4-2004, n. 6361) (VI, 4.1).

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PARTE II – CATEGORIE GENERALI

organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale (art. 20862) (VII, 8.2). I conferimenti, in danaro o in natura, suscettibili di valutazione economica, vanno a formare il patrimonio della società (c.d. fondo sociale) 6 (artt. 2254, 2255, 2342); l’attività economica deve essere rivolta ad uno scopo produttivo (c.d. lucro oggettivo) al fine del conseguimento di utili e cioè di profitto per i soci (c.d. lucro soggettivo): profilo quest’ultimo che (come si è visto) non è invece essenziale nella impresa come tale, per la quale è sufficiente la economicità dell’attività. Sussistono più tipologie di società, variamente articolate (art. 2249): lucrative, mutualistiche e consortili. Le società lucrative hanno per oggetto l’esercizio di un’attività commerciale con lo scopo del conseguimento di utili, distribuito ai soci; devono costituirsi secondo i tipi previsti dalla legge (art. 22491). Si distinguono in società di persone, con responsabilità illimitata dei soci, quali la società in nome collettivo, l’accomandita semplice (con responsabilità illimitata dell’accomandatario); e in sono società di capitali, con responsabilità limitata al patrimonio sociale, quali la società a responsabilità limitata, la società per azioni e la società in accomandita per azioni (con responsabilità illimitata degli accomandatari). Entrambe le tipologie di società sono, di diritto, imprese commerciali e perciò soggette al relativo statuto con riguardo a rappresentanza, scritture contabili e insolvenza (artt. 2203 ss.). Le società che hanno per oggetto l’esercizio di un’attività diversa sono regolate dalle disposizioni sulla società semplice, tranne che i soci abbiano voluto costruire la società secondo uno dei tipi sopra indicati (art. 22492) 7. Le società mutualistiche forniscono beni, servizi o occasioni di lavoro direttamente ai membri dell’organizzazione a condizioni più vantaggiose di quelle che i soci stessi otterrebbero sul mercato. Assumono una connotazione particolare le “società cooperative” (art. 22493): sono società a capitale variabile con scopo mutualistico, iscritte presso l’albo delle società cooperative (artt. 2511 ss.); si specificano in “cooperative a mutualità prevalente”, in ragione del tipo di scambio mutualistico (artt. 2512 ss.). Si differenziano le “mutue assicuratrici” caratterizzate dal fatto che le obbligazioni sono garantite dal patrimonio dei soci (artt. 2546 ss.). c) I consorzi svolgono una funzione particolare: non perseguono un fine di distribuzione di utili ma di migliorare la redditività delle imprese aderenti, coordinando la produzione e gli scambi o lo svolgimento di determinate fasi dell’attività produttiva (artt. 2602 ss.); è possibile la costituzione di società consortili (art. 2615 ter). Sono dettate specifiche disposizioni penali in materia di società, consorzi ed altri enti (artt. 2621 ss.). Una generale disciplina penale regola i delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio (artt. 499 ss. c.p.).   6

Nelle s.p.a. non possono formare oggetto di conferimento le prestazioni di opera o di servizi (art. 23425). La trasformazione di una società da un tipo ad un altro previsto dalla legge, ancorché connotato di personalità giuridica, non si traduce nell’estinzione di un soggetto e nella correlativa creazione di uno nuovo, ma configura una vicenda evolutiva e modificativa del medesimo soggetto, comportando soltanto una variazione di assetto e di struttura organizzativa, senza incidere sui rapporti processuali e sostanziali facenti capo all’originaria organizzazione societaria (Cass. 22-10-2020, n. 23030). 7

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2. L’azienda e i segni distintivi. – L’azienda è “il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa” (art. 2555): esprime un concetto distinto dall’impresa ma a questa correlato 8. Come si è accennato, non è necessario che l’imprenditore sia proprietario degli strumenti della produzione: è sufficiente che ne abbia la disponibilità. L’azienda esprime una organizzazione complessiva, comprensiva sia del lavoro sia di tutti gli altri fattori della produzione; l’imprenditore organizza appunto l’attività economica con la destinazione di tali beni alla produzione o allo scambio. L’azienda indica una entità economico-giuridica autonoma rispetto alla titolarità dei singoli fattori della produzione, che si presta perciò ad essere oggetto di distinta situazione soggettiva di proprietà 9 o anche di possesso 10 dell’imprenditore: la titolarità dell’impresa è correlata alla titolarità dell’azienda 11. La disciplina dell’azienda è scarna: è rivolta unicamente a regolarne la circolazione, con l’alienazione a terzi della stessa o anche solo la concessione in usufrutto o in affitto, mantenendosi l’unità economica del complesso dei beni e dei rapporti contrattuali inerenti all’azienda 12. Una disciplina particolare regola la successione nei contratti inerenti l’azienda: contrariamente alla norma generale che consente la cessione del contratto “purché l’altra parte vi consenta” (art. 1406), l’acquirente dell’azienda, se non è pattuito diversamente, “subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale” (art. 25581) 13; però l’alienante non è liberato dai debiti ine  8 L’azienda, quale complesso unitario di beni funzionalmente organizzati per la produttività, va tenuta distinta dall’impresa, quale attività economica organizzata per la gestione di un’azienda, la quale, in quanto tale, “è inseparabile dall’imprenditore di cui costituisce un modo di operare e, perciò, ha un carattere eminentemente soggettivo”; la cessione o affitto di azienda, quindi, non comporta il passaggio al cessionario o all’affittuario anche dell’impresa, ma determina normalmente una situazione di continuità tra la precedente e la nuova gestione (Cass. 13-12-2006, n. 26674). 9 La unitarietà del valore dell’azienda è operante anche nella prospettiva tributaria, rilevando, per gli atti che hanno ad oggetto aziende o diritti reali su di esse, il valore complessivo dei beni che compongono l’azienda, compreso l’avviamento, al netto delle passività risultanti dalle scritture contabili obbligatorie o da atti aventi data certa (proporzionalmente al valore dei beni) tranne quelle che l’alienante si sia espressamente impegnato ad estinguere (art. 514, D.P.R. 26.4.1986, n. 131). 10 L’azienda è un bene distinto dai singoli componenti, suscettibile di essere unitariamente posseduto e, nel concorso degli altri elementi di legge, usucapito (Cass., sez. un., 5-3-2014, n. 5087). 11 Per le imprese soggette a registrazione i contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o il godimento dell’azienda devono essere provati per iscritto, salva l’osservanza delle forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda o per la particolare natura del contratto (art. 2556). 12 Si ha cessione di azienda quando le parti abbiano inteso trasferire un complesso organico di beni unitariamente considerato, dotato di potenzialità produttiva tale da farne emergere ex ante la complessiva attitudine anche solo potenziale all’esercizio di un’impresa; è irrilevante che le singole parti che la compongono siano state cedute globalmente o con più atti separati, decisiva essendo unicamente la causa reale del negozio e la regolamentazione degli interessi effettivamente perseguiti dai contraenti (Cass. 3-12-2009, n. 25403). Il problema si è posto in particolare per il divario con il contratto di locazione: nell’affitto di azienda il singolo immobile è considerato come uno degli elementi costitutivi del complesso dei beni (mobili ed immobili) legati tra loro da un vincolo di interdipendenza e complementarietà per il conseguimento di un determinato fine produttivo (Cass. 17-2-2020, n. 3888). 13 Applicazioni di tale principio sono in materia di contratto di lavoro e di contratto di locazione. Per l’art. 2112, in caso di trasferimento dell’azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano; il cedente e il cessionario sono obbligati in solido per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento. Per l’art. 36 L. 27.7.1978, n. 392, il conduttore può sublocare l’immobile o cedere il contratto di locazione anche senza il consenso del locatore, purché venga insieme cedu 

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renti all’azienda, anteriori al trasferimento, se non risulta che i creditori vi hanno consentito (art. 2560). Chi aliena l’azienda deve astenersi, per il periodo di cinque anni dal trasferimento, dall’iniziare una nuova impresa che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta (art. 2557): si tende ad assicurare al cessionario l’avviamento dell’azienda, che di regola influenza la quotazione del prezzo dell’azienda stessa. Segni distintivi dell’azienda, che ne connotano la rilevanza economica e giuridica, sono la ditta, l’insegna e il marchio. L’imprenditore ha il diritto all’uso esclusivo di tali segni, secondo i criteri della novità e della verità. La ditta identifica la titolarità: comunque sia formata, deve contenere almeno il cognome o la sigla dell’imprenditore, salva l’ipotesi del trasferimento dell’azienda (art. 2563) 14. L’insegna connota il luogo ove è esercitata l’attività (arg. 2568). Il marchio contraddistingue il prodotto (bene o servizio) (art. 2569) 15. La materia ha formato oggetto di un intervento organico normativo con il D.Lgs. 10.2.2005, n. 30, recante il Codice della proprietà industriale, e il D.Lgs. 27.6.2003, n. 168, istitutivo delle Sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale presso tribunali e corti d’appello (per la pubblicità, XIV, 1.6).

3. L’iniziativa economica nella Costituzione e nella normativa europea. – Agli inizi del ’900 la forte stagnazione economica e l’aumento della disoccupazione proponevano il divario tra le due grandi scuole di pensiero: da un lato, la tradizione liberale, fiduciosa nel mercato che, nel lungo periodo, si sarebbe autoregolato anche se con alcuni sussulti; dall’altro, l’ostilità al sistema economico capitalistico che non sarebbe stato in grado di autoregolarsi, con la prospettazione di statalizzazione della grande produzione. Sullo sfondo il dilemma tra l’esigenza di libertà e la necessità di sicurezza, variamente intese, che propugnavano l’assenza o l’intervento dello stato in economia per garantire il benessere sociale. Negli anni ’30 del secolo scorso, in risposta alle catastrofi della grande depressione e della seconda guerra mondiale si sviluppava la “terza via” che propugnava l’intervento pubblico nell’economia per salvare il potenziale di crescita del capitalismo correggendone le distorsioni 16; mentre si affermava una esigenza di “equilibrio” tra le  

ta o locata l’azienda, dandone comunicazione al locatore, il quale può opporsi per gravi motivi; il locatore, se non ha liberato il cedente, può agire contro il medesimo qualora il cessionario non adempia le obbligazioni assunte. Le ragioni della proprietà sono sacrificate alle esigenze dell’impresa: il locatore deve subire il nuovo locatario che ha il merito di mantenere in vita l’esercizio dell’impresa. 14 In tema di legittimazione processuale, l’imprenditore, pur senza specificare la sua qualità, è legittimato ad opporsi ad un decreto ingiuntivo emesso nei confronti della relativa ditta, non avendo quest’ultima soggettività giuridica distinta ed identificandosi essa con il suo titolare sotto l’aspetto sia sostanziale che processuale (Cass. 19-4-2010, n. 9260). 15 Va delineandosi l’idea di unità dei segni distintivi. In ragione di tale principio anche l’impiego di un domain name su Internet, che riproduce la ditta o l’insegna o il marchio altrui, è comunque considerato in grado di ingenerare confusione nel pubblico e dunque integrare contraffazione, con sviamento della clientela. Né rileva che il nome a dominio sia stato assegnato dall’Autorità di registrazione (R.A.), non rientrando tra i compiti di questa la verifica di confondibilità con segni distintivi non elettronici. 16 Fondamentale J.M. KEYNES (1936), secondo cui le amministrazioni pubbliche dovevano apprestare efficienti progetti di investimenti pubblici, da finanziare anche con debito all’avvio, nel momento in cui l’economia fosse in depressione o ristagno e non si riuscisse a risollevarla attraverso la sola politica monetaria. Ne gli anni successivi la terza via si è incanalata nei tradizionali settori d’influenza delle politiche di welfare, come

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prosperità del mercato e i bisogni umani, evolvendo la sicurezza pubblica (come quiete civica) in sicurezza sociale (come garanzia di benessere) 17. Emergeva l’affermazione di un welfare state che maturerà la welfare society. In questo contesto il cod. civ. del 1942 si dispiegava nel segno della economia di mercato, con tendenziale assenza di vincoli all’attività di impresa e con tutela indifferenziata della circolazione giuridica, intervenendo il potere pubblico solo a sostegno della produzione. Il disegno che vi faceva da sfondo è evidente: il funzionamento del mercato era causa di prosperità, mentre il fallimento del mercato era motivo di impoverimento della società. L’esperienza economica ha però mostrato che, anche in assenza di fallimento del mercato, il funzionamento dello stesso non sempre ha garantito uno sviluppo della intera società, reclamando un intervento di correzione coattiva nelle varie direzioni in cui si svolge l’aspirazione socio-economica di una società. Quando, all’indomani del secondo dopoguerra, si poneva mano alla formazione della Carta costituzionale si prospettavano all’assemblea costituente i delineati modelli economici, con le connesse ideologie di riferimento, che orientarono la disciplina dei “rapporti economici” (la c.d. costituzione economica, ex artt. 35 ss. Cost.) (I, 2.7) 18. In tale contesto maturava la sinapsi valoriale di raccordo delle esigenze del libero marcato con i bisogni della persona umana. Fondamentale è la regola compromissoria secondo cui “l’iniziativa economica privata è libera” (art. 411 Cost.); ma “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno all’ambiente, alla salute, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (art. 412 Cost.): sono limiti scheletrici e dunque ontologici alla stessa libertà di iniziativa, che non è funzionale alla società ma non può svolgersi contro la stessa 19. Perché la libertà della iniziativa economica non sia piegata dai pubblici poteri è prevista una riserva di legge per apprestare i “programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” (art. 413). È ancora prevista una riserva di legge perché, a fini di utilità generale, si possa “riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o cate 

povertà, disoccupazione, pensioni, salute, ma ha avuto una speciale incidenza sulle politiche attive per stimolare l’occupazione e favorire l’istruzione. Nella modernità se ne reclama l’intervento verso sanità, sicurezza del territorio, ambiente, infrastrutture materiali e immateriali. 17 Efficace la lezione di K. POPPER (1945): la libertà non è un impedimento né per avere sicurezza né per ottenere benessere; la libertà è la precondizione senza la quale non c’è sicurezza. 18 La ideologia liberale che aveva incarnato la edificazione dello Stato moderno reclamava mani libere in economia, nella convinzione che il perseguimento dell’interesse individuale in una economia di mercato stimolasse lo sviluppo economico e realizzasse naturalmente l’interesse economico collettivo. Sul fronte opposto la rivoluzione socialista evidenziava la necessità di un intervento pubblico per riequilibrare i rapporti di forza della società, perciò prospettando meccanismi di pianificazione degli investimenti e dello sviluppo economico della società. Con una ispirazione religiosa la dottrina sociale cattolica valorizzava la dignità della persona umana (creata ad immagine e somiglianza di Dio) prospettando limiti alla gestione privata dei beni in grado di equilibrare le libertà dell’individuo con le esigenze della collettività, secondo un modello solidaristico di esperienza umana. Sullo sfondo della Carta repubblicana echeggiava anche il pensiero degli istituzionalisti americani del new deal. 19 Si è ad es. stabilito che la tutela dell’ambiente, preordinata alla salvaguardia dell’habitat nel quale l’uomo vive, è imposta da precetti costituzionali ed assurge a valore primario ed assoluto, con la conseguenza che il diritto all’ambiente, espressione della personalità individuale e sociale, costituisce un limite ai principi dell’iniziativa privata previsti dagli artt. 41 e 42 Cost. (Cons. Stato 21-9-2006, n. 5552).

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gorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale” (art. 43 Cost.). È acquisito il principio che l’impresa può essere esercitata anche da enti pubblici, con gli strumenti propri del diritto privato, secondo un fenomeno di progressiva neutralizzazione delle forme rispetto ai risultati perseguiti 20. Tale atteggiamento, comune a tutte le democrazie dei paesi europei, ha ispirato anche la normativa europea, trovando piena esplicazione nel Trattato di Lisbona del 2007 (I, 2.12; I, 3.6). Per la Carta dir. fond. U.E. è riconosciuta la libertà di impresa conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali (art. 16); al fine di promuovere la coesione sociale e territoriale dell’Unione, questa riconosce e rispetta l’accesso ai servizi di interesse economico generale, previsto dalle legislazioni e prassi nazionali conformemente ai trattati (art. 36). Lo sviluppo della globalizzazione, con la connessa delocalizzazione delle imprese globalizzate, ha reso stringente l’esigenza che, affianco alla ricerca del profitto, operi una responsabilità sociale di impresa che ponga le implicazioni di carattere etico all’interno della visione strategica d’impresa, specialmente nelle direzioni di rispetto dell’ambiente e del territorio, di salvaguardia di posti di lavoro e di sicurezza e trattamento dei lavoratori, di contrasto al lavoro minorile, di soddisfacimento dei creditori 21. In sede europea si è fatto obbligo alle grandi imprese di fornire adeguate informazioni sull’attività svolta: con D.Lgs. 30.12.2016, n. 254, è stata attuata la direttiva 2014/95/UE, recante modifica alla direttiva 2013/34/UE per quanto riguarda la comunicazione di informazioni di carattere non finanziario e di informazioni sulla diversità da parte di talune imprese e di taluni gruppi di grandi dimensioni 22. Sullo sfondo si svolge il dibattito circa il ruolo e la dimensione dello stato sociale (welfare state) e più in generale sull’intervento pubblico in economia e di come la spesa pubblica debba supplire o orientare il mercato quando fallisce nella sua funzione sociale. Verso tali obiettivi concorrono la politica monetaria, la manovra finanziaria, la leva fiscale, la promozione e l’attuazione dello stato sociale, attraverso normative non sempre riconducibili a categorie logiche generali, per il carattere compromissorio e articolato degli scopi perseguiti.

4. Concorrenza e mercato. L’economia sociale di mercato. – Tradizionalmente la concorrenza è stata configurata come conseguenza della libertà di iniziativa economica: la libertà di iniziativa dei singoli operatori si traduce nella concorrenza tra gli stessi quan  20

Rileva la distinzione tra enti che esercitano in via esclusiva o principale attività di impresa (indicati come enti pubblici economici) ed enti per i quali l’esercizio dell’impresa costituisce attività secondaria, considerandosi solo i primi imprenditori commerciali e perciò soggetti alla disciplina propria degli stessi (artt. 2188 ss.). Alla stregua dell’art. 2093, i primi sono senz’altro soggetti alla normativa del libro V del cod. civ.; i secondi vi sono soggetti solo relativamente alle imprese esercitate. 21 Sta emergendo un trend culturale valutativo anche dei prodotti di impresa, perché siano apprezzati, non solo per le essenze strutturali e funzionali, ma anche per la storia di realizzazione, rispetto ai valori rispettati e agli interessi attuati. 22 L’informazione, nella misura necessaria ad assicurare la comprensione dell’attività di impresa, del suo andamento, dei suoi risultati e dell’impatto dalla stessa prodotta copre i temi ambientali, sociali, attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani, alla lotta contro la corruzione attiva e passiva, che sono rilevanti tenuto conto delle attività e delle caratteristiche dell’impresa (art. 3). L’art. 5 fissa la collocazione della dichiarazione e il regime di pubblicità.

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do, in un determinato tempo e/o area geografica, più operatori offrono o domandano i medesimi prodotti (cose o servizi). Il mercato era circoscritto ad una unità fisica, dove materialmente si incontravano e dialogavano i soggetti del processo produttivo (come ancora avviene nelle fiere): l’incontro fisico tra domanda e offerta determinava il prezzo dei beni. Nella contemporaneità il mercato esprime uno spazio ideale, sempre più virtuale e globalizzato, dove impulsi elettronici segnano le impersonali dichiarazioni dei singoli operatori. Più i confini del mercato si dilatano, maggiormente è avvertita l’esigenza di garantire informazione e trasparenza, quali connotati essenziali di funzionamento del mercato: una asimmetria informativa, già di per sé, segna un fallimento del mercato, sia in termini di efficienza economica che nella prospettiva di equilibrio sociale; si aggiungano le debolezze non neutralizzabili neppure con l’informazione e che reclamano interventi correttivi (VIII, 1.7). È emerso poi che, intorno alla vita delle aziende, ruotano interessi di vario genere, sia diretti che riflessi. In una prospettiva di diritto dell’economia, sta svolgendosi un indirizzo di attenzione privilegiata al recupero dell’impresa in crisi per i molti interessi coinvolti dall’azienda, a cominciare dalla forza lavoro e per l’indotto che determina nel reticolo economico di operatività (VII, 8.1). In tal senso la vitalità dell’impresa nel mercato svolge una funzione sociale che non si esaurisce nel soddisfacimento del titolare dell’impresa. Atteggiandosi il mercato quale volano dello sviluppo economico, il relativo funzionamento non può essere rilasciato ad uno spontaneismo senza regole, con l’inevitabile vittoria della legge del più forte e il soffocamento della concorrenza: non garantirebbe il libero accesso a tutti gli operatori economici e dunque una corretta gara tra gli stessi, che rappresentano i presupposti di funzionamento dello stesso mercato. Le ricorrenti crisi economiche, specie dei mercati finanziari, stanno accentuando (non solo in Europa) l’esigenza di una generale regolazione del mercato, sempre più riguardato come ordo legalis (conformato cioè dall’ordinamento), attraverso regole che tendano a delineare un ordine pubblico economico di presidio di accesso e di azione per tutti gli attori. L’esperienza giuridica europea ha articolato il mercato nelle direzioni sinergiche della concorrenza e della socialità: da un lato, sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno (art. 101 TFUE); dall’altro, l’Unione si adopera per uno sviluppo sostenibile, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su una economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente; promuove il progresso scientifico e tecnologico (art. 3 TUE). Così concorrenza e mercato diventano, ad un tempo, essenziali ma cedevoli rispetto a valori socio-economici pubblici, attestandosi su modelli economici concorrenziali equi. La formula della “economia sociale di mercato”, sin dal suo apparire 23, ha rappresentato una terza via tra il libero mercato e la pianificazione sta  23 È comune opinione ricondurre la formula all’ambiente culturale tedesco durante il periodo della Repubblica di Weimar (con il contributo di L. von Mises). Successivamente le idee vennero riprese dall’Ordoliberalismo della scuola di Friburgo di Walter Eucken. L’idea basilare, che giungerà fino a noi, era che il   mercato non rappresentasse un ordine naturale ma un ordine istituzionale e quindi legale, che dovesse

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tale, con lo scopo di riconoscere le libertà economiche dell’individuo e sostenere la giustizia sociale. Protagonisti del mercato non sono più considerati i soli imprenditori: affianco ad essi rilevano i fruitori dei prodotti delle imprese e segnatamente i consumatori, che, in una economia consumeristica, con i loro comportamenti attivano la produttività e dunque l’economia 24. La struttura concorrenziale del mercato diventa il presupposto della libertà di iniziativa economica privata: è il bene oggettivo rispetto al quale l’iniziativa economica privata deve confrontarsi e dal quale i consumatori traggono alimento per la scelta dei prodotti. Vi è una correlazione tra iniziativa economica e autonomia privata, per risentire l’organizzazione della prima anche l’assestamento della seconda: lo squilibrio contrattuale tra le parti altera non soltanto l’esplicazione dell’autonomia negoziale, ma anche la dinamica concorrenziale tra imprese. La garanzia del mercato concorrenziale deve aprirsi a tutte le traiettorie che infrangono la parità delle condizioni di gara: vuoi mediante le visibili restrizioni convenzionali e gli abusi di posizione dominante, vuoi attraverso le tecniche più insidiose delle violazioni di doveri pubblici (negli approvvigionamenti, nella lavorazione e nella collocazione dei prodotti; nell’utilizzo della manodopera e nelle dimensioni assicurativa e previdenziale; nel rispetto delle prescrizioni tributarie, urbanistiche e di difesa dell’ambiente): la tutela dei diritti delle persone coinvolte e il rispetto dei doveri pubblici imposti sono fondamentali fattori, anche di rilevanza economica, di svolgimento della gara. Esistono peraltro prodotti dannosi per il contesto sociale e paesaggistico o per l’ecosistema che reclamano la mano pubblica interdittiva e l’incentivazione della economia verde (green economy) 25. Il codice civile prevede alcune restrizioni alla concorrenza in funzione di qualificati interessi imprenditoriali. Così limitazioni legali della concorrenza operano nella prospettiva di tutela degli imprenditori, al fine di evitare che resti erosa o svuotata l’iniziativa economica 26. La disciplina sulla concorrenza sleale è volta a disciplinare la concor 

essere definito in un quadro istituzionale. Il crollo della economia socialista e alcuni fallimenti della economia di mercato facevano emergere la essenzialità di un libero mercato regolato dai valori indeclinabili della dignità umana. 24 Osservava KEINES (1936): le due categorie di attori che di fatto dominano gran parte dell’attività economica sono i consumatori e gli imprenditori. I consumatori scelgono quale frazione dei loro introiti destinare al consumo e quale no; di quest’ultima il consumatore può decidere di tenerla improduttiva nel suo portafoglio o assegnarla al risparmio produttivo affidandola ad un imprenditore (di solito una banca) in cambio di un interesse. Per tale calcolo bisogna contrapporre gli aspetti psicologici e irrazionali (animal spirits), che tendono a trasmettersi per contagio e di conseguenza a rafforzarsi. 25 Per la Commissione europea è “un’economia che genera crescita, crea lavoro e sradica la povertà investendo e salvaguardando le risorse del capitale naturale da cui dipende la sopravvivenza del nostro pianeta”. Il Green Deal europeo prevede un piano d’azione volto a: promuovere l’uso efficiente delle risorse passando a un’economia pulita e circolare; ripristinare la biodiversità e ridurre l’inquinamento. Si va sviluppando un modello di economia sostenibile che coinvolge sia i materiali utilizzati e le energie impiegate che gli ambienti realizzati e le tecnologie applicate. 26 Si pensi in particolare al divieto di concorrenza nel caso di alienazione d’azienda (art. 25571) e al divieto di concorrenza del prestatore di lavoro in pendenza del rapporto di lavoro (art. 2105) (è possibile la stipulazione di patto di non concorrenza con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro per il tempo successivo al contratto di lavoro nei limiti previsti dall’art. 2125). Ulteriori divieti sono in materia societaria (artt. 2301, 2318, 2390, 2464, 2487, 2516, 2547).

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renza tra imprenditori e perciò nella direzione di tutela degli operatori concorrenti 27. È rimesso agli imprenditori disporre della libertà di concorrenza con la stipula di divieti convenzionali di concorrenza, talvolta articolati in intese restrittive dell’attività economica, talaltra attraverso cartelli impositivi di determinati comportamenti: le prescrizioni imposte ai patti limitativi della concorrenza (art. 2596) sono rivolte alla tutela della libera concorrenza degli stessi imprenditori. Una norma a tutela della generalità del pubblico è quella relativa all’obbligo di contrattare nel caso di monopolio: per l’art. 2597 chi esercita un’impresa in condizione di monopolio legale ha l’obbligo di contrattare con chiunque richieda le prestazioni che formano oggetto dell’impresa, osservando la parità di trattamento 28. Lo Stato ha legislazione esclusiva in materia di concorrenza, unitamente alle materie riguardanti la moneta, la tutela del risparmio e dei mercati finanziari, il sistema valutario, i sistemi tributario e contabile dello Stato, la perequazione delle risorse finanziarie (art. 1172, lett. e, Cost.): tale accorpamento rende evidente che la tutela della concorrenza costituisce una delle leve della politica economica statale 29. In applicazione dei delineati principi, l’Unione europea ha emanato la direttiva 2014/104/UE del 26.11.2014, relativa a determinate norme che regolano le azioni per il risarcimento del danno ai sensi del diritto nazionale per violazioni del diritto della concorrenza degli Stati membri e dell’Unione europea, attuata con D.Lgs. 19.1.2017, n. 3, che disciplina, anche con riferimento alle azioni collettive, il diritto al risarcimento in favore di chiunque ha subìto un danno a causa di una violazione del diritto della concorrenza da parte di un’impresa o di un’associazione di imprese (art. 1) 30. A presidio della concorrenza è istituita l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (L. 10.10.1990, n. 287), con poteri di regolazione e di emettere diffide e sanzioni 31.   27

L’art. 2598 enumera le attività di concorrenza sleale. All’imprenditore sono accordati due azioni di contrasto alla concorrenza sleale (spesso concorrenti): di inibizione (tendente a ad impedire la continuazione della concorrenza sleale) e di rimozione (tendente a distruggere le cose nelle quali si concretizza la concorrenza sleale) (art. 2599). Se gli atti di concorrenza sleale sono compiuti con dolo o con colpa, l’autore è tenuto altresì al risarcimento dei danni ex art. 2043, presumendosi la colpa dello stesso; può anche essere ordinata la pubblicazione della sentenza (art. 2600). 28 Una specifica applicazione è in tema di pubblici servizi di linea: per l’art. 1679 coloro che, per concessione amministrativa, esercitano servizi di linea per il trasporto di persone o di cose sono obbligati ad accettare le richieste di trasporto che siano compatibili con i mezzi ordinari dell’impresa, secondo le condizioni generali stabilite o autorizzate nell’atto di concessione e rese note al pubblico. 29 La tutela della concorrenza “non può essere intesa soltanto in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, ma anche in quell’accezione dinamica, ben nota al diritto comunitario, che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali” (Corte cost. 13-1-2004, n. 14). La tutela della concorrenza non esclude interventi promozionali dello Stato: la configurazione della tutela della concorrenza “ha una portata così ampia da legittimare interventi dello Stato volti sia a promuovere, sia a proteggere l’assetto concorrenziale del mercato” (Corte cost. 27-7-2004, n. 272). 30 Il risarcimento comprende il danno emergente, il lucro cessante e gli interessi e non determina sovra compensazioni (art. 1). La violazione del diritto della concorrenza si ritiene definitivamente accertata verso l’autore quando è constata da una decisione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato non più soggetta ad impugnazione davanti al giudice del ricorso o da una sentenza del giudice del ricorso passata in giudicato (art. 7). 31 L’Autorità, valutati gli elementi comunque in suo possesso e quelli portati a sua conoscenza da pubbliche amministrazioni o da chiunque vi abbia interesse, ivi comprese le associazioni rappresentative dei consumatori, procede ad istruttoria per verificare l’esistenza di infrazioni ai divieti stabiliti negli artt. 2 e 3 (art. 12).  

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In attuazione di varie direttive europee, è stata elaborata una normativa delle pratiche commerciali scorrette e dei diritti dei consumatori (artt. 18 ss. cod. cons.).

5. Aree e fattori dell’azione economica. – Le dimensioni dell’attività economica sono state progressivamente segnate dall’agricoltura, dall’edilizia, dalla produzione e distribuzione dei prodotti attraverso l’economia prima commerciale e poi industriale e infine attraverso l’economia digitale, impegnando gran parte del diritto privato, attraverso un intreccio costante di ricerca e innovazione. a) Nell’economia reale, la crescita dimensionale delle imprese ha accentuato il ruolo fondamentale del consumo, atteggiandosi l’assorbimento dei beni pilastro fondamentale della economia di mercato. Secondo un circolo economico, l’aumento dei consumi accresce produzione e distribuzione che consentono l’assunzione di nuova mano d’opera, che a sua volta spende di più e quindi genera consumo (c.d. economia dei consumi); se calano i consumi, si spende di meno e quindi diminuisce l’azione economica che si trascina la disoccupazione, impoverendo le famiglie che non sono più in grado di accedere al consumo. Così l’occupazione, già avvertita quale esigenza valoriale della dignità umana, è acquisita dall’economia di mercato anche come leva economica delle imprese per l’intreccio virtuoso con i consumi 32. È necessaria una normativa inderogabile di tutela dei consumatori, della quale si darà conto nelle trattazioni specifiche 33. Emerge la essenzialità di una trama di fattori economici, tenuta insieme dalla capacità dell’imprenditore di stimolare consumo, attrarre risparmio e ottenere credito 34. È un’esperienza che attraversa massimamente il grande capitale maturando la formazione di gruppi, con attività di collegamento, direzione e coordinamento tra più società (artt. 2947 ss. c.c.).  

I ricorsi avverso i provvedimenti amministrativi dell’Autorità garante rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (T.A.R. Lazio) (art. 331). 32 È fondamentale la rilevazione del Pil (prodotto interno lordo), quale valore monetario di tutti i beni e i servizi finali prodotti in un anno sul territorio nazionale al lordo degli ammortamenti (tenendo conto di stipendi e altri redditi, utili societari, esportazioni nette, ecc.). Più il Pil cresce maggiormente sale il benessere, su cui innestare una politica di solidarietà sociale; quando il Pil cala, diminuiscono anche le entrate dello Stato, squilibrando i conti pubblici e così complicando gli interventi di riequilibrio sociale. 33 Per un verso, non vanno indebolite le tutele dei soggetti che aderiscono ai contratti standardizzati predisposti dalle imprese; dall’altro, non siano somministrati indirizzi di spesa di nessuna utilità per il consumatore, che ne indeboliscano la capacità di scelta e la utilità alla persona, peraltro bruciando ogni propensione al risparmio. Da tempo si è affermato un marketing responsabile di domanda orientato all’analisi delle componenti del mercato, ai protagonisti che ivi si muovono e agli interessi perseguiti: si suole anche parlare di un marketing sociale appunto perché presta attenzione ai bisogni e agli interessi a lungo termine dei consumatori. In tale ottica si muovono oggi essenzialmente le imprese start up attraverso un customer-oriented finalizzato alla ricerca di cosa il consumatore vuole e alla organizzazione della struttura aziendale in grado di procurare tali obiettivi: il cliente percepisce il valore conseguito attraverso la comparazione tra il beneficio ottenuto e il prezzo pagato. 34 Un mercato efficiente determina un circolo virtuoso tra concorrenza, ricerca ed innovazione: la concorrenza stimola la ricerca per realizzare innovazione, che a sua volta genera concorrenza. In una economia sociale di mercato la crescita economica è assicurata essenzialmente dall’i n n o v a z i o n e negli obiettivi perseguiti e nelle tecnologie e gestioni adoperate, attuata con la osservanza della legalità dei comportamenti tenuti e nella consapevolezza dei risvolti sociali della produttività. Fondamentale resta l’intuizione di SCHUMPETER nella teoria dello sviluppo economico (1912) circa la realtà dinamica introdotta dalla “innovazione” come nuovo concetto di equilibrio del mercato: le innovazioni rompono il flusso circolare del reddito secondo modalità rutinarie, conquistando guadagni di produttività e crescita di lungo periodo; il credito finanzia gli investimenti delle imprese innovatrici.

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Di recente è accresciuta la valorizzazione dei servizi (c.d. terziario) che affianca i tradizionali fattori primari dell’agricoltura 35 e dell’industria 36. Il terziario assicura servizi sia ai cittadini che alle imprese (basti pensare a commercio, finanza, trasporto e logistica, informazione e comunicazione, turismo, distribuzione, prestazioni online); è anzi in corso una progressiva esternalizzazione di funzioni aziendali sotto forma di servizi (Outsourcing). Anche nei contratti di scambio di diritti sulle cose hanno assunto un ruolo determinante dell’assetto di interessi la natura e l’entità dei servizi di assistenza dopo vendita. b) Sta emergendo una economia circolare che si atteggia con varie modalità e in differenti campi. A fronte di una economia lineare, per cui le risorse vengono usate e poi distrutte, sta emergendo una economia collaborativa, connotata dal “riciclo” di risorse per essere riutilizzate in un nuovo ciclo. Stanno svolgendosi approcci ad una economia circolare e della condivisione (sharing economy), con la organizzazione di un uso collettivo dei beni, attraverso pratiche di scambio e condivisione di beni materiali, servizi o conoscenze: le prime esperienze significative riguardano gli immobili (spese per case di vacanza) e i mezzi di trasporto (specie nelle città) con una mobilità condivisa di veicoli in sharing (auto, scooter, bici) 37. Sta emergendo una evoluzione nei comportamenti di spesa, attraverso una experience economy (economia esperienziale), considerandosi la esperienza di vita comunitaria più appagante di possedere e ostentare oggetti. Nella consapevolezza che il tessuto sociale è un bene comune alla società, sta maturando una cultura dei beni comuni imposta o favorita dalle pubbliche istituzioni, che punta a modulare la regolazione degli stessi non sull’appartenenza formale (pubblica o privata) ma sull’uso sociale e quindi sulla fruizione dei beni (es. acqua, paesaggio, beni culturali, ma anche web), quando le connotazioni strutturali e le destinazioni dei beni 38 siano suscettibili di utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona 39.   35 L’agricoltura, pur subendo una contrazione di rilevanza produttiva, ha ripreso a svolgere una essenziale funzione culturale, contribuendo alla tenuta degli ecosistemi e alla conservazione dei paesaggi; inoltre mantiene viva la rete dei centri rurali e allarga l’offerta turistica. 36 Vi è una generalizzata svolta della politica industriale verso la green economy, favorendosi l’high tech ecologico e la produzione di energie rinnovabili (D.Lgs. 28.12.2015, n. 221), con la valorizzazione della filiera del singolo prodotto. 37 Secondo la formula della Commissione europea, sono modelli imprenditoriali in cui le attività sono facilitate da piattaforme di collaborazione che creano mercato aperto per l’uso di beni o servizi spesso forniti da privati. 38 Fondamentale resta il contributo di E. FINZI sulle moderne trasformazioni del diritto di proprietà (1922), dove l’A. valorizzava l’uso della cosa e la materialità del diritto. 39 Significativo un atteggiamento delle sezioni unite: dalla applicazione diretta degli artt. 2, 9 e 42 Cost. si ricava il principio di tutela del “paesaggio”, con specifico riferimento non solo ai beni costituenti, per classificazione legislativa-codicistica, il demanio e il patrimonio oggetto della “proprietà” dello Stato, ma anche riguardo a quei beni che, indipendentemente da una preventiva individuazione da parte del legislatore, per loro intrinseca natura o finalizzazione, risultino, funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività e che – per tale loro destinazione alla realizzazione dello Stato sociale – devono ritenersi “comuni”, prescindendo dal titolo di proprietà; il connotato della “demanialità” esprime una duplice appartenenza, alla collettività ed al suo ente esponenziale, dovendosi intendere la titolarità in senso stretto come appartenenza di servizio, nel senso che l’ente esponenziale può e deve assicurare il mantenimento delle specifiche caratteristiche del bene e la sua concreta possibilità di fruizione collettiva (Cass., sez. un., 16-2-2011, n. 3813; Cass., sez. un., 16-2-2011, n. 3811; Cass., sez. un., 14-2-2011, n. 3665).

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PARTE II – CATEGORIE GENERALI

c) Sta diffondendosi una economia digitale , caratterizzata dall’impiego delle nuove tecnologie, che attraversa tutte le dimensioni dell’azione economica oltre che generare essa stessa meccanismi e dispositivi di digitalizzazione. La stessa coinvolge i diritti della persona, il mercato, l’amministrazione pubblica, la giustizia. Si delinea una tecnocrazia, come governo dei tecnici, in grado di orientare le organizzazioni socio-economiche, senza una base di legittimazione democratica (v. I, 2.15). Anche rispetto a tali modelli economici si sviluppa l’esigenza di tutela degli utenti. Specifici interventi normativi sono nel codice delle comunicaz. elettroniche (approvato con D.Lgs. 1.8.2003, n. 259) sempre integrato 40, e nella nuova disciplina del cod. cons. (approvato con D.Lgs. 6.9.2005, n. 206), dove sono confluiti due corpi di norme, peraltro di difficile coordinamento negli ambiti di applicazione e nel contenuto 41. d) Assume una crescente rilevanza la economia finanziaria, amplificata dalla globalizzazione dei mercati finanziari 42, per cui gli spostamenti di partecipazioni societarie e l’intermediazione nella collocazione di prodotti finanziari (azioni, obbligazioni 43, ecc.) segnano gli assestamenti delle imprese e i modelli proprietari e manageriali di controllo delle aziende. Quanto più è dilatato il distacco dell’indirizzo del risparmio rispetto all’attività operativa, maggiormente si pone un problema di gestione dei rischi nell’allocazione del risparmio e negli investimenti finanziari 44 (è significativa l’esperienza dei c.d. fondi comuni di investimento, con una composizione variegata di prodotti finanziari, maggiormente di rischio o più tranquilli). Lo sviluppo dei “derivati”, per modularsi su fenomeni sempre maggiormente incerti, sta accrescendo i rischi dell’investimento finanziario. In un’economia globalizzata il risparmio ha lo sbocco più frequente e naturale verso gli investimenti finanziari con una correlata finanziarizzazione dell’economia reale. e) Sostegni essenziali di ogni attività di impresa sono il credito e il risparmio. Negli acquisti individuali (acquisizione di immobili e beni di consumo) come nel  40 Il D.Lgs. 8.11.2021, n. 207, attuativo della direttiva 2018/1972/UE istitutiva del codice europeo delle comunicazioni elettroniche, ha apportato numerose modificazioni al cod. com elettr. 41 Il D.Lgs. 4.11.2021, n. 170, attuativo della direttiva UE/2019/771, disciplina la vendita di beni mobili con “elementi digitali” (art. 1282, lett. e). Il D.Lgs. 4.11.2021, n. 173, attuativo della direttiva UE/2019/770, disciplina i contratti di “fornitura di contenuto digitale e di servizi digitali” (artt. 135 octies ss.). 42 Per il D.Lgs. 24.2.1998, n. 58 (TUIF) si intendono per “prodotti finanziari” gli strumenti finanziari e ogni altra forma di investimento di natura finanziaria (art. 1, lett. u); prodotti finanziari possono essere emessi anche da imprese di assicurazione (art. 1, lett. w-bis). I prodotti finanziari implicano investimenti con un impiego di risorse economiche dirette al conseguimento di un corrispettivo. Una specificazione è rappresentata dagli “strumenti finanziari” con il cui termine si fa riferimento ai valori mobiliari (es. partecipazioni societarie, titoli obbligazionari), agli strumenti del mercato monetario (es. buoni del tesoro, certificati di deposito e carte commerciali), alle quote di un organismo di investimento collettivo del risparmio e ai contratti su strumenti derivati (es. contratti di opzione, future, swap). 43 In ambito finanziario l’obbligazione (bond in inglese) è un titolo di debito emesso da società o enti pubblici che attribuisce all’investitore, alla scadenza, il diritto al rimborso del capitale prestato all’emittente, più un interesse su tale somma. È tipica l’esperienza dello Stato che, avendo bisogno di danaro per far fronte a spese e servizi, raccoglie liquidità dei risparmiatori con l’emissione di titoli (Bot, Btp, Cct, ecc.) che vanno a formare il debito pubblico. 44 I grandi investitori professionali, attraverso investimenti e disinvestimenti massici, sono in grado di orientare le quotazioni dei titoli, rispettivamente, al rialzo o al ribasso; ulteriori flussi sono legati a iniziative economiche di aziende o a politiche economiche di autorità monetarie e/o di governi.

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l’esercizio di iniziative economiche di piccole e grandi imprese, il credito è linfa vitale di una economia di mercato 45. La formazione di c.d. “crediti deteriorati” (non performing loans; NPL), per mancata restituzione di prestiti, incrina il complessivo sistema bancario, determinando crisi bancarie per l’impossibilità di pagare interessi e restituire i depositi ricevuti 46. Essenziale risorsa è anche il risparmio, tutelato dall’art. 47 Cost., che ha una duplice valenza: è una importante virtù civile in quanto esprime previdenza per il futuro, per le esigenze che potranno insorgere per sé e per la famiglia in una prospettiva di continuità generazionale; ed è uno strumento di capitalizzazione delle imprese, attraverso l’investimento nell’acquisto di partecipazioni societarie e nella sottoscrizione di altri prodotti finanziari ovvero attraverso i depositi bancari. Nell’economia di mercato essenziale è la funzione intermediatrice delle banche che raccolgono risparmi delle famiglie e prestano a famiglie e imprese (impieghi). La tutela dei risparmiatori è indirizzo di politica economica e di azione giuridica di ogni modello di economia.

  45 Il piano di ammortamento indica le entità e le modalità di restituzione e di estinzione del debito. Il nuovo trend (auspicato dagli accordi di Basilea) è di valorizzare, nella concessione del credito, la fattibilità del progetto, oltre naturalmente che valutare la serietà del richiedente e la sua situazione economica; tuttora però le garanzie offerte giocano un ruolo assorbente. 46 Dall’1.1.2016 in Italia e nei paesi dell’eurozona sono cambiate le regole di salvataggio delle banche in crisi. Con il recepimento della direttiva 2014/59/EU (BRRD: Banking Recovery and Resolution Directive), attuata con D.Lgs. 16.11.2015, n. 180 e n. 181, viene introdotto lo strumento del c.d. bail in (risanamento interno), secondo cui, in caso di gravi difficoltà finanziarie delle banche siano gli azionisti, obbligazionisti e correntisti della banca stessa a contribuire al salvataggio della propria banca, con eccezione solo per i clienti delle banche che detengono un deposito inferiore a 100 mila euro, che viene integralmente protetto dal Fondo di Garanzia dei Depositi; è così abbandonato un tradizionale sistema di c.d. bail out (risanamento esterno) che prevedeva un intervento diretto dello Stato nel piano di salvataggio delle banche attraverso i soldi di tutti i contribuenti.

CAPITOLO 7

PRINCIPI GENERALI E CLAUSOLE GENERALI (L’ordine pubblico)

Sommario: 1. Principi generali e diritti fondamentali. – 2. Le clausole generali. – 3. Il personalismo (dignità, solidarietà, autoresponsabilità, pluralismo). – 4. La buona fede. Buona fede soggettiva (affidamento e apparenza). – 5. Segue. Buona fede oggettiva (lealtà e correttezza). – 6. L’informazione (trasparenza e conoscenza). – 7. La certezza del diritto (adeguatezza, proporzionalità e ragionevolezza). – 8. La sussidiarietà (orizzontale e verticale). – 9. Lo stato sociale di diritto e l’ordine pubblico interno e internazionale.

1. Principi generali e diritti fondamentali. – Si è visto come, con il termine “principi”, si tenda a esprimere una pluralità di concetti, vuoi rappresentativi di criteri logici di singole discipline, vuoi espressivi di scelte generali dell’ordinamento per attingere ai diritti fondamentali o fare da lievito a clausole generali (I, 1.4). È nelle ultime direzioni che ora si porta l’approfondimento. La trama dei principi generali connota storicamente un ordinamento giuridico, per segnare la guida dell’azione pubblica e dell’agire privato ed esprimere il criterio di valutazione dei comportamenti individuali e delle relazioni sociali (I, 1.4), oltre che di corroborazione delle regole di settore (I, 3.13). Non devono essere necessariamente formulati in modo specifico in testi scritti, essendo desumibili dalle tante tessere dell’ordinamento, che progressivamente si sovrappongono e si modificano, delineando il sistema valoriale dell’ordinamento: ogni nuova norma, per essere portatrice di una scelta dell’ordinamento, irradia sul sistema la nuova visuale ed è dal sistema orientata. Come si è visto, la funzione dei principi generali, oggi, non è più solo quella di riempire le lacune dell’ordinamento attraverso l’analogia, come addita l’art. 12 delle disp. prel. c.c., ma anche di indirizzare l’applicazione delle regole giuridiche o addirittura di imporsi direttamente, secondo l’attualità dei valori fondamentali. I principi generali hanno una portata composita in quanto, talvolta, additano espressamente diritti fondamentali (es. il principio personalista e il principio di solidarietà), talaltra si svolgono in regole strutturali di organizzazione e di comportamento della società e delle istituzioni giuridiche in grado di realizzare i valori fondamentali (es. il principio del giusto processo: III, 1.1.). I diritti fondamentali delineano sempre imprescindibili situazioni giuridiche sostanziali di tutela (par. 8). I principi generali, talvolta, sono espressamente previsti da specifiche normative in

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singoli settori dell’ordinamento 1, talaltra sono desunti dal sistema nella sua interezza. È tradizionale e tuttora ricorrente il dibattito se i principi generali siano derivazione dell’ordinamento, ricavati in via induttiva da regole specifiche, o si aprano alla vitalità della realtà sociale, comprendendone le novità. Si tende a ritenere che, nella prima direzione, non svolgerebbero alcuna funzione siccome sintesi di regole già presenti nell’ordinamento, mentre solo l’aderenza alla società che muta vi conferirebbe pregnanza e utilità. La problematica è articolata: l’impianto dei testi normativi potrebbe con il passare del tempo risultare non coerente con l’evoluzione della società e gli stessi diritti fondamentali iscritti in singole statuizioni potrebbero ricevere nel tempo accezioni diversificate o trovare differenti rilevanze sociali. La valenza dei principi generali va comunque ancorata a generali indici ordinamentali quali essenziali fattori di prevedibilità e di coesione sociale, cogliendo dall’attualità del sistema la evoluzione storica dell’ordinamento Il tradizionale divario tra legge, diritto e giustizia va ricomposto proprio nella prospettiva dei principi generali 2, che coinvolgono i diritti fondamentali operanti nel diritto vivente come progressivamente si va formando. Principi generali sono presenti in più testi di grande rilevanza giuridica, con sostanziale assonanza di valori. La Carta costituzionale si apre con un catalogo di “Principi fondamentali” (artt. 112), che fa da sfondo a tutte le previsioni successive; tra gli stessi campeggiano le previsioni degli artt. 2 e 3 ove sono affermati i diritti della persona umana e i doveri di solidarietà, che tutti li comprende (I, 2.7). L’art. 101 detta un fondamentale principio di adattamento dell’ordinamento giuridico italiano alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute 3. Vi è una tavola di diritti e doveri dei cittadini (artt. 13 ss.). Con l’affermazione dei diritti civili e sociali della persona e dei doveri di solidarietà, espressi dalla universalità dei diritti umani, le costituzioni del novecento modulano un liberalismo sociale che supera l’impostazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cit  1 Ad es., la L. 27.7.2002 (recante lo Statuto del contribuente), all’art. 1, prevede che le disposizioni della legge, in attuazione degli artt. 3, 23, 53 e 97 Cost., costituiscono “princìpi generali dell’ordinamento tributario” e possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali. Peraltro la declinazione di essere attuazione di principi costituzionali, li rende principi generali dell’ordinamento. 2 È il divario tra legge e diritto (e giustizia), che da sempre attraversa il grande dilemma della giuridicità della società. Nell’antica Grecia resta scolpita la vicenda di Antigone, conclusa con il suicidio della stessa. Nella modernità resta sempre attuale il dilemma emerso nel processo di Norimberga: a fronte della tesi della difesa di rispetto della legge da parte dei gerarchi del nazismo, la Corte rilevò come l’atrocità delle condotte fosse in contrasto con il principio generale di valore dell’uomo di tutte le democrazie occidentali. 3 Le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute che tutelano la libertà e la dignità della persona umana come valori fondamentali, e che configurano come crimini internazionali i comportamenti che più gravemente attentano all’integrità di tali valori, sono parte integrante dell’ordinamento italiano e costituiscono parametro dell’ingiustizia del danno causato da un fatto doloso o colposo altrui (Cass., sez. un., 11-3-2004, n. 5044). Si è successivamente precisato: L’immunità dalla giurisdizione civile degli Stati esteri per atti “iure imperii” costituisce una prerogativa (e non un diritto) riconosciuta da norme consuetudinarie internazionali, la cui operatività è preclusa nel nostro ordinamento, dopo la sentenza di Corte cost. 238/2014, per i delicta imperii, per quei crimini, cioè, compiuti in violazione di norme internazionali di ius cogens, in quanto tali lesivi di valori universali che trascendono gli interessi delle singole comunità statali, segnando il punto di rottura dell’esercizio tollerabile della sovranità (Cass., sez. un., 13-1-2017, n. 762; Cass., sez. un., 29-7-2016, n. 15812). Allo Stato straniero non è accordata un’immunità totale dalla giurisdizione civile dello Stato territoriale, in presenza di comportamenti di tale gravità da configurarsi quali crimini contro l’umanità (Cass., sez. un., 14201/2008; Cass., sez. I, 11163/2011).

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tadino del 1789, espressa dalla rivoluzione francese, orientata a forgiare un patrimonio di garanzia e inviolabilità della persona. Nel diritto europeo, assume un ruolo fondamentale la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, alla quale l’Unione attribuisce lo stesso valore dei Trattati (art. 61 TUE) (I, 2.10). Per il Preambolo della Carta l’Unione si fonda sui valori comuni (individuali e universali) della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà, ed è basata sui principi della democrazia e dello Stato di diritto; pone la persona al centro della sua azione, istituendo la cittadinanza dell’unione e creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia. L’Unione aderisce anche alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (art. 62 TUE), i cui diritti fondamentali, risultanti dalle “tradizioni costituzionali comuni agli stati membri”, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto “principi generali” (art. 63 TUE). Dai richiami del Trattato U.E. alla Carta dir. fond. U.E. e alla Convenzione Edu consegue che i diritti fondamentali nutriscono i principi generali con valore di sovraordinazione nell’assetto delle fonti 4. I valori delineati sono riproposti dal Trattato sull’Unione europea novellato, con la prescrizione di una società caratterizzata da pluralismo, non discriminazione, tolleranza, giustizia, solidarietà e parità tra donne e uomini, basata su un’economia sociale di mercato competitiva che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, a un elevato livello di qualità dell’ambiente, alla solidarietà tra generazioni e alla tutela dei diritti del minore (art. 2); è correlato il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, secondo cui l’Unione mira a combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale (art. 10). Altri principi generali provengono da specifici strumenti europei: ad es. il principio europeo “chi inquina paga”, espressione del principio della sostenibilità ambientale, di cui alla direttiva 2004/35/CE sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale. Si è però visto della rilevanza che hanno assunto, nella giurisprudenza della Corte costituzionale, i c.d. controlimiti costituzionali all’intervento del diritto europeo nel territorio nazionale, a garanzia dei principi della Carta costituzionale (I, 3.5). Ulteriori principi generali provengono dalle Convenzioni internazionali ratificate dal nostro paese. Tra le Convenzioni di carattere generale, specialmente, la Convenzione ONU di Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e la richiamata Convenzione Edu del 1950, come modificata dal Protocollo del 2004. Tra le convenzioni di settore, in particolare, la Convenzione di Oviedo del 1997 sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, nonché Protocollo sul divieto di clonazione di essere umani del 1998; la Convenzione ONU sui diritti del fanciullo del 1991; la Convenzione ONU sui diritti delle   4 Significative alcune pronunzie della Corte di giustizia U.E. Quando adottano misure attraverso le quali attuano il diritto dell’Unione, gli Stati membri sono tenuti a rispettare i principi generali di tale diritto, nel novero dei quali figurano, in particolare, i principi di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento (Corte giust. U.E. 26-5-2016, n. 260/14). Quando le disposizioni di una direttiva lasciano agli Stati membri un margine di discrezionalità per definire misure di trasposizione che siano adeguate alle diverse situazioni possibili, sono tenuti, non solo a interpretare il loro diritto nazionale conformemente alla direttiva di cui si tratti, ma anche a fare in modo di non basarsi su un’interpretazione della stessa che entri in conflitto con i diritti fondamentali o con gli altri principi generali del diritto dell’Unione (Corte giust. U.E., grande sez., 15-2-2016, n. 601/15).

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persone con disabilità, con Protocollo opzionale, del 2006; la Carta sociale europea, con annesso, di Strasburgo del 1996. Si comprende come i principi generali non sono riferibili ad uno specifico settore (diritto civile, diritto penale, diritto amministrativo, ecc.) ma alla complessità e unitarietà dell’ordinamento nella sua evoluzione, e sono perciò vincolanti per il giudice, che deve applicarli (iura novit curia): per un verso, orientano l’applicazione delle norme, colmandone lacune ovvero interpretandone il significato per adeguarlo all’attualità dell’ordinamento; per altro verso, indirizzano la ricostruzione delle fattispecie concrete, valorizzando circostanze e contegni nell’ambiente sociale di riferimento. Significativamente l’art. 13 della Costituzione tedesca prevede che i diritti fondamentali “vincolano la legislazione, il potere esecutivo e la giurisdizione come diritti direttamente applicabili”. Il grande tema della contemporaneità è quello delle condizioni e dei limiti dell’applicazione diretta (Drittwirkung) dei principi costituzionali e di diritto europeo, quali fonti primarie, nei rapporti tra privati, di cui si è detto. Caratteristica dei principi è anche quella di esprimere una “trama aperta” in duplice senso: per assumere linfa dall’evoluzione dell’ordinamento e della società; per apprestare una disciplina alle novità non ancora regolate. Poiché peraltro i principi sono destinati ad operare in contiguità e spesso a confliggere (si pensi ai valori di libertà e solidarietà in materia di famiglia, ai valori di informazione e riservatezza nelle relazioni sociali), c’è l’esigenza di un bilanciamento tra i vari principi che segna l’equilibrio tra gli stessi o anche la prevalenza dell’uno sull’altro in ragione della natura degli interessi coinvolti, della tipologia dei valori eccitati e degli specifici contesti di emersione. Il bilanciamento non è statico e assoluto ma è mutevole e relativo, destinato a evolvere perennemente in coerenza con l’emergere di nuovi beni della vita e nuove sensibilità sociali che storicamente ridefiniscono le scale di valori, prospettando differenti equilibri sociali e giuridici, e così di seguito secondo un perenne mutamento della scala dei valori.

2. Le clausole generali. – Si è anticipato come l’aderenza dell’ordinamento all’evolversi della realtà sociale venga assicurata in gran parte dalla tecnica di normazione per clausole generali (I, 3.2). La natura delle clausole generali è molto controversa e molte sono le definizioni delle stesse 5. In effetti il ricorso alle clausole generali esprime la necessità degli ordinamenti di far fronte a due fondamentali esigenze: da un lato, l’impossibilità di disciplinare tutti i casi della realtà materiale e delle ipotesi che successivamente possano emergere; dall’altro, e il dato è accentuato negli ordinamenti moderni, l’esigenza di tenere conto del mutamento dei valori nei quali la società si riconosce. Le clausole generali si nutrono essenzialmente dei principi generali, con una funzione integrativa e correttiva delle fattispecie concrete, per renderle compatibili con il sistema: sono perciò connotate da elasticità e adattabilità. Si pensi alle previsioni di buona fede, correttezza, diligenza, buon costume, interesse del minore, ecc.: sono norme necessariamente elastiche, per essere caratterizzate da una formulazione generale e necessariamente ampia che si riempie di contenuto attingendo ad ulteriori fattori di determinazione volta a volta   5 Le clausole generali, talvolta, sono definite come concetti giuridici indeterminati, concetti o norme valvola o in bianco, standards valutativi, principi generali, ecc.; talaltra sono distinte da tali formule, per attribuirsi autonomi significati. In realtà quando le clausole generali involgono l’operatività di principi generali dell’ordinamento è inevitabile una contiguità fino ad un’assimilazione con questi ultimi.

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operanti nel tempo; proprio per questo sono adattabili ai casi concreti che man mano si prospettano, consentendone un adeguamento all’ordinamento. Secondo un orientamento, la genericità della clausola generale andrebbe riempita con il riferimento al concreto evolvere ed atteggiarsi della società e perciò secondo i valori avvertiti dalla coscienza sociale: tale impostazione consente all’ordinamento di essere costantemente aderente alla realtà materiale, ma ha il limite di esporre la individuazione del contenuto della clausola alla ideologia del singolo interprete, perciò imprevedibile e non controllabile 6. Si ripropone per le clausole generali il medesimo divario operante per i principi generali, se cioè vadano ricavate in via induttiva da regole specifiche, o si aprano alla vitalità della realtà sociale. Anche per le clausole generali, nella prima direzione, non svolgerebbero alcuna funzione siccome sintesi di regole già presenti nell’ordinamento; mentre nella seconda direzione sono suscettibili di arbitri 7. Come si è visto per l’applicazione dei principi generali, il rispetto della fondamentale esigenza sociale ed economica di prevedibilità del diritto applicato deve spingere verso un referente normativo che tenga conto del sistema ordinamentale storicamente operante. Si comprende così come una stessa clausola generale possa nel tempo riempirsi di contenuti diversi in ragione dell’evolvere dei valori positivamente espressi. Si vedrà, ad es., come il contenuto della buona fede (che è la clausola generale per antonomasia), con l’avvento della Carta costituzionale, abbia assunto un significato ulteriore rispetto a quello ricavabile dal codice civile; analogamente la clausola di responsabilità è valsa ad apprestare tutela alla lesione di tutti gli interessi costituzionalmente rilevanti e garantiti (non solo espressivi di diritti soggettivi ma anche connessi a interessi legittimi). Alcune di tali clausole sono già diffusamente presenti nel codice civile: con vocazione più generale, come le clausole di “buona fede” (es. artt. 1337, 1358, 1366, 1375) e “correttezza” (es. art. 1175), di “diligenza” (es. artt. 1176, 1101), di “buon costume” (es. artt. 1343, 2035); oppure con riferimento più specifico, come le clausole di “normale tollerabilità” con riferimento alla verifica delle immissioni (art. 844 c.c.), di recesso per “giusta causa” nei rapporti di lavoro a tempo indeterminato (art. 2119), di “ordinaria e straordinaria amministrazione”, per segnare le competenze nella cura di interessi comuni (es. art. 180 relativamente alla comunione legale), di “equo contemperamento degli interessi delle parti” nella interpretazione dei contratti a titolo oneroso (art. 1371). Sono proprio tali clausole, che hanno assunto nel tempo ampiezza e valenza ulteriori, a consentire vitalità e longevità al codice civile, per il perenne adeguamento alla legalità costituzionale e europea.   6

L’applicazione delle clausole generali comporta un’operazione valutativa da parte del giudice di merito che non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale, poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali, e dalla disciplina particolare (anche collettiva) in cui la concreta fattispecie si colloca (Cass. 22-4-2000, n. 5299). 7 L’applicazione delle clausole generali comporta un’operazione valutativa da parte del giudice di merito che non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale, poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali, e dalla disciplina particolare (anche collettiva) in cui la concreta fattispecie si colloca (Cass. 22-4-2000, n. 5299).

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Altre clausole generali stanno emergendo in virtù della legislazione successiva al codice civile, sotto l’influsso della Carta costituzionale o perché impiegate nella normativa europea o in convenzioni internazionali. Il diritto di famiglia è di recente attraversato da molte clausole generali: formule come “interesse del minore”, “intollerabilità della convivenza”, “bigenitorialità”, comportano l’attribuzione al giudice di un incisivo potere per la determinazione del reale contenuto delle stesse nelle singole fattispecie. In diritto societario, fondamentali i principi di chiarezza, verità, correttezza e prudenza nella redazione dei bilanci (artt. 2423 ss. novell. c.c.). Nella normativa di provenienza europea emblematica è la clausola generale del “divieto di abuso del diritto”, contenuta nelle fondamentali convenzioni europee sui diritti dell’uomo e sulle libertà fondamentali e ormai applicata in più direzioni (II, 3.4) 8; molto impiegata è anche la clausola generale del “divieto di significativo squilibrio” a tutela dei consumatori nei contratti per adesione (es. art. 33 D.Lgs. 206/2005) e quella del “divieto di posizione dominante” a presidio di imprenditori deboli (art. 9 L. 192/1998 in tema di subfornitura). La normazione per clausole generali svolge un ruolo essenziale nello sviluppo del diritto europeo, favorendo l’adattamento di principi comunitari alle diverse esperienze giuridiche nazionali 9. Si ha di seguito riguardo ai principi generali (e connesse clausole generali) espressivi di fondamentali valori dell’ordinamento e perciò di più diffusa applicazione, rinviando alle singole sedi la trattazione di principi e clausole operanti nelle specifiche materie.

3. Il personalismo (dignità, solidarietà, autoresponsabilità, pluralismo). – Nel delineare lo sviluppo storico dell’attuale diritto privato, si è visto come filo conduttore della modernità sia stato il conseguimento delle libertà dell’uomo: la forza rivoluzionaria della libertà si coniugava alla potenza vitale della volontà, delineando gli istituti espressivi della libera volontà umana. Con il costituzionalismo del sec. XX è maturata la consapevolezza della essenziale rilevanza del personalismo, per la realizzazione della persona umana nella sua effettività di svolgimento. Il principio personalista rappresenta il valore fondamentale che ispira e attraversa l’intera Carta costituzionale e irrora l’intero ordinamento; nella prospettiva del diritto privato, essenzialmente si svolge nella dignità della persona umana, nella individualità e nella relazionalità sociale, cui si connettono i principi di uguaglianza e solidarietà, sostenuti dal pluralismo.   8 Per il § 226 BGB l’esercizio di un diritto è inammissibile se può avere “solo lo scopo di arrecare danno a un altro”. In Italia un riferimento è nel divieto introdotta in materia tributaria della clausola generale antielusiva: per l’art. 10 bis L. 27.7.2000, n. 212 (che assorbe l’art. 37 bis L. 29.9.1973, n. 600, inserito dall’art. 71 D.Lgs. 8.10.1997, n. 358) configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti; tali operazioni non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni. 9 Ad es., si legge nella motivazione di Corte giust. C.E. 6-2-2003, C-245/00, che la nozione di “equa remunerazione” che figura nell’art. 8, n. 2, della direttiva 92/100 deve essere interpretata in modo uniforme in tutti gli Stati membri ed attuata da ciascuno Stato membro, il quale determina, nell’ambito del proprio territorio, i criteri più pertinenti per assicurare, entro i limiti imposti dal diritto comunitario, ed in particolare dalla suddetta direttiva, l’osservanza di tale nozione comunitaria.

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a) Il valore della dignità della persona umana opera, così di fronte all’ordinamento che nelle relazioni sociali (art. 3 Cost.) (I, 2.7; IV, 2.4). La tutela della dignità della persona umana ha ispirato la legislazione successiva, come ha orientato l’interpretazione della legislazione precedente. L’art. 1 della Costituzione tedesca (Legge fondamentale per la Repubblica Federale di Germania del 23 maggio 1949) è perentorio: “La dignità dell’uomo è intangibile. È dovere di ogni potere statale rispettarla e proteggerla”. Lo stesso principio sarà ripetuto dall’art. 1 della Carta dir. fond. U.E.: “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”. La dignità genera vari valori, come la uguaglianza, la relazionalità, la solidarietà. Certamente si nasce con le proprie caratteristiche fisiche e intellettive e con la propria indole caratteriale; si cresce svolgendo intrinseche capacità, attitudini e sensibilità, secondo le peculiarità della persona; il tutto in un ambiente territoriale e in un contesto di appartenenza familiare e sociale, che orientano la formazione culturale, professionale e financo la sensibilità della persona. Il principio di uguaglianza si svolge con riguardo alla rilevanza giuridica delle persone e cioè rispetto al trattamento giuridico riservato. Per l’art. 31 Cost. “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Vi è una uguaglianza nella dignità sociale e nei diritti (a cominciare dai diritti previsti dalla Carta cost. agli artt. 13 ss.), con pari trattamento giuridico (uguaglianza formale). Il principio si lega all’altro principio del divieto di discriminazione, eliminandosi le ragioni di odiosa diversità (si pensi alla razza e al sesso) e le aree di indulgenti immunità e dispense (si pensi alle confessioni religiose) che avevano caratterizzato le epoche precedenti (art. 31). Intorno a tale tema si svolge il dibattito sulla eguaglianza di genere, ai fini del trattamento non discriminatorio delle relazioni omoaffettive nei rapporti interni e nella collocazione sociale. Per l’art. 32 Cost. “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Vi è la consapevolezza del divario di fatto delle condizioni materiali dei cittadini, per le specificità naturali o sociali o culturali di riferimento, per cui è necessario accordare le stesse opportunità e rimuovere i fattori di disparità sociale e economica (uguaglianza sostanziale). Si vedrà in seguito delle articolazioni dello stato sociale per rendere effettivo il diritto di uguaglianza. Intorno al principio di uguaglianza è informata anche l’azione pubblica: i pubblici uffici sono organizzati secondo i criteri del buon andamento e della imparzialità (art. 97 Cost.); ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti al giudice terzo e imparziale (art. 111 Cost.). b) La Carta costituzionale ha rimosso il principio di solidarietà dal campo economico, nel quale l’aveva racchiuso il codice civile, per connetterlo all’area del personalismo. Negli artt. 2 e 3 Cost. è raffigurata una solidarietà, come posizione di dovere connessa a quella dei diritti: la Repubblica richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art. 22). Nella Carta diritti fond. U.E. un intero titolo (IV) è dedicato alla “Solidarietà”, che ormai coinvolge tutte le libertà ed è presidio della democrazia nell’attuale atteggiarsi della convivenza civile. Il dato nuovo dell’attuale configurazione della solidarietà è la connessione alla personalità: il personalismo, correlato al solidarismo, si svolge attraverso una tavola di diritti la

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cui realizzazione implica un catalogo di doveri correlati 10, che conferiscono effettività alla dignità umana nella società. In definitiva è consolidato il catalogo delle libertà (etica, religiosa, politica e di iniziativa individuale) con i relativi pensieri, sentimenti e impulsi, come fattori essenziali di progettualità e sviluppo; ma ogni azione individuale incontra il limite scheletrico dell’altruità, non solo come inviolabilità dall’altro, ma anche come dovere di intervento per l’altro, nei limiti di un ragionevole sacrificio: è proprio il dovere di prestazione in favore dell’altro a segnare la cifra del costituzionalismo liberale sociale, per esprimere il senso di appartenenza ad una comunità e più in generale all’umanità, condividendone problemi, rischi, bisogni, prospettive: la solidarietà si atteggia come criterio fondamentale di civiltà e convivenza umana, cui, con ispirazioni diverse, tendono più ideologie politiche e culturali e diffuse professioni religiose: in alcuni spazi della vita diventa addirittura sofferta esperienza di sopravvivenza umana 11. Alla solidarietà è ricondotto anche il principio di buona fede (di cui appresso). C’è una interazione tra efficienza e solidarietà, non sussistendo l’una senza l’altra, entrambe essenziali alla coesione sociale 12. È il fondamentale intreccio tra diritti e doveri, di cui si avverte esplicita espressione nel mondo del lavoro: l’art. 4 Cost., da un lato, riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro (co. 1), promuovendo la repubblica le condizioni che rendano effettivo tale diritto; dall’altro impone a ogni cittadino il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società (co. 2). È l’idea forte di comunità a orientare sia l’attribuzione di diritti che l’assolvimento di doveri. c) Il principio dell’autoresponsabilità è maturato sul terreno dell’autonomia negoziale come limite alla teoria della volontà, per cui l’autore della dichiarazione di volontà risponde per il comportamento colpevole (doloso o colposo) avuto nella formazione del negozio, ingenerando la fiducia nell’esistenza di una situazione giuridica in realtà inesistente. La responsabilità nel suscitare l’affidamento del terzo supplisce l’assenza di volontà negoziale, sicché il negozio produce egualmente effetto; ciò che vale anche ad assicurare la certezza del diritto.   10 Efficace il vigoroso discorso sulla Costituzione del 1955 di P. CALAMANDREI che, parlando a giovani milanesi, li esortava a un impegno morale e civile a difesa della Costituzione, rilevando come la stessa non fosse solo una polemica contro il passato, per la riattivazione delle libertà giuridiche e politiche, ma contenesse anche una polemica contro il presente per essere l’affermazione solenne della solidarietà sociale ed umana: “è la carta della propria libertà, della propria dignità di uomo”. 11 Per l’art. 485 cod. nav., avvenuto un urto tra navi, il comandante di ciascuna nave è tenuto a prestare soccorso alle altre, al loro equipaggio ed ai loro passeggeri, sempre che lo possa fare senza grave pericolo per la sua nave e per le persone che sono a bordo. Si pensi alla vita nelle asperità della montagna o tra i pericoli del mare. È efficace l’espressione di H. Harmon: “Tutti i mortali sono, chi più chi meno, naufraghi, e i soccorritori, con il gesto che compiono, salvano una parte di se stessi, rinascono mentre assicurano la vita”. 12 Il problema è particolarmente avvertito a seguito della L. cost. 20.4.2012, n. 1, che ha inserito nella Carta costituzionale il principio di pareggiamento del bilancio (artt. 81 e 119 Cost.), di cui al Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria firmato il 2.3.2012 (c.d. fiscal compact), ratif. e reso esec. con L. 23.7.2012, n. 114, alla stregua del criterio di “sviluppo sostenibile” in una “economia sociale di mercato” indicato dall’Unione europea (art. 23, TUE), che realizza la solidarietà sociale in un contesto di sopportabilità economica.

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Più di recente il principio è evoluto nel dovere di responsabilità nelle relazioni sociali, connettendosi al principio di solidarietà, coniugando autodeterminazione e responsabilità, per cui ogni soggetto ha diritto di esplicare liberamente la propria azione, ma risente le conseguenze pregiudizievoli della propria condotta: ognuno risponde dei propri comportamenti, sia quando sono consapevoli e volontari, sia quando non sono assunte le necessarie cautele e adottate le regole di comune diligenza, ragionevolmente esigibili nei comportamenti della vita sociale. Analogamente risponde quando, nelle relazioni sociali, non svolge l’azione utile alla tutela di posizioni aliene. Una significativa applicazione è in tema di responsabilità da inadempimento, per concorso del fatto colposo del creditore (art. 1227), che l’art. 2056 estende al fatto del danneggiato per fatto illecito altrui. d) Al personalismo si lega anche il valore del pluralismo come essenziale mezzo di sviluppo della personalità dell’uomo. Per l’art. 2 Cost. “La repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. È un principio che si irradia nella complessa vita delle relazioni umane, come criterio di professione della fede religiosa, di organizzazione della vita politica e di scelte del potere pubblico, di svolgimento della vita culturale; il pluralismo dell’informazione e degli studi è lievito della ricerca scientifica ed è presidio essenziale di democraticità. È il fondamento di formazione e coesistenza di uomini e gruppi di orientamento diverso sul piano etnico, razziale, religioso, culturale, politico, ecc., con pari partecipazione alla vita pubblica. Sono disciplinate specifiche formazioni sociali, considerate fondamentali: es. associazioni (art. 18); confessioni religiose (art. 19); famiglia fondata sul matrimonio (art. 29); scuola (art. 34); sindacati (art. 39); partiti (art. 49). È un elenco non tassativo: l’ampia formula dell’art. 2 Cost. consente di ricollegarvi altre aggregazioni sociali, come ad es. le convivenze familiari di fatto che sono esperienze di vita convissuta, peraltro di recente anche con rilevanza giuridica (IV, 3.1). L’interesse particolare si atteggia nella duplice direzione di interesse individuale (del singolo) e interesse collettivo (del gruppo). Si è visto come il pluralismo operi, non solo nella organizzazione sociale, ma anche nella strutturazione ordinamentale e nella conformazione istituzionale (I, 2.8).

4. La buona fede. Buona fede soggettiva (affidamento e apparenza). – Tra le clausole generali assume un primario rilievo la clausola di buona fede, fino a potersi considerare come assorbente di ogni altra, per essere idealmente presupposta da ogni altra clausola. Nella sua essenzialità la buona fede esprime l’aspirazione ad una relazionalità civile cementata da un vincolo di fiducia come affidabilità tra i consociati 13. In tal senso   13 La fides, nella Roma specie repubblicana, esprimeva un principio fondamentale dell’etica politica: il politico otteneva consensi, godeva di prestigio per la fiducia che ispirava, che volta a volta poteva significare onestà, lealtà, serietà, rispetto della parola data e alla promessa fatta. Nei rapporti tra superiori e inferiori e anche nei rapporti tra governo di Roma e popoli alleati o sottoposti fides indicava il complesso di obblighi reciproci, mutua assistenza, solidarietà in momenti di bisogno o di pericolo, rispettivamente protezione e devozione. La società moderna, smarrendo alcuni fondamentali valori, rende la fiducia una virtù sempre più rara; lo sviluppo poi delle tecnologie di internet sottopone ad una costante decifrazione della verità delle notizie apprese.

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il dovere di buona fede, già immaginato come attenzione alle situazioni reciproche 14, è stato innestato nel dovere di solidarietà, irrelato con i diritti della personalità (art. 2 Cost.), di cui si è detto. La clausola di buona fede si specifica in due fondamentali direttive di svolgimento in ragione della prospettiva di osservazione della relazione sociale, con riguardo al destinatario o all’autore del comportamento: emerge così la distinzione tra buona fede soggettiva e buona fede oggettiva: della prima si parla di seguito, della seconda successivamente. La buona fede soggettiva esprime uno stato soggettivo (o psicologico) conoscitivo, come ignoranza della realtà. La legge tutela la situazione soggettiva del soggetto che, senza colpa, ignora la esistenza di un fatto o di un diritto, ovvero considera esistente in quanto apparente un fatto o un diritto che non sussiste. a) La tutela dell’affidamento è principio cardine del codice civile del 1942, maturato a seguito di un lungo percorso storico. Intorno agli atti di disposizione dei beni tradizionalmente si sono svolti due atteggiamenti in perenne tensione: uno, di remota derivazione romanistica, rinverdito dalle aspirazioni giusnaturalistiche e illuministiche, di garantire la inviolabilità e la conservazione della proprietà con la tutela preferenziale della libertà e della volontà del titolare che si disfa del bene; un diverso atteggiamento, di emersione più recente, legato allo sviluppo della economia produttiva, di favore per la circolazione e lo scambio dei beni, con la protezione preferenziale del soggetto che accede al bene. La tutela dell’affidamento del destinatario e dei terzi che ripongono fiducia sulla dichiarazione del disponente pervade l’intero codice civile. Tale tutela non esprime un principio di socialità, per prescindere dalla natura degli interessi coinvolti e dall’appartenenza sociale del destinatario della dichiarazione come dei terzi. Con la protezione indifferenziata del destinatario della dichiarazione e dei terzi che hanno fatto affidamento sulla dichiarazione del disponente è piuttosto introdotto un criterio funzionale alla economia di mercato di assicurare la certezza degli scambi economici e della collocazione dei prodotti; non si comprenderebbe altrimenti perché la posizione del destinatario della dichiarazione o dei terzi sia valutata degna di maggiore tutela rispetto a quella dell’autore della dichiarazione. Essendo gli atti giuridici (e specificamente i negozi giuridici) destinati ad operare nella realtà sociale, sussistono nell’ordinamento criteri correttivi della rilevanza degli atti nei rapporti sociali, attraverso i principi della autoresponsabilità dell’autore della dichiarazione e dell’affidamento del destinatario della dichiarazione (o del terzo). Lo svolgimento delle relazioni sociali implica affidabilità nei comportamenti; ciò però non può comportare deresponsabilizzazione e mancata verifica della realtà, a tutela della stessa sicurezza giuridica: anche quando esiste un dovere di informare, non può venire meno un dovere di informarsi. Perciò la legge tutela non la negligente ignoranza ma solo lo stato psicologico dell’affidamento incolpevole (c.d. affidamento legittimo) 15.   14

Nella Relaz. minist. cod. civ., il dovere di buona fede “richiama nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore”. 15 Secondo la Relaz. cod. civ., n. 652, la sicurezza del credito e degli scambi ha imposto di dare rilevanza giuridica solo all’affidamento creato dal significato che socialmente può darsi alla dichiarazione, nel quale soltanto si concreta e vive l’unico intento che il diritto riconosce e tutela. Secondo la sintesi di F. Santoro Passarelli, dalle varie norme del codice civile si trae un principio del “rischio del dichiarante per l’affidamento senza colpa del destinatario o di altro interessato nella dichiarazione”.  

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Le regole fondamentali sulla buona fede soggettiva sono dettate con riguardo al possesso di buona fede (art. 1147) 16 (VI, 5.4). La norma qualifica possessore di buona fede “chi possiede ignorando di ledere l’altrui diritto”, stabilendo due principi: la buona fede non giova se la ignoranza dipende da colpa grave; la buona fede è presunta e basta che vi sia stata al tempo dell’acquisto. Relativamente ai beni mobili, la buona fede sostiene il principio “possesso vale titolo” (art. 1153) e orienta la preferenza tra più aventi causa (art. 1155). Altre ipotesi sono disseminate nel codice civile 17. Il principio ha trovato applicazione anche con riferimento all’improvviso mutamento giurisprudenziale (overruling), dal quale conseguirebbero preclusioni processuali (I, 3.16). b) Una specificazione dell’affidamento è l’apparenza giuridica, rinvenibile quando lo stato soggettivo di affidamento si fonda sull’apparente esistenza di una situazione giuridica, in realtà inesistente: è cioè attribuita rilevanza giuridica a situazioni socialmente apparenti come giuridiche, benché tali non siano. Il principio dell’apparenza giuridica è collegato all’esigenza di tutela della certezza del diritto e della circolazione giuridica, quali fondamentali esigenze del sistema economico 18. La tutela dell’apparenza compromette però altri interessi, il cui bilanciamento ha generato un divario di rilevanza quale apparenza pura o come apparenza colposa.  

Si è rilevato come tale principio resti incomprensibile se guardato nella prospettiva del singolo atto, non comprendendosi perché la posizione di un destinatario della dichiarazione e in genere di terzi sia maggiormente meritevole di tutela rispetto alla posizione dell’autore della dichiarazione o del titolare del diritto, che si trova a subire gli effetti di un negozio non voluto e spesso contro la sua volontà. Il principio si comprende (anche se non sempre si giustifica) se riguardato nella generale prospettiva dell’organizzazione economica: la tutela dell’affidamento è correlata alla sicurezza del traffico giuridico, quale esigenza connaturata allo sviluppo economico fondato sulla iniziativa privata e sul mercato. In tale quadro, nella disciplina del codice, il principio dell’affidamento presidia la circolazione dei beni, favorendo la collocazione dei prodotti e il mercato. 16 Quando le norme facciano riferimento alla buona fede senza nulla dire in ordine a ciò che vale ad integrarla o ad escluderla, ovvero al soggetto tenuto a provarne l’esistenza o ad altri profili di rilevanza della stessa, si deve, in linea di principio, fare riferimento all’art. 1147 (Cass. 4-3-2002, n. 3102). 17 Una nutrita normativa è anche in tema di successione relativamente all’acquisto dall’erede apparente (art. 534). Molte altre ipotesi sono in tema di obbligazioni e contratti: ad es., il pagamento al creditore apparente (art. 1189), l’acquisto di diritti dal titolare apparente (artt. 1415 e 1416); in tema di rappresentanza senza potere, il falso rappresentante è responsabile del danno che il terzo contraente ha sofferto per avere confidato senza sua colpa nella efficacia del contratto (art. 1398). Di ampia portata è la previsione che l’annullamento del contratto, che non dipende da incapacità legale, non pregiudica i diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede (che cioè ignoravano o comunque non potevano conoscere con la ordinaria diligenza la causa di annullabilità), salvi gli effetti della trascrizione della domanda giudiziale (art. 1445) (VIII, 8.6). Anche con riguardo al matrimonio nullo, se i coniugi lo hanno contratto in buona fede (cioè ignorando la invalidità) (c.d. matrimonio putativo), il matrimonio produce tra i coniugi gli effetti del matrimonio valido fino alla sentenza che pronunzia la nullità (art. 1281) (V, 2.6). 18 L’apparenza del diritto non integra un istituto a carattere generale con connotazioni definite e precise ma, al contrario, opera nell’ambito dei singoli negozi giuridici secondo il vario grado di tolleranza di questi, in ordine alla prevalenza dello schema apparente su quello reale (Cass. 25-3-2013, n. 7473). Per Cass., sez. un., 8-4-2002, n. 5035, il principio dell’apparenza del diritto – ancorché riconducibile a quello più generale della tutela dell’affidamento incolpevole – ha, però, una sua innegabile specificità e peculiarità, venendo in considerazione solo in presenza dell’esigenza di tutelare il terzo in buona fede in ordine alla corrispondenza fra la situazione apparente e quella reale (si è escluso che sia applicabile nei rapporti tra condominio e singolo condomino). Per Cass. 31-3-2006, n. 7629, tale principio è di natura sostanziale e non processuale.

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Si ha apparenza pura quando è sufficiente che ricorrano due soli presupposti: uno stato di fatto formalmente rispondente ad una realtà giuridica; l’incolpevole convincimento del terzo che le due situazioni coincidano. Figure di apparenza pura sono già nel codice civile: ad es., il debitore che esegue il pagamento a un creditore apparente, è liberato se prova di essere stato in buona fede (art. 1189) (anche se, come si vedrà, la giurisprudenza tende a richiedere anche l’azione colposa del creditore); in materia successoria, sono salvi i diritti dei terzi che abbiano acquistato a titolo oneroso dall’erede apparente quando provano di aver contrattato in buona fede (art. 534) (cioè ignorando senza colpa che l’alienante non fosse erede). Si ha apparenza colposa (o colpevole) quando, in aggiunta ai due presupposti sopra indicati, è richiesto l’ulteriore presupposto della condotta colpevole del soggetto che ha ingenerato l’apparenza, secondo un criterio di autoresponsabilità. Tale modello di apparenza è stato essenzialmente ricostruito con riferimento alla rappresentanza apparente (di cui si parlerà in seguito: VIII, 8.7) e alla società apparente 19 e poi impiegato in varie altre ipotesi 20. Anche fuori dei casi tassativamente previsti dalla legge, la giurisprudenza tende a valorizzare il principio dell’autoresponsabilità, per cui l’effettivo titolare della situazione giuridica non può ricevere pregiudizio dall’affidamento altrui senza il concorso di una propria responsabilità nella creazione dell’apparenza: la condotta colpevole del titolare del diritto (generatrice dell’altrui affidamento incolpevole) è ricondotta all’alveo generale della responsabilità civile. In entrambe le forme, come si è anticipato, l’apparenza non può rilevare in presenza di un comportamento del terzo negligente, per non avere verificato la legalità di atti e comportamenti apparenti o non avere compiuto le verifiche che il sistema consente di attuare 21. Quando gli atti siano formalizzati in pubblici registri, l’apparenza del diritto non può essere invocata da chi trascuri di ispezionare i registri pubblicitari: la pubblicità, procurando la conoscibilità legale, costituisce un limite legale all’efficacia dell’apparenza giuridica 22 (XIV, 1.2). Apparenza e pubblicità sono gli essenziali modelli di rilevanza e opponibilità di fatti e atti giuridici nei confronti dei terzi. L’ordinamento giuri  19

Per la giurisprudenza la società di fatto, sebbene inesistente nella realtà, può apparire esistente di fronte ai terzi quando due o più persone operino nel mondo esterno in modo da determinare l’insorgere dell’opinione ragionevole che essi agiscano come soci e del conseguente legittimo affidamento circa l’esistenza della società stessa: a tutela della buona fede dei terzi, è sufficiente che il soggetto che abbia trattato col socio apparente provi un comportamento che, secondo l’apprezzamento insindacabile del giudice di merito, sia idoneo a designare la società come titolare del rapporto (Cass. 20-4-2006, n. 9250; Cass. 21-6-2004, n. 11491). La società apparente tutela il mercato a danno dei creditori dei soci. 20 Ad es. l’intermediario finanziario può essere chiamato a rispondere di un illecito compiuto in danno di terzi da chi appaia essere un suo promotore, ed in tale apparente veste abbia commesso l’illecito, ogni qual volta l’affidamento del terzo risulti incolpevole e alla falsa rappresentazione della realtà abbia invece concorso un comportamento colpevole (ancorché solo omissivo) dell’intermediario medesimo (Cass. 7-4-2006, n. 8229). Altra ipotesi è stata ravvisata con riferimento alle obbligazioni contratte separatamente dai coniugi (Cass. 610-2004, n. 19947; Cass. 7-7-1995, n. 7501). 21 Ad es. la verifica di forma scritta della procura alla vendita di immobili (Cass. 25-3-2013, n. 7473). Con riferimento alla rappresentanza delle persone giuridiche, la legge prescrive speciali mezzi di pubblicità mediante i quali sia possibile controllare la consistenza effettiva dell’altrui potere, come accade in ipotesi di organi di imprese commerciali regolarmente costituiti (Cass. 18-5-2005, n. 10375). 22 Nella efficace sintesi di A. FALZEA: “l’apparenza è uno strumento elastico, idoneo a penetrare nei campi in cui il formalismo giuridico non ha avuto possibilità di esplicarsi”.

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dico ricollega ad entrambe le figure un dovere informativo in una duplice direzione: come obbligo di informare gli altri (c.d. informazione transitiva) e come dovere di informarsi (c.d. informazione riflessiva), connettendo ad entrambe le attività e alle relative omissioni conseguenze giuridiche.

5. Segue. Buona fede oggettiva (lealtà e correttezza). – A differenza della buona fede soggettiva che esprime uno stato soggettivo conoscitivo, la buona fede oggettiva è riferita al contegno, ed indica un dovere di comportamento e più precisamente il dovere di comportarsi con lealtà e correttezza. Il principio esprime un fondamentale valore dell’ordinamento che ingloba sia un dovere negativo di non gabellare gli altri con la menzogna o la reticenza sia un dovere positivo di comportamento collaborativo verso gli altri: il dovere si specifica volta a volta in relazione al contesto di interessi in cui opera (con riguardo alla qualità dei soggetti, alle circostanze del fatto e alla natura degli interessi coinvolti). Il principio di buona fede è assurto a generale parametro di verifica del comportamento dei soggetti, sovrintendendo all’applicazione di ogni precetto giuridico, come criterio di “chiusura” del sistema 23, indicando la conformità del comportamento a standard giuridicamente esigibili, secondo un fondamentale dovere di solidarietà 24: si è configurato un generale dovere di salvaguardia dell’interesse altrui nei limiti di un sacrificio sostenibile e cioè nella misura in cui non comporti un apprezzabile sacrificio a proprio carico 25. È ormai acquisita l’idea che, per determinare il concreto contenuto dei parametri di correttezza e buona fede, sia necessario riferirsi ai fondamentali principi di solidarietà sociale previsti dalle generali previsioni degli artt. 2 e 3 e degli artt. 36, 37, 39, 41 e 42   23

Tradizionalmente si contendono il campo due fondamentali orientamenti, a seconda che la buona fede sia collegata allo svolgimento del concreto rapporto e perciò al contesto nel quale il rapporto è maturato (le circostanze del contratto, le trattative, ecc.), ovvero venga connessa a valori generali (di carattere ordinamentale o in senso lato sociale): nella prima direzione, la clausola assume il significato di obbligo di lealtà e correttezza secondo lo specifico regolamento di interessi (giustizia commutativa); nella seconda direzione, acquista il significato più ampio di necessaria aderenza dei comportamenti e dei rapporti ai valori dell’ordinamento (giustizia distributiva). In realtà bisogna compiere una sintesi dei due criteri e avere riguardo ai valori dell’ordinamento applicati al caso concreto. 24 Il principio di correttezza e buona fede, quale dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost., esplica la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge, sicché dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere, anche di per sé, un danno risarcibile (Cass., sez. un., 25-11-2008, n. 28056). L’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, applicabile in ambito contrattuale ed extracontrattuale, in quest’ultima ipotesi designando una regola di comportamento in base alla quale il soggetto è tenuto, a prescindere dalla sussistenza di specifici obblighi contrattuali, a mantenere nei rapporti della vita di relazione un comportamento leale nonché volto alla salvaguardia dell’utilità altrui (nei limiti dell’apprezzabile sacrificio), dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità (Cass. 29-1-2018, n. 2057; Cass. 8154/2014; Cass. 1178/2014). 25 Il precetto dell’art. 2 Cost. (come adempimento dei doveri di solidarietà) entra direttamente nel contratto, unitamente con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa, con conseguente rilevabilità ex officio della nullità della clausola, in caso di contrasto, ai sensi dell’art. 1418 c.c. (Corte cost. 2-4-2014, n. 77). Il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto impone a ciascuna delle parti il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge (Cass. 11-2-2021, n. 3543).

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Cost., nonché degli artt. 27 ss. dalla Carta dir. fond. U.E. Trova specifica previsione in tema di obbligazioni e contratti, per il vincolo che si determina tra le parti del contratto e in generale tra i soggetti del rapporto obbligatorio; è prescritto sia nella disciplina generale del contratto 26 che con riferimento a singoli contratti 27. È applicato anche con riguardo alla responsabilità extracontrattuale nella valutazione dei comportamenti tenuti 28. Pure nel processo le parti devono comportarsi con lealtà e probità (art. 88 c.p.c.). Il dovere di buona fede è distinto da quello, contiguo, del dovere di diligenza nell’adempimento dell’obbligazione (es. art. 1176). Quest’ultimo allude al dovere della parte di comportarsi senza colpa e cioè, in generale, di non incorrere in negligenza, imprudenza o imperizia. Invece la buona fede allude alla lealtà e correttezza dei rapporti: i due doveri esprimono due prospettive di osservazione del generale dovere di collaborazione cui deve informarsi il comportamento di ciascuno nelle relazioni giuridiche. La giurisprudenza, sulla scorta della regola del divieto degli atti emulativi (art. 833), ha ricollegato al principio di buona fede oggettiva la elaborazione di un principio generale di divieto dell’abuso del diritto, nel senso di un esercizio del diritto volto a conseguire effetti diversi da quelli per i quali il diritto stesso è conferito 29 (II, 3.4). Questo articolato impianto privatistico di tutela della buona fede, declinata in soggettiva e oggettiva, è ormai un criterio guida anche dell’azione della pubblica amministrazione, così nell’operato materiale che nell’attività amministrativa. Per l’art. 12bis L. 241/1990, i rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede 30. La lesione dell’aspettativa del privato può sorgere   26 Già nella formazione dell’accordo e durante le trattative le parti sono obbligate a comportarsi secondo buona fede (artt. 1337 e 1338); analogamente, chi ha alienato o acquistato sotto condizione, durante la pendenza della stessa, deve comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte (art. 1358). Inoltre il contratto deve essere interpretato secondo buona fede (art. 1366) e deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375); criterio che trova il suo correlato in tema di obbligazioni nella previsione dell’art. 1175 che impone ai soggetti del rapporto obbligatorio (debitore e creditore) di comportarsi secondo correttezza. e nella previsione dell’art. 14602 per misurare la legittimità del rifiuto di esecuzione del contratto con opposizione dell’inadempimento dell’altra parte. 27 Ad es. nella vendita (artt. 1479 e 1491), nell’assicurazione (art. 1892). Quando sono integrati gli estremi del dolo, vi è senz’altro annullabilità del contratto (art. 1439). 28 L’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza è applicabile in ambito contrattuale ed extracontrattuale, in quest’ultima ipotesi designando una regola di comportamento in base alla quale il soggetto è tenuto, a prescindere dalla sussistenza di specifici obblighi contrattuali, a mantenere nei rapporti della vita di relazione un comportamento leale nonché volto alla salvaguardia dell’utilità altrui (nei limiti dell’apprezzabile sacrificio), dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità (Cass. 29-1-2018, n. 2057; Cass. 1178/2014; Cass. 8154/2014). 29 In tal senso Cass. 18-9-2009, n. 2016, che fa conseguire all’abuso del diritto la possibilità di chiedere il risarcimento dei danni subiti. V. anche Cass. 23-11-2020, n. 26568. 30 La tutela dell’affidamento del privato nei confronti della pubblica amministrazione è ormai considerato canone ordinatore dei comportamenti delle parti coinvolte nei rapporti di diritto amministrativo, ovvero quelli che si instaurano nell’esercizio del potere pubblico, sia nel corso del procedimento amministrativo sia dopo che sia stato emanato il provvedimento conclusivo. Anche la disciplina dell’annullamento di ufficio reca un limite temporale all’intervento, a tutela della buona fede del cittadino, tranne responsabilità del cittadino nella determinazione del provvedimento illegittimo (art. 29 bis L. 241/1990). Il principio di buona fede (come del resto quello di diligenza) trova applicazione con riguardo all’attività della pubblica amministrazione, sia quando operi con gli strumenti autoritativi dell’attività amministrativa, sia quando si avvalga dei moduli del   diritto privato (come tipicamente avviene con i contratti) (Cons. Stato 8-4-2014, n. 1651; Cons. Stato

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sia con provvedimento legittimo che con provvedimento illegittimo, diversi essendo i profili della legittimità dell’atto e della correttezza della condotta 31. È un’acquisizione convinta sul piano materiale, vuoi per lesione di contatto sociale qualificato, con giurisdizione ordinaria 32, vuoi più in generale per lesione di ogni situazione soggettiva protetta (diritto soggettivo o interesse legittimo), con giurisdizione amministrativa 33.

6. L’informazione (trasparenza e conoscenza). – Nelle società complesse e tecnologiche dell’attualità l’informazione si atteggia come bene giuridico che permette di conseguire la conoscenza della realtà e, nei rapporti tra consociati, verificare beni e servizi negoziati. In tal guisa diventa anche fattore di efficienza economica e di trasparenza del mercato: il dovere di informazione presidia l’azione di tutti gli operatori del mercato (imprenditori e consumatori), come specifica esplicazione del dovere di buona fede oggettiva. L’agire leale e corretto è comportamento che immediatamente tutela i soggetti del rapporto, ma mediatamente si risolve a vantaggio del funzionamento del mercato in quanto consente di selezionare le imprese virtuose efficienti attraverso un corretto gioco della concorrenza. L’asimmetria di informazione è considerata una delle cause prime di fallimento del mercato per non consentire l’ottimale allocazione dei prodotti e la fruttuosa selezione tra le imprese concorrenti. Un’applicazione di tali principi è anche nella regolazione della vita interna dei gruppi organizzati, a beneficio delle minoranze rispetto all’azione del gruppo di maggioranza, specie rispetto alla tenuta della contabilità e ai rendiconti forniti, con particolare riguardo alla redazione dei bilanci delle società. Nei rapporti commerciali il dovere di informazione si appunta al contenuto del contratto, alla composizione e filiera del prodotto, alle modalità del servizio e al regime giu 

20-12-2013, n. 6147). Il principio informa anche lo “Statuto del contribuente”, per il cui art. 10 L. 27.7.2000, n. 212, “i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede”. 31 Già Cons. Stato, ad. plen., 5-9-2005, n. 6; Cons. Stato, ad. plen., 4-5-2018, n. 5, cui si rifanno le sent. nn. 19, 20 e 21 del 2021, cit. 32 Per la Suprema Corte spetta al giudice ordinario la giurisdizione sulle controversie relative a una pretesa risarcitoria fondata sulla lesione dell’affidamento incolpevole del privato nell’emanazione di un provvedimento amministrativo a causa di una condotta della pubblica amministrazione difforme dai canoni civilistici di correttezza e buona fede, sia nel caso in cui il danno derivi dalla emanazione e dal successivo annullamento di un provvedimento amministrativo, sia nel caso in cui nessun provvedimento sia stato adottato e il privato abbia riposto senza colpa il proprio affidamento in un mero comportamento; in entrambi i casi la responsabilità della pubblica amministrazione è inquadrabile in quella di tipo contrattuale secondo lo schema della responsabilità da “contatto sociale qualificato”, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c. (Cass., sez. un., 28-4-2020, n. 8236). 33 Il Consiglio di Stato, ad. plen., con tre sentenze del 29.11.2021, ha affermato i seguenti principi: è configurabile una lesione dell’affidamento da atto amministrativo annullato in sede giurisdizionale, escluso solo in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento, con devoluzione alla giurisdizione del giudice amministrativo (sent. n. 19); è escluso l’affidamento in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell’impugnazione contro il provvedimento (sent. n. 20); c’è responsabilità precontrattuale dell’amministrazione, nelle procedure di affidamento di contratti pubblici, per violazione dei canoni di correttezza e buona fede, quando il concorrente abbia maturato un ragionevole affidamento nella stipula del contratto, in relazione al grado di sviluppo della procedura, quando l’affidamento non sia a sua volta inficiato da colpa (sent. n. 21). In definitiva è riproposto il limite civilistico che debba trattarsi di un affidamento incolpevole.

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ridico dell’operazione; in generale alla portata e alla modalità della pubblicità (non menzognera o ingannevole e non subliminale). Nell’attuale esperienza di produzione di massa e globalizzata, la scelta non è tra prodotti ma tra rappresentazioni di prodotti, sicché l’informazione, determinando trasparenza e conoscenza, diventa leva essenziale di un mercato non solo efficiente ma anche equo: sono molte le informazioni da rendere ai consumatori, alcune dovute sempre e in generale (artt. 5 ss. cod. cons.), altre specifiche come informazioni precontrattuali (art. 48 cod. cons.), con ulteriori informazioni nei contratti a distanza e fuori dei locali commerciali (artt. 49 ss. cod. cons.); altre informazioni sono dovute dalla società dell’informazione nel commercio elettronico (D.Lgs. 9.4.2003, n. 70). Sono anche vietate le pratiche commerciali scorrette tra imprese per concorrenza sleale (artt. 2598 ss. c.c.), come sono vietate pratiche commerciali scorrette, ingannevoli e aggressive nei confronti dei consumatori (artt. 18 ss. cod. cons.). Spetta all’ordinamento giuridico riequilibrare le posizioni degli attori del mercato (imprenditori e consumatori) segnando i livelli essenziali dell’informazione, per attestarsi trasparenza e conoscenza quali postulati essenziali di un mercato che si erge a volano dello sviluppo economico e sociale. Come si vedrà, nei settori e nei comparti dove c’è maggiore concentrazione di capitale, sicché più spiccato è il divario di forza economica tra gli operatori, la garanzia dell’informazione rappresenta solo uno stadio (anche se essenziale) di protezione della debolezza sociale, in quanto l’autonomia individuale va supportata da interventi ordinamentali imperativi di riequilibrio economico e giuridico del contenuto delle singole operazioni realizzate.

7. La certezza del diritto (adeguatezza, proporzionalità e ragionevolezza). – Il diritto non si esaurisce nella soluzione dei conflitti insorti tra i consociati, ma vale anche ad orientare le condotte dei consociati perché, consapevoli delle regole vigenti, possano indirizzare la propria vita e compiere le proprie scelte sociali ed economiche. In tale logica si svolge il problema della certezza del diritto, come prevedibilità delle regole applicabili ai fatti della vita. In una prospettiva socio-economica consente la conoscenza degli effetti giuridici dell’azione umana e la calcolabilità economica delle operazioni intraprese. Si è visto come il principio di certezza del diritto rappresenti una connotazione dello stato moderno di diritto, in grado di eliminare privilegi e immunità e difendere il cittadino dalle sopraffazioni del potere (I, 2.2). Nella stagione di affermazione dei diritti umani, la sua ipostatizzazione ha però comportato spesso un distacco con la effettività di giustizia nel caso concreto. Va dunque ripensata la portata e l’attualità di tale valore nella complessità della contemporaneità, rendendo coerente il diritto con la giustizia (I, 1,1). Il principio di certezza del diritto, riferito alle singole norme giuridiche, si rivela nell’attualità una chimera di difficile applicazione per essere emersa, attraverso una pluralità di fonti del diritto, una graduatoria di interessi e valori, volta a volta da bilanciare tra gli stessi e con le normative di settore. Basti solo pensare all’applicazione del principio normativo del c.d. best interest del minore, formulato dalla Convenzione ONU sui diritti del minore, che richiede una verifica specifica dei fatti (la condizione fisica e di vita del minore, la condotta accudente o rifiutante delle persone conviventi ovvero lo stato di abbandono, il contesto abitativo), per delineare la soluzione più consona e adeguata all’equilibrio psico fisico del minore. È proprio della contemporaneità il dibattito

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sul divario tra normativismo stabile e decisionismo episodico, ovvero tra legalità da rispettare e giustizia da realizzare. Per intanto la norma richiede una mediazione umana per l’applicazione; anche l’impiego di un robot giuridico, come operatore automatico applicativo di norme, implica la mano umana che sceglie gli algoritmi di lettura dei fatti. E poi la norma, come ogni testo letterario, è soggetto ad interpretazione, e l’interpretazione risente della personalità dell’autore, con possibilità di più esiti (significativamente esistono più gradi di giudizio). Inoltre, all’epoca dell’affermazione del principio di certezza del diritto, il diritto si esauriva nella legge e specificamente per il diritto privato nel codice civile che (massimamente) raccoglieva, in modo ordinato e ordinante, regole uguali per l’unitarietà (astratta) del soggetto di diritto (I, 2.3), per cui al giudice era sufficiente un’azione di sussunzione del caso esaminato alla tavola organica del codice. La storia successiva ha determinato la provenienza del diritto da fonti ulteriori e gerarchicamente superiori e perciò fuori degli orditi codicistici. Sono emersi principi valoriali (diversi da quelli sottesi ai codici), depositati nella Carta costituzionale, nel diritto europeo e in convenzioni internazionali, ai quali il giudice deve uniformare la decisione, come effettività di tutela giuridica (I, 3.13). Gli artt. 541 e 1012 Cost. fissano il fondamentale dovere di osservare le leggi e la Costituzione; gli artt. 10 e 11 Cost. aprono all’osservanza delle convenzioni internazionali e del diritto europeo. Il principio di certezza del diritto, quale connotato dello stato di diritto, non è venuto meno, ma è solo evoluto in funzione del complessivo sistema giuridico. La prevedibilità non va (più) riferita a singole norme come atomi logico-formali, ma va indirizzata alla complessità dell’ordinamento come realtà unica ed unitaria, con le norme di settore e con i principi e valori che ne fanno da cemento e sostegno. La certezza del diritto va ragguagliata all’ordinamento positivo nella sua sistematicità e vitalità storica. Come si è visto trattando dei fatti giuridici, vi è una causalità complessa (materiale e legale) nella determinazione degli effetti giuridici (II, 4.2). La prevedibilità è rivolta alla sinergia tra i fatti e l’ordinamento, dovendosi decifrare le specificità dell’accadimento, del contesto e del conflitto di interessi per accedere alla ragionevole previsione della regola applicabile. La Corte di giustizia U.E. reitera il richiamo alla certezza del diritto europeo come valore fondamentale per la tenuta della Unione europea (significativa è la direttiva 2014/24/UE) 34, riaffermando la prevalenza della propria interpretazione del diritto europeo 35. Anche la nomofilachia della Corte di cassazione, quale giudice di legittimità,   34 I principi di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento fanno parte dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea. A tale titolo, essi devono essere rispettati non solo dalle istituzioni dell’Unione, ma anche dagli Stati membri nell’esercizio dei poteri ad essi conferiti dalle direttive dell’Unione (Corte giust. U.E. 30-4-2020, n. 184/19). Ciascun caso in cui si ponga la questione se una norma procedurale nazionale renda impossibile o eccessivamente difficile l’applicazione del diritto dell’Unione dev’essere esaminato tenendo conto del ruolo di tale norma nell’insieme del procedimento, dello svolgimento e delle peculiarità dello stesso dinanzi ai vari organi giurisdizionali nazionali; si devono considerare segnatamente, se necessario, la tutela dei diritti della difesa, il principio della certezza del diritto e il regolare svolgimento del procedimento (Corte giust. U.E., 14-5-2020, n. 749/18). 35 Significativa Corte giust. U.E., grande sez., 25-6-2020, n. 24/19: Solo la Corte può, eccezionalmente e per   considerazioni imperative di certezza del diritto, concedere una sospensione provvisoria dell’effetto di

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puntella il principio di certezza del diritto, quale criterio fondamentale di coesione sociale oltre che di deflazione giudiziaria 36; pur restando soggetta alla evoluzione storica dei valori che sottendono le singole decisioni (I, 3.13 e 16). L’esigenza di correlazione delle regole con la realtà regolata ha fatto emergere essenziali criteri di operatività. Oltre le prescrizioni particolari sul percorso interpretativo della legge ex art. 12 disp. prel. (I, 3.13), come integrate dalla esigenza di interpretazione evolutiva valutativa (I, 3.13), è necessaria una costante interazione tra realtà materiale e realtà giuridica. Risulta essenziale stabilire ciò che si sceglie di valorizzare rispetto ad ogni fatto, in funzione degli interessi coinvolti e dei valori implicati, che aprono alla regolazione ordinamentale. In tale opera si sono affermati i principi di adeguatezza e proporzionalità, con il connesso principio di ragionevolezza, spesso indicati anche con generiche qualifiche di razionalità, coerenza, congruenza, ecc., con ambiguo significato. Tali criteri agiscono quali generali parametri sia di normazione che di valutazione dei fatti da esaminare. Nella prima direzione, operano come limiti all’operare del legislatore, impedendo un esercizio arbitrario del potere legislativo; nella seconda direzione, sono utilizzati dalla giurisprudenza (di merito come di legittimità ed anche costituzionale) nella individuazione delle regole da applicare al caso concreto. L’adeguatezza è stata specificamente utilizzata nel diritto amministrativo per indicare che la singola entità amministrativa deve avere un’organizzazione adeguata all’esercizio della funzione svolta. Il principio è richiamato dall’art. 1181 Cost., unitamente ai principi di differenziazione e sussidiarietà. Un’applicazione è nel Reg. Consob 1.7.1998, n. 11522, di attuazione del D.Lgs. 58/1998, che impone di rilevare il profilo dell’investitore, sicché l’operazione deve essere adeguata all’investitore per tipologia, oggetto, frequenza o dimensione (art. 30). In sede civile vengono in rilievo interessi autonomi e di varia natura, per cui c’è l’esigenza di equilibrio dei vari interessi (di natura patrimoniale e/o esistenziale). L’adeguatezza è orientata alla verificazione di congruenza del bene giuridico richiesto rispetto al mezzo giuridico utilizzato. La proporzionalità trae origine dall’esperienza tedesca ed è ormai diffusa nel costituzionalismo contemporaneo europeo, sia nell’azione della pubblica amministrazione che nei rapporti tra cittadini; è anche iscritta tra i principi fondamentali dell’Unione europea (art. 54 TUE), per cui “il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati” 37. Opera essenzialmente nei giudizi relativi alla tutela dei diritti fondamentali e al loro bilanciamento: valuta gli effetti dell’atto legislativo e i benefici realizzati, a fronte dei sacrifici imposti ad altri  

disapplicazione esercitato da una norma di diritto dell’Unione rispetto a norme di diritto interno con essa in contrasto; se i giudici nazionali avessero il potere di attribuire alle norme nazionali il primato sul diritto dell’Unione, anche solo provvisoriamente, in caso di contrasto con quest’ultimo, ne risulterebbe pregiudicata l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione. 36 Per Cass., sez. un., 18-9-2020, n. 19596, la frontale contrapposizione di decisioni non giova al sistema, per cui l’intervento nomofilattico del Supremo consesso appare quanto mai opportuno: l’effetto della prevedibilità delle decisioni giudiziarie si va affermando come un valore prezioso da preservare, anche in termini di analisi economica del diritto. 37 Il principio di proporzionalità costituisce parte integrante dei principi generali del diritto dell’Unione e esige che gli strumenti istituiti da una disposizione del diritto dell’Unione siano idonei a realizzare i legittimi obiettivi perseguiti dalla normativa di cui trattasi e non vadano oltre quanto è necessario per raggiungerli (Corte giust. U.E. 21-6-2018, n. 5/16).

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diritti. Trova testuale previsione in sede penale tra i criteri di scelta delle misure cautelari: per l’art. 275 c.p.p. “ogni misura deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata”; ancora in sede penale, viene in rilievo la propulsione dell’azione del reo: si pensi alla proporzionalità della pena inferta in ragione della intensità della condotta criminosa e della natura del bene giuridico protetto. In sede civile, vengono in rilievo interessi correlati, convergenti o contrapposti, che devono trovare composizione: si pensi alla proporzionalità del risarcimento dovuto in ragione della gravità del fatto lesivo e della natura del danno sofferto. La ragionevolezza deriva dalla esperienza anglosassone, largamente impiegata dalla giurisprudenza. Le disposizioni normative devono essere adeguate o congruenti rispetto al fine perseguito dal legislatore e al sistema ordinamentale. L’emergere della ragionevolezza come limite generale della legislazione si ricollega alla perdita di centralità della legge, con la sostituzione della Costituzione come fonte primaria di diritto, con l’esigenza di bilanciamento tra i principi costituzionali. Così anche il controllo di costituzionalità non investe più solo la legittimità tecnica ma anche la congruenza valoriale: il criterio non si esaurisce nella mera razionalità astratta, quale espressione del principio logico di non contraddizione, ma si apre alla verifica dell’impatto della norma sulla realtà materiale, valutandone la coerenza esperienziale alla stregua dei valori dell’ordinamento. Come sviluppo del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), si è considerato irragionevole trattare situazioni uguali in modo differente, come trattare situazioni differenti in modo uguale. Il criterio trova ampia applicazione nella giustizia tributaria 38. Il meccanismo del c.d. “automatismo legislativo” (secondo cui, al verificarsi di un determinato avvenimento, è ricollegata l’automatica conseguenza giuridica predeterminata da una fattispecie), è sottoposto dalla Corte costituzionale al vaglio di ragionevolezza, dichiarandosi l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che non permettono al giudice (o alla pubblica amministrazione) di tenere conto delle peculiarità del caso concreto e perciò di modulare gli effetti della regola in relazione alle peculiarità delle specifiche situazioni coinvolte 39. Applicazioni del principio di ragionevolezza sono in tutte le branche del diritto; al criterio di ragionevolezza è stata anche collegata l’esigenza di razionalità delle scelte normative 40.   38 Si è stabilito che, quando il contribuente subisca un concreto pregiudizio dal metodo di accertamento scelto dall’Amministrazione finanziaria, apparendo irragionevole ed incongrua la redditività accertata rispetto alla situazione concreta, il giudice tributario può sindacare la metodologia adottata per la raccolta degli elementi utilizzati per la rettifica (Cass. 3-2-2017, n. 2873). 39 Ad es., è dichiarato costituzionalmente illegittimo – per violazione degli artt. 3 e 27 Cost. – l’art. 5672 c.p. (delitto di alterazione di stato di famiglia del neonato commesso mediante falso), nella parte in cui prevede la pena edittale della reclusione da un minimo di cinque a un massimo di quindici anni, anziché la pena edittale della reclusione da un minimo di tre a un massimo di dieci anni, per risultare la severa cornice edittale censurata, sul piano della ragionevolezza intrinseca, manifestamente sproporzionata al reale disvalore della condotta punita, ledendo congiuntamente il principio di proporzionalità della pena rispetto alla gravità del fatto commesso (art. 3 Cost.) e quello della finalità rieducativa della pena (art. 27 Cost.) (Corte cost. 10-11-2016, n. 236). V. anche Corte cost. 15-12-2016, n. 268; Corte cost. 23-2-2012, n. 31). Nella giurisprudenza di legittimità, ad es. Cass. 5-4-2017, n. 17061. 40 Ad es., è stata considerata costituzionalmente illegittima la previsione, tra i criteri di competenza per territorio applicabili ai procedimenti concernenti lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matri monio, di quello del luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi, in quanto manifestamente irragionevole

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In definitiva la ragionevolezza è un criterio di giudizio che pervade sia l’adeguatezza che la proporzionalità, per procedersi ad un bilanciamento tra più beni giuridici con l’esigenza di fissarne i limiti di operatività e di gradualità 41. La complessità della realtà sociogiuridica porta con sé le stimmate della incertezza, così delle relazioni umane, come delle relazioni economiche, come ancora delle regolazioni giuridiche, alle quali deve porre mano il giurista nel ricostruire la trama logica della esperienza giuridica.

8. La sussidiarietà (orizzontale e verticale). – Il principio di sussidiarietà, pure emerso nella filosofia greca con Aristotele, ha ricevuto compiuta formulazione e massima esplicazione nella dottrina sociale della Chiesa cattolica del XIX sec., per esprimere la rilevanza della personalità dei fedeli e dei corpi sociali intermedi (famiglie, associazioni, confessioni religiose, ecc.), intrecciata con il dovere di solidarietà 42. Con tale principio viene introdotta nella vita politica, economica e sociale e dunque nel sistema ordinamentale una visione globale della persona e della società, per cui il conseguimento del bene dei cittadini (es. istruzione, educazione, assistenza, ecc.) deve appartenersi anzitutto a chi è più vicino alle persone, ai loro bisogni e alle loro risorse. La sussidiarietà opera in senso orizzontale e in senso verticale. a) La sussidiarietà in senso orizzontale riguarda il rapporto tra azione privata e poteri pubblici (ex art. 118 Cost) 43. Il principio delimita e protegge la sfera dell’autonomia dei privati dall’intervento pubblico, che ha ragione di svolgersi quando determinate esigenze non sono realizzabili attraverso l’azione dei privati. Il potere pubblico deve sostenere l’azione dei privati e dei corpi intermedi e intervenire solo quando gli scopi perseguiti non siano assolvibili dai privati e dai corpi sociali ovvero siano meglio realizzabili dal potere sovrano.  

ove si consideri che, nella maggioranza delle ipotesi, la residenza comune è cessata, quanto meno dal momento in cui i coniugi, in occasione della domanda di separazione, sono stati autorizzati a vivere separatamente, sicché non è ravvisabile alcun collegamento fra i coniugi e il tribunale individuato dalla norma (Corte cost. 23-5-2008, n. 169). 41 Il rispetto degli obblighi internazionali non può essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a quella già predisposta nell’ordinamento interno, ma può e deve, viceversa, costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa. Di conseguenza, il confronto fra tutela prevista nella Convenzione e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla massima espansione della garanzia, concetto nel quale deve essere compreso il necessario bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, cioè con altre norme costituzionali che a loro volta garantiscono diritti fondamentali che potrebbero essere incisi dall’espansione di una singola tutela; tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca; la tutela deve essere sempre sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro (Corte cost. 28-11-2012, n. 264). 42 Fondamentale è l’enciclica Rerum Novarum di papa Leone XIII (1891), cui faceva seguito l’enciclica Quadragesimo Anno di Pio XI (1931). Successivamente altre encicliche riprendevano il medesimo criterio. In tale ottica, l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società è quello di aiutare in maniera suppletiva (subsidium) le membra del corpo sociale (c.d. corpi intermedi tra cittadino e stato), non già distruggerle e assorbirle: lo Stato non deve privare queste “società di ordine inferiore” delle loro competenze, ma piuttosto sostenerle – anche finanziariamente – e al massimo coordinare il loro intervento con quello degli altri corpi intermedi. 43 Nel senso orizzontale (c.d. sussidiarietà orizzontale), il principio ha trovato applicazione interna specie con la riforma dell’art. 1184 Cost., ad opera della L. cost. 18.10.2001, n. 3, secondo cui Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.

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PARTE II – CATEGORIE GENERALI

Tende anche a diffondersi una c.d. sussidiarietà circolare per valorizzare l’azione del terzo settore (privato sociale) attraverso una cittadinanza attiva in grado di sostenere il welfare per quelle attività di solidarietà che i privati riescono a svolgere più efficacemente dei poteri pubblici. Un’applicazione precipua di tale modello di sussidiarietà si ha in materia di famiglia, prevedendo l’art. 31 Cost. che la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Inoltre l’art. 33 Carta dir. fond. U.E. garantisce la protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale. A fronte di tale sussidiarietà dei pubblici poterei verso la famiglia, è peraltro in corso un’ampia area di sussidiarietà della famiglia verso le giovani coppie che non sono in grado di fare fronte alle esigenze delle nuove famiglie costituite. Anche con riguardo all’istruzione, dopo la previsione che i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, si stabilisce che la Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, attribuite per concorso (art. 34 Cost.). b) La sussidiarietà in senso verticale riguarda la ripartizione dei poteri tra le diverse istituzioni, e impegna anche i poteri sostitutivi del Governo (ex art. 120 Cost.) 44. La correlazione con il principio di adeguatezza (di cui innanzi) comporta che, se l’ente territoriale cui è affidata una funzione amministrativa per essere più vicino al cittadino amministrato non ha la struttura organizzativa per rendere il servizio, questa funzione deve essere attribuita all’entità amministrativa territoriale superiore adeguata. Il principio funziona anche come raccordo tra la supremazia dell’Europa nei confronti degli Stati e il presidio di sovranità degli Stati nei confronti dell’Europa: è contenuto tra i principi fondamentali dell’Unione europea (art. 53 TUE), in virtù del quale “nei settori che non sono di sua competenza esclusiva l’Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell’azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione” 45.

9. Lo stato sociale di diritto e l’ordine pubblico interno e internazionale. – All’esito del percorso condotto è possibile fissare le fondamentali coordinate dell’assetto di Stato che attraversano il diritto privato della contemporaneità. Alcune si legano alla matrice politico-culturale dell’illuminismo settecentesco, che elaborò a partire dal ’700 un insieme di principi fondamentali di garanzia dei diritti del cittadino, connotati dalla egua  44 Nel senso verticale (c.d. sussidiarietà verticale) il principio ha trovato applicazione interna specie con la riforma dell’art. 120 Cost., ad opera della L. cost. 18.10.2001, n. 3, secondo cui, nel fissare le materie in cui il Governo può sostituirsi ad organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni (tra l’altro per mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria), la legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione. 45 Si è anche parlato di sussidiarietà verticale c.d. ascendente, ricorrendosi all’immagine dell’ascensore per risultare il principio in grado sia di limitare la competenza degli Stati quando la relativa azione non si riveli in grado di raggiungere un obiettivo del Trattato, sia di limitare la competenza delle istituzioni europee quando l’azione degli Stati emerga come idonea a raggiungere gli obiettivi europei, con la conseguenza di dovere ricercare in concreto l’equilibrio tra i due possibili sensi vettoriali.

CAP. 7 – PRINCIPI GENERALI E CLAUSOLE GENERALI

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glianza e dalla legalità (c.d. Stato di diritto). Altre si legano alle carte costituzionali del ’900, che tendono a colmare le diversità di fatto, ponendo la persona umana al centro dell’organizzazione sociale e dell’ordinamento giuridico, con una vocazione interventista e solidarista (c.d. Stato sociale o Welfare State). a) Il modello generalmente accolto dalle moderne democrazie, e fatto proprio dalla nostra Costituzione, è quello dello Stato sociale di diritto, nel quale, a difesa della dignità della persona umana, sono accolti entrambi gli ordini di valori (seppure con gradazioni diversificate). È la nuova stagione dei “diritti umani”, espressi da diritti civili (inviolabili) e diritti sociali (da realizzare) che trovano tutela sinergica e complementare nella edificazione della “dignità umana”. A tale modello giuridico è ormai ispirato anche l’ordinamento europeo, che da tempo sta evolvendo verso una regolazione coerente e solidale delle relazioni sociali, indirizzando bisogni e risorse verso uno “sviluppo equilibrato e sostenibile”. La dimensione dello “Stato di diritto” involge il terreno dei c.d. diritti civili, considerati inviolabili da parte sia dei poteri pubblici che dei privati (art. 2 Cost.) (es. diritti di libertà di pensiero, di fede religiosa, di professione politica, di riunirsi e associarsi, ecc.: artt. 13 ss. Cost.). Connesso con tali valori è il principio di libertà in campo economico, nei limiti fissati dalla Carta cost. (artt. 41, 42 e 43). Correlato è il principio di eguaglianza (c.d. eguaglianza formale), collocato tra i principi fondamentali della Costituzione (art. 31 Cost.), per cui tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge 46. La dimensione dello “Stato sociale” (Welfare State) involge i c.d. diritti sociali , quali pretese verso i poteri pubblici di prestazioni in grado di colmare le limitazioni in fatto della personalità (es. diritti al lavoro, alla salute, allo studio e al gratuito patrocinio per i non abbienti, ecc.) (c.d. diritti pretensivi). È una dimensione proiettata verso   46 Il funzionamento dello Stato di diritto è presidiato da più principi. C’è innanzi tutto il principio di legalità, per cui tutti sono soggetti alla legge. La “legalità” è oggi un concetto ampio che include l’intero ordinamento giuridico, con all’apice la Costituzione e il diritto europeo. Il rispetto della legalità è un essenziale e irrinunciabile presidio della libertà individuale, oltre che essere garanzia di ordine sociale. Anche i giudici sono soggetti soltanto alla legge (art. 101 Cost.): la giurisdizione si attua mediante il giusto processo, caratterizzato dalla terzietà del giudice (art. 111 Cost.); connesso è il diritto di difesa, per cui a tutti è consentito agire in giudizio per la tutela dei diritti: il diritto di difesa è inviolabile (art. 24 Cost.). I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione (art. 972 Cost.): contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria e amministrativa (artt. 97 e 1131 Cost.). Per la XVIII disp. trans. Cost. la Costituzione dovrà essere fedelmente osservata da tutti i cittadini e dagli organi dello Stato come “legge fondamentale della Repubblica”. Ad evitare abusi dei pubblici poteri opera il principio della divisione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario): le rispettive funzioni sono attribuite a istituzioni separate, con norme che segnano l’equilibrio tra i poteri. Alla Corte cost. spetta il giudizio di legittimità delle leggi e quello sui conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato e su quelli tra Stato e Regioni e tra Regioni (art. 134 Cost.). Altro principio è la certezza del diritto, riferito non solo alla esistenza del diritto ma anche alla sua applicazione (principio di effettività), secondo lo svolgimento del sistema operante (di cui si è detto). Operano inoltre principi democratici nella organizzazione della vita pubblica, con la partecipazione di tutti i cittadini alle scelte politiche mediante un sistema di democrazia rappresentativa. Suggello dell’impianto di democraticità, pubblicità e trasparenza della pubblica amministrazione e stimolo di efficacia e efficienza della relativa azione è la previsione del diritto di accesso ai documenti amministrativi (L. 241/1990) e il nuovo accesso civico a dati e documenti con diffusione di informazioni (D.Lgs. 33/2013 e 97/2016), che rafforza il controllo dell’attività pubblica e dunque il rapporto tra cittadino e P.A.

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PARTE II – CATEGORIE GENERALI

una valutazione delle appartenenze socio-economiche dei soggetti, in funzione della realizzazione della personalità, conformata sul dovere di solidarietà, nei rapporti dei privati con i poteri pubblici come nei rapporti tra i privati. Secondo il fondamentale precetto del co. 2 dell’art. 3 Cost., è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto il pieno sviluppo della persona umana 47. b) I principi indicati segnano anche il c.d. ordine pubblico inderogabile 48. Tradizionalmente sono maturate due dicotomie costruttive dell’ordine pubblico: una di ordine pubblico materiale, come quiete pubblica e pace sociale, e un’altra di ordine pubblico ideale, quale complesso di principi sui quali si fonda la convivenza civile (si parla così di un ordine pubblico economico, un ordine pubblico sociale, ecc.). Entrambe le dicotomie sono intrecciate da una ulteriore dicotomia che ha riguardo alla organizzazione istituzionale con la quale l’ordine pubblico (materiale e ideale) è conseguito: un ordine pubblico statico come democrazia centralista, connotata da un potere monolitico e di vertice, e un ordine pubblico dinamico quale democrazia aperta, caratterizzata da pluralismo sociale e istituzionale. Si tende a ritenere che l’ordine pubblico interno sia un limite all’autonomia privata, indicato dalle norme imperative di diritto interno (es. illiceità del contratto ex artt. 1343 e 1418); mentre l’ordine pubblico internazionale rappresenti un criterio di preclusione all’applicazione di una norma straniera (art. 16 L. 218/1995) o di una sentenza straniera (art. 64, lett. g, L. 218/1995), ispirato ad esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’ordinamento (I, 3.12). È in corso un articolato percorso di erosione del divario verso la formazione di un unitario reticolo di ordine pubblico (interno e internazionale) nutrito dei diritti umani, essenzialmente desumibili dalla Carta costituzionale, dai Trattati dell’U.E., dalla Carta dir. fond. U.E. e dalla Convenzione Edu 49, e forgiato dal diritto vivente 50. In tale pro  47 Nella dimensione pubblica, strumentali all’attuazione dei diritti sociali sono i doveri verso lo Stato e la società, a cominciare dalla fedeltà tributaria, per cui tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della capacità contributiva, secondo criteri di progressività (art. 53 Cost.) e di sopportabilità della pressione; ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società (art. 42 Cost.). Nella dimensione privata, l’agire individuale dei soggetti è contrassegnato da limiti e obblighi per assicurarne la compatibilità con l’utilità sociale (significativamente sul terreno economico gli artt. 41 e 42 Cost.). Lo stato sociale rappresenta la più rilevante istituzione umana e giuridica del secondo dopoguerra che ha sostenuto la stessa coesione sociale, perciò da valutare e promuovere come collante essenziale della vita democratica. 48 Rimane sempre efficace la definizione data da Karl Binding dell’ordine pubblico come “Rumpelkammer von Begriffen”, ripostiglio di concetti. 49 L’ordine pubblico è ricostruito come sistema di tutele approntate a livello sovraordinato rispetto a quello della legislazione primaria, sicché occorre far riferimento alla Costituzione e, dopo il trattato di Lisbona, alle garanzie approntate ai diritti fondamentali dalla Carta di Nizza, elevata a livello dei trattati fondativi dell’Unione europea dall’art. 6 TUE (Cass. 21-1-2013, n. 1302). Vedi anche Cass., sez. un., 5-7-2017, n. 16601; Cass. 15-6-2017, n. 14878. 50 In tema di riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero, la compatibilità con l’ordine pubblico, richiesta dagli art. 64 ss. L. 218/1995, deve essere valutata alla stregua non solo dei principi fondamentali della nostra Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ma anche del modo in cui gli stessi si sono incarnati nelle disciplina ordinaria dei singoli istituti, nonché  dell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, la cui opera di sintesi e ricom-

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spettiva è possibile delineare più versanti dell’ordine pubblico: come presidio delle libertà e della dignità della persona umana, a garanzia di inviolabilità e a supporto di realizzazione (ordine pubblico personalista in senso stretto); come limite fondamentale alla organizzazione istituzionale, costituendo il metodo democratico come limite all’azione dei singoli e dei gruppi (ordine pubblico politico o istituzionale); come connotato della vita economica e sociale, atteggiandosi la struttura concorrenziale del mercato e la protezione di fasce sociali deboli come limiti all’iniziativa economica e all’esercizio dell’autonomia contrattuale (ordine pubblico economico e di protezione). Trattando del diritto internazionale privato, si è visto dei limiti frapposti dall’ordine pubblico all’ingresso di norme straniere (I, 3.12). Anche lo stato di cittadinanza sta evolvendo: dalla sembianza di appartenenza allo stato-nazione 51 alla condizione inclusiva e relazionale con una comunità socio-politica, con connotazioni multietniche e multiculturali 52. È il volto nuovo della cittadinanza, che si atteggia come cittadinanza costituzionale per additare le prerogative e le implicazioni della relazionalità civile, come base di coesione comunitaria. Con la pluralità delle fonti del diritto e la tutela dei diritti fondamentali ha assunto rilevanza anche la “cittadinanza europea” secondo una sequenza di cerchi concentrici e di partecipazione ad un ordinamento multilivello (art. 20 TFUE). Si delinea uno spazio pubblico dove acquistano importanza le identità delle persone e assumono rilevanza i bisogni e le istanze di ciascuno: sono le facce diverse e intrecciate del costituzionalismo moderno, che ripone nel rispetto e sostegno della dignità umana la sintesi delle prerogative della persona umana. Sullo sfondo c’è la generale preoccupazione per il modello di vita lasciato in eredità alle generazioni future: il riscaldamento globale, il cambiamento climatico, l’insicurezza della vita quotidiana, la precarizzazione del lavoro, la marginalità economica e politica di interi territori e strati sociali, le interazioni con culture e bisogni portati dalla emigrazione sono fattori che devono orientare i valori ordinatori delle moderne società complesse, non solo con politiche istituzionali nazionali ma anche attraverso una governance internazionale. Come la famiglia intercetta più generazioni, forgiando le responsabilità verso i nuovi nati, anche la società deve fruire del mondo nella prospettiva e nella responsabilità di preservarlo vivibile per chi verrà. Come le famiglie intercettano più generazioni, forgiando le responsabilità verso i nuovi nati, anche le società devono fruire del mondo in una prospettiva di futuro, modellando le responsabilità di preservarlo vivibile per chi verrà.  

posizione dà forma a quel diritto vivente dal quale non può prescindersi nella ricostruzione delle nozioni di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell’ordinamento in un determinato momento storico (Cass., sez. un., 8-5-2019, n. 12193). V. anche Cass. 11-11-2014, n. 24001; Cass. 22-8-2013, n. 19405. 51 Lo stato di cittadinanza (l’antico status civitatis) è stato tradizionalmente regolato in ragione del relativo acquisto (R.D. 15.11.1865, n. 2602 e R.D. 9.7.1939, n. 1238), considerandosi l’appartenenza allo Stato una condizione di soggezione all’autorità statale e di titolarità di diritti civili e politici nella comunità statale; il c.c. 1865 si apriva con la disciplina della cittadinanza; successivamente v. L.13.6.1912, n. 555, sulla cittadinanza italiana, reg. esec. R.D. 2.8.1912, n. 949; e ancora L. 5.2.1992, n. 91, reg. esec. D.P.R. 12 ottobre 1993, n. 572; art. 32 D.L. 21.6.2013, n. 69, conv. L. 9.8.2013. 52 L’attribuzione di diritti civili e sociali al cittadino (art. 16 disp. prel. c.c.) non esclude che anche il non cittadino (straniero o apolide) goda dei diritti umani, indipendentemente da un rapporto di reciprocità con gli stati di provenienza: è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità (art. 18 TFUE); possono assumersi provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, le disabilità, l’età o l’orientamento sessuale (art. 19 TFUE).

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PARTE II – CATEGORIE GENERALI

PARTE III

TUTELA DEI DIRITTI

CAPITOLO 1

TUTELA GIURISDIZIONALE DEI DIRITTI Sommario: 1. Tutela effettiva dei diritti e giurisdizione. – 2. I principi della giustizia civile. – 3. Processo di cognizione. – 4. Processo di esecuzione. – 5. Procedimenti speciali. – 6. Volontaria giurisdizione. – 7. Azione di classe (procedimenti collettivi). – 8. Il diritto processuale uniforme. – 9. Le Corti europee. – 10. La tutela rimediale.

1. Tutela effettiva dei diritti e giurisdizione. – L’ordinamento si caratterizza per un generale principio di effettività, dovendo essere in grado di garantire la conoscenza e l’applicazione delle norme giuridiche. Se la società è sorretta dal diritto, la salvaguardia del diritto diventa essenziale per la coesione della società; e la salvaguardia del diritto è assicurata dalla giurisdizione. Agli istituti di diritto sostanziale (o materiale) che riconoscono diritti e impongono obblighi, si connettono meccanismi di diritto strumentale (o formale), che consentono l’attuazione giudiziaria nel caso in cui i diritti non siano rispettati ovvero gli obblighi non siano osservati 1. 1 Il codice civile colloca nel libro sesto, dedicato alla “Tutela dei diritti” (artt. 2643 ss.), più normative che in vario modo hanno un qualche riguardo alla tutela dei diritti, senza organicità di trattazione ma tenute insieme dal labile filo della unitaria prospettiva protettiva. Per la Relaz. cod. civ., n. 1065: “Tutti i diritti soggettivi, seppur variamente secondo la loro varia natura e le varie possibili contingenze, richiedono infatti una protezione, che sarà più o meno intensa, più o meno affidata o condizionata alla iniziativa delle parti interessate, ma senza della quale la loro efficacia o il loro vigore pratico si dissolverebbe o rimarrebbe esposto ad offese senza rimedio”. È una riunione forzosa di discipline che si svolgono lungo due fondamentali traiettorie. Una è dedicata alla vita dei diritti soggettivi e il relativo esercizio: trovano cosi collocazione la normativa sulla trascrizione (artt. 2643-2696), come meccanismo di tutela dei diritti verso i terzi, con particolare riguardo alla soluzione dei conflitti tra diritti incompatibili; la normativa su prescrizione e decadenza (artt. 2934-2969), che ha riguardo alla durata dei diritti e in genere alla dimensione temporale dei fenomeni giuridici; la normativa relativa alla responsabilità patrimoniale del debitore e le cause di prelazione (artt. 2740-2906), che in realtà disciplina le garanzie del credito. Un’altra ha riguardo alla tutela giurisdizionale dei diritti (artt. 2907-2933): trovano colloca-

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PARTE III – TUTELA DEI DIRITTI

Al centro del complesso sistema di tutela si colloca la giurisdizione 2. Il portato dello stato moderno è nell’attribuire allo stato, non solo il potere legislativo ma anche quello giurisdizionale come essenziale attributo della sovranità statale, funzionale alla realizzazione del diritto oggettivo. La procedura di delibazione delle sentenze straniere finisce con il nazionalizzare le stesse rendendole coerenti con i principi fondamentali dell’ordinamento. Il monopolio statale della giurisdizione ha comportato anche che i giudici siano dipendenti dello Stato 3. Ha trovato rara applicazione l’art. 102 Cost. di previsione della partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia (i c.d. laici). La tutela giurisdizionale dei diritti comporta un sistema di diritto processuale (formale o strumentale) che opera quando le norme sostanziali siano violate e dunque le situazioni soggettive lese o anche solo contestate, con funzione di tutela (e reintegrazione) di queste. La progressiva emersione di interessi considerati “meritevoli di tutela” alla stregua dei valori costituzionali e del diritto europeo, anche se non formalmente espressi in specifici diritti soggettivi, dilata fortemente il terreno della tutela giurisdizionale. Talvolta è proprio la natura del rimedio apprestato dall’ordinamento per la protezione dell’interesse leso a evidenziare la rilevanza accordata dall’ordinamento al singolo interesse 4. Più di recente anche la giurisdizione è vista come servizio pubblico volto alla soluzione delle controversie secondo il dispiegarsi dei bisogni e degli interessi dei cittadini in una società pluralista e personalista. Questa mutata concezione della giurisdizione comporta che l’impegno riformatore sia sempre più orientato a soddisfare la efficienza del sistema giudiziario utilizzato dagli utenti. È il fondamentale principio della effettività della tutela giurisdizionale ex art. 24 Cost., per cui il processo deve realizzare le utizione le norme sulla efficacia dei provvedimenti come “usciti” dal processo e altre norme relative alle prove (artt. 2697-2739), con un intreccio di profili sostanziali ad altri processuali. 2 Il termine “giurisdizione” deriva dal latino iurisdictio, composto di ius (diritto) e dicere (dire) ed indica la funzione del giudice di applicare la legge, individuando la regola di diritto da applicare al caso concreto. 3 Rilevava MORTARA (1910): sia che il potere di amministrare la giustizia si facesse derivare da consacrazione divina, o fosse privilegio della casta sacerdotale, od inerente al dominio territoriale, sempre l’analisi della giustizia ci conduce nelle varie epoche passate a trovarne l’ultimo fondamento nel principio dell’autorità del sovrano o della casata dominatrice; solamente quando cominciò a prevalere il principio della uguaglianza giuridica degli uomini si intravide che la funzione della giustizia si connetteva ad un potere sovrano organizzato e funzionante mediante il concorso ed il riconoscimento dei cittadini. Ma l’A. continuava di non farsi “soverchio ottimismo” del mutato assetto giudiziario, in quanto “uomini ignoranti o corruttibili, o solo mediocri o negligenti, potrebbero occupare ora, come occuparono nei tempi antichi, i seggi delle giustizia, e fare strazio di questa, o cadere in gravi errori, talvolta purtroppo senza rimedio”. 4 Una fondamentale dicotomia, di origine romanistica, ha tradizionalmente pervaso la tutela dei diritti in ragione della natura del diritto vantato: l’a c t i o i n r e m è emersa a difesa dei diritti reali, cioè di quei diritti che assicurano un potere immediato sulla cosa (res), per poi estendersi alla difesa dei diritti della persona per l’immediatezza che li caratterizza, esercitabile verso tutti (diritti assoluti); l’a c t i o i n p e r s o n a m riguarda la difesa verso un determinato soggetto tenuto ad uno specifico comportamento, perciò diretta contro la persona dell’obbligato (diritti relativi). Più di recente la originaria accezione si è scolorita, per la emersione di una logica di t u t e l a r i m e d i a l e che mira a ristabilire il bene giuridico protetto indipendentemente dalla natura assoluta o relativa della situazione giuridica che lo sostiene: l’actio in rem tende alla reintegrazione del diritto violato (es. la reintegra del posto di lavoro da parte del lavoratore ingiustamente licenziato); viceversa l’actio in personam mira all’ottenimento di un equivalente dell’interesse leso (es. risarcimento di una somma di danaro per la lesione subita). Si vedrà come una clausola generale di responsabilità civile (art. 2043) attraversi ormai entrambe le tutele.

CAP. 1 – TUTELA GIURISDIZIONALE DEI DIRITTI

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lità riconosciute dall’ordinamento 5. È un’idea che attraversa tutti i processi, al fine di assicurare effettività di protezione 6. Sussistono principi fondamentali sulla giurisdizione, pervasi dalle idee dello stato moderno correlate con la legalità costituzionale ed europea, di seguito analizzati. a) Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi: la difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (art. 242 Cost.); sono assicurati ai non abbienti i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione (art. 243 Cost.). b) Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.): la individuazione del giudice della singola controversia deve cioè essere preventivamente e oggettivamente determinata dalla legge. c) I giudici sono soggetti soltanto alla legge e la giustizia è amministrata in nome del popolo (art. 101 Cost.). La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere (art. 104 Cost.). d) La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge (art. 1111 Cost.): ogni processo deve cioè svolgersi nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti al giudice terzo e imparziale (c.d. terzietà del giudice), in una ragionevole durata 7. La correttezza del procedimento dovrebbe tendere ad una sentenza giusta. e) I provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati (c.d. obbligo della motivazione) (art. 1115 Cost.). Il rispetto di tale principio è essenziale per il controllo del corretto esercizio della giurisdizione. La giurisdizione è essenzialmente ripartita in due forme: quella ordinaria (giustizia civile e penale) e quella amministrativa (giustizia amministrativa). Per l’art. 113 Cost., contro gli atti della pubblica amministrazione (di seguito P.A.) è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi della giurisdizione 5 Secondo la felice indicazione di CHIOVENDA (1934) “Il processo, per quanto possibile, deve dare praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello che ha diritto di conseguire alla stregua del diritto sostanziale”, così realizzandosi il bene della vita congiunto alla composizione della controversia: è il trapasso dalla procedura civile al diritto processuale civile. 6 Per l’art. 1 cod. proc. amm. “la giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”. Così la giustizia amministrativa è evoluta da sistema tradizionalmente impugnatorio dell’atto (imperniato sulla struttura dell’atto) a sistema valutativo della funzione e degli interessi coinvolti (assumendo la veste di giudice della funzione amministrativa). In tale direzione si sta muovendo anche la giurisdizione tributaria che tende sempre maggiormente a valorizzare il rapporto tributario oltre la tipologia degli atti impositivi. 7 Secondo l’art. 6 della Conv. Edu, resa esecutiva con L. 26.10.1955, n. 848, ogni persona ha diritto ad un processo equo, che si svolge attraverso un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti a un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta. La L. 24.3.2001, n. 89 (c.d. legge Pinto), prevede un’equa riparazione per irragionevole durata del processo. Per costante orientamento della Suprema Corte l’ambito della equa valutazione della riparazione è segnato dal rispetto della Conv. Edu per come essa vive nelle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cass. 17-6-2009, n. 14069), con applicazione dunque anche al periodo antecedente alla L. 89/2001 (Cass. 17-6-2009, n. 14087). Anche gli enti personificati (oltre che le persone fisiche) hanno il diritto di ottenere la riparazione dei danni non patrimoniali (Cass. 12-3-2020, n. 7034; Cass. 15-6-2005, n. 12854). L’obbligazione all’indennizzo per l’irragionevole durata del processo insorge autonomamente per ciascuna parte del giudizio “presupposto”, sicché nel giudizio di equa riparazione non si dà eventualmente luogo a litisconsorzio necessario, bensì a litisconsorzio facoltativo (Cass. 12-3-2020, n. 7031).

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ordinaria o amministrativa. Non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali; possono solo istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie (art. 1022 Cost.). La Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e in altre fissate dalla legge; i tribunali militari hanno giurisdizione per i reati militari commessi da appartenenti alle forze armate (art. 103 Cost.). La giurisdizione tributaria rientra tra le giurisdizioni speciali ed è organizzata in Commissioni tributarie provinciali e regionali (D.Lgs. 31.12.19992, n. 545). La giurisdizione ordinaria (civile e penale) opera quando è leso un diritto soggettivo ovvero altra situazione giuridica soggettiva (es. il possesso) o comunque un interesse giuridicamente protetto, così del singolo che della collettività; sono tutelati in sede penale quegli interessi la cui tutela involge una ragione di allarme sociale, sicché è interesse generale che siano protetti. Si è visto peraltro come esista un terreno di diritto comune patrimoniale nel quale la pubblica amministrazione opera iure privatorum, secondo un criterio di parità con i privati (I, 2.12), e perciò soggetta alla giurisdizione ordinaria 8. Alla giustizia civile si avrà specifico riguardo in seguito. La giurisdizione amministrativa opera, di regola, a tutela di posizioni giuridiche soggettive di interesse legittimo (II, 3.9), lese dall’attività esercitata dalla pubblica amministrazione iure imperii, quale autorità titolare di poteri autoritativi attribuiti dalla legge per la realizzazione di interessi generali (art. 103 Cost.): si collega di regola alla violazione di norme di azione 9. Il giudice amministrativo conosce dei diritti soggettivi nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva per materia, indipendentemente dalla natura della posizione soggettiva dedotta in giudizio 10; inoltre conosce, senza efficacia di giudicato, di tutte 8 La L. 20.3.1865, n. 2248, All. E (legge sul contenzioso amministrativo), attribuisce alla giurisdizione ordinaria anche tutte le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione (art. 2); quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell’autorità amministrativa, i tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell’atto in relazione all’oggetto dedotto in giudizio, ma l’atto amministrativo potrà essere revocato o modificato solo dall’autorità amministrativa, che si conformerà al giudicato dei tribunali in quanto riguarda il caso deciso (art. 4). Di fronte a un atto della P.A. che lede un diritto soggettivo, il giudice ordinario può sempre accertare l’illegittimità dell’atto amministrativo e disapplicarlo nell’ambito del giudizio in corso e, se convenuta la P.A., condannare la stessa al risarcimento del danno. 9 Con D.Lgs. 2.7.2010, n. 104, è stato approvato il “codice del processo amministrativo”, che ha operato un riordino del processo amministrativo: la giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo (art. 1); attua i principi della parità delle parti, del contraddittorio e del giusto processo attraverso una ragionevole durata del processo (art. 2). I tribunali amministrativi regionali (T.A.R.) decidono sui ricorsi contro atti e provvedimenti della P.A. illegittimi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge. Contro le sentenze dei tribunali amministrativi è ammesso ricorso al Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale. In tale prospettiva un interesse legittimo può essere leso solo da un atto della P.A.; invece un diritto soggettivo può essere leso sia dai privati che dalla P.A. 10 Ad es., il D.Lgs. 31.3.1998, n. 80, e la L. 21.7.2000, n. 205, hanno devoluto alla giurisdizione esclusiva amministrativa le controversie in materia di pubblici servizi, ivi compresi quelli afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di cui alla L. 14.11.1995, n. 481; le controversie inerenti gli atti, i provvedimenti e i comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti alle stesse equiparati in materia urbanistica ed edilizia. La Corte cost. (sent. 6-7-2004, n. 204) ha però nuovamente ristretto i confini della giurisdizione del giudice amministrativo, affermando che l’attribuzione di una giurisdizione esclusiva secondo “blocchi di materie” è in contrasto con l’art. 108 Cost. che si riferisce a “materie particolari” connotate da un intreccio tra situazioni di diritto soggettivo e di interesse legittimo. Sul fronte opposto, ad es., il D.Lgs. 30.3.2001, n. 165, in conseguenza dell’avvenuta privatizzazione del

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le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti, la cui risoluzione sia necessaria per pronunciare sulla questione principale; restano riservate all’autorità giudiziaria ordinaria le questioni pregiudiziali concernenti lo stato e la capacità delle persone, salvo che si tratti della capacità di stare in giudizio, e la risoluzione dell’incidente di falso (art. 8). Nel contesto delineatosi risulta sempre meno giustificata la differenziazione di giurisdizione.

2. I principi della giustizia civile. – Con il codice di procedura civile del 1942 si realizza un “rafforzamento dell’autorità del giudice” (così la Relaz. al Re) nel quadro di una costruzione del processo civile quale mezzo di attuazione della legge nel caso concreto. Il diritto processuale civile indica la serie di regole sul come procedere giudiziariamente per conseguire la tutela dei diritti: il codice di procedura civile regola la struttura del processo, i poteri degli organi giudiziari, le posizioni processuali delle parti, la scansione delle fasi processuali e le modalità di articolazione delle prove. Le forme processuali, quando non sono meramente sterili o piegate a scopi di potere, rappresentano essenziali garanzie di tutela dei diritti. Il processo è organizzato attraverso più gradi di giurisdizione, al fine di consentire un riesame della questione decisa dal giudice per primo adito. Giudici di primo grado sono il tribunale (ordinario) e il giudice di pace; l’appello avverso le sentenze dei primi giudici si propongono, rispettivamente, alla Corte di appello e al tribunale nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha pronunziato la sentenza (art. 341 c.p.c.) 11. Le sentenze pronunziate in grado d’appello o in unico grado sono impugnabili con ricorso alla Corte di Cassazione (art. 360 c.p.c.) 12. Con il D.Lgs. 40/2006 è valorizzata e resa più incisiva la funzione di nomofilachia della Cassazione 13 (II, 7.7). rapporto di impiego, ha devoluto al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. La L. 205/2000, sulla scorta di Cass., sez. un., 22-7-1999, n. 500, ha attribuito al giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, il potere di disporre il risarcimento del danno ingiusto, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica. Tale disposizione è stata ritenuta dalla indicata sentenza n. 204/2004 della Corte cost. compatibile con il sistema di riparto della giurisdizione delineato dalla carta costituzionale in quanto il risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova “materia” bensì uno strumento di tutela ulteriore rispetto a quello classico demolitorio, atto a rendere effettiva la tutela del cittadino nei confronti della P.A. È caduta la c.d. “pregiudiziale amministrativa”, per cui è ammessa la tutela risarcitoria per lesione degli interessi legittimi anche senza preventivo ricorso alla tutela demolitoria, con l’annullamento dell’atto lesivo. 11 Per l’art. 3393 c.p.c., come modificato dal D.Lgs. 2.2.2006, n. 40, le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità ai sensi dell’art. 1132 c.p.c. sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia. 12 Si è precisato che il ricorso in Cassazione è manifestamente infondato e dunque va rigettato se la decisione di merito impugnata si presenta conforme alla giurisprudenza della Corte e il ricorso non prospetta argomenti per modificarla (Cass., sez. un., 6-9-2010, n. 19051). 13 Le modifiche apportate dal D.Lgs. 40/2006 introducono due importanti novità, in grado di incidere fortemente sulla organizzazione delle fonti del diritto e della giurisdizione: la impugnabilità in Cassazione per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e di contratti e accordi collettivi di lavoro conferisce a questi ultimi una natura giuridica normativa (di antica memoria) che si rivela non coerente con la configurazione dell’autonomia collettiva nella Carta costituzionale; inoltre la impugnabilità della sentenza per una deficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio finisce con l’estendere la conoscenza della Cassazione al merito del giudizio.

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Nel quadro dei valori generali sulla giurisdizione (di cui sopra) vanno delineati i principi specifici ed essenziali della giurisdizione civile. a) Tendenziale correlazione tra titolarità del potere di azione e titolarità della situazione giuridica dedotta, per cui nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui, tranne espressa previsione normativa di sostituzione processuale (art. 81 c.p.c.) (legittimazione ad agire). b) Alla disponibilità dei diritti sostanziali si connette la disponibilità della relativa tutela (principio di disponibilità della giurisdizione). c) Chi vuole far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente (principio della domanda: art. 99 c.p.c.). Per l’art. 2907 c.c., alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria su domanda di parte, e, quando la legge lo dispone, anche su istanza del pubblico ministero 14. Per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse (interesse ad agire: art. 100 c.p.c.) 15, cioè avere bisogno di tutela giurisdizionale; ma è fatto divieto dell’abuso del processo 16. Per stare in giudizio è necessario avere la capacità processuale 17. L’onere della prova grava su chi invoca i fatti a fondamento delle proprie ragioni (art. 2697) (III, 2.1). d) Salvo che la legge disponga diversamente, il giudice non può statuire sopra alcuna domanda, se la parte contro la quale è proposta non è stata regolarmente citata e non è comparsa (principio del contraddittorio ex art. 1011 c.p.c.); per l’art. 1112 Cost. “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti al giudice terzo e imparziale; la legge ne assicura la ragionevole durata”. È una espressione del già rilevato, fondamentale, diritto di difesa (art. 242 Cost.). Il principio del contraddittorio riguarda, non solo il rapporto tra le parti del giudizio, ma anche il rapporto tra le parti e il giudice, per cui il giudice, se vuole porre a fondamento della decisione una que14

Il pubblico ministero esercita l’azione civile nei soli casi stabiliti dalla legge (art. 69 c.p.c.). Interviene, a pena di nullità rilevabile di ufficio, nelle cause che egli stesso potrebbe proporre; nelle cause matrimoniali, comprese quelle di separazione personale dei coniugi; nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone; negli altri casi previsti dalla legge; in ogni causa davanti alla Corte di Cassazione; in ogni altra causa in cui ravvisa un pubblico interesse (art. 70 c.p.c.). Nel giudizio promosso ex art. 67 L. 218/1995, avente per oggetto il riconoscimento dell’efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero, con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero e un cittadino italiano, il Pubblico ministero riveste la qualità di litisconsorte necessario, in applicazione dell’art. 701, n. 3, c.p.c., ma è privo della legittimazione a impugnare, non essendo titolare del potere di azione, neppure ai fini dell’osservanza delle leggi di ordine pubblico (Cass., sez. un., 8-5-2019, n. 12193). 15 Fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui (art. 81 c.p.c.): è cioè necessario che sussista la legittimazione ad agire, così nel lato attivo (attore è il soggetto che si dichiara titolare del diritto leso o contestato), che nel lato passivo (convenuto è il soggetto che si afferma violare o contestare il diritto sostanziale). Un’ipotesi di sostituzione processuale si ha con riguardo all’azione surrogatoria (art. 2900) (VII, 5.6). 16 Per Cass., sez. un., 15-11-2007, n. 23726, è contraria alla regola generale di correttezza e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., e si risolve in abuso del processo (ostativo all’esame della domanda) il frazionamento giudiziale (contestuale o sequenziale) di un credito unitario. 17 Per l’art. 75 c.p.c. sono capaci di stare in giudizio le persone che hanno il libero esercizio dei diritti che si fanno valere; diversamente possono stare in giudizio se rappresentate, assistite o autorizzate secondo le norme che regolano la loro capacità. Le persone giuridiche stanno in giudizio per mezzo di chi le rappresenta a norma della legge o dello statuto; le associazioni e i comitati, che non sono persone giuridiche, stanno in giudizio per mezzo delle persone indicate nello statuto ai sensi degli artt. 36 ss. Inoltre le parti non possono stare in giudizio senza il patrocinio (ministero o assistenza) di un difensore, salvo diversa previsione espressa (art. 82 c.p.c.).

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stione rilevata di ufficio, deve assegnare alle parti un termine per memorie sulla questione (art. 1012 c.p.c.). e) Il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa e non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti (principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato: art. 112 c.p.c.) 18. Per economicità dell’attività giudiziaria e al fine di assicurare uniformità di giudizio, operano i meccanismi della litispendenza, della continenza e della connessione (principio di concentrazione: artt. 39 e 40; 273 e 274 c.p.c.). Nel caso di identità di domande proposte, il giudice successivamente adito deve eliminare il successivo processo secondo il criterio della prevenzione, restando inapplicabile l’istituto della sospensione del processo perché tra le liti non esiste rapporto di pregiudizialità 19. f) Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero (principio della disponibilità delle prove: art. 1151 c.p.c.). La norma è stata novellata con l’introduzione del c.d. principio di non contestazione, per cui il giudice può porre a fondamento della decisione anche i fatti dedotti e non specificamente contestati dalla parte costituita (art. 1151 c.p.c.), come espressione di un generale principio costituzionale di economicità processuale. Può inoltre, senza bisogno di prove, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza (art. 1152 c.p.c.). Sulla scorta di tali principi si articolano le figure del processo. L’attore è chi esercita l’azione e dunque agisce. La domanda giudiziaria integra l’azione, che dà impulso al processo segnandone l’avvio, così producendo la costituzione del rapporto processuale. L’azione deve prospettare ed affermare il diritto fatto valere in giudizio e il risultato perseguito: si compone dunque di un petitum (l’oggetto della domanda) e di una causa petendi (il fondamento in fatto e in diritto della domanda). Sull’attore grava l’onere dell’allegazione dei fatti costitutivi del diritto vantato (art. 26971). Il convenuto è il soggetto contro il quale la domanda è proposta. La sua chiamata in giudizio (vocatio in ius), mediante la notificazione della domanda, determina la instaurazione del contraddittorio. Con la notificazione si determinano anche gli effetti sostanziali della domanda stessa (es. interruzione della prescrizione, costituzione in mora, decorrenza degli interessi, ecc.) 20. La posizione difensiva si svolge, di regola, con riferimento all’oggetto e al fondamento della domanda. Perciò il convenuto può limitarsi a chiedere un accertamento negativo del diritto vantato dall’attore, come può sollevare eccezioni con l’allegazione di fatti op18 Ad es., sono eccezioni che possono essere sollevate solo dalle parti: l’eccezione di compensazione (art. 12421), l’eccezione di annullabilità del contratto, quando è prescritta l’azione (art. 14424), l’eccezione di prescrizione (art. 2938). 19 A norma dell’art. 391 c.p.c., qualora la medesima causa venga introdotta davanti a giudici diversi, quello successivamente adito è tenuto a dichiarare la litispendenza, rispetto alla causa identica precedentemente iniziata, anche se questa, già decisa in primo grado, penda davanti al giudice dell’impugnazione (Cass., sez. un., 12-12-2013, n. 27846). 20 Se la domanda è proposta, anziché con atto di citazione (contenente la vocatio in ius del convenuto), con ricorso all’autorità giudiziaria, è la successiva notificazione alla controparte del ricorso (con pedissequo decreto di fissazione dell’udienza di comparizione delle parti) a determinare gli effetti sostanziali della domanda. È quanto avviene, ad es., nei procedimenti speciali (di cui appresso).

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positivi (estintivi, impeditivi o modificativi) (art. 26972) 21. Per un principio di economia di giudizio, il convenuto può proporre a sua volta una domanda che dipende dal titolo dedotto in giudizio dall’attore o che già appartiene alla causa (domanda riconvenzionale ex art. 36 c.p.c.). Il giudice è il soggetto (terzo) tenuto per legge al dovere decisorio. Deve sussistere una correlazione tra il tipo di azione esercitata e il tipo di provvedimento 22. Se la sentenza non copre l’intera domanda, c’è vizio di omissione di pronuncia; se la eccede c’è vizio di ultrapetizione. In ogni caso il giudice, nel pronunciare sulla causa, deve seguire tutte le norme di diritto (art. 113 c.p.c.) 23, non limitandosi a quelle indicate nella domanda o nell’eccezione (iura novit curia), arrivando anche a mutare le qualificazioni giuridiche addotte dalle parti. Quando sono in gioco diritti indisponibili, è previsto l’intervento obbligatorio del pubblico ministero: ad es., nelle cause matrimoniali e in quelle riguardanti lo stato e la capacità delle persone (art. 70 c.p.c.). Esistono tre gradi di giurisdizione: due di merito innanzi al tribunale o al giudice di pace in primo grado e innanzi alla Corte di appello o tribunale per l’impugnazione; e uno di legittimità innanzi alla Corte suprema di cassazione. La tutela giurisdizionale dei diritti si realizza in una serie articolata di forme che corrispondono ai diversi bisogni di tutela: in ragione dello scopo che il cittadino intende conseguire con il ricorso alla giurisdizione, si distinguono più tipi di azioni e dunque più tipi di processi nei quali si esplicano diversificate attività di giurisdizione: processo di cognizione (di mero accertamento, di condanna, costitutiva), processo di esecuzione, ed ancora, per esigenze di efficienza o di effettività, procedimenti speciali. Talvolta sono attribuite al giudice funzioni ulteriori di regolazione di specifiche situazioni, connesse a relazioni familiari, interessi di minori e incapaci, vita dei gruppi collettivi, gestione di patrimoni separati: è il settore delicatissimo della giurisdizione volontaria (o camerale). Per l’art. 2909 “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”. La delimitazione degli effetti della decisione comporta che lo stesso caso possa essere risolto da differenti giudici in modo diverso: essenziale è che le decisioni dei giudici siano motivate e controllabili. Il tema chiama in causa il problema del valore del precedente, così di un giudice di pari grado (orizzontale) che di un giudice di grado superiore (verticale). La tutela giurisdizionale dei diritti si realizza in più forme di processo che corrispondono ai diversi bisogni di tutela, di cui si parla di seguito. Per ormai costante giurisprudenza 24, integra abuso del diritto la proposizione di domande giudiziarie analoghe o la 21

Il convenuto, già nella comparsa di risposta, è tenuto a prendere posizione, in modo chiaro e analitico, sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda (art. 167 c.p.c.). Non sono sufficienti le clausole di stile per contestare genericamente i fatti addotti, che in tal caso devono ritenersi ammessi senza necessità di prova (Cass. 2-11-2021, n. 31071). 22 La legge stabilisce in quali casi il giudice pronuncia sentenza, ordinanza o decreto; in mancanza di previsione, i provvedimenti sono dati in qualsiasi forma idonea al raggiungimento del loro scopo (art. 131 c.p.c.). Di regola, la sentenza segue all’atto di citazione, la ordinanza all’istanza e il decreto al ricorso; ma non mancano differenti correlazioni. 23 L’art. 113 c.p.c., prevede l’obbligo del giudice di pronuncia secondo diritto, ma fa salve le ipotesi in cui la legge gli attribuisce il potere di decidere secondo equità: l’art. 114 prevede una pronuncia secondo equità quando si verta su diritti disponibili dalle parti e queste gliene fanno concorde richiesta (I, 2.15). 24 Ex multis, Cass. 9-9-2021, n. 24371.

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parcellizzazione della domanda giudiziale, per rappresentare una violazione dei principi di correttezza e buona fede e una violazione del principio del giusto processo.

3. Processo di cognizione. – Ha la generale funzione di portare alla conoscenza del giudice (onde il termine cognizione) una questione, perché possa individuare la regola di diritto sostanziale applicabile al caso concreto, sì da dirimere e quindi decidere la questione sorta circa un interesse privato: il giudizio si chiude con una sentenza 25. Funzione precipua della cognizione è dunque l’accertamento che il giudice compie della esistenza o meno di un diritto vantato o contestato. Quando la sentenza non è più soggetta a riesame (o perché si sono consumati tutti i mezzi di impugnazione o perché è spirato il termine per avvalersene) si determina la c.d. cosa giudicata formale ovvero la sentenza si intende passata in giudicato (la sentenza non è più soggetta né a regolamento di competenza, né ad appello, né a ricorso per cassazione, né a revocazione per i motivi di cui ai numeri 4 e 5 dell’art. 395 c.p.c.: art. 324 c.p.c.). Tale dato, relativo al processo e perciò propriamente formale e strutturale, acquista anche una rilevanza sostanziale rispetto ai diritti coinvolti dalla decisione, dando luogo alla c.d. cosa giudicata sostanziale, la quale ha precipuamente riguardo alle situazioni giuridiche coinvolte: si realizza cioè una definitività della realtà giuridica quale accertata e determinata dalla sentenza 26. Per l’art. 2909 l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa (res inter alios iudicata tertio neque nocet neque prodest); principio che trova il suo correlato nella relatività degli effetti del contratto fissato dall’art. 1372 (VIII, 6.4). A seconda dello specifico scopo perseguito dall’attore si qualifica l’azione proposta, la quale indirizza lo svolgimento del procedimento che si conclude con differenti sentenze. Si delineano tre tipi di azione: di accertamento, di condanna e costitutiva. a) L’azione di mero accertamento persegue la finalità minima (e più elementare) perseguita dal processo di cognizione. Il processo tende al mero accertamento dell’esistenza o inesistenza di una situazione giuridica lesa o contestata. L’accoglimento della domanda conclude il processo con una correlata sentenza di mero accertamento (sentenza dichiarativa). Ad es., la sentenza dichiarativa di nullità del contratto (art. 1421); la sentenza dichiarativa dell’usucapione (arg. art. 1158). b) L’azione di condanna persegue una finalità più complessa in quanto volta alla dichiarazione di un accertamento (come ogni azione di cognizione) in funzione della statuizione di un ordine al convenuto di tenere un determinato comportamento. L’accoglimento della domanda conclude il processo con una correlata sentenza di condanna, che costituisce titolo esecutivo per la esecuzione forzata. Ad es., l’attore chiede che, previo accertamento dell’inadempimento del contratto, il convenuto sia condannato all’adempimento del contratto e al risarcimento dei danni (art. 1453). c) L’azione costitutiva tende ad un accertamento (come ogni azione di cognizione) in 25

La struttura del processo di cognizione è configurata dalla legge in tre fasi: a) una fase di introduzione della causa (artt. 163 ss. c.p.c.); b) una fase di istruzione della causa (comprendente la trattazione) (artt. 175 ss. c.p.c.); c) una fase di decisione della causa (artt. 275 ss. c.p.c.). 26 È talvolta ammessa un’anticipazione degli effetti della futura decisione di merito, con provvedimenti interinali e anticipatori della condanna: es. l’ordinanza di pagamento di somme non contestate (art. 186 bis).

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funzione del conseguimento di una modificazione della realtà giuridica. Per l’art. 2908, nei casi previsti dalla legge, l’autorità giudiziaria può costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici, con effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa (art. 2908). L’accoglimento di una tale domanda conclude il processo con una correlata sentenza costitutiva, che modifica essa stessa la realtà giuridica. Ad es., l’attore, invocando l’inadempimento da parte del convenuto dell’obbligo di concludere un contratto, chiede una sentenza costitutiva che produca gli effetti del contratto non concluso (art. 2932) (VIII, 2.23). Si pensi anche alla sentenza di annullamento (arg. art. 1441) (VIII, 9.8) e di rescissione (arg. artt. 1447 e 1448) del contratto (VIII, 9.11).

4. Processo di esecuzione. – Di regola, con unica sentenza di condanna, è accertato l’inadempimento ed emessa condanna del debitore ad un determinato comportamento, in sostituzione dell’obbligazione originaria inadempiuta, con l’aggiunta dell’importo dovuto a titolo di danni. In tal modo la sentenza di condanna diviene titolo esecutivo che indica il diritto che si intende attuare 27. Il processo di esecuzione ha la funzione di realizzare coattivamente l’attuazione dei diritti. Per l’art. 4741 c.p.c. l’esecuzione forzata non può aver luogo che in virtù di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile 28, quando lo stesso rimane inattuato. È caratterizzato dal tendenziale impiego della forza contro le eventuali resistenze frapposte dal soggetto in danno del quale l’esecuzione forzata è intrapresa 29. Il processo esecutivo mira all’attuazione materiale dei diritti accertati nel titolo esecutivo: deve perciò sussistere corrispondenza tra i soggetti (attivo e passivo) indicati nel titolo esecutivo e quelli del processo esecutivo. Non è necessario che il titolo esecutivo del creditore procedente sorregga l’intera procedura esecutiva, potendo intervenire altri creditori con proprio titolo esecutivo nella medesima procedura 30. 27 Per l’art. 4742 c.p.c. sono titoli esecutivi: 1) le sentenze, i provvedimenti e gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva (es., decreto ingiuntivo: art. 647 c.p.c.; ordinanza di convalida di licenza o di sfratto: art. 663 c.p.c.; ordinanza presidenziale o del giudice istruttore nel giudizio di separazione personale dei coniugi: art. 189 c.p.c.); 2) le cambiali, nonché gli altri titoli di credito e gli atti ai quali la legge attribuisce espressamente la stessa efficacia; 3) gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli, o le scritture private autenticate, relativamente alle obbligazioni di somme di denaro in essi contenute. Con riguardo alle sentenze, non è essenziale la formazione della cosa giudicata: la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti (art. 282 c.p.c.); ma il giudice di appello, su istanza di parte, quando ricorrono gravi motivi, può sospendere in tutto o in parte l’efficacia esecutiva o l’esecuzione della sentenza impugnata (art. 283 c.p.c.). 28 Il diritto è certo, quando risulta dal titolo esecutivo; è liquido, quando è determinato nell’ammontare ovvero è determinabile in base a criteri prestabiliti o a un mero calcolo matematico; è esigibile, quando si è realizzata l’eventuale condizione o è scaduto l’eventuale termine per il suo esercizio. Tali requisiti devono, non solo esistere, ma anche risultare dal titolo esecutivo, avendo questo la funzione di individuare (e perciò documentare) il diritto eseguibile. 29 Quando il soggetto esecutato contesta il diritto alla esecuzione (c.d. opposizione alla esecuzione) si instaura un giudizio di cognizione per l’accertamento del diritto, che opera come una parentesi all’interno del giudizio di esecuzione. 30 Nel processo di esecuzione, la regola secondo cui il titolo esecutivo deve esistere dall’inizio alla fine della procedura va intesa, non nel senso di presupporre la continuativa sopravvivenza del titolo del creditore procedente, bensì nel senso della costante presenza di almeno un valido titolo esecutivo (sia pure dell’interventore) che giustifichi la perdurante efficacia dell’originario pignoramento (Cass., sez. un., 7-1-2014, n. 61).

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Sempre l’esecuzione forzata è anticipata dal precetto che annunzia l’esecuzione forzata, la quale assume due modelli: in forma specifica e per espropriazione. a) L’esecuzione forzata in forma specifica è quella che tipicamente realizza il diritto rimasto insoddisfatto, consentendo al titolare di conseguire forzosamente il diritto indicato nel titolo esecutivo, rimasto ineseguito. Si indirizza alla esecuzione forzata di specifici obblighi, quali l’obbligazione di consegna o rilascio (art. 2930), gli obblighi di fare (art. 2931), gli obblighi di non fare (art. 2933), secondo le procedure fissate dagli artt. 605 ss. c.p.c. 31. Per l’obbligo di concludere un contratto, qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo, si dà luogo ad una sentenza che produce gli effetti del contratto non concluso (art. 2932) (se ne parlerà specificamente trattando del contratto preliminare: VIII, 2.23). b) L’esecuzione forzata per espropriazione tende a far conseguire al creditore una somma di danaro, per essere il danaro il modo più diffuso di soddisfacimento e metro di valutazione di tutti i beni. Si vedrà come il patrimonio del debitore rappresenta la garanzia generale dei diritti di credito: il debitore risponde per l’inadempimento dell’obbligazione con tutti i suoi beni presenti e futuri (art. 2740); quando concorrono più creditori, vale il principio della parità dei creditori, salve le cause legittime di prelazione (art. 2741). Della procedura si parlerà specificamente trattando della responsabilità patrimoniale del debitore (VII, 5.2). c) Esiste anche una misura di coercizione indiretta a carattere pecuniario degli obblighi di fare infungibile o di non fare (art. 614 bis c.p.c.) 32. È impartito un ordine giudiziale di pagamento di una somma di danaro a carico dell’obbligato per la non esecuzione del provvedimento di condanna, al fine di dissuadere dalla sua violazione.

5. Procedimenti speciali. – Il libro IV del codice di procedura civile regola singoli “procedimenti speciali” con riferimento a determinate materie. La domanda è introdotta con ricorso (ricorrente), contro la quale l’altra parte può resistere (resistente). a) Grande importanza assumono i procedimenti sommari, caratterizzati da una cognizione sommaria, salvo realizzare in un tempo successivo la cognizione piena per l’ipotesi di resistenza della controparte. Di largo impiego sono il procedimento d’ingiunzione 31 Se non è adempiuto l’obbligo di consegnare una cosa determinata, mobile o immobile, l’avente diritto può ottenere la consegna o il rilascio forzati, a norma degli artt. 605 ss. c.p.c. (art. 2930): ad es. se, alla cessazione del rapporto di locazione, il locatario non rilascia l’immobile, il locatore, a seguito del provvedimento di rilascio, può conseguire l’immissione forzata nella materiale disponibilità dell’immobile. Se non è adempiuto un obbligo di fare fungibile, l’avente diritto può ottenere che esso sia eseguito a spese dell’obbligato nelle forme stabilite dagli artt. 612 ss. c.p.c. (art. 2931): ad es., se l’appaltatore interrompe la costruzione dell’edificio che aveva l’obbligo di realizzare, il committente può far terminare la costruzione da altro imprenditore a spese dell’obbligato. Se non è adempiuto un obbligo di non fare, l’avente diritto può ottenere che sia distrutto, a spese dell’obbligato, ciò che è stato fatto in violazione dell’obbligo, ai sensi degli artt. 612 ss. c.p.c.; non può essere ordinata la distruzione della cosa e l’avente diritto può conseguire solo il risarcimento dei danni, se la distruzione della cosa è di pregiudizio all’economia nazionale (art. 2933). 32 Con il provvedimento di condanna all’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento; il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza; tali disposizioni non si applicano alle controversie di lavoro subordinato pubblico o privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409; il giudice determina l’ammontare della somma tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile (art. 614 bis c.p.c.).

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(artt. 633 ss. c.p.c.) e il procedimento per convalida di sfratto (artt. 657 ss. c.p.c.); nelle cause in cui il tribunale giudica in via monocratica, è ammesso il procedimento sommario di cognizione (artt. 702 bis ss. c.p.c.). Tra i procedimenti a cognizione sommaria una funzione particolare svolgono i procedimenti cautelari. La domanda cautelare (proposta con ricorso) mira essenzialmente ad assicurare la effettività della (successiva) tutela giurisdizionale di merito (cioè la fruttuosità della decisione) 33, ma ormai assume una valenza autonoma 34. Presupposti essenziali del provvedimento sono: il fumus boni iuris, cioè la parvenza del diritto affermato; il periculum in mora, cioè il pericolo che il tempo occorrente per farlo valere davanti al giudice competente possa rendere impossibile o pregiudicare l’attuazione del provvedimento a cognizione piena ovvero la soddisfazione del diritto 35. Esiste una disciplina generale per tutte le misure cautelari previste dalla legge, sì da integrare un procedimento cautelare uniforme (artt. 669 bis ss. c.p.c.), i cui provvedimenti sono reclamabili. Esistono in particolare procedimenti di istruzione preventiva (es., accertamento tecnico e ispezione giudiziale: art. 696 c.p.c.). È stata introdotta una consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite (art. 696 bis c.p.c.). b) Tra i procedimenti speciali esistono procedimenti a cognizione ordinaria, con varie deviazioni rispetto al processo ordinario in ragione della specificità della materia e degli interessi coinvolti (es. procedimenti in materia di famiglia e di stato delle persone, procedimenti relativi all’apertura delle successioni, procedimenti relativi allo scioglimento della comunione, procedure di arbitrato).

6. Volontaria giurisdizione. – Non inerisce propriamente alla tutela di diritti, ma sovrintende all’esercizio degli stessi, quando sono coinvolti interessi la cui realizzazione l’ordinamento considera necessario sottoporre a controllo. Non c’è una posizione conflittuale delle parti: le stesse tendono alla realizzazione di un interesse comune. Ad es., l’alienazione di beni dell’incapace (minori o interdetti) da parte del rappresentante legale è annullabile se non è preceduta dall’autorizzazione del giudice tutelare o/e del tribunale (rispettivamente art. 320; artt. 374 e 375); la separazione consensuale dei coniugi non ha effetto senza l’omologazione del tribunale (art. 158). Alla base, non c’è un contrasto che la giurisdizione deve dirimere. Si parla perciò di 33 Tipici procedimenti cautelari sono i sequestri, conservativo e giudiziario (artt. 670 ss. c.p.c.) (VII, 5.9). Altri esempi sono i procedimenti di denunzia di nuova opera e di danno temuto (artt. 688 ss. c.p.c.), i procedimenti di istruzione preventiva (artt. 692 ss. c.p.c.). Un generale rimedio, residuale, consente poi di conseguire provvedimenti di urgenza: chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti d’urgenza, che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito (art. 700 c.p.c.). 34 Per l’art. 669 octies c.p.c., ai fini dell’efficacia dei provvedimenti di urgenza ex art. 700 c.p.c. e degli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito, non è più necessaria l’instaurazione del giudizio di merito e l’estinzione di questo non determina l’inefficacia dei detti provvedimenti. È introdotta una ultrattività dei provvedimenti stessi quando il giudizio di merito non è iniziato o è estinto. 35 La tutela cautelare si articola in due fasi: una cognizione sommaria della situazione giuridica vantata, che dà luogo al provvedimento cautelare (art. 669 sexies); l’esecuzione del provvedimento stesso, che avviene nelle forme della esecuzione forzata, in quanto compatibili (art. 669 duodecies). La domanda può essere proposta sia anteriormente alla causa che in corso di causa. Contro l’ordinanza di concessione della misura cautelare è ammesso il reclamo (art. 669 terdecies).

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un’amministrazione pubblica del diritto privato: c’è esercizio di giurisdizione nel senso limitato di verifica imparziale dell’attuazione di interessi privati secondo criteri fissati dall’ordinamento. Il provvedimento assunto non è suscettibile di costituire cosa giudicata, per essere oggetto di revisione (revoca o modifica).

7. Azione di classe (procedimenti collettivi). – A fronte di una tradizione giusnaturalistica-illuministica che configurava i diritti e la relativa tutela in funzione dei singoli, su cui è fortemente costruito il processo civile, da tempo sta emergendo l’osservazione di interessi omogenei riferiti a più soggetti, che possono essere soddisfatti simultaneamente. Il tema ha trovato la massima esplicazione sul terreno del consumo: in una società caratterizzata da produzione e distribuzione di massa, i contratti come i prodotti sono seriali. È ormai esperienza diffusa che una protezione dei consumatori lasciata alla mera tutela individuale non sia efficace in quanto i costi e i tempi del processo, rispetto al valore spesso modesto della operazione, dissuadono il consumatore da ogni iniziativa. È bene chiarire. Una tutela giurisdizionale congiunta di più soggetti, contitolari di situazioni giuridiche o titolari di situazioni giuridiche identiche, è sempre stata possibile 36. La peculiarità della nuova “tutela collettiva” è che la stessa si atteggia come una tutela di massa per riferirsi a tutti i soggetti che si trovano in una medesima situazione e sono portatori di interessi omogenei, perciò formanti una medesima “classe” che reclama la tutela di un “interesse collettivo”. La tutela di classe, pur continuando a trovare nei rapporti di consumo il terreno di massima diffusione, è evoluta verso una generale applicazione ad ogni ipotesi di omogeneità di interessi, per consentire una uniformità di tutela, una riduzione dei costi del processo, una deterrenza alla condotta illecita e ostruzionistica del danneggiante, una concentrazione dell’attività giudiziaria, con deflazione del contenzioso. Con L. 12.4.2019, n. 31, recante disposizioni sull’azione di classe, è aggiunto il titolo VIII-bis del libro quarto nel cod. proc. civ. (art. 840 bis ss.), che introduce i “procedimenti collettivi”; con analoga denominazione è introdotto il titolo V-bis nelle disp. att. c.p.c. (art. 196 bis). Sono abrogati gli artt. 139, 140 e 140 bis cod. cons., che prevedevano l’azione di classe dei consumatori (art. 5) 37. La nuova normativa assume la veste di strumento di tutela di portata generale. Sono previste organizzazioni e associazioni legittimate a proporre l’azione di classe e l’inibitoria collettiva 38. Vi è una accentuazione di poteri 36 Le parti possono agire o essere convenute congiuntamente nello stesso processo, quando vi sia identità o connessione tra le cause proposte per l’oggetto o per il titolo oppure quando vi sia da risolvere anche in parte identiche questioni (litisconsorzio facoltativo ex art. 103 c.p.c.); è anche possibile intervento volontario in un processo tra altre persone per far valere un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto (art. 105 c.p.c.); è ammessa la riunione dei procedimenti relativi a cause connesse (art. 274 c.p.c.). In presenza di diritti afferenti a più soggetti, sono fissati dall’ordinamento i criteri della legittimazione ad agire: basti pensare all’impugnazione di delibere assembleari condominiali (artt. 1109 e 1137) o societarie (artt. 2377 e 2378). 37 Resta in vita l’art. 37, secondo cui le associazioni rappresentative dei consumatori, di cui all’art. 137, le associazioni rappresentative dei professionisti, possono convenire in giudizio il professionista o l’associazione di professionisti che utilizzano, o che raccomandano l’utilizzo di condizioni generali di contratto e richiedere al giudice competente che inibisca l’uso delle condizioni di cui sia accertata l’abusività ai sensi del presente titolo. Il meccanismo ha trovato ampia applicazione in altri rami dell’ordinamento: ad es., in materia di repressione della condotta sleale (art. 2601) e della condotta antisindacale (art. 28 st. lav.); di tutela della concorrenza (art. 1 D.Lgs. 3/2017); di garanzia delle pari opportunità uomo-donna (art. 37 D.Lgs. 198/2006). 38 Con D.M. Ministero della giustizia 17.2.2022, n. 27, è stato dettato il Regolamento in materia di disciplina dell’elenco pubblico delle organizzazioni e associazioni, di cui agli artt. 840 bis c.p.c. e 196 ter disp. att. c.p.c.

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officiosi, con l’assenza della figura dell’avvocato per i singoli aderenti, non considerandosi l’aderente parte del giudizio. Rispetto all’oggetto della tutela, la procedura è organizzata sulla tutela risarcitoria, tranne una previsione finale rispetto alla inibitoria. L’azione risarcitoria è una tutela successiva, rivolta al passato, tesa a conseguire il ristoro dei danni sofferti dal compimento di un illecito. Funzione dell’azione è di risarcire i danni omogenei sofferti da una pluralità di soggetti in virtù di un medesimo fatto lesivo. La comunanza di classe implica, da un lato, di fissare il “bene” tutelato e, dall’altro, di rapportare lo stesso alla varietà dei soggetti interessati al fine di determinare il risarcimento dovuto 39. Per l’art. 840 bis sono tutelabili con l’azione di classe i “diritti individuali omogenei”, per l’accertamento della responsabilità e la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni 40. L’azione inibitoria è una tutela preventiva, rivolta al futuro, tesa a far cessare un comportamento illecito (es. soppressione di impiego di una clausola abusiva nei contratti, ritiro dal commercio di un bene difettoso) 41. L’art. 840 sexiesdecies contiene la previsione della “azione inibitoria collettiva”: chi ha interesse alla pronuncia di una inibitoria di atti e comportamenti, posti in essere in pregiudizio di una pluralità di individui o enti, può agire per ottenere l’ordine di cessazione o il divieto di reiterazione della condotta omissiva o commissiva 42. Il modello delineato di azione di classe è vicino all’esperienza statunitense della class action, egualmente imperniato su un controllo giudiziario di ammissibilità (certification). Se ne discosta in quanto la sentenza che definisce il giudizio fa stato nei confronti del proponente e degli aderenti (modello opt-in), senza la pervasività del modello americano verso la intera classe materiale dei soggetti danneggiati (modello opt-out). 39 È il grande problema della liquidazione del danno risarcibile, se da rapportare su base individuale o da condurre con metodo standardizzato: si deve ritenere che, in ragione della natura seriale dell’interesse fatto valere, quando non siano coinvolti interessi indisponibili, anche il danno risarcibile debba corrispondere a un formante di ristoro unitario, che prescinde dalla peculiarità delle specifiche dimensioni personali. 40 Vi è doppia legittimazione attiva: titolari dell’azione sono ciascun componente della “classe” e le organizzazioni o associazioni senza scopo di lucro iscritte in un apposito elenco istituito presso il Ministero della giustizia. La legittimazione passiva è nei confronti di imprese ovvero di enti gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità, relativamente ad atti e comportamenti posti in essere nello svolgimento delle loro rispettive attività. Non è ammesso l’intervento dei terzi ai sensi dell’art. 105 c.p.c. Il procedimento si svolge secondo la seguente cadenza: verifica di ammissibilità dell’azione; valutazione nel merito dell’azione; quantificazione e liquidazione degli importi dovuti ai singoli aderenti. 41 È una tutela fisiologicamente di classe, in quanto è in re ipsa che la cessazione della condotta plurioffensiva è di vantaggio per l’intera platea di soggetti che si trova nella medesima situazione di fatto o di diritto: la rimozione della condotta lesiva strutturalmente giova alla intera classe di appartenenza. 42 Le organizzazioni o le associazioni senza scopo di lucro iscritte nell’elenco istituito presso il Ministero della giustizia sono legittimate a proporre l’azione per ottenere l’ordine di cessazione o il divieto di reiterazione della condotta omissiva o commissiva. L’azione può essere esperita nei confronti di imprese o di enti gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità relativamente ad atti e comportamenti posti in essere nello svolgimento delle loro rispettive attività. Una formula anodina posta alla fine dell’art. 840 sexiesdecies (intitolato “azione inibitoria collettiva”) prevede: “Quando l’azione inibitoria collettiva è proposta congiuntamente all’azione di classe, il giudice dispone la separazione delle cause”. Sembrerebbe che l’inibitoria collettiva fuoriesca dall’azione di classe, per riferirsi questa esclusivamente alla tutela risarcitoria. In realtà la previsione è da riferire all’ipotesi in cui sia richiesto anche il risarcimento del danno: in tal caso il giudice decide sulla inibitoria, che giova a tutti; mentre assegna al procedimento collettivo sopra delineato la determinazione dei danni da risarcire e delle cose da restituire.

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Resta fermo il diritto all’azione individuale (art. 840 bis), a condizione che la domanda di adesione sia stata revocata prima che sia divenuto definitivo nei suoi confronti il decreto di approvazione del progetto dei diritti individuali omogenei (art. 840 undecies); ovvero quando è dichiarata l’estinzione dell’azione di classe. Sono fatte salve le disposizioni in materia di ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici (art. 840 bis). In tal caso opera la class action pubblica per l’efficienza della pubblica amministrazione (D.Lgs. 20.12.2009, n. 198), per cui i titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori possono agire in giudizio nei confronti delle amministrazioni pubbliche e dei concessionari di servizi pubblici, se derivi una lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi, al fine di ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio. Si configura una tutela giudiziaria amministrativa di interessi collettivi 43. Con la direttiva UE/2020/1028 sono state previste le azioni rappresentative a tutela degli interessi collettivi dei consumatori.

8. Il diritto processuale uniforme. – Si è visto dei conflitti di leggi nello spazio, cui ha riguardo il diritto internazionale privato (I, 3.12), con l’esigenza di un diritto uniforme. Anche con riguardo al diritto processuale va delineandosi un diritto internazionale processuale uniforme, sia di fonte convenzionale che di formazione europea. Allo stato l’atteggiamento europeo si muove in più direzioni. Anzitutto sono dettati criteri uniformi concernenti la competenza, il riconoscimento e l’esecuzione di decisioni assunte nei singoli Stati europei, al fine di favorire la libera circolazione delle decisioni nella Unione 44. Inoltre è introdotto un titolo esecutivo europeo, al fine di favorire nel territorio europeo l’esecuzione delle decisioni 45; dall’altro ancora. È anche prevista la c.d. litispendenza europea, per cui un rapporto pendente innanzi ad un giudice di uno Stato membro non può essere portato all’attenzione di altro giudice di un diverso Stato 46. 43 Gli enti associativi esponenziali, iscritti nello speciale elenco delle associazioni rappresentative di utenti o consumatori oppure in possesso dei requisiti individuati dalla giurisprudenza, sono legittimati ad esperire azioni a tutela degli interessi legittimi collettivi di determinate comunità o categorie, e in particolare l’azione generale di annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità, indipendentemente da un’espressa previsione di legge (Cons. Stato, ad. plen., 20-2-2020, n. 6). 44 Per la materia civile e commerciale fondamentale è la Conv. di Bruxelles del 27.9.1968 concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (c.d. Bruxelles 1), ratificata con L. 21.6.1971, n. 804. Su questa è costruito il Reg. C.E. 22.12.2000, n. 44/2001, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale. Il Reg. C.E. 29.5.2000, n. 1348, è relativo alla notificazione e alla comunicazione negli Stati membri degli atti giudiziari ed extragiudiziari in materia civile e commerciale. Per il diritto di famiglia assume importanza la Conv. di Bruxelles 28.5.1998 (c.d. Bruxelles 2), cui ha avuto sostanzialmente riguardo il Reg. 27.11.2003, n. 2201, relativo a competenza, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale (c.d. Bruxelles 2 bis). 45 Il Reg. 21.4.2004, n. 805, istituisce il “titolo esecutivo europeo per i crediti non contestati”, al fine di consentire la libera circolazione di decisioni giudiziarie, transazioni giudiziarie e atti pubblici in tutti gli Stati membri, senza la necessità, nello Stato membro dell’esecuzione, di procedimenti intermedi per il riconoscimento e l’esecuzione. Con Reg. 12.12.2006, n. 1896 (in vigore dal 2008) è istituito un procedimento europeo d’ingiunzione di pagamento. 46 Per l’art. 21 della Conv. di Bruxelles 27.9.1968 (riprodotto dall’art. 27 Reg. 44/2001/CE) “Qualora da-

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9. Le Corti europee. – Per l’applicazione del diritto europeo operano due Corti con finalità diverse. a) La Corte di giustizia dell’Unione europea, con sede a Lussemburgo, “assicura il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati”; è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale, su richiesta delle giurisdizioni nazionali: a) sull’interpretazione dei trattati; b) sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione (c.d. rinvio pregiudiziale) (art. 19 TUE e art. 267 TFUE). È cioè consentito ad una giurisdizione nazionale di interrogare la Corte di giustizia sull’interpretazione o sulla validità del diritto europeo nell’ambito di un contenzioso in cui tale giurisdizione venga coinvolta 47; è anche ammesso il rinvio pregiudiziale d’urgenza per determinate materie 48. Quando una questione di interpretazione è sollevata dinanzi ad una giurisdizione di uno degli Stati membri, il giudice nazionale può domandare alla Corte di giustizia di pronunziarsi sulla questione; se la questione è sollevata in un giudizio avverso la cui decisione non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, il giudice nazionale deve rivolgersi alla Corte di giustizia (art. 267 TFUE) 49. Nella giurisprudenza della Corte di giustizia come in quella della Corte costituzionale, si è andato affermando il principio che il giudice nazionale ha il dovere di tutelare i diritti attribuiti dalla normativa europea, disapplicando le disposizioni contrastanti della legge interna, anteriore o posteriore, e interpretando il diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo del diritto europeo, tranne i controlimiti costituzionali (I, 2.5) 50. b) La Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo, assicura il rispetto della Conv. Edu (artt. 19 ss.) 51. Si è visto come, con il Trattato di Lisbona, l’Unione euvanti a giudici di Stati contraenti differenti e tra le stesse parti siano state proposte domande aventi il medesimo oggetto e il medesimo titolo, il giudice successivamente adito sospende d’ufficio il procedimento finché sia stata accertata la competenza del giudice in precedenza adito; se la competenza del giudice preventivamente adito è stata accertata, il giudice successivamente adito dichiara la propria incompetenza a favore del primo”. Per applicazioni: Corte giust. C.E. 8-12-1987 (causa 144/86); Cass., sez. un., 12-12-1988, n. 6756, e Cass., sez. un., 28-4-1999, n. 274. 47 Per Corte giust. U.E., grande sez., 8-10-2021, causa C-561/19, l’obbligo del rinvio pregiudiziale da parte del giudice nazionale di ultima istanza viene meno quando la questione non è rilevante, la disposizione di diritto U.E. è già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte europea, la corretta interpretazione si impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi. 48 Per l’art. 23 bis dello Statuto della Corte di giustizia, un rinvio pregiudiziale può essere sottoposto a una procedura accelerata, nel caso in cui la natura della causa e delle circostanze eccezionali esigano che venga trattata in un breve arco di tempo. La procedura pregiudiziale urgente si applica solamente negli ambiti relativi allo spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia. 49 Il giudice nazionale ha l’obbligo di adire il giudice comunitario affinché valuti la validità di un regolamento comunitario, anche quando la Corte abbia già dichiarato invalide corrispondenti disposizioni di analogo regolamento (Corte giust. 6-12-2005, causa C-451/02). 50 Si è però stabilito che gli effetti di una sentenza passata in giudicato continuano a prodursi anche nel caso in cui la pronuncia sia stata resa in violazione del diritto comunitario, se le norme procedurali interne non prevedono un riesame o una revoca della decisione (Corte giust. 16-3-2006, causa C-234/04). 51 Con L. 9.1.2006, n. 12, sono state dettate Disposizioni in materia di esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo. Per Cass. 3-10-2006, n. 32678, in materia di violazione dei diritti umani (e in particolare di violazione dei diritti della difesa) il giudice nazionale italiano è tenuto a conformarsi alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, anche se ciò comporta la necessità di mettere in discussione, attraverso il riesame o la riapertura dei procedimenti penali, l’intangibilità del giudicato. Si è anzi stabilito che la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, anche se sopravviene nel corso del giudizio, impone ai

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ropea abbia aderito a tale Convenzione, per cui i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione, fanno parte del diritto dell’Unione come principi generali (I, 2.10). La Corte può essere investita, non solo da ricorsi interstatali (con i quali il singolo Stato contraente deferisce alla Corte la inosservanza della Convenzione o dei suoi protocolli da parte di altro Stato contraente) (art. 33), ma anche da ricorsi individuali, proponibili da ogni persona fisica, ogni organizzazione non governativa o gruppo di privati che assuma di essere vittima di una violazione da parte di uno degli Stati contraenti dei diritti riconosciuti nella Convenzione o nei suoi protocolli (art. 34).

10. La tutela rimediale. – Da tempo, specie sulla esperienza anglosassone di common law, sta sviluppandosi nel diritto europeo una tecnica di tutela meno piegata dalla tipologia dei diritti violati e maggiormente indirizzata alla effettività di reintegrazione degli interessi lesi (per equivalente o in forma specifica) ovvero rivolta a prevenire o inibire la lesione. È un modello di tutela che si svolge, non nella prospettiva della fattispecie lesiva, ma nell’ottica dell’effetto prodotto dalla fattispecie: la prima ha tradizionalmente caratterizzato la logica delle azioni come riflessi giudiziari dei diritti violati; la seconda involge la tecnica dei rimedi, riparatori o inibitori, degli interessi lesi 52. La tutela rimediale esprime una formula sintetica per indicare un piano flessibile di protezione degli interessi del cittadino oltre le fattispecie astratte previste e la tipologia dei diritti e delle tutele connesse alle fattispecie tipiche. È un ordine di idee che eccita criteri di protezione funzionali al caso concreto: si tende a ritagliare soluzioni di protezione personalizzate ai soggetti del singolo conflitto e alla natura degli interessi coinvolti. Si pensi alla necessaria flessibilità di rimedi che richiede la lesione dei diritti della personalità, che va dalla essenziale inibitoria dell’azione lesiva al risarcimento del danno sofferto; e poi ai variegati interventi rimediali di tutela del “superiore interesse” del minore. Si pensi anche alla peculiarità degli interessi che si connettono allo sviluppo delle nuove tecnologie e precipuamente all’utilizzo di internet, con l’emergere di una complessa realtà virtuale governabile solo attraverso un sistema flessibile di rimedi perennemente rinnovato in ragione della continua evoluzione tecnologica. Sul terreno della ricostruzione sistematica, si pensi alla progressiva uniformazione della responsabilità civile, con il travaso di strumenti di tutela emersi con riferimento alla responsabilità contrattuale o alla responsabilità extracontrattuale (significativo è l’impiego del risarcimento del danno non patrimoniale anche in sede di responsabilità contrattuale). In definitiva, dalla natura dell’interesse leso consegue la specificità del rimedio attribuito, in grado di riequilibrare la situazione giuridica violata ed eventualmente ristorare il soggetto danneggiato per i danni subiti.

giudici nazionali l’applicazione della pronuncia che ha valore di giudicato formale (Cass. 30-9-2011, n. 19985). Il giudice delle leggi ha precisato la essenzialità della verifica di compatibilità del singolo istituto alla normativa della CEDU, nell’interpretazione datane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte cost., sent. 348 e 349 del 24-10-2007). 52 Si è soliti indicare le prospettive dei differenti sistemi di tutela con il ricorso a due brocardi, fondandosi il civil law sul principio ubi ius ibi remedium (più legato alla nascita dello stato moderno) e il common law sul principio ubi remedium ibi ius (maggiormente risalente al diritto romano).

CAPITOLO 2

PROVE Sommario: 1. La prova dei fatti giuridici. – 2. Prove legali (tipiche). Prove precostituite. – 3. Segue. Prove costituende. – 4. Prove atipiche.

1. La prova dei fatti giuridici. – I fatti della realtà materiale rilevano giuridicamente in quanto vengano provati. Le prove sono intimamente connesse ai fatti giuridici, non come elementi costitutivi degli stessi ma come mezzi di deducibilità degli stessi nella realtà processuale. I fatti giuridici (e correlativamente le situazioni soggettive e i rapporti giuridici che dagli stessi derivano) rilevano nella realtà giuridica proprio in quanto ne sia possibile la prospettazione e la verificazione attraverso le prove, sulla scorta delle quali il giudice valuta la esistenza o inesistenza dei fatti affermati o negati. Significativamente i principi generali relativi alle prove di fatti di rilevanza privatistica sono contenuti nel codice civile, che contiene il diritto materiale dei fatti, delle situazioni soggettive e dei rapporti tra privati. In particolare, il codice civile contiene le disposizioni generali sull’onere della prova, le regole sulla tipologia e l’efficacia delle prove (artt. 2697 ss.); mentre il codice di procedura civile ne disciplina l’assunzione e cioè l’ingresso delle stesse nel processo (sotto la rubrica “mezzi di prova”: artt. 202 ss. c.p.c.). Principio base è che l’onere della prova grava sul soggetto che intende far valere un fatto giuridico: secondo l’antica massima onus probandi incumbit ei qui dicit. L’attore, cioè colui che agisce in giudizio per far valere una pretesa, ha l’onere di allegare e provare i fatti sui quali la pretesa si fonda. Il convenuto, cioè la controparte, può semplicemente limitarsi a negare l’esistenza del diritto, come può allegare e provare fatti contrari. L’art. 2697 c.c. fissa il principio sulla distribuzione dell’onere della prova: chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento; chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda. Sono nulli i patti con i quali è invertito ovvero è modificato l’onere della prova, quando si tratta di diritti di cui le parti non possono disporre o quando l’inversione o la modificazione ha per effetto di rendere a una delle parti eccessivamente difficile l’esercizio del diritto (art. 2698). Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita (principio di disponibilità delle prove) (art. 1151). Sono tuttavia frequenti le ipotesi in cui la legge ammette la ricerca di ufficio di prove: ad es. il giudice può porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella

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comune esperienza (c.d. fatto notorio) (art. 1152 c.p.c.) 1; nei giudizi con rito camerale (artt. 737 ss. c.p.c.), volti a garantire esigenze di celerità, snellezza e concentrazione, e perciò a trattazione collegiale, il giudice può assumere informazioni (art. 7383 c.p.c.). Di regola la valutazione delle prove è rimessa al prudente apprezzamento del giudice, salvo che la legge disponga altrimenti (art. 1161 c.p.c.). Sussistono, peraltro, c.d. argomenti di prova, che operano come elementi di valutazione di altre prove: per l’art. 1162 c.p.c. il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno nel corso di un interrogatorio non formale 2, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinato 3 e, in generale, dal contegno tenuto nel processo.

2. Prove legali (tipiche). Prove precostituite. – Le prove legali sono le prove previste dalla legge (prove tipiche): assumono una rilevanza specifica per essere la relativa efficacia predeterminata dalla legge, sicché dai risultati delle stesse il giudice non può discostarsi: il giudice è vincolato al risultato probatorio conseguito dalle prove legali. Di queste, alcune sono precostituite; altre sono costituende. Le prove precostituite sono le prove formate prima e indipendentemente dal processo: sono anche dette prove “storiche” in quanto deduttive di fatti avvenuti, fondativi della esistenza dei diritti reclamati o della insussistenza degli stessi; sono prove acquisite al processo mediante la produzione in giudizio. Tali sono essenzialmente le prove documentali, cioè i documenti allegati dalle parti nel processo (artt. 2699 ss.). Il documento è la entità materiale rappresentativa di un fatto, in grado di procurare la conoscenza (duratura) dello stesso. I documenti possono contenere dichiarazioni di volontà come dichiarazioni di scienza del soggetto da cui provengono. La data vale a collocarli nel tempo e nello spazio. Tradizionalmente l’attività di documentazione è stata compiuta sulla carta attraverso la scrittura (documento cartaceo); successivamente, anche su supporti meccanici attraverso registrazioni, pellicole, fotografie, videocamere; da ultimo, su supporti informatici o mediante la sola rappresentazione informatica. Tra le prove documentali assumono tuttora primaria rilevanza l’atto pubblico e la scrittura privata. Si vedrà peraltro come, talvolta, tali prove esprimano documentazioni 1 Il ricorso alle nozioni di comune esperienza (fatto notorio), comportando una deroga al principio dispositivo ed al contraddittorio, in quanto introduce nel processo civile prove non fornite dalle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati né controllati, va inteso in senso rigoroso, e cioè come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile; non si possono di conseguenza reputare rientranti nella nozione di fatti di comune esperienza quegli elementi valutativi che implicano cognizioni particolari, né quelle nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice, poiché questa, in quanto non universale, non rientra nella categoria del notorio (Cass. 26-5-2020, n. 9714; Cass. 16-12-2019, n. 33154; Cass. 19-3-2014, n. 6299). 2 Per l’art. 117 c.p.c. il giudice, in qualunque stato e grado del processo, ha facoltà di ordinare la comparizione personale delle parti in contraddittorio tra loro per interrogarle liberamente sui fatti della causa; le parti possono farsi assistere dai difensori. 3 Per l’art. 118 c.p.c. il giudice può ordinare alle parti e ai terzi di consentire sulla loro persona o sulle cose in loro possesso le ispezioni che appaiono indispensabili per conoscere i fatti della causa, purché ciò possa compiersi senza grave danno per la parte o per il terzo, e senza costringerli a violare uno dei segreti previsti negli artt. 200, 201 e 202 c.p.p.; se la parte rifiuta di eseguire tale ordine senza giusto motivo, il giudice può da questo rifiuto desumere argomenti di prova a norma dell’art. 1162 c.p.c.; se rifiuta il terzo, il giudice lo condanna a una pena pecuniaria.

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vincolate di volontà negoziale, rilevando come forma a pena di nullità (forma ad substantiam) (VIII, 4.2) o come mezzo di prova (forma ad probationem) (VIII, 4.3). a) L’atto pubblico è il documento redatto, con le richieste formalità 4, da un notaio o da altro pubblico ufficiale (es. cancelliere, ufficiale giudiziario, segretario comunale, ufficiale di stato civile, ecc.) autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato (art. 2699). Ha una efficacia precostituita dalla legge: per l’art. 2700 l’atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti (analogamente art. 451 per gli atti di stato civile). Va chiarito che il pubblico ufficiale non accerta la veridicità del contenuto delle dichiarazioni rese dalle parti ma ne attesta solo i termini e il fatto della provenienza delle dichiarazioni dalle parti: sicché l’efficacia probatoria dell’atto pubblico (quale prova legale che vincola il giudice) attiene solo alla provenienza dell’atto; mentre il suo contenuto è rimesso al prudente apprezzamento del giudice secondo il comune criterio di valutazione delle prove (art. 1161 c.p.c.) 5. b) La scrittura privata proviene dal privato, che la sottoscrive. Non rileva chi (e come) materialmente la redige: con la firma il sottoscrittore ne assume la paternità. Per l’art. 2702 la scrittura privata fa prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta, se colui contro il quale la scrittura è prodotta ne riconosce la sottoscrizione, ovvero se questa è legalmente considerata come riconosciuta (art. 2702). La scrittura privata fa dunque piena prova solo contro l’autore della stessa, non in suo favore. In assenza di pubblico ufficiale che conferisca pubblica fede alla sua provenienza (come nell’atto pubblico), è necessario che la scrittura sia o effettivamente riconosciuta 6 dal soggetto contro il quale è fatta valere o legalmente considerata riconosciuta 7. Anche l’efficacia probatoria della scrittura privata (quale prova legale che vincola il giudice) attiene solo alla provenienza del documento; il contenuto dell’atto è sogget4 Talvolta è anche richiesta la presenza essenziale dei testimoni ai fini della validità dell’atto. Così, per l’art. 48 L. 16.2.1913, n. 89 (legge notarile), le parti non possono rinunziare alla assistenza dei testimoni relativamente alle donazioni e alle convenzioni matrimoniali; per tutti gli altri atti tra vivi le parti che sappiano leggere e scrivere hanno facoltà di rinunziare di comune accordo alla assistenza dei testimoni all’atto: il notaio farà espressa menzione di tale accordo in principio dell’atto. 5 L’efficacia probatoria non si estende anche alle dichiarazioni fatte dai comparenti e trasfuse nell’atto pubblico, ben potendo queste ultime essere liberamente contrastate e valutate in sede giudiziale con tutti i mezzi di prova consentiti dalla legge, senza dover ricorrere alla querela di falso (Cass. 18-5-2020, n. 9105; Cass. 2-10-2008, n. 24530). 6 Il disconoscimento avviene mediante formale negazione della propria scrittura o sottoscrizione (art. 214 c.p.c.). Si ha riconoscimento tacito se la controparte non la disconosce o non dichiara di non conoscerla nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione (art. 215 c.p.c.). In ipotesi di dichiarazione sottoscritta, pur se contenuta in più fogli dei quali solo l’ultimo firmato, poiché la sottoscrizione, ai sensi dell’art. 2702 c.c., si riferisce all’intera dichiarazione e non al solo foglio che la contiene, la scrittura privata deve ritenersi valida ed efficace nel suo complesso, rimanendo irrilevante la mancata firma dei fogli precedenti; al fine di impedire che l’intero contenuto della scrittura faccia stato nei confronti del sottoscrittore, quest’ultimo ha l’onere di proporre querela di falso (Cass. 19-3-2019, n. 7681). 7 Si considera legalmente riconosciuta la sottoscrizione autenticata dal notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato; l’autenticazione consiste nell’attestazione da parte del pubblico ufficiale che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza, previo accertamento della identità della persona che sottoscriva (art. 2703). Tale è anche la scrittura verificata giudizialmente.

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to alla comune valutazione del giudice (art. 1161 c.p.c.) 8. Se la parte contro la quale la scrittura è fatta valere la disconosce, la parte che intende valersi della scrittura disconosciuta deve chiederne la verificazione giudiziale proponendo i mezzi di prova che ritiene utili e producendo o indicando le scritture di comparazione (art. 216 c.p.c.). Si ha per riconosciuta la sottoscrizione autenticata dal notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato (art. 2703) ovvero accertata giudizialmente (artt. 215 ss. c.p.c.). Opera in materia un fenomeno di c.d. conversione formale: per l’art. 2701, il documento formato da ufficiale pubblico incompetente o incapace ovvero senza l’osservanza delle formalità prescritte, se è stato sottoscritto dalle parti, ha la stessa efficacia probatoria della scrittura privata (VIII, 9.7). In sostanza, risultando viziata la documentazione dell’atto pubblico, vale come documentazione di scrittura privata. c) Altre prove documentali sono le scritture contabili delle imprese soggette a registrazione (art. 2709 ss.) 9, le riproduzioni meccaniche (art. 2712) 10, taglie o tacche di contrassegno (art. 2713), copie degli atti (artt. 2714 ss.), atti di ricognizione o di rinnovazione (art. 2720), assistite da regimi di prova particolari in ragione della specificità della relativa formazione. Si sta formando un’articolata disciplina del c.d. “documento informa8 La querela di falso proposta avverso una scrittura privata è limitata a contestare la provenienza materiale dell’atto dal soggetto che ne abbia effettuato la sottoscrizione e non pure ad impugnare la veridicità di quanto dichiarato (Cass. 14-5-2019, n. 12707; Cass. 10-4-2018, n. 8766). 9 Per le imprese soggette a registrazione, i libri e le altre scritture contabili fanno prova contro l’imprenditore; tuttavia chi vuol trarne vantaggio non può scinderne il contenuto (art. 2709); i libri bollati e vidimati, regolarmente tenuti, possono fare prova tra imprenditori per i rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa (art. 2710). L’art. 2709 pone una presunzione semplice di veridicità, a sfavore dell’imprenditore; pertanto tali scritture, come ammettono la prova contraria, così possono essere liberamente valutate dal giudice del merito, alla stregua di ogni altro elemento probatorio (Cass. 12-2-2018, n. 3384). 10 Con lo sviluppo delle tecnologie assumono una portata sempre più diffusa le riproduzioni meccaniche: per l’art. 2712 “le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime”. Per giurisprudenza acquisita “il disconoscimento idoneo a farne perdere la qualità di prova, degradandole a presunzioni semplici, deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta” (Cass. 2-9-2016, n. 17526; Cass. 17-2-2015, n. 3122). In tema di efficacia probatoria delle riproduzioni informatiche di cui all’art. 2712 c.c., il disconoscimento idoneo a farne perdere la qualità di prova, degradandole a presunzioni semplici, deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta (Cass. 28-3-2018, n. 7595). L’email e il Sms (short message service), sono riconducibili nell’ambito dell’art. 2712 e, per l’effetto, formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro il quale vengono prodotti non ne contesti la conformità ai fatti o alle cose medesime (Cass. 17-7-2019, n. 19155; Cass. 14-5-2018, n. 11606). Per il disconoscimento delle fotocopie prodotte in giudizio, il disconoscimento deve essere non solo tempestivo ma anche chiaro, circostanziato ed esplicito in modo formale e inequivoco alla prima udienza, o nella prima risposta successiva alla sua produzione (Cass. 6-2-2019, n. 3540); la contestazione non può avvenire con clausole di stile e generiche o onnicomprensive, ma va operata, a pena di inefficacia, in modo chiaro e circostanziato, attraverso l’indicazione specifica sia del documento che s’intende contestare, sia degli aspetti per i quali si assume differisca dall’originale (Cass. 7-2-2020, n. 2908). Lo stesso vale per la registrazione su nastro magnetico di una conversazione (Cass. 19-1-2018, n. 1250). Il disconoscimento di conformità non ha gli stessi effetti di quello della scrittura privata ex art. 2152 c.p.c. poiché, mentre, nel secondo caso, in mancanza di richiesta di verificazione e di esito positivo della stessa, la scrittura non può essere utilizzata, nel primo non può escludersi che il giudice possa accertare la rispondenza all’originale anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni (Cass. 21-2-2019, n. 5141; Cass. 23-5-2018, n. 12737; Cass. 4-3-2004, n. 4395).

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tico”, anche in relazione alla efficacia della prova: dello stesso, per organicità di trattazione, si parlerà in tema di forma del contratto (VIII, 4.6).

3. Segue. Prove costituende. – Sono le prove che si costituiscono e dunque si formano nel processo. Possono essere dirette e indirette. Sono prove dirette (orali) la prova testimoniale, la confessione e il giuramento, nel senso che si formano mediante dichiarazioni orali che immediatamente producono la conoscenza dei fatti. Al pari delle prove documentali, sono prove “storiche” in quanto deduttive di fatti avvenuti, con la peculiarità di formarsi nel processo. Sono prove indirette (logiche) le presunzioni, nel senso che si formano attraverso operazioni logiche. Non sono deduttive dei fatti fondativi di diritti ma partecipative di indizi, che conducono mediatamente alla conoscenza dei fatti. Delle singole prove si parla specificamente di seguito. a) La prova testimoniale è una prova diretta; consiste nel determinare la conoscenza di fatti da terzi estranei al processo e indifferenti agli interessi in gioco 11. Deve essere dedotta mediante indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti, formulati per articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata (art. 244 c.p.c.). Ad evitare artificiose ricostruzioni dei fatti, la legge circonda la prova testimoniale di molti limiti, mostrando di accordare maggiore attendibilità alle altre prove legali. Vari limiti circondano la prova dei contratti a salvaguardia delle operazioni economiche compiute. Anzitutto la prova per testimoni non è ammessa quando il valore dell’oggetto eccede euro 2,58; tuttavia l’autorità giudiziaria può consentire la prova oltre il limite anzidetto, tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza (art. 2721) 12. La prova per testimoni neppure è ammessa se ha per oggetto patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, per i quali si alleghi che la stipulazione è stata anteriore o contemporanea (art. 2722): la limitazione della prova testimoniale è essenziale presidio della certezza delle contrattazioni 13. Qualora si alleghi che, successiva11 Non possono testimoniare le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la partecipazione al giudizio (art. 246 c.p.c.). Se vi è fondato sospetto che il testimone non abbia detto la verità o sia stato reticente, il giudice lo denuncia al pubblico ministero, al quale trasmette copia del processo verbale (art. 256 c.p.c.). Integra il reato di falsa testimonianza la condotta di chi, deponendo come testimone innanzi all’Autorità giudiziaria, afferma il falso o nega il vero, ovvero tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali è interrogato: tale reato è punito con la reclusione da due a sei anni (art. 372 c.p.). Se vi sono divergenze tra le deposizioni di due o più testimoni, il giudice, su istanza di parte o di ufficio, può disporre che essi siano messi a confronto (art. 254 c.p.c.). 12 I limiti di valore, sanciti dall’art. 2721 c.c., non attengono all’ordine pubblico, ma sono dettati nell’esclusivo interesse delle parti private, con la conseguenza che, qualora, in primo grado, la prova venga ammessa oltre i limiti predetti, essa deve ritenersi ritualmente acquisita, ove la parte interessata non ne abbia tempestivamente eccepito l’inammissibilità in sede di assunzione o nella prima difesa successiva, senza che la relativa nullità, oramai sanata, possa essere eccepita per la prima volta in appello (neppure dalla parte che sia rimasta contumace nel giudizio di primo grado) o, a maggior ragione, nel giudizio di legittimità Cass. 19-2-2018, n. 3956). Non viola l’art. 27211 c.c. il giudice che, relativamente ad un contratto di mutuo concluso in forma orale, ammetta la prova di tale stipulazione a mezzo testimoni, allorché ritenga verosimile la conclusione orale del contratto, avuto riguardo alla sua natura ed alla qualità delle parti, nonostante il valore della lite ecceda il limite previsto dalla citata disposizione (Cass. 24-1-2018, n. 1751). 13 Il divieto di provare per testi patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, posto dall’art. 2722 c.c., si riferisce ad un atto formato con l’accordo delle parti e non opera con riguardo ad una fattura

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mente alla formazione del documento, sia stato stipulato un patto aggiunto o contrario al contenuto di esso, il giudice può consentire la prova per testimoni se, avuto riguardo alla qualità delle parti, alla natura del contratto e a ogni altra circostanza, appare verosimile che siano state fatte aggiunte o modifiche verbali (art. 2723) 14. Sono previste espresse eccezioni ai divieti indicati, per cui la prova testimoniale è sempre ammessa (art. 2724) 15. Le regole stabilite per la prova testimoniale dei contratti si applicano al pagamento e alla remissione del debito (art. 2726). Per i contratti che richiedono la forma scritta a pena di nullità (forma ad substantiam) e quelli che, secondo la legge o la volontà delle parti, devono essere provati per iscritto (forma ad probationem), la prova per testimoni è ammessa soltanto nel caso di cui al co. 3 dell’art. 2724, cioè quando il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova; la stessa regola vale per le presunzioni, che non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni (art. 2725) 16. La uniformazione del regime della prova non elimina la diversa natura giuridica della forma richiesta: se richiesta ad substantiam (es. vendita di immobile ex art. 1350), il contratto deve essere necessariamente provato con il documento sottoscritto dalle parti, con possibilità della prova testimoniale nella sola ipotesi di perdita incolpevole del documento 17 e ciò, per costante giurisprudenza, anche relativamente alla prova che contiene, invece, solo una dichiarazione unilaterale (Cass. 19-9-2019, n. 23414); come non riguarda un atto unilaterale, come un assegno bancario o una quietanza (Cass. 24-2-2015, n. 3588); come non riguarda la individuazione della reale portata del contratto attraverso l’accertamento dei fatti storici che determinarono il consenso dei contraenti (Cass. 12-6-2012, n. 9526; Cass. 9-6-2010, n. 13876); il divieto opera quando si riferisce alla contrarietà tra ciò che si sostiene essere pattuito e quello che risulta documentato, ma non ove tenda solo a fornire elementi idonei a chiarire o interpretare il contenuto del documento (Cass. 7-11-2018, n. 28407). È ammissibile la prova per testi che non abbia ad oggetto patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento ma sia volta a provare circostanze utili a connotare il contesto in cui il documento venne formato, in riferimento alla condotta precontrattuale di una delle parti e, di riflesso, all’affidamento che la controparte avrebbe potuto nutrire sulla positiva conclusione dell’affare (Cass. 13-6-2019, n. 15873). 14 L’inammissibilità della prova testimoniale, ai sensi degli artt. 2722 e 2723 c.c., derivando non da ragioni di ordine pubblico processuale, quanto dall’esigenza di tutelare interessi di natura privata, non può essere rilevata d’ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata, prima dell’ammissione del mezzo istruttorio; qualora, nonostante l’eccezione d’inammissibilità, la prova sia stata egualmente espletata, è onere della parte interessata eccepirne la nullità, nella prima istanza o difesa successiva all’atto, o alla notizia di esso, ai sensi dell’art. 1572 c.p.c. (Cass. 19-9-2013, n. 21443). 15 Per l’art. 2724 la prova per testimoni è ammessa in ogni caso: 1) quando vi è un principio di prova per iscritto: questo è costituito da qualsiasi scritto, proveniente dalla persona contro la quale è diretta la domanda o dal suo rappresentante, che faccia apparire verosimile il fatto allegato; 2) quando il contraente è stato nell’impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta; 3) quando il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova. 16 I limiti legali alla prova di un contratto per cui sia richiesta la forma scritta, “ad substantiam” o “ad probationem” (art. 2725), così come quelli di valore superiore a € 2,58 per la prova testimoniale (art. 2721), operano esclusivamente quando il contratto sia invocato in giudizio quale fonte di diritti ed obblighi tra le parti contraenti e non anche ove esso sia dedotto quale semplice fatto storico influente sulla decisione (Cass. 1-3-2019, n. 6199; Cass. 19-2-2015, n. 3336). 17 Per i contratti per i quali è prevista la forma scritta “ad substantiam”, la prova della loro esistenza e dei diritti che ne formano l’oggetto richiede necessariamente la produzione in giudizio della relativa scrittura, che non può essere sostituita da altri mezzi probatori e neanche dal comportamento processuale delle parti che abbiano concordemente ammesso l’esistenza del diritto costituito con l’atto non esibito (Cass. 18-1-2019, n. 1452). La prova testimoniale è ammessa ex art. 2724, n. 3 solo dopo che sia acquisita la prova di una serie di circostanze di fatto: a) l’esistenza del documento; b) il suo contenuto, onde controllare la sua validità formale

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dell’accordo simulatorio 18; se richiesta ad probationem (es. contratto di agenzia ex art. 17422), la validità del contratto comporta la rimessione della prova alla disponibilità delle parti 19. b) La confessione è una prova diretta; è la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte (art. 2730). La confessione non è efficace se non proviene da persona capace di disporre del diritto a cui i fatti confessati si riferiscono (art. 2731). La confessione può essere giudiziale o stragiudiziale. La confessione giudiziale è orale e forma piena prova contro colui che l’ha fatta, purché non verta su fatti relativi a diritti indisponibili (art. 2733) 20. La confessione stragiudiziale può essere orale 21 o scritta 22: se è fatta alla parte o a chi la rappresenta, ha la stessa efficacia probatoria di quella giudiziale; se è fatta a un terzo o è contenuta in un testamento, è liberamente apprezzata dal giudice (art. 27351). c) Il giuramento è una prova diretta. Consiste in una dichiarazione di verità di fatti favorevoli al soggetto che rende il giuramento: non può essere spontaneo, ma solo provocato. Il giuramento, quale prova legale, vincola il giudice: la controparte non è ammessa a provare il contrario, né può chiedere la revocazione della sentenza qualora il giuramento sia stato dichiarato falso; può tuttavia domandare il risarcimento dei danni e sostanziale; c) la prestazione di diligenza nella custodia del documento; d) l’evento naturale o imputabile a terzi, che abbia determinato la perdita del documento (Cass. 30-4-2019, n. 11465). Peraltro, per l’art. 27352, la confessione stragiudiziale non può provarsi per testimoni se verte su un oggetto per il quale la prova testimoniale non è ammessa dalla legge. 18 In caso di simulazione relativa riguardante un contratto per il quale sia richiesta la forma scritta ad substantiam, la prova dell’accordo simulatorio, traducendosi nella dimostrazione del negozio dissimulato, deve essere data, ai sensi dell’art. 2725 c.c., mediante atto scritto, cioè con un documento contenente la controdichiarazione sottoscritta dalle parti, e comunque dalla parte contro la quale esso sia fatto valere in giudizio, con salvezza della prova testimoniale nella sola ipotesi, prevista dall’art. 2724, n. 3, c.c., di perdita incolpevole del documento (Cass. 2-10-2014, n. 20857). 19 L’inammissibilità della prova per testi nei contratti per i quali è prevista la forma scritta ad probationem non può essere rilevata d’ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata, entro il termine previsto dall’art. 157 c.p.c. (Cass. 25-6-2014, n. 14470). 20 La confessione giudiziale è spontanea o provocata mediante interrogatorio formale (art. 228 c.p.c.): la confessione spontanea può essere contenuta in qualsiasi atto processuale firmato dalla parte personalmente (art. 229 c.p.c.); la confessione provocata è conseguente all’esperimento dell’interrogatorio formale richiesto dalla controparte, dedotto per articoli separati e specifici (art. 230 c.p.c.). Se la parte non si presenta o rifiuta di rispondere senza giustificato motivo, il giudice, valutato ogni altro elemento di prova, può ritenere come ammessi i fatti dedotti nell’interrogatorio (art. 232 c.p.c.). Le ammissioni presenti negli atti difensivi, sottoscritti unicamente dal procuratore “ad litem”, non hanno natura confessoria, ma valore di indizi liberamente valutabili dal giudice per la formazione del suo convincimento mentre, qualora siano contenute in atti stragiudiziali, non hanno neppure tale ultimo valore (Cass. 19-3-2019, n. 7702; Cass. 28-9-2018, n. 23634. In tema di prova della simulazione di contratti di compravendita di immobili, che esigono la forma scritta “ad substantiam”, è ammissibile l’interrogatorio formale tra le parti, in quanto sia diretto a provocare la confessione del soggetto cui è deferito e a dimostrare la simulazione assoluta del contratto, poiché, in tal caso, oggetto del mezzo di prova è l’inesistenza della compravendita (Cass. 10-4-2018, n. 8804). 21 La dichiarazione confessoria stragiudiziale orale può provarsi per testimoni, tranne che verta su un oggetto per il quale la prova testimoniale non è ammessa dalla legge (art. 27352). 22 Es. la quietanza, con la quale il creditore dichiara di avere ricevuto un pagamento (contestato in giudizio).

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nel caso di condanna penale per falso giuramento (art. 2738) 23; inoltre non può riguardare diritti indisponibili, ed ha un oggetto circoscritto 24. Il giuramento è di due specie: decisorio e suppletorio. Il giuramento decisorio è deferito da una parte all’altra per farne dipendere la decisione totale o parziale della causa: deve essere formulato in articoli separati, in modo chiaro e specifico (artt. 2736, n. 1, c.c. e 233 c.p.c.). Finché non abbia dichiarato di essere pronta a giurare, la parte alla quale il giuramento decisorio è stato deferito, può riferirlo all’avversario (art. 234 c.p.c.) 25. La mancata prestazione del giuramento senza giustificato motivo comporta la soccombenza rispetto alla domanda o al punto di fatto relativamente al quale il giuramento è stato ammesso (art. 239 c.p.c.). Il giuramento suppletorio è deferito d’ufficio dal giudice a una delle parti al fine di decidere la causa quando la domanda o le eccezioni non sono pienamente provate, ma non sono del tutto sfornite di prova, ovvero è deferito al fine di stabilire il valore della cosa domandata, se non sia possibile accertarlo altrimenti (art. 2736, n. 2, c.c.; art. 241 c.p.c.). d) Le presunzioni integrano una prova indiretta o logica, in quanto non tendono ad accertare la materialità del fatto invocato, ma a dedurre l’esistenza di un fatto da circostanze certe attraverso un procedimento logico: dalla esistenza di alcuni fatti si deduce il fatto da provare. Per l’art. 2727 le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato. Le presunzioni si distinguono in presunzioni legali e presunzioni semplici (o di fatto). Le presunzioni legali sono previste direttamente dalla legge: le stesse dispensano da qualunque prova coloro a favore dei quali esse sono stabilite (art. 2728). La parte in cui favore la presunzione opera è tenuta solo a provare il fatto base da cui deriva il fatto 23

La dichiarazione di falso integra il reato di falso giuramento: per l’art. 371 c.p., chiunque, come parte in giudizio civile, giura il falso è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni; nel caso di giuramento deferito d’ufficio, il colpevole non è punibile se ritratta il falso prima che sulla domanda giudiziale sia pronunciata sentenza definitiva, anche se non irrevocabile; la condanna importa l’interdizione dai pubblici uffici. 24 L’art. 2739 considera oggetto di giuramento solo fatti relativi a diritti disponibili; non è ammesso sopra un fatto illecito o sopra un contratto per la validità del quale sia richiesta la forma scritta, né per negare un fatto che da un atto pubblico risulti avvenuto alla presenza del pubblico ufficiale che ha formato l’atto stesso; il giuramento non può essere deferito che sopra un fatto proprio della parte a cui si deferisce o sulla conoscenza che essa ha di un fatto altrui e non può essere riferito qualora il fatto che ne costituisce l’oggetto non sia comune a entrambe le parti. Per la giurisprudenza il giuramento, decisorio o suppletorio, non può vertere sull’esistenza o meno di rapporti o di situazioni giuridiche, né può deferirsi per provocare l’espressione di apprezzamenti od opinioni né, tantomeno, di valutazioni giuridiche, dovendo la sua formula avere ad oggetto circostanze determinate che, quali fatti storici, siano stati percepiti dal giurante con i sensi o con l’intelligenza (Cass. 25-10-2018, n. 27086). Il giuramento può essere deferito con formula “de veritate” non solo quando abbia ad oggetto un fatto proprio del giurante, ma anche ove il fatto, pur essendo posto in essere da altri, sia caduto sotto l’esperienza diretta dei suoi sensi e della sua intelligenza; in caso contrario, qualora il fatto sia stato esclusivamente conosciuto in via indiretta dal giurante medesimo, il giuramento va deferito con formula “de scientia” (Cass. 4-6-2018, n. 14300). Il giuramento decisorio non può essere ammesso per provare la risoluzione consensuale di un preliminare di compravendita immobiliare, perché anche tale contratto è soggetto al requisito della forma scritta ad substantiam (Cass. 23-11-2018, n. 30446). 25 La parte che ha deferito o riferito il giuramento decisorio non può più revocarlo quando l’avversario ha dichiarato di essere pronto a prestarlo (art. 235 c.p.c.).

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PARTE III – TUTELA DEI DIRITTI

presunto, che si considera provato. Le presunzioni legali si distinguono in presunzioni assolute e presunzioni relative. Le presunzioni assolute (anche dette iuris et de iure) non ammettono prova contraria: la legge ricollega senz’altro l’effetto giuridico alla specifica fattispecie considerata, sicché si tende ad escludere dalla problematica delle prove. Sono fissate due categorie di presunzioni assolute: quelle sul cui fondamento sono dichiarati nulli certi atti e quelle per le quali non è ammessa l’azione in giudizio; in ogni caso salvo che la prova contraria sia consentita dalla legge stessa (art. 27282). È un esempio la presunzione di concepimento durante il matrimonio (art. 232). Le presunzioni relative (anche dette iuris tantum) ammettono la prova contraria. L’ammissibilità della prova contraria, talvolta, è esplicitamente prevista, come la presunzione di concepimento al tempo dell’apertura della successione (art. 4622) 26; talaltra è ricostruita in via interpretativa, come la presunzione di onerosità del mandato (art. 1709) 27, la presunzione di pagamento nella restituzione volontaria del titolo del credito (art. 1237) 28. Il soggetto interessato ad avvalersi della presunzione legale ha l’onere di provare il fatto noto previsto dalla legge: l’esistenza del fatto ignorato presunto discende dalla legge stessa, salva prova contraria (appunto perché presunzione relativa). Il criterio è ampiamente utilizzato in materia tributaria 29. Le presunzioni semplici (c.d. di fatto), non sono stabilite dalla legge, ma sono lasciate alla prudenza del giudice secondo diffusi criteri di esperienza (il c.d. libero convincimento del giudice), il quale deduce dalla presenza di alcuni fatti (indizi) la presunzione di esistenza o di non esistenza di un diverso fatto. Per l’art. 27291 il giudice non deve ammettere che “presunzioni gravi, precise e concordanti”: in realtà sono i singoli fatti (indizi) che devono avere tali requisiti così da inferire la presunzione di un diverso fatto 30. Il soggetto interessato ad avvalersi di una presunzione semplice deve 26 Per l’accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla pubblicità anagrafica, ferma restando la sussistenza dei presupposti della stabilità materiale (co. 37, L. 20.5.2016, n. 76): dal fatto noto della pubblicità si desume il fatto ignorato presunto della stabilità di convivenza. 27 La presunzione di onerosità del mandato ha carattere relativo e può essere superata dalla prova della sua gratuità, desumibile dalle circostanze del rapporto (nella specie è stata ritenuta superata dalla relazione di parentela intercorrente fra le parti) (Cass. 3-7-2018, n. 17384). 28 Il possesso da parte del debitore del titolo originale del credito costituisce fonte di una presunzione legale “juris tantum” di pagamento, superabile con la prova contraria di cui deve onerarsi il creditore che sia interessato a dimostrare che il pagamento non è avvenuto e che il possesso del titolo è dovuto ad altra causa (Cass. 8-2-2018, n. 3130). 29 In tema di accertamento in rettifica delle imposte sui redditi delle persone fisiche, la determinazione effettuata con metodo sintetico, sulla base degli indici previsti dai D.M. 10 settembre e 19 novembre 1992, riguardanti il cd. redditometro, dispensa l’Amministrazione da qualunque ulteriore prova rispetto all’esistenza dei fattori-indice della capacità contributiva, sicché è legittimo l’accertamento fondato su essi, restando a carico del contribuente, posto nella condizione di difendersi dalla contestazione dell’esistenza di quei fattori, l’onere di dimostrare che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore (Cass. 31-10-2018, n. 27811). 30 Bisogna procedere a una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati e accertare se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni indizi (Cass., sez. un., 11-1-2008, n. 584; conf. Cass. 26-5-2020, n. 9676; Cass. 29-11-2019, n. 31313). Nella prova per presunzioni, ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva

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provare i fatti-indizi da cui intende dedurre una presunzione, spettando al giudice valutare la idoneità dei fatti noti addotti a integrare un processo logico che porti all’ammissione di un fatto ignorato. Le presunzioni semplici sono soltanto relative, perciò (al pari delle presunzioni legali relative) ammettono la prova contraria. Le presunzioni semplici non sono ammesse nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni (art. 27292).

4. Prove atipiche. – Nel processo civile manca una norma generale, quale quella prevista dall’art. 189 c.p.p. nel processo penale, che legittima espressamente l’ammissibilità delle prove non disciplinate dalla legge. Però la previsione legislativa di prove legali (tipiche) non esclude la possibilità di avvalersi di prove atipiche, non essendo previsto un principio di tassatività e vincolatività delle solo prove legali né esistendo un divieto di avvalersi di prove diverse da quelle tipiche. Si tende dunque, anche nel processo civile, ad utilizzare prove atipiche, nel rispetto del contraddittorio delle parti in causa; l’efficacia probatoria è assimilata a quella delle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. ovvero utilizzata come argomento di prova: tecnicamente trovano ingresso nel processo civile con lo strumento della produzione documentale, soggiacendo ai limiti temporali posti a pena di decadenza e nel rispetto delle preclusioni istruttorie 31.

necessità causale, essendo sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull’“id quod plerumque accidit”, sicché il giudice può trarre il suo libero convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza (Cass. 21-1-2020, n. 1163). Gli elementi assunti a fonte di prova non debbono essere necessariamente più d’uno, ben potendo il giudice fondare il proprio convincimento su uno solo di essi, purché grave e preciso, dovendo il requisito della “concordanza” ritenersi menzionato dalla legge solo in previsione di un eventuale, ma non necessario, concorso di più elementi presuntivi (Cass. 26-9-2018, n. 23153). Il danno patrimoniale derivante da indebita segnalazione alla Centrale Rischi della Banca d’Italia può essere provato dal danneggiato anche per presunzioni, potendo consistere, se imprenditore, nel peggioramento della sua affidabilità commerciale, essenziale pure per l’ottenimento e la conservazione dei finanziamenti, con lesione del diritto ad operare sul mercato secondo le regole della libera concorrenza, e, per qualsiasi altro soggetto, nella maggiore difficoltà nell’accesso al credito (Cass. 10-2-2020, n. 3133). 31 Nel vigente ordinamento processuale, improntato al principio del libero convincimento del giudice e in assenza di una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, questi può porre a fondamento della decisione anche prove atipiche, non espressamente previste dal codice di rito, della cui utilizzazione fornisca adeguata motivazione e che siano idonee ad offrire elementi di giudizio sufficienti, non smentiti dal raffronto critico con le altre risultanze del processo (Cass. 15-1-2016, n. 626; Cass. 26-6-2015, n. 13229). Le scritture private provenienti da terzi estranei alla lite possono essere liberamente contestate dalle parti, non applicandosi alle stesse né la disciplina sostanziale di cui all’art. 2702 c.c., né quella processuale di cui all’art. 214 c.p.c., atteso che esse costituiscono prove atipiche il cui valore probatorio è meramente indiziario, e che possono, quindi, contribuire a fondare il convincimento del giudice unitamente agli altri dati probatori acquisiti al processo (Cass. 9-3-2020, n. 6650; Cass. 1-3-2018, n. 4842). È sufficiente che non siano smentite dal raffronto critico con le altre risultanze istruttorie; non deriva la violazione del principio di cui all’art. 101 c.p.c., atteso che, sebbene raccolte al di fuori del processo, il contraddittorio si instaura con la produzione in giudizio (Cass. 1-9-2015, n. 17392).

CAPITOLO 3

TECNICHE ALTERNATIVE DI RISOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE (Degiurisdizionalizzazione)

Sommario: 1. Generalità. – 2. La giustizia privata (arbitrato). – 3. Gli strumenti negoziali (mediazione e negoziazione assistita). – 4. L’autotutela.

1. Generalità. – Nei sistemi giuridici forgiati alle idee dello stato moderno, in cui il diritto era ricondotto alla legge e la tutela dei diritti era riassunta nella giustizia statale, sussisteva poco spazio per una tutela non fondata sulla giurisdizione. Ma la rimodulazione di tale modello (I, 3) ha comportato, con l’erosione del monopolio statale del diritto, anche lo sviluppo di nuovi modi di soluzione delle controversie. D’altra parte la crescita esponenziale di ragioni di conflitti, nelle tante maglie della vita economica e sociale, ha anche reso necessario attivare canali alternativi alla giurisdizione per la sollecita soluzione delle controversie. L’esigenza di deflazione giudiziaria per il carico eccessivo della giurisdizione statale e l’utilità di devolvere questioni specialistiche a competenze di alta professionalità tecnica hanno favorito la diffusione della giustizia arbitrale. Ulteriori esigenze di sgravare la giurisdizione di questioni ripetitive e di favorire il mantenimento di rapporti sociali hanno condotto alla elaborazione di tecniche di mediazione, amministrate da soggetti diversi dallo Stato. Presso molte istituzioni vanno costituendosi Camere di conciliazione e arbitrato. Ulteriore versante è la giustiziabilità delle Autorità amministrative indipendenti, quale aspetto di azione all’interno della complessiva funzione istituzionale di intreccio di potere regolatorio e sanzionatorio (I, 3.10), oltre il comune riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo (artt. 1031 Cost. e art. 7 c.p.a.) (I, 3.10). Tutto ciò ha aperto nuove frontiere alla tutela dei diritti, oltre il ricorso alla giurisdizione. Inoltre sono sempre maggiori le ragioni di affidare a rimedi di autotutela la protezione di interessi privati. È in atto una crescente evoluzione dalla sentenza alla soluzione del conflitto, nei tanti modi che l’esperienza suggerisce. Di seguito si dà conto delle tecniche più significative. 2. La giustizia privata (arbitrato). – È un meccanismo che, su base volontaria, attribuisce ai privati un potere decisorio. L’arbitrato è il terreno della libertà dei privati, in cui si esprime l’autonomia privata finalizzata ad una decisione 1. C’è una deroga alla giuri1

Alla volontà delle parti è rimessa la nomina degli arbitri (art. 810 c.p.c.), la scelta della sede dell’arbitrato

CAP. 3 – TECNICHE ALTERNATIVE DI RISOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE

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sdizione statale, dandosi vita ad una c.d. giustizia privata o non togata, giuridicamente rilevante. Le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra loro insorte che non abbiano per oggetto diritti indisponibili e salvo espresso divieto della legge 2; le controversie individuali di lavoro possono essere decise da arbitri solo se previste dalla legge o nei contratti o accordi collettivi di lavoro (art. 806 c.p.c.). Le parti possono anche stabilire che siano decise da arbitri le controversie relative a uno o più rapporti non contrattuali determinati (art. 808 bis c.p.c.) 3. È valorizzata la celebrazione di c.d. arbitrati amministrati presso singole istituzioni: per l’art. 832 c.p.c. la convenzione di arbitrato può fare rinvio a un regolamento arbitrale precostituito. Quando le parti vogliono avvalersi di arbitri, stipulano un compromesso o introducono nel contratto che stipulano una clausola compromissoria con la quale stabiliscono che le controversie nascenti dal contratto medesimo saranno decise da arbitri 4: sia il compromesso che la clausola compromissoria devono essere fatti per iscritto a pena di nullità (artt. 807 e 808 c.p.c.) 5. Gli arbitri possono essere uno o più, purché in numero dispari (art. 809 c.p.c.) 6. Decidono secondo le norme di diritto, salvo che le parti li abbiano autorizzati a pronunciare secondo equità (art. 822 c.p.c.). Il procedimento arbitrale si instaura con la notificazione della domanda di accesso arbitrale e si svolge come arbitrato rituale o come arbitrato irrituale. L’arbitrato rituale è la regola, che opera in assenza di ogni indicazione. Il procedimento si svolge secondo le regole del titolo VIII del Libro IV c.p.c. (artt. 806 ss.). Il lodo ha gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria (art. 824 bis): la parte che intende fare eseguire il lodo lo deposita nella cancelleria del tribunale nel cui circondario è la sede dell’arbitrato; il tribunale lo dichiara esecutivo con decreto (art. 825). Il lodo è impugnabile innanzi alla Corte di appello per nullità, per revocazione o per opposizione di terzo, indipendentemente dal deposito per l’esecutività (art. 827 c.p.c.).  

(art. 816 c.p.c.), la regolazione dello svolgimento del procedimento (art. 816 bis c.p.c.), la fissazione del termine per la pronuncia del lodo (art. 820 c.p.c.), assumendo la normativa del codice di rito una funzione essenzialmente suppletiva e di ausilio all’autonomia privata per il conseguimento dello scopo della decisione. 2 La normativa generale è contenuta negli artt. 806 ss. c.p.c., da ultimo novellati con D.Lgs. 2.2.2006, n. 40. Per il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali straniere, opera la Conv. di New York del 10.6.1958, resa esecutiva con L. 19.1.1968, n. 62; per la disciplina dell’arbitrato commerciale internazionale. V. anche la Conv. di Ginevra del 21.4.1961, resa esecutiva con L. 10.5.1970, n. 418. 3 Per effetto dell’art. 12 cod. proc. amm. è stata generalizza la possibilità di risolvere mediante arbitrato rituale le controversie concernenti diritti soggettivi ex lege devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo (Cass., sez. un., 30-10-2019, n. 27847). 4 I rapporti tra giudici ed arbitri non si pongono sul piano della ripartizione del potere giurisdizionale tra giudici, ed il valore della clausola compromissoria consiste proprio nella rinuncia alla giurisdizione ed all’azione giudiziaria (Cass. 8-8-2019, n. 21177). 5 Per l’art. 8083 c.p.c., la validità della clausola compromissoria deve essere valutata in modo autonomo rispetto al contratto al quale si riferisce. La clausola compromissoria ha natura processuale e dunque assolve una funzione autonoma rispetto al contratto che la contiene, con la conseguenza che la stessa opera anche se il contratto è nullo e c’è dunque necessità di verificare a mezzo arbitrato appunto la nullità del contratto. 6 Se più parti hanno contrattualmente stabilito di devolvere la decisione di determinate controversie alla competenza di un collegio arbitrale costituito da tre arbitri, da nominare ai sensi dell’art. 809 c.p.c., tale clausola compromissoria è valida solo se si accerta, in base al petitum e alla causa petendi, che i centri di interesse sono polarizzati in due soli gruppi omogenei, ossia in due parti, sì da giustificare l’applicazione di un meccanismo binario per la nomina degli arbitri (Cass. 19-12-2000, n. 15941; Cass. 6-7-2000, n. 9022).

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PARTE III – TUTELA DEI DIRITTI

Con D.L. 12.9.2014, n. 132, conv. con L. 10.11.2014, n. 162, è stata introdotta la c.d. translatio dinanzi agli arbitri delle cause pendenti davanti all’autorità giudiziaria, consentendosi alle parti, su concorde richiesta delle stesse e ricorrendo determinati presupposti, il trasferimento alla sede arbitrale di procedimenti civili pendenti dinanzi all’autorità giudiziaria che non hanno ad oggetto diritti indisponibili e che non vertono in materia di lavoro, previdenza e assistenza. L’arbitrato irrituale va stabilito dalle parti. Per l’art. 808 ter le parti possono, con disposizione espressa per iscritto, stabilire che, in deroga all’art. 824 bis, la controversia sia definita dagli arbitri mediante “determinazione contrattuale”. In tal caso gli arbitri agiscono come mandatari delle parti e il lodo è annullabile per vizi del consenso relativamente al lodo pronunciato 7.

3. Gli strumenti negoziali (mediazione e negoziazione assistita). – Sono tecniche di soluzione delle controversie che hanno in comune di svolgersi, al di fuori della giurisdizione, mediante una procedimentalizzazione su base negoziale che tende al raggiungimento di un accordo. La soluzione concordata delle controversie, in via immediata, tutela i soggetti dell’accordo e precipuamente i soggetti deboli, evitando estenuanti procedure giudiziarie per soddisfare le proprie ragioni; in via mediata, è di ausilio al mantenimento del tessuto sociale e, con riguardo alle imprese, consente alle stesse di pervenire celermente alla definizione delle operazioni economiche in corso e preservare la fidelizzazione. Sullo sfondo favorisce la deflazione giudiziaria, che è esigenza primaria del nostro paese. Le modalità di svolgimento delle due tecniche sono diverse. Mantengono il dato comune di non consentire l’inserimento di vicende circolatorie di beni immobili nei registri di pubblicità immobiliare senza l’intervento di pubblico ufficiale (notaio), che autentica le firme dei sottoscrittori. La necessità del notaio di compiere i controlli istituzionali anche quando è chiamato a “autenticare atti” (art. 28 l. not.), conferisce certezza alle risultanze della pubblicità 8. a) La mediazione è una tecnica negoziale finalizzata alla conciliazione attraverso la presenza e l’opera di un soggetto terzo indipendente, mediatore, che assicura serietà, professionalità e imparzialità. Il mediatore non decide (perciò si differenzia dall’arbitro) ma conduce la sequenza procedimentale dell’attività di mediazione, adoperandosi affinché le parti raggiungano un accordo amichevole di definizione della controversia; se richiesto, prospetta alle parti la soluzione. In qualche modo, c’è un processo ma non una decisione: le parti mantengono il controllo del procedimento che insieme vogliono. È una esperienza diffusa nel mondo anglosassone, che si svolge con diverse modalità: sono le c.d. procedure di risoluzione extragiudiziale delle controversie A.D.R. (Alternative Dispute Resolution), che tendono alla soluzione della controversa mediante la negoziazione. Tale tecnica di soluzione delle controversie è maturata in settori specifici, con la mediazione di enti pubblici in grado di procurare una definizione convenzionale delle controversie a 7

Cfr. Cass. 3-11-2021, n. 31245; Cass. 11-6-2019, n. 15665. In tema di procedura di negoziazione assistita tra avvocati, per procedere alla trascrizione dell’accordo di separazione contenente un atto negoziale comportante un trasferimento immobiliare, è necessaria l’autenticazione del verbale di accordo da parte di un pubblico ufficiale a ciò autorizzato (Cass. 21-1-2020, n. 1202). 8

CAP. 3 – TECNICHE ALTERNATIVE DI RISOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE

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presidio di soggetti considerati istituzionalmente deboli (ad es., con riguardo al rapporto di lavoro 9 e ai rapporti agrari 10). Si è quindi estesa a interi settori economici, ricevendo un generale impulso con la L. 9.12.1993, n. 580 (recante il riordinamento delle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura): l’art. 2 di tale legge, nel definirne le attribuzioni, prevede che le Camere di commercio, singolarmente o in forma associata, possono “promuovere la costituzione di commissioni arbitrali e conciliative per la risoluzione delle controversie tra imprese ovvero tra imprese e consumatori ed utenti” 11. Tale intervento ha favorito la formazione di una mentalità di approccio razionale e utile alla soluzione delle controversie, privilegiando di conseguire con l’accordo e in tempi brevi quanto sostanzialmente potrebbe ottenersi attraverso il processo in tempi molto più lunghi e con maggiori spese, oltre che con compromissione dei rapporti sociali. Un forte impulso al ricorso a tecniche conciliative è provenuto dalla direttiva 2008/52/CE del 21.5.2008 sulla mediazione in materia civile e commerciale 12, che ha considerato l’accordo di mediazione suscettibile di divenire titolo esecutivo, eseguibile in tutti gli Stati dell’Unione. Un terreno di sviluppo della mediazione è quello dei rapporti di consumo. Fondamentale il D.Lgs. 6.8.2015, n. 130, che ha recepito la direttiva 2013/11/EU sulla risoluzione alternativa delle controversie dei consumatori, istituendo presso le Autorità deputate (AGCOM e ARERA) gli elenchi degli Organismi autorizzati alla gestione delle procedure ADR. Con D.Lgs. 4.3.2010, n. 28, come modificato dal D.L. 21.6.2013, n. 69, conv. con modif. dalla L. 9.8.2013, n. 98, si è data ingresso, in generale, alla “mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali”, vertente su diritti disponibili (art. 2), da svolgersi presso organismi pubblici o privati 13. Per alcune materie è stato reso obbligatorio l’esperimento del procedimento di mediazione come condizione di procedibilità della domanda giudiziale 14. Al primo incontro e agli incontri successivi, fino al ter9 Nelle controversie individuali di lavoro chi intendeva proporre domanda giudiziaria era tenuto a promuovere preventivamente il tentativo obbligatorio di conciliazione innanzi alla commissione provinciale di conciliazione presso l’ufficio provinciale del lavoro competente, come condizione di procedibilità della domanda (art. 412 bis c.p.c., abrogato dall’art. 31 L. 4.11.2010, n. 183). 10 Per le controversie in materia di contratti agrari, chi intende proporre una domanda giudiziaria è tenuto a darne preventiva comunicazione all’altra parte e all’ispettorato provinciale dell’agricoltura competente per territorio, il quale, previa convocazione delle associazioni professionali di categoria, esperisce il tentativo di conciliazione della vertenza (art. 46 L. 3.5.1982, n. 203). 11 Le Camere di commercio, qualificate come “enti autonomi di diritto pubblico” (art. 2), sono dotate di specifici regolamenti della “camera arbitrale” e della “camera di conciliazione”. 12 La direttiva è applicabile alle sole controversie transfrontaliere, cioè tra parti abitualmente domiciliate o residenti in Stati comunitari diversi (art. 2). Ma nulla vieta agli Stati membri di applicarla anche a controversie interne (considerando n. 8). 13 Il D.M. 18.10.2010, n. 180, del Ministro della giustizia, come modificato dal D.M. 6.7.2011, n. 145, reca il regolamento di determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione delle indennità spettanti agli organismi. 14 La condizione di procedibilità opera in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari (art. 51bis). L’azione revocatoria, avendo solo l’effetto di rendere insensibile nei confronti dei creditori l’atto dispositivo patrimoniale del debitore, non è assoggettata a mediazione obbli-

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PARTE III – TUTELA DEI DIRITTI

mine della procedura, le parti devono partecipare con l’assistenza di un avvocato (art. 8). Dell’accordo si redige processo verbale 15, che costituisce titolo esecutivo, anche per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale; gli avvocati attestano e certificano la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico (art. 12). Sono soggetti a trascrizione gli accordi di mediazione che accertano l’usucapione, con la sottoscrizione del processo verbale autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato (art. 2643, n. 12 bis). Meccanismi conciliativi sono stati introdotti anche all’interno della giurisdizione 16. Un incerto e contraddittorio meccanismo di mediazione, di dubbia costituzionalità, è stato introdotto in materia tributaria, per non svolgersi la procedura davanti ad un soggetto terzo, ma innanzi alla stessa amministrazione finanziaria 17. b) La negoziazione assistita ha trovato ingresso con il D.L. 12.9.2014, n. 132, conv. con modif. con L. 10.11.2014, n. 162, recante misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile. È una tecnica che prevede l’intervento obbligatorio degli avvocati ma non la presenza di un soggetto terzo, il mediatore. Perciò la negoziazione è affidata alla professionalità e alla responsabilità dei soli avvocati. La convenzione di negoziazione è un accordo mediante il quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l’assistenza di avvocati iscritti all’albo (art. 2). L’accordo che compone la controversia, sottoscritto dalle parti e dagli avvocati che le assistono, costituisce titolo esecutivo anche per l’iscrizione di ipoteca giudiziale; gli avvocati certificano l’autografia delle firme e la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico. Una disciplina specifica è prevista per la soluzione consensuale di separazione e divorzio (art. 6), di cui si parlerà in seguito (V, 3.2). gatoria (Cass. 23-9-2021, n. 25855). Nelle controversie soggette a mediazione obbligatoria ex art. 51bis i cui giudizi vengano introdotti con decreto ingiuntivo, una volta instaurato il relativo giudizio di opposizione e decise le istanze di concessione o sospensione della provvisoria esecuzione del decreto, l’onere di promuovere la procedura di mediazione è a carico della parte opposta (attore in senso sostanziale); ove questa non si attivi, consegue la revoca del decreto ingiuntivo (Cass., sez. un., 18-9-2020, n. 19596). La mediazione può avvenire pure su ordine dell’autorità giudiziaria: il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione; in tal caso, l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello (art. 52). 15 Se è raggiunto l’accordo amichevole ovvero se tutte le parti aderiscono alla proposta del mediatore, si forma processo verbale che deve essere sottoscritto dalle parti e dal mediatore, il quale certifica l’autografia della sottoscrizione delle parti o la loro impossibilità di sottoscrivere. Se con l’accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti previsti dall’art. 2643 c.c., per procedere alla trascrizione dello stesso la sottoscrizione del processo verbale deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato (art. 113). 16 È previsto un tentativo di conciliazione del G.I. in caso di richiesta congiunta delle parti (art. 185 c.p.c.). Quando è necessario un esame contabile, il G.I. può affidare al CTU il compito di tentare la conciliazione (art. 198 c.p.c.). È stata introdotta una misura cautelare più snella ai fini della composizione della lite, facendo obbligo al CTU di tentare, ove possibile, la conciliazione delle parti (art. 696 bis c.p.c.). 17 L’art. 17 bis D.Lgs. 31.12.1992, n. 546 (inserito dal D.L. 6.7.2011, n. 98, conv. con L. 15.7.2011, n. 111 e da ultimo così sostituito dal D.Lgs. 24.9.2015, n. 156), per prevenire le liti minori, prevede la proposizione di istanza di reclamo-mediazione avverso l’operato dell’ente impositore: la procedura di mediazione deve svolgersi presso lo stesso soggetto impositore, sebbene mediante strutture diverse e autonome da quelle che curano l’istruttoria degli atti reclamabili, come condizione di procedibilità innanzi alle Commissioni tributarie.

CAP. 3 – TECNICHE ALTERNATIVE DI RISOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE

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4. L’autotutela. – Con il termine “autotutela” si tende, in generale, a indicare il potere di soluzione di conflitti potenziali o attuali ad opera dei soli soggetti del rapporto, senza il ricorso alla giurisdizione e dunque al processo. È però questa una rappresentazione in negativo dell’autotutela (quale tutela non giudiziaria) che coinvolge tutte le forme di soluzione delle controversie senza una decisione (di un giudice o di un arbitro), cui sono assimilabili anche le procedure sopra viste di degiurisdizionalizzazione. Il tratto caratterizzante dell’autotutela in positivo è da ricercare nella possibilità accordata al singolo soggetto del rapporto giuridico di realizzare la protezione diretta dei propri interessi verso l’altro soggetto del rapporto, senza l’intervento di un terzo, né in veste di decisione (giudice o arbitro) né in veste di mediatore (conciliatore), e neppure attraverso l’azione degli avvocati (negoziazione assistita). A differenza del codice civile tedesco, che contiene una disciplina generale dell’autotutela privata (§§ 229-231, 323, 441 BGB), il codice civile fissa specifiche misure di autotutela in tema di possesso (autotutela possessoria) (VI, 5.5) e nella materia dei contratti (autotutela contrattuale) (VIII, 10.3). Il fenomeno ha avuto larga elaborazione ed applicazione nel diritto pubblico, come autotutela amministrativa decisoria 18, funzionale all’interesse pubblico. Se l’interesse attuato si appartiene a un soggetto privato, vi è autotutela privata, rivolta al soddisfacimento di un interesse particolare (individuale o collettivo). Ad ovviare al pericolo che l’autotutela (sia amministrativa che privata) possa degenerare nell’abuso degli strumenti accordati, è consentito il ricorso all’autorità giudiziaria perché valuti il ricorso dei presupposti dell’autotutela e la legittimità dell’esercizio rispetto all’interesse attuato, perché anche l’autotutela deve avvenire secondo tecniche previste dalla legge e in osservanza dei principi fondamentali (di legalità, buona fede e solidarietà).

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È riconosciuto alla P.A. il potere di correggere con strumenti autoritativi e dunque di ufficio propri provvedimenti in ragione dell’interesse pubblico. Ai sensi degli artt. 21 quinquies e 21 nonies L. 7.8.1990, n. 241, e successive modifiche, le forme essenziali dell’autotutela decisoria sono la revoca del provvedimento per inopportunità e l’annullamento del provvedimento per illegittimità. Di tale normativa si è fatta applicazione anche in diritto tributario, dove è egualmente ammessa istanza di autotutela verso l’ente pubblico impositore (Amministrazione finanziaria e Enti locali).

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PARTE III – TUTELA DEI DIRITTI

ISTITUTI SOMMARIO: PARTE IV.

SOGGETTI. – Cap. 1. Persona fisica. – Cap. 2. Diritti della personalità. – Cap. 3. Enti. PARTE V. FAMIGLIA. – Cap. 1. Famiglia e ordinamento giuridico. – Cap. 2. Matrimonio. – Cap. 3. Crisi coniugale. – Cap. 4. Filiazione. PARTE VI. PROPRIETÀ E DIRITTI REALI. – Cap. 1. Proprietà. – Cap. 2. Acquisto e tutela della proprietà. – Cap. 3. Diritti reali di godimento su cosa altrui. – Cap. 4. Comunione e condominio. – Cap. 5. Possesso. PARTE VII. OBBLIGAZIONI. – Cap. 1. Rapporto obbligatorio (Caratteri e tipologie). – Cap. 2. Modificazioni del rapporto obbligatorio (Vicende modificative). – Cap. 3. Estinzione del rapporto obbligatorio (Vicende estintive). – Cap. 4. Inadempimento e mora (Responsabilità e risarcimento). – Cap. 5. Responsabilità patrimoniale e garanzie del credito (Garanzia generica del credito). – Cap. 6. Cause legittime di prelazione (Garanzie specifiche del credito). – Cap. 7. Estensione della responsabilità patrimoniale (Le garanzie del terzo). – 8. Gestione della debitoria (Crisi di impresa e sovraindebitamento). PARTE VIII. CONTRATTO. – Cap. 1. Autonomia contrattuale. – Cap. 2. Conclusione. – Cap. 3. Contenuto. – Cap. 4. Forma. – Cap. 5. Regolamento contrattuale. – Cap. 6. Efficacia. – Cap. 7. Esecuzione. – Cap. 8. Sostituzione nell’attività giuridica. – Cap. 9. Anomalie genetiche (Difetti della formazione). – Cap. 10. Anomalie sopravvenute (Difetti dell’attuazione). PARTE IX. SINGOLI CONTRATTI. – Cap. 1. Contratti di alienazione di beni. – Cap. 2. Contratti di prestazione d’opera o di servizi. – Cap. 3. Contratti di cooperazione giuridica. – Cap. 4. Contratti di godimento. – Cap. 5. Contratti aleatori. – Cap. 6. Contratti risolutivi di una controversia. PARTE X. FATTI ILLECITI E RESPONSABILITÀ CIVILE. – Cap. 1. Struttura del fatto illecito. – Cap. 2. Risarcimento del danno. PARTE XI. ALTRE FONTI DI OBBLIGAZIONE. – Cap. 1. Atti e fatti diversi da contratto e fatto illecito. – Cap. 2. Titoli di credito. PARTE XII. SUCCESSIONI PER CAUSA DI MORTE. – Cap. 1. Successione in generale. – Cap. 2. Criteri di vocazione. – Cap. 3. Diritti dei legittimari. – Cap. 4. Comunione e divisione ereditaria. PARTE XIII. DONAZIONI. – Cap. 1. Contratto di donazione. – Cap. 2. Altri atti di liberalità. PARTE XIV. PUBBLICITÀ. – Cap. 1. Pubblicità in generale. – Cap. 2. La pubblicità immobiliare e dei mobili registrati.

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PARTE IV – SOGGETTI

CAP. 1 – PERSONA FISICA

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PARTE IV

SOGGETTI

CAPITOLO 1

PERSONA FISICA

Sommario: A) PERSONA FISICA E CAPACITÀ GIURIDICA. – 1. Capacità giuridica. – 2. Acquisto della capacità giuridica. Il concepito. – 3. Fine della persona. – 4. Scomparsa, assenza e morte presunta. – 5. Localizzazione della persona. – B) CAPACITÀ DI AGIRE. – 6. Capacità di agire. – 7. Minore. – 8. Responsabilità genitoriale. – 9. Tutela. – 10. Emancipazione. – 11. Cause modificative della capacità di agire e protezione dell’incapace. – 12. Interdizione giudiziale. – 13. Inabilitazione. – 14. Amministrazione di sostegno. – 15. Interdizione legale. – 16. Incapacità naturale.

A) PERSONA FISICA E CAPACITÀ GIURIDICA 1. Capacità giuridica. – La capacità giuridica è l’attitudine ad essere titolare di situazioni giuridiche soggettive. Quella di capacità giuridica è qualificazione normativa, legata ad una valutazione dell’ordinamento giuridico. Si tratta, cioè, di una qualità di carattere generale e astratto, il cui riconoscimento rende chi ne è investito possibile centro di imputazione di diritti e di obblighi: come tale, essa vale a definire la posizione, nell’ordinamento, del soggetto di diritto. A differenza che per la capacità di agire nell’art. 2, il legislatore, nell’art. 1, appunto intitolato alla “capacità giuridica”, non offre elementi testuali per chiarirne il concetto, dandolo, evidentemente, per scontato, quale attributo fondamentale della persona umana, nella sua veste di protagonista dell’esperienza giuridica (II, 1.1-2). Non a caso, di personalità giuridica il codice parla solo a proposito delle entità diverse dalla persona umana (le persone giuridiche), in relazione alle quali disciplina le specifiche modalità di attribuzione della soggettività giuridica, che viene ricollegata, invece, naturalmente e direttamente all’esistenza stessa della persona fisica (alle “persone fisiche” è intitolato il titolo I del libro I del codice). Il carattere del tutto scontato del collegamento tra capacità giuridica ed esistenza della persona fisica (cioè dell’uomo) risulta, in particolare, dall’art. 11, che vale a dimostrare come al legislatore, proprio in considerazione di ciò, prema sem-

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PARTE IV – SOGGETTI

plicemente individuare il momento dell’acquisto della capacità giuridica in relazione, appunto, alla venuta ad esistenza dell’uomo. L’idea che l’essere umano sia, in quanto tale, considerato soggetto di diritto (e, quindi, giuridicamente capace) rappresenta, nonostante il carattere per noi attualmente scontato, conquista di civiltà rispetto a tempi ormai lontani (ma neppure troppo in ambiti geografici diversi), in cui non si esitava, ricorrendo talune circostanze, a trattare l’uomo stesso (se schiavo) alla stregua di entità materiale, non potenziale titolare di proprie situazioni giuridiche, ma possibile oggetto di diritti e di atti di disposizione altrui. La capacità giuridica assume, insomma, il carattere di profilo essenziale della condizione di persona umana, di attributo che non può essere negato, per il necessario rispetto di quella dignità dell’uomo, la cui inviolabilità risulta significativamente dichiarata nell’art. 1 Carta dir. fond. U.E.: dignità di ogni uomo e, quindi, al passato appartiene pure l’esperienza della possibile perdita della capacità giuridica per causa diversa dalla morte, sia pure in dipendenza di comportamenti reputati dall’ordinamento particolarmente riprovevoli, con conseguenti gravissime condanne (c.d. morte civile). L’art. 22 Cost., con lo stabilire che “nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica” (così come della “cittadinanza” e del “nome”, quali attributi reputati, dunque, nel loro complesso salvaguardare l’individualità della persona nella società) si muove proprio in una simile prospettiva, in coerente applicazione del fondamentale principio di eguaglianza, fermamente proclamato dall’art. 3 Cost. Sembra dato cogliere, qui, l’ansia dei costituenti di impedire che l’idea di una certa graduabilità – pur sempre nell’ambito della riconosciuta soggettività – della capacità giuridica possa giustificare limitazioni della capacità giuridica stessa, in aperto contrasto, appunto, col principio di eguaglianza (cui ripugna qualsiasi “distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”) (II, 1.2). Fin troppo recente, in effetti, era l’esperienza delle odiose discriminazioni razziali operate dallo stesso codice civile del 1942, demandando, con l’art. 13 (abrogato dall’art. 1 R.D.L. 20.1.1944, n. 25), alla legislazione speciale “le limitazioni alla capacità giuridica derivanti dall’appartenenza a determinate razze”. Né si può dimenticare come, storicamente, sia stato il sesso ad essere fonte di gravissime limitazioni di capacità giuridica. Anche tralasciando la discriminazione della donna nell’esercizio dei diritti di natura pubblicistica, come il diritto di voto e l’accesso a pubbliche funzioni e carriere (ancora col R.D. 4.1.1920, n. 39), è da ricordare come le fosse preclusa la stessa facoltà di intervenire quale testimone negli atti pubblici e privati (preclusione rimossa con la L. 9.12.1877, n. 4167) 1, trovandosi, 1 La tendenza attuale dell’ordinamento ad intervenire (nel quadro della piena attuazione del principio di eguaglianza, in senso formale e sostanziale, secondo l’enunciazione contenuta nei due commi dell’art. 3 Cost.), onde rimuovere le discriminazioni fondate sul sesso in campo lavorativo, è ben attestata col passaggio dalla prospettiva della L. 9.12.1977, n. 903, sulla “parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro”, a quella della L. 10.4.1991, n. 125, concernente le “azioni positive per la realizzazione della parità uomodonna nel lavoro”. Più di recente, il D.Lgs. 9.7.2003, n. 216 (in attuazione della direttiva 2000/78/CE, “per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”) reca una serie di disposizioni relative all’attuazione della parità di trattamento fra le persone, disponendo misure necessarie affinché non siano operate discriminazioni fondate sulla religione, sulle convinzioni personali, sugli handicap, sull’età e sull’orientamento sessuale, “in un’ottica che tenga conto anche del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini” (art. 1). L’intervento ha inteso assumere carattere sistematico col D.Lgs. 11.4.2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), finalizzato “ad eliminare ogni di-

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poi, la moglie in una situazione di sostanziale incapacità nello svolgimento dell’attività economica (l’istituto dell’autorizzazione maritale fu eliminato solo dalla L. 17.7.1919, n. 1176, intitolata, appunto, alla “capacità giuridica della donna”). Notevoli limitazioni di capacità giuridica, inoltre, ancora nel sistema del codice civile del 1942, gravavano sui figli nati fuori del matrimonio, in particolare, in materia successoria (e i figli irriconoscibili – V, 4.4 – non potevano neppure ricevere donazioni dal genitore: art. 780). Pure la tradizionale contrapposizione ad una capacità generale – esclusa la concepibilità di una incapacità generale per la persona umana – di particolari ipotesi di incapacità speciali, da intendere come preclusione della possibile titolarità, da parte del soggetto, di determinate situazioni giuridiche, non deve, insomma, risultare occasione di discriminazioni. Incapacità speciali possono essere legittimamente previste, ove razionalmente fondate sulla natura del rapporto e degli interessi in gioco in esso 2. Significative ipotesi di incapacità (di carattere relativo), conseguentemente sanzionate dalla nullità di quanto posto in essere trasgredendo le disposte preclusioni, sono rappresentate da quella dei pubblici ufficiali, i quali non possono essere acquirenti, né direttamente né per interposta persona, dei beni che sono venduti per loro ministero (art. 1471, n. 2), da quella del notaio che abbia ricevuto il testamento (e dei testimoni intervenuti ad esso) (art. 597), nonché dai divieti di rendersi cessionari di diritti, gravante sugli operatori della giustizia (magistrati, cancellieri, avvocati, ecc.) (art. 1261). Di capacità giuridica sono dotati anche i soggetti di diritto diversi dalle persone fisiche (persone giuridiche ed enti non riconosciuti), non solo per quanto concerne le situazioni soggettive di contenuto patrimoniale, ma anche per taluni diritti di natura non patrimoniale (diritti della personalità) (IV, 3.5). È evidente, peraltro, che gli enti non possono, per loro natura, essere titolari delle situazioni soggettive che presuppongono l’attributo della fisicità della persona (ad es., le situazioni soggettive di natura familiare) 3.

2. Acquisto della capacità giuridica. Il concepito. – Oggetto di un dibattito probabilmente destinato a non perdere, in futuro, i forti toni da cui è da sempre caratterizzato, stinzione, esclusione o limitazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza, o come scopo, di compromettere o di impedire il riconoscimento, il godimento o l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo” (art. 1). In una prospettiva antidiscriminatoria deve essere visto anche l’intervento operato, in materia penale, con la L. 19.7.2019, n. 69, concernente la “tutela delle vittime di violenza domestica e di genere” (nota come “Codice rosso”). È da tenere presente come l’art. 21 Carta dir. fond. U.E. allarghi, in via generale, la sfera del divieto di discriminazione, al di là del sesso, all’orientamento sessuale (notevole attualità rivestendo anche il riferimento alle caratteristiche genetiche). 2 Non tanto alla capacità giuridica, quanto alla capacità di agire, sembrano da ricondurre le limitazioni ricollegate, in particolare, all’età, anche quando esse si risolvano nell’impossibilità, per il soggetto, di compiere determinati atti giuridici ed essere parte dei rapporti che ne scaturiscono (si pensi alle preclusioni in materia lavorativa, matrimoniale e testamentaria). 3 In tale prospettiva, evidenzia Cass. 21-9-2015, n. 18449, che “le società hanno la capacità giuridica generale di essere parte di qualsiasi atto o rapporto giuridico, tranne quelli che presuppongano l’esistenza di una persona fisica, tra i quali non rientra il contratto di donazione”. Peraltro, pare il caso di avvertire, fin d’ora, come anche la stessa giurisprudenza non manchi di sottolineare che “il soggetto di diritto non umano, risultante da un processo di assimilazione di un ente alla persona fisica”, si presenta, comunque, “caratterizzato da una capacità giuridica più ristretta, e quindi in certo senso imperfetta, rispetto a quella della persona fisica … la quale costituisce il soggetto di diritto per eccellenza” (Cass. 16-11-1976, n. 4252).

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PARTE IV – SOGGETTI

per le scelte ideologiche ed i valori che risulta atto a mettere in gioco, si presenta il senso da attribuire, in relazione al problema del riconoscimento della capacità giuridica, alla controversa formulazione dell’art. 12. Dibattito che tende, oggi, ad assumere profili di indubbia novità, in conseguenza di quei progressi scientifici, i quali – talvolta in modo inquietante – investono l’inizio della vita umana, in particolare ponendo di fronte l’ordinamento ad inevitabili opzioni circa la condizione giuridica da riconoscere al concepito e all’embrione. Ai sensi dell’art. 11, la persona fisica acquista la capacità giuridica al momento della nascita. Contrariamente al passato (art. 724 cod. civ. 1865 e ancora oggi, in Francia, art. 725 code civil), non è richiesto, ai fini dell’acquisto della capacità giuridica, anche il requisito della vitalità (ovvero l’idoneità alla sopravvivenza), ma è sufficiente che il neonato sia nato vivo, anche solo per un istante. Pure un così breve periodo di vita vale a rendere il nato titolare di eventuali diritti, quali, in particolare, quelli che erano stati riconosciuti a suo favore come nascituro, trasmettendoli, a sua volta, ad altri (ai suoi eredi legittimi). Peraltro, la legge non definisce l’evento della nascita, affidandosi, di conseguenza, alle elaborazioni medico-legali, per cui decisivo si reputa l’accertamento dell’avvenuta respirazione (docimasia polmonare). Risulta quasi inutile sottolineare come, anche riguardo al momento della nascita, l’applicazione delle nuove tecniche mediche si presenti suscettibile di dare luogo a questioni in passato sconosciute. Il problema della condizione giuridica del nascituro si pone in dipendenza dell’art. 12, il quale, testualmente, subordina i diritti che la legge riconosce a favore del concepito all’evento della nascita. Il riferimento si intende operato, in particolare, alla prevista capacità di succedere del concepito (art. 4621), nonché alla possibilità che gli siano fatte donazioni (art. 7841). Ma il dibattito relativo alla situazione giuridica del nascituro si è via via arricchito, in conseguenza del riconoscimento della rilevanza di ulteriori interessi, di natura personale, riferibili all’essere umano già nella fase anteriore alla nascita. Parte della dottrina, in relazione alla situazione del concepito, pur riconoscendo che manchi attualmente la capacità giuridica generale, accenna ad una capacità giuridica parziale, di carattere anticipato o provvisorio. Tende a prevalere, comunque, la tesi secondo cui, invece, il concepito risulta del tutto privo di capacità giuridica, in quanto la medesima si acquista solo al momento della nascita e, prima di essa, non esiste il soggetto (pur destinatario dei diritti dianzi accennati): per il periodo anteriore, vi sarebbe solo una situazione di attesa e l’ordinamento si limiterebbe a predisporre, in considerazione della destinazione al concepito, una forma di tutela anticipata dei diritti che questi potrebbe acquistare al momento della nascita 4. Una simile conclusione, pur presentandosi sostanzialmente corretta con riferimento alla titolarità di situazioni giuridiche di carattere patrimoniale, non può far trascurare l’indubbia rilevanza che l’ordinamento riconosce all’interesse del concepito dal punto di vista della sua aspettativa non solo a nascere, ma anche a nascere sano. Sotto tale ultimo profilo, allora è stato ammesso, a favore di chi abbia subito danni allo stato fetale, il di4 Si è già ricordato (II, 3.8), come la situazione giuridica del nascituro, con riguardo alla materia successoria, sia stata ricondotta anche alla figura dell’aspettativa giuridica, per il carattere essenzialmente conservativo e provvisorio che si è ravvisato nella tutela accordatagli dall’ordinamento.

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ritto ad essere risarcito per i pregiudizi che gliene siano derivati 5. Ciò perché l’individuo trova tutela, nel nostro ordinamento, fin dal suo concepimento, con una indubbia rile5

Secondo la giurisprudenza (ad es., Cass. 22-11-1993, n. 11503), il soggetto, una volta acquistata, con la nascita, la capacità giuridica, può chiedere il risarcimento per le conseguenze dei danni sofferti nel periodo in cui si trovava ancora allo stato fetale (nel caso di specie, si trattava della negligente assistenza al parto da parte dei medici di un ospedale). Il principio è del tutto pacifico, problematica, ovviamente, risultando la concreta liquidazione del risarcimento spettante (ad es., Cass. 12-4-2018, n. 9048, con riguardo al danno patrimoniale da soppressione della capacità lavorativa). Chiarito che l’ordinamento garantisce, tutelando l’individuo fin dal suo concepimento, “se non un vero e proprio diritto alla nascita, che sia fatto il possibile per favorire la nascita e la salute”, la tutela così accordata non è riferita, peraltro, al feto in quanto tale (pur affermandosi, comunque, che “non può essere legittimamente contestata al concepito” la sua qualità di “centro di interessi giuridicamente tutelato”), bensì al nato ed al “suo diritto ad essere e rimanere integro, anche se attraverso le prestazioni da effettuarsi anteriormente alla nascita”. La giurisprudenza ha precisato che non è “configurabile un ‘diritto a non nascere’ o a ‘non nascere se non sano’”, tutelando l’ordinamento “il concepito e l’evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita e non verso la ‘non nascita’” ed “essendo configurabile un ‘diritto a nascere’ e a ‘nascere sani’, suscettibile di essere inteso esclusivamente nella sua positiva accezione … nel senso che nessuno può procurare al nascituro lesioni o malattie” (così, Cass. 14-7-2006, n. 16123, secondo l’impostazione di Cass. 29-7-2004, n. 14488). Esiti sostanzialmente non dissimili, sul piano risarcitorio, sono quelli cui giunge Cass. 11-5-2009, n. 10741, che si muove, però, nella prospettiva di una vera e propria “autonoma soggettività giuridica” del concepito e di un suo conseguente “diritto a nascere sano”. La tutela risarcitoria di chi sia stato leso durante la vita fetale, di recente, è stata senz’altro ricondotta – negando la necessità di postulare la sussistenza di un “diritto a nascere sano” e la stessa “esigenza di ravvisare la soggettività giuridica del concepito” – semplicemente al “diritto del nato al risarcimento per il patito danno alla salute” (Cass. 3-5-2011, n. 9700). In sostanziale sviluppo di tale ultima prospettiva, poi, si è concluso che “la protezione del nascituro”, pur “inteso come oggetto di tutela e non anche come soggetto di diritto”, implica – restando del tutto irrilevante la configurabilità o meno di un “diritto a non nascere se non sano” – la (fin qui negata dalla giurisprudenza) “legittimazione attiva del neonato in proprio all’azione di risarcimento”, nel caso di “nascita malformata” in dipendenza di “errore medico che non ha evitato (o ha concorso a non evitare) la nascita malformata, evitabile, senza l’errore diagnostico, in conseguenza della facoltà di scelta della gestante”, nel senso “di esercitare il suo diritto all’aborto” (Cass. 2-10-2012, n. 16754, che individua “l’evento di danno”, appunto, nella “‘nascita malformata’, intesa come condizione dinamica dell’esistenza riferita ad un soggetto di diritto attualmente esistente”). Circa l’atteggiarsi della – reputata necessaria – prova che, “nella situazione ipotetica data”, la donna “avrebbe effettivamente optato per l’interruzione della gravidanza”, ulteriori considerazioni sono sviluppate in Cass. 22-3-2013, n. 7269. Per superare ogni contrasto giurisprudenziale sulla “tematica del c.d. danno da nascita indesiderata”, Cass. ord. 23-2-2015, n. 3569, ha sollecitato l’intervento delle sezioni unite in ordine alle questioni del riparto dell’onere probatorio e della legittimazione del nato alla richiesta di risarcimento. Cass., sez. un., 22-12-2015, n. 25767, da una parte, ha ammesso la possibilità di assolvere all’accennato onere probatorio gravante sulla madre attraverso il meccanismo presuntivo (di cui all’art. 2729), dovendosi, in proposito, valorizzare le “circostanze contingenti emergenti dai dati istruttori raccolti” (e ferma restando, per il professionista, “la prova contraria che la donna non si sarebbe determinata comunque all’aborto”: v. anche Cass. 31-10-2017, n. 25849); dall’altra, ha sottolineato che “alla tutela del nascituro si può pervenire … senza postularne la soggettività”, non escludendo l’“ammissibilità dell’azione del minore volta al risarcimento di un danno che assume ingiusto, cagionatogli durante la gestazione”, ma, al contempo, anche sulla base di un’ampia analisi comparatistica della problematica, escludendo – dal punto di vista del “contenuto del diritto che si assume leso” (e, quindi, della carenza di una legittimazione del nato alla relativa richiesta) – che possa prendersi in considerazione, ai fini risarcitori, “un diritto a non nascere” (un diritto, cioè, “alla non vita”) o a “non nascere se non sano”. Peraltro, anche in mancanza della prova che “se adeguatamente informata, la madre avrebbe scelto di abortire”, Cass. 28-2-2017, n. 5004, radica la possibilità di risarcimento nell’essere stati “i genitori privati della possibilità di prepararsi ad accogliere un bambino che presenti problemi di salute particolari” (sulla linea di Cass. 7269/2013, che aveva appunto alluso alla rilevanza, a fini risarcitori, anche solo della frustrazione dell’esigenza dei genitori di “prepararsi psicologicamente e materialmente”). Sotto un profilo differente da quello fin qui considerato, correntemente riconosciuto è il diritto del soggetto nato dopo l’uccisione del padre durante la gestazione al risarcimento del danno (patrimoniale e non patrimoniale) per la perdita del relativo rapporto (Cass. 10-3-2014, n. 5509).

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PARTE IV – SOGGETTI

vanza giuridica della vita fetale in quanto tale, secondo quanto è stato affermato dalla giurisprudenza costituzionale 6 e sancito dal legislatore. Significativamente, la stessa disciplina sull’interruzione volontaria della gravidanza (L. 22.5.1978, n. 194) muove dall’affermazione della necessaria “tutela della vita umana dal suo inizio” (art. 1) 7, con la conseguenza che il diritto alla vita del concepito risulta destinato a cedere solo entro limiti rigorosamente predeterminati e sulla base di un giudizio di bilanciamento con i diritti fondamentali della gestante (alla salute fisica o psichica, ovvero, addirittura, alla vita: artt. 4 e 6). Si è andata facendo strada, così, l’idea che alla qualità di uomo, che compete anche al feto (con conseguente invocabilità della garanzia di cui all’art. 2 Cost.), sia ricollegata dall’ordinamento una soggettività riferita – al di fuori della prospettiva patrimonialistica propria della capacità giuridica e del relativo riconoscimento – ai diritti (di natura personale) legati alla sfera esistenziale 8. Prospettiva questa, nella quale potrebbe, allora, senza conseguenze dirompenti per il sistema complessivo dei principi in materia di capacità, essere ora letta l’esplicita inclusione pure del concepito nel novero dei “soggetti coinvolti” nel ricorso alla procreazione medicalmente assistita (art. 11 L. 19.2.2004, n. 40) 9. Il ri6 Si ricordi come il rilievo costituzionale della tutela del concepito abbia avuto modo di essere affermato, proprio in relazione ai limiti di legittimità dell’aborto, da Corte cost. 18-2-1975, n. 27, per la quale essa trova fondamento nell’art. 2 Cost. che “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali non può non collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione del concepito”. Di qui, una volta sottolineato che, comunque, “non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora divenire”, il necessario ancoraggio della liceità dell’aborto “ad una previa valutazione della sussistenza delle condizioni atte a giustificarla”. La Corte costituzionale, successivamente (10-2-1997, n. 35), ha confermato tale impostazione, dichiarando inammissibile la proposta referendaria tendente (attraverso l’abrogazione di una serie di articoli della L. 194/1978) a rendere totalmente disponibile, da parte della gestante, l’interruzione della gravidanza nei primi 90 giorni, “anche in ordine alla sorte degli interessi costituzionalmente rilevanti in essa coinvolti” (data, appunto, la necessità almeno di “assicurare il livello minimo di tutela dei diritti inviolabili” in gioco, quali sono quelli del concepito). Circa il carattere rigoroso dei limiti posti alla facoltà di ricorrere all’interruzione della gravidanza dopo i 90 giorni (in particolare, ai fini della sussistenza del richiesto “grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna” in dipendenza di “rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro”, nel caso di specie esclusa per una malformazione consistente nella “mancanza della mano sinistra”), Cass. 11-4-2017, n. 9251. Alla rilevanza, ai fini della eventuale ricorrenza del grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, pure della conoscenza “di processi patologici che possono provocare, con apprezzabile grado di probabilità, rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro”, allude Cass. 15-1-2021, n. 653. Si tenga presente come il diritto di scegliere se interrompere la gravidanza – nei limiti, appunto, in cui ciò risulta consentito – viene garantito con l’attribuzione, in caso di “nascita indesiderata” conseguente ad erronea diagnosi o esecuzione del relativo intervento, del risarcimento del danno “sofferto da entrambi i genitori per la lesione della loro libertà di autodeterminazione, da riconoscersi in relazione alle negative ricadute esistenziali” che ne derivano (Cass. 29-1-2018, n. 2070; Cass. 5-2-2018, n. 2675, che incentra l’attenzione, a fini risarcitori, sulla posizione anche del padre). 7 Significativamente, l’art. 16 code civil, come risultante ai sensi della L. 94-653 del 29.7.1994, garantisce “il rispetto dell’essere umano dall’inizio della sua vita”. 8 Ad una simile nozione soggettività sembra riferirsi anche Cass. 10741/2009 (peraltro reputata sostanzialmente inutile, ai fini risarcitori, da Cass. 16754/2012), ove allude alla titolarità, da parte del concepito, “di alcuni interessi personali in via diretta”, nella prospettiva di una nozione di “soggettività giuridica … più ampia di quella di capacità giuridica delle persone fisiche (che si acquista con la nascita ex art. 1 c.c.)” (cfr. II, 1.1). 9 Della legge – su cui v. pure IV, 2.5 e V, 4.6 – è stato sollecitato il vaglio popolare mediante referendum. Ammesso in relazione a taluni aspetti della disciplina introdotta (anche con riguardo proprio alla situazione giuridica del concepito, ai sensi dell’art. 1) da Corte cost. 28-1-2005, nn. 45, 46, 47, 48 e 49, il mancato raggiungimento del prescritto quorum di elettori votanti ha impedito la relativa validità (12 e 13-6-2005). Una questione di

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conoscimento all’individuo (cui si riferisce l’art. 321 Cost.) concepito del diritto alla dignità e alla identità, in particolare, sembra trovare fondamento – oltre che in una rigorosa disciplina della sperimentazione scientifica sull’embrione – nel divieto di pratiche eugenetiche e della clonazione riproduttiva (art. 32 Carta dir. fond. U.E.; art. 133, lett. c, L. 40/2004). Quanto, poi, al diritto alla vita e alla salute del concepito (e, quindi, anche dell’embrione, una volta impiantato in utero a seguito di procreazione assistita), esso si è visto cedere solo in conseguenza di un opportuno bilanciamento con i diritti fondamentali della gestante 10. legittimità costituzionale risulta successivamente sollevata da Trib. Cagliari ord. 16-7-2005, con riferimento all’art. 13, “nella parte in cui fa divieto di ottenere, su richiesta dei soggetti che hanno avuto accesso alle tecniche di procreazione assistita, la diagnosi preimpianto sull’embrione ai fini dell’accertamento di eventuali patologie”. Avendo la Corte costituzionale (ord. 9-11-2006, n. 369), senza entrare nel merito, dichiarato manifestamente inammissibile la questione, Trib. Cagliari 24-9-2007 è giunto, in via interpretativa, ad ammettere l’accertamento diagnostico in questione, ritenendo, in particolare, non ostativi i relativi pericoli per l’embrione, sulla base dell’asserzione che “la disciplina dettata non prevede per l’embrione una tutela assoluta”, ma un “bilanciamento tra i contrapposti interessi”, prevalendo, “in certi casi, i diritti costituzionalmente garantiti dei soggetti che alle tecniche di procreazione assistita abbiano avuto legittimo accesso”. Ad analoga conclusione sono giunti Trib. Firenze 17-12-2007 e Trib. Salerno 9-1-2010. Una questione di legittimità costituzionale in ordine all’art. 142-3, laddove prevede alla creazione di embrioni un limite di tre e il loro necessario contestuale impianto (nonché il divieto di crioconservazione tranne ipotesi eccezionali), è stata sollevata da T.A.R. Lazio 21-1-2008, n. 398, sempre facendo essenzialmente leva sul carattere non assoluto della garanzia dell’embrione (e v. anche Trib. Firenze, ord. 12-7-2008 e 26-8-2008). La questione è stata vagliata favorevolmente da Corte cost. 8-5-2009, n. 151, che ha reputato costituzionalmente illegittimi l’art. 142, limitatamente alle parole “ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre” (facendo così “salvo il principio secondo cui le tecniche di produzione non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario, secondo accertamenti demandati, nella fattispecie concreta, al medico”, ma escludendo “la previsione dell’obbligo di un unico e contemporaneo impianto e del numero massimo di embrioni da impiantare”), e l’art. 143, “nella parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni, da realizzare appena possibile, come previsto in tale norma, debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna”. Successivamente, Corte cost., ord. 12-3-2010, n. 97, ha dichiarato inammissibili ulteriori questioni di legittimità costituzionale in materia. Si tenga presente, comunque, che la Corte eur. dir. uomo (28-8-2012) ha considerato contrario all’art. 8 CEDU (concernente la salvaguardia della “vita privata”) il divieto – evidentemente reputato sussistente nel nostro ordinamento, nonostante il contrario avviso della giurisprudenza di merito dianzi ricordata – delle tecniche diagnostiche preimpianto (finalizzate alla conseguente eventuale soppressione dell’embrione), evidenziando una “incoerenza nel sistema legislativo italiano”, data la liceità, in esso, dell’impiego di tecniche diagnostiche a gravidanza già avviata, in vista della eventuale relativa interruzione (secondo quanto consentito dalla L. 194/1978). Trib. Roma ord. 26-9-2013, ha ritenuto di essere immediatamente vincolato da tale decisione, consentendo senz’altro alla coppia (che aveva fatto ricorso alla Corte) di accedere alle tecniche di procreazione assistita, comprensive della diagnosi preimpianto e della conseguente selezione degli embrioni (escludendo, insomma, la necessità di sollevare previamente la questione di legittimità costituzionale). Chiamata poi a intervenire, Corte cost. 5-6-2015, n. 96, ha concluso – per contrasto con gli artt. 3 e 32 Cost. – nel senso della illegittimità (costituendo “il risultato di un irragionevole bilanciamento degli interessi in gioco”) della disciplina in tema di p.m.a., in quanto preclusiva dell’accesso ad essa da parte di coppie fertili, al fine di evitare, attraverso la diagnosi preimpianto, “di trasmettere al nascituro rilevanti anomalie o malformazioni” (con la sollecitazione di un intervento del legislatore, per la “auspicabile individuazione delle patologie che possano giustificare l’accesso alla p.m.a. di coppie fertili”: persistendo la mancanza di una simile normativa, Trib. Milano 18-4-2017 ha ritenuto che il giudice, alla luce dei principi enunciati dalla Corte, possa senz’altro “individuare la regola del caso concreto, così da garantire una tutela effettiva” dei diritti degli interessati). Successivamente, Corte cost. 11-11-2015, n. 229, ha escluso la legittimità della configurazione (ai sensi dell’art. 13 della legge in questione) come reato della “selezione degli embrioni anche nei casi in cui questa sia esclusivamente finalizzata ad evitare l’impianto nell’utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili” gravi. 10 All’e m b r i o n e (formatosi a seguito di interventi di procreazione assistita) non impiantato non si ritiene essere senz’altro riferibili le considerazioni che si svolgono a proposito del concepito. Ripugnando l’idea di una sua considerazione quale mero prodotto, devono, ovviamente, essere privilegiate le soluzioni che meglio

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PARTE IV – SOGGETTI

In materia successoria (XII, 1.4), il legislatore non si limita a prendere in considerazione soltanto il concepito, ma anche il non concepito , allorché prevede, oltre ai diritti successori dei concepiti, la possibilità che destinatari di disposizioni testamentarie siano non concepiti, purché figli di una determinata persona vivente al tempo della morte del testatore (art. 4623) 11. È da sottolineare, però, come, in tale ipotesi, il legislatore non definisca i ne salvaguardino l’integrità e la destinazione alla vita. Esso è, ora, tutelato, in particolare, dal divieto di crioconservazione e di soppressione (art. 141 L. 40/2004), restando comunque aperto il problema della sorte degli embrioni già esistenti e di quelli eccezionalmente crioconservati, ai sensi dell’art. 143 (in proposito, v. le “linee guida” da ultimo emanate con D.M. 1.7.2015, a modifica di quelle 11.4.2008 e precedenti). La controversa soluzione rappresentata da un eventuale ricorso alla c.d. adozione dell’embrione, non prevista dalla nostra legislazione, risulta ammessa (in termini di “accoglienza dell’embrione”) in Francia, dall’art. L. 2141-6 code de la santé publique (quale introdotto dall’art. 36 L. 2011-814 del 7.7.2011), a seguito del consenso manifestato dai membri della coppia del cui embrione si tratta (art. L. 2141-5) e con decisione giudiziale (anche in relazione alla idoneità della coppia richiedente). In materia, la Corte eur. dir. uomo (27-8-2015), rilevata la persistente diversità degli atteggiamenti dei diversi ordinamenti, ha reputato il divieto (di cui all’art. 13 della legge) di sperimentazione sugli embrioni umani – preclusivo anche di eventuali donazioni per la ricerca scientifica di embrioni prodotti in vitro – non contrastante con il diritto al rispetto della vita privata posto dall’art. 8 CEDU. Sostanzialmente sulla sua scia, Corte cost. 13-4-2016, n. 84, rilevato costituire “scelta tragica” quella “tra il rispetto del principio della vita (che si racchiude nell’embrione ove pure affetto da patologia) e le esigenze della ricerca scientifica”, ha ritenuto il divieto in questione rientrare nell’ambito della discrezionalità di cui gode il legislatore (“quale interprete della volontà della collettività”) nel “bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto” (anche in considerazione dell’essere comunque a lui “inevitabilmente riservate” eventuali scelte in ordine alle “molteplici opzioni intermedie”). Si tenga anche presente come la Corte eur. dir. uomo 18-12-2014, ricordato che la direttiva 98/44/CE, per “il rispetto dovuto alla dignità umana”, non ammette la brevettabilità delle utilizzazioni di “embrioni umani” a fini industriali o commerciali, abbia differenziato, al riguardo, la situazione degli ovuli umani non fecondati, essendone da escludere la natura di “embrioni umani”, ai sensi della suddetta disposizione, ove, pur “partenogeneticamente attivati”, si presentino comunque privi della “capacità intrinseca di svilupparsi in esseri umani”. Un chiaro divieto di creazione e di utilizzazione di embrioni a fini commerciali è formulato dall’art. L. 2141-8 code de la santé publique. Circa, poi, i meccanismi riproduttivi coinvolgenti gli embrioni, in merito al noto caso dello “scambio di embrioni”, Trib. Roma 8-8-2014 ha respinto, sulla base del principio in base al quale “la maternità naturale” risulta “legata al fatto storico del parto” (art. 2693), il ricorso (ai sensi dell’art. 700 c.p.c.) dei genitori genetici, tendente a reclamare i bambini conseguentemente partoriti da altra donna (e Trib. Roma 2-10-2015 ha respinto, in una tale situazione, anche la richiesta di consentire incontri con loro). Trib. Roma 10-5-2016, decidendo la vicenda nel merito, escluso che l’embrione, in quanto tale “privo di personalità giuridica e di capacità successoria”, possa “acquisire alcuno stato di filiazione”, ha reputato prevalente il “legame biologico creato dalla gestazione” (quale “fattore decisivo … per la determinazione dello stato di filiazione”), anche in considerazione della rilevanza da accordare – pure alla luce di quanto affermato a livello sovranazionale – ai “legami sociali” derivanti dall’“inserimento” del nato “in un determinato contesto familiare”. Si tenga presente che, per Cass. 18-12-2017, n. 30294, una volta prestato, da parte del marito, il consenso alla pratica di procreazione medicalmente assistita (inseminazione eterologa della moglie), la relativa revoca, che l’art. 63 L. 40/2004 consente “fino al momento della fecondazione dell’ovulo”, successiva a tale momento deve ritenersi inefficace (ai fini dell’operatività dell’art. 91, preclusivo dell’esercizio di disconoscimento della paternità): ciò perché, “consentire la revoca del consenso, anche in un momento successivo alla fecondazione dell’ovulo, non apparirebbe compatibile con la tutela costituzionale degli embrioni”. Alla luce del “rilievo prevalente” da accordare “alla tutela dell’embrione”, Trib. Bologna 25-8-2018 ha disposto, su domanda della moglie, il trasferimento intrauterino degli embrioni crioconservati, formati con i gameti del marito successivamente deceduto (in tema di impianto dell’embrione crioconservato dopo la morte del marito, v. infra, V, 4.6). Nella stessa prospettiva, Trib. Santa Maria Capua Vetere 27-1-2021 ha reputato non ostativa al soddisfacimento della richiesta della donna di impianto degli embrioni crioconservati l’opposizione del marito, pur motivata dalla sopravvenuta separazione personale. 11 Analoga previsione è dettata altresì in tema di donazione (art. 7841), che può essere fatta sia a favore di chi è concepito, sia a favore dei figli di una determinata persona vivente al tempo della donazione, benché, appunto, non ancora concepiti.

CAP. 1 – PERSONA FISICA

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destinatari della disposizione, a differenza dei concepiti, “capaci di succedere” (e diverso risulta anche, nei due casi, il regime dell’amministrazione di quanto destinato: art. 643).

3. Fine della persona. – Si è avuto modo di osservare come, per considerare venuta ad esistenza la persona fisica (con il conseguente acquisto della capacità giuridica), sia sufficiente che il neonato nasca vivo. Non meno importante risulta la determinazione del momento a partire dal quale l’esistenza della persona possa reputarsi terminata e, quindi, la capacità giuridica si ritenga venuta a cessare. Soprattutto le esigenze legate ai trapianti di organi (v., infatti, art. 1 L. 1.4.1999, n. 91) hanno indotto il legislatore a precisare il momento in cui il soggetto deve essere considerato morto a tutti gli effetti. Per l’art. 1 L. 29.12.1993, n. 578 “la morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo”. Il concetto legale di morte, quindi, coincide con quello di morte cerebrale, irrilevante risultando la conservazione, mediante apposite apparecchiature, delle funzioni di carattere respiratorio e cardiaco. Con il D.M. 22.8.1994, n. 582, sono state dettate modalità tecniche particolarmente rigorose per gli accertamenti relativi nelle diverse situazioni. Il venir meno della capacità giuridica comporta l’impossibilità di riferire al defunto situazioni giuridiche. Se, talvolta, può sembrare che egli sia considerato ancora portatore di interessi rilevanti per l’ordinamento, ciò è da reputare essenzialmente frutto di apparenza, in quanto, in simili casi, l’ordinamento tutela, in realtà, interessi facenti capo a persone viventi (o, eventualmente, un interesse di carattere generale). Così si verifica, ad es., in relazione alla tutela, dopo la morte, della immagine, della corrispondenza e del diritto morale di autore (rispettivamente, artt. 962, 932 e 23 L. 22.4.1941, n. 633) 12; non diversamente, per il possibile riconoscimento di figli premorti (artt. 255) 13. Lo stesso ossequio che l’ordinamento presta alla volontà testamentaria può essere visto quale potere di destinazione dei propri beni riconosciuto (in vita) al soggetto (cui corrisponde l’interesse dei soggetti indicati come successori). Con la morte della persona talune situazioni giuridiche si estinguono (in quanto intrasmissibili) e un numero consistente di rapporti giuridici trova una nuova configurazione soggettiva. Di qui l’interesse ad una precisa determinazione del momento in cui viene a cessare l’esistenza della persona. Tale interesse assume connotati di peculiare rilevanza nella situazione prevista dall’art. 4, che regola l’ipotesi di commorienza, per cui, quando un effetto giuridico dipende dalla sopravvivenza di una persona a un’altra e non consti quale di esse sia morta prima, “tutte si considerano morte nello stesso momento”. Con una finzione, cioè, nonostante che l’evento morte dei diversi soggetti possa essersi verificato, in realtà, in momenti cronologicamente non coincidenti, l’ordinamento giuridico, data l’incertezza circa la relativa esatta determinazione, considera come se i medesimi soggetti fossero morti nello stesso istante. La disciplina della commorienza assume peculiare importanza nei casi in cui la premorienza di un soggetto rispetto all’altro determinerebbe un diverso atteggiarsi della loro 12

La prospettiva accennata trova conferma nella legittimazione all’azione – che vale a individuare i reali destinatari della disposta tutela – dei prossimi familiari del defunto (e nel caso del diritto morale di autore, “qualora finalità pubbliche lo esigano”, del Ministero per i beni e le attività culturali). 13 Tale ultima disposizione risulta evidentemente finalizzata alla tutela degli interessi dei discendenti del defunto.

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PARTE IV – SOGGETTI

complessiva vicenda successoria. Ove, ad es., nel medesimo incidente muoiano due coniugi e non consti quale dei due sia morto per primo, i genitori dell’uno e dell’altro avrebbero interesse a dimostrare la sopravvivenza del proprio figlio rispetto al coniuge, dal momento che il suo asse ereditario risulterebbe accresciuto dei diritti spettantigli in quanto coniuge superstite. L’art. 4, per evitare ogni incertezza, pone, appunto, una presunzione legale di non sopravvivenza (superabile da chi intenda affermare il contrario con la relativa prova) 14, cosicché, nell’esempio fatto, nessuno dei due coniugi si ritiene partecipare alla successione dell’altro, in quanto a lui (presuntamente considerato) non sopravvissuto. Se nell’ipotesi risolta dall’art. 4 con l’accennata presunzione vi è incertezza circa il quando dell’evento morte, ma vi è certezza circa l’an, può darsi il caso, invece, che l’incertezza concerna proprio l’esistenza della persona. Di qui l’esigenza che l’ordinamento predisponga una serie di strumenti (scomparsa, assenza e morte presunta: IV, 1.4) per tutelare i diritti spettanti al soggetto del quale si ignori proprio l’attuale esistenza. Ciò non solo nel suo interesse, ma anche nell’interesse di quegli altri soggetti che, in conseguenza dell’evento della sua morte, potrebbero vedere modificata la propria sfera giuridica, sia in dipendenza dell’acquisto di nuovi diritti, sia in dipendenza dell’estinzione di obblighi pregressi.

4. Scomparsa, assenza e morte presunta. – L’irreperibilità del soggetto o, addirittura, la incertezza circa la sua stessa esistenza determinano problemi gravi in ordine alla gestione ed alla sorte delle situazioni giuridiche di cui sia titolare. a) Rilevante viene considerata anche la semplice scomparsa della persona. Ciò si reputa verificarsi quando essa non è più comparsa nel luogo del suo ultimo domicilio o dell’ultima sua residenza e non se ne hanno più notizie (art. 481). Tale circostanza non comporta di per sé una grave incertezza circa l’esistenza della persona, legittimando semplicemente l’intervento del tribunale che, su istanza degli interessati, dei presunti successori legittimi o del pubblico ministero, può nominare un curatore, il quale rappresenti lo scomparso in giudizio o nella formazione degli inventari e dei conti e nelle liquidazioni o divisioni in cui lo stesso sia interessato, e può dare gli altri provvedimenti necessari alla conservazione del suo patrimonio. I provvedimenti legati alla scomparsa della persona sembrano giustificarsi in base ad una sorta di presunzione, da parte del legislatore, di temporaneità della situazione di incertezza circa l’esistenza della persona 15. b) Diversa, e ben più grave, viene valutata l’ipotesi della assenza. Trascorsi due anni dal giorno a cui risale l’ultima notizia, i presunti successori legittimi e chiunque ragione14 Si è ritenuto preferibile una simile soluzione a quella adottata in passato, fondata su sempre opinabili presunzioni di diverso tipo. In ordinamenti quali quello romano (ma anche quello francese, fino alla sua recente riforma), si adottava una diversa soluzione, essenzialmente basata sulla considerazione di una situazione di presumibile maggiore debolezza dell’un soggetto rispetto all’altro (essenzialmente in considerazione dell’età e del sesso). Significativamente, con la recente riforma delle successioni (L. 2001-1135 del 3.12.2001), anche in Francia, con specifico riferimento alla materia successoria (più direttamente investita dalla problematica in esame), si è abbandonato il sistema tradizionale, introducendo una soluzione sostanzialmente simile a quella italiana (art. 725-1 code civil). 15 Intimamente legate alla situazione di mera incertezza circa l’esistenza della persona sono, altresì, la previsione dell’art. 69 (secondo cui nessuno è ammesso a reclamare un diritto in nome di una persona di cui si ignora l’esistenza, se non prova che la persona esisteva quando il diritto è nato) e quella, strettamente connessa, dell’art. 70 (per cui, quando s’apre una successione a cui sarebbe chiamata in tutto o in parte una persona di cui si ignora l’esistenza, la successione è devoluta – con la previsione di talune cautele – a coloro ai quali sarebbe spettata in mancanza della detta persona).

CAP. 1 – PERSONA FISICA

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volmente creda di avere sui beni dello scomparso diritti dipendenti dalla morte di lui possono domandare al tribunale che ne sia dichiarata l’assenza (art. 49). La dichiarazione di assenza si fonda sulla considerazione della persistenza nel tempo (e, quindi, di un certo grado di stabilità) dell’incertezza circa l’esistenza della persona: stato d’incertezza che si protrae, appunto, da almeno due anni. Sotto il profilo dei rapporti personali, l’assenza non è configurata quale causa di scioglimento del matrimonio: tuttavia, ai sensi dell’art. 1173, il matrimonio contratto dal coniuge dell’assente non può essere impugnato finché dura l’assenza. Sotto il profilo dei rapporti patrimoniali, una volta dichiarata l’assenza del soggetto, coloro che sarebbero eredi testamentari 16 o legittimi, se l’assente fosse morto nel giorno a cui risale l’ultima notizia di lui, o i loro rispettivi eredi, possono domandare l’immissione nel possesso temporaneo dei beni (art. 502) 17. Per effetto dell’immissione nel possesso temporaneo dei beni, che deve necessariamente essere preceduta dalla formazione dell’inventario dei medesimi, coloro che la abbiano ottenuta assumono l’amministrazione dei beni dell’assente, la rappresentanza di lui in giudizio e il godimento delle rendite dei beni (art. 52) 18. I beni, pertanto, permangono nel patrimonio dell’assente per tutta la durata dell’assenza – considerata situazione di carattere provvisorio – e non si ha alcun fenomeno di tipo successorio. Esclusivamente allorché il tribunale ne riconosca la necessità o utilità evidente, coloro che hanno ottenuto l’immissione nel possesso possono procedere ad atti di disposizione dei beni (art. 54). Quanto ai rapporti obbligatori dell’assente, coloro che per effetto della sua morte sarebbero liberati da obbligazioni possono essere temporaneamente esonerati dall’adempimento di esse (art. 504). La situazione di assenza termina o con la prova della morte dell’assente, nel qual caso la successione si apre a vantaggio di coloro che, al momento della morte, erano suoi eredi o legatari (art. 57), o con la dichiarazione di morte presunta dell’assente, ovvero, infine, con il suo ritorno. Per effetto del ritorno dell’assente, in particolare, cui è equiparata l’ipotesi in cui sia provata l’esistenza del medesimo, i possessori temporanei devono restituire i beni, restando, peraltro, irrevocabili gli atti (regolarmente autorizzati dal tribunale) compiuti prima della loro costituzione in mora (art. 562). c) Anche se non vi è stata una preventiva dichiarazione di assenza (art. 583), quando siano trascorsi dieci anni dal giorno a cui risale l’ultima notizia, il tribunale, su istanza del pubblico ministero o di qualsiasi interessato, può dichiarare la morte presunta dello scomparso nel giorno a cui risale l’ultima notizia (art. 581) 19. La dichiarazione di morte presun16 Per accertarne l’esistenza, l’art. 501 riconosce al tribunale il potere di ordinare, su istanza di chiunque vi abbia interesse o del pubblico ministero, l’apertura degli atti di ultima volontà dell’assente, se vi sono. 17 L’immissione nel possesso temporaneo dei beni dell’assente può essere altresì richiesta dai legatari, dai donatari e da tutti quelli ai quali spetterebbero diritti dipendenti dalla morte dell’assente (art. 503). 18 Mentre gli ascendenti, i discendenti ed il coniuge dell’assente, una volta immessi nel possesso temporaneo dei beni, ritengono la totalità delle rendite, gli altri soggetti eventualmente immessi (es., i fratelli) devono accantonare per l’assente il terzo delle rendite (art. 53). Il coniuge dell’assente, inoltre, può ottenere dal tribunale, in caso di bisogno, un assegno alimentare da determinarsi secondo le condizioni della famiglia e l’entità del patrimonio dell’assente (art. 51). La sentenza che dichiara l’assenza o la morte presunta è soggetta a peculiari modalità di pubblicità (art. 729 c.p.c.). 19 L’art. 60 prevede una serie di ipotesi nelle quali la morte presunta può essere dichiarata anche a seguito del decorso di un lasso temporale inferiore ai dieci anni. La riduzione del termine (due o tre anni) si giustifica in relazione alla particolare natura di determinati eventi che inducono, ragionevolmente, a far deporre nel

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ta, in sostanza, ancorché con talune opportune differenze, equipara la situazione della persona della quale s’ignori per un così lungo tempo l’esistenza a quella della sua morte effettiva (per la gravità del provvedimento, l’art. 582 dispone che in nessun caso la sentenza può essere pronunziata se non sono trascorsi nove anni dal raggiungimento della maggiore età dello scomparso). L’istanza, una volta rigettata, poi, non può essere riproposta prima che siano decorsi almeno altri due anni (art. 59). Per effetto della sentenza che dichiara la morte presunta – cui si tende a riconoscere natura di vero e proprio accertamento della morte, sulla base delle circostanze in presenza delle quali la legge la presume – si apre la successione ereditaria del soggetto, analogamente a ciò che si verifica nell’ipotesi di morte naturale del medesimo: a differenza dell’ipotesi ordinaria di successione, però, residua la possibilità che il morto presunto faccia ritorno o che dello stesso sia provata l’esistenza. Dal punto di vista patrimoniale, se la dichiarazione di morte presunta risulta preceduta dalla preventiva immissione nel possesso dei beni dell’assente, gli immessi nel possesso acquistano la disponibilità definitiva dei beni e coloro ai quali fu concesso l’esercizio temporaneo dei diritti o la liberazione temporanea dalle obbligazioni conseguono l’esercizio definitivo dei diritti o la liberazione definitiva dalle obbligazioni (art. 63). Qualora non vi sia già stata immissione nel possesso temporaneo dei beni, gli aventi diritto (cioè gli eredi e, più in generale, coloro ai quali spetterebbero diritti in dipendenza della morte del soggetto) o i loro successori conseguono il pieno esercizio dei diritti loro spettanti, una volta che la dichiarazione di morte presunta sia divenuta eseguibile (art. 64). In tale ultimo caso, peraltro, l’immissione nel possesso deve essere preceduta dalla redazione dell’inventario dei beni. Come si è sottolineato, la dichiarazione di morte presunta non coincide perfettamente con la morte naturale. Ove la persona di cui è stata dichiarata la morte presunta ritorni o se della medesima sia provata l’esistenza, la stessa recupera i beni nello stato in cui si trovano e ha diritto di conseguire il prezzo di quelli alienati, quando esso sia tuttora dovuto, o i beni nei quali sia stato investito; ha pure diritto di pretendere l’adempimento delle obbligazioni in precedenza reputate estinte (art. 661-2) 20. Dal punto di vista personale, a seguito della sentenza che dichiara la morte presunta, il coniuge del soggetto dichiarato morto presunto può contrarre nuovo matrimonio (art. 65). Tuttavia, tale matrimonio è considerato nullo nell’ipotesi di ritorno del morto presunto o di accertamento della sua esistenza in vita (art. 681, richiamato dall’art. 1175). A temperamento di tale previsione, sono fatti salvi gli effetti civili del matrimonio dichiarato nullo (art. 682), trovando applicazione le regole proprie del c.d. matrimonio putativo (V, 2.7). È da tenere presente, però, che non può essere pronunziata la nullità del matrimonio nel caso sia accertata la morte effettiva del soggetto, anche se avvenuta in una data posteriore a quella del matrimonio (art. 683).

senso del probabile decesso del soggetto: operazioni belliche, prigionia o deportazione in paese straniero, infortunio. 20 Può verificarsi, altresì, l’ipotesi che sia provata la data della morte del soggetto già dichiarato morto presunto, nel qual caso saranno coloro che a quella data sarebbero stati i suoi eredi o legatari a recuperare i beni nello stato in cui si trovano. Gli stessi potranno anche chiedere l’adempimento delle obbligazioni considerate estinte, limitatamente al tempo anteriore alla data della morte (art. 663).

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5. Localizzazione della persona. – Ai fini dell’applicazione delle norme giuridiche, risulta rilevante, frequentemente, lo stabilire una precisa relazione tra il soggetto e una delle sue possibili ubicazioni. Ciò avviene con il ricorso a determinati criteri di collegamento della persona con un determinato luogo. Particolare importanza assume, innanzitutto, il luogo della nascita, dato che è presso il comune in cui essa è avvenuta che viene formato l’atto di nascita (art. 30 D.P.R. 3.11.2000, n. 396, il quale consente che la dichiarazione al riguardo necessaria possa essere resa dai genitori anche nel proprio comune di residenza). Dall’atto di nascita risulta possibile evincere le principali vicende esistenziali del soggetto, idonee ad incidere sul suo status. Nel nostro ordinamento sono considerate rilevanti e distinte le nozioni di dimora, residenza e domicilio. a) Per dimora – concetto non precisato espressamente dal legislatore – si intende il luogo in cui il soggetto si trova, anche solo temporaneamente, a soggiornare. Il carattere anche solo temporaneo della dimora non esclude, tuttavia, una certa necessaria durata, tale da rendere il luogo di dimora idoneo a localizzare geograficamente il soggetto (così, ad es., per il luogo in cui si trascorre un periodo di villeggiatura). Il criterio della dimora riceve scarso impiego da parte del legislatore e, per lo più, in ipotesi marginali 21. b) La residenza, invece, viene individuata, ai sensi dell’art. 432, nel luogo in cui la persona ha la propria dimora abituale. Ai fini della fissazione della residenza 22, si ritiene che debbano ricorrere un elemento oggettivo (il fatto della stabile permanenza in un luogo determinato) ed un elemento soggettivo (l’intenzione di fissare la propria stabile dimora in quel luogo) 23. Anche se la legge non ammette la sussistenza che di una sola residenza anagrafica, tende a prevalere, comunque, la tesi per cui il soggetto possa avere, di fatto, più di una residenza. Il trasferimento della residenza non può essere opposto ai terzi di buona fede (che non ne siano, cioè, a conoscenza), se non è stato denunciato nei modi previsti dalla legge, ossia mediante doppia dichiarazione fatta al comune che si abbandona e a quello dove s’intende fissare la dimora abituale (artt. 441 e 31 disp. att. c.c.). Il luogo di residenza rileva, soprattutto, per i rapporti di natura personale: è in relazione ad esso, in particolare, che si determina il luogo dove deve essere richiesta la pubblicazione in vista del matrimonio (art. 94). La residenza determina la competenza territoriale degli organi giurisdizionali (alternativamente al domicilio: foro generale della persona, art. 181 c.p.c.), nonché il luogo in cui deve avvenire, di preferenza, la notificazione degli atti giudiziari (art. 1391 c.p.c.). 21 L’art. 181 c.p.c. individua nella dimora il criterio residuale per determinare il foro generale delle persone fisiche, qualora non siano conosciuti la residenza o il domicilio. Ai sensi dell’art. 1396 c.p.c., poi, è la dimora il luogo dove devono avvenire le notificazioni, quando non sia noto il comune di residenza. 22 Secondo la giurisprudenza (ad es., Cass. 20-9-1979, n. 4829 e Cass. 20-3-2006, n. 6101), l’effettiva residenza di una persona (“criterio dell’effettività”: ad es., Cass. 17-5-2017, n. 12380) è accertabile dal giudice con qualsiasi mezzo di prova (pure, quindi, “mediante presunzioni”: Cass. 12-9-2012, n. 15221), anche contro le risultanze anagrafiche, che hanno, nei confronti dei terzi, solo “valore presuntivo”. 23 Per Cass. 5-2-1985, n. 791, “la residenza è determinata dall’abituale volontaria dimora di una persona in un dato luogo, sicché concorrono ad instaurare tale relazione giuridicamente rilevante sia il fatto oggettivo della stabile permanenza in quel luogo sia l’elemento soggettivo della volontà di rimanervi, la quale, estrinsecandosi in fatti univoci evidenzianti tale intenzione, è normalmente compenetrata nel primo elemento” (alle “consuetudini di vita” allude Cass. 1-12-2011, n. 25726).

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Differente è il concetto di residenza familiare (eventualmente diversa dal luogo di residenza di uno o, addirittura, di ambedue i coniugi), quale centro della vita comune della famiglia (rilevante anche per l’individuazione del domicilio del minore: art. 452), che deve essere, ai sensi dell’art. 144, fissata concordemente dai coniugi, secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia (V, 2.9). Anche con riferimento all’unione civile, si prevede che le parti “fissano la residenza comune” (art. 112 L. 20.5.2016, n. 76). c) Il domicilio di una persona è nel luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi (art. 431) 24. Anche per il domicilio si ritiene occorrere un elemento soggettivo, consistente nella intenzione di concentrare in un luogo i propri affari e interessi 25. Il domicilio può essere generale, nel qual caso si riferisce alla generalità degli affari ed interessi del soggetto, o speciale, cioè eletto dal soggetto solo per determinati atti o affari (l’elezione del domicilio speciale deve sempre farsi espressamente per iscritto) (art. 47): mentre si può avere un solo domicilio generale (la principalità è, infatti, concetto relativo ma esclusivo), si possono avere più domicili speciali. Dal domicilio volontario, ovvero scelto dal soggetto, si distingue il domicilio legale, cioè stabilito dalla legge in relazione a determinate categorie di soggetti: il minore ha il domicilio nel luogo di residenza della famiglia o quello del tutore (art. 452); l’interdetto ha il domicilio del tutore (art. 453) 26. Secondo il testo originario dell’art. 451, la moglie aveva lo stesso domicilio del marito (si trattava, quindi, di una ipotesi di domicilio legale); attualmente, invece, in applicazione del principio di uguaglianza, ciascuno dei coniugi ha il proprio domicilio nel luogo in cui ha stabilito la sede principale dei propri affari o interessi (risultando, così, evidente la distinzione rispetto all’unitaria localizzazione della residenza familiare). Il domicilio rileva, in particolare, ai fini della determinazione del luogo di apertura della successione (art. 456) e della tutela (art. 3431), nonché dell’individuazione del tribunale competente a dichiarare il fallimento dell’imprenditore (art. 91 l. fall.). Il domicilio o la residenza determinano il foro generale della persona (art. 181 c.p.c.), mentre, per la notificazione degli atti giudiziari, il criterio del domicilio è subordinato a quello della residenza e della dimora (art. 1396 c.p.c.). L’art. 442 pone una presunzione di trasferimento del domicilio, qualora una persona che abbia nel medesimo luogo il domicilio e la residenza trasferisca quest’ultima altrove: tale presunzione cade allorché nell’atto in cui è stato denunciato il trasferimento della residenza sia fatta una diversa dichiarazione. Per le persone giuridiche, vale quale criterio di localizzazione quello della sede, da applicarsi ogniqualvolta la legge faccia dipendere determinati effetti dalla residenza o dal domicilio. Qualora la sede indicata nell’atto costitutivo e nello statuto o quella risultante dal registro delle persone giuridiche sia diversa da quella effettiva, i terzi possono considerare come sede della persona giuridica anche quest’ultima (art. 46). 24 Il domicilio (Cass. 5-5-1980, n. 2936; Cass. 15-10-2011, n. 21370) “individua il luogo in cui la persona ha stabilito il centro principale dei propri affari e interessi, sicché riguarda la generalità dei rapporti del soggetto, non solo economici, ma anche morali, sociali e familiari”. Dall’art. 442 si deduce, comunque, la possibile non coincidenza del luogo del domicilio e di quello della residenza. 25 Viene sottolineata, comunque, la rilevanza dell’elemento oggettivo, costituito dalla concentrazione in un luogo degli affari e interessi. 26 L’art. 452 precisa che, se i genitori sono separati o il loro matrimonio è stato annullato o sciolto o ne sono cessati gli effetti civili o comunque non hanno la stessa residenza, il minore ha il domicilio del genitore col quale convive.

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B) CAPACITÀ DI AGIRE 6. Capacità di agire. – Per capacità di agire si intende l’attitudine a compiere atti idonei ad incidere sulla propria sfera giuridica. Ai sensi dell’art. 21, la capacità di agire – definita dal codice come “capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita una età diversa” – si acquista con la maggiore età, vale a dire al compimento del diciottesimo anno. La fissazione di un criterio presuntivo e uniforme per la valutazione dell’attitudine del soggetto a regolare i propri interessi rappresenta, indubbiamente, una precisa necessità per lo svolgimento delle relazioni giuridiche, soprattutto di carattere economico 27. L’ordinamento, peraltro, non manca di assicurare una adeguata tutela degli interessi del soggetto, prevedendo l’incidenza di sue peculiari condizioni personali – oltre l’età – sulla valutazione di tale attitudine (appunto, solo legalmente presunta), quali, in particolare, le condizioni psichiche e fisiche, con conseguente riduzione o, addirittura, perdita della capacità di agire. Si tratta delle ipotesi di incapacità legale di agire, le quali, conseguendo ad un provvedimento giudiziale che accerta la ricorrenza delle relative condizioni, si distinguono dalla rilevanza accordata, entro certi limiti, alla situazione di incapacità di intendere o di volere, in cui, di fatto, il soggetto venga a trovarsi. Carattere sanzionatorio, invece, ha la limitazione della capacità di agire in dipendenza di gravi condanne penali. La differenza rispetto alla capacità giuridica è evidente. Mentre chi sia dotato di capacità giuridica può, come tale, essere titolare di situazioni giuridiche soggettive, il soggetto capace di agire può altresì validamente compiere atti giuridici idonei a produrre modificazioni nella sfera delle proprie situazioni soggettive. Così, mentre, con la nascita, il soggetto ha la capacità di essere titolare della proprietà di beni, con il conseguimento della capacità di agire, lo stesso soggetto può, con propri atti, acquistare beni, ovvero vendere, dare in garanzia, ecc., i beni di cui risulti proprietario. La capacità di agire che si acquista con la maggiore età conferisce al soggetto il potere di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita una età diversa 28. In relazione a determinati atti, cioè, l’ordinamento permette che gli stessi siano compiuti anche prima del compimento del diciottesimo anno d’età. Si tratta, come si avrà modo di vedere, essenzialmente degli atti incidenti su interessi di natura personale. Così, a titolo meramente indicativo, il genitore che abbia compiuto il sedicesimo anno d’età può riconoscere il proprio figlio naturale (art. 2505, ove si prevede anche la possibilità di una autorizzazione giudiziale al riconoscimento da parte del genitore infrasedicenne) e il quattordicenne deve consentire alla propria adozione (art. 72 L. 4.5.1983, n. 184) 29. 27 La fissazione di un simile criterio da parte del legislatore, in quanto legata, ovviamente, a considerazioni di carattere generale in ordine all’atteggiarsi dei rapporti nella società, risulta suscettibile di variare nel tempo. È stata la L. 8.3.1975, n. 39, così, adeguandosi ad un orientamento prevalente ovunque, ad anticipare dal ventunesimo al diciottesimo anno il riconoscimento della maggiore età. 28 Il riferimento dell’art. 21 a “tutti gli atti” viene inteso restrittivamente dalla giurisprudenza, in adesione ad un diffuso orientamento dottrinale. La Cassazione (18-6-1986, n. 4072), così, in tema di impossessamento (VI, 5.3), ha precisato che, alla luce della distinzione, “nell’ambito degli atti giuridici umani”, “tra meri atti giuridici e negozi giuridici” (II, 4.5), “per i primi è sufficiente la capacità di intendere e di volere e per i secondi occorre la capacità di agire”. 29 L’art. 22 fa salve le leggi speciali che stabiliscono una età inferiore al diciottesimo anno in materia di capacità a prestare il proprio lavoro, nel qual caso il minore è abilitato all’esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro. Il conseguimento di una generale capacità professionale al diciottesimo an-

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È da sottolineare, poi, come per essere considerati imputabili del fatto dannoso (per essere chiamati a rispondere, cioè, delle conseguenze dei propri comportamenti che abbiano ingiustamente danneggiato altri) il criterio previsto sia quello della concreta capacità di intendere e di volere (art. 2046: X, 1.6), a prescindere, quindi, dall’età raggiunta dal soggetto e, in genere, dalla sua capacità legale di agire.

7. Minore. – L’art. 2, fissando al diciottesimo anno la maggiore età e condizionando ad essa l’acquisto della “capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita una età diversa”, risulta porre il minore in una situazione di incapacità di agire generale. In realtà, già nello stesso codice civile, numerose sono le disposizioni che riconoscono al minore la capacità di compiere atti idonei ad incidere sulla sua sfera giuridica, sia pure al di fuori dell’area dei rapporti di natura più strettamente patrimoniale. Ove si allarghi, poi, l’orizzonte al resto della legislazione, ad esito di un processo tendente a valorizzare l’autonomia del minore, si può senz’altro dire che la relativa incapacità si presenti come (almeno tendenzialmente) generale solo in campo patrimoniale, mentre in quello degli atti coinvolgenti la sua sfera esistenziale al minore stesso sia sempre più estesamente riconosciuto il potere di autodeterminarsi. Si avrà modo, così, di vedere come, nella materia dei rapporti familiari che lo coinvolgono, la volontà del minore sia considerata rilevante, ovviamente secondo una scansione temporale che risponde alla sua progressiva maturazione. È, al riguardo, da sottolineare come, da noi secondo quanto è già avvenuto in altri ordinamenti (anche in applicazione di principi sempre più chiaramente affermati a livello sopranazionale) 30, non manchi di essere valorizzata, quale condizione per il riconoscimento della rilevanza della volontà del minore, la sua concreta capacità di discernimento, in luogo del raggiungimento di età predeterminate. Ne costituisce attestazione la riforma dell’adozione (L. 28.3.2001, n. 149), la quale, se ha confermato la necessità del consenso del minore quattordicenne (art. 72), ha collegato il necessario ascolto del minore al raggiungimento dei 12 anni o, appunto, all’apprezzamento della sua capacità di discernimento (art. 73, nonché altrove). Al medesimo criterio, con portata più generale, si ispira il nuovo art. 315 bis3 (introdotto dalla L. 10.12.2012, n. 219), in relazione al diritto del figlio minore di essere ascoltato “in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano”. Il sedicenne può riconoscere il figlio nato fuori del matrimonio (art. 2505: anche prima se autorizzato), mentre il quattordicenne deve assentire al proprio riconoscimento (art. 2502); il sedicenne può, sia pure eccezionalmente, essere autorizzato a contrarre matrimonio (art. 84). A 12 anni (o prima ove capace di discernimento) il figlio deve venire sentito in caso di contrasto dei genitori sulle questioni di particolare importanza che lo riguardano (art. 3163) e a 16 nell’ipotesi di disaccordo dei genitori sulle scelte relative all’indirizzo familiare (art. 1451). A 16 anni deve esprimere il suo consenso all’inserimento del figlio nato fuori del matrimono era previsto originariamente dall’art. 3, abrogato dalla ricordata L. 39/1975, in conseguenza della anticipazione della maggiore età. 30 Il riferimento alla concreta capacità di discernimento, quale elemento decisivo ai fini della individuazione del ruolo del minore circa le scelte che lo coinvolgono, caratterizza tanto la Convenzione sui diritti del fanciullo (New York, 20.11.989), ratificata con L. 27.5.1991, n. 176, quanto la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli (Strasburgo, 25.1.1996), ratificata con L. 20.3.2003, n. 77. Alla “età” e “maturità” si riferisce l’art. 241 Carta dir. fond. U.E.

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nio del genitore nella propria famiglia legittima (art. 2522) 31. Il coinvolgimento del figlio minore nelle procedure concernenti la crisi coniugale dei genitori, con riferimento alle decisioni che lo toccano direttamente, risulta ora assicurato dall’art. 337 octies1 (che prevede il relativo ascolto se dodicenne o, comunque, capace di discernimento). Con riguardo ad altre scelte di carattere esistenziale, è da sottolineare, in particolare, il carattere personale della decisione relativa all’interruzione della gravidanza, a prescindere, se del caso, dall’assenso e dalla stessa consultazione dei genitori (art. 12 L. 22.5.1978, n. 194) 32, nonché della decisione per la richiesta di interventi riabilitativi e terapeutici, in caso di uso di sostanze stupefacenti (art. 95 L. 22.12.1975, n. 685). Adeguata rilevanza alla volontà del minore in ordine ai trattamenti sanitari è, in generale, attribuita oltre che dal Codice di deontologia medica (del 18.5.2014, art. 354) 33, dalle recenti “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” (art. 3 L. 22.12.2017, n. 219) 34. Alla volontà del minore risulta, inoltre, conferito rilievo in materia di trattamento dei dati personali 35. L’autonomia decisionale del minore circa le scelte di carattere personale e l’esercizio dei diritti fondamentali – che non si ritiene possa essere esclusa, insomma, in presenza di una maturità adeguata, data la necessaria considerazione del minore stesso come persona (e proprio in vista del suo sviluppo come tale, garantito dagli artt. 2 e 3 Cost.) 36 – trova, del 31

A 12 anni (o prima ove capace di discernimento) il minore è da ascoltare in ordine alla scelta del tutore (art. 3483) e a 10 (o prima ove capace di discernimento) sul luogo dove essere allevato e sulla sua educazione (art. 3711, n. 1). 32 La disciplina accennata, relativamente all’eventuale mancata consultazione dei genitori, è stata ritenuta costituzionalmente legittima da Corte cost. 25-6-1981, n. 109 (e v. anche Corte cost. ord. 18-1-1989, n. 14, nonché Corte cost. ord. 10-5-2012, n. 126). 33 Secondo tale previsione “Il medico tiene in adeguata considerazione le opinioni espresse dal minore in tutti i processi decisionali che lo riguardano”. L’art. 37, poi, concerne il “consenso o dissenso del rappresentante legale”. Vengono qui applicati i principi enunciati dall’art. 6 della Convenzione di Oviedo (4.4.1997), sui diritti dell’uomo e la biomedicina (ratificata con L. 28.3.2001, n. 145), nella prospettiva della valorizzazione dell’autodeterminazione del minore in materia. 34 La disposizione si riferisce, comprensivamente, alla “persona minore di età o incapace”, in vista della “valorizzazione delle proprie capacità di comprensione e decisione”, con l’attribuzione ad essa del diritto a “ricevere informazioni” adeguate ad “essere messa nelle condizioni di esprimere la sua volontà”. Se, in linea di principio, sono gli esercenti la responsabilità genitoriale (o il tutore) ad esprimere o rifiutare “il consenso informato al trattamento sanitario del minore”, ciò dovrà comunque avvenire “tenendo conto della volontà del minore, in relazione alla sua età e al suo grado di maturità”. 35 L’art. 8 del Regolamento U.E. 2016/679 (Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati Personali, GDPR: IV, 2.9) ha previsto che il relativo consenso possa essere prestato a partire dai 16 anni, lasciando, però, spazio ad una diversa previsione da parte dei singoli Stati membri (purché nei limiti dei 13 anni). Così, nel conseguente adeguamento normativo (col D.Lgs. 10.8.2018, n. 101, che ha novellato il D.Lgs. 196/2003, “Codice in materia di protezione dei dati personali”), in Italia è stata fissata, in proposito, a 14 anni l’età a cui il minore “può esprimere il consenso al trattamento dei propri dati personali in relazione all’offerta diretta di servizi della società dell’informazione” (art. 2 quinquies1). Altri paesi hanno fatto scelte diverse: ad es., Germania e Spagna hanno optato, rispettivamente, per i 16 d i 13 anni. Si ricordi come a 14 anni sia stata fissata anche l’età alla quale il minore interessato può agire personalmente contro gli atti di c.d. cyberbullismo (art. 21 L. 29.5.2017, n. 71), richiedendo “l’oscuramento, la rimozione o il blocco di qualsiaisi altro dato personale del minore, diffuso nella rete internet”. 36 Viene spesso richiamata, quale esempio sintomatico dell’evoluzione giurisprudenziale in materia, già prima della riforma del diritto di famiglia del 1975, la pronuncia di Trib. min. Bologna 26-10-1973, in cui si esclude che la potestà dei genitori possa “comprendere il diritto di contrastare, anche mediante restrizioni

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resto, ormai, ampio riconoscimento anche a livello sopranazionale. Basti ricordare come la Convenzione di New York del 20.11.1989 sancisca il diritto del minore alla sua identità (art. 8), alla libertà di espressione e di informazione (art. 13), di pensiero, coscienza e religione (art. 14), di associazione e riunione (art. 15), nonché al rispetto della propria privacy (art. 16). Soprattutto, al minore capace di discernimento (cui si riferiscono ora gli artt. 315 bis3 e 336 bis1) è garantito un generale diritto di esprimere la sua opinione, da prendere necessariamente in adeguata considerazione, su ogni questione che lo riguarda, anche nelle procedure giudiziarie o amministrative che lo concernono (art. 12, nonché artt. 3 ss. della Convenzione di Strasburgo del 25.1.1996; v. anche l’art. 24 Carta dir. fond. U.E.). Pure in relazione ai rapporti di rilevanza patrimoniale – specialmente per quelli che si pongono in una zona di confine con quelli esistenziali – al minore è riconosciuta una certa sfera di autonomia (la cui ampiezza si ritiene diffusamente risultare ancora troppo ristretta). Così, con le adeguate cautele a salvaguardia della sua salute e della sua istruzione, il minore può prestare attività lavorativa a partire dai 15 anni (art. 3 L. 17.10.1967, n. 977, con le successive modifiche) 37 e, dai 16 anni, in quanto autore, ha la capacità di compiere gli atti relativi alle opere da lui create e di esercitare le relative azioni (art. 108 L. 22.4.1941, n. 633). Si ritiene, poi, che il minore possa compiere i c.d. atti della vita quotidiana, validamente concludere, cioè, i contratti con cui procurarsi beni e servizi (ad es., giornali, trasporti, generi alimentari, spettacoli, ecc.) necessari per soddisfare le sue essenziali necessità di vita 38. Il minore, ovviamente, ove ne ricorrano concretamente le condizioni, potrà anche porre in essere tutti gli atti (meri atti giuridici o atti giuridici in senso stretto: II, 4.5), per i quali è reputata sufficiente la capacità di intendere e di volere (ad es., impossessamento e atti di messa in mora: VI, 2.2, VI, 5.3, VII, 4.6; anche per l’imputabilità del fatto dannoso vale lo stesso criterio: art. 2046), nonché gli atti dovuti (adempimento: art. 1191). personali, le scelte ideologico-culturali del figlio”, dovendo essa venire “esercitata nel rispetto delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili dell’uomo costituzionalmente garantiti”, proprio “per fare l’uomo capace di opzioni libere e coscienti”. Alla luce del necessario “rispetto”, da parte dei genitori, “delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni” (ai sensi del nuovo art. 315 bis1), proprio la valorizzazione dell’autonomia del minore (anche in dipendenza del suo d i r i t t o a l l ’ a s c o l t o : artt. 315 bis3 e 336 bis1: IV, 1.8) non può che rappresentare, quindi, il criterio-guida per una corretta applicazione dei meccanismi di controllo giudiziale dell’esercizio della responsabilità genitoriale, in tutti i casi in cui sia in gioco l’esplicazione dei suoi diritti fondamentali (artt. 330 ss.). 37 Resta controverso se il minore abbia o meno la capacità di stipulare il proprio contratto di lavoro. Il carattere strettamente personale dell’attività lavorativa da prestare induce a ritenere comunque rilevante, in proposito, la sua volontà (eventualmente, quindi, ove pure non lo si ritenga al riguardo senz’altro capace, in concorso con quella di chi lo assiste). 38 Ciò pure in assenza di una norma che esplicitamente lo consenta, come in Germania il § 110 BGB, che considera validi, appunto, i contratti conclusi dal minore coi mezzi che gli siano stati conferiti a tale scopo o messi a sua libera disposizione dal rappresentante legale (o da un terzo col consenso di questi: c.d. Taschengeld). Si tratta, in effetti, di atti di carattere patrimoniale strumentali all’esercizio delle libertà fondamentali del minore, funzionali allo sviluppo della sua personalità (art. 2 Cost.) e come tali da ritenere senz’altro consentitigli (anche senza la necessità, cioè, secondo una tradizionale opinione in materia, di giustificarne la validità, ai sensi dell’art. 13891, sulla base della presunta sussistenza di una procura tacita da parte di chi lo rappresenta legalmente). L’art. 4092, dettato in materia di amministrazione di sostegno, che ammette “in ogni caso” il relativo beneficiario a “compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana”, può essere, in realtà, considerato espressione di un principio di carattere generale (nel caso del minore, rapportandone le esigenze al suo sviluppo).

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Resta, comunque, l’esigenza di tutelare il minore al di fuori dell’area riconosciuta alla sua autonomia, assistendolo nel progressivo sviluppo della sua personalità e assicurando adeguata protezione ai suoi interessi personali e patrimoniali. Il carattere necessario di una simile tutela del minore risulta emergere, del resto, a livello costituzionale, dalla previsione dell’art. 30 Cost., che, da un lato, pone in capo ai genitori il dovere ed il diritto di mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio, e, dall’altro, rimette al legislatore la determinazione dei mezzi idonei a proteggere il minore nell’ipotesi di incapacità dei genitori 39.

8. Responsabilità genitoriale. – Alla luce di una simile esigenza di protezione degli interessi del minore, per la condizione di debolezza in cui versa il soggetto nella fase della sua crescita ed in considerazione dell’essenziale ruolo che naturalmente compete ai genitori nei suoi riguardi, il legislatore ha dettato un’articolata disciplina della responsabilità genitoriale 40. La responsabilità genitoriale, il cui esercizio è disciplinato dagli artt. 316 ss., si ricollega – al di là della ora operata scelta terminologica, evidentemente funzionale a evocare, già sul piano lessicale, una piena valorizzazione della dignità del figlio nella relazione che lo lega ai genitori, svuotandola di qualsiasi connotazione autoritaria – alla nozione di potestà, intesa quale situazione giuridica soggettiva complessa, attribuita dall’ordinamento in vista della tutela di interessi altrui reputati meritevoli di peculiare tutela (II, 3.7): in quanto tale, pure in considerazione della rilevanza generale dell’interesse protetto, può essere correttamente qualificata in termini di potere-dovere dei genitori (come ufficio di diritto privato). Essa è esercitata di comune accordo da entrambi i genitori 41. Circa gli aspetti di carattere più strettamente personale della responsabilità genitoriale, la relativa trattazione sarà svolta nella parte relativa alla famiglia, nel cui quadro troverà specifico approfondimento, appunto, il rapporto di filiazione (V, 4.9). Dettagliata risulta la disciplina del profilo patrimoniale della responsabilità genitoriale (art. 320). Questa si sostanzia nella rappresentanza del minore e nella amministrazione dei beni del medesimo: strumenti che consentono la cura dei beni del minore, il 39 L’esigenza di assicurare la tutela del minore, affidandone, in linea di principio, la responsabilità ai genitori, è riconosciuta dalla ricordata Convenzione di New York (art. 18, nonché il suo Preambolo). 40 Con l’entrata in vigore della Riforma del diritto di famiglia (L. 19.5.1975, n. 151), ispirata al principio di parità dei coniugi (anche, quindi, nei rapporti con i figli), la figura della potestà dei genitori aveva sostituito quella della patria potestà. A seguito della riforma della filiazione, operata dalla L. 10.12.2012, n. 219, la prospettiva ora privilegiata – compiutamente attuata col decreto legislativo adottato ai sensi del relativo art. 2 (in particolare, lett. h) – per delineare, sul piano terminologico-concettuale, il rapporto tra genitori e figli risulta quella della responsabilità genitoriale (artt. 316 ss.: V, 4.9). 41 In ordine alla durata della responsabilità genitoriale, nell’attuale art. 316 è caduto il riferimento, contenuto nel corrispondente articolo previgente, “all’età maggiore o alla emancipazione”. Da ciò non si manca di dedurre il relativo carattere più ampio rispetto alla precedente potestà genitoriale, in quanto destinata a proiettarsi, anche oltre il raggiungimento della maggiore età, fino al raggiungimento dell’autonomia economica del figlio. Ovviamente, l’accennato collegamento con l’idea di potestà conserva in pieno il suo significato in relazione alle peculiari esigenze di protezione del minore: in tale prospettiva si muove l’espressa precisazione circa il limite temporale dell’esercizio della responsabilità genitoriale, oltre che nell’art. 318, concernente l’abbandono della casa del genitore, sul piano patrimoniale, nell’art. 3201, a proposito della rappresentanza (e amministrazione) dei genitori, nonché nell’art. 3241, con riguardo all’usufrutto legale.

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quale, altrimenti, verserebbe nella impossibilità di preservare l’integrità del proprio patrimonio, in quanto istituzionalmente considerato privo della capacità di agire. I genitori esercenti la responsabilità genitoriale (o quello di essi che la eserciti in via esclusiva) hanno la rappresentanza legale del minore. Sul concetto di rappresentanza legale e, più in generale, su quello di rappresentanza, ci si soffermerà in seguito (VIII, 8.1 ss.). Pare sufficiente, per ora, limitarsi a considerare che l’istituto della rappresentanza legale assolve la fondamentale funzione di permettere al soggetto incapace (e, quindi, in particolare, al minore) di operare – sia pure non personalmente – nel mondo dei traffici giuridici. I genitori compiono in nome e per conto del minore, infatti, gli atti idonei ad incidere sulla sua sfera giuridica patrimoniale, così permettendo di attuare la modificazione delle sue situazioni giuridiche soggettive. Essi congiuntamente (salvo che nel caso di esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale da parte di uno di essi) rappresentano i figli (nati e nascituri) in tutti gli atti civili e ne amministrano i beni (art. 3201) 42. L’attività di amministrazione dei beni del minore comprende tutti gli atti necessari non solo alla conservazione, ma anche alla valorizzazione del patrimonio del minore. In base alla rilevanza dell’atto di amministrazione in relazione al patrimonio, si distinguono gli atti di ordinaria amministrazione dagli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione. In sostanza, l’atto deve reputarsi eccedente l’ordinaria amministrazione allorché comporti una modifica nella struttura del patrimonio. Al contrario, l’atto sarà considerato di ordinaria amministrazione ove non incida sulla sostanza del patrimonio, non comportandone una modifica nella composizione. Atti di ordinaria amministrazione sono principalmente quelli che concernono la gestione dei redditi e dei frutti dei beni rientranti nel patrimonio dell’incapace 43. L’art. 3201 pone la regola secondo cui gli atti di ordinaria amministrazione possono essere compiuti disgiuntamente da ciascun genitore. La minore rilevanza dell’atto in rapporto alla composizione del patrimonio dell’incapace rende inutile l’attività congiunta da parte dei genitori, anche al fine di rendere più agile l’attività di gestione. A garanzia di una maggiore ed equilibrata ponderazione dell’atto da compiere, viene prevista, comunque, la necessità dell’agire congiunto dei genitori, pure qualora l’atto da compiere consista in un contratto con il quale si acquista o si concede un diritto personale di godimento (ad es., un contratto di locazione). In relazione, invece, agli atti particolarmente significativi con riguardo alla struttura del patrimonio del minore (atti eccedenti l’ordinaria amministrazione), la valutazione circa l’opportunità del compimento dell’atto non spetta più soltanto ai genitori, ma viene rimessa altresì all’autorità giudiziaria (giudice tutelare, per le cui funzioni v. artt. 337 e 344), la quale dovrà valutare la necessità o utilità evidente del compimento dell’atto per il figlio: solo ad esito di tale valutazione il giudice tutelare rilascerà l’autorizzazione al com42 In caso di disaccordo o di esercizio difforme dalle decisioni concordate, l’art. 3202 rinvia all’applicazione delle disposizioni dettate dall’art. 316 in tema di esercizio, in genere, della responsabilità genitoriale (V, 4.9). 43 La distinzione tra le due categorie di atti è ritenuta dalla giurisprudenza (v. già Cass. 21-2-1969, n. 592, nonché, più di recente, Cass. 13-4-2010, n. 8720) non rispondere ad un preciso criterio tecnico-giuridico, riposando, piuttosto, sul criterio economico della maggiore o minore importanza patrimoniale degli stessi, a seconda, cioè, che modifichino la struttura e la consistenza del patrimonio del minore o siano semplicemente diretti alla sua conservazione o miglioramento o alla gestione delle relative rendite.

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pimento dell’atto (art. 3203). In altre parole, l’atto eccedente l’ordinaria amministrazione sarà compiuto dai genitori, in nome e per conto del figlio, previa autorizzazione da parte del giudice tutelare. È da sottolineare come il legislatore indichi atti che ricadono nel regime autorizzatorio (alienazioni, concessioni di garanzie reali, accettazione o rinunzie a eredità o legati, accettazione di donazioni, ecc.), prevedendo, poi, l’applicabilità dello stesso regime anche agli “altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione” (l’elencazione, quindi, ha carattere non tassativo, ma meramente esemplificativo) 44. I genitori, peraltro, non possono compiere taluni atti, pur di carattere patrimoniale (per quelli personali: matrimonio, V, 2.4; riconoscimento del figlio, V, 4.4), in nome e per conto del minore, dato il loro carattere strettamente personale (c.d. atti personalissimi): in particolare, testamento e donazione (art. 7771). Per il relativo compimento risulta necessaria la maggiore età (artt. 5912, n. 1 e 7741) 45. Vi sono, poi, altri atti che, sia pure per motivi differenti dai precedenti, sono radicalmente vietati ai genitori: essi non possono rendersi acquirenti (sia pure per interposta persona) dei beni o dei diritti del minore (i relativi atti sono considerati annullabili: art. 323). L’ultimo comma dell’art. 320 prevede l’ipotesi del conflitto di interessi patrimoniali tra i figli soggetti alla stessa responsabilità genitoriale, o tra essi e i genitori. In tale circostanza, il giudice tutelare nomina ai figli un curatore speciale, il quale rappresenterà il minore nel compimento dell’atto. Un curatore speciale può essere nominato anche nel caso in cui i genitori non possono o non vogliono compiere atti eccedenti l’ordinaria amministrazione nell’interesse del figlio (art. 321). Circa la sorte degli atti di amministrazione compiuti senza osservare le regole previste dal legislatore (come, ad es., l’atto con cui i genitori abbiano venduto un bene del figlio senza la necessaria autorizzazione del giudice tutelare), l’art. 322 ne sancisce l’annullabilità (VIII, 9.8 ss.) 46. L’azione di annullamento dell’atto può essere esercitata dai genitori esercenti la responsabilità genitoriale, dal figlio, nonché dai suoi eredi o aventi causa. L’azione di annullamento si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il minore ha raggiunto la maggiore età (art. 14422). Nel caso di decesso del minore in data anteriore al raggiungimento della maggiore età, il termine di prescrizione decorre dal giorno della morte del minore stesso 47. 44

Così, ad es., Cass. 8720/2010, ha reputato tale pure una “transazione relativa al risarcimento … quando abbia ad oggetto un danno che, per la sua natura e la sua entità, possa incidere profondamente sulla vita presente e futura del minore danneggiato”. Anche per la riscossione di capitali occorre l’autorizzazione del giudice tutelare, il quale deve prescriverne l’impiego (art. 3204). L’art. 3205, poi, disciplina l’esercizio di impresa commerciale da parte del minore, stabilendo che detto esercizio non può essere continuato se non con l’autorizzazione del tribunale su parere del giudice tutelare. Dati i pericoli insiti nell’attività d’impresa, il legislatore preclude al minore di intraprendere ex novo una simile attività. 45 Unica eccezione è la possibilità, per il minore ammesso a contrarre matrimonio, di fare validamente donazione nell’ambito della propria convenzione matrimoniale, con le forme di assistenza previste dalla legge (artt. 7741 e 165). 46 Un “annullamento parziale, cioè attinente alla sola parte del contratto che indica la persona dell’acquirente”, è stato ammesso da Cass. ord. 29-5-2014, n. 12117, con riguardo al caso in cui il genitore abbia acquistato per sé un immobile con il danaro del figlio, contravvenendo a quanto disposto dal giudice tutelare, che aveva autorizzato l’acquisto a favore del figlio. 47 Si ricordi come impedisca l’annullabilità del contratto stipulato dal minore l’avere costui “con raggiri occultato la sua minore età”, non essendo, comunque, a ciò sufficiente “la semplice dichiarazione da lui fatta di essere maggiorenne” (art. 1426).

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I genitori esercenti la responsabilità genitoriale sul minore hanno in comune l’usufrutto legale sui beni del medesimo (art. 324) 48. I frutti percepiti dai beni di quest’ultimo devono essere destinati al mantenimento della famiglia ed all’istruzione ed educazione dei figli (di tutti i figli, non solo del figlio proprietario dei beni sottoposti ad usufrutto legale). L’usufrutto legale non può essere oggetto di atti di disposizione (alienazione, pegno, ipoteca), né di esecuzione da parte dei creditori (art. 3261) 49. Il carattere funzionale – esclusivamente in vista, cioè, della tutela e piena realizzazione dell’interesse dei figli – del riconoscimento ai genitori della responsabilità genitoriale viene chiaramente evidenziato dai meccanismi di controllo sul suo esercizio 50. Proprio ad esito di un simile controllo, è addirittura consentita la pronuncia della decadenza dalla responsabilità genitoriale, quando il tribunale per i minorenni (competente per i provvedimenti in materia di responsabilità genitoriale) 51 accerti che il genitore abbia violato o trascurato i doveri ad essa inerenti o abusato dei relativi poteri con grave pregiudizio per il figlio (art. 3301). In tale caso può essere, per gravi motivi, ordinato l’allontanamento del figlio dalla residenza familiare o l’allontanamento del genitore (o convivente) che maltratti o abusi del figlio (art. 3302). Cessate le ragioni della decadenza, il genitore può essere, ovviamente, reintegrato nella responsabilità genitoriale (art. 332) 52. In caso di condotta pregiudizievole per il figlio di uno o di entrambi i genitori, ma non ricorrendo quella gravità che costituisce il presupposto della decadenza, possono essere adottati i provvedimenti ritenuti più opportuni, compreso l’allontanamento del figlio o del genitore dalla residenza familiare. Quello a disposizione dei giudici è uno strumento estremamente efficace e duttile, con cui, in particolare, può essere assicurato 48 L’art. 3243 elenca una serie di beni che non sono soggetti ad usufrutto legale, tra i quali, in primo luogo, i beni acquistati dal figlio con i proventi della propria attività lavorativa. È da sottolineare come sia da solo titolare dell’usufrutto legale il genitore che eserciti in modo esclusivo la responsabilità genitoriale (art. 327). 49 L’art. 3262 riconosce la possibilità, per i creditori dei genitori, di soddisfarsi esecutivamente solo limitatamente ai frutti dei beni del figlio e solo per debiti che il creditore non conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia. 50 Per l’indirizzo nel senso della ricorribilità per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., avverso i provvedimenti ablativi o limitativi della responsabilità genitoriale, una volta divenuti definitivi (sia pure rebus sic stantibus), v. Cass. 21-11-2016, n. 23633. 51 Si tenga presente come, l’art. 128 della L. 26.11.2021, n. 206, modificativo dell’art. 381 disp. att. c.c., nel confermare una simile competenza, abbia disposto quella del tribunale ordinario, in particolare, “quando è già pendente o è instaurato successivamente, tra le stesse parti, giudizio di separazione, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio”, nonché in altre ipotesi di giudizi coinvolgenti minori, prevedendo anche misure di coordinamento delle rispettive competenze, in particolare, con riguardo all’adozione degli “opportuni provvedimenti temporanei e urgenti nell’interesse del minore”. 52 Il carattere automatico della perdita della responsabilità genitoriale (ai sensi dell’art. 569 c.p.), con riguardo alla ipotesi di condanna del genitore per il delitto di alterazione di stato, di cui all’art. 5672 c.p., è stato, da Corte cost. 23-2-2012, n. 31, ritenuto porsi in contrasto con l’esigenza che “il giudice possa valutare, nel caso concreto, la sussistenza della idoneità del genitore” – per il quale non può considerarsi sussistere, nell’ipotesi in questione, “una presunzione assoluta di pregiudizio per gli interessi morali e materiali del minore” – “in funzione della tutela dell’interesse del minore”. Nella medesima prospettiva, Corte cost. 29-5-2020, n. 102, ha reputato illegittimo l’art. 574 bis3 c.p., nella parte in cui prevede, in caso di condanna del genitore per il delitto di sottrazione e mantenimento di minore all’estero, la sospensione dell’esercizio della responsabilità genitoriale, anziché la (mera) “possibilità per il giudice di disporre” tale misura. In particolare, per la decadenza dalla responsabilità genitoriale (di uno o di ambedue i genitori) in caso di inadeguatezza educativa connessa a condotte di criminalità organizzata, v. Trib. min. Reggio Calabria 6-10-2015, 8-3-2016, 17-5-2016, 31-10-2017.

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un esercizio della responsabilità genitoriale realmente rispettoso della sfera di autonomia che al minore è da garantire conformemente al grado di maturazione della sua capacità di discernimento. I provvedimenti adottati sono sempre revocabili (art. 333) 53. In relazione alla cattiva amministrazione dei beni del figlio, il tribunale può stabilire condizioni o, addirittura, rimuovere da essa uno o entrambi i genitori (in tal caso con la nomina di un curatore), privandoli anche in tutto o in parte dell’usufrutto legale (art. 334) 54. È prevista la riammissione nell’esercizio dell’amministrazione e nel godimento dell’usufrutto, una volta cessati i motivi della rimozione (art. 335). Il procedimento di controllo sull’esercizio della responsabilità genitoriale può essere attivato dall’altro genitore, dai parenti (con un allargamento dei vincoli familiari presi in considerazione dall’ordinamento evidentemente finalizzato ad una migliore tutela dell’interesse del minore) e dal pubblico ministero. La rilevanza fondamentale (e conseguentemente generale) dell’esigenza di assicurare al minore condizioni idonee alla sua crescita, evitandogli possibili pregiudizi, è attestata, oltre che da tale legittimazione del pubblico ministero, dal potere del tribunale di adottare anche di ufficio i provvedimenti temporanei eventualmente necessari (art. 336) 55. È da sottolineare come la L. 28.3.2001, n. 149, in vista dell’avvertita esigenza di garantire ai soggetti coinvolti (genitori e minore) un adeguato esercizio del diritto di difesa (come nel procedimento di adozione: V, 4.8), abbia previsto, per i procedimenti in materia di responsabilità genitoriale, la loro assistenza da parte di un difensore 56. 53 Le decisioni in merito alla somministrazione di vaccinazioni (anche in relazione ai relativi eventuali conflitti tra i genitori) si ritengono poter costituire campo di applicazione dei provvedimenti in questione (App. Napoli, sez. min., 30-8-2017). In materia di vaccinazioni obbligatorie, regole stringenti detta ora la L. 31-7-2017, n. 119. 54 La rimozione dall’amministrazione, data la gravità del provvedimento, “presuppone condotte pregiudizievoli o serio e concreto rischio patrimoniale secondo una valutazione improntata a criteri di oggettività” (Cass. 13-7-2018, n. 18777). 55 Si ricordi come la citata L. 26.11.2021, n. 206, nel contesto della disposta delega in tema di (ampia) riforma del processo civile, all’art. 126, abbia programmato un intervento di modifica dell’art. 336, prevedendo, da una parte, la legittimazione, in materia, anche del “curatore speciale del minore”, da nominare, se non “già nominato”, “sin dall’avvio del procedimento … nei casi in cui ciò è previsto a pena di nullità del provvedimento di accoglimento”; dall’altra, la fissazione, nel provvedimento di adozione dei provvedimenti temporanei nell’interesse del minore, di un termine perentorio per la fissazione dell’udienza di comparizione delle parti, del curatore del minore e del pubblico ministero, procedendo, ai fini (in tale udienza) della conferma, modifica o revoca dei provvedimenti emanati, anche all’ascolto del minore “direttamente e ove ritenuto necessario con l’ausilio di un esperto”. 56 Corte cost. 30-1-2002, n. 1, ha riconosciuto che, già alla luce dell’art. 12 della Convenzione sui diritti del fanciullo di New York, in quanto resa esecutiva nell’ordinamento interno con la L. 27.5.1991, n. 176, nelle procedure in questione risulta consentito “di configurare il minore come ‘parte’ del procedimento, con la necessità del contraddittorio nei suoi confronti, se del caso previa nomina di un curatore speciale ai sensi dell’art. 78 c.p.c.”. E ciò a maggior ragione in base alla L. 149/2001, “dalla quale chiaramente si evince l’attribuzione al minore (nonché ai genitori) della qualità di parte, con tutte le conseguenti implicazioni”. Da tali conclusioni, Cass., sez. un., 21-10-2009, n. 22238, ha tratto spunto per considerare senz’altro “necessaria l’audizione del minore” pure nelle procedure concernenti il relativo affidamento (con conseguente invalidità della decisione in caso di sua mancanza), non essendovi, però, la necessità anche della designazione di un curatore speciale e di un difensore (Cass. 31-3-2014, n. 7478). Analogamente, con riguardo al procedimento per il mancato illecito rientro del minore nell’originaria residenza abituale, Cass. 19-5-2010, n. 12293 (pure alla luce dell’art. 112 Regolamento 27.11.2003, n. 2201/2003/CE), “salvo ragioni di inopportunità, per età o grado di maturità, e a fortiori di danno per quest’ultimo” (e per la rilevanza decisiva, “in ordine al proprio rientro”

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PARTE IV – SOGGETTI

La vigilanza circa l’osservanza delle condizioni eventualmente stabilite dal tribunale per l’esercizio della responsabilità genitoriale e per l’amministrazione dei beni del figlio è affidata al giudice tutelare (art. 337).

9. Tutela. – Se entrambi i genitori sono morti o per qualunque altra causa (ad es., dichiarazione di assenza o pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale) non possono esercitare la responsabilità genitoriale, si apre la tutela presso il tribunale del circondario dove è la sede principale degli affari e interessi del minore (cioè il suo domicilio) (art. 343). L’istituto della tutela è da ritenersi espressione del precetto costituzionale secondo cui, nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti (art. 302 Cost.). La tutela ha, dunque, la funzione di garantire, attraverso l’intervento di un altro soggetto ed il controllo da parte di organi giudiziali sulla relativa attività 57, al minore la cura dei propri interessi personali e patrimoniali. Nella classificazioni delle situazioni giuridiche soggettive, la tutela è da inquadrare quale ufficio di diritto privato: i poteri riconosciuti a chi è investito di una simile potestà (si pardall’estero, della volontà del minore, v. Cass. 5-3-2014, n. 5237, Cass. 26-9-2016, n. 18846 e Cass. 8-2-2017, n. 3319). Così, si è ritenuto che il giudice, “nelle ipotesi in cui ravvisi di escludere l’ascolto, vale a dire solo quando esso sia manifestamente in contrasto con gli interessi superiori del fanciullo stesso, sia tenuto a fornire adeguata giustificazione” (Cass. 15-5-2013, n. 11687, in un procedimento di revisione delle condizioni della separazione personale dei genitori; Cass. 3319/2017, in un procedimento in tema di sottrazione internazionale di minore; in generale, Cass. 29-9-2015, n. 19327). Da sottolineare è la conclusione nel senso del costituire il minore “parte necessaria dei procedimenti de potestate che lo concernono” (con conseguente nullità, ove non sia “rappresentato da un tutore o comunque da un curatore speciale”: Cass. 6-3-2018, n. 5256). L’a s c o l t o d e l m i n o r e (“nell’ambito dei procedimenti nei quali devono essere adottati provvedimenti che lo riguardano”) viene ora compiutamente regolato dall’art. 336 bis, risultando esso da escludere solo se “in contrasto con l’interesse del minore, o manifestamente superfluo” e sempre “con provvedimento motivato” (art. 336 bis1): la finalizzazione alla valorizzazione della personalità del minore e alla sua autonomia nelle scelte esistenziali (secondo la prospettiva delineata da Cass. 26-3-2010, n.7282, alludendo alla necessità di “garantire l’esercizio effettivo del diritto del minore di esprimere liberamente la propria opinione”, richiamata e sviluppata da Cass. 5-3-2014, n. 5097) emerge con chiarezza dalla previsione secondo cui “prima di procedere all’ascolto il giudice informa il minore della natura del procedimento e degli effetti dell’ascolto” (art. 336 bis3). L’ascolto “è condotto dal giudice anche avvalendosi di esperti o di altri ausiliari” (art. 336 bis2) (la giurisprudenza avendo già reputato possibile “che il giudice, soprattutto quando particolari circostanze lo richiedano, possa avvalersi di esperti, delegando ad essi l’audizione del minore”: Cass. 11687/2013, Cass. 24-5-2018, n. 12957, la quale, ricostruendo sistematicamente la materia dell’ascolto del minore, evidenzia anche come il giudice debba “indicare perché l’ascolto effettuato nel corso delle indagini peritali o comunque da un esperto al di fuori del processo, sia idoneo a sostituire quello diretto”, dato che, come sottolinea, ad es., Cass. 11-6-2021, n. 16569, “solo l’ascolto diretto del giudice dà spazio alla partecipazione attiva del minore al procedimento che lo riguarda”). Comunque, l’art. 123, lett. dd, della ricordata L. 206/2021 ha demandato ai futuri decreti legislativi applicativi, in termini generali, “il riordino delle disposizioni in materia di ascolto del minore, anche alla luce della normativa sovranazionale di riferimento”. E l’art. 123, lett. t, dispone di prevedere che i provvedimenti relativi al minore debbano essere adottati sempre “previo ascolto non delegabile del minore … fatti salvi i casi di impossibilità del minore” (rendendosi necessitata “in ogni caso la videoregistrazione dell’audizione del minore”: art. 123, lett. s. Con l’art. 38 bis disp. att., si sono previste modalità di ascolto che escludono, per i soggetti ad esso interessati, la necessità dell’autorizzazione del giudice (richiesta in generale dall’art. 336 bis2). 57 In passato, una simile funzione di controllo era esercitata, nel quadro della considerazione da parte dell’ordinamento della famiglia in una prospettiva allargata (V, 1.2), dal consiglio di famiglia, del quale facevano parte, ai sensi dell’art. 251 cod. civ. 1865, quattro parenti (oltre al tutore, al protutore e al pretore, in funzione di presidente).

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la di potestà tutoria), infatti, devono essere esercitati nell’interesse del soggetto – nel caso specifico, il minore – che l’ordinamento, in base a valutazioni di ordine generale e sociale, intende proteggere (il relativo carattere funzionale viene sottolineato col parlare, pure al riguardo, di potere-dovere) (II, 3.7). L’ufficio tutelare è, non a caso, gratuito: il giudice tutelare, peraltro, in considerazione dell’entità del patrimonio e delle difficoltà dell’amministrazione, può assegnare al tutore un’equa indennità (art. 379). Rispetto alla responsabilità genitoriale, che trova il suo fondamento nel vincolo di sangue che lega i genitori al figlio e che, quindi, viene attribuita direttamente ai genitori dalla legge (come espressione del diritto riconosciuto dall’art. 301 Cost. ai genitori di esercitare la propria funzione, essenziale nella prospettiva dell’autonomia della famiglia), la tutela deriva da una pronuncia dell’autorità giudiziaria. È per questo che, nella tutela, in particolare in ordine all’attività di amministrazione del patrimonio del minore, sono previsti vincoli e controlli di maggiore intensità rispetto a quelli caratterizzanti l’esercizio della responsabilità genitoriale. Nel quadro dell’esercizio della tutela, un ruolo di primo piano assume la figura del giudice tutelare, il quale soprintende all’esercizio della medesima e può chiedere l’assistenza degli organi della pubblica amministrazione e di tutti gli enti i cui scopi corrispondono alle sue funzioni (art. 344). L’attività del giudice tutelare (che è un giudice investito di tale funzione presso ogni tribunale) si atteggia quale attività di controllo e coordinamento: in linea di massima, egli decide (o esprime parere) su tutte le questioni maggiormente rilevanti relative al minore ed al suo patrimonio. Presso ogni giudice tutelare è istituito il registro delle tutele, nel quale sono iscritti i principali provvedimenti concernenti la tutela e le sue vicende, con particolare riguardo a tutti quelli che comportano modificazioni nello stato personale o patrimoniale del minore. Dell’apertura e della chiusura della tutela il cancelliere dà comunicazione entro dieci giorni all’ufficiale dello stato civile per l’annotazione in margine all’atto di nascita del minore (art. 389). Il giudice tutelare, appena ricevuta notizia del fatto da cui deriva l’apertura della tutela, procede alla nomina del tutore e del protutore (art. 346) 58. Prima della nomina del tutore, deve essere sentito anche il minore che abbia raggiunto l’età di dodici anni (o prima ove capace di discernimento: art. 3483). Quanto ai criteri cui il giudice deve attenersi nella scelta del tutore, essi sono elencati dall’art. 348 (in ogni caso, la scelta deve cadere su persona idonea all’ufficio, di ineccepibile condotta, la quale dia affidamento di educare e istruire il minore conformemente a quanto è prescritto nell’art. 147). In primo luogo, il giudice tutelare nomina tutore la persona designata dal genitore che ha esercitato per ultimo la responsabilità genitoriale (tutela volontaria): la designazione può essere fatta per testamento, per atto pubblico o per scrittura privata autenticata. Qualora manchi la designazione, ovvero se gravi motivi si oppongono alla nomina della persona designata, la scelta del tutore avviene preferibilmente tra gli ascendenti o tra gli altri prossimi parenti o affini del minore (tutela legittima). Altrimenti, il tutore viene scelto tra altre persone (tutela dativa) o deferita a un ente di assistenza (tutela assistenziale), nel quale ul58 Si ricordi come l’art. 123, lett. dd, della L. 206/2021 abbia demandato ai decreti legislativi applicativi la previsione della “nomina di un tutore del minore, anche d’ufficio”, in particolare “in caso di adozione di provvedimenti ai sensi degli articoli 330 e 333”. Nell’ipotesi di pluralità di fratelli e sorelle, viene nominato un solo tutore, salvo che particolari circostanze consiglino la nomina di più tutori. Se vi è conflitto di interessi tra i minori soggetti alla stessa tutela, il giudice tutelare nomina ai minori un curatore speciale (art. 347).

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timo caso l’amministrazione dell’ente delega uno dei propri membri a esercitare le funzioni di tutela (art. 354) 59. Il tutore ha la cura della persona del minore, lo rappresenta in tutti gli atti civili e ne amministra i beni (art. 357) 60. Il tutore, quindi, assume sia una funzione di carattere personale che una funzione di carattere patrimoniale. Sotto il profilo personale, il tutore, in sostanza, ha gli stessi doveri che, ai sensi dell’art. 315 bis1, competono ai genitori: mantenimento, educazione, istruzione e assistenza morale del minore. In tale attività – e qui emerge la differenza rispetto alla responsabilità genitoriale – il tutore deve necessariamente attenersi alle direttive del giudice tutelare, il quale, su proposta del tutore (e sentito il protutore), delibera – sentito lo stesso minore che abbia compiuto i dieci anni (o prima se capace di discernimento e, eventualmente, ascoltati pure i parenti prossimi) – sul luogo dove il minore deve essere allevato e sul suo avviamento agli studi o all’esercizio di un’arte, mestiere o professione, nonché sulla spesa annua occorrente per il mantenimento e l’istruzione del minore (art. 3711, nn. 1 e 2) 61. Sotto il profilo patrimoniale, lo stesso giudice tutelare indica la spesa annua occorrente per l’amministrazione del patrimonio del minore, fissando i modi d’impiego del reddito eccedente (art. 3711, n. 2) ed autorizza il tutore ad investire i capitali del minore secondo i criteri specificamente indicati nell’art. 372. Il tutore, come accennato, rappresenta il minore in tutti gli atti civili – è pure questa una forma di rappresentanza legale (VIII, 8.1) – e amministra il patrimonio del medesimo. Rilevanti sono le differenze rispetto alla disciplina che regola l’attività di amministrazione dei genitori. Innanzitutto, al tutore non spetta l’usufrutto legale sui beni del minore, proprio in considerazione dell’assenza del carattere familiare del rapporto che, invece, costituisce attributo peculiare del rapporto genitore-figlio. Quanto agli atti di amministrazione, il tutore compie da solo, in nome e per conto del minore, gli atti di ordinaria amministrazione. Per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, la disciplina risulta più articolata di quella prevista per la responsabilità genitoriale dei genitori. In linea generale, gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione sono compiuti dal tutore previa autorizzazione del giudice tutelare (art. 374). Tuttavia, per gli atti che debbono reputarsi di maggiore importanza e che, comunque, comportano una rilevante modificazione (soprattutto qualitativa) della composizione del patrimonio del minore (quali, in particolare, alienazioni di beni, concessione di garanzie reali, divisioni e transazioni), l’atto non può essere compiuto se non previa autorizzazione del tribunale, su parere del giudice tutelare (c.d. atti di disposizione: art. 375). 59 Gli artt. 350, 351, 352 e 353 disciplinano le ipotesi di incapacità all’ufficio tutelare e di dispensa dall’ufficio tutelare. Proprio dalle norme che prevedono la dispensabilità dall’ufficio si tende a dedurre la sua doverosità. 60 A garanzia di una maggiore trasparenza nell’attività gestoria del tutore e, sostanzialmente, nell’interesse del minore, il tutore, nei dieci giorni successivi a quello in cui ha avuto legalmente notizia della sua nomina, deve procedere all’inventario dei beni del minore, nonostante qualsiasi dispensa (art. 362). Gli artt. 363 ss., poi, dettano specifiche disposizioni per la redazione dell’inventario. Il tutore, inoltre, deve rendere conto annualmente della contabilità relativa alla sua amministrazione al giudice tutelare (art. 380). Il giudice tutelare, infine, tenuto conto della particolare natura ed entità del patrimonio, può imporre al tutore di prestare una cauzione, determinandone l’ammontare e le modalità (art. 381). 61 L’art. 3711, n. 3, prevede la competenza del giudice tutelare a deliberare circa la convenienza di continuare o meno attività di tipo commerciale (in caso affermativo, il tutore deve domandare l’autorizzazione del tribunale: art. 3712).

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Analogamente a quanto previsto in relazione all’attività di rappresentanza e amministrazione dei genitori, l’atto compiuto senza osservare le regole accennate è considerato annullabile, su istanza del tutore, del minore o dei suoi eredi o aventi causa (art. 377). L’azione di annullamento – riconosciuta in conseguenza della incapacità, in quanto tale, del soggetto e del mancato rispetto delle norme che ne disciplinano, appunto, la rappresentanza – si prescrive, anche in tal caso, nel termine di cinque anni dal giorno in cui il minore ha compiuto la maggiore età, ovvero dal giorno della sua morte. Si è avuto modo di sottolineare, come il giudice tutelare, accanto alla nomina del tutore, provveda contemporaneamente a quella del protutore. Il protutore rappresenta il minore nei casi in cui l’interesse di questo è in contrasto con l’interesse del tutore 62. Il protutore, poi, è tenuto a promuovere la nomina di un nuovo tutore nel caso in cui l’originario tutore sia venuto a mancare o abbia abbandonato l’ufficio; frattanto, il protutore stesso assume la cura della persona del minore, lo rappresenta e può compiere tutti gli atti conservativi e gli atti urgenti di amministrazione (art. 3601,3) 63. Il protutore partecipa pure all’esame del conto finale della tutela (art. 3861) 64. In ordine alla responsabilità, il tutore deve amministrare il patrimonio del minore con la diligenza del buon padre di famiglia: egli risponde verso il minore di ogni danno a lui cagionato violando i propri doveri. Nella stessa responsabilità incorre il protutore per ciò che riguarda i doveri del proprio ufficio (art. 382). La tutela termina allorché il minore raggiunga la maggiore età o, eventualmente, qualora consegua la emancipazione per effetto del matrimonio. Il giudice tutelare, tuttavia, può sempre esonerare il tutore dall’ufficio, qualora l’esercizio di esso sia per il tutore soverchiamente gravoso e vi sia altra persona atta a sostituirlo (art. 383); può, altresì, rimuovere dall’ufficio il tutore che si sia reso colpevole di negligenza o abbia abusato dei suoi poteri, o si sia dimostrato inetto nell’adempimento di essi, o sia divenuto immeritevole dell’ufficio per atti anche estranei alla tutela, ovvero sia divenuto insolvente (art. 384) 65.

10. Emancipazione. – Il minore che abbia compiuto i sedici anni, qualora sussistano gravi motivi, può essere ammesso con decreto del tribunale per i minorenni al matrimonio, previo accertamento della sua maturità psico-fisica e della fondatezza delle ragioni addotte, sentito il pubblico ministero, i genitori o il tutore (art. 842) (V, 2.4). Il minore acquista, così, lo stato di emancipato: la emancipazione, pertanto, avviene di diritto in conseguenza del matrimonio (art. 390). Per effetto della emancipazione 66, il minore acquista una capacità di agire limitata. Il 62

Qualora anche il protutore si trovi in opposizione d’interessi con il minore, il giudice tutelare nomina un curatore speciale (art. 3602). 63 Sia per il tutore che per il protutore, analogamente a quanto previsto in relazione ai genitori esercenti la responsabilità genitoriale, sussiste il divieto di acquistare beni e diritti del minore (art. 378). 64 Altri interventi del protutore sono previsti dagli artt. 3711 e 3802. 65 Il tutore che cessa dalle funzioni deve subito fare la consegna dei beni e deve presentare al giudice tutelare, nel termine di due mesi, il conto finale dell’amministrazione (art. 385). Quest’ultimo deve essere approvato secondo la procedura stabilita dall’art. 386 (nella quale intervengono il protutore, il minore divenuto maggiore o emancipato, ovvero il nuovo rappresentante legale). Soltanto dopo un anno dall’approvazione del conto finale viene meno il divieto di contrarre sussistente tra tutore e minore (art. 388). 66 La quale conserva, dunque, solo una rilevanza marginale, ben diversa dal passato, quando essa era am-

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minore viene reputato idoneo a curare i propri interessi di natura personale e l’ordinamento interviene esclusivamente nella cura dei suoi interessi patrimoniali. La funzione di provvedere alla cura degli interessi patrimoniali del minore emancipato viene assolta dal curatore . Curatore del minore sposato con persona maggiore di età è il coniuge. Se entrambi i coniugi sono minori di età, il giudice tutelare può nominare un unico curatore, scelto preferibilmente tra i genitori (art. 392). Si è posto in evidenza che il curatore ha solo funzioni di carattere patrimoniale: la sua attività è limitata all’amministrazione del patrimonio del minore emancipato. Peraltro, a differenza di quanto avviene nella tutela, in cui il tutore rappresenta il minore, cioè agisce in nome e per conto del medesimo, il curatore si limita ad assistere il minore emancipato, senza rappresentarlo. L’atto, insomma, viene compiuto in prima persona dal minore emancipato, la cui volontà, quindi, è sempre essenziale. Tuttavia, il suo consenso non risulta sufficiente, in quanto deve essere necessariamente integrato dal consenso del curatore: l’atto compiuto dal minore emancipato col consenso del curatore è un atto soggettivamente complesso (II, 5.6), trattandosi, in particolare, di un atto complesso ineguale (nel senso che le dichiarazioni di volontà, rispettivamente, del minore emancipato e del curatore, si muovono su due differenti livelli, integrando la volontà del curatore quella dell’emancipato). In considerazione della sua limitata capacità di agire, il minore emancipato compie da solo gli atti di ordinaria amministrazione. Il minore emancipato può, con l’assistenza del curatore, riscuotere capitali sotto la condizione di un idoneo reimpiego e può stare in giudizio, sia come attore che come convenuto. Gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione sono compiuti dal minore emancipato, col consenso del curatore, previa autorizzazione del giudice tutelare. Per gli atti maggiormente rilevanti (atti di disposizione), indicati dall’art. 375 (e dianzi individuati), l’autorizzazione, se curatore non è il genitore, deve essere data dal tribunale previo parere del giudice tutelare (se curatore è il genitore, l’autorizzazione resta di competenza del giudice tutelare). Nell’ipotesi di conflitto d’interessi tra minore e curatore, il giudice tutelare nomina un curatore speciale (art. 394). Anche la violazione delle norme che regolano gli atti di amministrazione dei beni dell’emancipato comporta l’annullabilità dell’atto medesimo, che può essere richiesta dal minore o dai suoi eredi o aventi causa (art. 396). Pure qui, l’azione di annullamento si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno del compimento della maggiore età da parte del minore emancipato o dal giorno della morte di quest’ultimo. Una capacità di agire quasi piena acquista il minore emancipato autorizzato dal tribunale – previo parere del giudice tutelare e sentito il curatore – all’esercizio di impresa commerciale: questi, infatti, può compiere da solo anche gli atti che eccedono l’ordinaria amministrazione, pur se estranei all’esercizio dell’impresa (art. 397). Resta comunque preclusa al minore emancipato la possibilità di fare testamento (art. 5912, n. 1) e donazioni (art. 7742). La situazione di emancipazione termina con il raggiungimento della maggiore età da parte del minore emancipato.

messa, con apposito provvedimento giudiziale, a favore del diciottenne (che, ormai, dal 1975, viene senz’altro considerato maggiorenne).

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11. Cause modificative della capacità di agire e protezione dell’incapace. – Si è avuto modo di considerare come alcuni soggetti, i minori, siano senz’altro considerati privi della capacità di agire in dipendenza della loro età: in tale ipotesi, infatti, il legislatore muove da una sorta di presunzione che il minore sia inidoneo a provvedere ai propri interessi, fino al momento in cui raggiunga la maggiore età 67. L’esigenza di proteggere il soggetto incapace e di predisporre adeguati strumenti di tutela a suo favore sussiste pure in relazione a persone che, ancorché maggiori di età, non siano comunque dotate delle condizioni psicofisiche idonee a consentire una corretta cura dei propri interessi e, quindi, una ponderata esplicazione della propria autonomia negoziale. L’opportunità di tutelare il patrimonio e, in caso di necessità, anche la stessa persona dell’incapace, del resto, già veniva avvertita nell’ordinamento romano, che assicurava strumenti di protezione, tanto in favore del malato di mente (cura furiosi), quanto in favore del soggetto che amministrava rovinosamente il patrimonio ereditato, con danno della sua familia (cura prodigi). Il codice civile, anteriormente alle modifiche introdotte dalla L. 9.1.2004, n. 6, prevedeva due forme di protezione di diversa intensità: l’una (interdizione giudiziale), in relazione a soggetti considerati del tutto privi della capacità di provvedere ai propri interessi (quindi, sia di natura personale che di natura patrimoniale); l’altra (inabilitazione), in relazione a soggetti considerati semplicemente non in grado di provvedere in maniera adeguata ai propri interessi di natura patrimoniale. Alla rigidità dell’alternativa originariamente contemplata dal codice, la L. 6/2004 ha sostituito un sistema più elastico: da un lato, rendendo maggiormente flessibili, da parte dell’autorità giudiziaria, i provvedimenti di interdizione e di inabilitazione (come si constaterà, gli stessi provvedimenti di interdizione e di inabilitazione possono ora comportare restrizioni della capacità di agire del soggetto più o meno ampie) 68; dall’altro, introducendo l’istituto dell’amministrazione di sostegno. La ratio dell’intervento normativo in parola è da ricercare proprio nella esigenza di delineare, nel modo più appropriato rispetto alle reali esigenze di protezione del soggetto incapace, il sistema delle limitazioni della capacità di agire di quest’ultimo 69. Ciò contro una prospettiva – da tempo diffusamente criticata, ma sostanzialmente seguita ancora nel sistema originario del nostro codice – forse attenta, più che alla protezione dell’interesse del soggetto considerato incapace, alla salvaguardia degli interessi economici dei 67 In diversa prospettiva, è sempre più avvertita l’esigenza di considerare rilevante l’età sotto il profilo sociale della protezione degli anziani, il cui “diritto di condurre una vita dignitosa e indipendente e di partecipare alla vita sociale e culturale” risulta ora sancito dall’art. 25 Carta dir. fond. U.E. 68 Come evidenziato già da Cass. 12-6-2006, n. 13584, “anche le misure della interdizione e della inabilitazione risultano avere acquistato una maggiore flessibilità, venendo adattate alle concrete condizioni del soggetto protetto, in funzione di un possibile recupero di ogni residuo margine di autonomia dello stesso”. 69 Esplicito, al riguardo, risulta l’art. 1 della L. 6/2004, secondo cui “la presente legge ha la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente”. A tal fine, sul modello di quanto già avvenuto altrove (in particolare, in Austria e in Germania), non manca di essere proposto il superamento del sistema attuale, caratterizzato dal mero affiancamento del nuovo istituto dell’amministrazione di sostegno a quelli tradizionali della interdizione e della inabilitazione, con una radicale abrogazione della interdizione e della inabilitazione.

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suoi familiari (contro i temuti pericoli derivanti da una cattiva gestione del proprio patrimonio da parte del soggetto stesso) 70. Si è trattato, in effetti, di dare una coerente applicazione al principio – da considerarsi fondamentale in un ordinamento che intenda realmente promuovere il pieno sviluppo della personalità e l’uguaglianza pure in senso sostanziale di tutti i soggetti (artt. 2 e 3 Cost.) – chiaramente espresso nell’art. 3 L. 5.2.1992, n. 104 (legge quadro sui soggetti portatori di handicap) 71, secondo cui deve essere adottata ogni misura atta a valorizzare la capacità residua di chi si trovi in qualsiasi condizione di menomazione 72. La prospettiva seguita, allora, è quella di evitare, il più possibile, l’allontanamento del soggetto dalla vita di relazione, ritenendo a ciò funzionale il riconoscergli la possibilità di continuare ad operare autonomamente nel campo dei rapporti personali e di quelli patrimoniali, almeno fino al punto in cui non sussistano – in considerazione dell’esigenza di assicurarne la protezione – imprescindibili motivi di sostituirlo (o, preferibilmente, di assisterlo) nel relativo svolgimento.

12. Interdizione giudiziale. – Il maggiore di età e il minore emancipato, i quali si trovino in condizioni di abituale infermità di mente che li renda incapaci di provvedere ai propri interessi, sono interdetti, quando ciò sia “necessario per assicurare la loro adeguata protezione”. Nella sua attuale formulazione, l’art. 414 conferma, quali presupposti per la pronunzia di interdizione, lo stato di abituale infermità di mente e l’incapacità, a quest’ultima intimamente connessa, di provvedere ai propri interessi 73. Diversamente che in precedenza 74, però, viene resa esplicita la ratio del provvedimento in esame, che 70 L’idea che la disciplina in esame debba considerarsi finalizzata esclusivamente alla protezione del soggetto, nelle situazioni in cui si trovi a non poter esercitare in modo adeguato la sua autonomia decisionale (assicurare la quale rappresenta, quindi, l’obiettivo dichiaratamente privilegiato dall’ordinamento), emerge chiaramente dalla stessa intitolazione che la L. 6/2004 ha dato al titolo XII del libro I (“Delle misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia”). 71 La L. 1.3.2006, n. 67, poi, ha previsto il divieto di praticare qualsiasi “discriminazione in pregiudizio delle persone con disabilità”, con la previsione di incisive misure di tutela giurisdizionale e l’attribuzione di un ruolo di rilievo, al riguardo, alle associazioni ed agli enti operanti nel settore. 72 Si ricordi come l’art. 26 Carta dir. fond. U.E. riconosca il diritto dei disabili a vedersi garantiti “l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità”. In materia, essenziali si presentano anche i principi della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (New York, 13.12.2006, ratificata con L. 3.3.2009, n. 18). Ad essi è stata ritenuta conforme la nuova disciplina, in particolare dell’amministrazione di sostegno, con specifico riguardo alla proporzionalità delle misure, nonché alla loro temporaneità e rivedibilità (Cass. 25-10-2012, n. 18320). È in tale ottica che, da tempo, nella nostra legislazione risultano privilegiate modalità di trattamento della salute mentale non comportanti l’ospedalizzazione del soggetto (all’eliminazione degli ospedali psichiatrici ha provveduto, come è noto, la L. 13.5.1978, n. 180), con la valorizzazione dei profili di tutela giurisdizionale dell’interessato in caso di situazioni tali da giustificare, eccezionalmente, trattamenti sanitari obbligatori (artt. 34 e 35 L. 23.12.1978, n. 833, istitutiva del servizio sanitario nazionale), in relazione ai quali l’art. 322 Cost. prevede una riserva di legge e vieta, comunque, ogni violazione dei “limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Significative risultano anche le previsioni di cui all’art. 31,3-4, L. 22.12.2017, n. 219, tendenti a privilegiare forme di partecipazione (informazione e ascolto) dei soggetti legalmente incapaci ai processi decisionali concernenti la loro salute. 73 L’abitualità dell’infermità di mente viene intesa come “durata nel tempo tale da qualificarla come habitus normale del soggetto (ancorché in presenza di lucidi intervalli)” (Cass. 20-11-1985, n. 5709). 74 Il testo vigente anteriormente alla L. 6/2004 dell’art. 414 prevedeva che, in presenza delle ricordate condizioni, i soggetti dovessero essere senz’altro interdetti (mancando, quindi, qualsiasi riferimento alla necessaria ricorrenza di effettive esigenze di protezione). Significativa è la modificazione della rubrica dell’art. 414

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risulta ora esclusivamente quella di garantire un’adeguata protezione all’incapace: proprio (e solo) il carattere di reale necessarietà del provvedimento – alla luce delle concrete condizioni di salute e delle effettive esigenze dell’interdicendo – per la protezione dell’incapace costituirà, quindi, oggetto della valutazione che compete all’autorità giudiziale. Tra i soggetti legittimati a chiedere l’interdizione (art. 417), viene ora espressamente indicato, innanzitutto, lo stesso incapace. Tale circostanza permette di cogliere in pieno l’operata valorizzazione dell’idea che l’istituto dell’interdizione, pur comportando una forte limitazione della capacità dell’interdetto, sia comunque finalizzato alla tutela dell’interesse del medesimo: solo in una simile prospettiva, in effetti, si presta ad essere intesa la legittimazione del soggetto a chiedere la propria interdizione. Tra i soggetti legittimati all’istanza di interdizione, nel cui ambito risulta ora compresa anche la parte dell’unione civile (art. 115 L. 20.5.2016, n. 76), il legislatore contempla attualmente pure la “persona stabilmente convivente”. Previsione, questa, che, omettendo ogni precisazione del relativo concetto, suscita delicati problemi circa la concreta applicazione della disciplina così novellata 75. Resta inalterata la legittimazione del coniuge, dei parenti entro il quarto grado, degli affini entro il secondo grado, del tutore o curatore, nonché del pubblico ministero. Per la pronunzia di interdizione, risulta sempre necessario l’esame del soggetto interdicendo. All’uopo, il giudice 76 può farsi assistere da un consulente tecnico e può, anche d’ufficio, disporre i mezzi istruttori utili ai fini del giudizio, interrogare i parenti prossimi dell’interdicendo e assumere le necessarie informazioni (art. 419) 77. L’ampiezza dei poteri del giudice in materia denota la presenza di un interesse generale ad assicurare la protezione del soggetto che si pretenda essere incapace, ma solo a seguito, per la gravità delle conseguenze che ne derivano, di un rigoroso accertamento delle condizioni che impongano l’adozione delle misure necessarie. In tale prospettiva, è da evidenziare come, anche se venga chiesta la interdizione del soggetto, il giudice possa disporre, pure d’ufficio, la inabilitazione per infermità di mente. Viceversa, se nel corso del giudizio d’inabilitazione si riveli l’esistenza delle condizioni richieste per la interdizione, il pubblico ministero fa istanza al tribunale di pronunziare la interdizione e il tribunale provvede nello stesso giudizio, premessa l’istruttoria necessaria. È altresì ora possibile che, nonostante sia stata chiesta la interdizione o la inabilitazione, ove risulti opportuno, venga adottata l’amministrazione di sostegno, a tal fine disponendo il giudice la trasmissione del procedimento al giudice tutelare, per la pronunzia del relativo provvedimento (art. 418). Quanto agli effetti della interdizione, il momento decisivo è da individuarsi nella sentenza: ai sensi dell’art. 421, infatti, la interdizione produce i suoi effetti dal giorno della (da “persone che devono essere interdette” a “persone che possono essere interdette”). Circa il carattere ormai residuale dell’interdizione giudiziale, v., comunque, IV, 1.14. 75 Questione, questa, resa forse ancor più delicata dall’avvenuta “disciplina delle convivenze” nel contesto della L. 76/2016, ponendosi il problema della limitazione o meno di una simile legittimazione ai soli soggetti che si trovino, ricorrendo le condizioni ivi previste, nella situazione di “conviventi di fatto”, quale specificamente delineata nel relativo art. 136-37. 76 Competente per pronunciare l’interdizione (come pure l’inabilitazione) è il tribunale del luogo dove la persona nei cui confronti è proposta la istanza ha residenza o domicilio (art. 712 c.p.c.). 77 Dopo l’esame dell’interdicendo, qualora sia ritenuto opportuno, allo stesso interdicendo può essere nominato un tutore provvisorio (art. 4193). Nella sentenza che rigetta l’istanza d’interdizione, può disporsi che il tutore provvisorio permanga nel suo ufficio fino a che la sentenza non sia passata in giudicato (art. 422).

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pubblicazione della sentenza 78. Una prospettiva analoga vale per la cessazione degli effetti della interdizione: la revoca dello stato di interdizione si produce non quando viene meno la causa della interdizione, ma solo a far data dal passaggio in giudicato della sentenza che revoca l’interdizione medesima (art. 4311). Per evidenti ragioni di pubblicità, la sentenza d’interdizione deve essere annotata immediatamente, a cura del cancelliere del tribunale, nel registro delle tutele e comunicata entro dieci giorni all’ufficiale dello stato civile per l’annotazione in margine all’atto di nascita (art. 423). Alle stesse forme di pubblicità è soggetta anche la sentenza che pronunzia la revoca dello stato di interdizione (art. 430) 79. Con la sentenza di interdizione si dà luogo alla tutela: all’interdetto vengono assegnati un tutore e un protutore, ai quali, in base al rinvio operato dall’art. 424, si applicheranno le stesse norme che regolano la tutela del minore (IV, 1.9). Per la scelta del tutore dell’interdetto (come pure del curatore dell’inabilitato), viene fatto riferimento ai criteri ora dettati per la designazione dell’amministratore di sostegno (IV, 1.14), con la significativa precisazione che il giudice tutelare deve “individuare di preferenza la persona più idonea all’incarico”. Circa la durata della tutela, nessuno è tenuto a continuare l’incarico oltre dieci anni, ad eccezione del coniuge, della persona stabilmente convivente, degli ascendenti o dei discendenti (art. 426). Le conseguenze di maggiore rilevanza della interdizione giudiziale attengono alla drastica limitazione (che comunque non si risolve più senz’altro – come, invece, in precedenza – nella totale perdita) della capacità di agire, sia sotto il profilo personale che sotto quello patrimoniale. La interdizione giudiziale, infatti, consegue ad una valutazione di (almeno tendenziale) globale inettitudine del soggetto a provvedere ai propri interessi, sia quelli di natura personale che quelli di natura patrimoniale 80. Sotto il profilo personale, in analogia a quanto previsto in tema di tutela dei minori, al tutore compete la cura della persona dell’interdetto, comprensiva dell’obbligo di provvedere al mantenimento, all’istruzione, all’educazione e all’assistenza morale dell’interdetto medesimo. L’interdetto non può contrarre matrimonio (art. 85), né procedere al riconoscimento di figli nati fuori del matrimonio (un tale riconoscimento è impugnabile: art. 266) 81. 78 Eccezione a tale principio è prevista nell’ipotesi di interdizione del soggetto nell’ultimo anno della sua minore età: in tal caso, l’interdizione ha effetto dal giorno in cui il minore raggiunge la maggiore età (art. 416). Tale disposizione è dettata in vista dell’ovvia esigenza di assicurare uno strumento di protezione dell’incapace, senza soluzione di continuità, nel passaggio dalla minore alla maggiore età. È da sottolineare che gli effetti della interdizione si producono a prescindere dal passaggio in giudicato della relativa sentenza (a differenza di quanto stabilito dall’art. 4311 per gli effetti della sua revoca). 79 Alquanto contraddittoriamente, con seri dubbi circa la legittimità costituzionale della relativa disciplina, il legislatore non ha modificato il previgente elenco dei soggetti legittimati a richiedere la revoca dell’interdizione (art. 4291, cui l’art. 115 L. 76/2016 ha espressamente aggiunto la parte dell’unione civile), pur avendo ammesso anche lo stesso interessato (oltre che il convivente) a proporre l’istanza di interdizione (o di inabilitazione). 80 L’incapacità di provvedere ai propri interessi “va riguardata anche sotto il profilo degli interessi non patrimoniali, sempre che si tratti di interessi che possano subire pregiudizio da atti giuridici, e per la cui difesa, pertanto, sia configurabile una supplenza del tutore” (Cass. 18-12-1989, n. 5652, che si riferisce, in particolare, alla necessità di “ovviare ai pericoli derivanti dal rifiuto, per infermità psichica, di cure od interventi medici”). Ciò con la conseguenza che, “in mancanza di un espresso divieto, in nome e per conto dell’interdetto per infermità possa essere compito anche un atto personalissimo (sempre che sia accertato che l’atto corrisponda a un suo interesse e volto effettivamente a dare attuazione alle sue esigenze di protezione)” (Cass. 6-6-2018, n. 14666). 81 In relazione all’esercizio, da parte del tutore, di diritti personalissimi dell’incapace, Cass. 16-10-2007, n. 21748, ha ritenuto che “il tutore – in contraddittorio col curatore speciale – di una persona interdetta, giacente in persistente stato vegetativo”, possa essere autorizzato dal giudice “ad interrompere i trattamenti sanitari che la

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È sotto il profilo patrimoniale e, precisamente, dell’amministrazione del patrimonio dell’incapace, comunque, che si registra una importante modificazione rispetto alla disciplina anteriore alla L. 9.1.2004, n. 6. In precedenza, per effetto della interdizione giudiziale, l’interdetto veniva sempre del tutto privato della capacità di agire (incapacità generale). Pertanto, gli atti di ordinaria amministrazione venivano compiuti dal tutore, quale rappresentante legale dell’interdetto. Quanto agli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, il relativo regime risultava assimilato a quello già ricordato in tema di tutela del minore (art. 424), dovendo essi, in via generale, essere compiuti dal tutore, previa autorizzazione del giudice tutelare, ad eccezione degli atti più importanti, i c.d. atti di disposizione, compiuti dal tutore, previa autorizzazione del tribunale, su parere del giudice tutelare. Oggi tale regime resta operante solo qualora lo specifico provvedimento che pronuncia la interdizione non preveda nulla al riguardo. Dispone, infatti, l’art. 4271 che, nella sentenza che pronuncia la interdizione o in successivi provvedimenti, può stabilirsi che taluni atti di ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’interdetto senza l’intervento, ovvero con la mera assistenza, del tutore. Pur restando, quindi, immutato il pregresso regime per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, più elastico si presenta, così, quello degli atti di ordinaria amministrazione. In considerazione, cioè, della concreta condizione personale dell’incapace, a costui potrà essere riconosciuta una limitata capacità di agire, seppure circoscritta, appunto, a taluni atti di ordinaria amministrazione 82: egli potrà essere autorizzato a compierli da solo o con l’assistenza del tutore. In tale ultimo caso, l’atto sarà compiuto in prima persona dall’interdetto ed esclusivamente integrato dal consenso del tutore (secondo lo schema dell’atto soggettivamente complesso). All’interdetto è senz’altro preclusa la possibilità, oltre che di effettuare donazioni (art. 7741), di fare testamento (art. 5912, n. 2) 83. tengono artificialmente in vita, ivi compresa l’idratazione e l’alimentazione artificiale a mezzo di sondino”: questo, però, solo una volta accertate la irreversibilità di tale condizione e la conformità dell’istanza alla presumibile volontà del paziente, dato che “il tutore deve decidere non al posto dell’incapace né per l’incapace, ma con l’incapace”, “ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente”. Sia in considerazione di ciò (mancando una sicura ricostruibilità della volontà dell’interessato), sia per l’essere la validità del richiesto consenso informato condizionata ad una adeguata “attività di informazione e di supporto psicologico” (ovviamente assente in casi del genere), Trib. Vigevano 28-5-2009 ha respinto la domanda del tutore di essere autorizzato ad esprimere il consenso all’applicazione – ai sensi della L. 40/2004 – delle tecniche di procreazione assistita ad un soggetto in stato di definitiva incoscienza. Si ricordi che l’art. 45 L. 1.12.1970, n. 898, prevede la nomina di un curatore speciale quando il convenuto (in una procedura di divorzio) sia “malato di mente o legalmente incapace” e Cass. 21-7-2000, n. 9562, ha interpretato estensivamente la disposizione, ammettendo il legale rappresentante dell’incapace a proporre la domanda di divorzio. Cass. 14666/2018, ha ritenuto senz’altro applicabile una simile disciplina anche in materia di procedure di separazione personale Ai sensi dell’art. 33 della L. 219/2017, è il tutore ad esprimere o rifiutare “il consenso informato della persona interdetta”, alla salvaguardia della personalità dell’incapace risultando orientata, peraltro, la previsione del suo ascolto (almeno “ove possibile”) e, comunque, del “pieno rispetto della sua dignità”. L’art. 35 disciplina, inoltre, con la rimessione della decisione al giudice tutelare, l’ipotesi di rifiuto, da parte del rappresentante legale (“in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento”), delle “cure proposte”, che “il medico ritenga invece … appropriate e necessarie”. 82 La nuova disciplina pare riferirsi, in primo luogo, agli “atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana”, il cui compimento l’art. 4092 consente senz’altro al beneficiario dell’amministrazione di sostegno. In relazione a tale tipo di atti, pare preferibile ritenere, peraltro, che la previsione contenuta nell’art. 4092 valga semplicemente a confermare espressamente un principio da ritenersi già operante, almeno tendenzialmente, per tutti i soggetti legalmente incapaci. 83 La interdizione e la inabilitazione vengono ad incidere anche sui rapporti in atto del soggetto (v., in particolare, artt. 193, 1626, 1722, 2286).

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Circa la sorte degli atti compiuti in violazione delle norme che regolano l’amministrazione dei beni dell’interdetto, basti far rinvio a quanto osservato in relazione alla tutela del minore 84, con la differenza che il termine quinquennale di prescrizione dell’azione di annullamento dell’atto decorrerà dalla cessazione dello stato di interdizione e, quindi, dal momento del passaggio in giudicato della sentenza che revoca la interdizione (oltre che, eventualmente, dal giorno della morte dell’interdetto).

13. Inabilitazione. – Il maggiore di età infermo di mente, lo stato del quale non sia talmente grave da far luogo all’interdizione, può essere inabilitato. Possono, altresì, essere inabilitati coloro che per prodigalità 85 o per abuso abituale di bevande alcoliche o di stupefacenti, espongano sé o la loro famiglia a gravi pregiudizi economici. Infine, possono essere inabilitati il sordo e il cieco dalla nascita o dalla prima infanzia 86, se non hanno ricevuto un’educazione sufficiente, a meno che questi ultimi non risultino addirittura del tutto incapaci di provvedere ai propri interessi, nel qual caso risulterà necessaria la loro interdizione (art. 415). L’inabilitazione è una forma di limitazione della capacità di agire meno grave della interdizione giudiziale. È da sottolineare, soprattutto, come le conseguenze della inabilitazione rilevino esclusivamente sotto il profilo patrimoniale (così, in particolare, l’inabilitato può contrarre matrimonio e può riconoscere il figlio nato fuori del matrimonio) 87. Le norme che disciplinano il procedimento d’inabilitazione sono le stesse, già esaminate, dettate per quello d’interdizione (IV, 1.12): l’inabilitazione può essere promossa, attualmente, su istanza anche dello stesso soggetto interessato o della persona con lui stabilmente convivente (oltre che dal coniuge, dalla parte dell’unione civile, dai parenti entro il quarto grado, dagli affini entro il secondo, dal tutore e dal pubblico ministero); l’inabilitando deve essere esaminato dal giudice 88; gli effetti della inabilitazione si producono dalla pubblicazione della relativa sentenza e la revoca ha efficacia a partire dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di revoca; la sentenza d’inabilitazione e 84 L’art. 4272 si limita a prevedere genericamente che gli atti compiuti dall’interdetto dopo la sentenza di interdizione possono essere annullati su istanza del tutore, dell’interdetto o dei suoi eredi o aventi causa. 85 La “prodigalità come causa autonoma di inabilitazione del non infermo di mente oggi può considerarsi sussistere giuridicamente solo quando il fine che si persegue o il motivo – dal quale si è spinti nello spendere, nel donare o nel rischiare oltre quanto viene comunemente fatto – possa considerarsi futile, come nel caso che tali azioni vengano compiute per frivolezza, per vanità, per ostentazione del lusso o semplicemente a dispetto dei vincoli di solidarietà familiare” (Cass. 19-11-1986, n. 6805; Cass. 13-1-2017, n. 786, in cui si evidenziano anche gli “ampi poteri officiosi” del giudice). Comunque, palesando la tendenza ad un drastico ridimensionamento (se non sostanziale azzeramento), in via esegetica, dell’ambito proprio dell’inabilitazione, a favore di un’espansione di operatività dell’amministrazione di sostegno (IV, 1.14), Cass. 7-3-2018, n. 5492, richiamando pure precedenti pronunce nello stesso senso, ha concluso che possa senz’altro “adottarsi la misura di protezione dell’amministrazione di sostegno, nell’interesse del beneficiario, anche quando ricorra una condizione di prodigalità” (nel caso di specie, per ludopatia). 86 Per la programmatica valorizzazione – nella ricordata ottica del maggiore inserimento sociale possibile di chi pure si trovi in condizioni di menomazione psicofisica – della capacità di agire della “persona affetta da cecità congenita o contratta successivamente”, v. la L. 3.2.1975, n. 18 (provvedimenti a favore dei ciechi). 87 In una simile prospettiva, l’art. 34 L. 219/2017, prevede che “il consenso informato della persona inabilitata è espresso dalla medesima persona inabilitata”. 88 Il giudice, dopo l’esame, qualora lo ritenga opportuno, può nominare un curatore provvisorio all’inabilitando (art. 4193).

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l’eventuale sentenza di revoca sono annotate nel registro delle curatele ed annotate in margine all’atto di nascita. Con la sentenza di inabilitazione si dà luogo alla curatela. Viene nominato all’inabilitato un curatore, che avrà – nello svolgimento della sua funzione di assistenza (e non di rappresentanza, come invece il tutore per l’interdetto) – gli stessi poteri del curatore del minore emancipato. Questi ultimi, pertanto, avranno un contenuto prettamente patrimoniale e l’esercizio dei medesimi viene regolato, appunto, stante il rinvio operato dall’art. 424, dalle stesse norme dettate in materia di curatela dei minori emancipati (IV, 1.10). Anche in relazione agli atti di amministrazione dei beni dell’inabilitato è da evidenziare il rilievo delle modifiche apportate dalla L. 6/2004. Qualora nulla sia disposto nella sentenza di inabilitazione, gli atti di amministrazione seguono le regole previste per la emancipazione: l’inabilitato compie da solo gli atti di ordinaria amministrazione; può, con l’assistenza del curatore, riscuotere capitali sotto la condizione di un idoneo reimpiego e può stare in giudizio; gli altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione sono compiuti dall’inabilitato, col consenso del curatore, previa autorizzazione del giudice tutelare; gli atti di disposizione sono compiuti dall’inabilitato, col consenso del curatore e previa autorizzazione (se curatore non è il genitore) del tribunale, su parere del giudice tutelare 89. Tuttavia, l’art. 4271 prevede ora che nella sentenza che pronuncia la inabilitazione può stabilirsi che taluni atti eccedenti l’ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’inabilitato senza l’assistenza del curatore. Evidente è l’importanza della previsione, dato il riferimento generico alla categoria degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione: abbandonato il sistema fondato sulla rigidità della categorizzazione delle incapacità legali di agire, il giudice ha, infatti, la possibilità di delineare una situazione che avvicina l’inabilitato, ancorché sempre concretamente in relazione a taluni atti, ad un soggetto pienamente capace. Una simile scelta non potrà che dipendere da una attenta analisi della condizione personale dell’inabilitato. Quanto alla sorte degli atti compiuti in violazione delle norma che regolano l’amministrazione dei beni dell’inabilitato, basti far rinvio a quanto osservato in relazione alla curatela del minore emancipato, con l’unica differenza che il termine quinquennale di prescrizione dell’azione di annullamento dell’atto decorrerà dalla cessazione dello stato di inabilitazione e, quindi, dal momento del passaggio in giudicato della sentenza che revoca l’inabilitazione (oltre che, eventualmente, dal giorno della morte dell’inabilitato). Mentre l’interdetto non può fare testamento, deve ritenersi che all’inabilitato, stante l’assenza di apposita previsione, tale possibilità non sia preclusa (come, invece, quella di fare donazioni: art. 7741).

14. Amministrazione di sostegno. – La principale innovazione apportata dalla L. 9.1.2004, n. 6, consiste nell’introduzione dell’istituto dell’amministrazione di sostegno (artt. 404 ss.) 90, che si pone, tra le forme di protezione del soggetto in condizioni di 89 Si ritiene che l’inabilitato necessiti sempre dell’assistenza del curatore per stare in giudizio (“senza distinguere a seconda dell’attività” da svolgere: Cass., sez. un., 19-4-2010). L’inabilitato può continuare l’esercizio dell’impresa commerciale soltanto se autorizzato dal tribunale su parere del giudice tutelare. L’autorizzazione può essere subordinata alla nomina di un institore (art. 425). 90 Sul modello della sauvegarde de justice, da tempo esistente in Francia (artt. 491 ss. code civil), e di analoghi istituti introdotti anche in molti altri paesi (ad es., Betreuung, §§ 1896 ss. BGB, in Germania).

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menomazione 91, quale alternativa – da considerarsi privilegiata da parte del legislatore 92 – rispetto alle tradizionali figure della interdizione giudiziale e della inabilitazione 93. Presupposto per l’assegnazione al soggetto di un amministratore di sostegno è la impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, dovuta ad infermità ovvero menomazione fisica o psichica (art. 404) 94. Il decreto di nomina dell’am91 L’introduzione dell’istituto dell’amministrazione di sostegno rappresenta, in effetti, la più chiara espressione delle finalità della L. 6/2004, quali enunciate nel (dianzi ricordato: IV, 1. 11) suo art. 1. La relativa finalità di limitare “nella minore misura possibile” la capacità dell’interessato è energicamente sottolineata da Corte cost. 9-12-2005, n. 440, che ha conseguentemente respinto i dubbi di legittimità costituzionale relativi al nuovo istituto, manifestati per una sua presunta “mancanza di caratteri distintivi sufficienti” rispetto alla interdizione e alla inabilitazione. Queste ultime, in effetti, sono considerate dalla Corte “ben più invasive misure”, da adottare solo “se non si ravvisi interventi di sostegno idonei ad assicurare all’incapace” adeguata protezione, in modo “puntualmente correlato alle caratteristiche del caso concreto”. In base a tale impostazione, una “operazione di ‘perimetrazione’ dell’istituto dell’amministrazione di sostegno” rispetto all’interdizione e all’inabilitazione ha inteso compiere Cass. 12-6-2006, n. 13584 (seguita dalla successiva giurisprudenza: indicativamente, Cass. 26-7-2013, n. 18171 e Cass. 4-3-2020, n. 6079), secondo cui “l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore capacità di tale strumento di adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa” (dovendosi tenere conto essenzialmente “del tipo di attività che deve essere compiuta per conto del beneficiario, e considerate anche la gravità e la durata della malattia, ovvero la natura e la durata dell’impedimento, nonché tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie”). Così, Cass. 11-9-2015, n. 17962, ha ritenuto meglio attagliarsi, rispetto all’interdizione, l’istituto dell’amministrazione di sostegno per curare, con riguardo a soggetto “affetto da lieve ritardo mentale” e con un “grosso patrimonio economico”, “gli interessi del soggetto in situazioni di maggiore complessità”. Proprio in vista dell’obiettivo di evitare quelle eventualmente inutili limitazioni della capacità dell’interessato, connesse alla sua interdizione, Cass. 22-4-2009, n. 9628, ha sottolineato che “ben può il giudice graduare il progetto di sostegno in modo tale da escludere che … l’incapace possa svolgere un’attività negoziale pregiudizievole”. In una simile prospettiva si tende a distinguere la configurazione dell’amministrazione di sostegno come “sostitutiva o mista” (quando “presenta caratteristiche affini alla tutela”) o come “puramente di assistenza” (quando “si avvicina alla curatela”), a seconda del “tipo di attività che deve essere compiuta per conto del beneficiario e considerate anche la gravità e la durata della malattia, ovvero la natura e la durata dell’impedimento” (Cass. 6079/2020). 92 Il “carattere del tutto residuale della misura della interdizione, ormai destinata a collocarsi quale extrema ratio cui ricorrere in casi limite”, evidenzia decisamente Cass. 13584/2006, la cui impostazione risulta pienamente condivisa, ad es., da Cass. 9628/2009 e Cass. 22332/2011 (nonché dalla giurisprudenza di merito: ad es., Trib. Perugia 17-10-2013). 93 Se il soggetto sottoposto ad amministrazione di sostegno è un interdetto o un inabilitato, il relativo decreto è esecutivo dalla pubblicazione della sentenza di revoca della interdizione o della inabilitazione (art. 4053). 94 Cass. 2-8-2012, n. 13917, evidenzia che “l’amministrazione di sostegno non presuppone necessariamente l’accertamento di una condizione di infermità di mente, ma contempla anche l’ipotesi che sia riscontrata una menomazione fisica o psichica, della persona sottoposta ad esame, che determini, pur se in ipotesi temporaneamente o parzialmente, una incapacità nella cura dei propri interessi” (analogamente, ad es., Cass. 31-12-2020, n. 29981). Comunque, si tende ad escludere il ricorso all’amministrazione di sostegno, trattandosi pur sempre di una “privazione, sia pur parziale, della capacità di agire “, ove si tratti di soggetti “in grado di esercitare con pienezza i loro diritti avvalendosi del proficuo aiuto da parte di terzi” (ad es., attraverso “il conferimento di una procura generale notarile … in riferimento agli incombenti più importanti e coinvolgenti il compimento di attività di straordinaria amministrazione”: Trib. Vercelli 16-10-2015). Insomma, in genere, l’esigenza dell’attivazione è da escludere “in presenza di rete sociale attenta e vigile di idoneo supporto alla persona” (come ribadito da Trib. Modena 5-2-2016). Data la necessaria ricorrenza, ai fini dell’amministrazione di sostegno, “di alterazioni della capacità derivanti da patologia o comunque da menomazioni incidenti sulla sfera psico-fisica”, essa “non può essere istituita sul mero presupposto dell’analfabetismo dell’interessato” (Cass. 28-2-2018, n. 4709). Inoltre, è ostativa la circostanza che il soggetto “pienamente luci-

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ministratore di sostegno 95 deve contenere una serie di indicazioni che valgono a delineare i poteri e i limiti delle attribuzioni dell’amministratore di sostegno stesso (il quale ha la funzione di assistere il soggetto interessato, significativamente indicato dalla legge quale beneficiario della sua attività di assistenza) 96. Il decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno e quello eventuale di chiusura, così come ogni altro provvedimento assunto nel relativo corso, devono essere annotati nell’apposito registro delle amministrazioni di sostegno (tenuto presso l’ufficio del giudice tutelare), nonché in margine all’atto di nascita del beneficiario. Nel corso del procedimento 97 il giudice tutelare (organo preposto alla procedura e all’operatività dell’amministrazione di sostegno) deve sentire personalmente la persona cui il procedimento si riferisce, recandosi, ove occorra, nel luogo in cui questa si trova, e “deve tener conto, compatibilmente con gli interessi e le esigenze di protezione della persona, dei bisogni e delle richieste di questa” (art. 4072) 98. Circa la legittimazione a presentare il ricorso per la istituzione dell’amministrazione di sostegno, che può comunque do, vi si opponga”, sempre che risultino comunque tutelati i suoi interessi “sia in via di fatto dai familiari che per il sistema di deleghe attivato autonomamente dall’interessato” (Cass. 27-9-2017, n. 22602). 95 Il decreto di nomina dell’amministratore di sostegno, ove si tratti di minore non emancipato, può essere emesso solo nell’ultimo anno della sua minore età e diventa esecutivo dal momento in cui la maggiore età è raggiunta (art. 4052). Discussa è la possibilità di nomina di un co-amministatore di sostegno: Trib. Varese 7-12-2011, la esclude, ma ammette la possibilità di nominare ausiliari (sulla base del combinato disposto degli artt. 4111 e 3792). Nel senso della possibile nomina di due amministratori di sostegno, “a condizione di definire preventivamente le rispettive funzioni”, Trib. Modena 16-6-2014 (e v. anche, a condizione di “differenziare i poteri conferiti a ciascuno”, Trib. Genova 17-12-2015). Affermata la generale reclamabilità dinanzi alla Corte d’appello, quale che sia il loro contenuto, dei decreti emessi dal giudice tutelare in materia di amministrazione di sostegno (720 bis2 c.p.c.), Cass., sez. un., 30-7-2021, n. 21985, ha limitato la ricorribilità per cassazione contro il relativo decreto della Corte d’appello (720 bis3 c.p.c.) ai soli casi di provvedimenti con “carattere di decisorietà” (come, in particolare, apertura e chiusura dell’amministrazione), escludendo quelli “di natura meramente ordinatoria” (“gestori”, come la designazione, revoca e sostituzione dell’amministratore). 96 Tra le indicazioni previste nell’art. 4055, particolarmente rilevanti risultano quella concernente l’oggetto dell’incarico e degli atti che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario (n. 3) e quella relativa agli atti che il beneficiario può compiere solo con l’assistenza dell’amministratore di sostegno (n. 4). La funzione di assistenza anche alla persona emerge dal n. 6, in cui si allude al periodico dovere dell’amministratore di sostegno di riferire al giudice tutelare “circa l’attività svolta e le condizioni di vita personale e sociale del beneficiario”. Si sottolinea correntemente che “la misura di protezione deve essere ‘modellata’ sulle specifiche esigenze e necessità del beneficiario” (così, ad es., Trib. Milano 3-11-2014). 97 Il controverso problema della necessità o meno dell’assistenza legale dell’interessato è stato risolto nel senso dell’“adozione di soluzioni differenziate, a seconda delle varie fattispecie per le quali è richiesta l’amministrazione di sostegno”: l’esigenza di difesa tecnica ricorre nel caso di “provvedimenti incidenti su diritti fondamentali riconducibili all’esplicazione della personalità dell’individuo”, “attraverso la previsione di effetti, limitazioni o decadenze analoghi a quelli previsti per l’interdetto o l’inabilitato” (Cass. 29-11-2006, n. 25366, Cass. 20-3-2013, n. 6861). Viene evidenziato che, nella procedura, “l’unica parte che può dirsi necessaria è il beneficiario dell’amministrazione di sostegno” (Cass. 18-6-2014, n. 13929). Per Cass., sez. un., 18-1-2017, n. 1093, il pubblico ministero è litisconsorte necessario nel procedimento. 98 Con riguardo alla rilevanza da accordare all’eventuale dissenso dell’interessato, Corte cost. ord. 19-1-2007, n. 4, ha ritenuto sufficienti le garanzie offerte da quanto previsto, in ordine alle attribuzioni del giudice tutelare, dall’art. 4072. Valorizzando la ratio dell’istituto, tendente a “privilegiare il rispetto dell’autodeterminazione dell’interessato” e della sua “dignità”, Cass. 27-9-2017, n. 22602, conferisce peso determinante, di fronte ad una “limitazione di autonomia” che “si colleghi ad un impedimento soltanto di natura fisica”, alla “volontà contraria all’attivazione della misura di sostegno, ove provenga da persona pienamente lucida” e “capace di operare le scelte di vita” (pena, appunto, “la violazione dei diritti fondamentali della persona”).

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PARTE IV – SOGGETTI

essere proposto dallo stesso soggetto beneficiario anche se minore, interdetto o inabilitato (art. 4061, ove si richiama l’indicazione dei soggetti di cui all’art. 417) 99, si rinvia a quanto rilevato in tema di interdizione giudiziale e inabilitazione, risultando ormai unificata la relativa disciplina (IV, 1.12-13). La scelta dell’amministratore di sostegno (i cui criteri trovano ora applicazione, come accennato, anche per la scelta del tutore dell’interdetto e del curatore dell’inabilitato) deve avvenire con esclusivo riguardo alla cura ed agli interessi della persona del beneficiario e, addirittura, può essere designato dallo stesso beneficiario, in previsione della propria eventuale futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata. In mancanza di nomina da parte dello stesso beneficiario, il giudice tutelare sceglierà l’amministratore di sostegno tra i soggetti più vicini al destinatario del provvedimento: coniuge, parte dell’unione civile (ai sensi dell’art. 115 L. 76/2016), persona stabilmente convivente 100, genitori, figlio, parenti entro il quarto grado (art. 4081, che allude anche al soggetto designato dal genitore superstite) 101. L’amministratore di sostegno deve svolgere i suoi compiti tenendo conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario e deve tempestivamente informare il beneficiario circa gli atti da compiere, nonché il giudice tutelare in caso di dissenso con il beneficiario stesso (art. 410) 102. Quanto alla capacità del soggetto sottoposto ad amministrazione di sostegno, questi conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno (art. 4091) 103. In questa previsione è possibile cogliere la sostanziale differenza che intercorre tra l’amministrazione di sostegno e le altre forme di limitazione della capacità di agire: mentre l’amministrazione di sostegno comporta una limitazione relativa solo a singoli atti o categorie di atti, specificamente individuati dal giudice nel provvedimento di nomina dell’amministratore (art. 4055, nn. 3 e 4), l’interdizione giudiziale e la inabilitazione determinano una compressione più o meno ampia della capacità di agire, a seconda della gravità del vizio po99 Cass. 20-12-2912, n. 23707, in proposito, ha precisato che “non è legittimata a proporre il ricorso per la nomina dell’amministratore di sostegno in proprio favore la persona che si trovi nella piena capacità psico-fisica, presupponendo l’attivazione della procedura la sussistenza della condizione attuale d’incapacità, in quanto l’intervento giudiziale non può essere che contestuale al manifestarsi dell’esigenza di protezione del soggetto”. 100 L’art. 148 L. 76/2016, sovrapponendosi a quanto contemplato nell’art. 4081, prevede la possibilità di nomina (come tutore, curatore o amministratore di sostegno) del “convivente di fatto”, anche al riguardo ponendosi, quindi, la questione se, ora, debbano sussistere, ai fini della ricorrenza di una simile situazione, le condizioni prescritte nell’art. 136-37. 101 Si è precisato che, dovendo il giudice tutelare “avere esclusivo riguardo all’interesse del beneficiario”, “l’elenco delle persone indicate nell’art. 408, tra le quali effettuare la scelta, non contiene alcun criterio preferenziale” (Cass. 26-9-2011, n. 19596). In relazione alla possibile nomina, quale amministratore di sostegno, di un comune (con la conseguente possibilità di “impartire ordini all’amministratore di sostegno per regolare i suoi rapporti con il delegato/ausiliare” di cui l’ente si avvalga), v. Cass. 5-3-2018, n. 5123. 102 Con ciò intendendosi, evidentemente, garantire una partecipazione attiva del beneficiario – rispettosa, quindi, nei limiti del possibile, della sua autodeterminazione – alla cura dei propri interessi. 103 L’art. 4092 prevede che il beneficiario dell’amministrazione di sostegno “può in ogni caso compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana”. Una simile previsione, benché dettata in tema di amministrazione di sostegno, sembra da ritenersi applicabile pure nelle ipotesi del minore e dell’interdetto (e anche a prescindere dall’ora consentita eventuale espressa autorizzazione, per l’interdetto, ai sensi dell’art. 4271): in tale prospettiva, pare così risultare esplicitamente confermato un principio che, già da tempo, la dottrina non ha mancato di enucleare.

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sto a base dell’incapacità, non per singoli atti o categorie di atti, bensì in via generale (oltre che tendenzialmente stabile) 104. È da ipotizzare, ad es., che il giudice, in considerazione della concreta situazione personale e patrimoniale del beneficiario, nel nominare l’amministratore di sostegno, limiti la sua attività di rappresentanza agli atti di alienazione di beni immobili, in quanto reputati particolarmente rilevanti e rischiosi per il soggetto, ovvero disponga che il beneficiario, sempre in considerazione delle sue particolari condizioni, sia semplicemente assistito dall’amministratore di sostegno nel compimento di quegli stessi atti. Pertanto, l’ampia discrezionalità rimessa dal legislatore all’autorità giudiziaria nella determinazione dei poteri dell’amministratore di sostegno e, di riflesso, nella delimitazione della capacità di agire del beneficiario, pare assumere il ruolo di connotato peculiare del nuovo istituto 105. Il giudice tutelare, nel provvedimento di nomina dell’amministratore di sostegno, o anche in un momento successivo, può disporre che “determinati effetti, limitazioni o decadenze, previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato, si estendano al beneficiario dell’amministrazione di sostegno, avuto riguardo all’interesse del medesimo ed a quello tutelato dalle predette disposizioni” (art. 4114). Tale previsione rappresenta un’ulteriore riprova del carattere di estrema duttilità che può assumere il provvedimento di nomina dell’amministratore di sostegno, a seconda della maggiore o minore gravità delle condizioni del beneficiario (e, più in generale, a seconda della situazione in cui egli concretamente si trovi) 106. 104 Mentre interdizione ed inabilitazione “attribuiscono uno status di incapacità … detto status non è, invece, riconoscibile in capo al beneficiario dell’amministrazione di sostegno” (Cass. 13584/2006 e 9628/2009). L’amministrazione di sostegno, del resto, è concepita quale forma di tutela anche solo temporanea, come è chiarito dalla possibile eventuale predeterminazione della relativa durata (art. 4055, n. 2). 105 Si ricordi pure come, alla luce della previsione di principio di cui all’art. 1 della L. 6/2004, la protezione del soggetto da sottoporre ad amministrazione di sostegno debba avvenire con la minore limitazione possibile della capacità di agire. 106 Proprio in considerazione di ciò, Corte cost. 440/2005 ha evidenziato che “in nessun caso i poteri dell’amministratore di sostegno possono coincidere ‘integralmente’ con quelli del tutore o del curatore” (e v. anche supra, nota 91). Concepita essenzialmente con riferimento alla materia patrimoniale (come sembra deducibile dalla complessiva formulazione dell’art. 4055), l’amministrazione di sostegno potrà comportare limiti anche alla capacità del beneficiario in campo non patrimoniale, data la ricordata possibilità che il relativo provvedimento estenda a lui “limitazioni” previste per l’interdetto, come quelle relative al matrimonio ed al riconoscimento di figli naturali (in mancanza di simili “limitazioni”, conservando, allora, il beneficiario, in particolare, “la capacità di contrarre matrimonio, unicamente limitabile in presenza di situazioni eccezionali”: Trib. Modena 18-12-2013; per la conservazione della capacità matrimoniale di persona con sindrome di Down, v. Trib. Varese 6-10-2009). Le possibili limitazioni concernono, in particolare, gli atti personalissimi di carattere patrimoniale, quali il testamento e la donazione, come evidenziato, ad es., da Cass. 21-5-2018, n. 12460, dato che “la previsione di tali incapacità può risultare strumento di protezione particolarmente efficace per sottrarre il beneficiario a potenziali pressioni e condizionamenti da parte di terzi”. Così, Corte cost. 10-5-2019, n. 114, ha giudicato infondato il dubbio di legittimità costituzionale concernente l’art. 7741 (XII, 1.3), reputando che esso non è da assumere nel senso dell’esclusione della capacità di donare del beneficiario, dovendosi ritenere, piuttosto, che il giudice tutelare possa, ai sensi dell’art. 4114, “anche d’ufficio limitarla, con esplicita clausola, tramite l’estensione del divieto previsto per l’interdetto e l’inabilitato dall’art. 7741, primo periodo”. Quanto agli atti di carattere non patrimoniale, Cass. 26-7-2018, n. 19866, ha, in via generale, concluso che “l’amministrazione di sostegno può essere disposta anche nel caso in cui sussistano soltanto esigenze di cura della persona, senza la necessità di gestire un patrimonio”. In una simile prospettiva, l’art. 34 L. 219/2017 prevede ora che, ove “sia stato nominato un amministratore di sostegno la cui nomina preveda l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, il consenso informato è espresso o rifiutato anche dall’amministratore di sostegno ovvero solo da quest’ul-

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Quanto alla sorte degli atti compiuti dal beneficiario o dall’amministratore di sostegno in violazione di norme di legge o delle disposizioni del giudice nel provvedimento che istituisce l’amministrazione di sostegno 107, essi sono annullabili su istanza dell’amministratore di sostegno, del pubblico ministero, del beneficiario o dei suoi eredi ed aventi causa. L’azione di annullamento si prescrive nel termine di cinque anni a far data dal giorno in cui sia cessato lo stato di sottoposizione ad amministrazione di sostegno (art. 412). La cessazione dell’amministrazione di sostegno può derivare, oltre che dalla morte del beneficiario, esclusivamente da un provvedimento di revoca (che lo stesso interessato è ammesso a richiedere) o da un provvedimento con cui sia disposta l’interdizione giudiziale o l’inatimo” (comunque “tenendo conto della volontà del beneficiario”) (a tale disposizione si richiama, ad es., Trib. Modena 23-3-2018). Peraltro, Trib. Pavia 24-3-2018 ha dubitato della legittimità costituzionale di tale disposizione, nella parte in cui non prevede l’esigenza, con riguardo alla “possibilità di rifiutare trattamenti sanitari necessari al mantenimento in vita”, di un’autorizzazione del giudice tutelare. Corte cost. 13-6-2019, n. 144, ha giudicato infondata la questione, rilevando che “le norme censurate non attribuiscono ex lege a ogni amministratore di sostegno che abbia la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario anche il potere di esprimere o no il consenso informato ai trattamenti sanitari di sostegno vitale”, spettando comunque al giudice tutelare “attribuirglielo in occasione della nomina … o successivamente, allorché il decorso della patologia del beneficiario specificamente lo richieda”. E Trib. Roma 22-1-2021 evidenzia, in proposito, la necessità che l’eventuale rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale da parte dell’amministratore di sostegno a ciò autorizzato sia realmente espressivo della volontà dell’assistito “da ricostruirsi sulla base delle sue precedenti dichiarazioni, ovvero della sua personalità, del suo stile di vita e dei suoi convincimenti etici e religiosi”. Il ricorso all’istituto dell’amministrazione di sostegno, in effetti, è stato ben presto diffusamente reputato idoneo ad assicurare il rispetto della volontà dell’interessato in ordine ai trattamenti sanitari praticabili nei suoi confronti (ed al loro eventuale rifiuto), in caso di prevista susseguente incapacità ad esprimere la propria volontà (valorizzando – in sostanza, con gli effetti di un testamento biologico, o, secondo la terminologia oggi più accreditata, di direttive, o disposizioni, anticipate di trattamento: IV, 2.5 – quanto disposto dall’art. 408, circa la possibile designazione dell’amministratore di sostegno da parte dello stesso interessato: ad es., Trib. Modena 13-5-2008 e 14-5-2009; App. Cagliari 21-1-2009; Trib. Prato 4-5-2009). Al fine indicato, peraltro, vi è stato contrasto circa la possibilità, oltre che di effettuare la mera designazione da parte dell’interessato (in vista, cioè, di una eventuale futura nomina, nel caso in cui si realizzino le condizioni di cui all’art. 404), anche di procedere già “alla nomina di un amministratore di sostegno per una persona attualmente capace e non affetta da alcuna patologia”: così, in senso favorevole, Trib. Firenze 22-12-2010; contrari, ad es., Trib. Verona 4-1-2011 e Trib. Pistoia 8-6-2009, che sottolinea, per la nomina, la necessaria “attualità del requisito dell’impossibilità del beneficiario di provvedere ai propri interessi”. La prospettiva negativa, al riguardo, risulta accolta da Cass. 23707/2012, la quale – pur (cautamente) premettendo “l’irrilevanza ai fini della presente decisione della problematica attinente alla natura ed agli effetti delle direttive anticipate di trattamento” – ritiene, comunque, che il soggetto, nel designare (ai sensi dell’art. 408, come “esplicazione del principio dell’autodeterminazione della persona”) il proprio amministratore di sostegno, possa esprimere “intenzioni”, restando, così, il designato “vincolato alle indicazioni manifestate nella condizione di capacità dal soggetto” (peraltro, “sempre revocabili”), con “il potere ed il dovere di esternarle” in ordine “agli atti di cura che impongono trattamenti sanitari” (onde “orientare l’intervento del sanitario” e “imporne la delibazione da parte del giudice nell’esercizio dei suoi poteri … in sede d’autorizzazione agli interventi che incidono sulla salvaguardia della salute del beneficiato in caso di sua incapacità”). Effettivamente, la materia in questione, in Germania, è stata disciplinata nel 2009 proprio nel contesto dell’amministrazione di sostegno (col riconoscimento all’amministratore di sostegno di una posizione di garanzia, nei rapporti con i sanitari, della volontà – espressa o presunta – precedentemente manifestata dall’interessato). La problematica sembra, comunque, destinata a risultare tendenzialmente superata dalla disciplina, con la L. 219/2017, delle “disposizioni anticipate di trattamento”, data la prevista possibilità di indicare, nel relativo contesto, una “persona di fiducia”, cui resta affidato, in sostanza, il compito di interagire con i sanitari nell’applicazione delle disposizioni stesse (art. 41-5; e v. anche l’art. 52-4, in relazione all’“eventuale indicazione di un fiduciario”, con riguardo alla “pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico”). 107 È da tenere presente che l’art. 4111 dichiara applicabili all’amministrazione di sostegno, sia pure “in quanto compatibili”, una serie di disposizioni concernenti la tutela (e v. anche l’art. 4112). Discussa, con riguardo a quanto discende dai richiamati artt. 374 e 375, è la necessità dell’autorizzazione del giudice tutelare nel caso in cui il decreto di nomina dell’amministrazione di sostegno si riferisca a singoli atti.

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bilitazione del soggetto (la cui procedura può essere attivata anche d’ufficio) (art. 413) 108. Si ricordi, tuttavia, anche la possibilità che l’amministratore di sostegno sia nominato a tempo determinato (art. 4055, n. 2) 109.

15. Interdizione legale. – Radicalmente diversa dall’interdizione giudiziale, nel fondamento e nelle conseguenze, è la interdizione legale, cui sono sottoposti, ai sensi dell’art. 32 c.p., i soggetti condannati all’ergastolo o alla reclusione per un periodo di tempo non inferiore a cinque anni (per delitto non colposo: art. 33 c.p.). L’interdizione, in tal caso, viene definita legale in quanto costituisce un effetto che discende automaticamente dalla sentenza di condanna, senza risultare dalla sentenza. L’interdizione legale differisce da quella giudiziale, innanzitutto, quanto al fondamento. Essa non è una forma di protezione predisposta in favore di un soggetto incapace di provvedere ai propri interessi, bensì una pena accessoria rispetto alla condanna principale. Si spiega, pertanto, la consistente differenza tra interdizione legale ed interdizione giudiziale sotto il profilo delle conseguenze. L’interdetto legale subisce, sotto il profilo della capacità di agire, limitazioni analoghe a quelle dell’interdetto giudiziale, con la significativa particolarità, tuttavia, che dette limitazioni attengono solamente alla sfera patrimoniale e non a quella personale del condannato. In altre parole, mentre costui potrà disporre dei suoi beni e dei suoi diritti solo con le forme abilitative richieste dalla legge per l’amministrazione dei beni dell’interdetto giudiziale, risulta ammesso a compiere liberamente gli atti di natura personale (matrimonio, riconoscimento di figlio naturale, nonché testamento) 110. La peculiarità dell’interdizione legale può essere colta soprattutto sotto il profilo della sanzione che colpisce gli atti compiuti dall’interdetto legale al di fuori delle forme abilitative prescritte: detti atti sono annullabili, ma l’annullamento può essere chiesto da chiunque vi abbia interesse (art. 14412). Si parla, al riguardo, di annullabilità assoluta, come ipotesi che, eccezionalmente, si contrappone appunto a quella relativa (costituente la regola), la quale può, in quanto tale, essere fatta valere solo dalla parte nel cui interesse è stabilita dalla legge (VIII, 9.8). La ragione di una simile deviazione dal principio generale in materia è da cogliersi proprio nel carattere sanzionatorio e non protettivo dell’interdizione legale. Il carattere assoluto dell’annullabilità costituisce, infatti, un connotato che rende del tutto precario per l’incapace lo stato in cui versano gli atti da lui conclusi senza l’osservanza delle prescrizioni circa la sua rappresentanza. Potendo questi ultimi essere impugnati da chiun108 Corte cost. 440/2005 ha giudicato infondati anche i dubbi di illegittimità costituzionale legati alla possibile insorgenza di conflitti tra giudice tutelare, competente per l’amministrazione di sostegno, e tribunale, competente per l’interdizione e l’inabilitazione: i “meccanismi processuali di composizione di siffatti eventuali conflitti” sono individuati nella possibilità di impugnazione dei relativi provvedimenti, nonché negli “specifici strumenti di raccordo tra il procedimento di amministrazione di sostegno e quelli di interdizione o inabilitazione”, in forza dei quali “l’incapace … non rimane comunque privo di tutela” (il riferimento è agli artt. 4134, 4183 e 4293). 109 Se la durata dell’incarico è a tempo determinato, le annotazioni effettuate in margine all’atto di nascita e nel registro delle amministrazioni di sostegno devono essere cancellate alla scadenza del termine indicato nel decreto di apertura o in quello eventuale di proroga (art. 4059). 110 Con la L. 24.11.1981, n. 689, è stata abrogata la previsione del codice penale che considerava il condannato all’ergastolo incapace di testare (e nullo il testamento eventualmente già in precedenza fatto).

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que vi abbia interesse (e, di conseguenza, dalla stessa controparte contrattuale), all’incapace è, in sostanza, inibito di operare convenientemente negli affari di persona (risolvendosi, insomma, la pena accessoria in una sorta di rimozione del condannato dalla vita economica attiva, eco dell’antica morte civile).

16. Incapacità naturale. – Mentre l’amministrazione di sostegno, l’interdizione giudiziale e l’inabilitazione conferiscono al soggetto, ad esito di un attento vaglio dell’autorità giudiziaria e in conseguenza di un provvedimento che ne accerta i presupposti, una condizione legale, dalla quale derivano limitazioni più o meno ampie della sua capacità di agire, l’incapacità naturale (o non dichiarata) consiste nella incapacità di fatto del soggetto di intendere o di volere. È incapace naturale, appunto, colui il quale, pur legalmente capace, nel momento del compimento di una attività giuridicamente rilevante, in concreto, non è in grado di valutare la portata del suo contegno, consapevolmente determinandosi al riguardo. L’incapacità d’intendere o di volere, che può anche discendere da una causa transitoria 111, assume rilievo ai fini della validità dell’atto compiuto, qualora ricorrano determinate circostanze previste dal legislatore. In particolare, ai sensi dell’art. 4281, gli atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata, per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace d’intendere o di volere al momento del compimento dell’atto medesimo, possono essere annullati su istanza della persona medesima o dei suoi eredi o aventi causa, se ne risulta un grave pregiudizio per l’autore 112. Quanto ai contratti conclusi dall’incapace d’intendere o di volere, gli stessi possono essere annullati solo quando, per il pregiudizio che ne sia derivato o possa derivare all’incapace stesso o per la qualità del contratto o altrimenti, risulti la malafede dell’altro contraente (art. 4282). Le disposizioni contenute nei primi due commi dell’art. 428 e dianzi considerate hanno dato luogo a delicati problemi di natura esegetica. La norma tende ad essere (soprattutto in giurisprudenza) interpretata restrittivamente: nel senso che, mentre ai fini dell’annullamento degli atti (intesi, quindi, nell’accezione di negozi unilaterali) è richiesta la prova del grave pregiudizio per l’autore, per l’annullamento dei contratti risulta sufficiente la prova della malafede dell’altro contraente, senza doversi dare una autonoma dimostrazione del grave pregiudizio per l’incapace 113. Una diversa lettura (estensiva) 111 Non occorre, in proposito, la sussistenza di “una malattia che escluda in modo totale ed assoluto le facoltà psichiche del soggetto”, bastando un “perturbamento psichico, anche se transitorio e non dipendente da una precisa forma patologica, tale da menomare gravemente le facoltà intellettive del soggetto medesimo, in modo da impedirgli o da ostacolargli una seria valutazione dei propri atti e la formazione di una cosciente volontà” (Cass. 6-4-1987, n. 3321, Cass. 8-6-2011, n. 12532, Cass. 30-5-2017, n. 13659). Si è pure sottolineato che “una volta accertata la totale incapacità di un soggetto in due determinati periodi prossimi nel tempo, per il periodo intermedio la sussistenza dell’incapacità è assistita da una presunzione iuris tantum” (Cass. 9-8-2011, n. 17130, nonché, ad es., Cass. 3-1-2014, n. 59 e Cass. 4-3-2016, n. 4316). Alla rilevanza eventualmente decisiva di “indizi e presunzioni”, allude Cass. 13659/2017. 112 Cass. 4-3-1986, n. 1375, ha precisato, in relazione al concetto di grave pregiudizio, cui l’art. 4281 fa riferimento, che non deve trattarsi necessariamente di un pregiudizio di natura economica o patrimoniale, ben potendo esso consistere nella lesione di altri interessi del soggetto, in particolare personali. 113 Tale lettura della norma è correntemente riaffermata dalla Cassazione (ad es.: 17-6-2021, n. 17381; 8-2-2012, n. 1770; 9-8-2007, n. 17583; 12-7-1991, n. 7784), secondo cui, appunto, il grave pregiudizio per l’autore non rileva, “a differenza che per i negozi unilaterali”, quale “elemento costitutivo e concorrente” per

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dell’art. 4281 – tale, cioè, da intendere il termine atti nel senso di atti negoziali in genere e non specificamente di negozi unilaterali – comporterebbe, invece, ai fini dell’annullamento del contratto, la necessità di dimostrare il grave pregiudizio per l’incapace, oltre che la malafede dell’altro contraente. Un esempio può contribuire a chiarire meglio la differenza tra le conseguenze della incapacità naturale e quelle dell’interdizione (quale forma di incapacità legale). Se l’interdetto compie personalmente un atto al di fuori delle modalità abilitative richieste, l’atto è sempre annullabile (anche qualora, insomma, l’interdetto risulti, in concreto, capace d’intendere e di volere al momento del compimento del medesimo, nonché a prescindere dal pregiudizio arrecatogli e dalla consapevolezza della controparte). Qualora lo stesso atto sia compiuto da una persona legalmente capace di agire, ma incapace di intendere o di volere al momento del compimento dell’atto, esso sarà annullabile solo a condizione che sia provato – con le precisazioni accennate – il pregiudizio per l’autore e, nell’ipotesi del contratto, la malafede della controparte. L’azione di annullamento del negozio compiuto dall’incapace di intendere o di volere si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno del compimento dell’atto e non dal giorno in cui sia cessata la causa dell’incapacità naturale (art. 4283) 114. Quanto accennato in relazione all’art. 428, che può considerarsi quale disciplina generale degli atti negoziali compiuti da persona incapace d’intendere o di volere, non vale per il matrimonio, per il testamento e per la donazione. In tali ipotesi, infatti, la sussistenza dell’incapacità naturale assume un rilievo autonomo per l’annullabilità dell’atto, senza che sia necessario fornire la prova del grave pregiudizio per l’autore o, eventualmente, della mala fede dell’altro contraente. Il matrimonio (art. 120), l’unione civile (art. 15 L. 76/2016), il testamento (art. 5912, n. 3) e la donazione (art. 775) compiuti in stato di incapacità d’intendere o di volere sono, cioè, di per sé annullabili. Nella materia degli atti illeciti, infine, la capacità d’intendere e di volere (e non la capacità legale di agire) rappresenta, come già accennato (IV, 1.6), presupposto di imputabilità del fatto dannoso all’agente: non risponde delle conseguenze del fatto dannoso chi non aveva la capacità d’intendere o di volere al momento in cui lo ha commesso, a meno che lo stato d’incapacità derivi da sua colpa (art. 2046).

l’annullamento del contratto concluso da persona incapace d’intendere o di volere, risultando sufficiente la dimostrazione della malafede dell’altro contraente: il pregiudizio rappresenta “solo uno degli indizi rivelatori del requisito essenziale della malafede, la quale consiste unicamente nella consapevolezza che un contraente abbia della menomazione dell’altro nella sfera intellettiva o volitiva”. 114 Secondo un indirizzo giurisprudenziale (peraltro non da tutti condiviso), in caso di condanna penale per il reato di circonvenzione di incapace (art. 643 c.p.), il contratto stipulato dalla vittima dovrebbe ritenersi nullo, ai sensi dell’art. 14181 (per violazione di norme imperative, c.d. nullità virtuale: VIII, 9.5) e non semplicemente annullabile (Cass. 20-4-2016, n. 7785, in linea, ad es., con Cass. 27-1-2004, n. 1427, nonché Cass. 20-3-2017, n. 7081), sottolineandosi come il “bene protetto” dalla norma penale non sia da ritenere il “patrimonio dell’incapace”, la sanzione ricollegandosi, piuttosto, alla lesione della “libertà di autodeterminazione dell’incapace” (della “libertà negoziale”, cioè, “quale valore fondamentale riconosciuto dall’ordinamento”, come tale rilevante anche in assenza dei rigorosi requisiti soggettivi ed oggettivi richiesti per la ricorrenza della fattispecie di cui all’art. 428). Cass. 15-9-2017, n. 21449, evidenzia come il giudice – trattandosi di “una violazione di disposizioni di ordine pubblico in ragione delle esigenze d’interesse collettivo sottese alla tutela penale” – sia “tenuto a rilevare tale nullità d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio”.

CAPITOLO 2

DIRITTI DELLA PERSONALITÀ Sommario: 1. Persona e diritti fondamentali. – 2. Caratteristiche. – 3. Tutela. – 4. Dignità della persona. – 5. Vita, integrità fisica e salute. – 6. Integrità morale. Onore e reputazione (e relativi limiti: cronaca, critica, satira). – 7. Immagine e corrispondenza. – 8. Riservatezza. – 9. Trattamento e protezione dei dati personali. – 10. Nome. – 11. Identità personale. – 12. Identità sessuale (di genere).

1. Persona e diritti fondamentali. – Con l’espressione diritti della personalità (definiti anche diritti fondamentali o, semplicemente, diritti umani) si allude a quei diritti il cui riconoscimento tende ad assicurare il pieno sviluppo della persona umana, tutelandone gli essenziali interessi esistenziali. Tali sono tanto quelli che concernono l’individuo nella sua fisicità, quanto quelli che valgono a caratterizzarne la sfera morale, nei rapporti con gli altri consociati. L’individuazione e la definizione di simili interessi sono state, fino a tempi piuttosto recenti, tradizionalmente affidate al diritto pubblico (in particolare, al diritto costituzionale) e la relativa tutela essenzialmente demandata al sistema delle sanzioni di carattere penale. L’idea che il diritto privato debba dedicare attenzione alla tutela della persona e dei suoi valori pure al di fuori dell’ambito dei rapporti di natura strettamente patrimoniale, apprestando idonei strumenti a tal fine, ha trovato la sua prima concreta espressione, nel nostro ordinamento, solo con l’inserimento, nel codice civile vigente (precisamente nel libro I) e nella legislazione con esso coordinata, di talune previsioni indirizzate a tal fine. Proprio l’affermarsi dell’esigenza di garantire la salvaguardia degli interessi di natura personale del soggetto anche nei rapporti intersoggettivi ha determinato la necessità (via via sentita in modo sempre maggiormente pressante) di elaborare nuovi e originali strumenti di tutela e di rivedere molte consolidate posizioni in ordine alla configurazione di quelli già esistenti (basti pensare all’avvertita insufficienza delle concezioni tradizionali in materia di responsabilità civile e di risarcimento del danno: X, 2.1 e 2.4). Anche se già oggetto di interessamento da parte dei redattori del codice civile, la problematica relativa ai diritti della personalità si è collocata al centro dell’attenzione generale in dipendenza dell’enunciazione contenuta nell’art. 2 Cost., il quale, con l’affermazione del principio dell’integrale tutela della persona quale obiettivo prioritario dell’ordinamento, costituisce la pietra angolare del nostro sistema costituzionale. La prospettiva che impone di finalizzare l’operatività degli strumenti giuridici alla tutela della persona e delle sue esigenze di pieno sviluppo (art. 32 Cost.), si è accreditata, peraltro, anche a livello sopranazionale, dopo le tragiche esperienze sfociate nel secondo conflit-

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to mondiale. Alle generali affermazioni contenute nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, proclamata dalle Nazioni Unite (New York, 10.12.1948), quasi come manifesto del nuovo ordine mondiale di valori, ha fatto seguito, nell’area europea, la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU: Roma, 4.11.1950), i cui principi, attraverso la relativa ratifica (L. 4.8.1955, n. 848), si devono considerare senz’altro operanti anche nel nostro ordinamento interno 1. Un ulteriore rafforzamento, in via generale, della protezione dei diritti fondamentali è da ricollegare, ovviamente, alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Nizza, 7.12.2000) 2. Significativa si presenta la formulazione dell’art. 2 Cost. (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”). I diritti in questione sono dichiarati senz’altro inviolabili e vengono solo riconosciuti dall’ordinamento, per promuoverne la garanzia: con ciò, evidentemente, da un lato, si accoglie l’idea di una loro naturale inerenza alla persona (al di fuori, quindi, di qualsiasi potere creativo dell’ordinamento); dall’altro, si abbandona una visione tendente a considerare la persona e la sua tutela come mero riflesso delle esigenze di conservazione e di potenziamento dello Stato 3. L’attività della persona, poi, è inquadrata nelle formazioni sociali, nelle aggregazioni, cioè, dove essa si trova ad operare (famiglia e organizzazioni con le più diverse finalità: religiose, politiche, sindacali, culturali, ecc.), ritenendosi essenziale il loro apporto allo sviluppo della personalità, a condizione, appunto, che la relativa azione si svolga nel rispetto dei valori fondamentali della persona medesima. La tutela del godimento dei diritti fondamentali viene, infine, posta in un rapporto di necessaria correlazione con l’assolvimento di doveri, ugualmente inderogabili, di solidarietà: è attraverso simili doveri che risulta assicurata, infatti, la contestuale salvaguardia delle esigenze di sviluppo della personalità altrui, in un’ottica di opportuno bilanciamento di interessi fondamentali di carattere individuale e collettivo 4. 1 La peculiare rilevanza della Convenzione in questione deriva dall’avere gli Stati contraenti (tra cui, appunto, l’Italia) accettato un meccanismo di controllo del rispetto dei relativi principi, fondato sull’attività decisionale della Corte europea dei diritti dell’uomo. Ad essa si possono direttamente rivolgere – a seguito della ratifica, con la L. 28.8.1997, n. 296, del Protocollo addizionale n. 11 (Strasburgo, 11.5.1994) – coloro che ritengano violati, da parte di uno Stato, i diritti sanciti dalla Convenzione stessa. Il rispetto (come “principi generali” del diritto dell’Unione) dei “diritti fondamentali” quali “garantiti” dalla Convenzione risulta, inoltre, sancito dall’art. 62 del Trattato sull’Unione europea (che prevede anche l’adesione dell’Unione alla Convenzione). La rilevanza delle relative norme nel nostro sistema delle fonti (individuata nel carattere di “obblighi internazionali” vincolanti ai sensi dell’art. 1171 Cost., “nell’interpretazione che di esse viene data dalla Corte europea”, ma operanti “pur sempre ad un livello sub-costituzionale”) è stata prospettata a partire da Corte cost. 24-10-2007, nn. 348 e 349. 2 Circa il relativo valore giuridico, si ricordi come la Carta dir. fond. U.E. sia stata recepita dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore l’1.12.2009, attraverso l’art. 61 del Trattato U.E., il quale prevede che “L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati”. 3 Tale atteggiamento, ispirato all’ideologia statalista e autoritaria del regime del tempo, risulta evidente, ad es., nel passo della Relaz. cod. civ., n. 6, in cui si sottolinea, a giustificazione della tutela apprestata, che “lo sviluppo della personalità individuale è assolutamente necessario per lo sviluppo della Nazione e la forza e la potenza dello Stato si ripercuotono sulla floridezza e sul benessere dell’individuo”. 4 Proprio in una simile prospettiva sembrano da valutare i provvedimenti che si sono susseguiti – peraltro, in un tutt’altro che chiaro (e, conseguentemente, oggetto di consistenti dubbi circa la relativa legittimità sul

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Il principio dell’incondizionato rispetto, nel loro complesso, dei valori fondamentali della persona anche nei rapporti intersoggettivi fa propendere, in materia, per il superamento della pur diffusa contrapposizione tra i diritti di libertà, storicamente affermatisi per garantire la sfera di esplicazione delle scelte individuali nei confronti dello Stato (proprio in quanto tali collocati in posizione centrale nelle esperienze costituzionali dei diversi paesi) 5, e quei diritti della personalità tradizionalmente considerati come maggiormente suscettibili di violazioni nelle relazioni con altri soggetti. Così, ad es., significative applicazioni della libertà di associazione (art. 18 Cost.) si sono avute in campo associativo per la disciplina dei rapporti tra ente e associati (IV, 3.1, 3.9) e la libertà personale (art. 13 Cost.) viene ormai da tempo invocata per condizionare al consenso informato del paziente la liceità nei suoi confronti dei trattamenti sanitari (IV, 2.5) 6. piano costituzionale, soprattutto alla luce della riserva di legge che, in linea di principio, assiste la possibilità di limitazione dei diritti e delle libertà fondamentali nella Costituzione: l’elenco delle situazioni coinvolte comprende quelle cui si riferiscono gli, artt. 13, 14, 16, 17, 18, 19 e 32) accavallarsi e stratificarsi di fonti normative (a partire dalla delibera del Consiglio dei Ministri del 31.1.2020, concernente la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale, e dal D.L. 23.2.2020, n. 6, conv. in L. 5.3.2020, n. 13, ove si indicano le modalità di adozione di “ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica”) – in dipendenza della diffusione del Covid-19. Pare il caso di ricordare, in proposito, come l’art. 521 della Carta dir. fond. U.E. disponga che le limitazioni “all’esercizio dei diritti e delle libertà” da essa riconosciuti debbano “essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà”, comunque sempre “nel rispetto del principio di proporzionalità” e solo ove necessarie e rispondenti “effettivamente a finalità di interesse generale … o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”. Per una presa di posizione nel senso della illegittimità della delibera del Consiglio dei Ministri del 31.1.2010, nonché, in particolare, del D.P.C.M. 9.3.2020, v., ad es., Giudice di Pace di Frosinone 29-7-2020. Comunque, Corte cost. 22-10-2021, n. 198, richiamandosi anche agli sviluppi di Corte cost. 12-3-2021, n. 37, ha giudicato non fondati i dubbi di legittimità costituzionale in ordine alle modalità di intervento seguite in materia. Oggetto di particolare attenzione sono stati, da una parte, i provvedimenti tendenti ad imporre l’obbligo vaccinale (IV, 2.5) e, dall’altra, quelli che hanno imposto e disciplinato il c.d. green pass (o “certificazione verde”), a partire dal D.L. 22.4.2021, n. 52 (con il relativo D.P.C.M. 17.6.2021). Peraltro, la giurisprudenza, richiamandosi alla prospettiva dell’adeguato bilanciamento dei valori e interessi in gioco, ha respinto le doglianze in materia di green pass, fondate sull’addotta violazione “del diritto alla riservatezza sanitaria in ordine alla scelta compiuta” (in senso contrario alla somministrazione del vaccino), sottolineando che “proprio la graduale estensione della certificazione verde ha oggettivamente accelerato il percorso di riapertura delle attività economiche, sociali e istituzionali” (Cons. Stato, sez. III, 17-9-2021, n. 5130). 5 Pare opportuno sottolineare come delle stesse libertà, nel passaggio al moderno Stato sociale, tenda ad affermarsi una configurazione non più solo negativa, ma positiva, nel senso di pretese ad un comportamento dello Stato atto a garantirne l’effettività (in attuazione del principio di eguaglianza sostanziale, di cui all’art. 32 Cost.). 6 In un ordinamento che, come si è visto, pone lo sviluppo della persona quale suo obiettivo prioritario e l’adempimento dei doveri di solidarietà in necessaria correlazione con la pretesa di vedere garantita la inviolabilità dei diritti fondamentali, finisce col risultare sfumata anche l’ulteriore diffusa distinzione tra diritti civili e diritti sociali: i primi, per definizione comportanti una pretesa del titolare al generalizzato rispetto delle essenziali prerogative legate alla propria sfera esistenziale; i secondi (non a caso individuati anche come diritti di solidarietà), finalizzati ad una più compiuta realizzazione della propria personalità, attraverso l’altrui intervento e cooperazione che ne rendano possibile l’attuazione. Ai primi, viene correntemente riferita, in particolare, la tutela della vita e dell’integrità fisica, dell’integrità morale, dell’immagine, della riservatezza, del nome, dell’identità personale; ai secondi, la realizzazione di esigenze come quelle legate alla salute, al lavoro, all’abitazione, alla sicurezza sociale, alla istruzione. Proprio la complessità dei valori che sono alla base dei secondi ne rende evidente la difficoltà di una loro troppo netta contrapposizione ai primi, soprattutto una volta acquisito che la relativa attuazione non esige solo interventi pubblici, ma anche adeguati comportamenti degli altri consociati. Si pensi, così, al valore della salute (preso in considerazione dall’art. 32 Cost.), la cui tutela comporta, da un lato, la salvaguardia del soggetto da qualsiasi altrui aggressione all’integrità psicofisica; dall’altro, non solo la costruzione di un idoneo sistema di assistenza sanitaria (pure in relazione alla predisposi-

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È il costante riferimento all’art. 2 Cost. che ha permesso alla giurisprudenza, attraverso tecniche interpretative sostanzialmente comuni all’esperienza di altri ordinamenti, l’elaborazione e il continuo arricchimento del “catalogo” delle situazioni protette, apprestando – spesso con vera e propria opera creativa, sollecitata da un fruttuoso colloquio con la dottrina – una garanzia adeguata a profili della personalità che ne erano ancora privi, via via che l’evoluzione della coscienza sociale (anche sotto la spinta del progresso scientifico e tecnologico) ha fatto emergere nuovi bisogni ed esigenze della persona, con la conseguente necessità di assicurare, appunto, una idonea tutela dei relativi interessi 7. Sul piano pratico ha finito, allora, in materia, col perdere gran parte del suo mordente la stessa tradizionale contrapposizione tra la tesi pluralistica e quella monistica: la prima, tendente a valorizzare la pluralità dei diritti della personalità, come espressione della peculiarità delle esigenze di tutela che si ricollegano a ciascun interesse esistenziale facente capo alla persona; l’altra, favorevole, piuttosto, alla sussistenza di un unico diritto della personalità, avente ad oggetto, quale valore unitario, la persona in quanto tale, in ogni sua ipotizzabile manifestazione che della personalità costituisca svolgimento. In proposito, dev’essere chiaro, in effetti, come il riconoscimento all’art. 2 Cost. del carattere di clausola generale di garanzia della persona, in quanto tale “aperta” alla emersione di nuovi profili della personalità (secondo la prospettiva monistica), sia destinato comunque a confrontarsi con l’esigenza di operare inevitabili bilanciamenti tra i diversi interessi in gioco nei singoli casi, tra loro interferenti e pur eventualmente espressione di valori zione del quale non si manca significativamente di individuare “un diritto soggettivo assoluto e primario” nei confronti della stessa P.A., quando il “bene-salute” sia coinvolto nel suo “nucleo essenziale”: Cass., sez. un., 1-8-2006, n. 17461; in materia di cure all’estero, Cass., sez. un., 6-9-2013, n. 20577), ma anche, ad es., l’apprestamento di un confacente ambiente di lavoro da parte del datore di lavoro e di studio da parte degli enti scolastici pubblici e privati (di “natura ancipite” del diritto alla salute – col suo corollario “del consenso informato” – parla Cons. Stato, sez. III, 2-9-2014, n. 4460, alludendo alla relativa “indubbia valenza privatistica”, oltre che “innegabile connotazione pubblicistica”). Quanto, poi, al valore del lavoro (su cui l’art. 11 Cost. dichiara fondarsi la Repubblica democratica), nella medesima prospettiva, la sua garanzia comporta, da un lato, la tutela del soggetto in caso di comportamenti illeciti altrui che ne compromettano la capacità di prestazione; dall’altro, non solo interventi pubblici finalizzati alla formazione ed alla diffusione dell’accesso (artt. 41 e 35 Cost.), ma anche il riconoscimento, da parte del datore di lavoro, di condizioni contrattuali rispettose della persona del lavoratore e, in particolare, la sufficienza della retribuzione (art. 36 Cost.). La esigenza abitativa, ugualmente, al di là della promozione del relativo soddisfacimento attraverso l’azione della P.A. (anche alla luce dell’art. 472 Cost.), costituisce il fondamento di incisivi interventi conformativi dei rapporti contrattuali interprivati (IX, 4.3). Lo stesso valore della integrità morale, oltre che imporre un generalizzato atteggiamento di rispetto e di astensione da specifiche aggressioni, richiede sempre più l’attivazione di interventi e comportamenti pubblici e privati, in particolare nel campo della comunicazione (ma anche, ad es., del lavoro), onde non condizionarne negativamente le potenzialità di affermazione. L’inopportunità di contrapposizioni concettuali nel campo dei diritti fondamentali della persona sembra emergere chiaramente, del resto, anche dall’attuale testo dell’art. 1202 Cost., laddove allude unitariamente ai “diritti civili e sociali”, con riguardo alle preminenti esigenze di “tutela dei livelli essenziali delle prestazioni” che li concernono. Circa il “riparto di giurisdizione” in materia, rilevato che, in generale, “la categoria dei diritti fondamentali non delimita un’area impermeabile all’intervento dei pubblici poteri autoritativi”, la relativa perimetrazione è operata da Cass., sez. un., 25-11-2014, n. 25011, considerando ormai acquisita la idoneità pure del giudice amministrativo “ad offrire piena tutela ai diritti soggettivi, anche costituzionalmente garantiti” (Corte cost. 27-4-2007, n. 140). 7 Si è concluso, insomma, che, “in virtù dell’apertura dell’art. 2 Cost. ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all’interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l’ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana” (Cass., sez. un., 11-11-2008, n. 26972, costantemente richiamata dalla giurisprudenza successiva: ad es., da Cass. 11-1-2011, n. 450).

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tutti riconducibili alla rilevanza costituzionale della tutela della persona. Ne deriva l’evidente opportunità di una precisa individuazione e differenziazione dei diversi interessi garantiti con l’attribuzione di pretese riconducibili alla categoria dei diritti della personalità (in armonia con la concezione pluralistica), onde consentirne, sulla base di oggettivi indici normativi di meritevolezza, una pur difficile – e, inutile nasconderlo, spesso largamente opinabile – gerarchia 8.

2. Caratteristiche. – L’inquadramento dei diritti della personalità nelle tradizionali categorie del diritto privato continua a dar luogo a non pochi contrasti, essendo state tali categorie ricostruite in vista della tutela di interessi di carattere essenzialmente patrimoniale. Controversa è, in particolare, la loro configurabilità in termini di diritto soggettivo (II, 3.2), sia per la scarsa rispondenza del tipico strumento di tutela di quest’ultimo – rappresentato dalla risarcibilità del danno in caso di violazione dell’interesse protetto – alle relative esigenze di garanzia, sia per la difficoltà di individuarne l’oggetto. L’opinione (comunque prevalente e pienamente condivisa dalla giurisprudenza) nel senso della utilità del riferimento, anche in materia, alla figura del diritto soggettivo, in vista di una più certa e piena tutela, ha finito col comportare la necessità di rilevanti adattamenti della figura stessa e la perdita del relativo carattere di rigorosa unitarietà. Si è dovuto, cioè, prendere conseguentemente atto, da una parte, dell’esistenza, al suo interno, di modelli di disciplina diversi a seconda della natura dell’interesse, di volta in volta, tutelato (con una inevitabile differenziazione, in particolare, degli strumenti di tutela); dall’altra, data l’impossibilità di considerare la persona, in quanto tale, oggetto di diritti, della necessità di un deciso allargamento della nozione di bene, tale, appunto, da ricomprendere – con un sempre più chiaro tramonto della sua tradizionale concezione in termini materiali (II, 2.1) – le aspettative di godimento connesse alle varie manifestazioni della propria personalità. Secondo l’impostazione corrente, una volta considerati quali veri e propri diritti soggettivi, i diritti della personalità vengono annoverati tra quelli assoluti (II, 3.5). Ad 8 La giurisprudenza tende a propendere, da tempo, per la concezione monistica: così, significativamente, Cass. 25-8-2014, n. 18174, sottolinea che “è ormai acquisita una nozione ‘monistica’ dei diritti della personalità umana, con fondamento costituzionale, nell’ambito della quale l’individuo” viene assunto “come un unicum”, sul “fondamento normativo dell’art. 2 Cost. inteso quale precetto nella sua più ampia dimensione di clausola generale, ‘aperta’ all’evoluzione dell’ordinamento e suscettibile, per ciò appunto, di apprestare copertura costituzionale anche a nuovi valori emergenti della personalità”. Ripetutamente, allora, risulta affermato (Cass. 8-6-1998, n. 5658 e Cass. 10-5-2001, n. 6507) il carattere omogeneo – “essendo unico il bene protetto” – di diritti come quelli “all’immagine, al nome, all’onore, alla reputazione, alla riservatezza”, in quanto “singoli aspetti della rilevanza costituzionale della persona, nella sua unitarietà”. Una simile affermazione, comunque, sulla base del rilievo che “non vi è coincidenza tra questi vari diritti”, si accompagna costantemente ad una precisa individuazione (operata sulla base del vigente sistema normativo: dato che, come sottolinea Corte cost. 13-4-2016, n. 84, è al “legislatore, quale interprete della volontà della collettività”, che compete istituzionalmente “il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto”) della maggiore o minore consistenza degli interessi, di volta in volta, presi in considerazione, in vista della ritenuta necessità di operare, nei frequenti casi di conflitto, il relativo bilanciamento con eventuali “opposti valori costituzionali”. La necessità del richiamo a specifiche disposizioni (del codice o di altre leggi), del resto, viene costantemente avvertita per ricostruire la disciplina concreta dei diritti individuati; e, una volta operato un “ancoraggio” immediato all’art. 2 Cost. (in correlazione con l’art. 32) della singola figura, tali disposizioni si ritengono (ormai da tempo) “applicabili in via diretta – e non analogica – proprio per l’interpretazione evolutiva ed adeguatrice di quelle norme che gli indicati precetti costituzionali consentono e, anzi, impongono” (per una simile impostazione, Cass. 7-2-1996, n. 978).

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essi risulta connaturale, in effetti, la pretesa del titolare, nei confronti della generalità dei consociati (oltre che verso lo Stato), all’altrui astensione da qualsiasi violazione dell’interesse tutelato 9. Alla relativa inerenza, per definizione, alla persona (si parla, in proposito, di diritti personalissimi), si ricollega strettamente il loro carattere di diritti innati, per cui essi rappresentano, per ciascuno, un patrimonio comunque sussistente, non potendosi ammettere che una persona ne sia priva. Di qui pure la imprescrittibilità di tali diritti, essendo il soggetto ammesso sempre a rivendicarne la titolarità, a prescindere dal mancato esercizio, anche protratto per un lungo tempo. Suscettibili di prescrizione, peraltro, sono i diritti eventualmente spettanti in conseguenza della loro violazione (in particolare, quello al risarcimento del danno). All’inerenza si ricollega anche la intrasmissibilità, da intendere nel senso che la possibilità di esercizio di simili diritti è destinata a venire meno con la morte del titolare. Si è già visto (IV, 1.3) come il riconoscimento ad altri, dopo la morte del soggetto, del potere di agire per la tutela di manifestazioni della personalità del defunto sia da riferire all’intento dell’ordinamento di tutelare interessi di particolari soggetti viventi (o, al più, interessi di carattere generale). Sicuramente più delicato si presenta, di fronte all’attuale atteggiarsi dei rapporti sociali (soprattutto nel campo della comunicazione), il problema del riconoscimento ai diritti in questione dei caratteri dell’indisponibilità e della non patrimonialità. La stretta inerenza alla persona si pone alla base della tradizionale e diffusa conclusione dell’insussistenza di un potere generale del soggetto di incidere, con propri atti, sulla titolarità di simili diritti (indisponibilità), non ritenendosi, cioè, essergli consentito cederli ad altri (inalienabilità) o rinunziarvi (irrinunciabilità). Prevale, peraltro, una crescente tendenza a ritenere l’indisponibilità – anche quando non si voglia giungere ad un più radicale ripensamento di tale caratteristica – in termini non eccessivamente rigidi, ammettendosi, in relazione a talune manifestazioni della propria personalità, volontarie limitazioni parziali e rinunzie al relativo esercizio 10, sia pure sempre entro il confine rappresentato dalla compatibilità, alla stregua della coscienza sociale, con l’insuperabile esigenza di rispetto della dignità dell’uomo (che finisce col costituire, in materia, una sorta di generale clausola di salvaguardia: IV, 2.4). Inammissibile, di conseguenza, deve ritenersi ogni impegno che si risolva in una abdicazione totale e/o definitiva: è da considerare sempre garantito, così, il diritto al ripensamento dell’interessato, consistente nella pretesa alla riaffermazione del rispetto del profilo della propria personalità coinvolto, nonostante qualsiasi precedente atto dispositivo. E risulta, comunque, assolutamente incoercibile, attraver9 È evidente come una configurazione più marcatamente solidaristica – quale quella emergente dall’art. 2 Cost. – del sistema di tutela dei diritti in questione renda angusta e comunque solo parziale una simile loro tradizionale caratterizzazione, di fronte alla constatazione che la piena attuazione dei fondamentali valori della persona, se sicuramente impone l’astensione da aggressioni da parte di chiunque, richiede anche pubblici e privati comportamenti cooperativi altrui (v. supra, nota 6). 10 In tale ordine di idee, Cass. 17-2-2004, n. 3014, ha ritenuto che (in tema di immagine) “il consenso alla pubblicazione … costituisce un negozio unilaterale, avente ad oggetto non il diritto, personalissimo ed inalienabile, all’immagine, ma soltanto il suo esercizio”: tale consenso, “sebbene possa essere occasionalmente inserito in un contratto, da esso resta tuttavia distinto ed autonomo”, con le conseguenze che ne derivano, in particolare, “ai fini della sua revocabilità, quale che sia il termine eventualmente indicato per la pubblicazione consentita” (analogamente, Cass. 19-11-2008, n. 27506 e Cass. 29-1-2016, n. 1748).

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so strumenti di attuazione coattiva, qualsiasi pretesa altrui dipendente dal consenso prestato dal soggetto, nonché invalida ogni clausola tendente a rendere troppo gravoso – per la previsione, ad es., di forti penalità – il suo successivo ripensamento. Se la consapevole e acconsentita tolleranza di limitazioni dei diritti della personalità 11 trova, in genere, minori resistenze, quando essa sia motivata da forti stimoli di solidarietà (con conseguente carattere di relativa gratuità), i termini della questione si presentano decisamente più controversi di fronte alla “commercializzazione” di aspetti della personalità: alla pattuizione, cioè, di un compenso per la prestazione del consenso al relativo sacrificio. Si tratta della delicata problematica relativa alla connotazione in termini di non patrimonialità dei diritti in esame, strettamente ricollegata, appunto, a quella della loro indisponibilità. Problematica che si riflette in quella della delineazione dei modelli di tutela, dato che, una volta – e in misura crescente – operata una patrimonializzazione di aspetti della personalità, l’intreccio tra profili di natura squisitamente morale e sociale e profili di rilevanza economica induce spesso ad una strumentale invocazione dei primi, pur in vista del più o meno evidente perseguimento delle finalità proprie dei secondi 12. Indubbiamente, fenomeni come quello, in particolare, dello sfruttamento pubblicitario – e, più in generale, finalizzato allo scopo di trarne un profitto – di immagini, comportamenti e notizie relative alla vita della persona (soprattutto, ovviamente, se nota) hanno reso il sacrificio di aspetti della propria personalità un vero “valore economico” per il soggetto 13. L’inerenza alla persona degli interessi tutelati con il riconoscimento dei diritti della personalità induce, allora, a ritenere che, pure in ordine alla possibilità di conseguire un compenso per l’eventuale relativa limitazione, possa valere, in sostanza, quanto dianzi prospettato circa il problema della disponibilità dei diritti in questione. La valutazione in termini di liceità del sacrificio che l’interessato ne consenta in cambio di un compenso, quindi, non potrà prescindere da una valutazione di compatibilità, in concreto e alla stregua della coscienza sociale 14, con il rispetto sempre dovuto alla dignità dell’uomo. 11 Le limitazioni cui si allude non sono, ovviamente, quelle già ragionevolmente imposte da interessi di carattere generale o in vista del necessario bilanciamento con la tutela di interessi altrui ugualmente riconducibili a esigenze di sviluppo della personalità. 12 Correntemente, del resto, si sottolinea, ad es., che un diritto come quello all’immagine (IV, 2.7) è tutelato “sia come manifestazione del diritto alla riservatezza, sia come diritto a trarre dalla propria immagine un’utilità economica” (Trib. Bari 13-6-2006). 13 In tale prospettiva, l’immagine e la notizia (nonché, oggi, i dati personali) finiscono col rivestire essi stessi la qualità di veri e propri beni economici, per l’utilità (appunto economica) che essi sono suscettibili di rappresentare per il soggetto cui si riferiscono e per coloro ai quali venga legittimamente riconosciuto il diritto alla relativa utilizzazione. Nell’attuale realtà sociale, è addirittura alla stessa complessiva notorietà della persona, per le potenzialità di lecito sfruttamento commerciale delle sue manifestazioni, che non si manca di riconoscere la qualità di bene di rilievo economico (II, 2.1). 14 In un simile ordine di idee, sembra muoversi già Cass. 10-11-1979, n. 5790. Essa, infatti, con riferimento al diritto alla propria immagine e al proprio riserbo, alludendo al relativo carattere “disponibile – e quindi commerciabile – da parte del suo titolare, quando il disporne non costituisce atto illecito per contrarietà al buon costume”, finisce con l’evidenziare, in effetti, proprio la necessità di una costante valutazione della liceità dell’atto di disposizione, in concreto e alla luce della coscienza sociale, quando sottolinea che “il senso morale della società contemporanea non biasima colui che, in base ad una valutazione d’ordine personale, s’induce al parziale sacrificio del suo riserbo per un corrispettivo economico”, concludendo come “il diritto di esclusiva sulla propria immagine sia tutelato nel nostro ordinamento in tutti i suoi possibili riflessi, non soltanto morali, ma anche patrimoniali”.

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Così, ad esito di una simile valutazione, ben potrà concludersi, talvolta, anche per la liceità di consentite e compensate interferenze negli interessi esistenziali del soggetto. È da tenere presente come si ammetta ormai correntemente che la tutela dei diritti della personalità competa anche agli enti (riconosciuti come persona giuridica o non riconosciuti), quale riflesso, evidentemente, dell’attribuzione ad essi della qualità di soggetto di diritto e della loro dignità costituzionale di “formazioni sociali” funzionali allo sviluppo della personalità umana (II, 1.1 e IV, 3.1). Ciò, ovviamente, sulla base di una valutazione, di volta in volta, della compatibilità con la loro natura, restando sicuramente estranei ad essi, di conseguenza, tutti quei diritti che presuppongono la fisicità del soggetto 15.

3. Tutela. – Come accennato, l’attenzione alle esigenze della persona, con la crescente rilevanza attribuita alla materia dei diritti della personalità, ha condotto – pur senza negare l’importanza della sanzione penale, cui era essenzialmente affidata, in passato, la tutela del soggetto nelle manifestazioni della sua personalità di carattere non patrimoniale – all’individuazione di nuovi e peculiari strumenti di tutela, determinando anche una 15 Il problema della riferibilità dei diritti della personalità agli enti – che trovava una conferma normativa anche in talune espresse indicazioni dell’art. 41 D.Lgs. 30.6.2003, n. 196, codice in materia di protezione dei dati personali (IV, 2.9), peraltro soppresse già a seguito del D.L. 6.12.2011, n. 201, conv. in L. 22.12.2011, n. 214 (e v. ora l’art. 12 Regolamento U.E. 2016/67, che dichiaratamente limita la propria portata alla protezione dei “diritti e libertà fondamentali delle persone fisiche”) – si è posto frequentemente in materia di diritto all’identità personale (IV, 2.11): così, già Pret. Roma 11-5-1981, sottolineava che “il soggetto (sia esso, indifferentemente, persona fisica, persona giuridica o entità associativa non personificata, ma rilevante per l’ordinamento), nella sua proiezione politica e sociale assume invero una peculiare connotazione, una specifica identità ideologica”. Cass. 22-6-1985, n. 3769, ha confermato un simile indirizzo, evidenziando che “anche le persone giuridiche sono portatrici di una propria immagine sociale nell’ambito della realtà sociale nel cui contesto operano”. Per la tutela in caso di fatti tali da “pregiudicare l’immagine e la credibilità anche di persona giuridica”, cfr. Cass. 3-3-2000, n. 2367 (e v., ad es., di recente, Cass. 10-5-2017, n. 11446). Con chiarezza, nel senso della titolarità dei diritti della personalità (in quanto – come il diritto all’identità, al nome e all’immagine sociale – “non supponenti la fisicità del soggetto”) anche da parte della “persona giuridica o del soggetto giuridico collettivo”, con conseguente risarcibilità del danno non patrimoniale in caso di relativa lesione (“per diretta derivazione costituzionale dall’art. 2 Cost.”, inerendo essi “all’individuazione ed alla dimensione sociale della formazione sociale”), si esprime Cass. 4-6-2007, n. 12929 (seguita, ad es., da Cass. 9-7-2014, n. 15609). Che “la tutela civilistica del nome e dell’immagine” sia “invocabile non solo dalle persone fisiche ma anche da quelle giuridiche e dai soggetti diversi dalle persone fisiche”, è ribadito da Cass. 11-8-2009, n. 18218. In linea di principio, insomma, si sottolinea che “la persona giuridica e l’ente collettivo in genere ha titolo al risarcimento del danno non patrimoniale qualora l’altrui condotta ne leda i diritti della personalità, compatibili con l’assenza di fisicità e costituzionalmente protetti, che identificano il soggetto nell’ordinamento o ne individuano la dimensione nel contesto sociale” (“quali sono i diritti alla reputazione e all’identità”: Cass. 26-1-2018, n. 2039). Significativa è, in una simile prospettiva, l’affermazione dell’esigenza di tutela della lesione arrecata “all’immagine dello Stato”, con i conseguenti riflessi risarcitori, nei confronti dei responsabili della strage del 2.8.1980 (Trib. Bologna 18-11-2014). Circa la rilevanza della “lesione del diritto all’immagine degli enti pubblici derivante dal discredito sociale degli stessi”, a seguito di eventi corruttivi coinvolgenti suoi funzionari, Cass. 16-2-2010, n. 3672. In tale prospettiva, del resto, si muove l’art. 162 L. 6.11.2012, n. 190, concernente il “danno all’immagine della pubblica amministrazione” (“nel giudizio di responsabilità” contabile, ai sensi dell’art. 1 L. 14.1.1994, n. 20) e la relativa quantificazione. Orientamento consolidato è quello dell’ammissibilità dell’equa riparazione per irragionevole durata del processo (ai sensi dell’art. 2 L. 24.3.2001, n. 89) anche “per le persone giuridiche e, più in generale, per i soggetti collettivi” (Cass. 16-7-2004, n. 13163). Cass. 12929/2007 critica, peraltro, la tendenza a “ricondurre tale danno alla nozione di danno morale in senso soggettivo” (per cui v. ancora, ad es., Cass. 7-1-2008, n. 31), giustamente non considerando ciò necessario ai fini del riconoscimento all’ente di un danno non patrimoniale in proposito.

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revisione della tradizionale configurazione di quello risarcitorio, quale istituzionalmente finalizzato alla garanzia del diritto soggettivo. a) Ove si consideri la tipologia degli interessi in gioco, appare chiaro, in proposito, come sia da privilegiare un modello di tutela preventiva (atta, cioè, ad evitare la lesione o, almeno, a minimizzarne gli effetti), piuttosto che successiva (in quanto sostanzialmente indirizzata alla riparazione degli effetti della lesione), secondo il modello risarcitorio. Così, in un quadro sempre più composito, lo strumento che in via elettiva si presenta come particolarmente funzionale alla tutela di interessi di carattere – al di là dei ricordati risvolti di natura economica – essenzialmente esistenziale, come quelli cui si riferiscono i diritti della personalità, risulta l’azione inibitoria: con essa si tende, appunto, a impedire lo stesso evento lesivo, prevenendo la condotta idonea a determinarlo, ovvero a farlo cessare, evitando che il suo protrarsi aggravi la lesione degli interessi protetti (X, 2.1). È significativo che il legislatore si sia riferito ad una simile azione proprio nel momento in cui dava, nel codice civile, corpo alle emergenti istanze di tutela dei diritti della personalità. Essa, infatti, risulta espressamente prevista a proposito del diritto al nome e di quello all’immagine (artt. 71 e 10, in cui si prevede che l’interessato possa chiedere al giudice “la cessazione del fatto lesivo” e, rispettivamente, “che cessi l’abuso”) 16. L’autonomia di questo tipo di tutela, rispetto a quella (successiva) di carattere risarcitorio, emerge chiaramente, poi, dalla precisazione secondo cui resta comunque “salvo il risarcimento dei danni”. Sempre più diffusa è la tendenza a ritenere che l’azione inibitoria abbia perso, ormai, ogni carattere di eccezionalità e sia da considerare, insomma, quale strumento generale, applicabile (a prescindere, quindi, dalla relativa esplicita previsione) in via analogica, a protezione di qualsiasi diritto della personalità. In tale prospettiva, significative applicazioni si sono avute, in particolare, a tutela della riservatezza, dell’identità personale e della salute. È pure da tenere presente come l’efficacia della tutela inibitoria, in vista della priorità dell’esigenza di prevenire o arrestare il comportamento lesivo, sia notevolmente accresciuta dalla possibilità, per l’interessato, di chiedere l’adozione di un provvedimento di natura cautelare, ai sensi dell’art. 700 c.p.c.: chi teme che il proprio diritto sia esposto ad un pregiudizio imminente e irreparabile nel tempo occorrente per far valere il proprio diritto in via ordinaria, infatti, può chiedere che il giudice emani i provvedimenti d’urgenza che appaiano, nel caso concreto, più idonei ad assicurare una sua tutela provvisoria, in attesa della decisione definitiva. Proprio il ricorso ad una simile tutela cautelare ha finito col costituire il principale baluardo contro la violazione dei diritti della personalità, non solo per la celerità dello strumento in questione, ma anche per la relativa peculiare duttilità, dato che al giudice risulta consentita, al di fuori di qualsiasi tipizzazione legislativa, l’adozione dei provvedimenti che meglio si adattino, alla luce delle circostanze del caso concreto, a salvaguar16

Trib. Milano 9-3-2000, ad es., nel quadro di tali poteri inibitori del giudice, particolarmente efficaci proprio per la loro adattabilità al caso concreto, ha ritenuto che l’interessato possa chiedere “la condanna a consegnare i negativi di tutte le fotografie scattate, attesa l’effettiva efficacia che questa consegna ha di inibire eventuali future indebite utilizzazioni dell’immagine”. Oltre che per il divieto di prosecuzione delle condotte lesive, per la rimozione anche di quanto già pubblicato, v. Trib. Roma 23-12-2017 (in relazione a immagini e notizie concernenti un minore coinvolto in una vicenda giudiziaria di separazione dei genitori).

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dare l’interesse minacciato (si pensi, così, al divieto di distribuzione di un libro o di messa in onda di una trasmissione televisiva, all’imposizione del “taglio” di sequenze cinematografiche, ovvero all’ordine di sospensione di un’attività tale da mettere in pericolo l’altrui salute). Problemi particolari pone, peraltro, l’utilizzazione del provvedimento di sequestro, per il possibile conflitto che si può venire a determinare, al riguardo, tra la tutela della situazione del titolare di diritti come quello all’immagine, alla riservatezza e all’identità personale e la salvaguardia della libertà di manifestazione del pensiero, di cui all’art. 21 Cost., il quale pone limiti rigorosi, appunto, per il sequestro della stampa, onde non venga pregiudicato il fondamentale interesse all’informazione 17. b) Ulteriori strumenti di puntuale tutela degli interessi relativi alla sfera morale del soggetto sono rappresentati (quale forma di reintegrazione in forma specifica dell’interesse leso), da una parte, dalla pubblicazione della sentenza in uno o più giornali 18, che il giudice può ordinare secondo l’espressa previsione degli artt. 72 c.c., nonché 120 c.p.c. e 186 c.p.; dall’altra, dal diritto di rettifica, quale disciplinato, per la stampa, dall’art. 42 L. 5.8.1981, n. 416, ed esteso, con i necessari adattamenti, all’informazione radiotelevisiva dall’art. 10 L. 6.8.1990, n. 223 (tale materia è stata successivamente regolata dalla L. 31.7.1997, n. 249) 19. Quest’ultimo si presenta molto efficace per assicurare condizioni di effettiva parità tra le parti nell’accesso all’informazione, attribuendo ai “soggetti di cui sono state pubblicate immagini o ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità” il diritto “a fare inserire gratuitamente … le dichiarazioni o le rettifiche” reputate opportune (in tempi rapidi predefiniti e con una evidenza non inferiore a quella data alla notizia considerata lesiva) 20. c) Anche in conseguenza della lesione di diritti della personalità opera, ovviamente, il rimedio generale del risarcimento del danno, ai sensi degli artt. 2043 ss. In proposito, la riflessione non può che muovere dalla distinzione tra i profili – spesso strettamente intrecciati – patrimoniali e non patrimoniali delle situazioni, di volta in volta, tutelate (con i relativi riflessi sul danno risarcibile) 21. L’immagine o la notizia concernente comportamenti privati, come accennato (II, 2.1 17

Il sequestro, secondo l’insegnamento di Corte cost. 12-4-1973, n. 38, viene ammesso anche nel caso di materiale (in particolare, di immagini) che, “per essere nella disponibilità di un’impresa giornalistica, è da reputarsi destinato alla pubblicazione per mezzo della stampa”, ma, come sottolineato da Cass. 27-5-1975, n. 2129, “non ancora stampato”, proprio in considerazione, in tal caso, della “prevalenza dell’interesse all’informazione”. Limiti rigorosi alla possibile operatività del sequestro delle pubblicazioni a stampa, “ancorché lesive dei diritti all’onore, alla riservatezza e all’identità personale”, pone, così, Trib. Roma 14-2-2008. 18 Con conseguente risarcibilità del danno derivante dall’eventuale relativa inottemperanza (Cass. 23-4-2020, n. 8137, con indicazioni circa i criteri da seguire nella liquidazione). 19 Un generale “diritto di rettifica” relativamente ai propri dati personali nei confronti del titolare del trattamento è stato previsto dall’art. 16 Regolamento U.E. 2016/679 (GDPR). 20 Il diritto di rettifica, quale strumento di “bilanciamento tra l’interesse del pubblico ad essere informati … e l’interesse della persona, fisica o giuridica, a non essere lesa nella propria identità personale”, non può ritenersi, ovviamente rispettato, “se la pubblicazione della rettifica avvenga con modalità o commenti tali da accrescere la lesione dell’identità personale, o addirittura da provocarla essa stessa” (Cass. 24-4-2008, n. 10690). 21 Per la trasmissibilità agli eredi della tutela risarcitoria, v. Trib. Milano 21-1-2015, con riguardo ai “danni patrimoniali e morali derivanti dall’illecita utilizzazione pubblicitaria dell’identità personale di un personaggio” (nel caso di specie, Audrey Hepburn nel film “Colazione da Tiffany”).

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e IV, 2.2), tendono sempre di più a configurarsi, nella società attuale, quali veri e propri beni economici, con la conseguenza della risarcibilità del pregiudizio economico arrecato al soggetto interessato allo sfruttamento di simili espressioni della propria personalità. Problema delicato, piuttosto, è qui quello dei criteri di determinazione del danno patrimoniale risarcibile, nel caso in cui altri ne abbia indebitamente tratto profitto (come avviene, in particolare, attraverso l’utilizzazione pubblicitaria dell’immagine della persona nota o l’associazione ad essa di prodotti) 22. Quanto ai profili di carattere non patrimoniale dei diritti della personalità, la problematica concernente la risarcibilità delle relative lesioni si identifica, in sostanza, con quella della risarcibilità del danno non patrimoniale, sui cui sviluppi, negli anni più recenti, ha influito in maniera determinante proprio la considerazione dei valori legati alla persona e alle sue potenzialità di espressione e di sviluppo. Circa i percorsi che hanno condotto dottrina e giurisprudenza a superare le strettoie dell’art. 2059, che limita la risarcibilità del danno non patrimoniale ai soli casi determinati dalla legge, fino alla relativa recente legittimazione sulla base del diretto riferimento ai valori tutelati dalla Costituzione, non si può qui che rinviare alla trattazione, in generale, relativa al danno alla persona (X, 2.4) 23. 22 Con riferimento all’immagine, la Cassazione, una volta affermato che la relativa divulgazione non autorizzata, “al pari di ogni altra ipotesi di non autorizzata utilizzazione di bene altrui, fa sorgere l’obbligazione di risarcire il danno ai sensi dell’art. 2043 cod. civ.” (Cass. 6-2-1993, n. 1503), ha ritenuto – anche prima che un simile criterio risarcitorio fosse sostanzialmente recepito nell’art. 1582 L. 22.4.1941, n. 633, protezione del diritto d’autore, quale risultante ai sensi dell’art. 5 D.Lgs. 16.3.2006, n. 140 (X, 2.2) – commisurabile il risarcimento (nella prospettiva del “valore di mercato dell’uso”) a quanto ricavabile dal soggetto leso per il consenso a “un analogo sfruttamento nello stesso periodo” (11-10-1997, n. 9880). Cass. 16-5-2008, n. 12433, si riferisce senz’altro “al pagamento di una somma corrispondente al compenso” che l’interessato “avrebbe presumibilmente richiesto per dare il suo consenso alla pubblicazione” (“somma da determinarsi in via equitativa”, in particolare “con riferimento al vantaggio economico conseguito dall’autore dell’illecita pubblicazione”). Ad una liquidazione dei danni “con riferimento agli utili presumibilmente conseguiti dall’autore dell’illecito”, anche con riguardo “alle finalità (pubblicitarie o d’altro genere) che esso intendeva perseguire”, allude Cass. 11-5-2010, n. 11353 (v. pure Cass. 15-4-2011, n. 8730). E in ordine alla prospettiva, in materia, “in base alla quale, quando il fatto illecito è fonte di arricchimento per il danneggiante, costui deve risarcire nella misura dell’arricchimento se superiore a quella del danno inferto”, v. le precisazioni di Cass. 8137/2020. Al “danno patrimoniale per la mancata percezione del prezzo del consenso” ha riguardo, ad es., Trib. Milano 21-1-2015. Trib. Torino 2-3-2000, in proposito, non esita a parlare, “per l’illecito sfruttamento dell’immagine del personaggio notorio”, di danno che “deve essere parametrato al valore di mercato dell’immagine fotografica in questione”. La “perdita della reputazione professionale” derivante dall’utilizzazione abusiva, comunque, è stata ritenuta eventuale fonte di un “pregiudizio ben più grave di quello corrispondente al valore commerciale della specifica attività abusiva” (Cass. 1-12-2004, n. 22513, in un caso di esplicito rifiuto di consentire la pubblicazione). 23 Per la pacifica risarcibilità del danno non patrimoniale in caso di lesione di diritti della personalità, v., ad es., Cass. 24-4-2008, n. 10690 (nella specie, diritto all’identità personale). In via generale, Cass. 11-11-2008, n. 26972, ha affermato che “dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona, della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l’obbligo di risarcire il danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale”. E si ritiene che lesione dei diritti in questione “fa sorgere in capo all’offeso il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, a prescindere dalla circostanza che il fatto lesivo integri o meno un reato” (Cass. 15-6-2018, n. 15742). Circa la necessaria verifica, in ogni caso, della “gravità della lesione” e della “serietà del danno”, Cass. 15-7-2014, n. 16133; 8-2-2017, n. 3311 e 20-8-2020, n. 17383 (con riguardo all’illecito trattamento dei dati personali; resta fermo, comunque, che “come ogni danno non patrimoniale, non sussiste in re ipsa, non identificandosi il danno risarcibile con la

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4. Dignità della persona. – La pretesa al rispetto della dignità del soggetto in quanto persona, più che costituire la sostanza di un autonomo diritto della personalità, rappresenta il reale tessuto connettivo della tutela della persona umana nella globalità delle sue manifestazioni. Manca, nella nostra Costituzione, una norma come quella che apre la Costituzione tedesca del 23.5.1949, il cui art. 1 dichiara che “la dignità dell’uomo è intangibile”, quale presupposto del riconoscimento, nello stesso articolo, degli “inviolabili e inalienabili diritti dell’uomo come fondamento di ogni comunità umana”. È evidente, tuttavia, come la fondamentale enunciazione dell’art. 2 Cost., secondo cui “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, si riconnetta proprio all’esigenza di assicurare, contro le aggressioni ad essa portate nell’anche recente passato del nostro stesso continente, la salvaguardia del rispetto della dignità umana, quale valore fondante e vero e proprio “filtro” attraverso cui verificare l’apprezzabilità di ogni altro valore 24. Non a caso, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea si apre, a sua volta, con la dichiarazione che “la dignità umana è inviolabile” e che “essa deve essere rispettata e tutelata” (art. 1, intitolato alla “dignità umana”; alla “dignità” è intitolato l’intero capo I), così come, del resto, pure la Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina (4.4.1997, ratificata con la L. 28.3.2001, n. 145), il cui art. 1 enuncia la finalità di proteggere “l’essere umano nella sua dignità e nella sua identità” (e l’art. 2 sancisce che “l’interesse e il bene dell’essere umano devono prevalere sull’interesse della società o della scienza”) 25. Il costante riferimento al rispetto della dignità umana finisce, insomma, col costituire il parametro cui riferire qualsiasi valutazione di interessi ruotanti intorno alla persona, propri o altrui, soprattutto allo scopo di assicurare il bilanciamento di esigenze eventualmente in conflitto 26. Ciò assume una particolare rilevanza nei confronti dei soggetti che, per definizione, si vengono a trovare coinvolti in una situazione di specifica debolezza nei rapporti con altri, come il lavoratore o il malato. E la gerarchia di fondo dei valori costituzionali, con la chiara sovraordinazione di quelli di carattere non patrimoniale rispetto a quelli strettamente economici, trova compiuta espressione, non a caso, con la delineazione, nell’art. 412 Cost., dei limiti all’iniziativa economica privata, la quale “non mera lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento, ma con le conseguenze di tale lesione, seppur può essere provato anche attraverso presunzioni”: Cass. 10-6-2021, n. 16402 e 18-7-2019, n. 19434). 24 È da sottolineare come l’inscindibile collegamento tra rispetto della dignità e tutela dei diritti fondamentali risultasse evidenziato già nell’originaria formulazione dell’art. 21 D.Lgs. 196/2003, codice in materia di protezione dei dati personali, il cui art. 1, ai sensi del D.Lgs. 10.8.2018, n. 101, prevede ora che “il trattamento dei dati personali avviene secondo le norme del Regolamento U.E. 2016/679 … e del presente codice, nel rispetto della dignità umana, dei diritti e delle libertà fondamentali della persona”. Prospettiva, questa condivisa dalla “Dichiarazione dei diritti in Internet”, elaborata dalla “Commissione per i diritti e doveri relativi a Internet” (Camera dei deputati, 14.7.2015), nella quale (art. 13) si evidenzia che “il riconoscimento dei diritti in Internet deve essere fondato sul pieno rispetto della dignità, della libertà, dell’eguaglianza e della diversità di ogni persona”. 25 L’art. 16 code civil, introdotto dalla L. 94-653 del 29.7.1994, ha stabilito il principio che “la legge assicura la preminenza della persona, proibisce qualsiasi attacco alla dignità di questa e garantisce il rispetto dell’essere umano dall’inizio della sua vita”. Si richiama alla dignità della persona, in particolare, l’art. 1 L. 22.12.2017, n. 219 (IV, 2.5). 26 È in una simile ottica che va guardato il riconoscimento anche al concepito, sia pure con le peculiarità che non possono non contraddistinguere la sua situazione, della titolarità dei diritti che l’ordinamento ricollega alla qualità di “uomo” (IV, 1.2).

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può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” 27. Soprattutto, la dignità umana, una volta assunta quale giustificazione della stessa inviolabilità dei diritti umani fondamentali nella prospettiva del loro concorso allo sviluppo della personalità 28, risulta costituire un valore il cui rispetto non può tollerare di venire completamente rimesso alle determinazioni dell’interessato, essendo la relativa disponibilità destinata ad incontrare limiti invalicabili (IV, 2.2), di fronte all’assoluta irrinunciabilità almeno della propria qualità di uomo.

5. Vita, integrità fisica e salute. – a) Alla tutela del diritto alla vita alludono esplicitamente l’art. 2 della Costituzione tedesca, l’art. 2 Conv. eur. dir. uomo e l’art. 21 Carta dir. fond. U.E. (“ogni individuo ha diritto alla vita”). Manca, invece, un’analoga previsione nella nostra Costituzione, evidentemente in quanto ritenuta implicita nella clausola generale di tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, di cui all’art. 2 Cost. 29. La tutela di tale diritto è affidata alla legislazione penale (artt. 575 ss. c.p.), dalla quale si evince la sua indisponibilità. Solo così, infatti, si giustifica la grave sanzione prevista per l’omicidio del consenziente (art. 579) e per l’istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.). A simili disposizioni si è ricollegato, fino alla recente significativa apertura operata dalla Corte costituzionale in ordine al c.d. “suicidio assistito” 30, nel nostro ordinamento 27 Di recente, Corte cost. 7-6-2019, n. 141, ha sottolineato come, “nella cornice della previsione dell’art. 41, secondo comma, Cost., il concetto di ‘dignità’ vada inteso in senso oggettivo: non si tratta, di certo, della ‘dignità soggettiva’, quale la concepisce il singolo imprenditore o il singolo lavoratore”. 28 Proprio in una simile prospettiva Corte cost. 141/2019 ha escluso che “la prostituzione volontaria partecipi della natura di diritto inviolabile” (e, quindi, ricada nell’area della “garanzia apprestata dall’art. 2 Cost.”). 29 Si ricordi che l’art. 274 Cost. esclude la pena di morte, salvo che “nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”. Essa è stata abolita, poi, anche per i delitti previsti dal codice penale militare di guerra e dalle leggi militari di guerra, ai sensi dell’art. 1 L. 13.10.1994, n. 589. La pena di morte risulta del tutto esclusa dall’art. 22 della Carta dir. fond. U.E. 30 La vicenda si è sviluppata, in un primo tempo, attraverso Corte cost. ord. 16-11-2018, n. 207, la quale, dopo avere ribadito “che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non può essere ritenuta incompatibile con la Costituzione” (dato che “dall’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo”), ha reputato imporsi una limitazione della relativa portata nelle “ipotesi in cui il soggetto agevolato si identifichi con una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in via a mezzo di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. “Facendo leva sui propri poteri di gestione del processo costituzionale”, la Corte, nell’intento di conformarsi ad orientamenti emersi nel contesto di altri ordinamenti, ha reputato “doveroso” – per coinvolgere “la soluzione del quesito di legittimità costituzionale … l’incrocio di valori di primario rilievo, il cui compiuto bilanciamento presuppone, in via diretta ed immediata, scelte che anzitutto il legislatore è abilitato a compiere” – rinviare la decisione in materia (fissando una nuova udienza per il 24.9.2019), per “consentire al Parlamento ogni opportuna riflessione e iniziativa”. Corte cost. 22-11-2019, n. 242, preso “atto di come nessuna normativa in materia sia sopravvenuta nelle more della nuova udienza”, ha reputato – in presenza di una situazione di “menomata protezione di diritti fondamentali (suscettibile anch’essa di protrarsi nel tempo, nel perdurare dell’inerzia legislativa)” – di poter intervenire “ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari, ancorché non a contenuto costituzionalmente vincolato”. Simili “coordinate” sono state desunte dalla “disciplina racchiusa negli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017”, in una prospettiva atta a valorizzare anche nella materia in esame la “relazione tra medico e paziente”, affidando, nell’attesa di una specifica disciplina legislativa, “la verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiu-

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(a differenza di diversi altri) 31, il divieto e la punizione dell’eutanasia (cui si riferisce pure l’art. 17 del Codice di deontologia medica del 2014, disponendo che “il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte”) 32. È proprio in relazione alla spettanza del diritto alla vita che più vivace si presenta la discussione circa la posizione del concepito ed il riconoscimento di una sua soggettività, almeno per quanto concerne, appunto, la titolarità – in quanto uomo – dei diritti fondamentali. La questione è stata già dianzi affrontata, nel quadro della trattazione concernente la capacità giuridica e il relativo acquisto, pure con riguardo, in particolare, al problema del bilanciamento tra il diritto alla vita del nascituro ed il diritto alla salute della gestante (IV, 1.2). b) Anche il diritto all’integrità fisica – strettamente connesso, da una parte, al diritto alla vita, dall’altra, fino ad esserne, in sostanza, indistinguibile, al diritto alla salute (con la sua energica sanzione costituzionale, di cui all’art. 321, “come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”) – trova ampia tutela nella legislazione penale e, dal punto di vista civilistico, soprattutto attraverso lo strumento del risarcimento del danno (artt. 2043 ss.), come dianzi ricordato nella prospettiva del danno alla persona (X, 2.4). Il diritto all’integrità fisica è disciplinato nel codice civile sotto il profilo dei limiti alla sua disponibilità. L’art. 5 vieta gli atti di disposizione del proprio corpo, quando to al suicidio … a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale” (con l’intervento “di un organo collegiale terzo”, costituito dai “comitati etici territorialmente competenti” e “senza creare alcun obbligo di procedere” all’aiuto al suicidio in capo ai medici). In conclusione, L’art. 580 c.p. è stato dichiarato “costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017” (ovvero, “quanto ai fatti anteriori”, con “modalità equivalenti”), “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”. Evidentemente a seguito di simili prese di posizione (e per dettare una disciplina sistematica della materia, anche quanto a presupposti e condizioni della richiesta di assistenza medica), si è mosso anche il legislatore. Così, il 10.3.2022, la Camera dei deputati ha approvato un testo unificato delle numerose proposte in materia di “morte volontaria medicalmente assistita” (trasmesso al Senato e ivi in discussione come D.D.L. n. 2553). 31

E v., ad es., in Spagna, la recente Ley Organica 3/2021 del 24.3.2021. La materia dell’eutanasia è resa complessa dalla diversità delle situazioni che possono essere ricondotte ad essa (cui si allude distinguendo la eutanasia attiva da quella passiva), anche in relazione alla linea di demarcazione rispetto alla pratica – speculare e pure vietata dagli artt. 16 e 392 del codice deontologico medico – del c.d. accanimento terapeutico (con conseguente sicura legittimità della sospensione del sostentamento strumentale, in caso di soggetto da considerarsi ormai clinicamente morto). Il dovere del medico di “astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati” risulta ora, in effetti, sanzionato dall’art. 22-3 L. 219/2017, adeguato spazio conferendosi, piuttosto, all’eventuale ricorso – significativamente preso in considerazione da Corte cost. 242/2019, per prestarsi esso “a rimuovere le cause della volontà del paziente di congedarsi dalla vita” – alla “sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore” (pratiche già disciplinate dalla L. 15.3.2010, n. 38). In conseguenza del ricordato intervento di Corte costituzionale, si è provveduto, con l’approvazione dei nuovi indirizzi applicativi (6.2.2020), ad aggiornare, definendone corrispondentemente la portata (in termini, dunque, non più assoluti), il divieto di cui all’art. 17 del codice deontologico medico. Comunque, Corte cost. 2-3-2022, n. 50, ha giudicato inammissibile una richiesta di referendum popolare in materia. 32

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da essi possa derivarne una diminuzione permanente dell’integrità fisica, ovvero quando siano comunque contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume 33. Il divieto in questione è da ritenere, nel suo insieme, immediata espressione della generale esigenza di rispetto della dignità umana. Entro i limiti in cui risultano consentiti, gli atti di disposizione del proprio corpo devono avere sempre alla loro base il consenso libero e consapevole del soggetto e non sono mai suscettibili di esecuzione forzata in forma specifica (in caso di inadempimento dell’obbligo lecitamente assunto, la controparte potrà pretendere, cioè, solo il risarcimento del danno). Esempi tradizionali di atti consentiti sono quelli del contratto di baliatico o della cessione dei capelli o dello stesso sangue. Già in relazione a quest’ultimo – e sempre nei limiti in cui il prelievo non determini una menomazione permanente del soggetto – è affermato, comunque, il principio, secondo il quale non è consentito trarne un vero e proprio profitto, essendone ammessa solo la donazione (L. 4.5.1990, n. 107), in quanto espressione di solidarietà sociale 34. La necessità di leggere l’art. 5 alla luce dell’art. 2 Cost., con specifico riferimento all’adempimento dei doveri di solidarietà sociale, ha indotto a ritenere che l’atto di disposizione, anche ove tale da determinare una diminuzione permanente del soggetto, possa trovare una propria giustificazione, appunto, nello spirito di solidarietà sociale. Ciò, peraltro, solo ad esito di una valutazione complessiva degli interessi in gioco affidata al legislatore, come avviene, in particolare, in tema di trapianti con prelievo di organi da vivente. Principio fondamentale in materia è, allora, quello del carattere gratuito dell’atto di disposizione, quale risulta espresso, ad es., nell’art. 1 L. 26.6.1967, n. 458, sul trapianto di rene 35. Successivamente, è stato disciplinato, secondo principi analoghi, il trapianto parziale di fegato (L. 16.12.1999, n. 483), nonché il trapianto parziale di polmone, pancreas e intestino (L. 19.9.2012, n. 167). Discussi restano i limiti in cui lo spirito di solidarietà possa consentire la legittimità della sperimentazione scientifica, pur in presenza di un consenso consapevolmente prestato dal soggetto che intenda sottoporsi ad essa, ove possa determinare una menomazione all’organismo (il consenso informato risultando, comunque, valorizzato in materia già dal D.Lgs. 24.6.2003, n. 211, attuativo della direttiva 2001/20/CE, in tema di sperimentazioni cliniche di medicinali, problematica successivamente disciplinata, alla luce del Reg. U.E. 536/2014, dal D.Lgs. 14.5.2019, n. 52). 33 Tale disposizione rappresentò il risultato di un dibattito alimentato anche da un famoso caso di trapianto di una glandola sessuale, in una clinica napoletana, da un giovane studente ad un facoltoso straniero. La previsione è, nella Relaz. cod. civ., n. 37, ricollegata a “imprescindibili esigenze di carattere morale e sociale”, nell’allora predominante prospettiva (conforme, del resto, alla più generale concezione del rapporto tra persona e Stato), quindi, tendente a vedere l’integrità fisica essenzialmente come dovere del singolo nei confronti della società. La problematica affrontata da tale disposizione dev’essere, ovviamente, attualmente inquadrata nel ben diverso contesto costituzionale della tutela della persona e del diritto alla salute (artt. 2 e 32 Cost.). 34 Il principio per cui “il corpo umano e le sue parti non debbono essere, in quanto tali, fonte di profitto” è enunciato dall’art. 21 della Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina. Esso è ora espressamente sancito anche dall’art. 16-1 code civil e dall’art. 32 Carta dir. fond. U.E. 35 Circa il “contratto di espianto del rene”, Cass. 28-1-2013, n. 1874, ha osservato che esso “concreta una deroga alla norma imperativa, di ordine pubblico interno, qual è l’art. 5 c.c., anche secondo una interpretazione costituzionalmente orientata”, richiedendo “per essere valido ed efficace una protezione del donatore per i rischi e un’assoluta gratuità”.

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Ampia risonanza ha avuto il dibattito concernente i problemi connessi con la procreazione assistita, attualmente disciplinata dalla L. 19.2.2004, n. 40 36. Per quanto interessa in questa sede, se l’espresso divieto delle tecniche di tipo eterologo (art. 43) poteva ritenersi comportare anche l’illiceità della c.d. donazione di seme e di quella di ovulo, la sua dichiarata illegittimità costituzionale evidentemente le ha rese lecite 37. Sulla base del disposto divieto delle pratiche di surrogazione di maternità (art. 126), risulta da considerare risolto, poi, evidentemente nel senso della nullità, il discusso problema concernete la validità o meno del relativo contratto (già, del resto, in prevalenza negata sulla base della sua contrarietà all’ordine pubblico o, soprattutto se con la previsione di un compenso, al buon costume). La nullità, in effetti, costituisce la sorte, in via generale, dei negozi posti in essere in violazione dei limiti di ammissibilità degli atti di disposizione del proprio corpo 38. Diminuzioni permanenti dell’integrità fisica possono conseguire ai trattamenti medici. L’essere l’intervento terapeutico per definizione finalizzato ad un miglioramento complessivo delle condizioni di vita del soggetto ha consentito di superare, al riguardo, le limitazioni poste dall’art. 5 (del quale, anzi, si esclude diffusamente ogni residua rilevanza in relazione a tale materia). Ciò a condizione – anche in considerazione di una più attuale concezione di cura 39 – che l’intervento stesso abbia alla sua base il consenso 36 Come si è già altrove accennato (IV, 1.2), della legge è stata chiesta la verifica popolare mediante referendum. Ammesso in relazione a talune delle relative disposizioni (tra cui quella relativa al divieto delle tecniche eterologhe: Corte cost. 28-1-2005, nn. 45, 46, 47, 48 e 49), la sua validità è stata impedita dal mancato raggiungimento del necessario quorum di elettori votanti. 37 Sugli sviluppi della questione di legittimità costituzionale concernente il divieto delle tecniche eterologhe, cfr. specificamente V, 4.6. 38 La Corte eur. dir. uomo (26-6-2014 e 27-1-2015, la cui impostazione, peraltro, è risultata oggetto di precisazioni ed alquanto ridimensionata dalla decisione della Grande camera 24-1-2017), si è pronunciata, comunque, nel senso che i divieti nazionali in materia (con la situazione di illegalità che ne consegue per i genitori), non possono mai riflettersi in un pregiudizio, in concreto, per “l’interesse superiore del minore”, risultando altrimenti violato il suo diritto al rispetto della vita privata e familiare, tutelato dall’art. 8 CEDU. Corte cost. 18-12-2017, n. 272, ribadito “l’elevato grado di disvalore che il nostro ordinamento riconnette alla surrogazione di maternità” (trattandosi di pratica “che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”), prospetta una regola di giudizio di tipo “comparativo” che, proprio in quanto improntata alla “necessità di considerare il concreto interesse del minore”, tenga conto, ai fini della relativa realizzazione, delle complesse “variabili” implicate, appunto, nel caso concreto. In materia, è intervenuta, poi, Cass., sez. un., 8-5-2019, n. 12193, la quale ha individuato, proprio nell’ottica delineata dalla Corte costituzionale, un possibile bilanciamento tra gli interessi in gioco nel ricorso, da parte del c.d. “genitore d’intenzione”, al meccanismo dell’adozione in casi particolari (art. 441, lett. d, L. 184/1983). In ogni caso, anche a seguito dei successivi interventi della Corte eur. dir. uomo (in particolare, con la decisione 16-7-2020), Corte cost. 9-3-2021, n. 33, ha reputato, pur nel ribadire (secondo quanto ricordato da Cass. 31-3-2021, n. 9006) come “legittima finalità” quella del legislatore “di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità (sanzionandola penalmente), “significativa, ma non del tutto adeguata” una simile soluzione, formulando al legislatore un monito ad intervenire per porre rimedio “all’attuale situazione di insufficiente tutela degli interessi del minore”. In proposito, V, 4.6. 39 Sottolinea Cons. Stato, sez. III, 2-9-2014, n. 4460, costituire “non un astratto concetto di cura, di bene, di ‘beneficialità’, il valore primo e ultimo che l’intervento medico deve salvaguardare”, ribadendo che “la nozione statica e medicale di ‘salute’, legata ad una dimensione oggettiva e fissa del benessere psico-fisico della persona, deve cedere il passo ad una concezione soggettiva e dinamica del concreto contenuto del diritto alla salute, che si costruisce nella continua e rinnovata dialettica medico-paziente”: insomma, “è la cura a dover adattarsi, nei limiti in cui ciò sia scientificamente possibile, ai bisogni del singolo malato e non il singolo malato ad un astratto e monolitico concetto di cura”, la “cura” rappresentando “il contenuto, concreto e dinami-

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dell’interessato (e tale consenso, per legittimare l’attività sanitaria, deve essere frutto di una consapevole adesione alla proposta terapeutica: si deve trattare, cioè, di un consenso informato) 40. Una carente informazione del paziente, vanificando l’efficacia del suo co, dell’itinerario umano, prima ancora che curativo, che il malato ha deciso di costruire, nell’alleanza terapeutica con il medico e secondo scienza e coscienza di questo, per il proprio benessere psico-fisico”. 40 Gli orientamenti che, in materia, hanno prevalso sono sintetizzati già da Cass. 15-1-1997, n. 364, la quale aderisce alla prospettiva secondo cui l’attività medica non dovrebbe essere valutata nel quadro dell’art. 5, “in quanto essa stessa legittima, ai fini della tutela di un bene, costituzionalmente garantito, quale il bene salute”. Una simile “autolegittimazione dell’attività medica, anche al di là dei limiti dell’art. 5”, non permette, comunque, al medico di “intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente”. La “necessità del consenso si evince, in generale, dall’art. 13 Cost., il quale sancisce l’inviolabilità della libertà personale, nel cui ambito deve ritenersi compresa la libertà di salvaguardare la propria salute e la propria integrità fisica”. E la “formazione del consenso presuppone una specifica informazione su quanto ne forma oggetto (consenso informato)”. È stato sottolineato, in proposito, che “la correttezza o meno del trattamento non assume alcun rilievo ai fini della sussistenza dell’illecito per violazione del consenso informato”, rilevando solo che il paziente “non è stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni” (con violazione degli artt. 322 e 13 Cost.: Cass. 14-3-2006, n. 5444). “Il principio del consenso informato esprime una scelta di valore nel modo di concepire il rapporto tra medico e paziente, nel senso che detto rapporto appare fondato prima sui diritti del paziente e sulla sua libertà di autodeterminazione terapeutica che sui doveri del medico” (Cass. 16-10-2007, n. 21748). Insomma, “il consenso informato, inteso quale consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona” (Corte cost. 23-12-2008, n. 438, che evidenzia “la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute”). Conclude (secondo un indirizzo sostanzialmente condiviso dalla successiva giurisprudenza: v., ad es., Cass. 23-12-2020, n. 29469; 11-11-2019, n. 28985 e 23-3-2018, n. 7248) – alla luce di una puntuale distinzione tra lesione del diritto alla salute e del diritto all’autodeterminazione – che “anche in caso di sola violazione del diritto all’autodeterminazione, pur senza correlativa lesione del diritto alla salute ricollegabile a quella violazione per essere stato l’intervento terapeutico necessario e correttamente eseguito, può sussistere uno spazio risarcitorio”, Cass. 9-2-2010, n. 2847, in cui s’identifica, poi, il danno non patrimoniale in tal caso risarcibile in quello connesso al “turbamento e sofferenza che deriva al paziente sottoposto ad atto terapeutico dal verificarsi di conseguenze del tutto inaspettate perché non prospettate e, proprio per questo, più difficilmente accettate”. In proposito, v. i recenti sviluppi, sul piano probatorio, di Cass. 15-5-2018, n. 11749, 14-11-2017, n. 26827, nonché, soprattutto, 28985/2019, che, sulla base dei possibili intrecci tra diritto alla salute e diritto all’autodeterminazione, delinea, in relazione alle diverse situazioni, il regime degli oneri probatori gravanti sul paziente. La mancanza del consenso del paziente si risolve, insomma, in “una lesione di quella dignità che connota l’esistenza nei momenti cruciali della sofferenza fisica e/o psichica” (Cass. 28-7-2011, n. 16543; come tale rendendo “l’intervento del medico sicuramente illecito, anche quando sia nell’interesse del paziente: Cass. 10-12-2019, n. 32124). Circa la forma che deve rivestire la prestazione del consenso, mentre la relativa “trasfusione in un documento scritto” è stata reputata “essenziale” a parere di Trib. Roma 11-2-2014, viene considerato senz’altro ammissibile l’“espletamento di un intervento chirurgico sulla base di un consenso orale informato” da Cass. 31-3-2015, n. 6439 (e Cass. 32124/2019, precisa come, in tal caso, siano da valutare “le modalità concrete del caso”). Sul carattere, in ogni caso, necessariamente espresso della prestazione del consenso, anche in relazione all’“onere del medico” di “provare l’adempimento dell’obbligazione” di fornire al paziente “un’informazione completa ed effettiva sul trattamento sanitario e sulle sue conseguenze”, Cass. 29-9-2015, n. 19212 (e per la non idoneità della sottoscrizione di “un modulo di ‘consenso informato’ del tutto generico”, Cass. 26827/2017, nonché 19-9-2019, n. 23328 e 32124/2019). Sulla problematica in questione, v., comunque, gli sviluppi legislativi della L. 219/2017, di cui alla nota successiva. Al rispetto del “consenso libero e informato della persona interessata” allude l’art. 32 Carta dir. fond. U.E. ed il codice di deontologia medica si riferisce alla necessità di una “informazione comprensibile ed esaustiva”, art. 331, con l’obiettivo dell’acquisizione di un “consenso informato” o di un “dissenso informato”, da prestare “in forma scritta e sottoscritta o con altre modalità di pari efficacia documentale”, art. 352-3. La giurisprudenza francese parla, significativamente, di dovere di fornire al paziente “une information loyale, claire et appropriée”. Esemplare si presenta, in proposito, la recente riforma tedesca (Patientenrechtsgesetz del 2013), con i nuovi particolareggiati §§ 630 d e 630 e del BGB (rispettivamente intitolati al “consenso” del paziente ed agli “obblighi di informazione” del medico, ove si privilegia il relativo carattere orale e relazionale). In tema, v. anche infra, VII, 4.3.

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consenso, determina il sorgere di una responsabilità del medico nei confronti del paziente stesso. Ove il soggetto, poi, non sia in grado di prestare il proprio consenso, la liceità dell’intervento tende ad essere fatta dipendere dall’esistenza di uno stato di necessità (art. 54 c.p.). Il consenso è prestato, in caso di incapacità del soggetto cui necessitano cure, dal suo rappresentante legale, crescente rilevanza essendo accordata, peraltro, alla volontà del diretto interessato, purché, in concreto, capace di discernimento. A simili direttive, in sostanza, quale coerente sviluppo del principio di autodeterminazione, si è ispirata la recente L. 22.12.2017, n. 219, dettando, appunto, “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” 41. Si è da tempo ritenuto – ed anche sotto un tale profilo la legge conferma orientamenti nel tempo consolidatisi in dottrina e giurisprudenza – che proprio il carattere di necessaria volontarietà dell’intervento non consenta di intervenire contro la volontà consapevolmente espressa dal soggetto, il quale, quindi, può rifiutare le cure nell’esercizio della sua libertà personale (art. 13 Cost.) 42, alla cui luce va letto pure l’art. 322 Cost. (secondo il quale “nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, che, comunque, “non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”) 43. Un simile rifiuto, legittimo quando concerna la propria 41 A fondamento di tale provvedimento – sulla base dell’invocazione degli artt. 2, 13 e 32 Cost., nonché 1, 2 e 3 Carta dir. fond. U.E. – viene espressamente invocata la tutela del “diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona”, ponendosi il principio per cui “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge” (art. 11). Viene accolta la prospettiva della c.d. alleanza terapeutica, promuovendo “la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico”, basata su di un “consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico” (art. 12). Si prevede che l’informazione dev’essere fornita alla persona “in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile” (art. 13), anche, nell’eventuale fase terminale, con riguardo “alla sedazione palliativa profonda” ed alla “terapia del dolore” (art. 22-3). Circa la forma, si allude alla documentazione in “forma scritta o attraverso videoregistrazioni” (o comunque “attraverso dispositivi” che consentano al paziente di comunicare, sempre, poi, “inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico”: art. 14). L’intervento nelle “situazioni di emergenza o di urgenza” è regolato dall’art. 17, con un richiamo “alla prestazione delle “cure necessarie”, pur sempre (almeno in linea di principio) nel “rispetto della volontà del paziente”. L’art. 3 tende a regolare, come si è già avuto modo di vedere, la materia con riferimento ai minori ed agli incapaci (IV, 1.7, 11, 12, 13, 14). Con stretto collegamento alla disciplina del “rifiuto di trattamenti sanitari necessari” e delle “disposizioni anticipate di trattamento” (v. infra), l’art. 5 contempla, inoltre, la “pianificazione condivisa delle cure”, con riguardo alla “relazione tra medico e paziente … rispetto all’evolversi delle conseguenze di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione”. In proposito, decisiva è considerata la volontà in precedenza manifestata (ad esito di adeguata informazione e con la forma dianzi accennata) dal paziente (anche con “l’eventuale indicazione di un fiduciario”), quando questi venga a trovarsi “in una condizione di incapacità”. 42 Per il chiaro riferimento all’art. 13 Cost. della “esplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo”, v. Corte cost. 22-10-1990, n. 471. 43 Sulla base della riserva di legge introdotta dalla Costituzione in materia di trattamenti sanitari obbligatori, diversi provvedimenti legislativi hanno disciplinato, in particolare (e sempre “nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione”), le problematiche connesse con le malattie mentali (L. 13.5.1978, n. 180 e L. 23.12.1978, n. 833) e con l’AIDS (L. 5.6.1990, n. 135). In relazione alle possibili gravi conseguenze delle v a c c i n a z i o n i o b b l i g a t o r i e (oltre che delle t r a s f u s i o n i e della somministrazione di e m o d e r i v a t i ), è stata coerentemente prevista la erogazione di un indennizzo (L. 25.2.1992, n. 210: nelle controversie concernenti l’“accertamento del diritto al beneficio sussiste la legittimazione passiva del ministero della salute”, secondo Cass., sez. un., 9-6-2011, n. 12534). Il diritto all’indennizzo – nei cui rapporti con l’eventuale pretesa al risarcimento del danno si ritiene operare il principio della

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persona (soprattutto ove sia fondato sulle convinzioni religiose del soggetto, costituenti, a loro volta, espressione di una libertà fondamentale, tutelata dall’art. 19 Cost.) 44, non compensatio lucri cum damno (X, 2.2): Cass. 30-8-2019, n. 21837 e 14-2-2019, n. 4309, nonché Cons. Stato, sez. III, 24-6-2020, n. 4028 – è stato esteso, da Corte cost. 26-4-2012, n. 107, alle conseguenze derivanti da vaccinazioni – al momento della relativa somministrazione – non obbligatorie (morbillo, parotite, rosolia), in quanto comportamenti comunque sollecitati dalla collettività e finalizzati alla “protezione della salute pubblica”. Analogamente, con riguardo alla vaccinazione antinfluenzale, Corte cost. 14-12-2017, n. 268, quale “trattamento sanitario raccomandato”, nella prospettiva di un completamento del “‘patto di solidarietà’ tra individuo e collettività in tema di tutela del diritto alla salute” (“al fine della più ampia copertura della popolazione”), nonché, in relazione alla vaccinazione contro l’epatite A, Corte cost. 23-6-2020, n. 118, a prescindere anche dal “carattere meramente regionale della campagna vaccinale (e v., applicativamente, Cass. 16-3-2021, n. 7354). Nella medesima prospettiva, Cass. 25-10-2018, n. 27101, ha reputato comunque – e, quindi, senza limiti temporali – estensibile il diritto all’indennizzo “ai soggetti danneggiati da vaccinazione antipoliomielite” (richiamandosi a “esigenze di solidarietà sociale e di tutela della salute del singolo”). In materia di vaccinazioni obbligatorie, da ultimo, è intervenuto, onde ampliarne la portata e renderne più stringente il regime (anche sotto il profilo sanzionatorio), il D.L. 7.6.2017, n. 73, conv. con la L. 31.7.2017, n. 119. La problematica, ovviamente, ha finito con l’acquistare una notevole rilevanza in dipendenza della situazione venutasi a determinare a seguito della diffusione del Covid-19, con l’imposizione (ai sensi del D.L. 23.2.2020, n. 6, conv. in L. 5.3.2020, n. 13), tra l’altro, di rigorose misure di carattere sanitario, come, in particolare, l’“utilizzo di dispositivi di protezione individuale” e l’“applicazione della misura della quarantena con sorveglianza attiva agli individui che hanno avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusiva” (art. 12, lett. h). In dipendenza di tale situazione, alla previsione di un generalizzato obbligo vaccinale, si è preferito il ricorso a misure di coazione indiretta, quale, in particolare quella della imposizione del c.d. green pass per l’accesso alle attività di relazione sociale e per l’esercizio di attività professionali (IV, 2.1, nota 4). In effetti, l’obbligo vaccinale è stato disposto solo per talune categorie professionali (come il personale sanitario, scolastico, penitenziario e della difesa: D.L. 1.4.2021, n. 44, conv. dalla L. 28.5.2021, n. 76 e D.L. 26.11.2021, n. 172, conv. dalla L. 21.1.2022, n. 3), nonché per gli ultracinquantenni (D.L. 7.1.2022, n. 1, conv. dalla L. 4.3.2022, n. 18). Cons Stato, sez. III, 20-10-2021, n. 7045, ha reputato l’introduzione di un simile obbligo espressione di un esercizio “ragionevole e proporzionato” della discrezionalità del legislatore, nell’ottica del “bilanciamento tra i valori in gioco, la libera autodeterminazione del singolo, da un lato, e la necessità di preservare la salute pubblica e con essa la salute dei soggetti più vulnerabili, dall’altro” (almeno una volta che “le risultanze statistiche evidenziano un bilanciamento rischi/benefici assolutamente accettabile”). Con l’art. 20 D.L. 27.1.2022, n. 4, conv. dalla L. 28.3.2022, n. 25, l’indennizzo di cui alla L. 210/1992 è stato – per evitare ogni eventuale dubbio in proposito – espressamente esteso anche al di fuori dei casi di obbligatorietà della vaccinazione. 44 E si è concluso nel senso che “deve escludersi che il diritto di autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio della vita” (Cass. 16-10-2007, n. 21748). Una volta, insomma, verificato che il “rifiuto sia informato, autentico ed attuale”, “non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico” (trattandosi di un “diritto di libertà assoluto”: Cons. Stato n. 4460/2014, la cui impostazione risulta puntualmente confermata da Cons. Stato, sez. III, 21-6-2017, n. 3058). Chiara nell’affermare “il diritto di ogni persona a rifiutare di consentire ad un trattamento che potrebbe avere l’effetto di prolungare la sua vita” è Corte eur. dir. uomo 5-6-2015. Fermo tale principio, Cass. 15-9-2008, n. 23676, ha precisato che “nell’ipotesi di pericolo grave ed immediato per la vita del paziente, il dissenso del medesimo debba essere oggetto di manifestazione espressa, inequivoca, attuale, informata”: pure con riguardo a soggetto “portatore di forti convinzioni etico-religiose (come è appunto il caso dei testimoni di Geova)”, se è da escludere che ove costui “si trovi in stato di incoscienza, debba per ciò solo subire un trattamento terapeutico contrario alla sua fede”, vi è, quindi, l’esigenza che “lo stesso paziente rechi con sé una articolata, puntuale, espressa dichiarazione dalla quale inequivocamente emerga la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita”, ovvero che il suo dissenso venga confermato, “all’esito della ricevuta informazione da parte dei sanitari”, da “un diverso soggetto da lui stesso indicato quale rappresentante ad acta” (non essendo da reputare sufficiente, insomma, portare con sé un cartellino recante la dicitura “niente sangue”). Di vera e propria “obbligazione negativa del sanitario di non ledere la sfera giuridica vantata dal testimone di Geova”, in relazione al suo “diritto di rifiutare l’emotrasfusione”, parla Cass. 29469/2020. La materia del r i f i u t o dei trattamenti sanitari è ora specificamente disciplinata dall’art. 15-6 L. 219/2017, con cui si conferisce all’interessato, in proposito, un diritto di ampio contenuto, anche

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può riguardare, però, l’integrità fisica di un altro soggetto in condizioni di incapacità, come nell’ipotesi dei genitori che, per proprie convinzioni religiose, intendano vietare (negando il consenso che essi dovrebbero prestare in quanto legali rappresentanti del minore) interventi medici sui figli (il rifiuto, in tale ipotesi, già ritenuto comunque superabile attraverso l’intervento del Tribunale per i minorenni, ai sensi degli artt. 333 e 336, viene ora preso in considerazione dall’art. 35 L. 219/2017, rimettendo la decisione, come in ogni caso di rifiuto da parte del rappresentante legale di una persona incapace, al giudice tutelare, eventualmente anche su ricorso del personale sanitario). Al tema del rifiuto della terapia si collega strettamente quello delle cc.dd. direttive (ovvero, con varianti lessicali non prive di significato, dichiarazioni o – secondo la terminologia ora adottata dalla L. 219/2017 – disposizioni) anticipate di trattamento (cui si allude correntemente con l’acronimo “DAT”, a proposito delle quali si parla anche di testamento biologico). Si tratta di quelle esternazioni di volontà in ordine alle possibili opzioni terapeutiche (con particolare riferimento anche all’eventuale sospensione, in certe condizioni, delle tecniche artificiali di sostentamento), preventivamente espresse per il caso in cui il soggetto si venga, successivamente, a trovare in condizioni di incapacità di esprimere una propria volontà. In mancanza di una specifica disciplina legislativa della materia 45, la regola da osservare era sembrata quella secondo cui, pur non essendo esse senz’altro vincolanti, il medico ne dovesse adeguatamente tenere conto nelle sue valutazioni, da operare alla luce delle circostanze concrete 46. con riguardo all’eventuale revoca del consenso precedentemente prestato al trattamento sanitario, con la conseguente interruzione (incluse – con un’opzione che ha suscitato contestazioni – “la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale”). Si prevede, con riguardo ai “trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza”, che “l’accettazione, la revoca e il rifiuto sono annotati nella cartella sanitaria e nel fascicolo sanitario elettronico” (risultando il medico, conseguentemente “tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente”, “esente da responsabilità civile o penale”). Si dispone che, comunque, “il medico non ha obblighi professionali”, in caso di richiesta di “trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale, o alle buone pratiche clinico-assistenziali” (che, appunto, “il paziente non può esigere”). Con riguardo alle “situazioni di emergenza o di urgenza”, devono essere assicurate comunque “le cure necessarie” (sempre, ovviamente, “nel rispetto della volontà del paziente ove le sue condizioni cliniche e le circostanze consentano di recepirla”: art. 17). L’art. 35, nel prevedere la competenza del rappresentante legale della persona minore (o comunque incapace: in tale ipotesi in assenza di DAT) a rifiutare le cure proposte dal medico, rimette, ove quest’ultimo le reputi “appropriate e necessarie”, la decisione sul contrasto di vedute al giudice tutelare. 45 Si ricordi come la materia sia stata disciplinata, in Germania nel 2009, modificando il BGB nella parte relativa all’amministrazione di sostegno, con l’introduzione dell’istituto della “disposizione del paziente” (Patientenverfügung: § 1901 a), consistente in una dichiarazione scritta, da parte di un soggetto capace di decidere, per l’eventualità di una sua futura incapacità di determinarsi. In Italia, diversi comuni – con una prassi di dubbia legittimità, nella carenza di una disciplina legislativa generale – avevano istituito, prima dell’intervento operato con la L. 219/2017, registri in cui documentare eventuali manifestazioni di volontà in proposito. 46 Sostanzialmente nella prospettiva di quanto previsto dall’art. 9 della ricordata Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina, alle “dichiarazioni anticipate di trattamento” è intitolato l’art. 38 del codice di deontologia medica, in cui si dispone che “il medico tiene conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento espresse in forma scritta, sottoscritta e datata da parte della persona capace e successive a un’informazione medica di cui resta traccia documentale”, verificandone la “congruenza con la condizione in atto” e ispirando “la propria condotta al rispetto della dignità e della qualità della vita del paziente”. Con la problematica in questione si intrecciano, oltre al tema del rifiuto della terapia, quelli già accennati dell’accanimento terapeutico e dell’eutanasia. La Cassazione (16-10-2007, n. 21748), con una sua nota e discussa decisione, si è pronunciata (ricordando anche l’art. 1111-10 code de la santé publique francese) nel senso che “il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato con un’i-

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Ad esito di un tormentato dibattito su numerose – e tutt’altro che omogenee, anche quanto a scelte di fondo, date le evidenti implicazioni di carattere etico e religioso – iniziative parlamentari di disciplina della problematica, su di essa è intervenuta, comunque, la L. 219/2017, concernente, appunto, oltre al “consenso informato” le “disposizioni anticipate di trattamento” 47. potesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale”. La Corte, occupandosi del caso di un soggetto incapace per trovarsi in un c.d. stato vegetativo permanente, era sembrata implicitamente considerare senz’altro vincolanti – nonostante le obiezioni da diversi punti di vista sollevate in proposito – le “dichiarazioni di volontà anticipate”, con le quali il soggetto stesso abbia, “prima di cadere in tale condizione, allorché era nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, specificamente indicato quali terapie egli avrebbe desiderato ricevere e quali invece avrebbe inteso rifiutare nel caso in cui fosse venuto a trovarsi in uno stato di incoscienza”. Risulta, in effetti, valorizzata, anche sulla base di taluni precedenti giurisprudenziali stranieri, la stessa “presunta volontà” del paziente, ove costui “abbia manifestato, in forma espressa o anche attraverso i propri convincimenti, il proprio stile di vita e i valori di riferimento, l’inaccettabilità per sé dell’idea di un corpo destinato, grazie a terapie mediche, a sopravvivere alla mente”: almeno “in una situazione cronica di oggettiva irreversibilità del quadro clinico di perdita assoluta della coscienza”, “l’ordinamento dà la possibilità di far sentire la propria voce in merito alla disattivazione di quel trattamento attraverso il rappresentante legale” (potendosi dare “corso, come estremo gesto di rispetto dell’autonomia del malato in stato vegetativo permanente, alla richiesta, proveniente dal tutore che lo rappresenta, di interruzione del trattamento medico che lo tiene artificialmente in vita”). In una simile prospettiva (tendente a considerare decisiva pure una volontà implicitamente desumibile da comportamenti tenuti dall’interessato prima del sopravvenuto stato di incoscienza, anche, quindi, in assenza di vere e proprie disposizioni configurabili come “dichiarazioni anticipate di trattamento”: App. Milano 9-7-2008; circa l’ammissibilità della ricerca dei una “volontà presunta del paziente”, v. Corte eur. dir. uomo 5-6-2015), non si era mancato di ritenere superati i dubbi circa la rilevanza delle direttive anticipate di trattamento, concludendosi addirittura per la “assoluta superfluità di un intervento del legislatore volto a introdurre e disciplinare il c.d. testamento biologico”, già esistendo “il diritto sostanziale, lo strumento a mezzo del quale dare espressione alle proprie volontà e, infine, l’istituto processuale di cui avvalersi” (Trib. Modena 13-5-2008 e 5-11-2008, nonché, ad es., Trib. Prato 4-5-2009, sempre con riferimento alla disciplina della amministrazione di sostegno, con riguardo alla quale Cass. 20-12-2012, n. 23707, ha precisato i limiti di rilevanza di eventuali determinazioni dell’interessato circa i trattamenti sanitari cui venire sottoposto in caso di sua successiva incapacità: IV, 1.14). 47 Il relativo testo è stato definitivamente approvato dal Senato – in vista della ormai prossima fine della XVII legislatura e nonostante la diffusamente avvertita opportunità di apportare ad esso almeno talune modifiche – il 14.12.2017. La scelta nel senso di una decisa valorizzazione della volontà espressa, “in materia di trattamenti sanitari”, da “persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi” (“dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte”: art. 41) risulta programmaticamente insita già nella preferenza per il riferimento all’idea di “disposizioni”, piuttosto che a quella di “dichiarazioni”. L’impianto della disciplina finisce col ruotare intorno all’indicazione (ovviamente sempre revocabile), da parte della persona interessata, di “una persona di sua fiducia” (denominata, appunto, “fiduciario”), “che ne faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie”. In effetti, è tale soggetto (“maggiorenne e capace di intendere e di volere”, che deve accettare la nomina con la sottoscrizione delle DAT o con atto successivo allegato ad esse e che può rinunciare all’incarico) ad assicurare il rispetto della volontà dell’interessato da parte dei sanitari, solo in accordo con lui essendo consentito al medico disattendere le DAT, “qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita” (l’essenziale funzione di un tale soggetto, in caso di sua mancanza, essendo assicurata attraverso la prevista nomina, in ipotesi di necessità, di un amministratore di sostegno da parte del giudice tutelare). Peraltro, a salvaguardia dell’interessato, in caso di “conflitto tra il fiduciario e il medico”, la decisione è comunque rimessa al giudice tutelare (art. 42-5). Circa la forma, le DAT “devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura autenticata ovvero per scrittura privata consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del comune di residenza”. La relativa pubblicità è assicurata dall’“annotazione in apposito registro, ove istituito, oppure presso le strutture sanitarie” (secondo modalità di raccolta regolate in sede regionale nel

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Sulla base di una moderna concezione di salute come benessere complessivo – anche, quindi, dal punto di vista psicologico – della persona 48, sono considerati senz’altro legittimi gli interventi cui pure sia estranea una finalità strettamente terapeutica, come quelli di chirurgia estetica (sempre, ovviamente, a condizione di un’adeguata informazione dell’interessato, da parte del medico, sui relativi possibili rischi e conseguenze). Così anche gli interventi finalizzati alla sterilizzazione volontaria del soggetto (in passato costituente reato, ai sensi dell’art. 552 c.p., abrogato nel quadro della L. 22.5.1978, n. 194), benché giustificati da finalità di carattere esclusivamente contraccettivo. La legge, poi, (14.4.1982, n. 164), consentendo la rettifica dell’attribuzione di sesso nei registri dello stato civile, ha provveduto a legittimare (sia pure con la previsione di appropriate cautele) gli interventi di chirurgia del transessualismo (sulla cui problematica e sui relativi sviluppi, v. specificamente IV, 2.12), i quali sicuramente comportano una trasformazione anatomica permanente del soggetto 49. Integrità fisica e salute del soggetto possono spesso essere messe in pericolo dall’attività sportiva. Essa risulta lecita solo ove il rispetto delle regole del gioco relative alla singola attività sportiva consenta di evitare l’eventualità di quelle diminuzioni permanenti, le quali rappresentano il limite per qualsiasi assunzione, da parte del soggetto, dei rischi connessi all’esercizio dell’attività stessa. Nel caso di lesioni provocate in violazione delle regole in questione, al relativo comportamento saranno applicabili, indipendentemente dalle sanzioni eventualmente previste dall’ordinamento sportivo, quelle penali previste per i reati corrispondenti e il danno arrecato dovrà essere risarcito. Proprio per garantire uno svolgimento dell’attività sportiva – la cui utilità pare innegabile anche per lo stesso sviluppo della persona – effettivamente rispettoso delle esigenze di tutela della salute, il legislatore ha dettato, in materia, una disciplina molto articolata (a partire dalla L. 23.3.1981, n. 91). c) È da tenere presente come il diritto alla salute, in quanto “fondamentale diritto dell’individuo” (oltre che “interesse della collettività”: art. 321 Cost.) – che si tende a ritenere spettante anche al concepito (IV, 1.2) – trovi tutela non solo nei confronti della Stato, ma anche nei rapporti intersoggettivi 50. contesto della gestione elettronica dei dati sanitari, con l’inserimento delle informazioni rilevanti nella banca dati) (art. 46-8). Importante è la previsione transitoria, secondo cui viene conservata rilevanza “ai documenti atti ad esprimere la volontà del disponente in merito ai trattamenti sanitari, depositati presso il comune di residenza o presso un notaio” (art. 6). L’art. 1418 e 419 L. 27.12.2017, n. 205, ha previsto, in materia, l’istituzione di una Banca dati nazionale presso il Ministero della Salute ed il D.M. 10.12.2019, n. 168, ha disciplinato – con l’obiettivo di “assicurare la piena accessibilità” delle DAT, “sia da parte del medico che ha in cura il paziente”, “sia da parte del disponente sia da parte del fiduciario dal medesimo nominato” – le modalità di registrazione delle DAT nella Banca dati nazionale. Si ricordi come, in assenza di DAT, l’art. 35 conferisca al rappresentante legale della persona incapace il rifiuto delle cure proposte, l’eventuale decisione in caso di contrasto con l’opinione del medico (che le ritenga “appropriate e necessarie”) risultando rimessa al giudice tutelare. 48 L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce, infatti, la salute quale “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”, che “non consiste solo in un’assenza di malattia o di infermità”. 49 Nel considerare legittima la disciplina legislativa al riguardo, Corte cost. 24-5-1985, n. 161, ha sottolineato che “gli atti dispositivi del proprio corpo, quando rivolti alla tutela della salute, anche psichica, devono ritenersi leciti”. Nel caso specifico, “l’intervento chirurgico e la conseguente rettificazione anagrafica riescono a ricomporre l’equilibrio tra soma e psiche”. 50 Pare il caso di sottolineare come l’adozione dei provvedimenti finalizzati a disciplinare le relazioni coinvolte dalla pandemia da Covid-19 (IV, 2.1, nota 4) abbia costituito occasione, in Italia come altrove, di un vivace dibattito circa la preminenza assoluta o meno del diritto alla salute (oltre che del medesimo diritto alla

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PARTE IV – SOGGETTI

Sotto il primo profilo, alla garanzia della salute (che si è visto dianzi dover essere intesa in senso ampio) è finalizzata, oltre la legislazione specificamente concernente la materia della organizzazione sanitaria (onde assicurare alla generalità di cittadini – anche “indigenti” – una adeguata assistenza sanitaria, pure in relazione alle diverse patologie) 51, quella, in particolare, di carattere ambientale, diretta a prevenire e a reprimere le diverse attività inquinanti (parlandosi, al riguardo, pure in giurisprudenza, di un vero e proprio diritto all’ambiente salubre, fondato sugli artt. 92 e 321 Cost.). Quanto ai rapporti intersoggettivi, oltre che costituire oggetto di una particolare disciplina con riguardo ai rapporti di lavoro ed a quelli in cui il soggetto assume la veste di consumatore 52, il diritto alla salute trova tutela essenzialmente attraverso lo strumento del risarcimento del danno (artt. 2043 ss.), nella configurazione che esso è venuto assumendo nei tempi più recenti a garanzia dell’integrale rispetto della persona (X, 2.4). Di particolare efficacia risulta, inoltre, la tutela di tipo inibitorio, resa più efficace dalla possibilità di anticiparne gli effetti con i provvedimenti d’urgenza, ai sensi dell’art. 700 c.p.c. Di fronte ai dubbi (da reputarsi, invero, infondati) circa l’utilizzabilità di tale meccanismo in mancanza di una disposizione espressa in materia, non si è mancato di valorizzare la tutela che nei confronti delle immissioni offre l’art. 844 (il quale, appunto, prevede espressamente la tutela inibitoria: VI, 1.6). Un’ampia utilizzazione dei principi dell’art. 844 ha trovato, peraltro, ostacolo nella prospettiva tendente, in linea di principio, a riferire la norma alla tutela della situazione del proprietario, onde garantirgli le utilità che il bene è idoneo ad offrire 53. Ne è conseguito un notevole sforzo, anche da parte della giurisprudenza, per consentire l’utilizzazione di un simile strumento, pure attraverso l’applicazione, almeno in via analogica, della norma stessa (eventualmente congiuntamente al rimedio rappresentato dal risarcimento del danno). c) Il rispetto della dignità della persona giustifica anche l’attenzione che l’ordinamento ha per il cadavere. Non si tratta qui di conferire una sorta di ultrattività alla tutela della persona (la morte determinando la cessazione della soggettività giuridica: IV, 1.3), ma vita), nella complessità della relativa dimensione sociale, rispetto agli altri diritti e libertà fondamentali della persona, soprattutto alla luce dell’intangibilità del rispetto della dignità umana (IV, 2.4), quale valore destinato a filtrare la stessa apprezzabilità di ogni altro valore personale. 51 Di fronte alla discrezionalità della P.A. in materia, si tende tradizionalmente a considerare i soggetti portatori di meri interessi legittimi. Ma “un diritto soggettivo assoluto e primario” si ritiene sussistere anche nei suoi confronti, quando sia coinvolto il “nucleo essenziale” del “bene-salute” (Cass., sez. un., 1-8-2006, n. 17461). Alla valorizzazione della dignità della persona nella tutela del suo diritto alla salute, si indirizza la L. 15.3.2010, n. 38, con cui è stato garantito “l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore” (significativamente in modo espresso richiamata dall’art. 21 L. 219/2017). 52 Si ricordino, in relazione alla tutela del lavoratore, l’art. 9 L. 20.5.1970, n. 300, con riguardo alla tutela del consumatore, la disciplina dettata dal D.Lgs. 6.9.2005, n. 206 (“Codice del consumo”), in tema di responsabilità per danno da prodotti difettosi (artt. 114 ss.) e di sicurezza dei prodotti (artt. 102 ss.). L’art. 22 pone significativamente, tra i “diritti dei consumatori”, al primo posto (lett. a) il diritto “alla tutela della salute” e al secondo (lett. b) quello “alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi”. 53 Per Corte cost. 23-7-1974, n. 247, limitandosi l’art. 844 a “considerare solo l’interesse del proprietario ad escludere ingerenze da parte del vicino sul fondo proprio”, “la norma è destinata a risolvere il conflitto tra proprietari di fondi vicini per le influenze negative derivanti da attività svolte nei rispettivi fondi”, con esclusione di ulteriori finalità, come quelle della tutela della salute e dell’ambiente, cui “è rivolto in via immediata tutto un altro ordine di norme di natura repressiva e preventiva”, “salva in ogni caso l’applicabilità del principio generale di cui all’art. 2043”.

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di tutelare il sentimento collettivo di pietà (posto a base delle sanzioni previste, dagli artt. 407 ss. c.p., per i “delitti contro la pietà dei defunti”, che puniscono, tra l’altro, la distruzione, la sottrazione, l’occultamento e l’uso illegittimo di cadavere), ovvero di riconoscere al soggetto vivente un potere (da considerarsi inerente ad un diritto della personalità) di determinare, con una manifestazione di volontà precisa ed univoca, la sorte delle proprie spoglie (senza che un simile potere sia da reputare assimilabile a quello di destinare i propri beni in dipendenza della morte, considerando il cadavere alla stregua di una cosa futura) 54. Oltre che le modalità di trattamento delle spoglie (inumazione, cremazione) 55, il soggetto potrà tradizionalmente prevedere il luogo della sepoltura (ius eligendi sepulchrum) 56. Un delicato problema di bilanciamento si viene a porre tra l’accennato diritto spettante al soggetto di determinare la sorte delle proprie spoglie e l’interesse della collettività ad utilizzare parti del cadavere a scopo di trapianto a vivente. Ad esito di lunghe discussioni, è intervenuta la L. 1.4.1999, n. 91, la quale ha notevolmente innovato la materia, improntandone la disciplina – ai fini, appunto, di un simile bilanciamento – ad una più decisa considerazione dei vincoli di solidarietà sociale. La legge ha, in proposito, ridimensionato il ruolo della volontà del soggetto (e, soprattutto, quello in precedenza riconosciuto alla volontà dei parenti), dato che per escludere il prelievo degli organi 57 risulta ora necessaria, da parte del soggetto in vita, una esplicita manifestazione di volontà contraria all’espianto degli organi (la mancanza della dichiarazione, insomma, essendo valutata dalla legge come assenso) 58. Si è anche visto come, proprio al fine di rendere possibile i trapianti, sia stato necessario un adeguamento della disciplina relativa all’accertamento della morte (IV, 1.3). 54

Ai congiunti si ritiene spettare sul cadavere “un diritto privato non patrimoniale, di natura non ereditaria, fondato sulla consuetudine”, loro riconosciuto “in considerazione del sentimento di pietà che li lega al defunto”: così, Cass. 5-8-2008, n. 21128, che lo reputa non configurabile in ordine ad un reperto biologico (su cui era stata disposto l’esperimento di prove immuno-genetiche, dirette ad accertare un rapporto di filiazione naturale dopo la morte del presunto padre). 55 La materia della cremazione e della conseguente eventuale dispersione delle ceneri (in esecuzione della volontà al riguardo espressa dal soggetto) è stata regolata dalla L. 30.3.2001, n. 130. Per la considerazione quale “familiare” del defunto (ai sensi dell’art. 3) – ai fini della richiesta di affidamento dell’urna contenente le sue ceneri – del convivente (anche omosessuale), Trib. Treviso 15-12-2014. 56 Tale diritto, riferibile alla sfera morale del soggetto (quale vero e proprio diritto della personalità), è da distinguere dallo ius inferendi in sepulchrum, consistente nel diritto (di discussa configurazione come reale: per la “natura reale patrimoniale … suscettibile di tutela possessoria” del diritto al sepolcro, Cass. 18-1-2008, n. 1009, nonché Cass. 20-8-2019, n. 21489) alla sepoltura nel sepolcro familiare, che compete al fondatore del sepolcro stesso ed a tutti i suoi discendenti, in quanto membri della medesima famiglia (spettante pure alle figlie coniugate e ai relativi discendenti, benché portanti un diverso cognome: Cass. 19-5-1995, n. 5547, che riconosce comunque al fondatore “la facoltà di ampliare o restringere la sfera dei beneficiari del diritto”). Per la distinzione tra lo ius sepulchri di carattere ereditario (trasmissibile, come ogni altro diritto, anche a persone non facenti parte della famiglia) e quello – “tale dovendosi presumere il sepolcro, in caso di dubbio” – di carattere gentilizio o familiare (che si acquista, iure sanguinis e non iure successionis, in dipendenza del particolare rapporto col fondatore), Cass. 8-5-2012, n. 7000 (anche con riguardo alle relative vicende, su cui v. pure Cass. 27-9-2012, n. 16430; con riguardo al relativo fondamento di carattere consuetudinario, Cass. 22-3-2021, n. 8020). 57 Viene, in materia, espressamente stabilito un divieto per l’encefalo, le gonadi e le manipolazioni genetiche degli embrioni a fini di trapianto di organi (art. 3). 58 Con la L. 10.2.2020, n. 10, è stata disciplinata, sulla base di una “dichiarazione di consenso” (ispirata alle previsioni della L. 219/207), la possibilità di disporre del proprio corpo o dei tessuti post mortem.

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PARTE IV – SOGGETTI

6. Integrità morale. Onore e reputazione (e relativi limiti: cronaca, critica, satira). – Il generale rispetto dovuto alla integrità morale – non meno importante, per la persona, dell’integrità fisica, in quanto concerne la considerazione della quale gode nella società in cui opera e si sviluppa – costituisce lo sfondo che consente la delineazione di una serie di profili di necessaria tutela della personalità, dai confini tra loro non sempre ben definiti. Onore, reputazione, immagine, riservatezza, nome e identità personale valgono, in effetti, a comporre il complesso quadro della personalità morale del soggetto, le esigenze di tutela delle cui varie manifestazioni sono inevitabilmente legate all’evoluzione della coscienza sociale. Significativamente, un problema di bilanciamento con interessi altrui, pure meritevoli di tutela sul piano dei valori costituzionali, si pone in termini in larga misura omogenei per tutti questi aspetti della proiezione della persona sul piano sociale, trattandosi, in sostanza, di equilibrarne la salvaguardia con la garanzia di quella libertà di manifestazione del pensiero che, nelle sue diverse espressioni, costituisce uno dei pilastri della democrazia (art. 211 Cost.). L’onore e la reputazione hanno trovato tradizionalmente la loro tutela sul piano penale, attraverso la repressione dei reati di ingiuria (art. 594 c.p.) e diffamazione (art. 595 c.p.), la dignità morale della persona risultando guardata, rispettivamente, dal punto di vista soggettivo e oggettivo (si parla anche di onore in senso soggettivo e oggettivo), ossia, da una parte, quale considerazione (sentimento) che il soggetto ha di se stesso, della propria dignità e del proprio valore sociale; dall’altra, quale considerazione (stima) di cui il soggetto gode nella comunità nel cui contesto agisce. E si tenga presente che la tutela penale è destinata ad operare indipendentemente dalla verità o meno dei fatti attribuiti alla persona offesa, dovendo essere, almeno in linea di massima, l’offeso a consentire la c.d. facoltà di prova (art. 5963, n. 3, c.p.). Peraltro, con il D.Lgs. 15.1.2016, n. 7 (attuativo della L. 28.4.2014, n. 67), l’art. 594 c.p. è stato abrogato (artt. 1 e 41, lett. a), l’ingiuria venendo, così, in termini comunque sostanzialmente corrispondenti a quelli della soppressa previsione penale, sanzionata (solo) come un illecito civile, tale da comportare, però, a carico del responsabile, l’assoggettamento – oltre che al “risarcimento del danno secondo le leggi civili” a favore dell’offeso: art. 3) – al pagamento di una “sanzione pecuniaria civile” (a favore dello Stato: per la cui natura, X, 1.1 e 2.1), in talune circostanze inapplicabile (art. 42-3) o aggravata (art. 44, lett. f). La tutela civile è affidata, in una col risarcimento del danno ai sensi degli artt. 2043 ss. (anche non patrimoniale: art. 2059), agli strumenti peculiari di tutela dei diritti della personalità (IV, 2.3), rappresentati dall’azione inibitoria, i cui effetti possono essere anticipati attraverso i provvedimenti d’urgenza, di cui all’art. 700 c.p.c., dalla pubblicazione della sentenza, nonché, in caso di violazione avvenuta mediante i mezzi d’informazione, dall’esercizio del diritto di rettifica. Negli anni più vicini, si è registrata una crescente utilizzazione degli strumenti in questione (e, in particolare, di quello risarcitorio), evidentemente in conseguenza di una certa sfiducia nell’apparato sanzionatorio penale: la via civile 59 è sembrata, in effetti, meglio prestarsi, per la sua maggiore duttilità, a soddisfare l’esigenza della tutela dell’interesse leso 60. 59 La cui scelta è rimessa al titolare dell’interesse leso, dato che i reati dianzi accennati sono punibili solo a querela della parte offesa: art. 597 c.p. 60 Così, già Cass. 18-10-1984, n. 5259, sulla base della constatazione della “sostanziale unitarietà dell’ille-

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Proprio in conseguenza di tale preferenza per l’azionamento della tutela civilistica, la giurisprudenza civile ha avuto modo di occuparsi diffusamente della relativa problematica, affermando l’esistenza, nell’ambito della personalità umana, di un diritto alla reputazione personale con fondamento costituzionale, quale diritto soggettivo perfetto, anche al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge ordinaria 61. È stato approfondito, in particolare, il controverso rapporto tra diritto alla reputazione e diritto alla riservatezza (IV, 2.8), finendosi col ritenere che quest’ultimo abbia una estensione maggiore del primo, evidentemente per assicurare una sfera più ampia ed elastica di protezione all’intimità della vita personale in sede civile, rispetto a quella coperta dalla tutela della reputazione (almeno quale correntemente individuata per l’applicazione della sanzione penale) 62. Delicati problemi pone anche la linea di demarcazione del diritto alla reputazione nei confronti del diritto all’identità personale (IV, 2.11): la tutela dell’identità viene riferita essenzialmente al momento conoscitivo della proiezione sociale della personalità, mentre quella della reputazione al momento critico del giudizio che della persona i consociati sono portati a dare sulla base della rappresentazione proposta 63. Il rispetto della sfera morale della persona, nei vari aspetti in cui si concretizza la sua tutela, pone da sempre – ma ovviamente in maggiore misura con l’avvento e la diffusione degli attuali mezzi di comunicazione – in primo piano, come accennato, la questione del suo bilanciamento con le esigenze legate alla garanzia di quella fondamentale libertà di manifestazione del pensiero (art. 211 Cost.), cui si riconnettono, nella prospettiva della realizzazione dell’interesse all’informazione (nella sua duplice prospettiva di diritto ad informare e diritto ad essere informati) 64, in particolare, il diritto di cronaca ed il diritto di critica. Il diritto di cronaca, espressione della libertà di stampa presidiata (ma anche delimitata) dall’art. 212-6 Cost., proprio per i rischi cui espone la personalità morale dei soggetti che coinvolge, risulta oggetto di una giustificata attenzione. La sua legittimità, quindi, quale limite alla tutela dell’onore e della reputazione della persona, viene ricollegata correncito”, ha evidenziato che “quando un reato è punibile solo a querela della persona offesa, nessuna norma o principio di logica giuridica impedisce di preferire all’esercizio del diritto di querela e al conseguente esercizio dell’azione penale contro l’autore dell’offesa, l’esercizio contro di lui dell’azione civile in sede civile per il risarcimento dei soli danni conseguenti all’illecito in cui il reato medesimo si compendia”. 61 La tutela di un simile diritto viene fatta spesso operare pure per gli enti, siano essi riconosciuti come persona giuridica o meno (IV, 2.1). In particolare, Trib. Roma 26-6-1993 ha ritenuto che “la lesione dell’onore e della reputazione di un membro di partito politico può concorrere con quella arrecata al partito stesso”. Il diritto di una società di capitali a vedersi risarcito il danno non patrimoniale conseguente a diffamazione è chiaramente affermato da Cass. 3-3-2000, n. 2367. 62 Così, per Cass. 8-6-1998, n. 5658, mentre il “diritto alla riservatezza ha un’estensione maggiore del diritto alla reputazione, ben configurandosi ipotesi di fatti di vita intima che, pur non influendo sulla reputazione, devono restare riservati”, è anche vero che “il diritto all’onore ed alla reputazione è considerato generalmente dall’ordinamento di maggiore spessore rispetto a quello della riservatezza, per cui la violazione del primo dà sempre luogo anche ad una tutela penale”. 63 La reputazione “postula per la sua compromissione l’attribuzione di fatti suscettibili di causare un giudizio di disvalore e non meramente alterativi – al limite anche in positivo – della personalità, come quelli che incidono sulla ‘identità’” (Cass. 7-2-1996, n. 978). Si pensi, ad es., ad una illegittima levata di protesto (Cass. 31-5-2012, n. 8787) o ad una “denuncia-querela rivelatasi infondata” (considerata idonea a “ledere beni costituzionalmente tutelati, quali la dignità, l’onore e il prestigio della persona”: Cass. 17-1-2012, n. 543). 64 L’art. 111 Carta dir. fond. U.E. prevede esplicitamente che il “diritto alla libertà di espressione … include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee”.

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temente al rispetto di talune condizioni essenziali, che ne rappresentano, a loro volta, i limiti invalicabili a salvaguardia della dignità della persona oggetto di attenzione (limiti del pubblico interesse, della verità, della continenza) 65. Con riguardo ai dati personali, il relativo trattamento nell’esercizio dell’attività giornalistica è specificamente disciplinato nel D.Lgs. 30.6.2003, n. 196 (“Codice in materia di protezione dei dati personali”: IV, 2.9), il quale – nel testo definito dalla L. 101/2018 – contempla, ai fini del trattamento con “finalità giornalistiche” (art. 136), l’adozione di regole deontologiche, “che prevedono misure ed accorgimenti a garanzia degli interessati rapportate alla natura dei dati, in particolare per quanto riguarda quelli relativi alla salute e alla vita o all’orientamento sessuale” (art. 139) 66. 65

Il c.d. “decalogo del giornalista” risulta con chiarezza delineato – e, successivamente costantemente ribadito – dalla Cassazione (18-10-1984, n. 5259, nonché, ad es., 4-9-2012, n. 14822 e 29-10-2019, n. 27592, ovviamente con talune varianti, peraltro non sostanziali), che allude alla “1) utilità sociale dell’informazione; 2) verità (oggettiva o anche soltanto putativa purché, in quest’ultimo caso, frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca); 3) forma ‘civile’ della esposizione dei fatti e della loro valutazione: cioè non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire, improntata a serena obiettività almeno nel senso di escludere il preconcetto intento denigratorio”. Circa tale ultimo limite (continenza) – per il profilo del necessario interesse pubblico all’informazione si parla anche di pertinenza – si evidenzia come l’informazione debba essere sempre “improntata a leale chiarezza”, la quale manca quando il giornalista ricorra a “subdoli espedienti”, quali il “sottinteso sapiente”, gli “accostamenti suggestionanti”, il “tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato (specie nei titoli)”, le “vere e proprie insinuazioni, anche se più o meno velate”. Si precisa, così, che “il carattere diffamatorio di un articolo non va valutato sulla base di una lettura atomistica delle singole espressioni, ma con riferimento all’intero contesto della comunicazione, comprensiva di titoli e sottotitoli e di tutti gli altri elementi che rendono esplicito, nell’immediatezza della rappresentazione e della percezione visiva, il significato di un articolo” (pure per l’attitudine a “fuorviare e suggestionare i lettori più frettolosi”: Cass. 12-12-2017, n. 29640). Per la precisazione della sfuggente “esimente della verità putativa dei fatti narrati”, v., di recente, Cass. 27592/2019 (con particolare riferimento alla necessità di indicare non solo la fonte delle informazioni, ma anche il “contesto in cui, in quella fonte, esse erano inserite”, nonché di non sottacere “fatti collaterali idonei a privare di senso o modificare il senso dei fatti narrati”). Al riguardo, v. anche Cass. 12-10-2020, n. 21969, che, se ritiene esonerato il giornalista da ulteriori verifiche circa “l’attendibilità della fonte informativa nel caso in cui questa provenga dall’autorità investigativa o giudiziaria”, lo ritiene comunque tenuto ad “un necessario aggiornamento temporale” circa “la veridicità della notizia nel momento della sua divulgazione”. Ovviamente, sussiste “l’obbligo di risarcire il danno … non solo quando la persona diffamata sia nominata nello scritto, ma anche quando – pur non essendo nominata – sia chiaramente ed univocamente identificabile” (Cass. 28-9-2012, n. 16543). Si è sottolineato che la “presenza delle condizioni legittimanti l’esercizio del diritto di cronaca non implica, di per sé, la legittimità della pubblicazione o diffusione anche dell’immagine delle persone coinvolte” (risultando necessario “uno specifico ed autonomo interesse pubblico alla conoscenza delle fattezze dei protagonisti della vicenda narrata”: Cass. 22-7-2015, n. 15360, nonché, da ultimo, 24-12-2020, n. 29583 e 19-2-2021, n. 4477). Comunque, il diritto di cronaca rappresenta un limite anche al “diritto a richiedere che le notizie attinenti a vicende personali vengano rimosse dal web”, quando sussista un “interesse pubblico ed attuale alla loro diffusione” (Trib. Roma 3-12-2015). Con la problematica del diritto all’oblio (IV, 2.8) e con quella del trattamento dei dati personali (IV, 2.9) viene ad interferire l’esigenza del doveroso aggiornamento “della notizia già di cronaca”, in relazione agli sviluppi successivi della relativa vicenda (App. Milano 27-1-2014, secondo la fondamentale impostazione di Cass. 5-4-2012, n. 5525). 66 L’art. 1373, in relazione ai limiti del diritto di cronaca (a tutela dei diritti sanciti dall’art. 1, secondo cui il trattamento dei dati personali deve avvenire “nel rispetto della dignità umana, dei diritti e delle libertà fondamentali della persona”), allude, in particolare, a “quello dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico”. Si tenga presente che, ai sensi dell’art. 2 quater4, “il rispetto delle disposizioni contenute nelle regole deontologiche … costituisce condizione essenziale per la liceità e la correttezza del trattamento dei dati personali” (IV, 2.9). Per Cass. 18006/2018, “il trattamento dei dati personali con finalità giornalistiche”, se “può essere effettuato anche senza il consenso dell’interessato”, deve pur sempre osservare “modalità che garantiscano il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, della dignità dell’interessato, del diritto all’identità personale”.

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Con il diritto di cronaca è inevitabilmente destinato a confrontarsi il diritto di critica. Esso, in quanto finalizzato, per definizione, alla valutazione (in chiave necessariamente soggettiva) di fatti ed opinioni altrui, risulta svincolato, almeno in certa misura, dai più rigorosi limiti caratterizzanti il diritto di cronaca (soprattutto con riferimento a quello della continenza, concernente il modo civile della manifestazione del pensiero), con una indubbiamente più intensa potenziale compromissione della reputazione altrui 67. Per sua natura contraddistinto da una peculiare asprezza di toni viene, poi, considerato l’esercizio del diritto di critica nel campo della politica, con conseguente tolleranza di esternazioni di particolare durezza 68. Tendono, ormai, ad essere riconosciute caratteristiche peculiari al diritto di satira, in quanto espressione, pur nel suo indiscutibile intreccio con le esigenze della cronaca e della critica politica, della libertà della creazione artistica (che trova, a sua volta, il proprio fondamento nell’art. 331 Cost.) 69. Ad esso, in quanto solo marginalmente connesso col diritto all’informazione (e non assoggettabile, quindi, ai relativi limiti), si ritengono inapplicabili gli usuali criteri di valutazione concernenti la correttezza dell’espressione, essendo la satira dichiaratamente finalizzata all’irrisione del personaggio noto preso di mira. Un limite invalicabile risulta comunque quello del rispetto dei valori fondamentali della persona 70. 67 Secondo Cass. 14-1-1999, n. 334, anche se, indubbiamente, il diritto di critica assume una “maggiore estensione rispetto al diritto di cronaca”, esso non si sottrae, comunque, all’esigenza di un “equo contemperamento tra l’interesse pubblico e il diritto all’onore e alla reputazione”. Tale bilanciamento (cui allude anche Cass. 10690/2008, accomunando nella relativa esigenza diritto di cronaca e di critica), per Cass. 25-7-2000, n. 9746 (e v. anche Cass. 28-2-2017, n. 5005), resta legato alla “pertinenza della critica di cui si tratta all’interesse pubblico”, cioè all’“interesse dell’opinione pubblica alla conoscenza non del fatto oggetto di critica … ma di quella interpretazione del fatto”: non potendosi, comunque, travalicare “in una aggressione gratuita e distruttiva del soggetto interessato” (Cass. 19-7-2016, n. 14694). Così anche Cass. 31-1-2018, n. 2357, che sembra, peraltro, avvicinare molto le condizioni di legittimità richieste per il diritto di critica a quelle, dianzi accennate, concernenti il diritto di cronaca. Ad una esigenza di “verità, sia pure ragionevolmente putativa”, senza “la completezza richiesta quando si esercita, a scopo informativo, il diritto di cronaca”, allude Cass. 7-6-2018, n. 14727. 68 Posto che l’accertamento giudiziale “non può tradursi in una valutazione di merito dei giudizi politici espressi” (anche se “in modo astrattamente offensivo e sgradito alla persona cui si riferisce”: Trib. Milano 26-8-2008), l’esercizio della critica politica, per Cass. 27-6-2000, n. 8733, “pur potendo sopportare toni aspri e di disapprovazione, non può trasmodare nell’attacco personale e nella pura contumelia, con lesione del diritto di altri all’integrità morale”. Circa il “consentito ricorso”, nel caso di critica politica, “a toni aspri e di disapprovazione più pungenti e incisivi”, v. pure Cass. 5005/2017. 69 Problemi peculiari, proprio per l’intreccio tra esigenze di critica, di libertà della creazione artistica e di tutela della sfera morale delle persone coinvolte, pone l’opera cinematografica e, in particolare, la fiction che trae spunto da eventi reali. Trib. Roma 2-2-1994 ha avuto modo di precisare che “la possibilità di ampia rielaborazione e valutazione di vicende che abbiano avuto risalto nell’opinione pubblica”, da riconoscere “all’opera cinematografica, costituente il frutto dell’attività creativa ed artistica”, “non può peraltro comportare la compressione dell’altrui diritto costituzionalmente garantito all’onore ed alla reputazione”. Così, pure con riguardo all’opera cinematografica, Cass. 19-6-2019, n. 16506, ha evidenziato come l’eventuale relativo (prevalente) carattere realistico-informativo imponga una valutazione complessiva della verità putativa, alla luce “dell’uso di espedienti stilistici, che possano trasmettere agli spettatori, anche al di là di una formale – ed apparente – correttezza espositiva, connotazioni negative sulle persone e sul ruolo rivestito da loro in una più ampia vicenda”. 70 Non può, come sottolinea la Cassazione penale (20-10-1999), l’esercizio del diritto di satira esporre la persona al “disprezzo”, alla luce del necessario rispetto di “un principio di coerenza tra dimensione pubblica del personaggio e contenuto artistico dell’espressione”. Il diritto in questione, insomma, se pure inevitabilmente destinato “a prevalere sul configgente diritto all’onore e alla riservatezza del soggetto preso di mira, non può trasformarsi in diritto del libero insulto … calpestando quel minimo di dignità che la persona umana

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PARTE IV – SOGGETTI

7. Immagine e corrispondenza. – L’immagine costituisce, col nome, un aspetto della personalità espressamente preso in considerazione già dal codice civile vigente (art. 10). La relativa tutela ha assunto, di conseguenza, una rilevanza notevole ai fini della delineazione, in generale, della categoria dei diritti della personalità, costituendone quasi il prototipo (pure sotto il profilo dell’elaborazione dei relativi strumenti di protezione). In effetti, proprio dal suo esplicito riconoscimento ci si è mossi, nel nuovo contesto caratterizzato dalla garanzia costituzionale globale dei diritti fondamentali della persona (art. 2 Cost.), per apprestare tutela a profili della personalità che ne erano ancora privi: in particolare ricostruendo, in quella prospettiva più complessiva della tutela dell’intimità e del riserbo del soggetto di cui indubbiamente l’immagine costituisce specifica manifestazione, il diritto alla riservatezza. Col diritto all’immagine viene tutelato l’interesse del soggetto ad esprimere il consenso alla diffusione del proprio ritratto, al di fuori dei casi in cui prevalgano esigenze di carattere generale e sociale alla relativa conoscenza. Esso salvaguarda un aspetto dell’intimità della vita privata, al contempo valendo ad assicurare il rispetto dell’identità sociale della persona, ovviamente sempre nel quadro della più generale garanzia della sua sfera morale. Il diritto all’immagine, da tale ultimo punto di vista, nell’originario disegno codicistico, si ricollegava strettamente al diritto sulla propria corrispondenza (art. 93 L. 22.4.1941, n. 633, concernente la protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio) ed al diritto morale d’autore (come diritto a rivendicare la paternità dell’opera, opponendosi anche ad ogni relativa modificazione pregiudizievole per il proprio onore e la propria reputazione: artt. 25772 e 20 L. 633/1941: VI, 1.10), trovando appunto disciplina, oltre che nell’art. 10 del codice civile, negli artt. 96 e 97 della stessa L. 633/1941. L’art. 10 vieta l’abuso dell’immagine altrui, attribuendo all’interessato la possibilità di chiederne la cessazione, salvo il risarcimento del danno 71. Il principio fondamentale in materia è quello secondo cui il ritratto della persona non può essere divulgato senza il suo consenso (art. 96 L. 633/1941). Non solo il consenso è reputato sempre revocabile (in tal caso ponendosi, al più, un problema di risarcimento dei danni conseguentemente sofreclama” (Trib. Trento 15-1-1999). La sottrazione della “satira, a differenza del diritto di cronaca, al parametro della veridicità”, può giustificare espressioni “anche lesive della reputazione altrui, purché … non si risolvano in aggressioni gratuite e distruttive dell’onore e della reputazione del soggetto interessato” (Cass. 28-11-2008, n. 28411; “espressioni”, comunque, sempre “strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall’opinione o dal comportamento preso di mira”: Cass. 20-3-2018, n. 6919). Peraltro, “ne ricorre l’esercizio solo se il fatto è espresso in modo apertamente difforme dalla realtà, sicché possa apprezzarsene subito l’inverosimiglianza e il carattere iperbolico” (Cass. 14822/2012). Il limite della continenza, così, è stato da Cass. 7-11-2000, n. 14485, ritenuto superato, anche nei confronti di un personaggio noto, “quando nello scritto vengano poste in dileggio le fattezze fisiche e le qualità strettamente personali, senza alcun nesso col contenuto ‘politico’ dello scritto”. Circa le condizioni di ricorrenza del “diritto di critica nella forma della satira”, v. Cass. pen., sez. V, 22-7-2019, n. 32862 (in particolare, con riguardo al limite della continenza, nel caso di specie in relazione ai rappresentanti di una minoranza etnica). 71 Si sottolinea come “la tutela dell’immagine della persona fisica possa estendersi a ricomprendere anche elementi come … l’abbigliamento, ornamenti, trucco ed altro che per la loro peculiarità richiamino in va immediata nella percezione dello spettatore proprio quel personaggio al quale tali elementi siano ormai indissolubilmente legati” (Trib. Milano 21-5-2015, sulla scia, ad es., di Pret. Roma 18-4-1984). Sotto un diverso (ma speculare) profilo, è stata reputata illecita, in quanto lesiva dell’immagine della persona ritratta (quale da lei stessa volutamente offerta al pubblico anche “tramite dei segni permanenti” impressi sul proprio corpo), “la riproduzione fotografica delle sembianze con la soppressione digitale dei tatuaggi” (Trib. Milano 6-6-2018).

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ferti da chi sia stato autorizzato all’utilizzazione del ritratto), ma la sua efficacia è da considerare ristretta al tempo, all’ambito spaziale, allo scopo, alle forme e alle modalità della diffusione consentita 72. Proprio perché il diritto all’immagine protegge il riserbo della persona e la sua proiezione sociale, i casi in cui l’art. 97 L. 633/1941 autorizza la diffusione dell’immagine senza il consenso del soggetto interessato, comportando una limitazione alla tutela delle manifestazioni della sua personalità giustificata dalla prevalenza di un interesse pubblico (consistente nel diritto di informare e di essere informati), sono da considerarsi tassativi e devono essere interpretati in modo restrittivo 73. Innanzitutto, la riproduzione e diffusione dell’immagine può avvenire a prescindere dal consenso della persona ritrattata se giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico ricoperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali. A non pochi problemi ha dato luogo, in particolare, la giustificazione fondata sulla notorietà della persona e sull’ufficio ricoperto. Opera, al riguardo, il limite di carattere generale posto alla diffusione dell’immagine senza il consenso dell’interessato, costituito dal pregiudizio che ne possa derivare all’onore, al decoro ed alla reputazione della persona. La notorietà, inoltre, si ritiene poter essere invocata solo con riferimento all’ambito territoriale in cui essa esiste ed in connessione con l’attività o le circostanze cui si ricollega la notorietà stessa (solo entro tali limiti, infatti, prevale l’interesse pubblico alla conoscenza dell’immagine, come elemento di una più completa informazione). La notorietà, comunque, non giustifica una diffusione dell’immagine fatta per sfruttarla a (mero o prevalente) scopo di lucro (in particolare, attraverso la commercializzazione di oggetti riproducenti le fattezze di personaggi noti), tale dovendosi intendere anche l’utilizzazione dell’immagine a fini pubblicitari 74. 72 Secondo Trib. Roma 7-10-1988, “l’efficacia del consenso, poiché si verte in tema di diritti della personalità, deve essere contenuta nei rigorosi limiti soggettivi ed oggettivi in cui il consenso venne dato” (si è escluso, così, che il consenso dato da un’attrice all’inizio della propria carriera alla diffusione di sue fotografie in cui era ritratta nuda possa ritenersi legittimare la divulgazione delle medesime a distanza di molti anni, quando, cioè, non trovi più corrispondenza nell’evoluzione della sua personalità nella società). Una illiceità della pubblicazione dell’immagine per violazione delle “modalità di divulgazione, cui il titolare del diritto all’immagine ha subordinato il proprio consenso alla pubblicazione medesima”, è stata ipotizzata per non essere essa avvenuta (come avuto di mira dalla “nota attrice” interessata ritratta “parzialmente nuda”) “su riviste di prestigio internazionale” (Cass. 1-9-2008, n. 21995). 73 Alla luce del carattere “di stretta interpretazione” di tali casi, Cass. 28-3-1990, n. 2527, nega la necessaria ricorrenza di un interesse pubblico, “ove siano pubblicate immagini di una persona tratte da un film e la pubblicazione avvenga in un contesto (nella specie, rivista mensile Playmen), diverso da quello proprio dell’opera cinematografica e della sua commercializzazione”. Cass. 11-5-2010, n. 11353, nega la ricorrenza di “scopi didattici o culturali” nella “pubblicazione dell’immagine di un ex allievo di una scuola di danza nella locandina promozionale di uno spettacolo a pagamento della stessa scuola”. 74 Come è stato chiarito da Trib. Roma 11-6-1991, in relazione all’utilizzazione delle immagini di persone note per la promozione delle vendite di un quotidiano, “il fine della pubblicità è preminentemente se non esclusivamente scopo di lucro, in quanto diretto ad incrementare la vendita di un ‘prodotto’ rispetto a prodotti concorrenti”. Evidenziato che la divulgazione dell’immagine senza il consenso dell’interessato è “lecita soltanto se ed in quanto risponda alle esigenze di pubblica informazione e non anche ove sia rivolta a fini pubblicitari” (Cass. 13-4-2007, n. 8838, Cass. 19-7-2018, n. 19311), si è precisato, peraltro, che “il consenso all’utilizzazione commerciale della propria immagine può essere anche tacito” (Cass. 16-5-2006, n. 11491). Cass. 27-11-2015, n. 24221 reputa senz’altro sussistere “lo sfruttamento commerciale o pubblicitario”, quando “il personaggio appaia come involontario testimonial del prodotto reclamizzato”.

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PARTE IV – SOGGETTI

La riproduzione può, poi, avvenire liberamente, ove collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico. È assolutamente pacifico che vi debba essere sempre, però, un collegamento funzionale tra la divulgazione dell’immagine e l’evento (e ciò soprattutto ove si tratti di avvenimenti lontani nel tempo, in relazione ai quali sicuramente meritevole di considerazione è anche l’interesse del soggetto all’oblio) 75. Si tende fondatamente a dubitare che ad operare la c.d. contestualizzazione dell’immagine possa essere sufficiente la sola didascalia. Ricollegandosi, come accennato, la tutela dell’immagine della persona alle più generali esigenze di salvaguardia della sua intimità e di rispetto della sua identità sociale, l’invocazione dell’illegittimità della sua diffusione senza il relativo consenso risulta spesso operabile congiuntamente alla lesione del diritto alla riservatezza e del diritto all’identità personale 76. L’abuso dell’immagine può avvenire anche attraverso il ricorso ad un sosia, i cui atteggiamenti potrebbero prestarsi proprio a ledere l’identità personale del soggetto 77. L’art. 10 prevede che anche i prossimi congiunti (coniuge, figli, genitori) possano invocare la tutela del diritto all’immagine: oltre ad operare esigenze di solidarietà familiare, il congiunto sembra essere qui ammesso a far valere un proprio interesse di carattere morale, ove ne ritenga avvenuta la lesione a seguito della pubblicazione. Dopo la morte della persona ritrattata, i prossimi congiunti sono ammessi a far valere la tutela del diritto alla sua immagine (art. 962 L. 633/1941). Si tenga presente come si parli spesso semplicemente di diritto all’immagine (e di relativa lesione) anche con riguardo alla tutela concernente non la rappresentazione delle sembianze fisiche della persona, ma la considerazione dalla stessa (anche ove si tratti di ente) goduta nell’ambiente in cui opera (immagine, quindi, intesa in senso sociale), in una prospettiva, insomma, propria del diritto alla reputazione personale (IV, 2.6) e del diritto all’identità personale (IV, 2.11) 78. Tale ultima regola vale pure in materia di diritti relativi alla corrispondenza. Anche il peculiare regime che gli artt. 93 ss. L. 633/1941 prevedono per la divulgazione della cono75 La legittimità della diffusione dell’immagine resta legata alla sussistenza di “un nesso di pertinenzialità rispetto all’evento” (Trib. Roma 12-3-2004). Significativa è la vicenda relativa ad un tifoso la cui immagine, ripresa durante una partita di calcio, era stata, per il suo carattere curioso, utilizzata durante sei anni nella sigla di apertura della rubrica “90° minuto”: Cass. 15-3-1986, n. 1763, nega l’applicabilità dell’art. 97, sottolineando che la “necessità sociale di informazione … deve non semplicemente sussistere al momento di fissazione dell’immagine, ma seguire tutto l’arco temporale di divulgazione di essa, connotando tutti i successivi episodi di riproduzione”. Per l’illegittimità della diffusione, in un videoclip musicale, dell’immagine di una persona che si trovava a passare sul relativo set (in assenza del suo consenso), Cass. 25-11-2021, n. 36754. 76 La pubblicazione non autorizzata della fotografia di una persona è stata (da App. Milano 21-5-2002) reputata “lesiva non solo del suo diritto all’immagine, ma anche del suo diritto all’identità personale, ove possa indurre il pubblico a credere che il soggetto ripreso abbia aderito ai valori espressi nella pubblicazione” (l’immagine di una conduttrice televisiva era stata riprodotta, senza il suo consenso, sulla copertina di una rivista pornografica). 77 Trib. Roma 28-2-1992, così, ha ritenuto costituire, da una parte, “lesione del diritto all’immagine” di una nota attrice la pubblicazione di fotografie di sosia, “con modalità tali da ingenerare in un lettore di media avvedutezza l’erroneo convincimento che la persona effigiata sia l’attrice in questione”; dall’altra, “lesione del diritto all’identità personale la pubblicazione delle fotografie di sosia di una nota attrice in atteggiamenti contrastanti con l’immagine professionale dell’interessata”. 78 Si pensi, al riguardo, al “danno all’immagine” di un noto calciatore, cui si riferisce (per la “risonanza mediatica” dei controlli – considerati illeciti – su alcuni suoi comportamenti) App. Milano 22-7-2015, o all’allusione di Trib. Bologna 18-11-2014, alla lesione arrecata alla “immagine dello Stato”.

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scenza della corrispondenza costituisce una forma di tutela della intimità della vita privata della persona, che manifesta, per tale via, in modo particolarmente immediato la propria personalità. In effetti, è proprio quando le corrispondenze epistolari (e altri scritti simili) abbiano carattere confidenziale o si riferiscano all’intimità della vita privata che la relativa divulgazione richiede il consenso dell’autore e quello del destinatario 79. Non a caso, la necessità di un simile consenso risulta superata ove la conoscenza dello scritto sia richiesta per scopi di giustizia o per esigenze di difesa dell’onore o della reputazione personale o familiare 80. Circa la tutela del diritto all’immagine, l’art. 10 prospetta (con l’art. 7 in tema di diritto al nome) il modello di tutela dei diritti della personalità, poi applicato per la protezione degli aspetti della personalità che si è inteso successivamente garantire: ciò in quanto combina lo strumento inibitorio e quello risarcitorio (IV, 2.3).

8. Riservatezza. – L’esigenza di porre la sfera privata del soggetto al riparo dalle ingerenze altrui è stata avvertita in modo crescente, in dipendenza dello sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa e, in tempi più recenti, degli strumenti informatici. Anche sulla base di esperienze straniere, così, la relativa tutela ha avuto modo di esprimersi nella delineazione del diritto alla riservatezza e, in una prospettiva di più generale salvaguardia della persona di fronte all’utilizzazione dei suoi dati personali, nella disciplina del trattamento di questi ultimi. Il riconoscimento del diritto alla riservatezza ha inteso garantire in modo comprensivo l’intangibilità della intimità della vita privata della persona, la quale, in ultima analisi, solo col rispetto di un sufficiente riserbo su situazioni, comportamenti e vicende che la riguardano può riuscire a svilupparsi in piena libertà e senza intollerabili condizionamenti 81. Si tratta, quindi, di un aspetto essenziale di quella tutela complessiva della persona e delle sue potenzialità di sviluppo, che trova nell’art. 2 Cost. un decisivo punto di riferimento, tale da consentirne il costante adeguamento all’evoluzione della coscienza sociale. È la valorizzazione del quadro costituzionale – e, in particolare, oltre che dell’art. 2, soprattutto dell’art. 3 Cost. 82 – ad aver consentito di argomentare dai numerosi dati legislativi che attengono alla garanzia del riserbo personale e familiare 83, anche alla luce dei più risalenti ed espliciti 79 La necessità del consenso di entrambi è ribadita da Trib. Milano 27-6-2007, che applica il principio ai messaggi di posta elettronica – reputati costituire “corrispondenza privata” – inviati a una mailing list, non considerando “sufficiente il consenso di uno dei destinatari per la divulgazione delle e-mail ricevute”. 80 Una particolarmente energica affermazione del carattere riservato della corrispondenza epistolare privata di natura confidenziale – in senso contrario, quindi, “all’applicazione analogica di disposizioni limitative dettate per altre ipotesi, come l’art. 97 l.d.a.” – è in Trib. Roma 22-5-2018. 81 L’esigenza in questione è stata espressa in termini evocativi, già in tempi alquanto risalenti, in altri ambienti, parlandosi di right to be let alone e, più in generale, di right to privacy. Fondamentale è la garanzia di “quello spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana” (Corte cost. 23-7-1991, n. 366). 82 Come ha sottolineato Cass. 27-5-1975, n. 2129, riconoscendo l’art. 3 Cost. “la dignità sociale del cittadino, si rende necessaria una sfera di autonomia che garantisca tale dignità”: “nei limiti di fatto della libertà ed eguaglianza dei cittadini” rientrano anche “quelle menomazioni cagionate dalle indebite ingerenze altrui nella sfera di autonomia di ogni persona” (assicurata pure dal principio della inviolabilità della libertà personale, di cui all’art. 13 Cost.). 83 Richiamate sono state, in particolare, norme del codice civile che tutelano contro l’invadenza altrui (come

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riconoscimenti a livello sopranazionale 84, l’esistenza pure nel nostro ordinamento di un vero e proprio diritto alla riservatezza. Secondo la definizione riuscita prevalente (e consolidatasi) in giurisprudenza, tale diritto concerne la tutela di quelle situazioni e vicende strettamente personali e familiari, le quali, anche se verificatesi fuori dal domicilio domestico, non hanno per i terzi un interesse socialmente apprezzabile, contro le ingerenze che, sia pure compiute con mezzi leciti, per scopi non esclusivamente speculativi e senza offesa per l’onore, la reputazione o il decoro, non siano giustificate da interessi pubblici preminenti 85. Tale diritto, come si è visto per la tutela dei diversi aspetti della personalità morale del soggetto (IV, 3.6-7), trova un limite nel suo necessario bilanciamento col diritto di informare e di essere informati, radicato nel principio di rango costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) 86. Valgono, quindi, le stesse considerazioni svolte a proposito della tutela dell’onore e della reputazione, nonché dell’immagine, il cui modello è stato tenuto largamente presente nella ricostruzione della figura in esame, dei suoi possibili limiti e degli strumenti utilizzabili per la sua tutela, anche per la frequente interferenza tra le relative problematiche (azione inibitoria, provvedimenti d’urgenza, eventuale risarcimento del danno: IV, 2.3) 87. Ciò pure per quanto concerne l’avvertita esigenza del rispetto del diritto all’oblio, una volta che il trascorrere di un tempo adeguato debba reputarsi aver fatto venire meno ogni effettivo interesse pubblico alla conoscenza di situazioni e vicende 88. quelle in materia di immagine e di nome: artt. 10 e 6 ss.), norme di carattere penale contro intrusioni nella vita privata (violazione del domicilio o della segretezza della corrispondenza – artt. 614 e 616 c.p. – e interferenze illecite nella vita privata con strumenti di ripresa visiva o sonora: art. 615 bis c.p., introdotto con la L. 8.4.1974, n. 98), norme a garanzia del lavoratore (divieto di indagini sulle opinioni e limiti alle indagini sul corpo del lavoratore: L. 20.5.1970, n. 300). 84 Peculiare rilevanza è stata riconosciuta all’art. 8 della Conv. eur. dir. uomo, secondo cui “ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza”. Al necessario “rispetto della vita privata e della vita familiare” è dedicato l’art. 7 Carta dir. fond. U.E. Esplicita è la previsione, introdotta nel 1970, dell’art. 9 code civil, per il quale “ciascuno ha diritto al rispetto della sua vita privata”. 85 È questa la nota definizione offerta da Cass. 27-5-1975, n. 2129, la quale sottolinea anche che “il diritto stesso non può essere negato ad alcune categorie di persone, solo in considerazione della loro notorietà, salvo che un reale interesse sociale all’informazione od altre esigenze pubbliche lo esigano”. Più di recente, Cass. 25-3-2003, n. 4366, ha evidenziato che “il diritto alla riservatezza, consistente nella tutela di situazioni e vicende personali e familiari dalla curiosità e dalla conoscenza pubblica, può essere leso sia con riguardo alla persona nota, sia rispetto a chi sia sconosciuto al pubblico”. 86 Una più intensa tutela del diritto alla riservatezza viene delineata (Cass. 5-9-2006, n. 19069) a favore del minore, essendo esso, in tal caso, “nel bilanciamento degli opposti valori costituzionali (diritto di cronaca e diritto alla privacy), considerato assolutamente preminente”. 87 Un accurato elenco degli elementi da considerare ai fini risarcitori – con riferimento ad una vicenda concernente un noto calciatore – è quello di App. Milano 22-7-2015, ove si sottolinea che, in proposito, “appaiono di primario rilievo gli aspetti concernenti la maggiore o minore penetrazione della sfera privata, la maggiore o minore diffusione delle notizie apprese”. 88 Si tratta, secondo Cass. 9-4-1998, n. 3679, di “un nuovo profilo del diritto di riservatezza”, da intendere come “giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata”. Sviluppando tale prospettiva pure in caso di memorizzazione nella rete Internet, Cass. 5-4-2012, n. 5525, ha affermato la sussistenza di un diritto “alla verità della propria immagine nel momento storico attuale”, con la necessità di garantire “la contestualizzazione e l’aggiornamento della notizia già di cronaca”, anche attraverso “la predisposizione di sistema idoneo a segnalare la sussistenza di un seguito e di uno sviluppo della

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9. Trattamento e protezione dei dati personali. – All’esigenza di rispetto della riservatezza aveva fatto significativamente riferimento il legislatore già nell’art. 1 L. 31.12.1996, n. 675, relativa al trattamento dei dati personali, successivamente confluita nel D.Lgs. 30.6.2003, n. 196 (“Codice in materia dei dati personali”: c.d. “codice privacy”). La disciplina di tale materia risulta ora radicalmente innovata, a seguito dell’emanazione del Regolamento U.E. 2016/679 (General Data Protection Regulation: GDPR), del 27.4.2016 (applicabile dal 25.5.2018), per l’adeguamento al quale – anche in considerazione degli spazi di manovra consentiti dal GDPR agli Stati membri – il testo del D.Lgs. 196/2003 è stato ampiamente modificato col D.Lgs. 10.8.2018, n. 101. Così, il nostro ordinamento ha fatto propria – nella prospettiva sopranazionale inevitabilmente destinata a caratterizzare la materia – l’esigenza di essere dotato di un efficiente strumento di tutela del diritto alla protezione dei dati personali, quale autonomamente contemplato dall’art. 8 Carta dir. fond. U.E. 89. La disciplina risulta espressamente indirizzata ad assicurare che il “trattamento dei dati personali” avvenga “nel rispetto della dignità umana, dei diritti e delle libertà fondamentali” (art. 1 D.Lgs. 196/2003, in relazione all’art. 1 GDPR, che si notizia, e quale esso sia stato” (nel caso di specie, il proscioglimento del soggetto cui si riferiva la notizia di un arresto per corruzione). Un simile orientamento risulta coerente con le tendenze della giurisprudenza comunitaria (Corte giust. U.E. 13-5-2014). Il problema del contemperamento del diritto di cronaca con le esigenze proprie del diritto all’oblio, nel caso di notizie ormai datate, è affrontato nella prospettiva della relativa radicale cancellazione da Cass. 24-6-2016, n. 13161. Al riguardo, Cass. 20-3-2018, n. 6919, nel contesto dell’enunciazione dei presupposti in presenza dei quali, appunto, “il fondamentale diritto all’oblio può subire una compressione a favore dell’ugualmente fondamentale diritto di cronaca”, evidenzia, in particolare, la necessità di un “interesse effettivo ed attuale alla diffusione dell’immagine o della notizia”. “Violazione del diritto all’oblio” è stata considerata la pubblicazione di notizie (peraltro, “attinte illegittimamente dagli atti di un fascicolo custodito nell’archivio del Csm”) relative a procedimenti disciplinari concernenti la vita privata di un magistrato “assai risalenti nel tempo, in mancanza di interesse pubblico attuale alla conoscenza del fatto” (Cass. pen. 7-7-2016, n. 39452). Per una rielaborazione dei rapporti “tra il diritto alla riservatezza (nella sua particolare connotazione del c.d. diritto all’oblio) e il diritto alla rievocazione storica di fatti e vicende concernenti eventi del passato”, v. Cass., sez. un., 22-7-2019, n. 19681, secondo cui il secondo prevale solo in presenza “di un interesse pubblico, concreto ed attuale”, sussistente ove ci “si riferisca a personaggi che destino nel momento presente l’interesse della collettività, sia per ragioni di notorietà che per il ruolo pubblico rivestito” (affermandosi, di conseguenza, la “prevalenza del diritto degli interessati alla riservatezza rispetto ad avvenimenti del passato”, con riferimento ad “un omicidio avvenuto ventisette anni prima, il cui responsabile aveva scontato la relativa pena detentiva, reinserendosi poi positivamente nel contesto sociale”). Per ulteriori precisazioni circa le cautele da adottare per evitare la lesione del diritto all’oblio, v. Cass. 27-3-2020, n. 7559, con riferimento alla tenuta dell’archivio storico digitale online di un quotidiano. In effetti, la nuova frontiera della tutela del diritto all’oblio, in quanto collegato ai diritti alla riservatezza e all’identità personale, ma da bilanciare col diritto della collettività all’informazione, è rappresentata dal diritto alla deindicizzazione dai motori di ricerca, per la delineazione dei cui limiti e modalità v., estesamente, Cass. 8-2-2022, n. 3952, 21-7-2021, n. 20861, 31-5-2021, n. 15160, 19-5-2020, n. 9147. Un espresso riconoscimento dell’esistenza del diritto all’oblio risulta ora dall’art. 17 del Regolamento U.E. 2016/679 del 27.4.2016, peraltro (e, quindi, tutto sommato riduttivamente) nel contesto del diritto alla cancellazione dei dati personali (con un’articolata enunciazione delle relative condizioni – in particolare, quella di non essere essi “più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o altrimenti trattati” e quella di non essere “stati trattati illecitamente” – e limitazioni, tra cui di peculiare rilevanza la necessità del trattamento “per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione”). 89 Secondo cui “ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano” (art. 81) e “tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge. Ogni persona ha il diritto di accedere ai dati raccolti che la riguardano e di ottenerne la rettifica” (art. 82). “Il rispetto di tali regole è soggetto al controllo di un’autorità indipendente” (art. 83).

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dichiara finalizzato a proteggere “i diritti e le libertà fondamentali delle persone fisiche, in particolare il diritto alla protezione dei dati personali”). La disciplina in questione 90 si presenta come atta a dare una risposta, sul piano normativo, a molte delle problematiche tradizionalmente fatte rientrare nella generale tutela della riservatezza 91. Essa, infatti, riguarda (secondo le definizioni contenute nell’art. 41 GDPR) 92 il “trattamento” (dei dati personali), inteso in senso decisamente molto ampio (“qualsiasi operazione o insieme di operazioni, compiute con o senza l’ausilio di processi automatizzati e applicate a dati personali o insiemi di dati personali, come la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la strutturazione, la conservazione, l’adattamento o la modifica, l’estrazione, la consultazione, l’uso la comunicazione mediante trasmissione, diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione, il raffronto o l’interconnessione, la limitazione, la cancellazione o la distruzione”) 93. Per “dato personale”, si considera “qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile (“interessato”); si considera identificabile la persona fisica 94 che può essere identificata, direttamente o indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo, come il nome, un numero di identificazione, dati relativi all’ubicazione, un identificativo online o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, gene90 Di rilevante portata si è presenta l’estensione ai motori di ricerca dei principi governanti la responsabilità per il trattamento dei dati personali, con riferimento all’attività di selezione, indicizzazione, memorizzazione e messa a disposizione degli utenti di collegamenti a pagine di siti terzi (anche con riguardo all’obbligo di deindicizzazione dei link reputati lesivi dall’interessato: Corte giust. U.E. 13-5-2013). Particolare rilievo assume, in materia, la già ricordata “Dichiarazione dei diritti in Internet” (14.7.2015), nella quale, tra l’altro, si prevede che “l’accesso a Internet è diritto fondamentale della persona e condizione per il suo sviluppo individuale e sociale” (art. 21), statuendosi anche il principio della c.d. “neutralità della rete” (art. 4). Circa l’accesso alla rete, v. ora il Regolamento U.E. 2015/2120, del 25.11.2015, concernente “misure riguardanti l’accesso a un’Internet aperta”. 91 La stessa pubblicazione dell’immagine senza il consenso della persona interessata è stata considerata, da Trib. Roma 22-11-2002, tale da violare, oltre che la specifica disciplina in tema di diritto all’immagine, le norme a tutela dei dati personali (con applicabilità del relativo regime risarcitorio). In termini generali, Cass. 2-9-2015, n. 17440, ritiene “l’immagine della persona dato personale rilevante ai sensi dell’art. 41”. Alla normativa in materia di protezione dei dati personali fa espressamente riferimento, ai fini del giudizio circa la legittimità della pubblicazione su un quotidiano della foto di una persona al momento del suo arresto, Cass. 6-4-2014, n. 12834, che finisce con l’applicare i criteri caratteristici del bilanciamento tra diritto all’immagine e diritto di cronaca (così, in particolare, la “essenzialità per illustrare il contenuto della notizia”). Si ricordi come l’art. 851 GDPR demandi al “diritto degli Stati membri” la conciliazione della “protezione dei dati personali ai sensi del presente regolamento con il diritto alla libertà d’espressione e di informazione, incluso il trattamento a scopi giornalistici o di espressione accademica, artistica o letteraria”. 92 L’art. 22 GDPR, peraltro, esclude dal campo di applicazione del regolamento, in particolare, i trattamenti dei dati personali “effettuati da una persona fisica per l’esercizio di attività esclusivamente personale o domestico” (art. 22, lett. c, GDPR). 93 Una funzione di tutela della privacy e di protezione del consumatore dovrebbero svolgere anche gli artt. 48 ss. D.Lgs. 6.9.2005, n. 206 (ai sensi del D.Lgs. 21.2.2014, n. 21), che pongono una serie di “obblighi di informazione” (art. 49) e di “requisiti formali per i contratti a distanza” (art. 51), prevedendo, inoltre, un dettagliato regime del “diritto di recesso” (artt. 53 ss.). Cass. 24-6-2014, n. 14326, reputa rientrare “nella nozione di trattamento dei dati personali l’estrazione da un elenco telefonico di un numero di fax e il successivo utilizzo del medesimo per fini commerciali” (con conseguente carattere illecito della relativa utilizzazione, “senza aver reso la prescritta informativa al destinatario e raccolto il suo esplicito consenso”). 94 La disciplina in questione, quindi, non trova applicazione, almeno in quanto tale, agli enti di qualunque tipo.

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tica, psichica, economica, culturale, sociale” 95. Peculiari regole di cautela (art. 92-4 GDPR e 2 sexies e 2 septies D.Lgs. 196/2003) risultano stabilite, poi, per il trattamento di categorie particolari di dati personali (i c.d. “dati sensibili”) 96, ossia per i “dati personali che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale”, nonché per i “dati genetici, biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona” (art. 91 GDPR), così come per i “dati personali relativi alle condanne penali e ai reati” (art. 10 GDPR e 2 octies D.Lgs. 196/2003). Il GDPR detta taluni “Principi” generali concernenti il trattamento dei dati personali 97. Innanzitutto, essi devono essere “trattati in modo lecito, corretto e trasparente nei confronti dell’interessato” (“liceità, correttezza e trasparenza”) 98. Inoltre, devono essere: “raccolti per finalità determinate, esplicite e legittime, e successivamente trattati in modo compatibile con tali finalità” (“limitazione della finalità”); “adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati” (“minimizzazione dei dati”); “esatti e, se necessario, aggiornati” (e “devono essere adottate tutte le misure ragionevoli per cancellare o rettificare tempestivamente i dati inesatti rispetto alle finalità per le quali sono trattati”: “esattezza”); “conservati in una forma che consenta l’identificazione degli interessati per un arco di tempo non superiore al conseguimento delle finalità per le quali sono trattati” (“limitazione della conservazione”); “trattati in maniera tale da garantire un’adeguata sicurezza dei dati personali, compresa la protezione, mediante misure tecniche e organizzative adeguate, da trattamenti non autorizzati o illeciti e dalla perdita, dalla distruzione o dal danno accidentale” (“integrità e riservatezza”) (art. 51). Si precisa che “il titolare del trattamento è competente per il rispetto” dei principi accennati (“e in grado di comprovarlo”: “responsabilizzazione”). La chiave di volta della “liceità del trattamento” è costituita dal consenso 99, che l’in95 Circa l’estensione della nozione in questione, in vista dell’identificazione in via diretta o indiretta della persona, Cass. 5-7-2018, n. 17665 (ai fini della necessità dell’informativa – di cui infra – e del consenso dell’interessato per la relativa utilizzazione). 96 Significativamente, è stata reputata “affetta da nullità la clausola con cui la banca ha subordinato il dar corso alle operazioni richieste dal cliente al consenso al trattamento dei dati sensibili” (Cass. 21-10-2019, n. 26778). Si ricordi come proprio le problematiche concernenti il trattamento dei dati personali sensibili (e, in particolare, di quelli relativi alla salute) siano state al centro del dibattito avente ad oggetto la introduzione – sia pure “su base volontaria” e con le garanzie reputate opportune ai fini del rispetto dei principi governanti la materia – di un “sistema di allerta COVID-19” (poi individuato, ai sensi dell’art. 6 D.L. 30.4.2020, n. 28, nella applicazione “Immuni”), nonché all’origine delle perplessità in ordine all’imposizione del c.d. green pass nelle attività sociali di relazione (IV, 1.1). 97 Fondamentale è la previsione dell’art. 2 decies D.Lgs. 196/2003, secondo cui “i dati personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali non possono essere utilizzati” (con possibili eccezioni nell’ambito di procedimenti giudiziari, secondo le “pertinenti disposizioni processuali”: art. 160 bis D.Lgs.). 98 Si è ritenuto, ad es., che “integra una fattispecie d’illecito trattamento dei dati personali … la pubblicazione, senza il consenso degli interessati, dei dati riguardanti la residenza ed il numero telefonico” (Trib. Milano 19-5-2005). Ugualmente “l’affissione nella bacheca dell’edificio condominiale, da parte dell’amministratore, dell’informazione concernente le posizioni di debito dei singoli partecipanti al condominio in ordine all’onere di contribuzione alle spese condominiali” (Cass. 5-8-2011, n. 18279). 99 Definito come “qualsiasi manifestazione di volontà libera, specifica, informata e inequivocabile dell’interessato, con la quale lo stesso manifesta il proprio assenso mediante dichiarazione o azione positiva inequi-

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teressato deve avere espresso “al trattamento dei propri dati personali per una o più specifiche finalità” (art. 61 GDPR) e che il “titolare del trattamento deve essere in grado di dimostrare” essere stato prestato (art. 71 GDPR), sempre che sia stata preventivamente (e adeguatamente) resa allo stesso interessato la necessaria informativa (“in forma concisa, trasparente, intellegibile e facilmente accessibile, con un linguaggio semplice e chiaro”, “per iscritto o con altri mezzi, anche, se del caso, con mezzi elettronici”: art. 121 GDPR) 100, relativamente ad una serie di informazioni (in particolare, tendenti ad identificare il titolare del trattamento e le finalità del trattamento, differenziate a seconda che i dati siano raccolti presso l’interessato o meno: artt. 13 e 14 GDPR) e comunicazioni 101. Tra i diritti dell’interessato 102, paiono meritevoli di essere segnalati: il diritto di accesso, in forza del quale può ottenere la conferma dell’essere o meno “in corso un trattamento dei dati personali che lo riguardano”, ricevendo copia dei dati oggetto di trattamento con una serie di relative informazioni (come finalità, destinatari o categorie di destinatari, durata della conservazione, ecc.) (art. 15 GDPR) 103; il diritto di rettifica, per cui può ottenere, appunto, “la rettifica dei dati personali inesatti che lo riguardano senza ingiustificato ritardo”, anche con la relativa eventuale integrazione “fornendo una dichiarazione integrativa” (art. 16 GDPR); il diritto all’oblio, inteso come possibilità di ottenere “la cancellazione dei dati personali … senza ingiustificato ritardo”, in una serie di casi vocabile, che i dati personali che lo riguardano siano oggetto di trattamento” (art. 41 GDPR). Circa il collegamento tra validità del consenso e specifica chiara individuazione del trattamento, v. Cass. 2-7-2018, n. 17278, con riguardo al condizionamento di una “fornitura di un servizio al trattamento dei dati per finalità pubblicitarie” (da parte di un gestore di sito internet per un servizio di newsletter su tematiche finanziarie). 100 È pacifico, così, che “l’istallazione di un impianto di videosorveglianza da parte di un esercizio commerciale, costituendo trattamento di dati personali, deve formare oggetto di previa informativa, resa ai soggetti interessati prima che facciano accesso nell’area videosorvegliata” (Cass. 5-7-2016, n. 13663). 101 L’art. 61 indica anche le ipotesi di liceità del trattamento a prescindere dal consenso dell’interessato, tra cui, in particolare, la relativa necessità “per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento”. La situazione del m i n o r e in relazione alla “offerta diretta di servizi della società dell’informazione” è regolata dall’art. 81, che allude all’età minima di 16 anni per la prestazione del relativo consenso (con possibilità, per gli Stati, di indicare un’età inferiore, con il limite dei 13 anni) (in proposito, anche con riguardo alle misure contro il c.d. cyberbullismo, di cui alla L. 71/2017, v. supra IV, 1.7). 102 L’art. 23 GDPR prevede la possibilità di apportare limitazioni alla portata dei diritti di seguito accennati (oltre che dei principi di cui all’art. 5) – ma sempre “mediante misure legislative” e “qualora tale limitazione rispetti l’essenza dei diritti e delle libertà fondamentali e sia una misura necessaria e proporzionata in una società democratica” – per salvaguardare taluni interessi di carattere generale, quali sicurezza nazionale, difesa, sicurezza pubblica, repressione di reati, nonché altri “importanti obiettivi di interesse pubblico generale dell’Unione o di uno Stato membro”, con riguardo, in particolare, alla “materia monetaria, di bilancio e tributaria, di sanità pubblica e sicurezza sociale” (peraltro, con una serie di specificazioni circa i necessari contenuti delle relative misure legislative). Proprio in tale disposizione, quindi, si tende a radicare – oltre che in quelle concernenti la peculiare disciplina delle modalità di trattamento dei “dati sensibili”, di cui all’art. 9 GDPR, nonché 2 septies D.Lgs. 196/2003 – la legittimità dei provvedimenti adottati in occasione della pandemia da Covid-19. 103 È stato considerato, così, nei confronti del lavoratore dipendente sospettato di “uso indebito del computer”, “illegittimo il monitoraggio del contenuto dei siti visitati, idoneo a rivelare dati sensibili” (Garante prot. dati pers. 2-2-2006). Pure per Cass. 8-8-2013, n. 18980, illegittima è l’utilizzazione, a fini disciplinari, dei dati (relativi alla indebita visita di “siti sindacali, di culto e pornografici”) attinti dal computer di un proprio dipendente. Per limiti rigorosi alla possibilità, da parte del datore di lavoro, di “controllare la posta elettronica e la navigazione internet dei dipendenti”, v. Garante prot. dati pers. 1-3-2007.

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(tra cui in particolare, il venir meno della relativa necessità “rispetto alle finalità per cui sono stati raccolti o altrimenti trattati”, la revoca del consenso “su cui si basa il trattamento”, il carattere illecito del trattamento: art. 17 GDPR); il diritto di opposizione, in relazione a taluni dei casi in cui il trattamento sia avvenuto a prescindere dal suo consenso, nonché ove il trattamento sia avvenuto “per finalità di marketing diretto” (art. 21); il “diritto a non essere sottoposto a una decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato, compresa la profilazione” (con talune eccezioni, tra cui, ovviamente, il consenso dello stesso interessato: art. 22 GDPR); il diritto alla sicurezza del trattamento dei dati, dovendo chi tratta i dati personali mettere “in atto misure tecniche e organizzative adeguate per garantire un livello di sicurezza adeguato al rischio” (tra cui, ad esempio, “la pseudonimizzazione e la cifratura dei dati personali”: art. 32 GDPR); il diritto alla comunicazione di una violazione dei dati personali (con talune eccezioni: art. 34 GDPR). Notevole rilevanza, nel contesto del nuovo sistema della tutela dei dati personali, sono destinati ad assumere i codici di condotta, la cui elaborazione (da parte di associazioni e altri organismi rappresentanti categorie di soggetti interessati a trattare dati personali) è incoraggiata, onde “contribuire alla corretta applicazione” della normativa in materia, “in funzione delle specificità dei vari settori di trattamento” (art. 40 GDPR, che elenca possibili problematiche da affrontare, nonché la procedura finalizzata alla relativa definizione, con l’intervento dell’autorità di controllo). Significativamente, si prevede che “il rispetto delle disposizioni contenute nelle regole deontologiche costituisce condizione essenziale per la liceità e la correttezza dei dati personali” (art. 2 quater4 D.Lgs. 196/2003) 104. Il D.Lgs. 196/2003 assume una portata di rilievo in relazione al trattamento dei dati personali in ambiti specifici, quali l’ambito giudiziario (artt. 50 ss.) 105, l’ambito pubblico (artt. 59 ss.), l’ambito sanitario (caratterizzato, in particolare, da modalità particolari per l’informazione dell’interessato e le prescrizioni di medicinali: artt. 75 ss.), l’ambito scolastico (art. 96), l’ambito lavorativo (artt. 111 ss., anche con particolare attenzione al telelavoro, al lavoro agile ed al lavoro domestico: art. 115), il settore della fornitura di servizi di comunicazione elettronica (con riguardo a profili delicati, quali l’identificazione della linea, l’ubicazione, le chiamate di disturbo, gli elenchi dei contraenti, le comunicazioni indesiderate: artt. 121 ss.), l’attività giornalistica (e, in genere, di informazione e di manifestazione del pensiero: artt. 136 ss., in relazione alla previsione dell’art. 85 GDPR), in relazione alla quale assume particolare rilevanza la promozione, da parte del Garante, di regole deontologiche (art. 139) 106. 104 Cass. 25-6-2004, n. 11864, ha sottolineato che il mancato rispetto della disciplina deontologica, in quanto considerato dal legislatore “condizione essenziale per la liceità e la correttezza del trattamento dei dati personali”, “non solo può dar luogo a provvedimenti disciplinari, ma, soprattutto, consente al garante di adottare tutta la gamma dei provvedimenti delineati dalla legge sulla privacy”. Per la giurisprudenza (ad es., Cass. 6-6-2014, n. 12834), il codice deontologico costituisce “fonte normativa integrativa”. Circa l’applicazione anche al “blog, ancorché gestito da persona che non esercita professionalmente l’attività giornalistica”, delle “disposizioni concernenti il trattamento dei dati personali in ambito giornalistico”, v. Garante protezione dati personali 27-1-2016. 105 Circa la “domanda di oscuramento” della “indicazione delle generalità e di altri dati identificativi” dell’interessato (art. 52), Cass. 10-8-2021, n. 22561, precisa che essa “deve essere specificamente proposta e anche essere sostenuta dalla indicazione dei motivi legittimi che la giustificano”. 106 E v. l’organica delibera del Garante, in data 29.11.2018, concernente, appunto, le “regole deontologiche relative al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica”. In materia di “trattamen-

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Il Garante per la protezione dei dati personali costituisce l’“autorità di controllo” individuata per il nostro ordinamento (artt. 2 bis e 153 D.Lgs. 196/2003, ai sensi dell’art. 51 GDPR) – operante “in piena indipendenza nell’esercizio dei rispettivi poteri” (art. 52 GDPR) 107 – come preposta al funzionamento dell’intero complesso sistema della protezione dei dati personali (con i diversi compiti e poteri – di carattere conoscitivo, autorizzativo, inibitorio, decisorio e sanzionatorio – precisati negli artt. 55 ss. GDPR, nonché 154 e 154 bis D.Lgs. 196/2003). Esso è costituito (oltre che da un Ufficio) da un Collegio (“che ne costituisce il vertice”), organo composto di quattro membri (eletti due dal Senato e due dalla Camera dei deputati), i quali individuano, nel loro ambito, un presidente. Sotto il profilo delle tutele, l’interessato che ritenga essere stati violati i suoi diritti può, in via alternativa 108, proporre reclamo al Garante o ricorso dinanzi all’Autorità giudiziaria (art. 140 bis D.Lgs. 196/2003). La prevista possibilità del reclamo al Garante (ai sensi degli artt. 77 GDPR e 141 ss. D.Lgs. 196/2003), insomma, non preclude all’interessato l’opzione a favore del ricorso all’Autorità giudiziaria (ordinaria: art. 152 D.Lgs. 196/2003) 109. A tutela dell’interessato, è prevista l’eventuale irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie (artt. 83 GDPR e 166 D.Lgs. 196/2003) 110, nonché di sanzioni penali (artt. 167 ss. D.Lgs. 196/2003) 111. All’Autorità giudiziaria ordinaria può anche essere anche chiesto il risarcimento dei danni e ci si riferisce espressamente al “danno materiale o immateriale” (art. 821 GDPR) 112. In tema di risarcimento dei danni cagionati per effetto del trattamento dei dati personali, dunque, risulta senz’altro risarcibile il danno non patrimoniale (trattandosi, insomma, di uno dei “casi determinati dalla legge”, cui allude l’art. 2059) (X, 2.4) 113. to dei dati personali per finalità giornalistiche”, in vista del rispetto del diritto alla riservatezza si richiama ad un rigoroso rispetto del codice deontologico Cass. 24-12-2020, n. 29584. 107 Anche l’art. 83 Carta dir. fond. U.E. prevede che “il rispetto delle regole” in materia sia “soggetto al controllo di un’autorità indipendente”. 108 A pena, cioè, di improponibilità del rimedio successivamente azionato (“alternatività delle forme di tutela”). 109 Al “diritto” dell’interessato di “proporre un ricorso giurisdizionale effettivo”, allude l’art. 79 GDPR. 110 Anche di notevole entità (fino a 20.000.000 di euro o, per le imprese, fino al 4% del fatturato mondiale, se superiore), secondo una pluralità di elementi. 111 Secondo Cass. pen. 3-2-2014, n. 5107, è da escludere la responsabilità penale – anche per “la mancanza di un obbligo generale di sorveglianza” – dell’Internet host provider nel caso di caricamento da parte degli utenti di materiali, solo costoro (c.d. uploaders) assumendo la qualifica di titolari del trattamento dei dati personali contenuti nei materiali caricati in rete (più rigorosa, peraltro, Cass. pen. 14-7-2016). In generale, per una individuazione di carattere sistematico degli obblighi e responsabilità dell’hosting provider, anche sulla base della relativa distinzione come “attivo” o “passivo”, Cass. 19-3-2019, n. 7708. 112 Il non più vigente art. 151 D.Lgs. 196/2003 richiamava testualmente, in materia, il particolare regime di responsabilità dettato dal codice civile per l’esercizio delle attività pericolose (art. 2050: X, 1.9) e la giurisprudenza prevedeva taluni temperamenti in ordine al relativo regime probatorio (ad es., Cass. 26-6-2012, n. 10646 e Cass. 5-9-2014, n. 18812). L’art. 823 contempla, ora, una prova liberatoria estremamente rigorosa, dato che chi tratta i dati personali “è esonerato dalla responsabilità” solo “se dimostra che l’evento dannoso non gli è in alcun modo imputabile” (così da essere comunque ipotizzabile la riconduzione della fattispecie in esame al paradigma della responsabilità oggettiva). 113 La risarcibilità anche del danno non patrimoniale è stata ammessa, già sulla base della disciplina della L. 675/1996 (corrispondente per materia a quella ricordata nel testo), ad es., da Trib. Roma 10-1-2003, per la pubblicazione da parte di un quotidiano delle generalità e dell’indirizzo della vittima di un furto, in quanto “dati personali privi di utilità ai fini del corretto esercizio del diritto di cronaca”. Ha precisato Cass. 15-7-2014, n. 16133, che “il danno non patrimoniale risarcibile”, anche nella materia qui in esame, “non si sottrae alla

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10. Nome. – Il nome, quale essenziale segno distintivo e identificativo del soggetto, viene disciplinato, oltre che per esigenze di carattere generale e pubblicistico (un tempo considerate prevalenti), in vista della tutela dell’interesse della persona alla propria identificazione sociale. È quest’ultima la prospettiva che emerge dall’art. 61, secondo cui quello al nome, quale attribuitogli per legge, costituisce un “diritto” del soggetto. E che si tratti di un diritto fondamentale della persona è dimostrato dall’art. 22 Cost., il quale prevede che nessuno, per motivi politici, può essere privato del nome (oltre che della capacità giuridica e della cittadinanza) 114. Proprio in quanto considerato strumento di identificazione sociale della persona 115, dalla sua garanzia ci si è mossi per la più generale tutela della identità personale, attraverso il riconoscimento del relativo diritto della personalità (IV, 2.11). Nel nome si comprendono il prenome e il cognome (art. 62). Il prenome (spesso indicato, anche legislativamente, semplicemente come nome) assume una rilevanza minore, essendo destinato ad individuare il soggetto nel contesto del gruppo familiare. La relativa scelta compete ai genitori congiuntamente (in caso di mancato accordo applicandosi il procedimento di cui all’art. 3162-3) e, in via subordinata, all’ufficiale dello stato civile (art. 294 D.P.R. 3.11.2000, n. 396, sull’ordinamento dello stato civile, che prevede, all’art. 34, taluni limiti all’attribuzione del nome, come quello dell’imposizione del nome paterno, di fratelli o di nomi ridicoli o vergognosi) 116. Il cognome viene acquistato in applicazione dell’operatività di regole legali aventi riguardo al rapporto di filiazione (solo nel caso di genitori sconosciuti è l’ufficiale dello stato civile ad imporre anche il cognome: art. 295 verifica della ‘gravità della lesione’ e della ‘serietà del danno’” (analogamente, già Cass. 8-2-2017, n. 3311). Circa la non “automatica risarcibilità del danno”, comunque “trattandosi di un danno-conseguenza e non di un danno-evento”, Cass. 3-7-2014, n. 15240 (e in ordine all’inammissibilità della ricorrenza di un danno in re ipsa anche in materia di violazione dei diritti della personalità, v. IV, 2.4 e X, 2.4). 114 Il carattere fondamentale del diritto al nome risulta anche dall’art. 71 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo (20-11-1989, ratificata con L. 27.5.1991, n. 176), che prevede, appunto, il suo “diritto ad un nome” (oltre che all’acquisto di una cittadinanza). Per Corte cost. 11-5-2001, n. 120, avuto riguardo alla portata dell’art. 2 Cost., deve ritenersi “principio consolidato nella giurisprudenza di questa corte quello per cui il diritto al nome – inteso come primo e più immediato segno distintivo che caratterizza l’identità personale – costituisce uno dei diritti inviolabili protetti dalla menzionata norma costituzionale”. Di uno “dei diritti fondamentali della persona, avente copertura costituzionale assoluta”, discorre senz’altro Cass. 11-7-2017, n. 17139. 115 Cass. 26-5-2006, n. 12641, parla di “simbolo emblematico della identità personale di un individuo e quindi aspetto, meritevole di protezione, della personalità umana”, traendone la conseguenza che “la tutela costituzionale del diritto al mantenimento del nome attribuito alla persona al momento della nascita deve ritenersi assoluta”, nonostante il verificarsi delle condizioni previste dalla legge per la relativa modificazione (ove, cioè, l’interessato intenda continuare ad essere con esso identificato; per tale prospettiva: Corte cost. 3-4-1994, n. 13; 23-7-1996, n. 297; 11-5-2001, n. 120). Per la chiara delineazione dell’ottica del “cognome, quale fulcro – insieme al prenome – dell’identità giuridica e sociale”, “che collega l’individuo alla formazione sociale che lo accoglie tramite lo status filiationis”, v. Corte cost. 31-5-2022, n. 131 e 21-12-2016, n. 286. 116 Così, App. Genova 10-11-2007, ha reputato inammissibile l’imposizione del nome “Venerdì”, considerandone possibile la relativa rettifica. Invece, con riferimento all’imposizione del prenome “Andrea” ad una neonata, Cass. 20-11-2012, n. 20385, ha ritenuto non violati gli artt. 34 e 35 (per cui “il nome imposto al bambino deve corrispondere al sesso”), trattandosi di un prenome di “natura sessualmente neutra”, in quanto utilizzato indifferentemente per soggetti femminili e maschili “nella maggior parte dei paesi europei ed extraeuropei … e, pertanto, non produttivo di alcuna ambiguità”. L’art. 35 è stato novellato dall’art. 52 L. 10.12.2012, n. 219, precisandosi che, “nel caso siano imposti due o più nomi separati da virgola, negli estratti e nei certificati … deve essere riportato solo il primo dei nomi”.

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D.P.R. 396/2000). Proprio per questo l’originaria “disciplina dettata in materia di ordinamento dello stato civile” dal D.P.R. 396/2000 è stata, ai sensi dell’art. 51 L. 10.12.2012, n. 219, modificata per attuarne i principi. Al riguardo, si è rinviato ad un successivo regolamento, poi emanato con D.P.R. 30.1.2015, n. 26. Secondo la disciplina operante fino ai più recenti interventi della Corte costituzionale, in caso di filiazione nel matrimonio, il figlio assume il cognome paterno sulla base di una regola non espressa, ma immanente nel sistema e ricavabile, appunto, dal complessivo sistema delle norme in materia, tutte ispirate al principio della prevalenza, appunto, del cognome del padre: artt. 2372 (nel testo anteriore alla riforma), 2621 e 2993 c.c., 271 l. adoz., nonché 331 D.P.R. 396/2000 (che, peraltro, concerne conseguenze dell’ormai soppresso istituto della legittimazione). Di tale soluzione è stata posta diffusamente in dubbio l’opportunità, se non addirittura la legittimità costituzionale (soprattutto in relazione agli artt. 3, 29 e 30 Cost.), in quanto considerata incompatibile con l’attuale struttura familiare fondata sulla uguaglianza dei coniugi e sul relativo rapporto paritario con i figli (V, 2.9 e 4.9) 117. Di conseguenza, sono mancate, al riguardo, già dall’indomani della riforma del diritto di famiglia del 1975, iniziative di riforma legislativa 118, tendenti ad introdurre anche 117 Corte cost. 11-2-1988, n. 176 (e v. anche Corte cost. 19-5-1988, n. 586), ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità sollevata in proposito, ritenendo “questione di politica e di tecnica legislativa di competenza esclusiva del conditor iuris” l’eventuale sostituzione della regola attualmente operante (“implicita nel sistema del codice civile”), da non considerare, comunque, in contrasto con i principi costituzionali. Pur convenendo che tale questione si fonda su solidi argomenti (anche alla luce dell’evoluzione in atto, in materia, negli altri paesi e a livello sopranazionale), Corte cost. 16-2-2006, n. 61, la ha nuovamente dichiarata inammissibile, poiché “richiede una operazione manipolativa esorbitante dai poteri della Corte” (e Cass. 14-7-2006, n. 16093, ha preso atto di tale conclusione, rilevando che, allo stato, l’adottato “meccanismo di automatica attribuzione non può essere derogato neanche dalla manifesta concorde volontà dei coniugi”, pur palesandosi, comunque, “non in sintonia con le fonti sopranazionali”). In vista della “esigenza di adeguare il diritto di famiglia ai valori costituzionali”, la “crisi del principio dell’automatica attribuzione del cognome paterno” risulta, comunque, energicamente denunciata da Cass. 12641/2006 e Cass. 22-9-2008, n. 23934, ha auspicato l’intervento delle sezioni unite, al fine di adottare una interpretazione costituzionalmente orientata delle norme – con particolare riguardo a quelle sopranazionali – in materia (ovvero di rimettere, a sua volta, la questione alla Corte costituzionale), per consentire ai coniugi di decidere circa l’assunzione, da parte del figlio, del cognome materno in luogo di quello paterno. La pronuncia, in proposito, della Corte eur. dir. uomo (7-1-2014), con la sua conclusione nel senso che – essendo (alla luce dei principi della CEDU, in particolare artt. 8 e 14) la “impossibilità di derogare al momento della iscrizione nei registri dello stato civile” alla regola dell’attribuzione del cognome paterno, “anche nel caso di accordo tra i coniugi a favore del nome materno”, “eccessivamente rigida e discriminatoria verso le donne” – “nella legislazione e/o pratica italiane dovranno essere adottate riforme”, ha reso ora necessitata e urgente la revisione della materia, per armonizzarla con le soluzioni che si sono affermate in materia negli altri paesi. Corte cost. 21-12-2016, n. 286, rilevato il ritardo del legislatore (e pur dando atto degli interventi in tema di cambiamento del cognome, che, però, “non hanno attinto la disciplina dell’attribuzione ‘originaria’ del cognome, effettuata al momento della nascita”), anche alla luce della ricordata giurisprudenza sovranazionale, ha giudicato illegittima – lasciando, peraltro, aperti delicati problemi applicativi (solo in parte rimediati dalla successiva Circolare Min. Int. 14.6.2017, n. 7) – la disciplina attuale (in considerazione della “questione formulata dal rimettente”, limitatamente “alla sola parte di essa in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno”), ma non mancando di esprimere un giudizio negativo, dal punto di vista del rispetto del “principio di uguaglianza dei coniugi” (oltre che del “diritto all’identità del minore”), sull’intero attuale sistema della “prevalenza del cognome paterno”, considerando, di conseguenza, “indifferibile” un “intervento legislativo, destinato a disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità”. 118 Nella XVII legislatura è stato approvato dalla Camera dei deputati, il 24.9.2014 (trasmesso al Senato come D.D.L. n. 1628), un testo tendente ad introdurre un art. 143 quater (“cognome del figlio nato nel ma-

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nel nostro ordinamento una soluzione del tipo di quella accolta, ad es., fin dal 1976 (§§ 1355 e 1616 ss. BGB) in Germania, e più di recente in Francia: artt. 311-21 ss. code civil, sostanzialmente basata sull’autonoma concorde decisione dei coniugi in ordine alla scelta del cognome da trasmettere ai figli 119. Anche la disciplina risultante in dipendenza del proprio ultimo intervento 120 è sembrata, peraltro, alla Corte costituzionale comunque insufficiente ad assicurare la piena attuazione dei principi costituzionali governanti i rapporti familiari, così da indurla a programmarne uno ulteriore 121. Infine, quindi, nella constata persistente assenza di un adeguamento della materia in via legislativa, essa ha, allora, sostanzialmente provveduto trimonio”), modificando conseguentemente l’art. 262 (“cognome del figlio nato fuori del matrimonio”), l’art. 299 (“cognome dell’adottato”) e l’art. 27 L. 4.5.1983, n. 184 (e successive modificazioni). Il relativo art. 4 (“cognome del figlio maggiorenne”), poi, garantisce al figlio maggiorenne la possibilità di modificare, con formalità ridotte, il proprio cognome, con l’aggiunta del cognome materno o paterno. Ai sensi dell’art. 143 quater, “I genitori coniugati, all’atto della dichiarazione di nascita del figlio, possono attribuirgli, secondo la loro volontà, il cognome del padre o quello della madre, ovvero quelli di entrambi nell’ordine concordato. In caso di mancato accordo tra i genitori, al figlio sono attribuiti i cognomi di entrambi i genitori in ordine alfabetico. I figli degli stessi genitori coniugati, nati successivamente, portano lo stesso cognome attribuito al primo figlio. Il figlio al quale è stato attribuito il cognome di entrambi i genitori può trasmetterne al proprio figlio soltanto uno, a sua scelta”. Il testo è stato sostanzialmente riproposto nella XVIII legislatura come P.D.L n. 106 e sono state assunte ulteriori iniziative legislative tendenti all’adeguamento complessivo della materia ai principi costituzionali (anche con riguardo al cognome coniugale: DD.DD.LL. nn. 170 e 1025). 119 In particolare, per l’art. 311-21 code civil, i genitori possono decidere che venga trasmesso il cognome di uno di essi o di entrambi, nell’ordine che credono: resta fermo che il cognome scelto per il primo figlio “vale per gli altri figli comuni” (regola, quest’ultima, comune anche agli altri ordinamenti che rimettono all’accordo dei genitori la decisione circa il cognome dei figli: § 16171 BGB e art. 1093 código civil). All’assunzione del cognome di entrambi i genitori (secondo la soluzione prevista dall’ordinamento spagnolo, ai sensi della Ley 40/1999 e della Ley 20/2011), come si vedrà ora consentita dal regime risultante a seguito degli interventi in materia della Corte costituzionale, ovviamente consegue, per evitare l’allungamento dei cognomi nel succedersi delle generazioni, il problema della determinazione di quali parti del cognome debbano trasmettersi alle generazioni successive. Pure in vista di ciò, in Germania, si è optato per l’attribuzione di un solo cognome: quello scelto come coniugale (Ehenamen), ai sensi del § 1355 BGB, ovvero – in assenza di un nome coniugale – quello concordato (o, in mancanza di scelta comune, quello determinato da uno dei genitori su richiesta del tribunale). 120 Quello, cioè, operato da Corte cost. 286/2016, come dianzi accennato limitato al riconoscimento ai genitori della possibilità di trasmettere, di comune accordo, al momento della nascita anche il cognome materno. E la ricordata successiva Circolare ministeriale ha (invero opinabilmente) limitato lo spazio di manovra consentito ai genitori all’aggiunta del cognome materno a quello paterno, ad esso posponendolo. 121 Trib. Bolzano, ord. 17-10-2019 aveva sollevato questione di legittimità costituzionale in ordine all’art. 2621, nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, il solo cognome materno (e ciò pure nel regime risultante a seguito di Corte cost. 286/2016). La Corte (con “ordinanza di autorimessione” 11-2-2021, n. 18), constatato (in particolare richiamandosi alla concezione della “esigenza di salvaguardia dell’unità familiare”, di cui all’art. 292 Cost., quale delineata da Corte cost. 13-7-1970, n. 133, fondata sull’assunto che “è proprio l’uguaglianza che garantisce quella unità e, viceversa, è la diseguaglianza a metterla in pericolo”: V, 1.3) che “gli inviti ad una sollecita rimodulazione della disciplina – in grado di coniugare il trattamento paritario delle posizioni soggettive dei genitori con il diritto all’identità personale del figlio – non hanno avuto seguito” e preso atto del carattere limitato del proprio precedente intervento sotto il profilo della realizzazione di “un’effettiva parità tra le parti” (“posto che una di esse non ha bisogno dell’accordo per far prevalere il proprio cognome”), ha ritenuto opportuno – e consentito dai principi in tema di giudizio di legittimità costituzionale – investirsi nuovamente del vaglio di legittimità dell’art. 2621, quale “espressione … della disciplina dell’automatica acquisizione del solo patronimico” (in quanto non reputata “giustificata dall’esigenza di salvaguardia dell’unità familiare”), evidentemente riproponendosi di operare, questa volta, attraverso il meccanismo della dichiarazione di illegittimità costituzionale “in via consequenziale”, una vera e propria rimodulazione complessiva dell’intero regime di trasmissione familiare del cognome.

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PARTE IV – SOGGETTI

ad una globale riformulazione del regime di trasmissione familiare del cognome 122. In effetti, l’adeguamento concerne anche il caso di filiazione fuori del matrimonio 123, in relazione alla quale il figlio assume il cognome del genitore che per primo lo abbia riconosciuto, con la – fino all’intervento della Corte costituzionale – prevalenza (pure reputata diffusamente discriminatoria, come per la filiazione nel matrimonio) di quello paterno, ove il riconoscimento dei due genitori sia contestuale (art. 2621-2, che prevede, per l’ipotesi di successivo accertamento della filiazione nei confronti del padre, la possibilità, per il figlio, di decidere se “assumere il cognome del padre aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre”) 124. 122 Corte cost. 31-5-2022, n. 131 – premesso l’essere caratterizzata la materia della disciplina del cognome da un “intreccio fra il diritto all’identità personale del figlio e l’eguaglianza tra i genitori” – muove dalla constatazione del risultare l’attuale disciplina tale da determinare la “invisibilità della donna”, la madre trovandosi posta “in una situazione di asimmetria, antitetica alla parità” (con l’evocazione della ricordata presa di posizione in Corte cost. 133/1970), e sottolinea che “la proiezione sul cognome del figlio del duplice legame genitoriale è la rappresentazione dello status filiationis”. Anche sulla base degli approdi della giurisprudenza sopranazionale, si evidenzia, allora, come “il paradigma della parità” renda necessitata la soluzione secondo cui “il cognome del figlio deve comporsi con i cognomi dei genitori, salvo loro diverso accordo”, con l’adozione dell’“ordine concordato dai genitori” (all’eventuale mancanza di accordo dovendosi rimediare attraverso l’intervento del giudice, quale previsto dall’art. 3162,3, nonché, in caso di crisi della coppia, dagli artt. 337 ter3, 337 quater3 e 337 octies). Viene considerata ammissibile, quindi, anche il “diverso accordo” (comunque “non surrogabile in via giudiziale”), comportante la scelta, da parte dei genitori, dell’attribuzione del cognome di uno di loro soltanto, quale “segno identificativo della loro unione, capace di permanere anche nella generazione successiva e di farsi interprete di interessi del figlio”. In conclusione, l’art. 2621 viene dichiarato costituzionalmente illegittimo (e, “in via consequenziale”, lo sono sia la norma – quale “presupposta” dall’attuale disciplina complessiva della materia – concernente l’attribuzione del cognome ai figli nati nel matrimonio, sia gli artt. 2993 e 271 della L. 184/1983, in tema di adozione) “nella parte in cui si prevede, con riguardo all’ipotesi del riconoscimento effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, che il figlio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, al momento del riconoscimento, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto” (come accennato, con estensione – negli stessi termini – della portata della dichiarazione di illegittimità costituzionale all’analogo regime di prevalenza del cognome paterno, relativamente al figlio nato nel matrimonio, e del cognome del marito della coppia adottante, relativamente all’adottato). Viene, infine, rivolto “un duplice invito al legislatore”, in relazione al completamento della modificata disciplina della trasmissione del cognome. Da una parte, con riguardo alla necessità di “impedire che l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori comporti, nel succedersi delle generazioni, un meccanismo moltiplicatore che sarebbe lesivo della funzione identitaria del cognome” (col suggerimento della “opportunità di una scelta, da parte del genitore – titolare del doppio cognome che reca la memoria dei due rami familiari – di quello dei due che vuole sia rappresentativo del rapporto genitoriale, sempre che i genitori non optino per l’attribuzione del doppio cognome di uno di loro soltanto”); dall’altra, con riferimento al problema dell’omogeneità del cognome tra “fratelli e sorelle”, col richiamo della soluzione – come si è visto corrente altrove – della vincolatività della scelta operata “al momento del riconoscimento contemporaneo del primo figlio della coppia (o al momento della sua nascita nel matrimonio o della sua adozione)”, rispetto “ai successivi figli riconosciuti contemporaneamente dagli stessi genitori (o nati nel matrimonio o adottati dalla medesima coppia)”. 123 Investita risulta pure la problematica della trasmissione del cognome in caso di adozione (V, 4.8), come già a seguito di Corte cost. 286/2016 (per l’estensione della portata anche del cui intervento v. la nota successiva). 124 Ai fini della decisione che il giudice – evidentemente, dopo l’intervento della Corte costituzionale, tenendone presenti le conseguenze sul piano normativo – deve al riguardo adottare – ai sensi dell’art. 2624 nel caso di minore età del figlio (con la precisazione del necessario “previo ascolto del figlio minore, che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento”) – si è sottolineato che, prescindendo “da qualsiasi meccanismo di automatica attribuzione del cognome paterno”, e pure “a tutela dell’eguaglianza fra i genitori”, l’assunzione del patronimico non sarà da autorizzare, “non soltanto ove ne possa

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La moglie, per effetto del matrimonio, secondo la regola introdotta dalla riforma del 1975 (sospettata di essere comunque ancora poco rispettosa del principio di eguaglianza dei coniugi), aggiunge al proprio il cognome del marito e lo conserva nello stato vedovile, fino alle eventuali nuove nozze (art. 143 bis) 125. Lo conserva in caso di separazione personale, ma il giudice può vietarne l’uso, così come autorizzare la moglie a non usarlo (art. 156 bis). Se ne deduce l’obbligatorietà dell’uso del cognome maritale, anche se crescente spazio ha una prassi contraria, soprattutto in considerazione dell’inserimento professionale della moglie. Col divorzio, la donna perde il cognome maritale, ma può essere autorizzata a conservarlo, ove ricorra un interesse apprezzabile suo o dei figli (art. 52-4 L. 1.12.1970, n. 898: V, 3.5). La materia del cognome è stata disciplinata, con riguardo all’unione civile, dall’art. 110 L. 20-7-2016, n. 76, adottando una prospettiva diffusamente reputata meritevole di attenzione anche ai fini di un’eventuale futura regolamentazione relativamente al matrimonio (V, 2.17) 126. La modificazione del nome è consentita solo nei casi previsti dalla legge (art. 63). A parte le ricordate ipotesi di matrimonio e di successivo riconoscimento paterno del fiderivare danno per il minore, ma anche allorquando il cognome materno si sia radicato nel contesto sociale in cui il minore si trova a vivere”, onde tutelare “l’interesse del minore alla propria identità” (Cass. 12641/2006, che si riferisce, nel caso di specie, anche alla “cattiva reputazione della famiglia paterna”). Per la necessità che il giudice abbia “riguardo, quale criterio di riferimento, unicamente all’interesse del minore”, v., ad es., Cass. 3-2-2011, n. 2645; 15-12-2011, n. 27069 e 17139/2017 (in cui, identificata la funzione della disciplina vigente nell’esigenza “di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale”, si valorizza, al riguardo, la volontà fermamente contraria del minore dodicenne). Per la legittimità, in caso di secondo riconoscimento da parte del padre, dell’aggiunta – con le cautele dianzi accennate – del patronimico al cognome della madre, Cass. 16-1-2020, n. 772. Cass. 17-7-2007, n. 15953, ha ribadito la insindacabilità della scelta effettuata dal figlio maggiorenne. Il nuovo art. 2623 ha previsto, in caso di riconoscimento successivo all’attribuzione del cognome da parte dell’ufficiale di stato civile, la possibilità del mantenimento, da parte del figlio, “del cognome precedentemente attribuitogli, ove tale cognome sia divenuto autonomo segno della sua identità personale, aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo” al cognome che gli deriverebbe dall’applicazione dei criteri di cui al primo comma (così ispirandosi, in sostanza, a quanto deciso da Corte cost. 297/1996). Corte cost. 286/2016 ha esteso la portata della dianzi ricordata dichiarazione di incostituzionalità all’art. 2621 ed all’art. 2993, per la parte in cui non conferiscono rilievo alla comune volontà dei genitori, nel senso di attribuire “anche il cognome materno” (rispettivamente, al momento della nascita o dell’adozione). Si tenga presente come il più recente intervento della Corte costituzionale (131/2022) in materia di cognome del figlio sia stato occasionato proprio da una vicenda giudiziale concernente l’art. 2621, con conseguente estensione, “in via consequenziale”, della soluzione prospettata al figlio nato nel matrimonio ed al figlio adottivo (in relazione agli artt. 2993 e 271 L. 184/1983). Di recente, Trib. Torino 11-6-2018 ha applicato il regime dell’art. 2622 anche nel caso di successivo riconoscimento del figlio (ove tale riconoscimento sia stato registrato dall’ufficiale dello stato civile) da parte dell’“altra genitrice di sesso femminile”. App. Perugia 18-11-2019, poi, accogliendo la richiesta di rettificazione dell’atto di nascita (V, 4.2) da parte del “genitore intenzionale”, ha disposto l’assunzione del doppio cognome da parte della bambina, nata in Italia in dipendenza di procreazione medicalmente assistita eterologa praticata (all’estero) nell’ambito di “un progetto genitoriale” condiviso da due donne. 125 Comunque, le vicende in questione non comportano alcuna variazione anagrafica, dato che “per le donne coniugate o vedove le schede devono essere intestate al cognome da nubile” (art. 203, D.P.R. 30.5.1989, n. 223). Corte cost. 22-11-2018, n. 212, ricorda costituire “principio caratterizzante dell’ordinamento dello stato civile che il cognome d’uso assunto dalla moglie a seguito di matrimonio non comporti alcuna variazione anagrafica del cognome originario”. 126 Si è stabilito che, con dichiarazione all’ufficiale di stato civile, le parti possano decidere di assumere, “per la durata dell’unione civile”, “un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi” (potendo la parte, il cui cognome non è stato scelto, “anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome”).

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glio, una modificazione può conseguire all’adozione (art. 271 L. 4.5.1983, n. 184, secondo cui l’adottato assume il cognome dei genitori e, quindi, fino ai più recenti generali interventi della Corte costituzionale dianzi esaminati, quello del padre adottivo, nonché art. 299 c.c., per l’adozione di maggiorenni, richiamato pure per l’adozione in casi particolari dall’art. 55 L. 184/1983). Il cambiamento volontario del cognome (anche con l’aggiunta di altro cognome) è ammesso solo a seguito di una procedura regolata dagli artt. 89 ss. D.P.R. 396/2000 (quale modificato dal D.P.R. 13.3.2012, n. 54), con decreto di concessione del prefetto: la medesima procedura concerne, ora, il cambiamento del nome, l’aggiunta di un altro nome, il cambiamento del cognome (anche perché ridicolo o vergognoso o rivelatore dell’origine non matrimoniale) e l’aggiunta di un altro cognome (art. 891) 127. Nel quadro, poi, della rettificazione degli atti dello stato civile (da attuarsi con procedimento giudiziale, su impulso dell’interessato o del procuratore della Repubblica) – disciplinata dagli artt. 454 c.c. e 95 ss. D.P.R. 396/2000 – rientra anche la problematica concernente la rettifica del nome, onde ripristinarne la conformità alla legge, eliminando le eventuali difformità tra le risultanze degli atti dello stato civile e la realtà. La tutela del diritto al nome, nella sua prospettiva di diritto della personalità 128, è assicurata, dall’art. 7, con il complesso degli strumenti (inibizione del comportamento lesivo, anche in via d’urgenza, eventuale risarcimento del danno, pubblicazione della sentenza, cui è da aggiungere l’esercizio del diritto di rettifica) già dianzi esaminati, in via generale, in materia di diritti della personalità (IV, 2.3). Tale tutela si ritiene spettare, con riguardo alla relativa denominazione, anche agli enti (pubblici o privati). La tutela opera in caso di contestazione o di uso indebito del nome. Contro la contestazione, che si ritiene avvenire con l’attribuzione di un nome diverso al soggetto, ovvero frapponendo impedimenti materiali o giuridici all’uso del nome a lui spettante, può essere esercitata l’azione di reclamo. Quanto all’uso indebito (contrastato con l’azione di usurpazione), esso consiste nell’appropriazione di un nome altrui, attribuendoselo (usurpazione in senso stretto), ovvero nell’utilizzazione del nome altrui per identificare enti, prodotti o personaggi di fantasia (usurpazione in senso ampio o utilizzazione abusiva). La tutela opera non per la mera coincidenza del nome del personaggio (letterario, teatrale, cinematografico) con quello di una persona reale, ma 127

Un favore per l’accoglimento della richiesta manifesta, ad es., Cons. Stato, sez. I, 17-3-2004, n. 515, con l’affermare che “l’amministrazione non può sostituirsi alla concorde valutazione dei genitori nell’apprezzamento dell’interesse del minore al cambiamento del proprio cognome”. La necessità di una motivazione rigorosa del diniego viene prospettata, da Cons. Stato, sez. IV, 27-4-2004, n. 2572, in particolare, con riguardo all’“aggiunta all’originario cognome paterno di quello materno”. E le ragioni addotte dalle parti sono da vagliare “sotto il profilo della loro significatività, piuttosto che per la loro eccezionalità” (Cons. Stato, sez. I, 24-4-2013, n. 521). Soprattutto l’esigenza di semplificare il conseguimento di un simile (diffusamente richiesto) cambiamento è alla base del D.P.R. 54/2012. Una particolare ipotesi di modificazione del proprio cognome è stata prevista dall’art. 12 L. 11.1.2018, n. 4, nell’interesse dei figli della vittima del reato di cui all’art. 575 c.p. (aggravato ai sensi dell’art. 5771, n. 1, e 5772 c.p.: omicidio del coniuge, della parte dell’unione civile e del convivente, nonché del divorziato), ove il cognome sia “coincidente con quello del genitore condannato in via definitiva”. 128 In considerazione dei risvolti pubblicistici della disciplina del nome, alla luce dell’esigenza di identificazione del soggetto, è apprestata anche una disciplina penalistica, diretta alla repressione dei reati di falsità personale (artt. 494-496 c.p.).

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solo se ne derivi un – anche se solo eventuale – pregiudizio per l’onore, il decoro o la reputazione del soggetto. La tutela, come per l’immagine, opera anche per impedire lo sfruttamento non autorizzato del nome (ovviamente delle persone note) a fini economici (in particolare, associandolo a prodotti). La tutela è riconosciuta anche a chi, pur non portando il nome contestato o indebitamente utilizzato, abbia un interesse fondato su ragioni familiari meritevoli di protezione (art. 8). Tali ragioni – da ritenere tutelate in vista di esigenze analoghe a quelle considerate in tema di immagine (IV, 3.7) – devono essere valutate con riferimento alla loro effettiva incidenza nella sfera del soggetto che invoca la tutela. L’art. 9 estende allo pseudonimo la tutela accordata al nome, ove abbia acquistato l’importanza del nome. Come tale si intende un nome – o, più in generale, una espressione verbale – che, in sostituzione del nome civile, il soggetto utilizza come proprio mezzo di identificazione personale (eventualmente con riferimento ad una specifica attività professionale, letteraria o artistica). Esso, quindi, è tutelato nella sua funzione identificativa quale segno distintivo della persona al pari del nome, condividendone, di conseguenza, la natura di diritto della personalità. Caratteristica dello pseudonimo è quella di costituire un modo di autodesignazione del soggetto, che lo distingue dal soprannome, quale modo di designazione del soggetto attribuitogli dagli altri in un certo ambito sociale (che, peraltro, riceve la medesima tutela, se abbia assunto la funzione di identificare il soggetto nei suoi rapporti sociali). Per l’opinione tradizionale, che pare riflettersi nella lettera dell’art. 9 (in cui si allude alla necessità che lo pseudonimo “abbia acquistato l’importanza del nome”), la tutela dello pseudonimo opera solo nel caso in cui esso risulti utilizzato per un tempo sufficientemente lungo 129.

11. Identità personale. – Prendendo le mosse dal diritto al nome, in quanto strumento di identificazione sociale della persona, la sempre più avvertita esigenza – in una società dominata dai mezzi di comunicazione di massa e dalla conseguente possibilità di manipolazione della pubblica opinione – di garantire che la personalità del soggetto sia rappresentata in modo fedele e adeguatamente completo ha condotto alla delineazione, quale autonomo diritto della personalità, del diritto alla identità personale. Si tratta, indubbiamente, di una delle più interessanti espressioni di quella creatività della giurisprudenza in materia di diritti della personalità, consentita dalla maturazione della consapevolezza circa le crescenti necessità di tutela della persona, nella prospettiva di globale protezione emergente dall’art. 2 Cost. Col riconoscimento del diritto all’identità personale si è voluto, così, secondo la definizione ormai corrente in giurisprudenza e condivisa dalla dottrina, assicurare la tutela della proiezione sociale della personalità dell’individuo: del suo interesse, cioè, ad essere rappresentato, nella vita di relazione, con la sua vera identità, senza che ne risul129

Così, secondo Trib. Roma 24-9-1973, per la tutela dello pseudonimo, occorre “l’uso pubblico, prolungato e costante di esso”. Tale prospettiva, peraltro, tende ad essere reputata troppo restrittiva, alla luce della considerazione per cui, talvolta, “l’importanza del nome” (formula dell’art. 9) può essere acquistata dallo pseudonimo contestualmente al suo impiego (ad es., in caso di opera letteraria pubblicata con pseudonimo), nello stesso senso deponendo anche il rispetto di esigenze di tutela della riservatezza (evidentemente indipendenti dall’essere stato lo pseudonimo durevolmente impiegato).

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ti, all’esterno, modificato, offuscato o comunque alterato il proprio patrimonio intellettuale, ideologico, etico, professionale, quale già estrinsecatosi – o destinato, comunque, ad estrinsecarsi – nell’ambiente sociale. L’interesse (come è stato detto, “ad essere se stesso” o, secondo la felice espressione impiegata altrove, a non essere messo in “false light” agli occhi del pubblico) in questione trova, allora, tutela in quanto tale, indipendentemente, insomma, dalla circostanza che il travisamento della personalità sia lesivo dell’onore o della reputazione del soggetto (potendosi presentare illegittimo, al limite, addirittura un travisamento migliorativo). La tutela del diritto all’identità personale – che viene sempre più estesamente riconosciuto anche agli enti 130 – non deve essere confusa, pur essendo spesso destinata ad intrecciarsi con esse, con la tutela del nome, dell’immagine e della riservatezza. Anzi, proprio l’enucleazione di una protezione autonoma della identità personale, nella prospettiva di identificazione della persona sul piano strettamente morale e sociale che la contraddistingue, ha consentito di conferire una più puntuale configurazione e delimitazione degli interessi personali ricollegati al nome (come strumento di identificazione in senso più spiccatamente materiale del soggetto nella vita civile), all’immagine (come rappresentazione delle sembianze fisiche del soggetto), alla reputazione (come limite a rappresentazioni atte a suscitare un giudizio sociale di disvalore) e alla riservatezza (come esigenza, di carattere sostanzialmente negativo, di non esposizione del soggetto alla conoscenza e curiosità del pubblico) 131. È pure chiaro come esigenze di garanzia dell’identità personale si facciano avvertire, in modo sempre più imperioso, in materia di trattamento dei dati personali (IV, 2.9). Anche al suo rispetto deve ritenersi risultare finalizzata, allora, la ricordata legislazione concernente la protezione dei dati personali 132. La concreta disciplina del diritto in questione (ritenuto ormai, pur dopo talune esita130 In proposito, v. anche IV, 2.2. Secondo Cass. 22-6-1985, n. 3769, il diritto alla identità personale spetta, “oltre che alle persone fisiche, anche alle persone giuridiche” e “pure agli enti non aventi personalità giuridica”, dato che “anche le persone giuridiche sono portatrici di una propria immagine sociale nell’ambito della realtà sociale nel cui contesto operano”. La questione si è posta, in particolare, con riferimento all’identità politica nelle ipotesi di scissione di partiti politici, con riguardo alla pretesa di utilizzazione di denominazioni e simboli (con delicati problemi di giudizio circa la continuità politica degli enti interessati). Trib. Roma 26-4-1991, così, ha esaminato le conseguenze – circa la preclusione del relativo eventuale impiego da parte di altre formazioni politiche – dell’utilizzazione del vecchio simbolo del Pci all’interno di quello nuovo del Pds. Trib. Roma 21-3-1995, a sua volta, ha considerato legittima l’utilizzazione dei simboli distintivi del Msi-Dn da parte di An. La “tutela della propria identità”, di cui “ogni partito politico beneficia”, viene, insomma, considerata “riassumibile nella denominazione e nel segno distintivo”, onde “evitare nel dibattito pubblico il pericolo di confusione in ordine agli elementi che caratterizzano un partito come centro di espressione di idee e di azioni” (Cass. 16-6-2020, n. 11635, in relazione alla utilizzazione, reputata illegittima, del “simbolo della fiamma tricolore”). 131 Secondo Cass. 22-6-1985, n. 3769, “il diritto all’identità personale si distingue da quello alla riservatezza: il primo assicura la fedele rappresentazione alla propria proiezione sociale, il secondo, invece, la non rappresentazione all’esterno delle proprie vicende personali non aventi per i terzi un interesse socialmente apprezzabile”. 132 Questo, già con l’allusione, nell’art. 1 D.Lgs. 196/2003, quale risultante ai sensi del D.Lgs. 101/2018 (e nell’art. 12 Regolamento U.E. 679/2016), alla relativa finalità di assicurare il rispetto “dei diritti e delle libertà fondamentali della persona”, nonché alla luce della stessa definizione del “dato personale” con riferimento, in genere, agli “elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o sociale” (art. 41 Regolamento U.E. 679/2016).

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zioni, di carattere fondamentale ed a base costituzionale) 133, secondo quanto si è visto anche con riguardo al diritto alla riservatezza, viene in sostanza mutuata da quella delineata dal codice civile (e dalla legge sul diritto di autore) con riferimento alla tutela del nome e dell’immagine. Disciplina che, così, finisce con l’acquistare una portata tendenzialmente generale in materia di diritti della personalità. Ciò vale tanto per gli strumenti di tutela (azione inibitoria, anche in via d’urgenza, risarcimento del danno, pubblicazione della sentenza, esercizio del diritto di rettifica: quest’ultimo qui elettivamente efficace), quanto per i limiti cui la tutela del diritto stesso va incontro, nel conflitto con altrui interessi antagonistici, pure garantiti sul piano costituzionale. Circa tali limiti, è evidente trattarsi essenzialmente di quelli che si riferiscono alla libertà di manifestazione del pensiero, garantita dall’art. 211 Cost. 134. 12. Identità sessuale (di genere). – Il diritto all’identità personale trova una specificazione in considerazione del rispetto che si ritiene dovuto alla identità sessuale del soggetto 135, quale manifestazione di peculiare rilevanza della personalità nei rapporti sociali. Al riguardo, è da tenere presente come, tradizionalmente, pure da parte della giurisprudenza, si reputasse consentita la revisione dell’accertamento del sesso, quale risultante dall’atto di nascita (attualmente ai sensi dell’art. 292 D.P.R. 396/2000), solo nel caso in cui il sesso stesso, al momento della nascita, apparisse non ben definito 136, ovvero in quello di una naturale (e non artificiale) evoluzione morfologica del soggetto, tale da rivelare una realtà diversa da quella inizialmente apparente. Alla luce di una concezione della salute sempre più attenta ai relativi profili psicologici (quale situazione, cioè, di complessivo benessere della persona, in una prospettiva che ne valorizza l’autodeterminazione al riguardo: IV, 2.5), nonché delle esperienze di altri ordinamenti, il legislatore è, allora, intervenuto con la L. 14.4.1982, n. 164 (norme in materia di rettificazione di 133 Per Corte cost. 3-2-1994, n. 13, “tra i diritti che formano il patrimonio irretrattabile della persona umana l’art. 2 Cost. riconosce e garantisce anche il diritto all’identità personale”, l’identità personale costituendo “un bene per se medesimo, indipendentemente dalla condizione personale e sociale, dai pregi e dai difetti del soggetto, di guisa che a ciascuno è riconosciuto il diritto a che la sua individualità sia preservata”. Cass. 7-2-1996, n. 978, ha confermato tale diretto “ancoramento” all’art. 2 Cost. del diritto in questione, superando le riserve di Cass. 3769/1985. Considera senz’altro “l’identità personale in quanto diritto fondamentale della persona, come tale costituzionalmente protetto”, Cass. 24-4-2008, n. 10690. Per la necessaria salvaguardia del “diritto all’identità personale” nell’esercizio dell’attività giornalistica (nel contesto del “rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali”), v. Cass. 9-7-2018, n. 18006. 134 Alla “dialettica che viene ad instaurarsi tra il diritto alla identità personale ed i contrapposti diritti di critica, di cronaca e di creazione artistica (a loro volta riconducibili alla comune matrice costituzionale dell’art. 21)” allude Cass. 978/1996, quale ipotesi di “quel fenomeno di confliggenza di interessi … che trova soluzione attraverso il contemperamento e l’equo bilanciamento delle libertà antagonistiche, per modo che la tutela dell’una non sia esclusiva di quella dell’altra” (la prevalenza del diritto di cronaca viene subordinata alla sussistenza delle condizioni correntemente individuate per la legittimità del relativo esercizio: IV, 2.6). 135 In proposito, si tende da qualche tempo a preferire, piuttosto, la terminologia di diritto alla identità di genere (in particolare, Cass. ord. 6-6-2013, n. 14329 e Corte cost. 5-11-2015, n. 221, ove si parla senz’altro di “diritto all’identità di genere quale elemento costitutivo del diritto all’identità personale”). Ad assicurare, appunto, “ad ogni persona … la propria identità di genere”, sono stati finalizzati, nella XVII legislatura, il D.D.L. n. 405 e la P.D.L. n. 246. Si ricordi come la Carta dir. fondamentali U.E., all’art. 211, vieti “qualsiasi discriminazione fondata”, tra l’altro, sull’“orientamento sessuale”. 136 Si tenga presente come, in Germania, il vigente § 223 Personenstandsgesetz consenta – in caso di incertezza – l’iscrizione anagrafica senza precisazione del sesso (o con l’indicazione “divers”).

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attribuzione di sesso), parzialmente modificata dal D.Lgs. 1.9.2011, n. 150. Con tale provvedimento, è stata prevista la possibilità di una rettificazione di attribuzione di sesso, in forza di sentenza del tribunale (art. 1), anche previo trattamento medico-chirurgico finalizzato all’adeguamento dei caratteri sessuali (art. 3, sostanzialmente trasfuso nell’art. 31 D.Lgs. 150/2011). In considerazione della rilevanza degli interessi in gioco (integrità fisica e salute, nome, identità personale), è il tribunale, in composizione collegiale, che decide su domanda del soggetto interessato, ad esito di un accertamento delle condizioni psico-sessuali del richiedente. Simile cautela risulta, in effetti, opportuna soprattutto in vista della prevista autorizzazione al trattamento medicochirurgico, per sua natura irreversibile. La possibilità accordata, per tale via, al soggetto transessuale di vedere riconosciuta anche giuridicamente l’appartenenza all’altro sesso è stata ritenuta non contrastante con i principi costituzionali invocati per contestarne la legittimità (artt. 2, 3, 29, 30, 32 Cost.), in quanto rivolta a consentire proprio la piena realizzazione della personalità dell’interessato, attraverso un inserimento nei rapporti sociali realmente rispettoso della sua identità, tale, quindi, da salvaguardarne libertà e dignità 137. Proprio la salvaguardia, in particolare, del diritto all’autodeterminazione in materia ha indotto – a seguito di una interpretazione “alla luce dei diritti della persona” dell’art. 1, laddove individua il presupposto per la rettificazione anagrafica del sesso della persona nelle “intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”, e dell’art. 3 (ora 31 D.Lgs. 150/2011), laddove si prevede che “quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico chirurgico, il tribunale lo autorizza” – ad “escludere la necessità, ai fini dell’accesso al percorso giudiziale di rettificazione anagrafica, del trattamento chirurgico”, reputando quest’ultimo solo “possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico”, non potendo che essere rimessa all’interessato “la scelta delle modalità attraverso cui realizzare, con l’assistenza del medico e di altri specialisti, il proprio percorso di transizione” 138. 137 Per Corte cost. 24-5-1985, n. 161, la legge “si colloca nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori, di libertà e di dignità, della persona umana, che ricerca e tutela anche nelle situazioni minoritarie ed anomale”. Infatti, “l’intervento chirurgico e la conseguente rettificazione anagrafica riescono nella grande maggioranza dei casi a ricomporre l’equilibrio tra soma e psiche, consentendo al transessuale di godere di una situazione di, almeno relativo, benessere, ponendo così le condizioni per una vita sessuale e di relazione quanto più possibile normale”. La disciplina, insomma, assicura “a ciascuno il diritto di realizzare, nella vita di relazione, la propria identità sessuale, da ritenere aspetto e fattore di svolgimento della personalità”, che gli altri membri della collettività “sono tenuti a riconoscere, per dovere di solidarietà sociale”. Si ricordi come l’art. 4 abbia previsto che “la sentenza di rettificazione di sesso … provoca lo scioglimento del matrimonio” (l’art. 31 D.Lgs. 150/2011, nel contesto della disciplina processuale delle controversie in materia di rettificazione e attribuzione di sesso, lasciando sostanzialmente inalterato il senso della disposizione, impiega ora il termine “determina”) (in proposito, per la connessione della relativa problematica con quella delle cause di divorzio, cfr. V, 3.4). 138 Così, Corte cost. 5-11-2015, n. 221, secondo un orientamento già indicato dalla giurisprudenza di merito – tendente a “consentire la rettifica dell’atto di nascita” senza la necessità dell’intervento chirurgico, ove, “in caso di transessualismo accertato”, non sussista “un atteggiamento di rifiuto dei propri organi sessuali” (Trib. Roma 22-3-2011, Trib. Rovereto 3-5-2013, Trib. Trento 29-9-2017; sulla base, specificamente, di un’accezione della “identità di genere” come “costituita da tre componenti: il corpo, l’autopercezione e il ruolo sociale”, Trib. Messina 11-11-2014; più di recente, in linea con la posizione espressa dalla Corte costituzionale, v., ad es., Trib. Napoli 3-12-2019, considera il trattamento chirurgico solo “possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico”) – e, poi, sostanzialmente avallato da Cass. 20-7-2015, n. 15138. La Cassazione, in

CAP. 2 – DIRITTI DELLA PERSONALITÀ

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particolare, ha affermato che “l’interesse pubblico alla definizione certa dei generi … non richiede il sacrificio del diritto alla conservazione della propria integrità psicofisica sotto lo specifico profilo dell’obbligo dell’intervento chirurgico”, purché “la serietà ed univocità del percorso scelto e la compiutezza dell’approdo finale sia accertata, se necessario, mediante rigorosi accertamenti tecnici in sede giudiziale”. Rilevato che l’art. 1 non specifica se i “caratteri sessuali da mutare siano primari o secondari”, l’accento viene posto, anche in applicazione del “canone della proporzionalità”, sul “mutamento significativo se non irreversibile dei propri caratteri sessuali secondari”, nella prospettiva di “una scelta personale tendenzialmente immutabile, sia sotto il profilo della percezione soggettiva, sia sotto il profilo delle oggettive mutazioni dei caratteri sessuali secondari estetico-somatici e ormonali”. Il “carattere definitivo” del “cambiamento” – secondo quanto sottolineato pure dalla Corte costituzionale – finisce, insomma, comunque risulti conseguito, col rappresentare l’elemento sufficiente per legittimare la rettificazione anagrafica. Si tenga presente, al riguardo, come ricorda la stessa Cassazione, che la Corte eur. dir. uomo (in particolare, 10-3-2015) ha concluso nel senso della illegittimità di una eventuale previsione del requisito della preventiva sterilizzazione, onde poter accedere alla rettificazione del sesso, in una prospettiva seguita anche dalla Corte costituzionale tedesca nel 2008. Peraltro, proprio alla luce di tali ultime decisioni e di documenti come, in particolare, la Risoluzione 1728/2010 del Consiglio d’Europa, con la relativa ferma valorizzazione della essenzialità e decisività solo dell’autodeterminazione e dell’elemento psicologico dell’appartenenza all’altro sesso, pare difficile contestare l’incoerenza, riguardo all’ottica di fondo cui sembrano intendere aderire anche Cassazione e Corte costituzionale, di ogni persistente richiesta – implicita nel postulato “carattere definitivo” e “irreversibile” del cambiamento per la riattribuzione anagrafica del sesso – di preventivi trattamenti medici (terapie ormonali, trattamenti estetici), sempre gravemente invasivi, pur se limitati alla modificazione dei caratteri sessuali secondari. Comunque, Corte cost. 13-7-2017, n. 180, ha confermato un simile orientamento, sottolineando la “necessità di un accertamento rigoroso non solo della serietà e univocità dell’intento, ma anche dell’intervenuta oggettiva transizione dell’identità di genere” (“prioritario o esclusivo rilievo ai fini dell’accertamento della transizione” non potendo essere rivestito dal “solo elemento volontaristico”: al giudice, in effetti, viene demandato “il compito di accertare la natura e l’entità delle intervenute modificazioni dei caratteri sessuali, che concorrono a determinare l’identità personale e di genere”). Il dianzi ricordato D.D.L. n. 405, allora, si è mosso, appunto, nella direzione, già riscontrabile, ad es., in una legge di Malta dell’aprile 2015, nella quale, ai fini dell’affermazione del “diritto al riconoscimento della propria identità di genere”, la “persona non è tenuta a fornire la prova di aver effettuato” un qualsiasi “trattamento psichiatrico, psicologico o medico”, essendo esclusivamente necessaria una “dichiarazione chiara e inequivocabile”, per atto pubblico, “che la propria identità di genere non corrisponde al sesso assegnato nell’atto di nascita”, con una conseguente richiesta all’ufficio anagrafico (e v. anche già la legge argentina n. 26743 del 2012, in cui si esclude, ai fini dell’esercizio del diritto al “riconoscimento della propria identità di genere”, la necessità di un intervento chirurgico, di terapie ormonali o di altro trattamento psicologico o medico). Di recente, in Francia, l’art. 56 della loi 2016-1587 del 18.11.2016 ha novellato il code civil, prevedendo la possibilità di ottenere la modificazione della menzione anagrafica del sesso (sulla base di un “concorso sufficiente di fatti”, quali il presentarsi pubblicamente come appartenente al sesso rivendicato, l’essere conosciuto sotto il sesso rivendicato nel proprio ambiente familiare, amicale e professionale, l’avere ottenuto il corrispondente cambiamento del nome: art. 61-5), mediante una domanda al tribunal de grande instance (che non può essere respinta per il “fatto di non avere subito dei trattamenti medici, un’operazione chirurgica o una sterilizzazione”: art. 61-6), precisandosi pure che la modificazione anagrafica del sesso “è senza effetto sulle obbligazioni contratte nei confronti dei terzi né sulle filiazioni stabilite anteriormente alla modificazione” (art. 61-8). Da segnalare, in materia di diritto alla libera autodeterminazione del genere, sono le prese di posizione, in Spagna, con l’approvazione, da parte del Consiglio dei Ministri (29.6.2021), del testo della c.d. ley trans (il cui iter, peraltro, è risultato alquanto accidentato), nonché, in Germania, con la “Legge per la protezione dai trattamenti di conversione” (KonvBG, 12.6.2020), quest’ultima in una prospettiva di salvaguardia degli orientamenti personali, per cui v., in Francia, la loi 2022-92 del 31.1.2022. Di recente è stata affrontata (Corte eur. dir. uomo 11-10-2018, che ha reputato, in proposito, il nostro ordinamento in contrasto con l’art. 8 CEDU) anche la questione concernente il diritto della persona transessuale ad ottenere il cambiamento del nome durante il processo di transizione sessuale. Si è ammessa la possibilità che la domanda giudiziale di rettificazione dell’attribuzione del sesso (con conseguente variazione del nome) e di autorizzazione al trattamento medico-chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali possa “essere proposta anche dai genitori in rappresentanza del figlio minore, che abbia manifestato la propria consapevole volontà al riguardo” (Trib. Frosinone 25-7-2017).

CAPITOLO 3

ENTI Sommario: A) PROFILI GENERALI. – 1. Persona fisica e persona giuridica. – 2. Elementi costitutivi. Ente e soggettività giuridica. – 3. Tipologia degli enti. – 4. Riconoscimento. – 5. Capacità. – 6. Attività. – 7. Responsabilità per illecito. – B) FIGURE. – 8. Associazione riconosciuta. – 9. Associazione non riconosciuta. – 10. Fondazione. – 11. Estinzione della persona giuridica. Liquidazione e devoluzione dei beni. Trasformazione. – 12. Comitato. – 13. Gli enti non profit nella legislazione speciale ed il “Terzo settore”. – 14. Particolari categorie di enti del Terzo settore.

A) PROFILI GENERALI 1. Persona fisica e persona giuridica. – La persona fisica non è, per l’ordinamento, l’unica entità dotata di capacità giuridica, considerata, cioè, in grado di essere titolare di situazioni giuridiche. Il concetto di soggetto di diritto, come rilevato (II, 1.1-2), non coincide con quello di persona fisica. Accanto alle persone fisiche, quali soggetti dotati di capacità giuridica si collocano gli enti, vale a dire le organizzazioni di beni e di persone, cui l’ordinamento riconosce la qualità di centri di imputazione di situazioni giuridiche soggettive, al pari delle persone fisiche. Storicamente, l’individuazione di un centro di imputazione di situazioni giuridiche diverso dalla persona fisica si riassume nella espressione persona giuridica (“Delle persone giuridiche” risulta rubricato, in effetti, il titolo II del libro I del codice civile). Espressione che attualmente, peraltro, come si avrà modo di constatare alla luce dell’evoluzione del quadro normativo, sembra aver perso quel valore sistematico che ne ha caratterizzato l’impiego in passato, onde alludere a tutte quelle entità le quali, ancorché prive dell’attributo della fisicità (connotante la persona fisica), sono nondimeno considerate dall’ordinamento giuridico soggetti di diritto. Analizzando le differenti teorie che, nel tempo, hanno cercato di fornire una spiegazione del fenomeno per cui, in favore di entità diverse dalle persone fisiche, l’ordinamento riconosce e tutela l’imputazione di situazioni soggettive, è possibile individuare due contrapposte impostazioni di fondo. Un primo orientamento (c.d. teoria della finzione) è quello che, movendo dalla riflessione che esclusivamente l’uomo, in quanto dotato di volontà, sia in grado di essere titolare di situazioni soggettive, reputa, appunto, una finzione la considerazione da parte dell’ordinamento di soggetti diversi dalla persona fisica (risultando la capacità giuridica, insomma, connotato tipico della sola persona fisica). Secondo un diverso orientamento (c.d. teoria della realtà), la persona giuridica è concepita quale entità realmente esistente, sia pure sulla base di una creazione da parte

CAP. 3 – ENTI

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dell’ordinamento, dotata, al pari dell’uomo, di propria volontà e, in quanto tale, giuridicamente capace come la persona fisica. La rigida contrapposizione tra le due teorie, comunque, tende attualmente a venire alquanto ridimensionata, soprattutto alla luce di concezioni che privilegiano una visione essenzialmente strumentale della – peraltro reputata di insostituibile utilità – nozione di persona giuridica, in quanto funzionale a riassumere una speciale disciplina normativa di rapporti intercorrenti pur sempre tra persone fisiche 1. La motivazione che (ha indotto e) induce l’ordinamento a considerare gli enti quali soggetti di diritto distinti dalle persone fisiche che ne promuovono la formazione e ne assicurano il funzionamento (il gruppo, cioè, in contrapposizione ai singoli) sembra radicarsi nell’insuperabile constatazione che il singolo, isolatamente, può perseguire solo una certa gamma di interessi, ma non può spingersi fino alla realizzazione di tutti quegli ulteriori interessi che, invece, necessitano di un’organizzazione di gruppo (o, più in generale, eccedente le sue possibilità di azione personale). In altre parole, gli individui avvertono la necessità di ricorrere alla forma dell’ente, allorché i propri interessi perseguiti – perché di complessa realizzazione, o in quanto proiettati in un arco temporale che trascende la vita della persona fisica, ovvero per altre ragioni positivamente apprezzate dall’ordinamento – non possano trovare adeguato soddisfacimento mediante l’esplicazione di una mera attività individuale. L’aggregazione delle energie individuali per scopi economici ha, fin da tempi risalenti, incontrato il favore dell’ordinamento, per gli sperati positivi effetti dell’attivazione di cospicui capitali in vista dello sviluppo dei traffici e del commercio (con conseguente agevolata concessione, da parte dell’ordinamento stesso, di rilevanti benefici agli interessati: in particolare, di quello consistente – appunto attraverso il riconoscimento di una distinta soggettività all’organizzazione costituita per l’esercizio dell’attività economica – nella limitazione della propria responsabilità patrimoniale personale a quanto conferito per la singola specifica impresa) 2. 1 Nella prospettiva accennata nel testo, la giurisprudenza tende, in effetti, a rilevare come sia “ormai chiarito che la soggettività dei gruppi organizzati non può essere messa sullo stesso piano di quella degli individui persone fisiche”, dovendosi ravvisare “nella personalità giuridica (non lo statuto di un’entità reale diversa dalle persone fisiche, ma) una particolare normativa avente ad oggetto pur sempre relazioni tra uomini” (Cass. 26-10-1995, n. 11151). Sostanzialmente nella medesima ottica, Cass. 30-8-2005, n. 17500, che parla di “soggettività meramente transitoria e strumentale”, essendo “le situazioni giuridiche imputate” agli enti “destinate a tradursi, secondo le regole dell’organizzazione interna, in situazioni giuridiche riferite (e questa volta definitivamente) ad individui persone fisiche”. È da tenere comunque presente che l’ordinamento non può tollerare che i soggetti si nascondano dietro lo schermo dell’ente, per conseguire risultati riprovati dalla legge, aggirandone i divieti (c.d. abuso della personalità giuridica: Cass. 25-1-2000, n. 804). Superando la distinta personalità giuridica dell’ente, in tal caso, come si suole dire, il velo può essere sollevato, coinvolgendo direttamente i soggetti interessati, con l’applicazione, nei relativi confronti, delle norme che essi intendevano, appunto, così eludere. 2 Ricorrente, in proposito, è il richiamo, in tempi più lontani, all’esperienza delle compagnie coloniali, finalizzate allo sfruttamento (con il necessario apporto di grandi capitali e una notevole rischiosità per gli investitori) delle ricchezze dei territori aperti alla penetrazione politica ed economica europea, a seguito delle scoperte geografiche. In tempi più vicini, il riferimento è all’esigenza – in modo crescente recepita nei codici di commercio della seconda metà dell’800 – di assicurare il reperimento delle ingenti risorse economiche necessarie alla costituzione (in forma, quindi, di società anonima) di imprese innovative (e, quindi, inevitabilmente tali da esporre a rilevanti rischi), di dimensione adeguata al nuovo sistema produttivo di tipo capitalistico conseguente alla rivoluzione industriale.

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PARTE IV – SOGGETTI

Non così è stato per il perseguimento, attraverso organizzazioni di varia natura, di scopi ideali e morali. Con sospetto è stata, cioè, guardata la destinazione di beni a simili finalità, paventandosi i pericoli della sottrazione, per tale via, di attività patrimoniali rilevanti ai traffici commerciali, con conseguente danno per l’economia nazionale. Di qui, addirittura, lo smantellamento, agli albori dello Stato liberale, delle preesistenti organizzazioni (prevalentemente di carattere religioso) di tale tipo, ovvero, successivamente, la marcata connotazione di carattere pubblicistico della regolamentazione delle attività di assistenza e beneficenza, con la previsione di un regime di rigoroso inquadramento e penetrante controllo statale sulle relative istituzioni 3. Un indubbio mutamento di prospettiva si è avuto con il codice civile del 1942, nel cui libro I risulta introdotta, a differenza che nel codice civile del 1865, una organica disciplina delle persone giuridiche private, evidentemente in considerazione del riconoscimento della crescente rilevanza sociale del fenomeno anche al di fuori dell’area dell’organizzazione degli interessi con finalità economico-produttive. Alla luce della ideologia statalistica e autoritaria del regime dell’epoca, comunque, il perseguimento di qualsiasi finalità ideale non poteva che essere assoggettato ad uno stringente controllo di congruità rispetto agli indirizzi dell’azione, appunto, statale, al raggiungimento dei cui obiettivi doveva risultare strettamente funzionale anche l’attività degli enti privati (e dei soggetti in essi coinvolti) 4. L’ulteriore, decisiva, evoluzione della materia è conseguita al nuovo sistema delineato dalla Costituzione, la quale, nel porre la persona al centro dell’ordinamento, come privilegiato punto di riferimento delle relative valutazioni, ha riconosciuto il carattere irrinunciabile del contributo che le formazioni sociali e la relativa attività sono idonee ad apportare allo sviluppo della personalità dell’uomo ed all’esercizio dei suoi diritti fondamentali (art. 2 Cost.). Inevitabilmente oggetto di una forte tutela è risultata, di riflesso, la libertà di associazione, senza alcuna prefissione di finalità ulteriori rispetto al beneficio che possa derivarne per la persona stessa, la quale, nel gruppo, si trovi a svolgere la propria personalità (art. 18 Cost.) 5. Ed è evidente come una simile prospettiva di istituzionale funzionalizzazione esclusiva delle formazioni sociali allo sviluppo della per3

L’atteggiamento di chiusura dell’ordinamento nei confronti delle organizzazioni (prevalentemente, ma non esclusivamente, ecclesiastiche) con finalità ideali e morali ebbe modo di manifestarsi, in particolare, prima dell’unità nazionale, con la nota legge Siccardi del 5.6.1850. Il codice civile del 1865, in materia, si limitava ad un rinvio alla regolamentazione della materia “secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico” (art. 2), anche sotto il profilo del riconoscimento della capacità (art. 433). La disciplina del settore – caratterizzata da uno stringente controllo (iniziale e continuo), da parte degli organi statali, sulle finalità perseguite dalle organizzazioni con finalità di carattere non economico – fu resa, poi, sistematica con la L. 17.7.1890, n. 6972, sulle istituzioni pubbliche di beneficenza. 4 L’inserimento nel codice civile di una dettagliata disciplina delle persone giuridiche private si caratterizzò, così, per la previsione di una regolamentazione di tipo concessorio (ampiamente discrezionale) per il relativo riconoscimento, nonché di un regime comportante la necessità di autorizzazioni per gli acquisti più rilevanti e rigorosi controlli sulla vita dell’ente. Dell’atteggiamento del legislatore pare sintomatica l’affermazione, contenuta nella Relaz. cod. civ., n. 6, per cui “tutte le organizzazioni sono nello Stato e sono elementi dello Stato”. In una simile prospettiva, pur non mancandosi di prendere in considerazione realtà associative prive di riconoscimento, quest’ultimo resta considerato momento imprescindibile per l’acquisto, da parte dell’ente, della “qualità di soggetto di diritto” (n. 60). 5 L’unico limite consistendo nella proibizione (attuata con la L. 25.1.1982, n. 17) delle associazioni segrete e di quelle che perseguano scopi politici mediante organizzazioni di tipo militare (art. 182 Cost.).

CAP. 3 – ENTI

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sona abbia comportato, da una parte, la necessità di un ripensamento del sistema codicistico dei controlli (iniziali e successivi) sugli enti (controlli da ritenere destinati, ormai, non ad un vaglio di conformità degli scopi e dell’azione dell’ente agli indirizzi prefigurati in sede politica, ma esclusivamente alla garanzia di un’effettiva finalizzazione dell’azione dell’ente stesso alla promozione della personalità dei soggetti che essa coinvolge); dall’altra, il positivo apprezzamento del fenomeno associativo come tale, a prescindere, proprio in quanto espressione di libertà, dall’imposizione di vincoli di carattere formale (con connessa tendenza al superamento, quindi, dei meccanismi volti a subordinare ad essi le potenzialità di azione degli enti). La conseguente diffusione delle organizzazioni di gruppo – sempre più articolate e di sempre maggiore rilievo socio-economico nella comunità – risulta porsi, così, alla base di un mutato atteggiamento da parte del legislatore, il quale, lungi dal vedere nei gruppi stessi e nel riconoscimento (e tutela) dei diritti dei medesimi un fenomeno da contenere e tenere sotto controllo, pare oggi deciso ad incentivare il ricorso alle più diverse forme di aggregazione 6. L’evoluzione del quadro normativo, intimamente legata alla evoluzione dei rapporti economico-sociali e delle relative dinamiche, propizia, allora, una opportuna rimeditazione circa gli stessi elementi tradizionalmente identificati quali costitutivi della persona giuridica.

2. Elementi costitutivi. Ente e soggettività giuridica. – Nella impostazione tradizionale (e ancora corrente), gli elementi costitutivi della persona giuridica sono distinti in una componente materiale (il c.d. substrato materiale), comprensiva di persone, patrimonio e scopo e in una componente formale (il riconoscimento). Ai fini della esistenza della persona giuridica, infatti, appare indefettibile la sussistenza di persone fisiche, portatrici degli interessi non perseguibili attraverso l’azione individuale del singolo (così come necessaria è l’attività di persone fisiche per la vita dell’ente): è questo l’elemento personale. Simili interessi, poi, per essere realizzati, necessitano di una attività spesso complessa e articolata, che a sua volta richiede la predisposizione di un’organizzazione altrettanto complessa ed articolata. Di qui l’esigenza che la persona giuridica sia dotata di un’adeguata massa di beni, che possa economicamente sostenere il peso dello svolgimento dell’attività istituzionale dell’ente: è questo il patrimonio. L’aggregazione di persone e di beni, inoltre, avviene in vista della realizzazione di determinate finalità che, a seconda delle tipologie degli enti, possono essere le più varie: è questo lo scopo. A tutti questi elementi – che, come accennato, costituiscono il substrato materiale dell’ente – secondo la prospettiva corrente viene dato rilievo mediante il riconoscimento da parte dell’ordinamento giuridico, quale momento formale di attribuzione della personalità giuridica. Pur non intendendo disconoscere l’importanza che ha tradizionalmente rivestito – e che continua a rivestire, sia pure essenzialmente a fini classificatori e didattici – l’identificazione degli elementi costitutivi della persona giuridica, può senza esitazione sottoli6

È anche all’atteggiamento in questione che può essere riferita la prospettiva accolta nell’art. 1184 Cost. (ai sensi della L. cost. 18.10.2001, n. 3), nel senso di un istituzionale favore per “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale”. Per quanto riguarda, in particolare, l’attività degli enti nel c.d. “terzo settore”, anche alla luce del D.Lgs. 3.7.2017, n. 117, v. infra, IV, 3.13.

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PARTE IV – SOGGETTI

nearsi come attualmente si assista soprattutto ad una progressiva svalutazione dell’elemento formale del riconoscimento da parte dell’ordinamento. La formale attribuzione della personalità giuridica non risulta più, in altre parole, momento essenziale ai fini della considerazione dell’ente quale soggetto di diritto. Il rilievo sociale assunto dalle organizzazioni di gruppo, ancorché non sottoposte al riconoscimento statale, giustifica senz’altro la relativa considerazione quali centri di imputazione di situazioni giuridiche soggettive, autonomi soggetti di diritto, cioè, distinti dai propri membri e dotati, appunto in quanto tali, di capacità giuridica. Al concetto di personalità giuridica, pertanto, va sempre più a sostituirsi quello di soggettività giuridica: concetto, quest’ultimo, più ampio, che dovrebbe valere ad includere nel novero dei soggetti giuridicamente capaci, le persone fisiche, le persone giuridiche e gli enti non riconosciuti quali persone giuridiche (II, 1.1-2). La espressione persona giuridica, che storicamente si proponeva quale esclusiva alternativa concettuale alla nozione di persona fisica, finisce, così, col limitarsi attualmente a indicare solo un particolare profilo di disciplina dell’ente riconosciuto rispetto all’ente non riconosciuto (la peculiare qualificazione, cioè, che gli deriva dal riconoscimento, con le conseguenze che ne scaturiscono dal punto di vista dell’autonomia patrimoniale: IV, 3.8-9), ma non riveste più il decisivo valore sistematico che aveva un tempo. Un impulso determinante nel senso dell’affermazione del concetto sempre più ampio di soggettività giuridica è stato offerto, come accennato, dal fondamentale precetto contenuto nell’art. 2 Cost., secondo cui “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità”. Tale previsione, pure alla luce del principio della libertà di associazione (sancito dall’art. 18 Cost.), ha fornito una essenziale chiave di lettura per l’interprete, che è progressivamente pervenuto a concepire con sempre maggiore chiarezza anche l’ente non riconosciuto quale autonomo soggetto di diritto 7. Le situazioni giuridiche che spettano all’associazione non riconosciuta o alla società di persone, quali modelli di enti non personificati, sono ritenute rientrare, cioè, nell’autonoma sfera giuridica dell’ente e non formare oggetto di una forma di contitolarità da parte dei membri dell’ente medesimo. Coerentemente, anche nella legislazione speciale, come non si mancherà di sottolineare (IV, 3.13), il momento del riconoscimento dell’ente tende a venire drasticamente svalutato, assumendo un ruolo sempre più determinante i caratteri e le finalità dell’attività svolta dall’ente medesimo.

3. Tipologia degli enti. – Soprattutto per comodità espositiva, ancora oggi continuano a proporsi, alla luce dell’impianto del codice civile (sempre meno rispondente, in7 La giurisprudenza, così, sulla base di una interpretazione evolutiva del tessuto normativo codicistico, già da tempo (ad es., Cass. 16-11-1976, n. 4252) ha sostituito alla rigida contrapposizione tra persone fisiche e persone giuridiche, la “distinzione tra persone fisiche, persone giuridiche e soggetti collettivi o gruppi organizzati non personificati”, concludendo nel senso di riconoscere la qualità di soggetto di diritto pure all’associazione non riconosciuta. Pacifica, insomma, è l’affermazione per cui “l’associazione non riconosciuta, ancorché sfornita di personalità giuridica, è considerata dall’ordinamento come centro di imputazione di situazioni giuridiche distinto dagli associati” (ad es., Cass. 23-1-2007, n. 1476). Analogamente, anche con riferimento alla società di persone, si individua, ormai, un soggetto distinto dai relativi soci, quale centro autonomo di situazioni giuridiche a lei facenti capo (e v., ad es., Cass. 24-7-1989, n. 4252, Cass. 2-2-2018, n. 2575: “pur essendo prive di personalità giuridica … munite di propria soggettività” le considera senz’altro Cass. 10-4-2003, n. 5664).

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vero, tanto alla realtà sociale, quanto allo stesso ordinamento considerato nel suo complesso), alcune classificazioni degli enti, in considerazione dello scopo dell’ente e della sussistenza o meno del riconoscimento. Tali classificazioni possono essere tenute ferme, purché si abbia piena consapevolezza che la prassi, di cui il legislatore medesimo tende a prendere sempre di più atto, ha permesso di assistere alla nascita ed allo sviluppo di enti che, per la loro struttura e per il loro concreto modo di operare nel mondo del diritto, sfuggono a simili schemi classificatori. a) Una prima distinzione di fondo che si riscontra nel codice risulta quella tra enti pubblici (persone giuridiche pubbliche: art. 11) ed enti privati (persone giuridiche private: art. 12, abrogato dal D.P.R. 10.2.2000, n. 361, nel quadro della riforma delle modalità di riconoscimento, cui corrisponde ora il relativo l’art. 11) 8. È questa una classificazione che, tradizionalmente, veniva essenzialmente ricollegata allo scopo dell’ente: persone giuridiche pubbliche, alla stregua di tale impostazione, dovrebbero reputarsi quelle che perseguono istituzionalmente fini di rilevanza generale, di carattere pubblico, in contrapposizione alle persone giuridiche private che, invece, per loro natura perseguirebbero scopi di carattere, appunto, privato e non di rilevanza generale. Da tempo, tuttavia, la distinzione, così come formulata, è apparsa insoddisfacente, in quanto non aderente alla realtà, che vede in misura sempre maggiore perseguire interessi di indubbio rilievo generale anche da parte di enti dal carattere privato. Il carattere generale e pubblico dei fini dell’attività, di fronte ad una simile interscambiabilità, in altre parole, non può considerarsi indice affidabile per distinguere la persona giuridica pubblica dalla persona giuridica privata. Incerto si tende a ritenere anche l’ulteriore profilo di distinzione, costituito dal collegamento del carattere pubblico della persona giuridica con la relativa investitura di poteri di imperio. Sicuro tratto caratterizzante – oltre a quello dei peculiari controlli cui l’attività dell’ente pubblico risulta assoggettata – finisce, pertanto, con l’attenere al profilo dell’atto costitutivo, il quale, nell’ipotesi di persona giuridica privata, è, come si vedrà, un atto di autonomia privata; l’ente pubblico, invece, viene ad esistenza per effetto di una previsione normativa o di un atto amministrativo 9. Gli enti pubblici, a loro volta, si distinguono in enti pubblici territoriali (Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni: art. 114 Cost.) ed enti pubblici non territoriali, a seconda della sussistenza o meno di un legame della rispettiva attività con una determinata sfera territoriale. È da sottolineare come, in relazione alla seconda 8 Tra le persone giuridiche private tendono ad essere attualmente inquadrati anche gli enti ecclesiastici (i quali sono tenuti, infatti, intervenuta l’approvazione dell’autorità ecclesiastica, all’iscrizione nel registro delle persone giuridiche per divenire “enti ecclesiastici civilmente riconosciuti”), sia pure con talune peculiarità che si ricollegano alla disciplina per essi specificamente dettata in considerazione delle loro finalità (v. la L. 20.5.1985, n. 222, col relativo regolamento di esecuzione, D.P.R. 13.2.1987, n. 33, nonché, con riguardo agli enti finalizzati agli scopi delle confessioni religiose diverse da quella cattolica, le varie intese adottate in base all’art. 8 Cost.). Una disciplina specifica viene dettata per tale tipologia di enti (con l’impiego della più comprensiva terminologia di enti religiosi) nel contesto della disciplina degli “enti del Terzo settore” (art. 43 D.Lgs. 117/2017: IV, 3.13), anche, in particolare, con riguardo alle “imprese sociali” (art. 13 D.Lgs. 112/2017). 9 Del resto, si tende ormai a ritenere che, “nel nostro ordinamento, anche in ragione dell’influenza del diritto europeo, non esiste una definizione unitaria e omogenea di ente pubblico”, dovendo essere comunque affidato il giudizio in proposito al riscontro, nel singolo caso, di una pluralità di “indici normativi” (così, ad es., Cons Stato, sez. VI, 1-6-2016, n. 2326).

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categoria di enti pubblici, sia da tempo in corso un processo tendente alla loro drastica riduzione o – in particolare con riguardo ai c.d. enti pubblici economici, anche nel campo dell’erogazione dei servizi pubblici – trasformazione in enti privati (c.d. privatizzazione: per un tentativo di intervento organico in materia, v. l’art. 14 L. 15.3.1997, n. 59 e il conseguente D.Lgs. 29.10.1999, n. 419). b) Altra distinzione è quella tra enti lucrativi ed enti non lucrativi. Si tratta di una differenziazione (cui si riferisce l’art. 13, rinviando per la regolamentazione delle società al libro V: l’art. 2247 ne individua il tratto caratterizzante nell’“esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili”) che, se dal punto di vista teorico ha tuttora sicuramente ragione di essere – anche alla luce della diversa collocazione nel corpo del codice civile delle norme che disciplinano gli enti non lucrativi (libro I), rispetto a quelle che regolano gli enti lucrativi (libro V) –, da un punto di vista pratico, tuttavia, almeno nella sua tradizionale categoricità, desta non poche perplessità. La prassi 10 offre un panorama in modo crescente caratterizzato, in una prospettiva di interscambiabilità, da enti che, ancorché sorti nelle forme istituzionalmente previste per il perseguimento di finalità non lucrative, svolgono, invece, pure (o, addirittura, essenzialmente) attività di tipo economico-imprenditoriale, nonché, all’inverso, da enti che, ancorché (per le forme in cui risultano costituiti) si presentano contraddistinti da scopo di profitto, svolgono, in realtà, attività di tipo non lucrativo. In ogni caso, enti non lucrativi, anche definiti enti con scopi ideali o morali (o, secondo una sempre più diffusa terminologia, non profit), sono le associazioni, le fondazioni e i comitati, disciplinati, appunto, nel libro I del codice civile. Enti lucrativi – lo studio dei quali è materia rientrante nel diritto commerciale – sono, invece, le società, regolate nel libro V del codice civile, il cui scopo, appunto definito lucrativo, è quello di dividere gli utili prodotti dall’“esercizio in comune di un’attività economica” (art. 2247). c) Anche la classificazione degli enti in enti riconosciuti ed enti non riconosciuti come persona giuridica (c.d. enti di fatto) – che in passato assumeva un consistente rilievo, soprattutto in considerazione dell’assai diversa capacità che conseguiva all’attribuzione formale, appunto attraverso il riconoscimento, della personalità giuridica – ha oggi perso importanza: l’unica sostanziale differenza di disciplina degli enti riconosciuti rispetto agli enti non riconosciuti attiene, ormai, come si vedrà, al diverso regime di responsabilità per le obbligazioni assunte in nome e per conto dell’ente stesso. Per quel che concerne gli enti del libro I del codice civile, enti riconosciuti quali persone giuridiche sono le associazioni riconosciute, le fondazioni ed i comitati riconosciuti 11; enti non riconosciuti sono le associazioni non riconosciute e i comitati non riconosciuti. Quanto agli enti del libro V del codice civile, enti riconosciuti come persone giuridiche 10 Ma il discorso vale pure, a livello legislativo, per una tendenza da tempo in atto (di recente, anche in maniera sistematica avallata dal legislatore col D.Lgs. 117/2017, applicativo della L. 106/2016) con particolare riferimento ai c.d. enti del “Terzo settore”, che investe pure il profilo della rilevanza del riconoscimento (IV, 3.13-14). 11 La formula dell’art. 12, peraltro abrogato dal D.P.R. 10.2.2000, n. 361 (il cui art. 11, comunque, impiega la medesima terminologia), accomunava, in realtà, alle associazioni ed alle fondazioni “le altre istituzioni di carattere privato”. Tale espressione (nella Relaz. cod. civ., n. 42) era riferita, in via esemplificativa, ai comitati, ma veniva, invero, reputata di portata più comprensiva, in quanto tale eventualmente da abbracciare, “nella varietà della vita moderna”, “altre creazioni giuridiche non perfettamente aderenti né alle associazioni, né alle fondazioni”.

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sono le società di capitali (società per azioni, società in accomandita per azioni e società a responsabilità limitata) e le società cooperative; enti privi di riconoscimento sono le società di persone (società semplice, società in nome collettivo e società in accomandita semplice).

4. Riconoscimento. – In passato, la distinzione tra enti lucrativi ed enti non lucrativi era indice anche di un sistema di attribuzione della personalità giuridica radicalmente differente. Al sistema di riconoscimento c.d. normativo, previsto (e tuttora vigente) per le società di capitali, in base al quale queste ultime acquistano la personalità giuridica con l’iscrizione nel registro delle imprese (art. 23311, per le società per azioni, e art. 24633, per le società a responsabilità limitata) 12, si contrapponeva il sistema di riconoscimento c.d. concessorio, caratteristico degli enti del libro I, per cui associazioni, fondazioni e comitati acquistavano la personalità giuridica mediante il riconoscimento concesso con decreto del Presidente della Repubblica (art. 12, oggi abrogato). L’attribuzione della personalità giuridica, cioè, secondo l’originario sistema concessorio, era rimessa ad una valutazione ampiamente discrezionale da parte della Pubblica Amministrazione (sfociante, appunto, nel provvedimento dell’organo di vertice dell’organizzazione statale), concernente, con riguardo al singolo caso, lo scopo e la congruità, rispetto ad esso, del patrimonio dell’ente 13. Al riconoscimento, poi, seguiva la registrazione, ovvero l’iscrizione dell’ente nell’apposito registro. L’ente, pertanto, acquistava la personalità giuridica per effetto del riconoscimento, dalla registrazione derivandogli, poi, la c.d. autonomia patrimoniale perfetta. Il D.P.R. 10.2.2000, n. 361, nell’intento di evitare il protrarsi nel tempo (e la ritenuta eccessiva discrezionalità) delle valutazioni della Pubblica Amministrazione, che caratterizzava il sistema concessorio, ha introdotto una disciplina profondamente innovativa, sostituendo il precedente sistema con uno nuovo. Ai sensi del relativo art. 11, le associazioni, le fondazioni e le altre istituzioni di carattere privato acquistano la personalità giuridica mediante il riconoscimento “determinato dall’iscrizione” nel registro delle 12 L’acquisto della personalità avviene, in sostanza, in modo automatico, essendo subordinata l’iscrizione nel registro delle imprese – tenuto dall’ufficio del registro delle imprese istituito presso la camera di commercio (art. 2188 e L. 29.12.1993, n. 580) – solo ad una verifica, da parte dell’ufficio del registro delle imprese, della “regolarità formale della documentazione” depositata dal notaio che ha ricevuto l’atto costitutivo (art. 23301-3), comprovante la sussistenza delle condizioni stabilite dalla legge per la costituzione, tra quelli previsti, del tipo di società cui si vuole dar vita (onde la qualifica di normativo per tale sistema di riconoscimento della personalità giuridica). 13 Mentre lo scopo lucrativo, insomma, risultava reputato senz’altro meritevole di tutela (in considerazione dell’attivazione di fattori produttivi derivante dalla creazione di un’organizzazione a ciò destinata), quello non lucrativo (morale) si riteneva opportuno assoggettarlo, di volta in volta, in seguito alla richiesta di riconoscimento della personalità di ciascun ente, ad una valutazione discrezionale di meritevolezza. Si rifletteva in ciò, evidentemente, una scelta ideologica, nel senso di considerare di per sé conforme all’interesse generale ogni contributo dei privati funzionale all’incremento della produzione, secondo un ordine di priorità che la Costituzione ha ribaltato, concentrando l’attenzione, piuttosto, come punto di riferimento della positiva valutazione dell’ordinamento, sulla persona e sulle sue esigenze di sviluppo, cui è reputata funzionale l’attività delle formazioni sociali (art. 2 Cost.). Di qui la spinta alla promozione dell’azione degli enti destinati ad operare per il perseguimento di scopi non lucrativi, ma di carattere ideale e morale, con l’avvertita necessità di agevolarne la creazione, anche attraverso l’introduzione, appunto, di un nuovo, meno discrezionale e più rapido, regime di riconoscimento.

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persone giuridiche, istituito presso le prefetture 14. Al prefetto residua, comunque, in vista dell’iscrizione, un certo margine di discrezionalità nella valutazione della possibilità e liceità dello scopo, nonché della adeguatezza del patrimonio alla realizzazione del medesimo scopo (art. 13). Proprio tale margine di (sia pur limitata) discrezionalità impedisce di definire l’attuale sistema di attribuzione della personalità giuridica agli enti del libro I quale sistema di tipo senz’altro normativo: non a caso, esso tende ad essere definito quale sistema di tipo quasi normativo 15. Va opportunamente evidenziato, comunque, come, nel passaggio dal sistema originario a quello attualmente vigente, sia venuta meno quella duplicazione di fasi, caratteristica del sistema previgente (riconoscimento e registrazione), che, come dianzi rilevato, comportava una differenziazione, sotto il profilo temporale, dei due momenti dell’attribuzione della personalità giuridica e dell’acquisizione dell’autonomia patrimoniale perfetta. Oggi, infatti, l’ente, acquista la personalità giuridica al momento dell’iscrizione nel registro delle persone giuridiche e nello stesso momento acquista altresì l’autonomia patrimoniale perfetta. In tal modo, viene meno il peculiare regime di responsabilità che l’art. 334, ormai abrogato, sanciva per le obbligazioni assunte in nome e per conto dell’ente non registrato, benché riconosciuto 16.

5. Capacità. – Dal punto di vista patrimoniale, l’ente ha una capacità giuridica sostanzialmente analoga a quella delle persone fisiche 17. Nella sua sfera di titolarità possono, infatti, rientrare tutte le situazioni giuridiche soggettive, attive e passive, che potrebbero fare capo ad un soggetto persona fisica. Alla persona giuridica risulta riferibile pure la titolarità di situazioni giuridiche soggettive di contenuto non patrimoniale, tutelate al pari di quelle corrispondenti della persona fisica (come il suo segno distintivo: 14

Secondo l’art. 71 D.P.R. 361/2000, il riconoscimento delle persone giuridiche private che operano nelle materie (ai sensi dell’art. 14 D.P.R. 24.7.1977, n. 616) attribuite alla competenza delle regioni (e le cui finalità si esauriscono nell’ambito di una sola regione) è determinato dall’iscrizione nel registro delle persone giuridiche istituito presso la stessa regione. L’art. 73 si riferisce alle analoghe competenze delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e Bolzano. È da sottolineare come l’art. 5 abbia demandato alle prefetture (o regioni o province autonome) competenti le funzioni amministrative precedentemente attribuite all’autorità governativa. Nell’ambito di tali funzioni rientra, ovviamente, l’esercizio dei poteri di controllo (come si vedrà, più penetranti con riferimento alle fondazioni) riconosciuti in materia all’autorità amministrativa. 15 Comunque, Cass., sez. un., 8-5-2014, n. 9942, ha ritenuto che la nuova procedura “non ha alterato il carattere essenzialmente concessorio dell’attribuzione della personalità giuridica”, conservando l’amministrazione prefettizia “un rilevante ambito di apprezzamento” e, in particolare un “significativo margine di valutazione concernente il requisito della ‘adeguatezza’ del patrimonio”. Si tenga presente come, con riguardo agli enti operanti nel c.d. “terzo settore” (IV, 3.13), l’art. 22 D.Lgs. 117/2017, abbia dato vita ad un meccanismo sostanzialmente alternativo di “acquisto della personalità giuridica”. 16 L’art. 334, come rilevato nel testo, prevedeva una particolare forma di responsabilità per le obbligazioni assunte in nome e per conto dell’ente non registrato, benché riconosciuto: delle obbligazioni rispondevano personalmente e solidalmente, insieme con la persona giuridica, gli amministratori dell’ente. Tale disposizione è stata abrogata dal D.P.R. 361/2000. Contestualmente, è stato abrogato anche l’art. 34, concernente la “registrazione di atti”, con conseguenti dubbi esegetici in ordine al regime di relativa opponibilità (in particolare, con riguardo alle modificazioni dell’atto costitutivo e dello statuto). 17 Di una “capacità giuridica” di carattere tendenzialmente “generale” (in quanto operante “in mancanza di specifiche limitazioni stabilite dalla legge”) parla, anche con riferimento alle società, Cass. 21-9-2015, n. 18449, alludendo alla conseguente possibilità di porre in essere “qualsiasi atto o rapporto giuridico, inclusa la donazione”.

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la denominazione). Oggi, poi, come si è avuto modo di evidenziare anche in relazione alle singole figure (in particolare, con riguardo al diritto all’identità personale), si tende sempre più ad ampliare l’ambito della tutela dei diritti della personalità di cui la persona giuridica è ritenuta possibile titolare (con la conseguente tutela risarcitoria: IV, 2.2 e X, 2.4). L’ente, ovviamente, a differenza della persona fisica, non ha l’idoneità ad essere titolare delle situazioni giuridiche soggettive che presuppongono la fisicità del soggetto. Ciò si comprende agevolmente, ad es., con riferimento alle situazioni soggettive di natura familiare, le quali, per loro natura, sono assolutamente insuscettibili di afferire alla sfera giuridica di titolarità dei soggetti diversi dalle persone fisiche. In campo patrimoniale, sono scomparsi preclusioni e ostacoli che, in passato, limitavano fortemente la capacità dell’ente. In particolare, l’art. 17, oggi abrogato 18, subordinava l’acquisto di beni immobili, l’accettazione di donazioni o eredità, nonché il conseguimento di legati, da parte di associazioni riconosciute e fondazioni, alla preventiva autorizzazione governativa. Venuta meno questa rilevante restrizione 19, associazioni e fondazioni hanno oggi la piena capacità di compiere acquisti immobiliari e di beneficiare di attribuzioni a titolo gratuito, senza che, pertanto, la consistenza patrimoniale dell’ente debba, di volta in volta, essere sottoposta ad un controllo di carattere pubblicistico. Con riguardo, poi, alle associazioni non riconosciute (IV, 3.9), in assenza di una norma di contenuto analogo a quello dell’art. 17, si discuteva se esse avessero la capacità di acquistare beni immobili. A tale controversia ha posto fine la L. 27.2.1985, n. 52, la quale, nel sostituire l’art. 2659, n. 1, e, quindi, nel dettare il contenuto della nota di trascrizione, ha specificamente previsto l’indicazione della denominazione e del numero di codice fiscale delle associazioni non riconosciute. In tal modo è risultata legislativamente sancita, dunque, la possibilità di intestazione del bene immobile direttamente in capo alla stessa associazione non riconosciuta. Quanto agli atti a titolo gratuito, gli artt. 600 e 786 subordinavano l’efficacia delle disposizioni testamentarie e delle donazioni a favore di ente non riconosciuto all’istanza del medesimo per ottenere il riconoscimento. Già a seguito dell’abrogazione dell’art. 17, non si mancò di dubitare circa la persistente operatività degli artt. 600 e 786, che continuavano ancora a prevedere il riconoscimento quale momento propedeutico all’autorizzazione all’acquisto. Ogni discussione in proposito è venuta ormai, comunque, definitivamente meno per l’intervento del legislatore, il quale, con la L. 22.6.2000, n. 192, ha abrogato espressamente gli artt. 600 e 786. In conclusione, stando all’attuale quadro normativo, gli enti del libro I, riconosciuti o meno, possono liberamente acquistare beni immobili e conseguire attribuzioni a titolo gratuito, senza la necessità dell’autorizzazione governativa.

6. Attività. – La circostanza che anche gli enti diversi dalle persone fisiche siano dotati di una propria capacità giuridica, che li rende idonei ad essere titolari delle più varie situazioni giuridiche attive e passive, è alla base dell’esigenza di mettere in grado gli enti stessi di muoversi nel complesso mondo dei traffici giuridici, onde disporre delle proprie situazioni giuridiche, ovvero acquistarne di nuove. 18

L’art. 17 è stato abrogato dall’art. 13 L. 15.5.1997, n. 127 (e v. anche art. 11 L. 22.6.2000, n. 192). Retaggio di un clima storico di diffidenza verso gli enti con scopi di carattere non lucrativo, per il timore di una immobilizzazione della ricchezza non destinata all’attività economica ma a scopi ideali. 19

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È evidente che l’ente, in quanto, per sua natura, non dotato dell’attributo della fisicità, ha la necessità di servirsi di altri soggetti (persone fisiche), non solo per organizzare la propria vita interna, ma, soprattutto, al fine di determinare la propria volontà e manifestarla all’esterno: l’esercizio della capacità di agire di cui l’ente risulta fornito è reso possibile dai suoi organi. La delineazione del concetto di organo affonda, storicamente, le sue radici in quelle teorie che, come già rilevato, individuavano nella persona giuridica una entità realmente esistente, al pari della persona fisica (IV, 3.1). Sono gli organi, appunto, a permettere all’ente di formare la propria volontà e di proiettarla all’esterno. Alla stregua di tale impostazione, la volontà dell’ente, ancorché derivante, a sua volta, dalla confluenza delle volontà dei singoli membri (ad es., degli associati riuniti in assemblea), viene riferita immediatamente all’ente medesimo. Allo stesso modo, tutti i comportamenti giuridicamente rilevanti posti in essere dagli organi dell’ente sono allo stesso direttamente imputati 20. Con riguardo all’attività negoziale dell’ente, il compito di proiettare all’esterno la sua volontà, perché si incontri con quella di altri soggetti nella conclusione di negozi giuridici, è demandato, in via generale, all’organo amministrativo. Sono gli amministratori, cioè, quali organi dell’ente, che consentono all’ente medesimo di intrattenere rapporti negoziali. La determinazione della volontà dell’ente, invece, può spettare all’assemblea, organo peculiare degli enti del tipo associativo, o agli stessi amministratori, cui compete, in particolare, concretizzare durante la vita degli enti di tipo fondazionale la volontà promanante dal fondatore (ipotesi, questa, che si verifica, appunto, nella fondazione, in cui manca l’assemblea). Il fenomeno in base al quale l’attività negoziale posta in essere dall’organo dell’ente viene imputata all’ente stesso (che solo attraverso i propri organi una simile attività può svolgere) prende il nome di rappresentanza organica (o istituzionale). Ancorché, insomma, la dichiarazione negoziale provenga da un soggetto diverso dall’ente (appunto l’amministratore), essa è imputata direttamente all’ente medesimo (in una prospettiva, quindi, di immedesimazione dell’organo con l’ente). Il concetto di rappresentanza organica, peraltro, è stato sottoposto a revisione critica da una parte della dottrina, secondo cui, nei confronti dei terzi, non sussisterebbe la possibilità di distinguere l’attività dell’organo da quella del normale rappresentante (sul concetto di rappresentanza, VIII, 8.1).

7. Responsabilità per illecito. – Risulta superata la concezione alla cui stregua, in relazione agli atti illeciti compiuti dai propri organi nell’esercizio delle loro attribuzioni istituzionali, l’ente risponderebbe – indirettamente – ai sensi dell’art. 2049, che disciplina l’ipotesi della responsabilità dei padroni e dei committenti (X, 1.8): l’ente, cioè, in una simile prospettiva, dovrebbe reputarsi quale committente del proprio organo e, quindi, responsabile per fatto illecito altrui. Contrariamente a una simile impostazione, si tende oggi a configurare una responsabilità diretta dell’ente, ex art. 2043, per gli illeciti commessi dai suoi organi 21. 20 Ciò vale anche per la eventuale rilevanza, per l’ente, di stati psicologici (come quelli di “scienza” o di “ignoranza”: Cass. 22-10-1997, n. 10383). 21 Ormai da tempo, per la giurisprudenza, l’ente (pubblico o privato che sia) è pacificamente considerato responsabile per i fatti illeciti “a titolo di responsabilità diretta in virtù del rapporto organico che immedesi-

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Quanto agli illeciti penali, il recente D.Lgs. 8.6.2001, n. 231, in contrasto con la tradizionale relativa esclusione, afferma la responsabilità dell’ente per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio dalle persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente stesso, nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo del medesimo. A carico dell’ente responsabile sono previste sanzioni di tipo pecuniario, di tipo interdittivo (l’interdizione, cioè, temporanea o, addirittura, definitiva dall’esercizio dell’attività cui si riferisce l’illecito), la confisca del prezzo o del profitto del reato e la pubblicazione della sentenza. Va ulteriormente precisato che le sanzioni così previste si applicano sia agli enti forniti di personalità giuridica che a quelli privi.

B) FIGURE 8. Associazione riconosciuta. – L’associazione riconosciuta rappresenta la fattispecie paradigmatica di ente, tradizionalmente assunta dalla dottrina quale modello per la formulazione delle teorie della persona giuridica. Nell’associazione riconosciuta, infatti, al contrario – come si vedrà – del differente modello rappresentato dalla fondazione, sono presenti e con chiarezza identificabili tutti quei tratti che generalmente sono reputati elementi costitutivi della persona giuridica (persone, patrimonio, scopo, riconoscimento). Il ruolo dell’associazione riconosciuta, tuttavia, all’indomani delle modifiche che hanno profondamente inciso sulla disciplina degli enti (basti pensare al profilo della relativa capacità: IV, 2.5), sembra oggi assumere un peso diverso soprattutto con riferimento al modello dell’associazione non riconosciuta, la quale, appunto, non è più sottoposta a quelle limitazioni di azione che, in passato, rendevano maggiormente appetibile il riconoscimento. Ciò perché l’unica sostanziale differenza sussistente tra l’associazione riconosciuta e quella non riconosciuta è da individuarsi, ormai, nella disciplina della responsabilità per le obbligazioni che fanno capo all’ente: a rispondere delle medesime soltanto col proprio patrimonio è esclusivamente l’associazione riconosciuta (autonomia patrimoniale perfetta). Di conseguenza, esclusivamente con riguardo all’associazione riconosciuta i creditori dell’associazione stessa non possono vantare alcuna pretesa non solo nei confronti degli associati, ma neppure verso coloro che hanno agito in nome e per conto dell’associazione; così come, reciprocamente, i creditori personali degli associati non possono aggredire il patrimonio dell’ente (come si avrà modo di vedere, le associazioni non riconosciute sono caratterizzate, invece, da un’autonomia patrimoniale imperfetta: IV, 3.9). L’associazione riconosciuta nasce mediante un contratto, il contratto associativo, che, ai sensi dell’art. 141, deve rivestire la forma dell’atto pubblico. La forma dell’atto pubblico risulta, peraltro, propedeutica esclusivamente in vista del successivo riconoscimento: ecco perché si tende a ritenere che l’associazione esista comunque, a prescindere, cioè, dall’adozione dell’atto pubblico. Il contratto associativo è una tipica ipotesi di ma l’attività degli organi con quella dell’ente” (nel caso di specie, si trattava della responsabilità per il fatto illecito del medico dipendente da un ospedale: Cass. 5-1-1979, n. 31).

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contratto plurilaterale (VIII, 2.15) ed è caratterizzato da una struttura aperta, nel senso, cioè, che ad esso possono prestare adesione, in un momento successivo al suo perfezionamento, altri contraenti (il carattere aperto della struttura è, anzi, ritenuto da taluni indispensabile – secondo il principio della c.d. “porta aperta” – per la ricorrenza del modello dell’associazione, con l’applicabilità della relativa disciplina, come sarebbe attestato dall’art. 161, che contempla quale necessaria la previsione delle condizioni dell’ammissione degli associati) 22. Correntemente, si distingue l’atto costitutivo, che racchiude la volontà dei contraenti di dare vita all’ente ed individua gli elementi principali e caratterizzanti l’ente medesimo (denominazione, scopo, patrimonio, sede), dallo statuto, che contiene le norme destinate a regolare la futura vita ed il funzionamento dell’ente 23. Normalmente, atto costitutivo e statuto sono racchiusi in due distinti documenti e lo statuto viene allegato all’atto costitutivo; essi, comunque, si integrano, come sembra attestato dal complessivo e indifferenziato riferimento al relativo (necessario o possibile) contenuto da parte dell’art. 16. Quanto allo scopo, esso rappresenta l’elemento che giustifica l’aggregazione del gruppo di persone che danno vita all’ente, assicurandone la necessaria coesione 24: secondo una suggestiva immagine, lo scopo rappresenterebbe per l’ente ciò che per la persona fisica è rappresentato dalla corporalità. Lo scopo dell’associazione deve essere non lucrativo: caratteristica, questa, che vale a distinguere la figura dell’associazione da quella della società. L’essere lo scopo dell’associazione istituzionalmente di tipo non lucrativo, peraltro, non vale ad escludere che, in concreto, l’associazione stessa possa svolgere attività economica, proprio in vista del perseguimento dello scopo ideale che la caratterizza (si pensi, ad es., all’attività editoriale di un’associazione culturale o alla vendita di biglietti da parte di un’associazione sportiva). L’importante è che una tale attività non sia svolta in via esclusiva o principale e che, soprattutto, i proventi e gli utili percepiti dall’associazione siano destinati agli scopi dell’ente e non distribuiti tra gli associati 25. In caso 22

Cass. 7-5-1997, n. 3980, comunque, ha ritenuto che non sussiste, “a carico di un’associazione, un obbligo di accogliere le domande di ammissione di volta in volta presentate da chi si dimostri in possesso dei requisiti richiesti”: “l’ammissione resta, pur sempre, sia da parte dell’associazione, sia da parte di chi aspiri ad entrarvi, un atto di autonomia contrattuale” (con la conseguente necessità del “requisito dell’accordo”). Si tenga presente come, per gli enti associativi operanti nel c.d. “terzo settore” (IV, 3.13), l’art. 211 D.Lgs. 117/2017 preveda specificamente che la procedura di ammissione dei nuovi associati, in applicazione dei requisiti richiesti, debba svolgersi “secondo criteri non discriminatori”. 23 È da tenere presente che, secondo la giurisprudenza, “le disposizioni dello statuto e dell’atto costitutivo di una persona giuridica hanno natura negoziale e sono regolate dai principi generali del negozio giuridico, salve le deroghe imposte dai particolari caratteri propri del contratto di associazione” (o dell’atto di fondazione) (Cass. 13-1-1976, n. 89). Così, per l’applicabilità dei criteri di cui agli artt. 1362 ss. all’interpretazione dello statuto (nel caso di specie, di una fondazione), Cass. 4-7-2017, n. 16409. 24 Il contratto associativo si caratterizza per essere le prestazioni degli associati “dirette al perseguimento di uno scopo collettivo, da realizzarsi attraverso lo svolgimento, in comune, di un’attività, ogni contraente trovando il corrispettivo della propria prestazione nella partecipazione al risultato a cui tende l’intera associazione” (Cass. 26-7-2007, n. 16600). 25 Secondo Cass. 9-11-1979, n. 5770, lo svolgimento di “attività imprenditoriale accessoria e strumentale rispetto alle finalità istituzionali dell’ente” non comporta per l’associazione o la fondazione l’assunzione della “qualifica di imprenditori”. Una simile impostazione è ritenuta applicabile anche all’associazione non riconosciuta da Cass. 8-3-2013, n. 5836, ove si sottolinea, al riguardo, il carattere necessariamente “non prevalente”

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contrario, l’associazione, assumendo carattere imprenditoriale, sarà assoggettata a tutte le norme che disciplinano l’impresa commerciale (svolta in forma collettiva) e, in particolare, esposta al fallimento. L’art. 13 D.P.R. 361/2000 attualmente richiede, ai fini del riconoscimento, solo che lo scopo dell’ente sia possibile e lecito (oltre che l’adeguatezza del patrimonio alla realizzazione dello scopo). Si discute se, con ciò, si sia inteso escludere una necessaria apprezzabilità, sul piano sociale, dello scopo, prima diffusamente ritenuta costituire condizione necessaria per il riconoscimento dell’ente 26. Elementi costitutivi dell’associazione riconosciuta – che valgono a delineare quello che si tende ad identificare come il substrato sostanziale dell’ente – sono altresì l’elemento patrimoniale (patrimonio) e l’elemento personale (persone). Secondo l’impostazione corrente, nell’associazione il rapporto tra questi due elementi si atteggerebbe in modo tale da conferire prevalenza al profilo personale su quello patrimoniale: sarebbe proprio questo, in effetti, il principale tratto distintivo tra l’associazione (universitas personarum) e la fondazione, in cui si ritiene prevalere, piuttosto, l’elemento patrimoniale (universitas bonorum). Perché l’associazione ottenga il riconoscimento, la relativa dotazione patrimoniale, come già rilevato, deve essere adeguata alla realizzazione dello scopo (art. 13 D.P.R. 361/2000). In altre parole, gli associati, all’atto della costituzione dell’ente, devono contribuire alla formazione del patrimonio, che garantirà all’ente i mezzi economici per lo svolgimento della propria attività (assicurando anche la necessaria provvista in seguito). Ciò non esclude che alla formazione del patrimonio dell’ente possano contribuire anche soggetti che non rivestano la qualità di associati, mediante sovvenzioni ed altre forme di finanziamento. Si è avuto modo di sottolineare l’importanza dell’elemento personale. In effetti, l’associazione non solo nasce per volontà degli associati, che ne determinano le caratteristiche, ma perviene alla formazione delle proprie determinazioni volitive sempre attraverso l’attività degli associati stessi, i quali, a tal fine, si riuniscono nell’assemblea. Di qui il diffuso rilievo del carattere interno, nelle associazioni, della volontà (in contrapposizione al carattere esterno dell’elemento volitivo nelle fondazioni, in quanto promanante, una volta per tutte, dal fondatore). L’assemblea è l’organo sovrano dell’associazione, all’interno del quale trova espressione la volontà dell’ente stesso. L’assemblea, alla quale hanno diritto di partecipare tutti dell’attività economica svolta e l’assenza “di una comune volontà di ripartire gli utili fra i soci”. Più rigorosa sembra la posizione assunta, in altra ipotesi, dalla Cassazione (11-9-1997, n. 8963), per cui l’associazione “può essere costituita per vari scopi, culturali, sociali, ricreativi, ecc., ma esclude istituzionalmente tra i suoi fini l’esercizio di attività commerciale” (tale essendo anche quella – nel caso concreto propria di un’associazione di produttori ortofrutticoli – che pur “senza perseguire la realizzazione di profitti in proprio”, intenda garantire “migliori condizioni di mercato per l’espletamento dell’attività dei suoi membri”). 26 È da tenere anche presente come, secondo la ricostruzione più tradizionale (ma non sempre aderente alla realtà attuale dei fenomeni in esame, come dimostra, in particolare, l’associazionismo nel c.d. “terzo settore”, quale configurato alla luce degli artt. 4 e 5 D.Lgs. 117/2017, ove si allude indistintamente alla finalizzazione degli enti ivi disciplinati all’esercizio di “attività di interesse generale per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale”), uno dei tratti distintivi dell’associazione dalla fondazione si ritenga essere rappresentato dal carattere interno dello scopo nelle prime (in quanto destinate a realizzare interessi degli associati) ed esterno nelle seconde (in quanto destinate a soddisfare interessi dei soggetti cui si rivolge l’attività dell’ente).

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gli associati, adotta le decisioni di maggior rilievo relative all’associazione, fino, addirittura, al mutamento dello scopo dell’ente o, eventualmente, allo scioglimento. Proprio in considerazione dell’essenzialità dell’organo assembleare (e delle sue attribuzioni) nella struttura associativa, si ritiene che in nessun caso lo statuto possa comprimere le fondamentali competenze dell’assemblea, attribuendole ad altro organo (amministratori) o a soggetti terzi. L’assemblea deve essere convocata dagli amministratori almeno una volta l’anno per l’approvazione del bilancio, nonché quando se ne ravvisi la necessità o quando ne sia fatta richiesta motivata da almeno un decimo degli associati (art. 20) 27. La determinazione volitiva adottata dall’assemblea viene definita deliberazione. La deliberazione, secondo l’opinione prevalente, è atto collegiale (II, 5.7), avente natura negoziale: alla stessa si applicano, quindi, in quanto compatibili, le norme dettate in materia di contratto. La deliberazione viene adottata dall’assemblea secondo il principio maggioritario. Le maggioranze richieste per l’approvazione della delibera variano a seconda dell’importanza della delibera medesima. La regola generale è che le deliberazioni dell’assemblea sono prese a maggioranza di voti e con la presenza di almeno la metà degli associati; qualora non si raggiunga il quorum richiesto, l’assemblea viene convocata nuovamente (seconda convocazione) e la deliberazione è valida qualunque sia il numero degli intervenuti (art. 211). Per le modifiche dell’atto costitutivo e dello statuto, salvo diversa disposizione statutaria, occorre la presenza di almeno i tre quarti degli associati ed il voto favorevole della maggioranza dei presenti (art. 212). Per deliberare lo scioglimento anticipato dell’associazione e la devoluzione del patrimonio, è necessario, addirittura, il voto favorevole di almeno tre quarti degli associati (art. 213). All’assemblea competono, poi, le deliberazioni relative alla responsabilità degli amministratori per fatti da loro compiuti (art. 22) e alla esclusione dell’associato (art. 243). Si ricordi che le deliberazioni dell’assemblea comportanti modificazioni dell’atto costitutivo e dello statuto devono – con efficacia costitutiva – essere iscritte nel registro delle persone giuridiche, essendo da approvare con le modalità e nei termini previsti per l’acquisto della personalità giuridica (art. 2 D.P.R. 361/2000). Può accadere che le determinazioni volitive dell’assemblea siano contrarie alla legge, all’atto costitutivo o allo statuto. In tal caso, le stesse sono annullabili su istanza degli organi dell’ente, di qualunque associato o del pubblico ministero (art. 231) 28. Per esigenze di tutela dell’affidamento dei terzi, l’art. 232 dispone che l’annullamento della deliberazione non pregiudica i diritti acquistati dai terzi di buona fede, in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione medesima 29. 27 Ai sensi dell’art. 8 disp. att. c.c., la convocazione dell’assemblea deve farsi nelle forme stabilite dallo statuto e, se questo non dispone, mediante avviso personale che deve contenere l’ordine del giorno degli argomenti da trattare. 28 Si è precisato (Cass. 10-4-2014, n. 8456) che a tale disciplina restano estranee le decisioni concernenti l’esclusione del singolo associato, in relazione alle quali “l’azione è esperibile esclusivamente dall’interessato” (secondo il regime di cui all’art. 243). 29 È riconosciuto all’autorità giudiziaria il potere di sospendere, su istanza di colui che ha proposto l’impugnazione della deliberazione e sentiti gli amministratori, l’esecuzione della deliberazione impugnata, quando sussistono gravi motivi (art. 233). L’esecuzione delle deliberazioni contrarie all’ordine pubblico o al buon costume può essere sospesa anche dall’autorità governativa (art. 234). Si ricordi che l’art. 5 D.P.R. 361/2000

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L’altro organo dell’associazione è quello amministrativo, che può essere monocratico (amministratore unico) o collegiale (consiglio di amministrazione). L’organo amministrativo ha il compito di gestire le risorse dell’associazione, di rappresentare l’ente nei confronti dei terzi e, più in generale, di porre in essere tutti gli atti necessari allo svolgimento della vita dell’ente e alla realizzazione del suo scopo. Secondo la regola posta dall’art. 18, gli amministratori sono responsabili verso l’ente secondo le regole del mandato (artt. 1703 ss.) (in particolare, essi devono eseguire il proprio incarico con la diligenza del buon padre di famiglia). La circostanza che l’art. 18 rinvii alle norme dettate in tema di mandato non vale ad individuare negli amministratori una sorta di mandatari dell’ente. Ben più ampie risultano, infatti, le attribuzioni dell’organo amministrativo rispetto a quelle del mandatario: il rinvio intende solo richiamare le norme del mandato in tema di responsabilità, per estenderle all’attività degli amministratori, senza con ciò volere equiparare la figura dell’amministratore a quella del mandatario. È importante sottolineare come sia esente da responsabilità quello degli amministratori il quale non abbia partecipato all’atto che ha causato il pregiudizio, salvo il caso in cui, essendo a conoscenza che l’atto si stava per compiere, egli non abbia fatto constare del proprio dissenso. Quanto all’attività rappresentativa, si è già avuto modo di esaminare il carattere peculiare della c.d. rappresentanza organica (IV, 3.6). L’art. 19 stabilisce che le limitazioni del potere di rappresentanza, che non risultino dal registro delle persone giuridiche, non possono essere opposte ai terzi, salvo che si provi che essi ne erano a conoscenza. La norma – comunque da ritenersi ancora attualmente operante, nonostante l’avvenuta abrogazione (ai sensi dell’art. 111 D.P.R. 361/2000) dell’art. 342, con cui originariamente pure si coordinava – intende bilanciare l’interesse dell’ente alla caducazione dell’atto posto in essere dall’amministratore, ove risulti esorbitante rispetto ai poteri attribuitigli, con la protezione dell’affidamento incolpevole che il terzo abbia fatto sui poteri e sulla legittimazione dell’amministratore. Per effetto della partecipazione al contratto associativo o per effetto della successiva adesione all’ente, il soggetto acquista lo stato di associato, dal quale derivano diritti e obblighi intimamente connessi all’attività dell’ente e, quindi, alla realizzazione degli interessi perseguiti dal gruppo degli associati. Lo statuto dell’ente deve indicare con chiarezza quali siano i diritti e gli obblighi derivanti dalla situazione di associato, nonché le condizioni dell’ammissione degli associati all’ente (art. 161). L’art. 1332, norma caratteristica dei contratti aperti all’adesione di altre parti, dispone che l’adesione al contratto (e, quindi, anche a quello associativo) deve essere diretta all’organo che sia stato costituito per l’attuazione del contratto o, in mancanza di esso, a tutti i contraenti originari. La qualità di associato conferisce al medesimo il diritto di prendere parte all’attività dell’ente. Si è già sottolineato, in effetti, che l’aggregazione in gruppi da parte dei consociati consente di perseguire interessi che, altrimenti, l’attività del singolo sarebbe inidonea a realizzare. In questa prospettiva vanno intesi il diritto dell’associato di partecipare all’assemblea e quello, strettamente connesso, di contribuire, mediante il voto, alla formazione della volontà dell’associazione. Quanto agli obblighi, il principale è di natura demanda l’esercizio delle funzioni amministrative (e, quindi, anche l’esercizio dei poteri di controllo) precedentemente attribuite all’autorità governativa alle prefetture (ovvero alle regioni o province autonome) competenti.

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patrimoniale e consiste nell’apporto, cui l’associato è tenuto in vista della formazione del patrimonio dell’ente. Tale conferimento può essere iniziale o (in aggiunta o esclusivamente) periodico (generalmente consistente in una somma di denaro: c.d. quota associativa). È essenziale sottolineare che gli associati, i quali abbiano esercitato il diritto di recesso o siano stati esclusi, non possono ripetere i contributi versati, né vantano diritti sul patrimonio dell’associazione (art. 244): questa costituisce una delle differenze più rilevanti dell’associazione rispetto all’ente di tipo societario, nel quale, in considerazione della finalità lucrativa istituzionalmente caratterizzante la sua partecipazione, il socio ha diritto alla liquidazione della propria quota in dipendenza della cessazione del rapporto sociale 30. La qualità di associato, salvo che l’atto costitutivo o lo statuto non dispongano diversamente, è intrasmissibile (art. 241). Quanto al recesso, consistente nello scioglimento del rapporto associativo per volontà dell’associato, l’art. 242 dispone che l’associato può sempre recedere dall’associazione. Tale regola appare ispirata al principio secondo cui la libertà di associazione, garantita e tutelata dall’art. 18 Cost., comprende anche la libertà di liberarsi unilateralmente dal vincolo associativo 31. La dichiarazione di recesso deve essere comunicata per iscritto agli amministratori e ha effetto con lo scadere dell’anno in corso, purché sia fatta almeno tre mesi prima. Con riguardo, poi, all’esclusione, l’art. 243 pone la regola secondo cui la esclusione di un associato non può essere deliberata dall’assemblea che per gravi motivi. Contro la delibera di esclusione, l’associato può ricorrere all’autorità giudiziaria entro sei mesi dal giorno in cui gli è stata notificata la deliberazione di esclusione 32. La disposizione ora menzionata, quindi, individua nell’esclusione dell’associato un carattere di eccezionalità, col riferimento ai gravi motivi che devono necessariamente essere alla base della relativa delibera: l’interesse tutelato dal legislatore è quello dell’asso30 Non si manca di sottolineare che “l’assenza di qualunque diritto da parte dell’associato, nel caso di recesso o di esclusione dalla stessa associazione, ad avere rimborsato, pro quota, parte del patrimonio associativo”, si riconnette alla “ratio e finalità non lucrativa dell’associazione stessa” (così, ad es., Trib. Ascoli Piceno 22-6-2016). 31 Quale eccezione al principio della libertà di recedere dall’associazione in ogni momento, è consentito all’associato assumere l’obbligo di farne parte per un tempo determinato. Secondo Cass. 14-5-1997, n. 4244, tuttavia, anche qualora l’associato abbia assunto l’obbligo di far parte dell’associazione per un tempo determinato, resterebbe comunque salvo il suo diritto di recedere per giusta causa: quando, cioè, il perdurare del vincolo associativo possa comportare una violazione della libertà del singolo, senza che ciò venga ragionevolmente richiesto dalla tutela della “libertà degli altri partecipi di svolgere la loro attività nell’organizzazione associativa … fidando nella relativa stabilità organizzativa”. Sempre nella prospettiva di garantire l’effettivo esercizio del diritto di recesso, si ritiene che lo stesso non possa essere reso eccessivamente gravoso per l’associato. Per Cass. 9-5-1991, n. 5191, sono da reputarsi nulle quelle clausole dello statuto “che escludano o rendano oneroso in modo abnorme il recesso”, in quanto lesive del “principio costituzionale della libertà di associazione” (e v. anche Cass. 11-11-2015, n. 23098, con riferimento alle associazioni non riconosciute). Che la libertà di recedere dall’ambito associativo costituisca “principio” che “certamente investe anche le associazioni religiose”, sottolinea Cass. 13-4-2017, n. 9561, la quale richiama pure l’art. 19 Cost. 32 Ai fini del relativo annullamento, il giudice – cui si ritiene attribuito un sindacato non di merito, ma di “legittimità sostanziale” (Cass. 4-9-2004, n. 17907) – non può “valutare l’opportunità intrinseca della deliberazione stessa”, dovendo limitarsi ad accertare “se si sia avverata in concreto una delle ipotesi previste dalla legge e dall’atto costitutivo per la risoluzione del singolo rapporto associativo” (Cass. 9-5-1991, n. 5192). All’associato illegittimamente escluso (“in assenza di gravi motivi”), è stata riconosciuta la possibilità di conseguire il risarcimento del danno (Cass. 29-7-2016, n. 15784).

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ciato a che la permanenza del proprio vincolo associativo non sia fatta dipendere da una scelta arbitraria dell’assemblea. Nella inderogabilmente riconosciuta possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria avverso la delibera di esclusione si trova conferma, del resto, del principio costituzionale secondo cui tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti (art. 241 Cost.).

9. Associazione non riconosciuta. – Si è già avuto modo di accennare (IV, 3.2) al processo evolutivo che ha condotto al superamento dell’originaria rigida dicotomia di persona fisica e persona giuridica, con l’affermazione del concetto di soggettività giuridica, tale da ricomprendere anche quegli enti che, pur privi del formale riconoscimento da parte dell’ordinamento giuridico, siano considerati quali centri di imputazione di situazioni giuridiche, distinti dai membri che ne fanno parte. Restando al campo degli enti disciplinati nel libro I del codice civile (con esclusione, quindi, dei fenomeni di esercizio associato dell’impresa), deve ribadirsi come oggi, alla luce dei mutamenti verificatisi nella disciplina della materia, la distanza tra associazioni riconosciute ed associazioni non riconosciute si sia drasticamente ridotta. Sotto il profilo della capacità patrimoniale, ormai, non sussiste più quel differente trattamento normativo che, in passato, poteva decisamente incentivare gli interessati ad optare per l’attribuzione della personalità giuridica: l’abrogazione degli artt. 600 e 786 (IV, 3.5) ha rappresentato l’ultimo importante passo compiuto dal legislatore nella direzione del progressivo accostamento dell’associazione non riconosciuta a quella riconosciuta. Come si è accennato e meglio si vedrà, l’unica differenza sostanziale che vale a distinguere in termini di disciplina applicabile l’associazione non riconosciuta dall’associazione riconosciuta è oggi, in effetti, da individuarsi nel diverso grado di autonomia patrimoniale. Va rilevato che, nella prassi, il modello dell’associazione non riconosciuta ha assunto, continua ad assumere e, con buona probabilità, continuerà ad assumere un ruolo di assoluta centralità nel complesso mosaico delle formazioni sociali – cui fa esplicito riferimento l’art. 2 Cost. – all’interno delle quali si svolge la personalità dell’uomo 33. Introdotta nel codice civile vigente per la regolamentazione di realtà associative di portata limitata (quali associazioni sportive, culturali e simili), la normativa dettata in materia di associazioni non riconosciute negli artt. 36-38 ha mostrato, così, la sua inadeguatezza. Ciò soprattutto in vista della disciplina di quelle fondamentali formazioni sociali (e si pensi, in particolare, ai partiti e ai sindacati, quali realtà associative di rilevanza costituzionale), che nello schema dell’associazione non riconosciuta hanno finito col trovare il proprio inquadramento giuridico. La tipologia delle associazioni non riconosciute appare assai variegata. Si pensi, al riguardo, alla semplice struttura che può assumere un’associazione con finalità ricreative per gli associati, rispetto alla complessità delle associazioni sindacali e dei partiti, quale immediata conseguenza dell’importante ruolo economico-sociale e politico-istituzionale ricoperto dai medesimi nella società contemporanea. In relazione ai sindacati, in parti33 E ciò anche in dipendenza dell’atteggiamento del legislatore, il quale sembra sempre più propenso a dettare una disciplina calibrata più sugli scopi che sulle forme in cui si esprime il fenomeno dell’associazionismo (IV, 3.13).

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colare, pare significativo osservare come sia andata disattesa la previsione dell’art. 39 Cost., che contemplava l’attribuzione ad essi della personalità giuridica, con un modello di riconoscimento basato sul meccanismo della registrazione, condizionata al riscontro della sussistenza di un “ordinamento interno a base democratica”. Le associazioni sindacali hanno, evidentemente, preferito assumere e mantenere la forma dell’associazione non riconosciuta proprio per sottrarsi ai controlli (iniziali e successivi) conseguenti ad un simile riconoscimento. Ciò induce ad identificare, in via generale, oltre che nella libertà delle forme costitutive e nella maggiore duttilità della struttura organizzativa, appunto nell’assenza dei controlli previsti per l’associazione riconosciuta il motivo che ha indotto (e induce) a privilegiare il ricorso alla forma dell’associazione non riconosciuta 34. Il troppo esiguo materiale normativo contenuto nei ricordati articoli del codice è stato necessariamente integrato in via interpretativa. E, onde ritenere applicabile alle associazioni non riconosciute la ben più articolata disciplina dettata con riferimento alle associazioni riconosciute, decisiva è risultata la valorizzazione di quella loro identità strutturale, che inevitabilmente sembra conseguire all’unitario fondamento costituzionale del fenomeno associativo negli artt. 2 e 18 Cost. (in quanto apprezzato – ovviamente nei limiti della sua liceità, ai sensi dell’art. 182 Cost. – quale fattore essenziale di potenziamento della personalità degli associati). Proprio alla luce di ciò, non si è mancato, ai fini di una simile integrazione, di proporre diffusamente il ricorso all’applicazione, piuttosto che attraverso lo strumento dell’analogia (ai sensi, cioè, dell’art. 122 disp. prel. c.c.), in via diretta (quale esito, insomma, di interpretazione estensiva) delle disposizioni dettate in materia di associazioni riconosciute 35. Né c’è da meravigliarsi, allora, che tale prospettiva sia stata decisamente privilegiata quando il ricorso alla disciplina relativa a queste ultime abbia avuto quale dichiarato obiettivo un’adeguata tutela dell’associato all’interno del gruppo contro eventuali prevaricazioni nei suoi confronti. Anche l’associazione non riconosciuta, al pari di quella riconosciuta, nasce per contratto (contratto associativo). Vale, pertanto, pure al riguardo, quanto già osservato in relazione alla struttura aperta ed ai caratteri fondamentali di tale contratto (IV, 3.8). Una importante differenza deve essere registrata, peraltro, sotto il profilo della forma: la costituzione dell’associazione non riconosciuta non è soggetta a nessuna forma particolare 36, 34

Circa l’articolazione strutturale di simili enti, si tende a ritenere che “le associazioni locali di un’associazione avente carattere nazionale” non siano “organi di quest’ultima”, ma siano “dotate di autonoma legittimazione negoziale e processuale” (Cass. 10-10-2013, n. 23088). Si tenga presente che, con il D.L. 28.12.2013, n. 149, conv. con L. 21.2.2014, n. 13, i benefici economici previsti per i partiti sono stati espressamente condizionati all’essersi essi dotati di uno statuto contemplante una serie di elementi denotanti l’“osservanza dei principi fondamentali di democrazia”. “Le formazioni e associazioni politiche” e “i sindacati”, comunque, sono stati esclusi, ai sensi dell’art. 32 D.Lgs. 117/2017, dalla sfera di applicazione della disciplina dettata, in generale, per gli enti del “terzo settore” (IV, 3.13). 35 Corrente, comunque, resta l’affermazione per cui all’associazione non riconosciuta “sono analogicamente applicabili, in mancanza di diversa previsione di legge o degli accordi associativi, le norme stabilite in materia di associazioni riconosciute”: ad es., Cass. 23-1-2007, n. 147, che allarga la portata del riferimento anche alle nome in tema di società (nel caso di specie, trattandosi di “unificazioni di due associazioni non riconosciute”, quelle sulla fusione); non diversamente, più di recente, Cass. 30-9-2019, n. 24214. 36 L’applicazione del principio di libertà della forma all’atto costitutivo dell’associazione non riconosciuta è stato chiaramente affermato da Cass. 30-10-1975, n. 3693, secondo cui, appunto, “la costituzione di un’associazione

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salva la forma eventualmente richiesta dalla legge ai fini della validità dei singoli apporti degli associati. Così, ad es., solo se uno degli associati intendesse aderire all’associazione, contestualmente apportando all’ente un bene immobile, sarà necessaria la forma scritta, richiesta per gli atti aventi ad oggetto il trasferimento di beni immobili o la costituzione di diritti reali immobiliari. Quanto al profilo organizzativo-strutturale, nell’associazione non riconosciuta esso, in linea di massima, non diverge rispetto a quello dell’associazione riconosciuta, con particolare riferimento alla dialettica tra assemblea e organo amministrativo 37. È riconosciuto agli associati dal legislatore, peraltro, un maggiore margine di autonomia nella scelta delle regole disciplinanti l’ordinamento interno dell’ente. Ai sensi dell’art. 361, infatti, l’ordinamento interno e l’amministrazione delle associazioni non riconosciute come persone giuridiche sono regolati dagli accordi degli associati 38. Comunque, proprio in considerazione della identità strutturale con l’associazione riconosciuta, si ritiene che all’associazione non riconosciuta, come dianzi accennato, siano senz’altro applicabili quelle norme dettate in tema di associazioni riconosciute che risultino atte a qualificare imprescindibilmente il modello associativo in quanto tale. L’autonomia statutaria trova, così, limiti di rilievo soprattutto quando in gioco sia la tutela dell’associato – proprio in vista del contributo allo sviluppo della cui personalità, non si dimentichi, trova riconoscimento costituzionale il fenomeno associativo – all’interno del gruppo 39. non riconosciuta, così come la successiva adesione all’associazione medesima, non è soggetta per legge ad alcuna forma particolare, la quale, pertanto, può essere prescritta solo in forza di espresso accordo degli associati”. 37 La necessaria presenza dell’assemblea, quale organo sovrano dell’associazione non riconosciuta non sembra posta in dubbio dalla giurisprudenza. In tal senso, si è chiaramente pronunciata Cass. 10-7-1975, n. 2714, per la quale, “nonostante la disposizione contenuta nell’art. 36 cod. civ., secondo cui le associazioni non riconosciute sono regolate dagli accordi degli associati”, “la struttura organizzativa non sembra poter prescindere dalla esistenza, accanto agli organi esecutivo e rappresentativo, di un organo deliberante (assemblea) formato da tutti i membri od associati”. Alla luce dell’accennata prospettiva di integrazione, in via interpretativa, della disciplina specificamente dettata in materia, al silenzio, al riguardo, dell’atto costitutivo, “sopperiscono le norme che disciplinano le persone giuridiche in genere, e le associazioni riconosciute in particolare, e quindi, nella specie, gli artt. 20 e 21 cod. civ.”. 38 Circa la notevole ampiezza riconosciuta agli accordi in questione, precisa, ad es., Cass. 2-2-2018, n. 2575, che essi “ben possono attribuire all’associazione la legittimazione a stipulare contratti e ad acquistare la titolarità di rapporti, poi delegati ai singoli aderenti e da essi personalmente curati” (con riferimento ad un’associazione di carattere professionale). L’art. 362 prevede – con ciò attribuendo loro una piena capacità in campo processuale, quale espressione di soggettività giuridica – che le associazioni non riconosciute possono stare in giudizio nella persona di coloro ai quali, secondo questi accordi, è conferita la presidenza o la direzione. 39 Significativa si presenta l’esperienza giurisprudenziale relativa all’art. 24, concernente il recesso e l’esclusione degli associati, proprio in relazione al quale Cass. 14-5-1997, n. 4244, ha sottolineato che “poiché il riconoscimento dell’associazione come persona giuridica non incide sulla natura giuridica della qualità di associato … si ritiene applicabile, quanto meno analogicamente, la disciplina dell’art. 24 cod. civ., specificamente dettata per le associazioni riconosciute”. La giurisprudenza, così, si è costantemente orientata ad estendere le garanzie previste dall’art. 243 in ordine alla esclusione dell’associato (anche in via cautelare: Trib. Genova 10-4-2017), in particolare affermando – pur nel quadro di quella maggiore autonomia statutaria dell’associazione non riconosciuta, che consente l’attribuzione della “potestà deliberativa in punto di esclusione del socio ad organo diverso dall’assemblea” (v. pure Trib. Mantova 12-6-2007 e Trib. Napoli 14-7-2016, in cui si definisce, con riguardo ad una formazione politica, la portata dell’autonomia statutaria in materia e le conseguenze dell’operatività, nel caso di specie, dell’art. 243; per la validità di clausola statutaria che attribuisca al capo

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PARTE IV – SOGGETTI

L’elemento patrimoniale dell’associazione non riconosciuta è rappresentato dal fondo comune, costituito dai contributi degli associati e dai beni acquistati con i contributi. Il fondo comune appartiene non in comunione agli associati, come si riteneva in passato (e potrebbe indurre a pensare la relativa denominazione, appunto retaggio di passate concezioni), bensì all’ente non riconosciuto, secondo la già sottolineata tendenza ad individuare in quest’ultimo un vero e proprio soggetto di diritto, distinto dagli associati. Nonostante la diversa (e peculiare) espressione impiegata dal legislatore per identificare l’elemento patrimoniale dell’associazione non riconosciuta, il fondo comune si presenta, insomma, come pienamente assimilabile al patrimonio dell’associazione riconosciuta. Anche in tale prospettiva, appare condivisibile, allora, la tendenza a considerare sussistente una identità strutturale dell’associazione non riconosciuta rispetto all’associazione riconosciuta, le quali differirebbero, quindi, non sotto il profilo strutturale, bensì solo in considerazione della presenza o meno del riconoscimento formale da parte dell’ordinamento giuridico (con i limitati riflessi che si vedranno). La separazione del patrimonio dell’associazione da quello degli associati risulta, del resto, evidenziata dal principio secondo cui, finché l’associazione non riconosciuta dura, i singoli associati non possono chiedere la divisione del fondo comune, né pretendere la quota in caso di recesso (art. 37). Superate sono, da tempo, le remore nei confronti della possibile titolarità, da parte delle associazioni non riconosciute, di diritti reali immobiliari: ciò specialmente a seguito della L. 27.2.1985, n. 52, che, modificando l’art. 26591, n. 1, ne ha senz’altro consentito la trascrivibilità a loro favore (IV, 3.5). Remore tradizionalmente connesse all’art. 17 e al regime autorizzatorio ivi stabilito per gli acquisti di immobili da parte degli enti riconosciuti (oltre che per l’acquisizione di attribuzioni testamentarie e di donazioni: regime venuto meno con l’art. 13 L. 15.5.1997, n. 127). Lo stesso legislatore ha, poi, portato a compimento il processo di superamento delle residue discriminazioni, sul piano patrimoniale, nei confronti degli enti non riconosciuti rispetto a quelli riconosciuti, con l’abrogazione (art. 11 L. 22.6.2000, n. 192), in particolare, degli artt. 600 e 786, che subordinavano al riconoscimento la possibilità, per l’ente, di conseguire attribuzioni testamentarie e donazioni 40. politico ampi poteri valutativi, Trib. Roma 19-2-2018) – “il principio dell’invalidità della clausola statutaria comportante l’esclusione ad nutum dell’iscritto”, della clausola, cioè, che “non subordina all’esistenza di gravi motivi il potere di esclusione del socio e non imponga la preventiva formale contestazione degli addebiti” (Trib. Torino 15-2-1996, che si richiama, in proposito, ai “diritti costituzionalmente sanciti dagli artt. 2, 18 e 24 della Costituzione”). Ciò per assicurare all’associato l’esercizio dell’insopprimibile diritto di difesa, anche attraverso l’eventuale ricorso all’autorità giudiziaria, ai fini della sospensione e dell’annullamento delle relative deliberazioni dell’assemblea, ai sensi dell’art. 23 (Trib. Bologna 6-5-1988, in cui l’intervento degli organi giurisdizionali a garanzia dei diritti inviolabili dell’associato concerne un organismo tradizionalmente refrattario ad ogni ingerenza esterna, come la Massoneria). La valutazione del giudice verterà sulla gravità dei fatti addebitati all’associato, “cioè se si sia avverata in concreto una delle ipotesi previste dalla legge e dall’atto costitutivo per la risoluzione del singolo rapporto associativo, prescindendo dall’opportunità intrinseca della deliberazione stessa” (Cass. 9-9-2004, n. 18186). 40 Notevole interesse presenta per la delineazione dell’iter che ha condotto all’affermazione della piena capacità patrimoniale degli enti non riconosciuti, prima dei citati radicali interventi legislativi, la decisione di Cass. 23-6-1994, n. 6032, che ha valorizzato, appunto, in ordine alla possibile titolarità di beni immobili da parte dell’ente non riconosciuto, l’intervento operato con la L. 27.2.1985, n. 52, nonché lo stesso testo dell’art. 37, “il quale non distingue tra mobili ed immobili a proposito dei beni con il cui acquisto si incrementa il patrimonio degli enti di fatto”.

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Quanto alla responsabilità per le obbligazioni assunte in nome e per conto dell’associazione non riconosciuta, si tratta del profilo che, attualmente, esaurisce, in sostanza, la diversità di trattamento normativo di quest’ultima rispetto al modello dell’ente riconosciuto. Per le obbligazioni assunte in rappresentanza dell’associazione non riconosciuta, infatti, i terzi possono far valere i loro diritti sul fondo comune; delle medesime obbligazioni, però, rispondono anche personalmente e solidalmente “le persone che hanno agito in nome e per conto dell’associazione” (art. 38). In ciò consiste il regime di autonomia patrimoniale imperfetta, che si contrappone a quello di autonomia patrimoniale perfetta, derivante dal riconoscimento dell’ente come persona giuridica (IV, 3.8). È importante sottolineare come il legislatore preveda, innanzitutto, la responsabilità dell’associazione non riconosciuta col suo patrimonio (il fondo comune). Ad essa affianca la responsabilità pure di coloro che hanno assunto l’obbligazione in nome e per conto dell’ente, che non è responsabilità per debito proprio, ma responsabilità per debito altrui (ovvero, dell’ente). Responsabilità, si badi bene, che viene addossata non agli associati in quanto tali, ma solo a chi abbia concretamente agito, di volta in volta, in rappresentanza dell’associazione non riconosciuta (e neppure, quindi, agli amministratori o rappresentanti istituzionali dell’ente solo per tale loro qualità) 41. Una simile forma di responsabilità (solidale e accessoria, ma non sussidiaria) 42 trova, e41 È questa una differenza sostanziale tra l’associazione non riconosciuta, quale ente non riconosciuto con scopo non lucrativo, e le società di persone, quali enti non riconosciuti, ma con scopo lucrativo. Nella società semplice, infatti, ferma la garanzia offerta ai creditori sociali dal patrimonio della società, per le obbligazioni sociali rispondono anche, personalmente e solidalmente, i soci che hanno agito in nome e per conto della società, nonché, salvo patto contrario, gli altri soci (art. 22671). Nella società in nome collettivo, invece, senz’altro tutti i soci rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali (art. 22911). 42 La giurisprudenza ribadisce che “la responsabilità solidale prevista dall’art. 38 c.c. per colui che ha agito in nome e per conto dell’associazione non riconosciuta non concerne, neppure in parte, un debito proprio dell’associato, ma ha carattere accessorio, anche se non sussidiario, rispetto alla responsabilità primaria dell’associazione stessa”: Cass. 6-8-2002, n. 11759; Cass. 24-10-2008, n. 25748, che sottolinea non essere una simile responsabilità “collegata alla mera titolarità della rappresentanza dell’associazione, bensì all’attività negoziale concretamente svolta per conto di essa e risoltasi nella creazione di rapporti obbligatori fra questa e i terzi” (analogamente, ad es., Cass. 25-8-2014, n. 18188 e Cass. 4-4-2017, n. 8752, con i conseguenti oneri probatori a carico dei terzi). Evidenzia la differenza, al riguardo, della posizione del legale rappresentante di una associazione non riconosciuta rispetto a quella del socio illimitatamente responsabile delle società di persone, Cass. 14-5-2019, n. 12714. Per le obbligazioni tributarie, peraltro, si precisa che, in quanto derivanti ex lege, “sia chiamato a risponderne solidalmente il soggetto che, in forza del ruolo rivestito, abbia diretto la gestione complessiva dell’associazione” (Cass. 15-10-2018, n. 25650 e Cass. 22-1-2019, n. 1602, che parla, al riguardo, di “un principio di presunzione”; ciò, ovviamente, “nel solo periodo di relativa investitura”: Cass. 24-2-2020, n. 4747). Alla configurazione dell’ente – cui da tempo è pervenuta esaminando la problematica in questione la Cassazione (26-2-1985, n. 1655) – quale “centro di imputazione di situazioni giuridiche del tutto distinto ed autonomo rispetto ai rapporti inerenti alla sfera giuridica propria degli associati” (come soggetto, cioè, considerato titolare di un proprio patrimonio, con cui rispondere dell’adempimento delle proprie obbligazioni, ai sensi dell’art. 27401), si ricollega la ricostruzione per cui l’obbligazione, avente natura solidale (come accennato, di carattere accessorio, ma non sussidiario), di chi ha agito risulta inquadrabile “tra quelle di garanzia ex lege, assimilabili alla fideiussione” (con conseguente applicabilità, in particolare, del regime dell’art. 1957). Cass. 29-12-2011, n. 29733, poi, sottolinea che, fondandosi la responsabilità personale di chi abbia agito in nome e per conto dell’associazione sulla “esigenza di tutela dei terzi che, nell’instaurazione del rapporto negoziale, abbiano fatto affidamento sulla solvibilità e sul patrimonio dei detti soggetti”, non può “il semplice avvicendamento nelle cariche sociali comportare alcun fenomeno di successione del debito in capo al soggetto subentrante, con l’esclusione di quello che aveva in origine contratto l’obbligazione”. L’art. 6 bis L. 3.6.1999, n. 157 (aggiunto dal D.L. 30.12.2005, n. 273, convertito nella L. 23.2.2006, n. 51) ha disposto,

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PARTE IV – SOGGETTI

videntemente, la sua razionale giustificazione nell’assenza di controlli sull’associazione non riconosciuta (specificamente concernenti, già ai fini del riconoscimento, come accennato, proprio l’adeguatezza del patrimonio dell’ente rispetto allo scopo che lo caratterizza: IV, 3.4) e, di conseguenza, nello scarso affidamento che i terzi possono fare sulla sua consistenza patrimoniale (anche per il non assoggettamento dell’ente a forme di pubblicità legale): il carattere imperfetto dell’autonomia patrimoniale dell’ente finisce, insomma, col rappresentare la contropartita cui deve sottostare chi voglia evitare i controlli dell’autorità competente (ed il regime di pubblicità), in sede di riconoscimento e successivamente.

10. Fondazione. – Il connotato peculiare della figura della fondazione viene tradizionalmente individuato nel risultare essa un complesso di beni destinato alla realizzazione di un determinato scopo, prefissato dal fondatore. Quello tenuto presente dal nostro legislatore è il modello della c.d. fondazione erogatrice, essenzialmente caratterizzato dall’attività di gestione di un patrimonio, al fine, appunto, di erogarne le rendite secondo le direttive del fondatore (art. 161, ove si allude alla necessaria previsione dei criteri e modalità “di erogazione delle rendite”). Se l’associazione riconosciuta, come rilevato (IV, 3.8), rappresenta il paradigma dell’ente dotato di personalità giuridica (tanto da costituire l’indubbio punto di riferimento di numerose teorie della persona giuridica), diversamente stanno le cose in relazione alla fondazione, soprattutto in dipendenza della difficoltà di inquadrare con certezza, riguardo alla stessa, l’elemento personale: elemento, questo, reputato essenziale, secondo la concezione corrente, ai fini dell’individuazione di quel c.d. substrato materiale (IV, 3.2), che della persona giuridica si ritiene costituire base imprescindibile. In effetti, mentre le teorie più risalenti tendevano ad identificare l’elemento personale della fondazione addirittura nei beneficiari dell’attività della fondazione medesima, oggi esso risulta generalmente individuato nell’apparato amministrativo dell’ente, che consente lo svolgimento dell’attività, in vista della quale viene destinato il patrimonio da parte del fondatore. L’evoluzione concettuale dell’istituto ha favorito – pur non senza resistenze e dissensi 43 – la riconduzione dell’associazione e della fondazione nella comune categoria delle persone giuridiche, in quanto, appunto, anche nella fondazione si è avuto modo di evidenziare il ruolo di quell’apparato organizzativo che è caratteristico della nozione stessa di persona giuridica. La scelta del codice civile di racchiudere la disciplina delle associazioni e delle fondazioni nel medesimo capo II del titolo II del libro I (rubricato, significativamente, “Delle associazioni e delle fondazioni”) appare inequivocabile testimonianza di un simile processo evolutivo 44. Nonostante ciò, resta diffusa in dottrina l’affermasalvo che non abbiano agito con dolo o colpa grave, l’esonero degli amministratori dei partiti politici dalla responsabilità ex art. 38 (con una disposizione di “carattere evidentemente eccezionale”, quanto alla “individuazione dei soggetti che, pur avendo assunto obbligazioni in nome per conto del partito, sono esonerati dalla relativa responsabilità”: Cass. 23-6-2009, n. 14612). L’art. 38, comunque, viene ritenuto applicabile a “colui che agisca in nome e per conto di un gruppo parlamentare il quale … ha natura di associazione non riconosciuta” (Cass. 6-6-2014, n. 12817). 43 Giustificati anche dalla diversità, sul piano storico, oltre che dal punto di vista strutturale e funzionale, delle due figure: di origine romana l’associazione, di origine medioevale, invece, la fondazione. 44 La pur proposta separazione di disciplina tra le due figure è stata ritenuta inopportuna, “perché la maggior parte delle disposizioni è comune ai due tipi di persone giuridiche” (Relaz. cod. civ., n. 43).

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zione di una radicale differenziazione delle due figure, data la prevalenza, nella fondazione (universitas bonorum), al contrario di quanto si verifica nell’associazione (universitas personarum), dell’elemento patrimoniale sull’elemento personale. Pare, poi, importante sottolineare che, mentre l’ordinamento ammette, con riguardo all’ente di carattere associativo, la possibilità di dar vita anche ad associazioni non riconosciute quali persone giuridiche, per la fondazione analoga alternativa non risulta presa in considerazione da parte del legislatore. La fondazione, pertanto, può sussistere solo se riconosciuta 45, secondo le modalità contemplate nel D.P.R. 361/2000. In quanto necessariamente riconosciuta, essa risulterà sempre caratterizzata dall’autonomia patrimoniale perfetta, nel senso che delle obbligazioni assunte in nome e per conto dell’ente risponde soltanto questo col suo patrimonio. La fondazione è costituita con un negozio unilaterale (negozio di fondazione), posto in essere da un soggetto (fondatore), il quale crea l’ente in vista della realizzazione di uno scopo, all’uopo destinando una determinata quantità di beni, che andranno a costituire il patrimonio della fondazione stessa 46. Alla luce di quanto dianzi accennato, pare opportuno evidenziare come la fondazione, a differenza di quanto si verifica per l’associazione (giuridicamente esistente, quale associazione non riconosciuta, anche prima e indipendentemente dal riconoscimento), venga ad esistenza solo per effetto del riconoscimento. Il negozio di fondazione, quale atto costitutivo dell’ente, se compiuto in vita dal fondatore, deve rivestire la forma dell’atto pubblico (art. 141) 47; tuttavia, la fondazione può essere disposta anche con testamento (art. 142). Le regole disciplinanti la futura attività della fondazione sono contenute nello statuto, in cui devono essere indicati, in particolare, i criteri e le modalità di erogazione delle rendite (art. 161). L’art. 151, poi, disciplina l’ipotesi della revoca dell’atto costitutivo della fondazione: il negozio di fondazione può essere revocato dal fondatore fino a quando non sia intervenuto il riconoscimento, ovvero il fondatore non abbia fatto iniziare l’attività dell’opera da lui disposta. La facoltà di revoca non si trasmette agli eredi (art. 152). 45 Deve rilevarsi che, secondo parte della dottrina, l’assenza di una esplicita previsione normativa non sarebbe ostativa alla giuridica ammissibilità, nel nostro ordinamento, della figura della fondazione non riconosciuta (o fondazione di fatto). La giurisprudenza, tuttavia, sembra decisamente propendere per la soluzione negativa accennata nel testo (in questo senso, ad es., Trib. Napoli 26-6-1998). 46 In dottrina – anche se i due atti sono nella prassi contestuali e pacificamente considerati funzionalmente interdipendenti – si suole distinguere, pur con voci contrarie, il negozio di fondazione, che darebbe impulso alla costituzione dell’ente (con la relativa organizzazione), dal negozio di dotazione, di contenuto prettamente patrimoniale, mediante il quale il fondatore provvederebbe a fornire la massa patrimoniale necessaria all’attività dell’ente. La distinzione risulta accolta, ad es., da App. Ancona 14-4-2014, che reputa il (“collegato e accessorio”) negozio di dotazione integrare, ove “disposto per atto tra vivi … una vera e propria donazione”. Peraltro, Cass. 4-7-2017, n. 16409, sulla base della ravvisata “unitarietà dell’atto di fondazione”, in quanto, “ad un tempo, atto di disposizione patrimoniale … nonché atto di organizzazione della struttura”, prospetta il superamento di una simile distinzione, con le conseguenze di cui alla nota successiva. Cass. 8-10-2008, n. 24813, ha precisato, comunque, che “nell’ipotesi di fondazione istituita per testamento, non si applicano le disposizioni sull’accettazione con beneficio d’inventario delle eredità devolute alle persone giuridiche”. 47 Si è evidenziato che, anche con riferimento all’originario regime dell’art. 48 della legge notarile (L. 89/1913), poi modificato dalla L. 28.11.2005, n. 246, “l’atto pubblico costitutivo di una fondazione, avendo struttura di negozio unilaterale ed autonoma causa, consistente nella destinazione di beni per lo svolgimento in forma organizzata dello scopo statutario, non dà luogo ad un atto di donazione e non rientra, pertanto, fra gli atti per i quali è sempre necessaria la presenza di due testimoni” (Cass. 16409/2017).

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PARTE IV – SOGGETTI

Lo scopo della fondazione, stabilito dal fondatore e destinato a caratterizzare l’ente nell’arco della sua durata, deve necessariamente presentare carattere non lucrativo. L’art. 13 D.P.R. 361/2000 si limita a richiedere, ai fini del riconoscimento, che lo scopo dell’ente sia possibile e lecito (oltre che l’adeguatezza del patrimonio alla realizzazione dello scopo). È discussa, quindi, la persistente attualità della tradizionale impostazione, tendente ad individuare la pubblica utilità quale carattere necessario dello scopo della fondazione: per tale concezione, indiscutibilmente posta alla base della disciplina del codice in materia e con essa complessivamente coerente (onde la preferibilità della tesi della sua attualità, almeno fino alla eventuale riforma globale della disciplina del settore), il riconoscimento dovrebbe risultare comunque subordinato alla utilità, sul piano sociale, dello scopo perseguito dall’ente (si pensi alla ricerca scientifica, all’assistenza, alla promozione culturale, ecc.). Anche con riferimento alla fondazione, poi, vale quanto rilevato con riguardo all’associazione in ordine al carattere non lucrativo dello scopo: qualora la fondazione svolga, in concreto (e sia pure nel quadro del perseguimento del proprio scopo istituzionale, quale prefissato dal fondatore), a titolo prevalente o esclusivo, attività di tipo economico in forma d’impresa, essa sarà soggetta alle norme che disciplinano quest’ultima ed andrà soggetta, eventualmente, pure al fallimento. Non hanno avuto diffusione, nella prassi, le fondazioni di famiglia, menzionate dall’art. 283 e caratterizzate dall’essere “destinate a vantaggio soltanto di una o più famiglie determinate”. Esse, al pari di ogni altra fondazione, da costituire – secondo il modello avuto di mira dal nostro legislatore – con funzione erogatrice, dovrebbero comunque presentare, nella prospettiva accennata, uno scopo di utilità sociale (sia pure limitato agli appartenenti al gruppo), che non si esaurisca, cioè, nella mera conservazione di un patrimonio a vantaggio di determinate famiglie. Diversa è l’ipotesi in cui sia il legislatore a determinare lo scopo della fondazione, come è avvenuto nel caso delle fondazioni bancarie. Con la L. 30.7.1990, n. 218, fu disposta la trasformazione degli enti creditizi in società per azioni, con contestuale attribuzione del relativo pacchetto azionario, appunto, a fondazioni bancarie. Enti, questi, sostanzialmente destinati a limitare la propria attività alla gestione del pacchetto azionario in questione. Il D.Lgs. 17.5.1999, n. 153, con una disciplina su cui il legislatore non ha mancato d’incidere anche successivamente, ha previsto, poi, l’obbligo per le fondazioni bancarie di dismettere il pacchetto azionario di controllo, affermandone la natura di persone giuridiche private senza fine di lucro, dotate di piena autonomia statutaria e gestionale, con scopi di utilità sociale 48. Il legislatore ha dato vita, così, ad enti contraddistinti, in realtà, da tratti del tutto peculiari rispetto al modello della fondazione di diritto comune, data la rigorosa predeterminazione delle loro caratteristiche strutturali, nonché delle regole di relativo funzionamento. Indirizzo seguito, del resto, pure in materia di enti lirici, trasformati in fondazioni, definite di diritto privato, ma destinatarie anch’esse di una disciplina specifica assai rigida (D.Lgs. 29.6.1996, n. 367, D.Lgs. 23.4.1998, n. 134 e 48 Per la precisazione delle modalità della relativa attività istituzionale, con la scelta, nell’ambito dei settori ammessi, dei c.d. settori rilevanti, v. il D.M. 18.5.2004, n. 150, nonché, ora, l’art. 62 D.Lgs. 3.7.2017, n. 117. Si tenga presente che il D.Lgs 117/2017, da una parte, ha escluso l’applicabilità della relativa disciplina alle fondazioni bancarie (art. 33), dall’altra, le ha coinvolte nel sistema di finanziamento dei Centri di servizio per il volontariato (art. 62).

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D.L. 24.11.2000, n. 345, conv. con L. 26.1.2001, n. 6), nonché di fondazioni universitarie, anch’esse qualificate di diritto privato, disciplinate ai sensi dell’art. 593 L. 23.12.2000, n. 388 e dal D.P.R. 24.5.2001, n. 254. Si è già avuto modo di sottolineare la tradizionale importanza che, nella fondazione, viene attribuita all’elemento patrimoniale, rispetto all’elemento personale. In effetti, dal punto di vista storico, la fondazione risulta concepita essenzialmente quale patrimonio destinato ad uno scopo. Come in tema di associazione riconosciuta, ai sensi dell’art. 13 D.P.R. 361/2000, il patrimonio deve risultare adeguato alla realizzazione dello scopo dell’ente. Nella fondazione non è presente l’assemblea: manca, cioè, l’organo nel cui ambito, nell’associazione, si forma la volontà dell’ente. Tale rilevante differenza strutturale, rispetto all’ente del tipo associativo, si giustifica in considerazione del carattere peculiare del negozio di fondazione, mediante il quale è il fondatore a determinare, con tendenziale stabilità, i caratteri dell’attività che, in concreto, sarà svolta dall’ente. Nel modello codicistico, una volta che la fondazione sia venuta ad esistenza, il fondatore, in quanto tale, non potrà più incidere, con la sua volontà, sulla vita dell’ente, non potendo, in particolare, modificare lo scopo indicato nell’atto di fondazione – quale favorevolmente valutato col riconoscimento – e, di riflesso, influire sull’attività strumentale alla realizzazione dello scopo stesso 49. In conseguenza della rilevata assenza di un organo di tipo assembleare, nella fondazione pure il ruolo dell’organo amministrativo, per certi versi, appare diverso rispetto a quello rivestito dallo stesso organo all’interno dell’associazione (anche se la prassi mostra come le nette differenze che, sul piano concettuale, emergono dal confronto della fondazione con l’associazione tendano sovente ad affievolirsi). In primo luogo, gli amministratori, nella fondazione, non costituiscono emanazione della volontà assembleare e, come tali, la loro posizione non è intimamente connessa alle (e condizionata dalle) determinazioni degli associati: l’attività degli amministratori, nella fondazione, è vincolata solo al conseguimento dello scopo prefissato, in origine, dal fondatore. In secondo luogo, è proprio in considerazione della mancanza di quel dialogo tra assemblea ed amministratori, il quale si risolve in una istituzionale dialettica tra gli organi dell’associazione 50, che il legislatore prevede un penetrante regime di controllo – assai più esteso, cioè, che in materia di associazioni – della pubblica autorità sull’amministrazione delle fondazioni 51. L’art. 251 attribuisce, appunto, all’autorità amministrativa il controllo e la vi49 In proposito, tradizionalmente si contrappone, come accennato (IV, 3.8), al carattere interno della volontà nelle associazioni, quello esterno nelle fondazioni (in quanto promanante, una volta per tutte, dal fondatore). 50 Il diverso ruolo dell’organo amministrativo nella struttura dell’ente si ripercuote anche sulla disciplina applicabile: nell’associazione, l’azione di responsabilità contro gli amministratori viene deliberata dall’assemblea (art. 22); nella fondazione, l’azione di responsabilità contro gli amministratori viene autorizzata dall’autorità governativa (art. 253). 51 Si è già ricordato come, ai sensi dell’art. 5 D.P.R. 361/2000, le funzioni amministrative già attribuite all’autorità governativa siano, ora, esercitate dalle prefetture (o dalle regioni o dalle province autonome) competenti. Le funzioni in questione, relativamente alle fondazioni del Terzo settore sono esercitate, ai sensi dell’art. 90 del D.Lgs. 3.7.2017, n. 117, dall’Ufficio del Registro unico nazionale del Terzo settore (di cui al relativo art. 45).

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PARTE IV – SOGGETTI

gilanza sull’amministrazione delle fondazioni. Compito che ricomprende: la nomina e la sostituzione degli amministratori (quando le disposizioni contenute in proposito nell’atto di fondazione non possano attuarsi); l’annullamento delle deliberazioni adottate dall’organo amministrativo (ove contrarie a norme imperative, all’atto di fondazione, all’ordine pubblico o al buon costume) 52; lo scioglimento dell’amministrazione e la nomina di un commissario straordinario, qualora gli amministratori non agiscano in conformità dello statuto e dello scopo della fondazione o della legge. La giustificazione del conferimento di simili incisivi poteri di controllo all’autorità amministrativa competente 53 tende ad essere ricercata nella diffidenza con la quale l’ordinamento ha tradizionalmente guardato all’istituto della fondazione, per la temuta immobilizzazione delle entità patrimoniali apportate (in contrasto con l’esigenza, considerata prioritaria, di favorire la circolazione della ricchezza) 54. Ovviamente, una tale impostazione si ricollega strettamente al modello di fondazione avuto di mira (e disciplinato) dal legislatore nel codice civile, incentrato sulla erogazione di rendite prodotte da un patrimonio (a ciò destinato dal fondatore). Il discorso non potrebbe che essere diverso (e di qui recenti prospettive di riforma legislativa della materia), ove si prendessero in considerazione figure differenti di fondazione, quali quelle promosse e istituzionalmente – oltre che funzionalmente – collegate in modo stabile ad organizzazioni di carattere imprenditoriale ed eventualmente esercitanti, con varie modalità, attività economica (c.d. fondazioni d’impresa). Figure, queste, affermatesi altrove, ma già presenti anche da noi nella prassi, con una diffusamente avvertita inadeguatezza della disciplina attuale a regolarne le dinamiche (soprattutto con riguardo ai meccanismi interni di controllo sulla vita dell’ente da parte dei soggetti che provvedono, anche con continuità, all’apporto delle risorse economiche necessarie) 55. 52

L’art. 252 precisa che l’annullamento della deliberazione non pregiudica i diritti acquistati dai terzi di buona fede in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione medesima. La ratio della previsione in parola è da ricercarsi nella tutela dell’affidamento dei terzi che, all’oscuro dell’illegittimità o illiceità della deliberazione, abbiano comunque acquistato diritti per effetto dell’esecuzione della medesima. 53 Si sottolinea, comunque, che, “alla luce delle riforme liberalizzatrici del 1997/2000, deve ritenersi che le forme di controllo pubblico cui sono assoggettate le fondazioni – trovando ragione nell’assenza di un controllo interno analogo a quello esercitato nelle associazioni dai membri o da appositi organi a ciò deputati – sono funzionalmente e restrittivamente preordinate alla tutela dell’ente, senza estendersi al merito o all’opportunità delle determinazioni o gestionale o di indirizzo”, in un’ottica, quindi, di “funzione di vigilanza, cioè di controllo di legittimità rispetto alla legge e all’atto di fondazione” (Cons. Stato, sez. VI, 13-7-2018, n. 4288). 54 L’autorità competente, non a caso, può disporre, addirittura, il coordinamento dell’attività di più fondazioni, ovvero l’unificazione della loro amministrazione, peraltro rispettando, per quanto possibile, la volontà del fondatore (art. 26). La suddetta disposizione, peraltro, non si applica alle fondazioni di famiglia (art. 283). Simili interventi sono, evidentemente, indirizzati ad evitare la sovrapposizione di più enti in attività analoghe, con conseguente dispersione di mezzi: hanno una funzione, insomma, di razionalizzazione dell’attività delle fondazioni nello stesso settore o in settori analoghi (in considerazione di quel carattere di pubblica utilità necessariamente rivestito – secondo la dianzi accennata prospettiva accolta nel codice e sola coerente con la relativa disciplina – dallo scopo delle fondazioni, che risulta alla base anche della disciplina della eventuale trasformazione della fondazione, ai sensi dell’art. 28). 55 Nella prassi, in effetti, sembra sempre maggiormente affermarsi, anche con riferimento alla fondazione, la tendenza alla creazione di una stabile e complessa organizzazione in vista di un più efficiente perseguimento delle finalità dell’ente: ciò con la valorizzazione del ruolo dell’elemento personale, come si è visto invece sfumato e di incerta caratterizzazione nella figura tradizionale di fondazione. La presenza, accanto all’organo

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11. Estinzione della persona giuridica. Liquidazione e devoluzione dei beni. Trasformazione. – L’atto costitutivo e lo statuto dell’associazione e della fondazione possono contenere norme volte ad individuare preventivamente possibili cause e modalità di estinzione dell’ente, nonché a disciplinare la devoluzione del relativo patrimonio (art. 162). In linea generale, la persona giuridica si estingue quando lo scopo è stato raggiunto o è divenuto impossibile (art. 271). In considerazione del ruolo centrale rivestito dalle persone degli associati, l’associazione si estingue anche quando tutti gli associati siano venuti a mancare (art. 272), ovvero quando lo scioglimento anticipato dell’ente sia deliberato dall’assemblea (nel qual caso, ai sensi dell’art. 213, occorre il voto favorevole di almeno tre quarti degli associati) 56. Verificatasi l’estinzione della persona giuridica, si apre la fase della liquidazione del patrimonio dell’ente (art. 30) 57, diretta a definire i rapporti giuridici che vincolano l’ente nei confronti di terzi (in particolare, i debiti), nonché la sorte delle sue attività patrimoniali. È il presidente del tribunale a nominare i liquidatori (art. 111 disp. att. c.c.), i quali esercitano la propria funzione sotto la sua diretta sorveglianza (art. 121, disp. att. c.c.). Per effetto della estinzione dell’ente, viene meno il potere degli amministratori di compiere nuove operazioni: le eventuali trasgressioni al suddetto divieto saranno fonte di responsabilità personale e solidale degli amministratori trasgressori (art. 29). Chiusa la procedura di liquidazione, il presidente del tribunale provvede che ne sia data comunicazione ai competenti uffici per la cancellazione dell’ente dal registro delle persone giuridiche (art. 62 D.P.R. 361/2000) 58. amministrativo, di organi collegiali – variamente denominati: assemblee, comitati, consigli, ecc. – in cui risultano istituzionalmente rappresentati i soggetti che contribuiscono (non solo inizialmente, ma pure) durante la vita dell’ente alla relativa provvista economica vale indubbiamente ad accentuare il carattere interno della volontà sovrana (precipuamente sotto il profilo del controllo sull’operato degli amministratori e della relativa nomina e revoca, nonché in ordine all’eventuale estinzione e trasformazione dell’ente). Trattandosi di caratteristica reputata propria del fenomeno associativo, il nuovo modello di fondazione (c.d. f o n d a z i o n e d i p a r t e c i p a z i o n e ) finisce col presentarsi, in realtà, come figura mista di fondazione e di associazione (così da porre, appunto, delicati problemi di disciplina) (“strutturalmente atipica”, con “alcune caratteristiche proprie della fondazione in senso tradizionale … combinate con alcune caratteristiche delle associazioni”, la definisce T.A.R. Piemonte 7-11-2012; così, ad es., Trib. Belluno 15-2-2018, con riguardo – una volta reputate applicabili “per analogia le norme in materia di fondazione e di associazione, purché compatibili” – al possibile esercizio del recesso, ai sensi dell’art. 242). Pare il caso di segnalare come, nel contesto della nuova disciplina concernente gli enti del “Terzo settore”, abbia finito con l’essere ora sostanzialmente consacrata la diffusa prassi in questione, disponendosi l’applicabilità – almeno “in quanto compatibili” – delle più significative norme dettate per gli enti di carattere associativo anche “alle fondazioni del Terzo settore il cui statuto preveda la costituzione di un organo assembleare o di indirizzo, comunque denominato” (IV, 3.13). 56 L’art. 61 D.P.R. 361/2000 dispone che la prefettura (o la regione o la provincia autonoma) competente accerta, su istanza di qualunque interessato, o anche d’ufficio, l’esistenza di una delle cause di estinzione della persona giuridica previste dall’art. 27. 57 La specifica disciplina della fase di liquidazione, soprattutto in relazione alle funzioni dei liquidatori ed agli adempimenti cui i medesimi sono tenuti, è dettata dagli artt. 11 ss. disp. att. c.c. 58 Le differenze di disciplina, quanto a procedure di scioglimento dell’ente (e relativi esiti), sono evidenziate da Cass. 21-5-2018, n. 12528, secondo cui, “le associazioni riconosciute, con il completarsi del procedimento liquidatorio, si estinguono”, non trovando applicazione, quindi, “il principio affermato per le associazioni non riconosciute secondo il quale lo scioglimento non comporta l’estinzione dell’associazione che resta in vita finché tutti i suoi rapporti non siano definiti” (Cass. 21-5-2018, n. 12528).

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L’art. 311 pone la regola secondo cui i beni della persona giuridica che residuano dopo la liquidazione sono devoluti in conformità dell’atto costitutivo o dello statuto 59. In considerazione dello scopo di pubblica utilità reputato caratterizzante la fondazione nella disciplina del codice, deve convenirsi con quanti escludono che l’atto di fondazione possa prevedere, per l’ipotesi di sussistenza di beni a seguito della fase della liquidazione, il ritorno dei beni stessi nella sfera giuridica del fondatore o dei suoi eredi. Parimenti, si tende ad escludere che lo statuto dell’associazione o l’eventuale deliberazione di scioglimento anticipato possano prevedere la distribuzione dei beni residui ai singoli associati (principio della c.d. devoluzione disinteressata). Qualora lo statuto dell’ente nulla disponga, nelle fondazioni è l’autorità amministrativa competente che provvede ad attribuire i beni residui ad enti che abbiano fini analoghi a quello estinto; nelle associazioni si osservano le deliberazioni dell’assemblea che ha stabilito lo scioglimento e, quando queste manchino, provvede nello stesso modo l’autorità preposta al controllo (art. 312). Diversa è l’ipotesi della trasformazione, che il legislatore prevede per la fondazione: in primo luogo, già nello statuto il fondatore può predisporre delle norme relative alla trasformazione della fondazione (art. 162). Ma è l’art. 281 a fissare una più puntuale disciplina della trasformazione delle fondazioni. Quando lo scopo è esaurito o è divenuto impossibile o di scarsa utilità, ovvero il patrimonio è divenuto insufficiente, l’autorità, anziché dichiarare estinta la fondazione, può provvedere, appunto, alla sua trasformazione, allontanandosi il meno possibile dalla volontà del fondatore. Il potere riconosciuto all’autorità amministrativa di disporre la trasformazione 60, quale alternativa – tutto sommato, privilegiata dall’ordinamento, evidentemente in considerazione dell’utilità generale dello scopo perseguito – alla mera estinzione dell’ente e, quindi, alla cessazione di qualsiasi attività, sembra radicarsi in quello che può essere indicato come principio di conservazione dell’ente e del suo scopo. È evidente che, nell’ipotesi disciplinata dall’art. 281, si dovrà tener conto dello scopo originario dell’ente: l’autorità, così, non potrà dar vita, in particolare, ad un ente che persegua uno scopo notevolmente distante rispetto ad esso. Il necessario rispetto della volontà manifestata dal fondatore nel negozio di fondazione ispira, poi, la regola secondo cui la trasformazione non è ammessa quando i fatti che vi darebbero luogo sono considerati nell’atto di fondazione quale causa di estinzione della persona giuridica e di devoluzione dei beni a terze persone (art. 282). La nuova disciplina del diritto societario (inserita nel corpo del codice civile con il D.Lgs. 17.1.2003, n. 6) ha reso possibile la trasformazione (definita eterogenea) di associazioni riconosciute e fondazioni in società di capitali (art. 2500 octies) 61, superando 59

Si ritiene che la devoluzione dei beni dell’ente a terzi dia luogo ad una sorta di fenomeno di successione a titolo universale, soprattutto in considerazione della previsione contenuta nell’art. 313, secondo cui i creditori che durante la liquidazione hanno fatto valere il loro credito possono chiedere il pagamento a coloro ai quali i beni sono stati devoluti, entro l’anno alla chiusura della liquidazione, in proporzione e nei limiti di ciò che hanno ricevuto. La limitazione della responsabilità a quanto ricevuto (c.d. responsabilità intra vires) resta, peraltro, come non si è mancato di sottolineare in dottrina, un principio caratteristico della successione a titolo particolare. 60 Ai sensi dell’art. 283, la disposizione sulla trasformazione delle fondazioni non si applica alle fondazioni destinate a vantaggio soltanto di una o più famiglie determinate (fondazioni di famiglia). 61 L’art. 2500 septies contempla il fenomeno inverso della trasformazione eterogenea da società di capitali, tra l’altro, in associazioni non riconosciute e fondazioni.

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quelle barriere che, in passato, avevano, per lo più, indotto la dottrina a negare la possibilità che un ente non lucrativo potesse trasformarsi in un ente con fine di lucro, come, appunto, le società (con conseguente presa d’atto e conferma, da parte del legislatore, di una certa – proprio nella pratica – crescente potenziale interscambiabilità tra gli enti del libro I e quelli del libro V, sotto il profilo dello svolgimento di attività economico-produttiva) 62. L’associazione delibera la trasformazione in società di capitali con la stessa maggioranza richiesta dalla legge o dall’atto costitutivo per lo scioglimento anticipato (art. 2500 octies2); la trasformazione di fondazioni in società di capitali, invece, è disposta dall’autorità amministrativa su proposta dell’organo competente (art. 2500 octies4). Non risultava esplicitamente prevista l’ipotesi della trasformazione da associazione in fondazione (e viceversa). Peraltro, pur in assenza di esplicita previsione normativa, veniva diffusamente ammessa la trasformazione dell’associazione in fondazione, mediante delibera dell’assemblea e successiva approvazione da parte della competente autorità amministrativa 63. A seguito dell’introduzione dell’art. 42 bis, ai sensi dell’art. 98 D.Lgs. 3.7.2017, n. 117, è ora testualmente previsto che – almeno ove ciò non sia “espressamente escluso dall’atto costitutivo o dallo statuto” – “le associazioni riconosciute e non riconosciute e le fondazioni … possono operare reciproche trasformazioni, fusioni e scissioni” (art. 42 bis1) 64. L’art. 32, infine, prevede che, nel caso di trasformazione o di scioglimento di un ente, al quale siano stati donati o lasciati beni con destinazione particolare (a scopo diverso, cioè, da quello proprio, in genere, dell’ente) 65, l’autorità amministrativa devolva tali beni, con lo stesso onere, ad altre persone giuridiche aventi fini analoghi 66.

12. Comitato. – L’ultimo tipo di ente disciplinato nel libro I del codice civile è il comitato, sulla cui natura la dottrina non ha mai manifestato concordia di opinioni. Ora 62 Una simile interscambiabilità, con riguardo allo svolgimento “senza scopo di lucro” di attività economica “in via principale”, sembra, in particolare, ora presupposta dalla disciplina concernente l’“impresa sociale” (prima, ai sensi del D.Lgs. 14.3.2006, n. 155, attuativo della L. 13.6.2005, n. 118, e ora del D.Lgs. 3.7.2017, n. 112, attuativo della L. 6.6.2016, n. 106: IV, 3.13). 63 L’ammissibilità della trasformazione diretta in questione, dopo essere stata vagliata positivamente da Cons. Stato, sez. V, 23-10-2014, n. 5226 (e già T.A.R. Lombardia 14-2-2013, n. 445), era peraltro risultata, in seguito, categoricamente negata da Cons. Stato, sez. I, par. 30-1-2015, n. 296, ritenendosi imposto, quindi, il più complesso procedimento consistente nella “estinzione dell’associazione e costituzione della fondazione”. Per “l’applicazione analogica della disciplina in tema di fusione tra società all’ipotesi di fusione tra fondazioni”, v. Trib. Roma 25-1-2016. 64 Quanto al relativo regime, si rinvia quasi per intero alla disciplina della trasformazione in materia societaria, di cui vengono richiamati, sia pure con la riserva di “compatibilità”, numerosi articoli (oltre ad intere sezioni: II e III del capo X, titolo V, libro V, con riguardo alle fusioni e scissioni) (art. 42 bis2-3). Per gli atti in questione, l’iscrizione nel Registro delle imprese risulta sostituita dalla corrispondente iscrizione nel “Registro delle Persone Giuridiche” e, “nel caso di enti del Terzo settore, nel Registro unico nazionale del Terzo settore” (42 bis4). 65 In tale ipotesi pare da ravvisarsi la formazione di un vero e proprio patrimonio separato (II, 2.9), trattandosi di beni vincolati al perseguimento di un peculiare scopo (pur senza doversene necessariamente dedurre il sorgere di un autonomo soggetto di diritto). 66 Diversa dalla trasformazione è la f u s i o n e , per effetto della quale due o più enti si estinguono dando vita ad un nuovo ente, che diviene titolare dei rapporti giuridici in precedenza rientranti nella sfera giuridica degli enti estinti; ovvero, si estingue solo uno degli enti, che viene incorporato nella struttura dell’altro (c.d. fusione per incorporazione). Differente è, altresì, la scissione, che consiste nella creazione di due o più enti distinti a seguito dell’estinzione dell’originario ente, essendo, altresì, possibile che l’ente originario sopravviva e che dallo stesso si distacchi un’entità autonoma.

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accostato all’associazione, ora alla fondazione, ora ad entrambe 67, sembra cogliere nel segno l’opinione che individua nel comitato un ente sui generis, che presenta affinità con le differenti tipologie di enti non lucrativi, ma che, in sostanza, appare dotato di propria specificità. Esso consiste in un’organizzazione di persone (i c.d. promotori) che perseguono un determinato fine altruistico facendo ricorso alla raccolta di fondi presso il pubblico. L’art. 39 enuclea, con elencazione dal carattere meramente esemplificativo, tra gli scopi possibili del comitato (spesso di carattere temporaneo), il soccorso, la beneficenza, la promozione di opere pubbliche, monumenti, esposizioni, mostre, festeggiamenti, e simili 68. Il legislatore propone l’alternativa tra comitato riconosciuto come persona giuridica e comitato non riconosciuto come tale. L’attribuzione di personalità giuridica al comitato incide, secondo i principi già esaminati per gli altri tipi di enti, sulla responsabilità. Così, se il comitato è riconosciuto, delle obbligazioni assunte in nome e per conto dell’ente risponderà solo quest’ultimo col suo patrimonio, con esclusione, quindi, della responsabilità personale dei componenti. Qualora, invece, il comitato non sia riconosciuto (ipotesi, questa, più comune e che sembra tenuta essenzialmente presente da parte del legislatore), tutti i suoi componenti risponderanno personalmente e solidalmente delle obbligazioni (art. 411) 69. Resta ferma, in entrambi i casi (di attribuzione o meno, cioè, al comitato della personalità giuridica), la responsabilità personale e solidale degli organizzatori e di coloro che assumono la gestione dei fondi raccolti – che costituiscono, anche nell’ipotesi di comitato non riconosciuto, un patrimonio vincolato alla sua specifica destinazione – per la conservazione dei fondi e la loro destinazione allo scopo annunziato (art. 40) 70. I sottoscrittori (o oblatori), vale a dire coloro che procedono alle sovvenzioni a favore del comitato (oblazioni), sono obbligati, invece, soltanto ad eseguire la prestazione promessa (art. 411), con esclusione, dunque, di qualsiasi forma di responsabilità per le obbligazioni del comitato. In relazione alla natura delle oblazioni, si è ampiamente discusso in dottrina: tende a prevalere la tesi che si tratti di atti di liberalità (in particolare, donazioni modali) non assoggettati a rigore formale (anche data l’usuale modicità del re67 Cass. 23-6-1994, n. 6032, sembra propensa ad accogliere la prospettiva dualistica, fondata su un’osservazione della figura in chiave dinamica, per cui “all’origine del fenomeno vi è un contratto associativo avente ad oggetto l’esercizio in comune dell’attività di raccolta dei mezzi finanziari presso il pubblico; sui fondi raccolti viene poi a costituirsi un vincolo di destinazione analogo a quello che inerisce al patrimonio di una fondazione” (riconoscendo, peraltro, che “le due fasi non sempre si presentano in modo cronologicamente distinto”, pur essendo, comunque, in ogni caso “logicamente distinguibili”). 68 Con una previsione analoga a quella contenuta nell’art. 362 in relazione all’associazione non riconosciuta, anche il comitato può stare in giudizio nella persona del suo presidente (art. 412). 69 In ciò deve ravvisarsi una rilevante differenza rispetto al regime previsto in materia di associazioni non riconosciute (art. 38), nelle quali si è visto rispondere per le obbligazioni dell’ente solo coloro che, in ordine alla relativa assunzione, abbiano, di volta in volta, agito in nome e per conto del medesimo (IV, 3.9). 70 Anche il comitato privo di personalità giuridica è considerato soggetto di diritto diverso dai suoi membri, come affermato dalla già ricordata Cass. 6032/1994 (e con chiarezza confermato da Cass. 8-5-2003, n. 6985 e da Cass. 22-6-2006, n. 14453): il comitato che non si sia evoluto, attraverso il riconoscimento, in persona giuridica è qualificabile come comitato non riconosciuto e costituisce “soggetto collettivo distinto dal substrato personale da cui è composto e dà luogo ad un centro autonomo di imputazione di situazioni giuridiche”, “cui può essere attribuita la titolarità di diritti, sia obbligatori che di natura reale” (tra questi, anche di diritti reali immobiliari, l’acquisto dei quali viene senz’altro reputato direttamente trascrivibile a nome dell’ente).

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lativo valore), con deroga, quindi, rispetto alla regola che prescrive, in genere, l’atto pubblico per la donazione (XIII, 1.3). L’art. 42, infine, prevede, quali ipotesi di estinzione del comitato, l’insufficienza dei fondi rispetto allo scopo dell’ente, l’impossibilità di realizzare lo scopo medesimo o il conseguimento dello stesso. In tal caso, qualora siano residuati dei fondi, l’autorità amministrativa stabilisce la devoluzione dei beni, se questa non è stata disciplinata al momento della costituzione del comitato.

13. Gli enti non profit nella legislazione speciale ed il “Terzo settore”. – Con riguardo alla locuzione “non profit” – importata dall’esperienza anglosassone e impiegata per qualificare un settore di attività e gli enti che la svolgono – deve darsi atto dell’estrema difficoltà cui si è incorsi nell’elaborare una sicura definizione, in assenza di esplicite univoche indicazioni da parte del legislatore. In un primo momento, essa veniva impiegata per indicare l’attività svolta in settori di più specifica ed accentuata rilevanza e utilità sociale. Successivamente, si è affermata la tendenza ad intendere per “enti non profit”, più in generale, tutta la vasta gamma di enti che non perseguono fini di lucro (con progressiva identificazione, quindi, del concetto di non profit con quello di assenza di lucratività e conseguente coincidenza della relativa area, in sostanza, con quella degli enti del libro I del codice civile). Al di là delle considerazioni di carattere terminologico, pare opportuno evidenziare come, negli anni più recenti, il legislatore si sia orientato a favorire la sempre maggiore diffusione di enti che svolgano attività di rilevanza sociale, mediante agevolazioni fiscali e incentivi di vario tipo. In proposito, si è effettivamente verificata una conseguente diffusione crescente degli enti, soprattutto di natura associativa, che si segnalano per lo svolgimento di attività di tal genere (c.d. terzo settore) 71. Dal punto di vista della disciplina, peraltro, è da rilevare come gli interventi del legislatore succedutisi nel tempo non abbiano inciso sulla originaria architettura normativa degli enti del libro I, la quale è stata lasciata sostanzialmente intatta (anche se è da evidenziare la sperimentazione di opzioni normative, in un secondo momento generalizzate). Sistematica, questa, del resto destinata a persistere pur dopo l’intervento legislativo programmaticamente finalizzato a dare una disciplina organica al “Terzo settore”, ai 71 Con tale espressione, si tende da tempo ad individuare il fenomeno del perseguimento di fini di utilità sociale, attraverso l’attività svolta senza fini di lucro da enti di carattere privato, come espressione di solidarietà sociale: fenomeno, la cui espansione – collocandone gli ambiti tra “Stato” e “Mercato”, quale significativa presa d’atto dei relativi “fallimenti” – viene usualmente ricondotta, oltre che al venir meno della capacità della istituzione familiare – pure per la sua crescente instabilità – a rispondere ai bisogni assistenziali specialmente dei soggetti più deboli, al programmatico ritiro degli apparati pubblici – conseguenza di crisi economica e di sfiducia in essi – dallo svolgimento delle attività in questione. È proprio in una simile prospettiva che, significativamente, si muove l’art. 1184 Cost. (ai sensi della L. cost. 18.10.2001, n. 3), per cui “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Comunque, una definizione di quello che viene correntemente designato in termini di privato sociale si rinviene ora nell’art. 11 L. 6.6.2016, n. 106, secondo cui “per Terzo settore si intende il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi”.

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sensi della L. 6.6.2016, n. 106 (“Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale”), nonché del conseguente D.Lgs. 3.7.2017, n. 117 (“Codice del Terzo settore”) 72. Se l’intento è stato, indubbiamente, quello di por fine al precedente accumularsi di frammenti di legislazione speciale, spesso non coordinati tra di loro, non si può fare a meno di segnalare immediatamente, in effetti, come il provvedimento delegato – nonostante che l’art. 12, lett. a, L. 106/2007 ponesse al primo posto tra i compiti demandati ai decreti legislativi attuativi proprio quello della “revisione della disciplina del titolo II del libro I del codice civile, in materia di associazioni, fondazioni e altre istituzioni private senza scopo di lucro, riconosciute come persone giuridiche o non riconosciute” (e l’art. 3, poi, specificasse i profili su cui operare) – non abbia toccato la disciplina codicistica (salvo che per l’introduzione di un art. 42 bis, ai sensi dell’art. 98 del “Codice”: IV, 3.11) 73. Di conseguenza, tradendo le diffuse aspettative al riguardo 74, si è venuta, così, a determinare una evidente sovrapposizione tra tale disciplina (anche quale risultante alla luce del D.P.R. 361/2000) e quella, pur se nelle intenzioni organica 75, da considerarsi comunque connotata da specialità, ora dettata per gli “enti del Terzo settore”, il cui raccordo finisce col risultare affidato – con tutte le difficoltà e le responsabilità che, in tal modo, si sono conseguentemente addossate all’interprete – all’art. 32, secondo cui “per quanto non previsto dal presente Codice, agli enti del Terzo settore si applicano, in quanto compatibili, le norme del Codice civile e le relative disposizioni di attuazione”. Quanto alla sua struttura, il “Codice” (in attuazione dei principi della legge-delega ed in larga misura sistematizzando quanto già in precedenza previsto nelle singole normative speciali di settore) si articola, dopo alcune dichiarazioni di principio 76, in: una parte gene72 Pare opportuno sottolineare, sotto il profilo terminologico, l’impiego (cui di seguito ci si atterrà nella trattazione), nella nuova disciplina, della lettera maiuscola in relazione all’indicazione del relativo oggetto (“Terzo settore”). 73 Si avverte che, nel presente paragrafo, gli articoli del “Codice del Terzo settore” saranno di seguito citati senza il richiamo a tale provvedimento. 74 Tendenti ad auspicare un riordino – ispirandosi a quanto avvenuto con la radicale riforma delle società di capitali (D.Lgs. 17.1.2003, n. 6) – dell’intera regolamentazione degli enti del libro I, nel cui contesto inserire la disciplina delle attività concernenti il “Terzo settore”. Alla carenza, da tale punto di vista, dell’intervento qui in esame, intenderebbe rimediare il D.D.L. n. 1151 (XVIII legislatura, “Delega al Governo per la revisione del codice civile”), prospettando l’esigenza di “integrare la disciplina delle associazioni e fondazioni, ad esclusione delle fondazioni di origine bancaria, con i necessari coordinamenti con la disciplina del terzo settore e nel rispetto della libertà associativa, con particolare riferimento alle procedure per il riconoscimento, ai limiti allo svolgimento di attività lucrative e alle procedure di liquidazione degli enti” (art. 1, lett. a). 75 Come programmaticamente affermato nell’art. 1 ed esplicitato nell’art. 31, ove si dichiara che “le disposizioni del presente Codice si applicano, ove non derogate ed in quanto compatibili, anche alle categorie di enti del Terzo settore che hanno una disciplina particolare”. Significativamente, comunque, il legislatore sembra avere avuto consapevolezza delle carenze che sarebbero state immediatamente venute allo scoperto: l’art. 17, così, ha previsto che “entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore di ciascuno dei decreti legislativi”, possano essere emanate “disposizioni integrative e correttive dei decreti medesimi, tenuto conto delle evidenze attuative nel frattempo emerse” (come, in effetti, è avvenuto, operando diversi interventi integrativi, col D.Lgs. 3.8.2018. n. 105). 76 Oltre al già ricordato art. 3 (“norme applicabili”), si tratta dell’art. 1, delimitante “finalità ed oggetto” del provvedimento (col richiamo all’esigenza di sostenere “l’autonoma iniziativa dei cittadini che concorrono, anche in forma associata, a perseguire il bene comune, ad elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale”, onde favorire “la partecipazione, l’inclusione e il pieno sviluppo della persona” e “valo-

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rale (titolo II); un titolo III, tendente a chiarire la nozione di “volontario” e di “attività di volontariato”; un titolo IV, concernente le “associazioni e le fondazioni del Terzo settore” (in cui con maggiore evidenza si manifesta l’accennata sovrapposizione con la disciplina codicistica); un titolo V, dedicato alla specifica regolamentazione “di particolari categorie di enti del terzo settore”; un titolo VI, rivolto all’istituzione del “registro unico nazionale del Terzo settore”; un titolo VII, finalizzato al coordinamento “con gli enti pubblici”. Il titolo VIII, poi, concerne lo strumentario destinato alla “promozione” e “sostegno degli enti del Terzo settore”, mentre il titolo IX istituisce, a fini di finanziamento, il c.d. “titolo di solidarietà” ed il titolo X organizza il regime fiscale (di favore) per gli enti in questione. a) Nella parte generale (titolo II) si prevede, innanzitutto, la tipologia degli “enti del Terzo settore” (art. 41). Si allude, con una specifica tipizzazione di figure, almeno in prevalenza, già emergenti dalla precedente legislazione speciale in materia, a “organizzazioni di volontariato”, “associazioni di promozione sociale”, “enti filantropici”, “imprese sociali, incluse le cooperative sociali”, “reti associative”, “società di mutuo soccorso”. Ma ci si riferisce anche, con una sorta di indicazione di residuale, a “le associazioni, riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato diversi dalle società, costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi” 77. Significative sono le esclusioni operate dall’art. 42, soprattutto per quanto riguarda, oltre alle “amministrazioni pubbliche”, “le formazioni e le associazioni politiche, i sindacati, le associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche”. L’art. 43, poi, rizzare il potenziale di crescita e di occupazione lavorativa, in attuazione degli articoli 2, 3, 4, 9, 18 e 118, quarto comma, della Costituzione”), nonché dell’art. 2, tendente a riconoscere il “valore e la funzione sociale degli enti del Terzo settore, dell’associazionismo, dell’attività di volontariato e della cultura e pratica del dono quali espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo” (promuovendone “lo sviluppo”, in un’ottica di “spontaneità ed autonomia”, e favorendone “l’apporto originale per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, anche mediante forme di collaborazione con lo Stato, le Regioni, le Province autonome e gli enti locali”). Si tenga presente che l’art. 33 ha espressamente escluso l’applicazione della nuova disciplina alle fondazioni bancarie (IV, 3.10), pur coinvolgendole nel finanziamento dei Centri di servizio per il volontariato (art. 62). 77 La finale precisazione dell’art. 41 (“ed iscritti nel registro unico nazionale del Terzo settore”) pare da riferire non solo a tale ultima categoria (la cui individuazione finisce, del resto, con l’abbracciare, dal punto di vista strutturale, l’intera fenomenologia delle organizzazioni in questione), ma a tutti gli enti che intendano condividere il peculiare regime predisposto, appunto, per gli “enti del Terzo settore”. Peraltro, anche l’indicazione delle “finalità” da perseguire (“civiche”, “solidaristiche” e “di utilità sociale”, secondo una formulazione che si ritrova anche nell’art. 51), così come quella, negativa, relativa all’assenza dello “scopo di lucro”, sono da leggere in chiave di caratterizzazione, in via generale, degli “enti del Terzo settore”. Il “Codice” non prevede la figura dei comitati, ma è da ritenere che essa risulti ricompresa nell’accennato ampio riferimento agli “altri enti di carattere privato diversi dalle società”, anche per la sua palese assonanza con la formula adottata, col richiamo alle “altre istituzioni di carattere privato”, dall’abrogato art. 12 c.c. (e ora dall’art. 1 D.P.R. 361/2000), in cui si tende, infatti, ad inquadrare (anche sulla scia della Relaz. cod. civ., n. 42), appunto, i comitati (IV, 3.3, 12). Per superare le possibili riserve in ordine ad una simile (estensiva) opzione esegetica, che potrebbero fondarsi, in proposito, sul carattere (almeno tendenzialmente) limitato nel tempo della relativa attività, anche ove si voglia trascurare la pur sempre prevista legittimazione dei comitati al riconoscimento come persona giuridica (secondo quanto risulta esplicitato nell’art. 41 c.c.: IV, 3.12), sembra poter valere pure l’espressa ammissione, nell’art. 211, di una eventuale previsione statutaria circa la “durata dell’ente”.

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unificando le regole in proposito dettate dalla previgente legislazione speciale, assoggetta a talune condizioni l’applicazione delle norme del Codice (peraltro “limitatamente allo svolgimento delle attività di cui all’articolo 5”) agli “enti religiosi civilmente riconosciuti” 78. È chiaro come la disciplina generale finisca col ruotare, da una parte, intorno a quella specifica indicazione – che l’art. 52 considera comunque suscettibile di futuri aggiornamenti – delle “attività di interesse generale”, che vale a dare consistenza alla previsione delle “finalità” da perseguire (“finalità civiche, solidaristiche e di utilità generale”) (art. 51) 79; dall’altra, alla chiara, e significativamente ripetuta con insistenza, necessaria “assenza di scopo di lucro” (rubrica dell’art. 8, ma anche artt. 41 e 51, non a caso con l’esplicita esclusione della categoria delle “imprese sociali incluse le cooperative sociali”, comunque contemplate, come accennato, tra gli “enti del Terzo settore”). Tale “assenza di scopo di lucro” è concretizzata attraverso l’imposizione della utilizzazione esclusiva delle attività patrimoniali dell’ente per perseguimento delle ricordate “finalità” (art. 81), nonché del divieto di distribuzione, anche indiretta (nelle forme, cioè, specificate nell’art. 83), di qualsiasi attività patrimoniale a chiunque operi nell’ente (“anche in caso di recesso o di ogni altra ipotesi di scioglimento individuale del rapporto associativo”: art. 82). Risultano, poi, disciplinati momenti e profili di particolare significato per la vita dell’ente, onde improntarne la regolamentazione alla funzione istituzionale. Così, in particolare: la “raccolta fondi” (art. 7); la “devoluzione del patrimonio in caso di scioglimento” (art. 9) 80; la possibilità di costituire “patrimoni destinati ad uno specifico affare” (“ai sensi e per gli effetti degli articoli 2447 bis e seguenti del codice civile”: art. 10); la necessaria iscrizione nel registro unico nazionale del Terzo settore (art. 11, con conseguente menzione dei relativi estremi in tutto gli atti e comunicazioni; per gli enti “che esercitano la propria attività esclusivamente o principalmente in forma di impresa commerciale”, viene disposta anche l’iscrizione nel registro delle imprese; per le “imprese sociali”, peraltro, è prevista la sola iscrizione “nell’apposita sezione del registro delle im78 In particolare, da una parte, s’impone la costituzione di un “patrimonio destinato” e la connessa separazione delle scritture contabili; dall’altra, l’adozione di un “regolamento” che recepisca le norme del Codice (con connessa separazione delle scritture contabili) e sia depositato nel registro unico nazionale del Terzo settore. 79 Si tratta di ben ventisei settori di attività, elencati dalla lett. a alla lett. z, della più diversa natura (in materia di servizi sociali, beneficienza, ambiente, cultura, istruzione, turismo, tutela dei diritti umani, immigrazione, legalità, sport, lavoro, ecc.), spesso precisata attraverso rinvii normativi. Comunque, l’art. 6 non esclude il possibile esercizio – sia pure “secondo criteri e limiti” da stabilirsi successivamente con decreto ministeriale – di “attività diverse da quelle di cui all’articolo 5”, a condizione che esse si vengano a configurare come “secondarie e strumentali” (con ciò sembrandosi alludersi – non a caso finendo col coordinarsi tale previsione con quella dell’art. 7, concernente la tipica attività di finanziamento dell’ente non profit, consistente nella “raccolta fondi” – all’esercizio di attività commerciali produttive di utili, in una prospettiva già sperimentata con riguardo agli enti del libro primo: IV, 3.8). Il carattere non commerciale dell’attività costituisce, poi, oggetto di attenta individuazione, a fini tributari, nell’art. 79. 80 “In caso di estinzione o di scioglimento”, la devoluzione – previo parere favorevole (a pena di nullità) dell’Ufficio provinciale del Registro unico nazionale del Terzo settore” (di cui all’art. 451) – deve avvenire a favore di “altri enti del Terzo settore” o alla “Fondazione Italia Sociale” (istituita, ai sensi dell’art. 101 L. 106/2016, per “sostenere, mediante l’apporto di risorse finanziarie e di competenze gestionali, la realizzazione e lo sviluppo di interventi innovativi da parte di enti del Terzo settore”, con particolare attenzione “ai territori e ai soggetti maggiormente svantaggiati”: per l’approvazione del relativo statuto, v. il D.P.R. 28.7.2017).

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prese”); la “denominazione sociale”, necessariamente allusiva al carattere di “ente del Terzo settore” (anche attraverso l’acronimo ETS: art. 12); la necessaria articolazione delle scritture contabili e del bilancio (anche con specifico riferimento agli “enti del Terzo settore che esercitano la propria attività esclusivamente o principalmente in forma di impresa commerciale”: art. 13), nonché dei libri sociali obbligatori (art. 15); il “lavoro negli enti del Terzo settore” (art. 16, con una equiparazione retributiva a quanto previsto nei contratti collettivi, nonché con la limitazione delle differenze salariali non superiori ad un rapporto di uno a otto). b) Nel titolo III ci si sofferma sulle nozioni di volontario e di attività di volontariato, trattandosi di profili evidentemente considerati dal legislatore – del resto, secondo la prospettiva tradizionale, che ha contrassegnato fin dall’inizio, con la L. 11.8.1991, n. 266 (“Legge-quadro sul volontariato”), il fenomeno del “Terzo settore” – vitali ai fini del funzionamento degli enti qui in esame e del perseguimento delle relative “finalità” istituzionali. Dopo la previsione della possibilità di avvalersi del relativo apporto (art. 171), viene offerta una (assai articolata) definizione della figura del volontario (art. 172) 81, limitando ogni sua pretesa economica al rimborso delle “spese effettivamente sostenute e documentate per l’attività prestata” (art. 173), eventualmente anche a seguito di autocertificazione (purché non superino l’ammontare giornaliero do 10 euro e mensile di 150 euro: art. 174), nonché prevedendo rigorose forme di incompatibilità lavorativa “con l’ente di cui il volontario è socio o associato o tramite il quale svolge la propria attività volontaria” (art. 175). Sono contemplate, poi, talune esclusioni in relazione a specifiche categorie (art. 177). Viene prevista l’“assicurazione obbligatoria” dei volontari da parte degli enti che se ne avvalgano (“contro gli infortuni e le malattie connessi allo svolgimento dell’attività di volontariato, nonché per la responsabilità civile verso i terzi”: art. 181), rinviando ad apposito decreto ministeriale i relativi meccanismi e controlli (art. 182). Infine, viene previsto un articolato sistema di interventi tendenti alla “promozione della cultura del volontariato (art. 191), anche col riconoscimento di benefici di varia natura – pure in ambito scolastico e universitario – a chi abbia svolto una simile attività (191-4). c) Come accennato, la parte del “Codice” in cui maggiormente si fa avvertire la sovrapposizione (e il mancato coordinamento in un unitario quadro testuale sistematico) con la disciplina del codice civile risulta quella di cui al titolo IV, dedicata alle associazioni e fondazioni del terzo settore. Con le relative disposizioni, in effetti, lasciando in vita la regolamentazione codicistica, si è inteso assoggettare a specifici requisiti gli enti intenzionati ad operare nel Terzo settore, evidentemente per godere dei particolari benefici apprestati dal legislatore (in particolare, ma non solo, in materia tributaria), non mancando di dettare regole peculiari relativamente al loro ordinamento e amministrazione, fino a giungere a creare, come non si è mancato subito di rilevare, una sorta di “doppio binario” per il riconoscimento della personalità giuridica degli enti. 81 Il volontario è individuato in “una persona che, per sua libera scelta, svolge attività in favore della comunità e del bene comune, anche per il tramite di un ente del Terzo settore, mettendo a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere risposte ai bisogni delle persone e delle comunità beneficiarie della sua azione, in modo personale, spontaneo e gratuito, senza fini di lucro, neanche indiretti ed esclusivamente per fini di solidarietà”.

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Un primo punto da sottolineare pare quello di essersi ulteriormente contribuito, col provvedimento in esame (e non a caso sulla linea evolutiva propria della precedente legislazione di settore, con le successive ricadute sulla disciplina codicistica degli enti: IV, 3.3, 8-9), a portare a compimento quel processo di progressiva svalutazione dell’attribuzione, col riconoscimento, della personalità giuridica. In effetti, la qualità di “ente del Terzo settore”, con quel trattamento di favore che rende appetibile il relativo inquadramento, risulta svincolata dal conseguimento della personalità giuridica, anche gli enti non riconosciuti essendo ammessi ad operare come tali, adeguandosi alle prescrizioni del “Codice” (e, in particolare, del suo titolo IV), non a caso indifferenziatamente riferite agli enti riconosciuti ed a quelli non riconosciuti. Insomma, il legislatore dimostra sempre più quella chiara propensione (già manifestata a partire dalla L. 266/1991) nel senso della valorizzazione dell’aspetto sostanziale del tipo di attività (e dei requisiti richiesti in funzione di essa) concretamente svolta, assai più che dei profili formali e strutturali delle organizzazioni attraverso cui l’attività medesima viene svolta. Così, l’art. 211 contiene, in relazione all’atto costitutivo, un elenco di elementi, tendente ad integrare l’elenco di cui all’art. 16 c.c., soprattutto con riguardo alla precisazione delle finalità (quelle indicate nell’art. 51) perseguite e dell’apertura non discriminatoria della struttura a nuovi ingressi (evidentemente ritenendola funzionale ad un migliore svolgimento delle attività di interesse generale avute di mira). Non mancano, inoltre, indicazioni ulteriori, come quella concernente l’eventuale predeterminazione della durata dell’ente e quella relativa alla “nomina dei primi componenti degli organi sociali obbligatori”. Significativamente, inoltre, manca ogni differenziazione anche con riguardo a quanto separatamente previsto, appunto dall’art. 16 c.c., per associazioni e fondazioni (l’attenzione del legislatore, in effetti, essendo concentrata – come sembra attestato dalla parsimonia dei richiami alle “fondazioni del Terzo settore” 82 – sul fenomeno associativo, essendo proprio l’associazionismo da sempre considerato il motore del Terzo settore) 83. A dettare regole specifiche in tema di ordinamento e di amministrazione provvedono gli artt. 23-31. In ordine all’ammissione di nuovi associati, l’art. 23 dettaglia compiutamente le competenze e le procedure. Invero, però, disponendosi che quanto al riguardo previsto valga solo “se l’atto costitutivo o lo statuto non dispongano diversamente”, si finisce – e in singolare contrasto con la minuziosità della previsione – col non chiarire se, almeno per gli “enti del Terzo settore”, valga effettivamente (e inderogabilmente, quale caratteristica, cioè, connaturata al tipo di organizzazione ed alla relativa funzione) il principio della “porta aperta” (IV, 3.8) (come, invero, sembrerebbe potersi dedurre da quanto in proposito contemplato, relativamente allo statuto, dall’art. 211). 82

Pare da segnalare, peraltro, come il legislatore abbia qui finito per operare una (alquanto surrettizia e pur sempre col difetto del carattere comunque speciale proprio della disciplina qui in esame) consacrazione della prassi (dianzi segnalata: IV, 3.10) tendente ad aprire spazi, ignoti al codice civile, ad organi collegiali nelle fondazioni, prevedendo una estensione, appunto alle fondazioni che li contemplino, disposizioni dettate per le strutture di tipo associativo (in particolare, relativamente all’ammissione di nuovi associati, art. 234, di funzionamento dell’assemblea, art. 246, di competenze dell’assemblea, art. 253, di nomina dell’organo amministrativo, art. 268). 83 L’art. 212, poi, sembra recepire l’idea di sostanziale unitarietà funzionale dell’atto costitutivo e dello statuto (IV, 3.8), peraltro conferendo la prevalenza, in caso di contrasto, alle clausole del secondo.

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L’art. 24 si articola in diverse previsioni concernenti l’intervento in assemblea, peraltro, e forse alquanto opinabilmente (come nel caso di quanto disposto per il voto dell’associato e per la possibilità di rappresentare e farsi rappresentare), costantemente condizionate dalla regolamentazione statutaria. Si tratta, almeno entro certi limiti, di previsioni (talvolta richiamanti la disciplina societaria) semplicemente rivolte ad avallare prassi già diffuse e tendenzialmente considerate pienamente legittime (come l’intervento in assemblea e la votazione a distanza, nonché la previsione di assemblee separate nel caso delle associazioni numericamente più consistenti) 84, con conseguente sicura estensibilità al piano della generale disciplina codicistica degli enti. Sempre a prescindere dal carattere riconosciuto o meno dell’ente, vengono, in questo caso inderogabilmente, disciplinate, nell’art. 25, le competenze dell’assemblea, largamente ispirate alle corrispondenti previsioni codicistiche (e forse proprio per questo foriere di future difficoltà di coordinamento) 85. Circa la nomina degli amministratori, nonché i loro poteri di rappresentanza e relativi adempimenti pubblicitari, dispone in maniera assai più articolata della disciplina dettata dal codice civile (e anche al riguardo facendo tesoro della prassi statutaria in materia) l’art. 26, l’intera materia, poi, del conflitto di interessi (art. 27) e della responsabilità (art. 28) risultando, anche attraverso numerosi richiami normativi, mutuata dalla disciplina relativa alle società (sicuramente più raffinata di quella dettata per gli enti del libro primo del codice civile e, forse, mutuata proprio tenendo presente la – pure attraverso la nuova normativa perseguita – crescente rilevanza economica, anche nel tessuto produttivo generale del paese, degli enti del Terzo settore). Anche la disciplina dei poteri di iniziativa, in vista del controllo dell’operato degli amministratori, è largamente mutuata dalla materia commerciale (art. 29), richiamata pure per talune previsioni concernenti il funzionamento dell’organo di controllo (art. 30), la necessità della cui presenza è stabilita, al pari di quanto disposto circa la revisione legale dei conti (art. 31), per le associazioni di maggiore consistenza numerica. Ma soprattutto degno della massima attenzione si presenta il profilo dell’acquisto della personalità giuridica. Al riguardo, in effetti, la sovrapposizione ed il mancato serio coordinamento con la disciplina generale del codice, quale risultante in dipendenza del D.P.R. 361/2000 (IV, 3.4), ha immediatamente suscitato allarme negli interpreti, in relazione ad una ipotizzabile casistica propiziata dall’interferenza tra le due discipline. In effetti, ai sensi dell’art. 22, “le associazioni e le fondazioni del Terzo settore possono, in deroga al decreto del Presidente della Repubblica 10 febbraio 2000, n. 361, acquistare la personalità giuridica mediante l’iscrizione nel registro unico nazionale del Terzo settore”. Insomma, risulta introdotto un meccanismo alternativo di riconoscimento, caratterizzato, oltre che dalla peculiarità dello strumento da utilizzare (l’iscrizione nel “registro unico nazionale del Terzo settore”), da specifiche prescrizioni in ordine agli ele84 Una disciplina peculiare è riservata, sotto diversi profili, alle “associazioni che hanno un numero di associati non inferiore a cinquecento”. 85 Anche qui, comunque, il legislatore sembra aver voluto approfittare dell’occasione per risolvere una questione persistentemente fonte di contrasti, quale quella concernente la possibilità che sia statutariamente prevista la competenza di un organo diverso dall’assemblea per deliberare l’esclusione degli associati (IV, 3.89). Nulla, peraltro, viene specificato in relazione al recesso e, soprattutto, relativamente alla delicata problematica concernente – sotto il profilo delle relative garanzie – l’esclusione dell’associato (che certamente avrebbe meritato, in questa, sede una specifica riflessione).

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menti – anche patrimoniali – che devono concorrere ai fini dell’iscrizione e da peculiari competenze in ordine alla verifica della relativa sussistenza. Un tentativo di coordinamento, allora, è stato operato con l’art. 6 del D.Lgs. 105/2018 86. Sotto il profilo strutturale, di particolare evidenza risulta, a differenza che per gli enti del libro primo del codice civile (per i quali si prevede solo una necessaria adeguatezza del patrimonio allo scopo istituzionalmente perseguito), la quantificazione in via normativa dell’entità minima del patrimonio (15.000 euro per le associazioni e 30.000 per le fondazioni), cui si ricollegano conseguenze rilevanti sulla vita dell’ente (in caso, cioè, di diminuzione del patrimonio). Ove si tenga presente che gli enti riconosciuti (e, quindi, dotati di personalità giuridica) secondo la disciplina generale, i quali intendano operare nel Terzo settore, avvalendosi delle relative prerogative, dovranno iscriversi nel relativo registro unico nazionale, si comprende facilmente come ciò potrà dare luogo a delicati problemi applicativi nel coordinamento tra la disciplina generale e quella speciale 87. L’assenza, ai fini dell’iscrizione, di profili di discrezionalità amministrativa (pur sempre presenti nel sistema instaurato con il D.P.R. 361/2000) avvicina indubbiamente il regime qui introdotto a quello previsto per le società (per il quale, si ricordi, si parla di sistema di riconoscimento c.d. normativo) 88. Ai sensi dell’art. 222-3, infatti, è il notaio a risultare investito della responsabilità di verificare la sussistenza dei requisiti previsti (con una evidente assonanza, appunto anche da tale punto di vista, con la materia societaria). Solo ove il notaio non ritenga sussistenti le condizioni richieste per la costituzione dell’ente, è riconosciuta agli interessati la possibilità di rivolgersi direttamente all’ufficio competente, cui, di conseguenza, viene allora a spettare il controllo in questione 89. d) Già da quanto in precedenza accennato, un ruolo centrale nel funzionamento del nuovo sistema del Terzo settore e degli enti che in esso intendano operare è rivestito dal Registro unico nazionale del Terzo settore (RUNTS) (art. 45). È in esso 90, in effetti, 86 In particolare, oltre ad essersi completata la formulazione dell’art. 221 (aggiungendosi una finale precisazione “ai sensi del presente articolo”), con l’introdotto art. 221bis si è prevista, per le associazioni e le fondazioni “già in possesso della personalità giuridica” (ai sensi del D.P.R. 361/2000) “che ottengono l’iscrizione nel registro unico nazionale del Terzo settore”, la sospensione dell’“efficacia dell’iscrizione nei registri delle persone giuridiche … fintanto che sia mantenuta l’iscrizione nel registro unico nazionale del Terzo settore”. In questo periodo, ad esse “non si applicano le disposizioni” di cui al D.P.R. 361/2000. Dell’avvenuta iscrizione al RUNTS, nonché dell’eventuale successiva relativa cancellazione, “è data comunicazione”, da parte del competente ufficio del RUNTS, “entro 15 giorni, alla Prefettura o alla Regione o Provincia autonoma competente”. 87 Anche l’apparentemente ovvia precisazione dell’art. 227, secondo cui “nelle fondazioni e nelle associazioni riconosciute come persone giuridiche, per le obbligazioni dell’ente risponde soltanto l’ente col suo patrimonio”, in effetti, si potrebbe dimostrare atta a suscitare interrogativi in ordine all’autonomia patrimoniale perfetta o meno dell’ente (IV, 4. 8-9) nell’interferenza tra le due discipline. 88 Secondo l’art. 222, l’ufficio del registro deve verificare esclusivamente la regolarità formale della documentazione presentata dal notaio. Peraltro, l’art. 472 sembra demandare in via generale all’ufficio il controllo almeno della sussistenza delle condizioni richieste (anche relativamente alla sezione in cui sia da inserire l’ente): l’art. 471, che fa salvo quanto previsto dall’art. 22, si riferisce, in effetti, al (solo) profilo della presentazione della domanda di iscrizione. 89 In caso di mancata comunicazione del relativo esito entro sessanta giorni, l’“iscrizione si intende negata” (è da credere con conseguente possibilità di ricorso al giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 476). 90 Il registro (pubblico ed accessibile in modalità telematica), istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, è operativamente gestito su base territoriale (regionale e provinciale, per le province auto-

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che devono iscriversi gli enti, inserendosi in una delle relative sezioni (secondo la tipologia di cui all’art. 41: art. 46) 91, osservando una procedura disciplinata dall’art. 47 (e che dovrà, comunque, essere successivamente specificata, nel quadro della regolamentazione, in dettaglio, del funzionamento del registro, con decreto ministeriale: art. 53), quanto a domanda, relativo controllo (della “sussistenza delle condizioni previste dal presente Codice”), eventuale rifiuto dell’iscrizione e conseguente possibile ricorso degli interessati (al T.A.R. competente). L’art. 48 elenca le informazioni che devono risultare dal registro per ciascun ente (e che, quindi, dovranno essere necessariamente fornite ai fini dell’iscrizione). In particolare, dato che l’iscrizione prescinde dal relativo possesso, si allude alla sussistenza o meno della personalità giuridica (e del “patrimonio minimo” di cui all’art. 224) 92. Prevede, inoltre, i relativi aggiornamenti conseguenti alle più rilevanti vicende dell’ente (modifiche statutarie, trasformazioni, fusioni, scissioni, estinzione, ecc.) 93. Gli artt. 49 e 50 prevedono, inoltre, poteri di iniziativa e formalità relativamente all’estinzione dell’ente, nonché alla sua cancellazione (in particolare per sopravvenuta carenza dei previsti requisiti) 94 ed eventuale “migrazione in altra sezione”. Di particolare interesse risulta l’art. 52, che dispone in ordine alla opponibilità ai terzi degli atti dell’ente, dando vita ad un regime sostanzialmente analogo a quello anteriore all’abrogazione dell’art. 34 c.c. e della sua sostituzione con l’art. 2 D.P.R. 361/2000 (IV, 3.4): tale opponibilità è, infatti, fatta dipendere dall’iscrizione nel registro, “salvo che l’ente provi che i terzi ne erano a conoscenza”. e) Buona parte del “Codice” è dedicata alla valorizzazione del ruolo degli enti del Terzo settore, sia riservando ad essi una particolare attenzione nei rapporti con gli enti pubblici, sia attivando strumenti di promozione e sostegno della loro attività, anche attraverso i proventi dell’emissione di specifici titoli di solidarietà, nonché quale riflesso di una fiscalità notevolmente privilegiata. Circa i rapporti con gli enti pubblici, vengono prospettate favorevolmente fornome) attraverso un “Ufficio regionale” (o provinciale) “del Registro unico nazionale del Terzo settore” (art. 45). Il RUNTS è stato concretamente attivato dal 23.11.2021 (data individuata, con la precisazione dei dettagli operativi anche in vista del superamento del regime transitorio previsto dall’art. 1012, dal D. Direttoriale 26.10.2021). 91 Solo per le reti associative è consentita l’iscrizione in più di una sezione (art. 462). 92 Per gli enti che ne sono privi, e che non intendano conseguirla, sarà quindi sufficiente, da parte degli interessati, utilizzare una scrittura privata (anche con l’impiego di “modelli standard tipizzati, predisposti da reti associative” ed approvati con decreto ministeriale: art. 475). Oltre al dato dell’eventuale possesso della personalità giuridica è richiesto anche quello del “patrimonio minimo di cui all’articolo 22, comma 4”. 93 Anche al riguardo, risultando destinati a sorgere delicati problemi di coordinamento con la disciplina generale per quegli enti che abbiano acquistato, prima di iscriversi nel registro in questione, la personalità giuridica attraverso il meccanismo del D.P.R. 361/2000 (a seguito, cioè, dell’iscrizione nel registro delle persone giuridiche): problemi che, invero forse troppo semplicisticamente si è inteso risolvere col ricordato (nota 86) meccanismo della sospensione dell’efficacia dell’iscrizione nel registro delle persone giuridiche. 94 La possibilità di continuare ad operare, nonostante l’avvenuta cancellazione dal registro in questione, sia pure senza le prerogative proprie degli enti del Terzo settore (e, quindi, “ai sensi del codice civile”: è da credere restando pure dotati della personalità giuridica, se già acquistata secondo la disciplina generale prima dell’iscrizione nel registro del Terzo settore), risulta espressamente prevista dall’art. 502, che dispone, in tal caso, l’obbligo di devolvere, in conformità di quanto stabilito nell’art. 9, l’“incremento patrimoniale realizzato negli esercizi in cui l’ente è stato iscritto nel Registro unico nazionale”.

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me di co-programmazione, co-progettazione e accreditamento (art. 55), anche attraverso la sottoscrizione di convenzioni, finalizzate allo svolgimento in favore di terzi di attività o servizi sociali di interesse generale (peraltro a condizione di maggiore convenienza rispetto al mercato e con la previsione del solo rimborso “delle spese effettivamente sostenute e documentate”: art. 56), in particolare con riguardo ai “servizi di trasporto sanitario di emergenza e urgenza” (art. 57). Ai fini del sostegno e della promozione degli enti del Terzo settore, un ruolo di rilievo è conferito, da una parte, alla istituzione del Consiglio nazionale del Terzo settore (art. 58), con componenti in larga misura espressione dello stesso Terzo settore (art. 59), cui sono riconosciute diverse attribuzioni di natura varia (essenzialmente attraverso pareri, peraltro non vincolanti: art. 60). Dall’altra, alla possibilità di accreditamento di centri di servizio per il volontariato, a carattere associativo (caratterizzati da uno statuto di contenuto rigorosamente prefigurato: art. 61). Per il finanziamento dei relativi variegati compiti e funzioni (art. 63), è istituito il Fondo Unico Nazionale (FUN), alimentato da cospicui contributi annuali a carico delle fondazioni di origine bancaria e costituito in forma di “patrimonio autonomo e separato”, sostanzialmente governato dall’organismo nazionale di controllo (art. 62). Quest’ultimo, di composizione articolata (in particolare espressione degli enti finanziatori), svolge numerose importanti funzioni (art. 63), anche attraverso una rete di uffici territoriali di controllo (a base regionale: art. 65). Ovviamente, l’inserimento tra gli enti del Terzo settore si presenta particolarmente appetibile per una serie di specifiche misure (talune a favore, in particolare, delle organizzazioni di volontariato e delle associazioni di promozione sociale): un privilegiato accesso al credito agevolato (art. 67); la previsione di un privilegio per i crediti (art. 69); un privilegiato accesso ai finanziamenti europei (art. 68); l’utilizzazione gratuita di beni mobili e immobili dello Stato e degli enti territoriali (art. 70), anche durevolmente per lo svolgimento delle attività istituzionali (art. 71). Risulta, inoltre, prevista l’istituzione di un fondo per il finanziamento di progetti e attività di interesse generale (art. 72), nonché ulteriori risorse finanziarie (art. 73), in particolare a favore delle organizzazioni di volontariato (art. 73) e delle associazioni di promozione sociale (art. 75), anche per lo specifico scopo dell’acquisto di ambulanze e autoveicoli per attività sanitarie (art. 76). Viene, poi, introdotta, ai sensi dell’art. 77, la figura dei titoli di solidarietà, anche i cui proventi sono finalizzati al finanziamento, da parte degli istituti di credito emittenti) degli enti del Terzo settore (non commerciali). Le caratteristiche di tali titoli (obbligazioni e altri titoli di debito, nonché certificati di deposito) sono descritte con precisione, pure quanto a durata, (vantaggioso) rendimento e trattamento fiscale. Un regime fiscale di favore è previsto, poi, per gli operatori di social lending finalizzato al finanziamento delle attività di interesse generale, di cui all’art. 5 (art. 78). Non è questa la sede, ovviamente, per analizzare in dettaglio la complessa disciplina del regime fiscale degli enti del Terzo settore. Basti evidenziare come particolarmente favoriti siano gli enti non commerciali, in quanto svolgenti “in via esclusiva o prevalente” le attività di cui all’art. 5 (dal regime delineato per le imposte sui redditi, l’art. 791 esclude espressamente le imprese sociali, e l’art. 821, con talune eccezioni, le esclude da quanto previsto per le imposte indirette e i tributi locali). È, poi, previsto un rilevante credito d’imposta a titolo di social bonus per le erogazioni liberali finalizzate al recupero, da par-

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te di enti del Terzo settore, di immobili pubblici inutilizzati e di quelli confiscati alla criminalità (art. 81), nonché, in genere, per le erogazioni a favore degli enti qui in esame (art. 83). Disposizioni particolari sono dettate per le organizzazioni di volontariato e per le associazioni di promozione sociale (con specifico riferimento a talune attività economiche: artt. 84 e 85), anche attraverso la previsione di uno specifico regime forfetario per le attività commerciali (art. 86, a fronte di quello disposto, in generale, dall’art. 80). Circa il particolare regime (agevolato) di tenuta e conservazione delle scritture contabili, dispone organicamente l’art. 87. Infine, una funzione di coordinamento, in sede politica, relativamente alle attività degli enti del Terzo settore, anche in vista di monitorare lo stato di attuazione (e l’efficienza) del “Codice”, è affidato ad una Cabina di regia, istituita presso la Presidenza del Consiglio dei ministri (art. 97).

14. Particolari categorie di enti del Terzo settore. – In adempimento del compito di provvedere al “riordino e alla revisione organica della disciplina speciale e delle altre disposizioni vigenti relative agli enti del Terzo settore” (art. 12, lett. b, L. 106/2016), il “Codice”, come si è visto, ha inteso superare la precedente frammentazione normativa, dando vita ad una regolamentazione tendenzialmente unitaria dei profili essenziali della materia. Non si è mancato, peraltro, di conservare elementi di disciplina specifici per le diverse figure individuate nell’art. 41, con una relativa ulteriore specializzazione, per così dire, a cascata. Se, infatti, l’art. 32 dispone, con riguardo agli enti del Terzo settore, “per quanto non previsto dal presente Codice”, l’applicazione, “in quanto compatibili”, delle “norme del Codice civile”, l’art. 31 prevede l’applicabilità delle “disposizioni del presente Codice … ove non derogate ed in quanto compatibili, anche alle categorie di enti del Terzo settore che hanno una disciplina particolare”. Insomma, come emerge anche dall’organizzazione del Registro unico nazionale del Terzo settore (le cui sezioni, ai sensi dell’art. 461, in effetti, corrispondono fedelmente alla tipologia delineata nell’art. 41), si è inteso conservare quegli elementi di specificità ormai – in vista del carattere variegato delle esigenze (e degli interessi) in gioco – acquisiti, nel tempo, all’operatività del settore, sulla base della previsione (e disciplina) delle singole figure. E ciò pur procedendo all’abrogazione della relativa legislazione particolare (art. 102). a) La prima categoria presa in considerazione è, non a caso, quella delle organizzazioni di volontariato, in relazione alla cui disciplina (con l’ora obrogata L. 11.8.1991, n. 266, “Legge-quadro sul volontariato”) ebbe modo di farsi avvertire per la prima volta, con pretese di sistematicità, quel favor per l’associazionismo (cui si è fatto riferimento dianzi: IV, 3.13), in una prospettiva di promozione dello sviluppo del volontariato, finalizzato al conseguimento di obiettivi di carattere sociale, civile e culturale 95. Indubbiamente, si tratta di una delle figure in cui con maggiore frequenza finiranno col risultare inquadrati gli enti a struttura associativa del Terzo settore. L’art. 32 ne tratteggia i connotati, alludendo, appunto, ad enti costituiti come associazione riconosciuta 95 E proprio tale disciplina valse ad attestare la sempre più chiara propensione dell’ordinamento a prestare scarsa attenzione al profilo formale del riconoscimento degli enti, privilegiando, piuttosto, quello sostanziale del tipo di attività svolta.

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o non riconosciuta, con un numero minimo di membri 96, “per lo svolgimento prevalentemente in favore di terzi di una o più attività di cui all’articolo 5”, precisandosi che ciò deve avvenire “avvalendosi in modo prevalente delle prestazioni dei volontari associati”. Ovviamente, l’indicazione di “organizzazione di volontariato” (ODV) nella denominazione sociale è riservata agli enti stessi. Peraltro, non manca di emergere l’importanza dello sviluppo del Terzo settore anche nella prospettiva del soddisfacimento di esigenze occupazionali. Pur entro il limite della metà del numero dei volontari, infatti, possono essere assunti lavoratori dipendenti (o utilizzate “prestazioni di lavoro autonomo o di altra natura”), in vista del “regolare funzionamento” dell’ente e del più efficiente svolgimento della propria attività (331). Le risorse (art. 332) possono essere della più varia natura (alludendosi anche ai proventi delle attività previste all’art. 6 e, quindi, “diverse da quelle di cui all’articolo 5”), restando comunque consentito all’ente, almeno “per l’attività di interesse generale prestata”, di “ricevere soltanto il rimborso delle spese effettivamente sostenute e documentate” (art. 333). b) L’altra figura destinata, anche in futuro, a particolare fortuna è rappresentata dalle associazioni di promozione sociale (già regolate dalla, pure ora abrogata, L. 7.12.2000, n. 383). Qui, in effetti, a differenza che con riguardo alla categoria precedente, il carattere (eventualmente pure solo) interno dello scopo emerge dall’essere l’attività dell’ente – anch’esso di natura associativa, riconosciuto o meno – svolta “in favore dei propri associati, di loro familiari o” (quindi solo eventualmente) “di terzi” (peraltro “avvalendosi in modo prevalente dell’attività di volontariato dei propri associati”: art. 351) 97. Si è inteso comunque evitare, delimitando corrispondentemente i confini della figura, sue possibili utilizzazioni sostanzialmente dissonanti con i principi fondamentali del Terzo settore, in quanto (almeno palesemente) discriminatorie nella composizione del corpo sociale (352). Anche qui si è riservata l’indicazione di “associazione di promozione sociale” (APS), nella denominazione sociale, agli enti stessi (art. 355). In relazione alla figura in questione, il carattere, per così dire, interno dello scopo associativo, sotto il peculiare profilo del soddisfacimento di esigenze occupazionali, finisce con l’emergere – in sostanziale continuità con quanto già ammesso in passato – dal risultare consentito all’ente, sia pur sempre “ai fini dello svolgimento dell’attività di interesse generale”, comunque da perseguire “avvalendosi in modo prevalente dell’attività di volontariato dei propri associati”), “assumere lavoratori dipendenti o avvalersi prestazioni di lavoro autonomo o di altra natura, anche dei propri associati” (art. 361) 98. 96 In particolare, almeno 7 persone fisiche o 3 organizzazioni di volontariato (in tal caso, evidentemente, trattandosi di un ente di secondo livello). È prevista la possibilità ammettere come associati anche altri enti, comunque senza scopo di lucro, in numero non superiore “al cinquanta per cento del numero delle organizzazioni di volontariato”. 97 Circa l’entità minima del corpo sociale, valgono tendenzialmente le stesse regole nella nota precedente. 98 Si pongono, peraltro, dei limiti, anche in vista del carattere programmaticamente privilegiato, in tutto il terzo settore, dell’attività di volontariato (e, in ogni caso, del coinvolgimento personale degli associati nelle attività associative). Così, da una parte, il numero dei lavoratori impiegati nell’attività (e ciò dovrebbe valere anche per prestazioni di lavoro autonomo) non può “essere superiore al cinquanta per cento del numero dei volontari o al cinque per cento del numero degli associati”; dall’altra, col richiamo all’art. 175 (che preclude al volontario rapporti di lavoro dipendente o autonomo “con l’ente di cui il volontario è socio o associato o tramite il quale svolge la propria attività volontaria”), si tende ad evitare che possa esserci confusione circa il carattere disinteressato della figura del volontario (sostanzialmente distinguendola, così, da quella dell’associato in quanto tale).

CAP. 3 – ENTI

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c) Viene introdotta, evidenziandone (fin troppo) pochi tratti distintivi (e, quindi, per il resto trovando applicazione la disciplina di carattere generale delineata dal “Codice” per gli “enti del Terzo settore”, nonché, in subordine, nella prospettiva indicata dall’art. 32, la disciplina codicistica degli istituti di riferimento), la figura degli enti filantropici. Si tratta (necessariamente) di enti riconosciuti (associazioni o fondazioni), aventi il fine (invero alquanto generico) “di erogare denaro, beni o servizi, anche di investimento, a sostegno di categorie di persone svantaggiate o di attività di interesse generale” (art. 371). Si ribadisce, pure per tali enti, l’utilizzabilità in via riservata, nella denominazione sociale, dell’indicazione di “enti filantropici” (art. 372). Le ulteriori indicazioni finiscono con l’apparire alquanto ovvie, nella loro genericità: così, da una parte, si prevede che l’atto costitutivo indichi i principi da osservare nella gestione del patrimonio, nella raccolta delle (pure del tutto genericamente – in modo, cioè, tutt’altro che caratterizzante – individuate nell’art. 381) risorse e nella destinazione (e modalità di erogazione) del denaro, beni o servizi e nelle attività di investimento, “a sostegno degli enti del Terzo settore” (art. 382); dall’altra, si forniscono scarne (ed in larga misura superflue) indicazioni circa il bilancio sociale (art. 39). d) Nel sistema del Terzo settore, un ruolo di un certo rilievo sembra risultare affidato alle reti associative. In applicazione della direttiva di cui all’art. 41, lett. p, L. 106/2016, si è inteso delineare (nell’art. 41) una complessa figura di vero e proprio ente di secondo livello 99, di notevole consistenza (di natura associativa, riconosciuto o meno), in quanto destinato ad associare (anche indirettamente) almeno 100 enti del Terzo settore (o, in alternativa, almeno 20 fondazioni del Terzo settore) e, ove si tratti di rete associativa nazionale, almeno 500 enti (o 100 fondazioni). L’attività è essenzialmente di coordinamento, rappresentanza, tutela, promozione e, in genere, supporto, aggiungendosi anche, per le reti associative nazionali, funzioni di monitoraggio dell’attività degli enti associati, nonché di promozione delle relative attività di controllo e di assistenza tecnica. L’importanza se ne coglie nella previsione secondo cui si tratta della via (è da credere) elettiva per accedere a partenariati con le pubbliche amministrazioni e a finanziamenti da parte del Fondo di cui all’art. 72 (e di qui anche la previsione di rigorosi requisiti di onorabilità per i rappresentanti legali e quanto alla destinazione delle risorse) (art. 414-5). La consistenza e la peculiare struttura degli enti in questione sembrano alla base della possibilità loro accordata, oltre che di essere iscritti in più sezioni del Registro unico nazionale del Terzo settore (art. 462), di godere di un notevole margine statutario di manovra in ordine alla disciplina del diritto di voto degli associati in assemblea, delle deleghe di voto in assemblea e, addirittura, delle competenze dell’assemblea degli associati (art. 418-10). e) Con gli artt. 42-44 si è inteso, in sostanza (e con indubbio spirito pragmatico), inserire nel nuovo sistema del Terzo settore la risalente figura delle società di muto soccor99

Caratteristica, questa della istituzionale soggettività, che già vale a differenziare – anche a prescindere dalle palesi diversità sul piano funzionale – la figura in esame da quella, di struttura per sua definizione essenzialmente contrattuale, del contratto di rete, di cui all’art. 3 D.L. 10.2.2009, n. 5, come conv. con la L. 9.4.2009, n. 33, per il quale la soggettività risulta, ove siano previste la nomina di un organo comune e l’istituzione di un fondo patrimoniale comune, comunque solo eventuale (secondo quanto innovativamente stabilito dal D.L. 179/2012, conv. con la L. 17.12.2012, n. 221).

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PARTE IV – SOGGETTI

so, lasciando in vigore la relativa specifica disciplina (di cui alla L. 15.4.1886, n. 3818, e successive modificazioni) e dando vita ad un regime transitorio (ai sensi dell’art. 51, lett. i, L. 106/2016). Entro tre anni, infatti, le società di mutuo soccorso già esistenti possono trasformarsi in associazioni di promozione sociale o in associazioni del Terzo settore 100, mantenendo il possesso del proprio patrimonio. Nella disciplina del “Codice”, invero, manca l’accenno alla necessaria destinazione del patrimonio “al raggiungimento di finalità solidaristiche” (secondo la previsione della legge-delega), ma tale aspetto sembra risultare implicitamente dall’inserimento stesso dell’ente nel Terzo settore (con conseguente necessario assoggettamento ai relativi principi generali). f) Il “Codice” si limita, con riguardo alla figura della impresa sociale (già regolata, in attuazione della L. 13.6.2005, n. 118, dall’ormai abrogato D.Lgs. 24.3.2006, n. 155), ad una mera norma di rinvio allo specifico provvedimento delegato, da adottare in vista della relativa disciplina (art. 40, ai sensi dell’art. 12, lett. c, e 6 L. 106/2016). Tale provvedimento ha preso corpo, in effetti, nel D.Lgs. 3.7.2017, n. 112. La figura, quindi, pur non disciplinata dal “Codice”, si inserisce tra gli enti del Terzo settore (come risulta dagli artt. 41 e 461), ma con una sua marcata specificità (che si riflette, in campo tributario, nella inapplicabilità della disciplina comune agli altri enti del Terzo settore: art. 791 e 821). La disciplina è molto ampia, emergendone una chiara intenzione di stimolare il ricorso ad un simile strumento nel mondo dell’economia, sempre, evidentemente, nella prospettiva di una programmatica valorizzazione del ruolo del Terzo settore. Fin dall’art. 11 del D.Lgs. 112/2017, risulta palese come la figura non si caratterizzi per peculiarità di carattere strutturale, bensì sotto il profilo funzionale: infatti, “tutti gli enti privati” (con o senza personalità giuridica, inclusi quelli di natura societaria di qualsiasi tipo, anch’essi personificati o meno, di cui al libro V del codice civile) 101 possono acquistare “la qualifica di impresa sociale”, purché l’“attività di impresa” (esercitata “in via stabile e principale”) sia “d’interesse generale, senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale” 102. In effetti, la chiave di volta della disciplina risulta essere, da una parte, l’articolato elenco di “attività di impresa di interesse generale”, che vengono presunte tali (art. 21, il 100 L’allusione sembra alla figura residuale di cui all’art. 41 (IV, 3.13), quasi a sottolineare la conservazione, comunque, di una qualche specificità all’ente (del resto, lasciando indubbiamente spazio a future incertezze, in tale disposizione tipologicamente distinto, così come anche nell’elenco delle sezioni, di cui all’art. 461), pur a seguito della trasformazione in ente del Terzo settore. 101 Sembra indubbio che il legislatore, fin dall’iniziale disciplina della figura, abbia inteso muoversi in una prospettiva di interscambiabilità tra gli enti del libro I e quelli del libro V, con riguardo allo svolgimento dell’attività economica, evidentemente ritenuta pienamente compatibile, anche se esercitata in forma imprenditoriale (in quanto “in via stabile e principale”), con quell’assenza istituzionale dello scopo di lucro (soggettivo), che pure ha rappresentato tradizionalmente la caratteristica qualificante degli enti del libro I: IV, 3. 3). La disciplina si applica anche agli enti religiosi civilmente riconosciuti, alle stesse condizioni previste, in genere, dall’art. 43 del “Codice” (IV, 3.13). 102 Con ciò operandosi un chiaro coordinamento con le finalità generali caratterizzanti l’intero sistema del Terzo settore, ai sensi degli artt. 41 e 51 del “Codice”. Un simile profilo di finalizzazione a interessi di natura generale e sociale viene ulteriormente evidenziato dalle prospettate “modalità di gestione responsabili e trasparenti” e dall’auspicato “coinvolgimento dei lavoratori, degli utenti e di altri soggetti interessati alla loro attività” (secondo quanto specificato nell’art. 11 e in un’ottica indubbiamente assonante con le prospettive costituzionali emergenti dagli artt. 41 e 43).

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cui pur già lungo elenco, come quello dell’art. 51 del “Codice”, è considerato suscettibile di aggiornamenti: art. 22); dall’altra, il fermo principio della destinazione esclusiva degli attivi economici dell’impresa sociale “allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio” (art. 31), con una rigorosa formulazione dell’assoluto divieto di relativa distribuzione (“anche indiretta”) a chiunque sia inserito, in qualsiasi qualità, nella struttura dell’ente (“fondatori, soci o associati, lavoratori e collaboratori, amministratori ed altri componenti degli organi sociali”: art. 32, con una elencazione presuntiva al riguardo, che richiama, integrandola, l’elencazione contenuta nella norma generale dell’art. 83 del “Codice”) 103. Inoltre, le società con un solo socio persona fisica e gli enti con scopo di lucro, nonché le amministrazioni pubbliche, non possono esercitare funzioni di direzione, coordinamento e controllo di un’impresa sociale (art. 43). La costituzione deve avvenire per atto pubblico (art. 5, anche per il relativo contenuto ed il necessario deposito presso l’ufficio del registro delle imprese) e, quanto alla denominazione sociale, l’indicazione (doverosa in tutti gli atti) di “impresa sociale” è ovviamente riservata ai relativi enti (art. 6). Dettagliata è, poi, la regolamentazione delle cariche sociali (art. 7), dell’ammissione ed esclusione dei soci (con richiamo al principio di non discriminazione: art. 8), delle scritture contabili (art. 9), degli organi di controllo interno (art. 10), delle vicende societarie (art. 12), del lavoro nell’impresa sociale (art. 13, anche con riferimento all’eventuale attività di volontariato, non potendo comunque il numero dei volontari superare quello dei lavoratori), delle funzioni di monitoraggio (art. 15). In caso di insolvenza, le imprese sociali sono assoggettate alla liquidazione coatta amministrativa (art. 14). g) Proseguendo nel processo di ibridazione degli enti disciplinati nel libro V con gli scopi tipicamente caratterizzanti quelli del libro I, con l’art. 1376-382 della L. 28.12.2015, n. 208, si è disciplinata, la figura della società benefit, caratterizzata dal perseguimento, nell’“esercizio di una attività economica”, oltre che dello “scopo di dividerne gli utili” 104, di “una o più finalità di beneficio comune” (operando “in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interessi”). La società, comunque nel rispetto della relativa disciplina del libro V, deve perseguire simili finalità, da indicarsi specificamente nell’oggetto sociale, “mediante una gestione volta al bilanciamento con l’interesse dei soci e con l’interesse di coloro sui quali l’attività sociale possa avere impatto” 105. Le società diverse sono tenute, ove intendano assumere la qualifica in questione (evidentemente al fine di promuovere la propria immagine) 106, a modificare corrispondentemente il proprio atto costitutivo (o lo statuto). 103

Una certa (limitata) possibilità di destinazione interessata risulta, peraltro, comunque prevista dall’art. 33. 104 E, quindi, con un riferimento a quello scopo di lucro (soggettivo) che rende sostanzialmente estranea la figura in questione – coerentemente non contemplata nella disciplina fin qui esaminata – all’area degli enti del Terzo settore. 105 Vengono specificamente definiti i concetti di: “beneficio comune”; “altri portatori di interesse”; “standard di valutazione esterno”; “aree di valutazione”. 106 In effetti, si dispone che la società che ne abbia i previsti requisiti possa utilizzare, accanto alla denominazione sociale, le parole “Società benefit” o l’abbreviazione “SB”, avvalendosi di “tale denominazione nei titoli emessi, nella documentazione e nelle comunicazioni verso i terzi”. Di recente, si è preso atto

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PARTE IV – SOGGETTI

Vengono, poi, disciplinate le conseguenze dell’inosservanza degli obblighi connessi alla peculiare caratterizzazione della società, in particolare con riguardo alle eventuali responsabilità degli amministratori. Per la sanzione – è da ritenere essenzialmente di natura reputazionale – del mancato perseguimento del “beneficio comune” 107, sono richiamate (invero del tutto genericamente) le disposizioni in materia di pubblicità ingannevole (D.Lgs. 2.8.2007, n. 145) e quelle del codice del consumo (D.Lgs. 6.9.2005, n. 206), delegando lo svolgimento dei relativi compiti e attività all’Autorità garante della concorrenza e del mercato.

dell’opportunità di riconoscere taluni vantaggi idonei ad incoraggiare la diffusione della figura. Così, con l’art. 38 ter L. 17.7.2020, n. 77, da una parte, si è riconosciuto un credito d’imposta per la relativa costituzione o trasformazione; dall’altra, si è istituito un (modesto) fondo per la promozione di una simile tipologia di ente. 107 Risulta prevista l’annuale redazione di un’articolata “relazione concernente il perseguimento del beneficio comune, da allegare al bilancio societario” (con relativa pubblicazione, ove esistente, “nel sito internet della società”).

PARTE V

FAMIGLIA

CAPITOLO 1

FAMIGLIA E ORDINAMENTO GIURIDICO Sommario: 1. La famiglia nella società e la sua disciplina giuridica. – 2. Nozione giuridica di famiglia. – 3. La disciplina della famiglia: Costituzione, codice civile e altre fonti. – 4. Convivenza, famiglia di fatto e unioni registrate. – 5. Caratteri degli atti e dei diritti familiari. – 6. Parentela e affinità. – 7. Gli alimenti. – 8. Ordini di protezione contro gli abusi familiari.

1. La famiglia nella società e la sua disciplina giuridica. – Rappresenta osservazione comune quella secondo cui la famiglia costituisce un fenomeno sociale che, proprio in quanto tale, l’ordinamento giuridico non crea, ma col quale è chiamato a confrontarsi. La famiglia, indubbiamente, si inserisce tra le “formazioni sociali ove si svolge la personalità” dell’uomo, cui allude l’art. 2 Cost. Nel contesto di tali formazioni sociali, essa occupa una posizione sicuramente primaria, per il carattere di necessarietà che la contraddistingue, quale nucleo fondamentale dell’organizzazione della società. L’idea della famiglia come realtà sociale, prima che giuridica, emerge, del resto, con chiarezza dall’art. 29 Cost., che allude alla “famiglia come società naturale”. Il suo ruolo fondamentale nell’organizzazione sociale, poi, anche nella prospettiva costituzionale, risulta di tutta evidenza già dalla stessa collocazione prioritaria che si è voluto conferire (con gli artt. 29-31 Cost.) ai rapporti familiari, nel quadro di quei “rapporti etico-sociali”, cui è dedicato il titolo II della nostra Costituzione. Le valutazioni dell’ordinamento non possono, quindi, prescindere dai modi in cui il fenomeno familiare si atteggia concretamente nella società. Di qui la difficoltà del compito del legislatore, soprattutto nei periodi nei quali il ritmo delle trasformazioni sociali si presenti – come a partire dal secolo XIX, per giungere fino ai nostri anni – fortemente accelerato. Abbandonata, infatti, l’idea che la materia familiare possa ritenersi rientrare nell’esclusiva competenza dei costumi, della morale e della religione, il legislatore si trova inevitabilmente a dover fare i conti con un duplice ordine di pericoli, di segno opposto: da una parte, quello dell’incapacità di prendere atto dell’evoluzione dei rapporti sociali, con il risultato che l’ordinamento finisca col rispecchiare una realtà sociale non più

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esistente; dall’altra, quello di intervenire avventatamente, in assenza di condizioni tali, nella società, da renderne realmente avvertita l’esigenza, col rischio di svolgere una funzione meramente destabilizzatrice e di esporre i consociati a crescenti incertezze. Cercando di evitare tali pericoli, l’ordinamento deve trovare una propria via, in vista di quella giuridificazione dei rapporti familiari, che vale a conferire ad essi una garanzia sociale. Via, che se non può essere quella della mera astensione 1, neppure può essere quella di una eccessiva intromissione all’interno della organizzazione familiare – non a caso tipica dei regimi autoritari anche di un recente passato – allo scopo di renderne funzionale l’attività (e, in particolare, quella educativa) al perseguimento delle finalità proprie di una particolare ideologia di cui lo Stato si faccia portatore. Il necessario rispetto dell’autonomia della famiglia, che rappresenta una delle più sicure attestazioni di democraticità dell’ordinamento, non può precludere, allora, un interessamento da parte dell’ordinamento stesso: un intervento, le cui coordinate devono essere enucleate, in un sistema costituzionale come il nostro, proprio da quell’art. 2 Cost., dianzi ricordato, secondo il quale “i diritti inviolabili dell’uomo” sono da garantire anche (e, forse, soprattutto) “nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. La disciplina giuridica della famiglia, così, pure attraverso la previsione di eventuali opportuni interventi degli organi pubblici competenti, è investita del delicato compito di assicurare che la famiglia stessa svolga la sua funzione essenziale di formazione sociale atta a garantire adeguate condizioni per lo sviluppo della personalità dei suoi membri, in modo coerente con i valori costituzionali di libertà ed effettiva eguaglianza (art. 32 Cost.) 2. Questa, del resto, sembra essere l’ottica dei rapporti tra ordinamento giuridico e famiglia che non solamente ha trionfato nell’esperienza dei paesi caratterizzati da uno sviluppo sociale ed economico storicamente più simile a quello che si è avuto da noi, ma che tende ad imporsi, ormai, a livello sopranazionale e mondiale. Basti, al riguardo, ricordare come, nel preambolo della Convenzione sui diritti del fanciullo (New York, 20.11.1989, ratificata con L. 27.5.1991, n. 176), si evidenzi che la famiglia “deve ricevere la protezione e l’assistenza di cui necessita per poter svolgere integralmente il suo ruolo nella collettività”, che è quello, appunto, di “unità fondamentale della società ed ambiente naturale per la crescita ed il benessere di tutti i suoi membri ed in particolare dei fanciulli”.

2. Nozione giuridica di famiglia. – La considerazione, nella prospettiva costituzionale, della famiglia quale formazione sociale in cui è destinata elettivamente a svilupparsi 1 Secondo la nota immagine con cui A.C. Jemolo, anche quale reazione agli atteggiamenti di eccessiva intromissione da parte dei regimi autoritari, paragona la famiglia a “un’isola che il mare del diritto può lambire soltanto”, sottolineando che “la sua intima essenza rimane metagiuridica”. 2 Anche ove questo comporti la necessità di superare i condizionamenti derivanti da più o meno diffusi costumi. Come, infatti, ha sottolineato Corte cost. 19-12-1968, n. 127, l’ordinamento “non può avallare o, addirittura, consolidare col presidio della legge (la quale, peraltro, contribuisce, essa stessa, in misura rilevante alla formazione della coscienza sociale) un costume che risulti incompatibile con i valori morali verso i quali la Costituzione volle indirizzare la nostra società”. Con ciò viene anche evidenziata con chiarezza quella funzione promozionale (quale fattore, cioè, a sua volta atto ad influenzare i comportamenti sociali), che la regola giuridica è chiamata a svolgere qui forse più che in altri settori della vita associata.

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la personalità dei suoi membri 3 implica la valorizzazione della convivenza come espressione di una concreta esperienza di solidarietà e di vita. Ciò comporta che il modello di famiglia cui, in linea di principio, si riferisce l’ordinamento vigente sia quello della famiglia nucleare, della comunità, cioè, dei coniugi e dei loro eventuali figli. È, in effetti, tale modello di famiglia a risultare coperto dalla garanzia costituzionale dell’art. 29 Cost.: il gruppo, insomma, che trae la sua origine dal matrimonio (rapporto di coniugio) 4, eventualmente arricchito dai figli generati (rapporto di filiazione), con l’esclusione di altri parenti (ascendenti e collaterali: V, 1.6) 5. Il recepimento di un simile modello di famiglia da parte dell’attuale ordinamento rispecchia l’evoluzione del modello familiare nella società (e, in particolare, nella nostra area geografica), quale risultato dei fenomeni di imponente trasformazione economicosociale che hanno caratterizzato la vita associata negli ultimi due secoli e, soprattutto, nel periodo successivo alle codificazioni ottocentesche. Il modello della grande famiglia o famiglia patriarcale, quale aggregazione di soggetti accomunati da una medesima discendenza, era, infatti, legato ad una organizzazione sociale incentrata su attività economiche di tipo essenzialmente agricolo ed artigianale, nel cui quadro il gruppo familiare finiva col rappresentare anche la fondamentale unità produttiva. Il gruppo medesimo era, poi, chiamato a svolgere non solo la funzione di allevamento e di educazione delle nuove generazioni, ma anche funzioni – riservate, appunto, alla famiglia, in quanto all’epoca considerate estranee all’attività dell’organizzazione pubblica – formative, assistenziali e previdenziali nei confronti dei suoi membri (e, in particolare, di quelli più deboli, per età e condizioni fisiche) 6. La complessità della struttura organizzativa familiare comportava, secondo una tradizione legata all’esperienza riflessa negli ordinamenti dell’epoca, che la coesione del gruppo – visto essenzialmente come luogo di trasmissione di un patrimonio – restasse affidata all’autorità del capofamiglia: a vincoli di carattere gerarchico, cioè, più che affettivo. Necessaria risultava, inoltre, una rigorosa ripartizione di ruoli, in particolare, tra le componenti maschili e femminili del gruppo stesso. 3

La realizzazione dei relativi interessi nella famiglia, e non il perseguimento di un presunto interesse superiore di essa, rappresenta, quindi, l’obiettivo avuto di mira dall’ordinamento. L’allusione alla “prevalenza costante degli interessi familiari e sociali su quelli individuali” vale, invece, a definire il ben diverso atteggiamento nei confronti del rapporto tra individuo e famiglia dominante al momento della redazione del codice civile nella sua originaria formulazione (secondo quanto si legge nel preambolo della Relazione ad esso). 4 Pare opportuno fin d’ora sottolineare come la identificazione della “famiglia” con quella “fondata sul matrimonio”, secondo la formula impiegata dall’art. 29 Cost., non possa ritenersi escludere dalla relativa nozione – alla luce di una evoluzione della coscienza sociale che trova espressione, anche sul piano sopranazionale, nell’art. 9 della Corta dir. fond. U.E. (V, 1.3) – le formazioni sociali cui lo stesso ordinamento ha ormai riconosciuto analoga dignità ai fini della promozione della personalità nel rapporto affettivo di coppia (v. infra). 5 Corte cost. 14-4-1969, n. 79, ha evidenziato come il carattere nucleare della famiglia presa in considerazione dalla Costituzione emerga, oltre che dal relativo art. 29, anche dall’art. 31, “dove la famiglia e i suoi compiti sono quelli che derivano dal matrimonio”, nonché dall’art. 30, “che riconosce doveri e diritti dei genitori nei confronti dei figli”, con conseguente esclusione dal novero dei membri della “famiglia legittima”, di cui al co. 3 della stessa norma, di ascendenti e collaterali. 6 L’adesione ad una simile concezione nel codice civile del 1865 emerge, ad es., dai poteri riconosciuti al consiglio di famiglia (in cui erano presenti ascendenti, fratelli e zii: artt. 249 ss.), in ordine alle decisioni concernenti gli interessi personali e patrimoniali dei minori privi dei genitori (e, come tali, sottoposti a tutela).

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Fenomeni tra loro collegati (destinati a farsi sempre più marcati tra il secolo XIX ed il XX), come quelli della industrializzazione, della urbanizzazione e dell’inserimento anche della donna in attività produttive extradomestiche, hanno inciso profondamente sulla struttura e sulla vita del gruppo familiare, determinandone, appunto, quale manifestazione più appariscente, la contrazione al nucleo composto da genitori e figli. La trasformazione degli assetti economico-sociali ha comportato pure la perdita, da parte della famiglia, di molte delle sue, dianzi accennate, tradizionali funzioni, trasferite ad altri enti pubblici e privati (con affidamento ad essi dei compiti di sicurezza sociale), risultando, in conclusione, valorizzata, nell’esperienza familiare, essenzialmente la dimensione personale ed affettiva, che si esprime nella comunità di vita. L’avere riguardo, in linea di principio, l’ordinamento vigente alla famiglia nucleare (sia a livello costituzionale, sia nel codice civile, quando, ad es., l’art. 144 allude all’“indirizzo della vita familiare” ed alla “residenza della famiglia”) non esclude, talvolta, l’allargamento della sfera soggettiva cui conferire rilevanza, in vista di una migliore tutela degli interessi fondamentali dei suoi membri: ciò proprio per l’essere identificato il valore dell’esperienza familiare nel relativo contributo allo sviluppo della loro personalità. Da un tale punto di vista, se può sembrare oggi anacronistico il prendere in considerazione la parentela fino al sesto grado (mentre il codice civile del 1865 considerava, addirittura, la parentela fino al decimo grado) con riguardo al fenomeno della successione legittima (artt. 77 e 572), nella prospettiva della tutela del minore significativi risultano, in particolare: il concorso degli ascendenti negli oneri di mantenimento, ove i genitori non abbiano mezzi sufficienti (artt. 148 e 316 bis1); la possibilità riconosciuta ai parenti di ricorrere al tribunale per l’assunzione di provvedimenti, nel caso di turbamento della relazione tra genitori e figli (art. 336); l’importanza conferita ai rapporti del minore con ascendenti e parenti in caso di separazione personale dei genitori (art. 337 ter1: la rilevanza dei “rapporti con gli ascendenti” è alla base anche del nuovo art. 317 bis1); il rilievo accordato agli eventuali rapporti del minore con i parenti dalla legislazione in materia di adozione (artt. 8 ss. L. 4.5.1983, n. 184). La considerazione di peculiari interessi ritenuti meritevoli di tutela è alla base anche della rilevanza riconosciuta ad una aggregazione più vasta, quando ricorre – in funzione di quei fini produttivi che, come accennato, un tempo condizionavano la dimensione della famiglia – l’esigenza di assicurare a coloro che lavorano nell’impresa familiare (artt. 230 bis e 230 ter) un’adeguata tutela economica e partecipativa 7. La valorizzazione del legame di lealtà tra soggetti legati da parentela giustifica l’allargamento del concetto di “prossimi congiunti”, con riguardo alle valutazioni della legge penale (art. 307 c.p.). Mentre la solidarietà familiare, che è a fondamento della obbligazione degli alimenti (V, 1.7), vale ad includere tra gli obbligati anche taluni affini ed i fratelli (art. 433). È evidente come resti estraneo a quanto sin qui illustrato circa la nozione giuridica di famiglia il concetto, rilevante esclusivamente a fini pubblicistici di controllo della popolazione residente nel territorio e statistici, di famiglia anagrafica, intesa (art. 4 D.P.R. 7

Quella che possiamo definire famiglia lavorativa viene presa in considerazione anche ai fini della nozione di “piccoli imprenditori”, come coloro che esercitano un’attività economica “organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia” (art. 2083). Una particolare nozione di famiglia è offerta pure dall’art. 1023, in relazione ai diritti di uso e di abitazione (VI, 3.5).

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30.5.1989, n. 223) quale “insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora nello stesso comune”: una simile unità – di significato, quindi, esclusivamente anagrafico e di controllo della popolazione sul territorio – può anche “essere costituita da una sola persona”. La “famiglia” che la Costituzione, all’art. 29, assume come modello è quella “fondata sul matrimonio”, ossia la famiglia legittima (cui allude anche l’art. 303 Cost.). Ciò secondo quel tradizionale collegamento, appunto, tra famiglia e matrimonio, quale suo momento costitutivo, che relegava ai margini dell’ordinamento (se non, addirittura, fuori di esso) la convivenza non matrimoniale e l’eventuale generazione di figli (significativamente definiti illegittimi) ad opera di soggetti non legati dal vincolo del coniugio. Anche se non senza resistenze – in considerazione del concreto atteggiarsi dei rapporti personali nella società e in una prospettiva aperta alle relative dinamiche nel contesto sopranazionale 8 – si è accreditato pure nel linguaggio giurisprudenziale (più che in quello legislativo, in cui si tende a parlare di convivenza: ad es., art. 64 L. 4.5.1983, n. 184, in relazione ai requisiti di coloro che aspirano a diventare genitori adottivi, nonché, da ultimo, già nella sua intitolazione, la L. 20.5.2016, n. 76), l’impiego del termine famiglia e, in particolare, l’espressione famiglia di fatto, per indicare il gruppo costituito, senza matrimonio, dalla coppia e dai figli eventualmente procreati. Nucleo, questo, assunto anch’esso, nella prospettiva dell’art. 2 Cost., quale “formazione sociale” e luogo di sviluppo della personalità dei suoi membri (V, 1.4), cui pure si ritiene che si riferiscano, quindi, le garanzie previste per la famiglia in alcune norme costituzionali (artt. 31, 34, 36 e 37) 9.

3. La disciplina della famiglia: Costituzione, codice civile e altre fonti. – La disciplina dei rapporti familiari, a partire dal code civil francese del 1804 (I, 2.3), ha trovato la sua collocazione elettiva nel codice civile (dovendosi, peraltro, ricordare come anche la legislazione penale dedichi ampio spazio alla tutela dei rapporti familiari: “Dei delitti contro la famiglia”, artt. 556 ss. c.p.). 8

Per l’affermazione, così, di una “nozione di famiglia … non limitata alla relazione basata sul matrimonio”, nella prospettiva di una concezione estensiva della relazione di “vita familiare” (di cui all’art. 8 della Convenzione del 4.11.1950, su cui infra, V, 1.3), tanto eterosessuale che omosessuale, v. Corte eur. dir. uomo 24-6-2010 e, sulla sua linea, Cass. 15-3-2012, n. 4184. 9 Si tende attualmente, per alludere ai delicati problemi che essa pone, a parlare di f a m i g l i a r i c o m p o s t a , con riferimento al fenomeno del nucleo formato da una coppia (coniugata o meno) e dai figli nati da precedenti unioni di ciascuno dei relativi membri (oltre che, eventualmente, da quelli comuni): l’esigenza di tenere in debito conto i rapporti che si instaurano al suo interno ne sollecita un’adeguata considerazione da parte del legislatore (come già accaduto altrove, con particolare riguardo alla opportunità – in caso di dissoluzione del nucleo familiare – della conservazione di relazioni personali significative per i minori). La giurisprudenza, comunque, non manca di dimostrare sensibilità al fenomeno. Così, in materia risarcitoria (con riguardo al c.d. “danno da perdita del rapporto parentale”: X, 2.4), si prende significativamente in considerazione – in caso di “intenso rapporto affettivo” – anche il legame “con i figli del coniuge o del convivente” (Cass. 24-3-2021, n. 8218 e 11-11-2019, n. 28989). Con riferimento, poi, alle problematiche legate ai rapporti col c.d. genitore sociale a seguito del venir meno della convivenza familiare, v. infra, V, 4.10. Il rappresentare indubbiamente la famiglia bigenitoriale il modello di riferimento dell’ordinamento non deve indurre a trascurare – con la conseguente necessità di adattamento della disciplina che nei più diversi settori ha riguardo all’esperienza familiare – la sempre maggiore diffusione, nella realtà sociale, del fenomeno costituito dalla famiglia monogenitoriale, quale nucleo formato da un solo genitore con i suoi figli (nelle diverse situazioni in cui ciò può verificarsi).

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Alla luce di quanto accennato nel paragrafo precedente, è da ritenere che la disciplina del code civil e quella del codice civile del 1865 rispecchiassero con coerenza il modello familiare dell’epoca e, in particolare, quello della famiglia borghese, la cui economia, del resto, in larga misura rappresentava il punto di riferimento dell’intera regolamentazione dei rapporti privati. Il codice civile del 1942 (ma è da ricordare come il relativo libro primo, intitolato “Delle persone e della famiglia”, sia entrato in vigore già nel 1939), pur non mancando di aperture innovative, delinea un modello familiare che, non a torto, è stato considerato già sfasato, al tempo della redazione del codice, rispetto all’effettivo atteggiarsi dei rapporti familiari nella società (in particolare, per la mutata posizione in essa della donna). Il modello familiare che emerge dal codice è quello ancora fondato su una struttura gerarchica, tendente a far convergere nel marito (definito “capo della famiglia”: art. 143) poteri autoritari nei confronti della moglie (potestà maritale) e nei confronti dei figli (patria potestà), nonché su una chiara ripartizione di ruoli tra i coniugi, che, nel riconoscere alla moglie una funzione eminentemente domestica, in sostanza la emarginava, oltre che dal governo della famiglia, nelle relazioni economiche del gruppo familiare verso l’esterno 10. Restava, poi, in vista della perseguita tutela, anche economica, della famiglia legittima, un atteggiamento di marcato sfavore per la filiazione fuori del matrimonio (definita senz’altro come illegittima). Ne derivavano, in particolare, l’irriconoscibilità dei figli adulterini (art. 252), drastici limiti alla possibilità di accertamento giudiziale della paternità (artt. 269 ss.) e una posizione deteriore dei figli illegittimi, non solo nei confronti dei figli legittimi, ma, addirittura, nei confronti di altri parenti. Per quanto concerne il sistema matrimoniale, nel codice civile risulta (pure attualmente) disciplinato il matrimonio civile, rinviandosi (art. 82) al Concordato con la Santa Sede (11.2.1929), modificato con l’accordo del 18.2.1984, ed alla relativa legislazione applicativa (legge matrimoniale: L. 27.5.1929, n. 847), per la disciplina del c.d. matrimonio concordatario 11. Una vera rottura col sistema di disciplina dei rapporti familiari, quale emergente dal codice civile (nella sua originaria formulazione sin qui esaminata), è da ricollegare all’avvento della Costituzione, entrata in vigore il giorno 1.1.1948. L’adeguamento ai relativi principi in materia familiare è stato lento, probabilmente proprio per la vischiosità indotta dalla presenza di una legislazione sistematica (quella, cioè, del codice civile) ancora molto recente. Così, in attesa di una riforma organica del diritto di famiglia (intervenuta solo nel 1975), il delicato compito di adeguare la disciplina vigente ai principi costituzionali e all’evoluzione in atto della coscienza sociale è toccato, da una parte, ai numerosi interventi della Corte costituzionale, dall’altra, ad un’opera di interpretazione evolutiva della giurisprudenza ordinaria. 10 È da tenere presente che solo con la L. 17.7.1919, n. 1176, relativa alla “capacità giuridica della donna”, furono abrogati quegli articoli del codice civile del 1865 (134 ss.), i quali ponevano la moglie addirittura in una posizione di sostanziale incapacità, assoggettandola all’autorizzazione maritale per gli atti economicamente più rilevanti (come donazioni ed alienazioni immobiliari). 11 La materia matrimoniale nei rapporti con le confessioni religiose diverse da quella cattolica (art. 83), originariamente regolata dalla L. 24.6.1929, n. 1159, è attualmente disciplinata nel quadro delle numerose intese che, ai sensi dell’art. 8 Cost., lo Stato ha via via stipulato con esse (a partire da quella con le Chiese rappresentate nella Tavola valdese: L. 11.8.1984, n. 449).

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Circa i principi costituzionali, destinati a guidare la successiva elaborazione della nostra legislazione, l’art. 29, col proclamare nel suo primo comma che “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”, valorizza, innanzitutto, contro ogni possibile eccessiva invadenza dell’ordinamento, l’autonomia della famiglia nella organizzazione della propria vita (in quanto, appunto, società naturale, proprio come tale riconosciuta) 12: autonomia che trova espressione, tra l’altro, nel diritto dei genitori di educare i figli senza condizionamenti ideologici (autonomia educativa) 13. Il secondo comma dello stesso art. 29 Cost. fissa, poi, il principio della “eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”, sia pure con “i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare” 14. L’art. 30 Cost., ponendo in posizione di evidente preminenza l’interesse del minore, contempla unitariamente, sotto il profilo del “dovere e diritto dei genitori” di “mantenere, istruire ed educare i figli”, il rapporto di filiazione, indipendentemente dalla circostanza che la generazione sia avvenuta nel o “fuori del matrimonio”. Inoltre, ai figli “nati fuori del matrimonio” viene garantita “ogni tutela giuridica e sociale”, sia pure in quanto “compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima” (per la cui ristretta nozione: V, 1.2). Il sostegno alla famiglia, in particolare se numerosa, e la promozione della sua formazione, in una con la protezione della maternità, dell’infanzia e della gioventù (art. 31 Cost.), completano il quadro costituzionale di riferimento della materia familiare 15 (che deve essere apprezzato, ovviamente, tenendo sempre presente l’esigenza fondamentale, valorizzata dall’art. 2 Cost., di assicurare, all’interno di ogni formazione sociale – e, quindi, in primo luogo, della famiglia – condizioni idonee allo sviluppo della personalità di ciascuno dei membri: V, 1.1). L’attuazione dei principi costituzionali, come accennato, ha richiesto tempi non brevi. La tappa fondamentale è rappresentata, indubbiamente, dalla laboriosa riforma del diritto di famiglia (L. 19.5.1975, n. 151), con la quale l’intero impianto codicistico della disciplina dei rapporti familiari è stato (col meccanismo della novellazione, comportante la modificazione o, più spesso, la riscrittura integrale di gran parte delle disposizioni originarie) ridisegnato, appunto, nell’intento di adeguare il sistema della legge ordinaria ai principi costituzionali. Il diritto di famiglia vigente (qui oggetto di studio) tro12 La formula costituzionale ha stimolato la discussione circa la possibilità di riferire anche alla famiglia la nozione di “personalità giuridica”, da intendere, comunque, in un peculiare senso esclusivamente morale. 13 Si ricordi, al riguardo, come, ai sensi dell’art. 147, nella sua originaria formulazione, “l’educazione e l’istruzione” dei figli dovessero “essere conformi ai principi della morale e al sentimento nazionale fascista”. Il riferimento al “sentimento nazionale fascista” fu soppresso già col D.Lgs.Lgt. 14.9.1944, n. 287. 14 È da sottolineare come il significato di una simile formula, diffusamente ritenuta di carattere compromissorio, sia stato precisato in una prospettiva storico-evolutiva dalla stessa Corte costituzionale (13-7-1970, n. 133), la quale si è orientata a non ravvisare in quello dell’unità familiare un valore necessariamente antitetico rispetto all’affermazione della eguaglianza dei coniugi, evidenziando, anzi, che “è proprio l’eguaglianza che garantisce quella unità e, viceversa, è la disuguaglianza a metterla in pericolo”. Significativamente, è proprio ad una simile prospettiva ad essersi riferita Corte cost. 11-2-2021, n. 18, onde sollecitare un proprio nuovo intervento in materia di disciplina dell’attribuzione del cognome, nonché la stessa Corte (Corte cost. 31-5-2022, n. 131) nella sua conseguente pronuncia (IV, 2.10). 15 La famiglia e le sue condizioni di vita risultano destinatarie di peculiare protezione anche negli artt. 344, 361 e 371 Cost. (in tema di diritto allo studio, di sufficienza della retribuzione e di lavoro femminile).

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va, dunque, in larga misura, la sua fonte principale nel codice civile, quale risultante dalla riforma in questione, nonché, in materia di filiazione, dalla L. 10.12.2012, n. 219 (e dalla conseguente disciplina delegata, di cui al D.Lgs. 28.12.2013, n. 154). Peraltro, la riforma è stata preceduta e seguita da altri importanti provvedimenti 16, regolanti materie che si è ritenuto opportuno, per motivi di ordine diverso, lasciare al di fuori del codice civile 17. In primo luogo, è da ricordare la legislazione in tema di affidamento e di adozione dei minori, a partire dalla L. 5.6.1967, n. 431, attraverso la riforma organica, di cui alla L. 4.5.1983, n. 184, fino alla relativa estesa revisione, che ha investito pure taluni articoli del codice civile (in materia di potestà dei genitori), ad opera della L. 28.3.2001, n. 149 (la materia dell’adozione internazionale essendo stata già toccata dalla L. 31.12.1998, n. 476 e talune significative modifiche risultando apportate, poi, dalla L. 19.10.2015, n. 173). Importanza fondamentale assume, inoltre, la legislazione sul divorzio, con la legge introduttiva (L. 1.12.1970, n. 898), prima oggetto di un limitato intervento con la L. 1.8.1978, n. 436, successivamente di una revisione estesa, con la L. 6.3.1987, n. 74 e, infine, di un nuovo intervento con la L. 6.5.2015, n. 55 (indubbia rilevanza, anche sistematica, assumendo, in materia di separazione e divorzio, pure le novità procedurali introdotte dal D.L. 11.9.2014, n. 132, quale convertito con la 10.11.2014, n. 162). Da ultimo, una svolta in materia di disciplina dei rapporti familiari è stata operata con la L. 20.5.2016, n. 76, concernente le “unioni civili tra persone dello stesso sesso” e le “convivenze”. Nel codice civile sono state, invece, inserite disposizioni concernenti “misure contro la violenza nelle relazioni familiari” (artt. 342 bis e ter, introdotti dalla L. 4.4.2001, n. 154: V, 1.8). Così pure la modificata disciplina concernente i provvedimenti relativi ai figli in conseguenza del venir meno della convivenza familiare (L. 8.2.2006, n. 54, sui cui contenuti il legislatore è ritornato nel nuovo contesto normativo di estesa revisione dell’intera materia della filiazione, ai sensi della L. 10.12.2012, n. 219, con la relativa disciplina delegata di cui la D.Lgs. 28.12.2013, n. 154). Col codice stesso interferisce la L. 19.2.2004, n. 40, in materia di procreazione medicalmente assistita (spec. artt. 8 e 9). Si deve, infine, ricordare come l’esigenza di improntare a principi comuni le legislazioni dei diversi paesi in materie attinenti alla famiglia – in aree omogenee o, addirittura, a livello mondiale – abbia condotto, da una parte, nell’area europea 18, a talune previsioni 16 Complesso di provvedimenti da cui emerge, in un quadro coerente con i principi costituzionali e con la riforma del 1975, l’immagine di una famiglia vista non più come struttura gerarchico-autoritaria e luogo di trasmissione di patrimoni, ma come comunità di vita, il cui valore va ricercato sul piano dell’attitudine al potenziamento della personalità dei suoi membri. 17 Pare opportuno ricordare come, a seguito di un lungo e animato dibattito (via via concretizzatosi, nel tempo, anche in numerose iniziative di intervento legislativo), la marcata specificità della materia dei rapporti personali e familiari, abbia convinto nel senso dell’opportunità, nel contesto di un’articolata legge di delega in materia di processo civile (L. 26.11.2021, n. 206), di introdurre – con conseguente novellazione del codice di procedura civile – apposite “Norme per il procedimento in materia di persone, minorenni e famiglia” (art. 123), nonché, soprattutto, di procedere – attraverso la riorganizzazione del funzionamento e delle competenze del tribunale per i minorenni – alla istituzione del “tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie” (art. 124, con l’allusione alle “famiglie” dichiaratamente intendendosi, come emerge dal testo delle Proposte normative e note illustrative del 24.5.2021, “dare evidenza alla molteplicità di modelli di famiglia presenti nell’attuale contesto sociale”). 18 Sulla scia delle previsioni già contenute nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle

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della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (7-12-2000) (artt. 7, “Rispetto della vita privata e della vita familiare”; 9, “Diritto di sposarsi e di costituire una famiglia”; 21, “Non discriminazione”; 23, “Parità tra uomini e donne”; 24, “Diritti del minore”; 33, “Vita familiare e vita professionale”) 19; dall’altra, a numerose convenzioni internazionali, come quelle sui diritti del fanciullo (New York, 20-11-1989, ratificata con L. 27.5.1991, n. 176; Strasburgo, 25-1-1996, ratificata con L. 20.3.2003, n. 77), in tema di adozione (v., in particolare, Strasburgo, 24-4-1967, ratificata con L. 22.5.1974, n. 357, e L’Aja, 29-5-1993, ratificata con L. 31.12.1998, n. 476), nonché in tema di riconoscimento di divorzi e separazioni personali pronunciate all’estero (L’Aja, 1-6-1970, ratificata con L. 10.6. 1985, n. 301).

4. Convivenza, famiglia di fatto e unioni registrate. – La valorizzazione, nella famiglia, dell’esperienza di vita nella sua effettività e della continuità della relazione affettiva ha determinato un profondo mutamento di atteggiamento nei confronti del fenomeno della convivenza fuori del matrimonio. La considerazione dei valori personali che la convivenza non matrimoniale è indiscutibilmente atta a realizzare ne ha propiziato, così, l’inquadramento, anche da parte della giurisprudenza costituzionale, tra le “formazioni sociali ove si svolge la personalità” dell’uomo, di cui all’art. 2 Cost. 20. Notevoli, comunque, sono rimasti i contrasti circa l’atteggiamento che l’ordinamento dovrebbe assumere nei suoi confronti, oscillandosi tra l’auspicio di un intervento legislativo (più o meno) organico e la tendenza a ritenere appagante una disciplina da ricostruire in via interpretativa, muovendo da quella dettata in materia matrimoniale (evidentemente con largo ricorso all’analogia), ovvero frutto di una autoregolamentazione da parte degli stessi diretti interessati. libertà fondamentali (Roma, 4-11-1950, ratificata con L. 4.8.1955, n. 848), in particolare agli artt. 8 (“Diritto al rispetto della vita privata e familiare”) e 12 (“Diritto al matrimonio”), 14 (“Divieto di discriminazione”). 19 Sono anche in corso studi in vista dell’eventuale elaborazione di un diritto di famiglia europeo uniforme. Approdo – al di là di quanto pare effettivamente imposto dall’indubbia esigenza di una armonizzazione dei principi di fondo – forse neppure del tutto auspicabile, dato il sacrificio che esso correrebbe il rischio di comportare per quella diversità di tradizioni culturali, etiche e religiose, la quale rappresenta, proprio in una materia come la disciplina della famiglia, una ricchezza per una unione di popoli che non voglia correre il rischio di essere avvertita quale forzosa omologazione. Già non mancano, comunque, raccomandazioni del Parlamento europeo e importanti regolamenti, come quelli (adottati nel quadro della cooperazione giudiziaria in materia civile tra i paesi membri, ai sensi dell’art. 81 TFUE) 27.11.2003, n. 2201 e 25.6.2019, n. 2019/1111, in tema di competenza, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, oltre che di sottrazione di minori, nonché 20.12.2010, n. 1259/2010, in tema di legge applicabile al divorzio e alla separazione personale, e 24.6.2016, nn. 1103 e 1104, in tema di competenza, legge applicabile, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia, rispettivamente, di regimi patrimoniali tra coniugi e di effetti patrimoniali delle unioni registrate. 20 Tale da tempo corrente – tanto nella giurisprudenza costituzionale (e v., ad es., Corte cost. 16-1-1996, n. 8), quanto in quella ordinaria – prospettiva è data per scontata da Corte cost. 15-4-2010, n. 138 (la cui impostazione è stata fatta successivamente propria da Corte cost. 11-6-2014, n. 170), la quale, sulla base dell’accolta nozione di formazione sociale (come “ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire o favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico”), ritiene che in essa sia “da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza di due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri”.

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Anche a prescindere dal diffuso rilievo dell’intrinseca contraddittorietà della estensione di vincoli di tipo coniugale a chi, consapevolmente, non abbia voluto far propri gli affidamenti socialmente garantiti col matrimonio 21, permane il dubbio di fondo se la istituzionalizzazione di una famiglia di serie inferiore (di “serie B”, come è stato detto) rappresenti realmente un arricchimento della dignità degli interessati. Del resto, la difficoltà di qualsiasi tentativo di considerazione unitaria del fenomeno, ai fini di un eventuale intervento legislativo (in vista del quale innumerevoli sono state le proposte avanzate nelle ultime legislature, fino all’espresso intervento legislativo in materia, con la L. 20.5.2016, n. 76), deriva dal suo carattere polimorfo, data la varietà delle situazioni che esso tende a comprendere, essenzialmente accomunate dal solo dato negativo dell’assenza di matrimonio tra i conviventi. Chiarita la diversità della situazione di convivenza rispetto a quella conseguente al matrimonio, soprattutto alla luce della garanzia costituzionale che, ai sensi dell’art. 29 Cost., sostiene nel nostro ordinamento il matrimonio 22, la giurisprudenza si è sforzata di precisare i tratti distintivi della convivenza cui riconnettere eventuali conseguenze giuridiche, in modo da distinguerla, appunto quale famiglia di fatto, dal semplice rapporto occasionale. Il carattere ritenuto decisivo è, ovviamente, quello della stabilità 23 e non si è mancato, in passato, pure di alludere, onde considerare giuridicamente rilevante la convivenza, al dover essa risultare instaurata tra due soggetti di sesso diverso 24. 21 Proprio sul fatto che le parti “nel preferire un rapporto di fatto hanno dimostrato di non voler assumere i diritti e i doveri nascenti dal matrimonio”, Corte cost. 13-5-1998, n. 166, fa leva per negare la possibilità di estendere ai conviventi (eventualmente attraverso lo strumento dell’analogia) la disciplina dettata in materia matrimoniale, concludendo che se “la convivenza more uxorio rappresenta l’espressione di una scelta di libertà dalle regole che il legislatore ha sancito in dipendenza del matrimonio … l’estensione automatica di queste regole alla famiglia di fatto potrebbe costituire una violazione dei principi di libera determinazione delle parti”. 22 Nell’intento di riassumere la propria posizione, Corte cost. 8/1996 ha sottolineato che qualsiasi tentativo di equiparazione tra le due situazioni “non corrisponde alla visione fatta propria dalla Costituzione”, dovendosi ricondurre il “consolidato rapporto di convivenza” alla protezione offerta dall’art. 2 Cost. e la peculiare garanzia dell’art. 29 Cost. essendo da riservare, invece, al solo rapporto coniugale, in quanto istituzionalmente caratterizzato da “stabilità e certezza e dalla reciprocità e corrispettività di diritti e doveri” (mentre la convivenza di fatto resta “fondata sull’affectio quotidiana, liberamente e in ogni istante revocabile”) (e v. anche, ad es., Corte cost. 11-6-2003, n. 204 e Corte cost. 8-5-2009, n. 140). 23 Solo tale carattere, infatti, come evidenzia già Cass. 4-4-1998, n. 3503, “può conferire un sufficiente grado di certezza alla vicenda fattuale, tale da renderla rilevante sotto il profilo giuridico”. Una definizione dei caratteri della famiglia di fatto – come “portatrice di valori di stretta solidarietà, di arricchimento e sviluppo della personalità di ogni componente, e di educazione e istruzione dei figli” – tenta, in particolare, Cass. 3-4-2015, n. 6855 (sulla scia di Cass. 11-8-2011, n. 17195), riferendosi ad una situazione in cui la “convivenza assuma i connotati di stabilità e continuità, e i conviventi elaborino un progetto ed un modello di vita comune (analogo a quello che di regola caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio)”. La ricorrenza di una “famiglia di fatto”, nella complessità del rapporto di vita che deve ritenersi contraddistinguerne la sussistenza, viene postulata anche ai fini della rilevanza, dal punto di vista del risarcimento del danno non patrimoniale, del “rapporto affettivo tra il figlio del partner e il compagno del suo genitore” (Cass. 21-4-2016, n. 8037). 24 Alla “convivenza di due soggetti di sesso diverso al di fuori del matrimonio” si riferiva, ad es., Cass. 28-3-1994, n. 2988, in tema di risarcibilità del danno conseguente all’uccisione del convivente. Peraltro, la prospettiva posta a base dell’accennata distinzione risulta ormai radicalmente superata da Corte cost. 138/2010, seguita da Corte cost. 170/2014, sotto tale profilo esaminate e valorizzate da Cass. 15-3-2012, n. 4184, nonché da Cass. 9-2-2015, n. 2400, dove si allude ad un “processo di costituzionalizzazione delle unioni tra persone dello stesso sesso” nella direzione della “riconducibilità di tali relazioni nell’alveo delle formazioni sociali dirette allo sviluppo, in forma primaria, della personalità umana”.

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Nei tempi più recenti, in effetti, sulla problematica della rilevanza giuridica della famiglia di fatto si è innestata quella del riconoscimento delle unioni omosessuali, rendendo ancora più complessa l’eventuale definizione di un quadro normativo atto a soddisfare, contestualmente, le esigenze dei conviventi eterosessuali e la realtà di tali ultime unioni. Non può sfuggire, al riguardo, come dai partners omosessuali non sia stato perseguito quello statuto minimo della convivenza, eventualmente compatibile con la scelta della coppia eterosessuale in senso contrario all’assunzione degli obblighi matrimoniali, bensì proprio una situazione il più possibile simile a quella derivante dal matrimonio (in quanto ad essi precluso), programmaticamente rifuggita, invece, dai conviventi eterosessuali. I diversi ordinamenti, non a caso, hanno percorso vie differenti, pur nella comune prospettiva di una possibile formalizzazione della convivenza, in vista del riconoscimento di conseguenze giuridicamente rilevanti per le relative parti. Così, mentre in Francia si è optato per una disciplina unitaria delle convivenze registrate 25, eterosessuali od omosessuali che siano, con la loi 99-944 del 15.11.1999 (e successive modifiche) sul pacte civil de solidarité (approdando, infine, con la loi 2013-404 del 17.5.2013 e la modificazione dell’art. 143 code civil, all’ammissione del matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma lasciando comunque in vigore la disciplina del PACS, come modello di unione registrata di contenuti più limitati) 26, in Germania si è preferito, prendendo atto della diversità delle problematiche, intervenire solo con riferimento alle unioni omosessuali, con la L. 16.2.2001, sulla Lebenspartnerschaft (con successive modifiche, entrate in vigore l’1.1.2005, tendenti, peraltro, anche a seguito di interventi del Bundesverfassungsgericht, ad una sostanziale equiparazione della posizione delle parti a quella dei coniugi, con l’apertura, infine, del matrimonio anche alle persone dello stesso sesso, con la L. 20.7.2017, EheöffnungsGesetz, e la conseguente modificazione del § 1353 BGB). Crescentemente diffusa, poi, si presenta la previsione – in diversi paesi, tra cui, oltre quelli nordeuropei, indicativamente, Olanda, Belgio, Spagna, Portogallo, Austria e, come accennato, Francia e Germania – dell’apertura alle coppie omosessuali del medesimo istituto matrimoniale (sia pure, talvolta, con talune circoscritte limitazioni di effetti), quale esito finale dell’intento di non discriminare i cittadini sulla base delle relative tendenze sessuali 27. Lo stesso discusso art. 9 Carta dir. fond. U.E., del resto, distingue il “diritto di sposarsi” da quello di “costituire una famiglia”, evidentemente intendendo rispecchiare le articolate esperienze dei 25 Non mancandosi, comunque, di definire, ai fini delle relative eventuali conseguenze giuridiche, i caratteri del concubinage quale union de fait (art. 515-8 code civil). 26 Con la loi 2016-1547 del 18.12.2016 la competenza a raccogliere la dichiarazione degli interessati è stata attribuita all’ufficiale dello stato civile. 27 Ci si richiama correntemente, al riguardo, al divieto di “qualsiasi discriminazione fondata” anche sull’“orientamento sessuale” (art. 21 Carta dir. fond. U.E.), la Corte eur. dir. uomo, da parte sua, avendo energicamente chiarito come pure la convivenza fra persone dello stesso sesso costituisca “vita familiare”, meritevole di riconoscimento giuridico e tutela (24-6-2010, ampiamente ricordata, nel quadro della propria cospicua giurisprudenza in materia, nella sentenza del 21-7-2015, in una prospettiva accolta anche da Cass. 4148/2012, che ritiene, appunto, i conviventi dello stesso sesso “titolari del diritto alla vita familiare”). La Corte Suprema degli Stati Uniti (26-6-2015), “ai sensi delle clausole del giusto processo e dell’eguale protezione del XIV Emendamento” della Costituzione, ha concluso che, costituendo “il diritto al matrimonio un diritto fondamentale insito nella libertà della persona … le coppie del medesimo sesso non possono essere private di quel diritto e di quella libertà”, dovendo potere, quindi, per non “svilire le loro scelte e diminuire la loro personalità”, “esercitare il diritto fondamentale al matrimonio” (proprio in quanto istituto considerato “fondamento del nostro ordine sociale”).

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diversi paesi membri e rinviando, comunque, alle legislazioni nazionali la scelta del modello di disciplina da attuare (sempre, comunque, nel rispetto dei diritti fondamentali degli interessati) 28. Nel quadro di un pur indubbiamente crescente riconoscimento di rilevanza giuridica della convivenza, il nostro legislatore e la giurisprudenza hanno continuato – e, forse, non a torto, alla luce di quanto dianzi accennato circa la complessità della materia e la conseguente difficoltà di definire una disciplina atta a fornire un soddisfacente riscontro alle diverse istanze – a muoversi con cautela 29, limitandosi ad offrire risposta a singole questioni, la cui soluzione non è stata tanto dedotta, quindi, da scelte generali e di principio, quanto ricercata, piuttosto, nella valorizzazione di interessi ed esigenze di tutela peculiari ad ogni specifico rapporto considerato, in dipendenza del relativo carattere fondamentale per la persona 30. 28 Per la valorizzazione di un simile “rinvio alle leggi nazionali”, con conseguente “discrezionalità del Parlamento”, così da escludere che la citata norma imponga senz’altro “la concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso sesso” ed una “piena equiparazione alle unioni omosessuali delle regole previste per le unioni matrimoniali tra uomo e donna” (pur confermandosi, come dianzi accennato, per l’unione omosessuale il carattere di “formazione sociale”, ai sensi dell’art. 2 Cost., e rappresentandosi con chiarezza l’esigenza di “individuare”, da parte del “Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità”, “le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette”), v. Corte cost. 138/2010 e Corte cost. 170/2014 (che ritiene il legislatore, comunque, “chiamato ad assolvere con la massima sollecitudine” il suo compito di intervenire in materia) (cfr. anche V, 2.4). È da ricordare come taluni statuti regionali, anticipando il legislatore nazionale, abbiano contemplato tra le finalità prioritarie da perseguire “il riconoscimento delle altre forme di convivenza”, pure omosessuali (così, ad es., art. 4, lett. f, Statuto reg. Toscana del 2004). La questione di legittimità costituzionale della statuizione, sollevata dal governo proprio in considerazione della sua comprensività, è stata giudicata inammissibile da Corte cost. 2-12-2004, n. 372 (e v. anche Corte cost. 6-12-2004, n. 378, in relazione ad analoga previsione dello Statuto reg. Umbria), sulla base del “carattere non prescrittivo e non vincolante delle enunciazioni statutarie di questo tipo”, aventi solo “una funzione, per così dire, di natura culturale o anche politica, ma certo non normativa”. 29 Cautela, peraltro, evidentemente non più giustificabile dopo i ricordati interventi della Corte costituzionale (n. 138/2010 e n. 170/2014), nonché, soprattutto, della Corte eur. dir. uomo (21-7-2015), che ha reputato senz’altro contrario all’art. 8 CEDU il ritardo del legislatore italiano nell’intervenire a por fine all’attuale “stato di incertezza”, sulla base del principio per cui “le coppie omosessuali necessitano di riconoscimento giuridico e tutela della loro relazione”, senza alcun “margine di discrezionalità” – neppure temporale – almeno con riguardo alla sfera dei “diritti fondamentali”. 30 Nel confermare la competenza del legislatore, al fine di “individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette” (riferendosi a quelle omosessuali, ma nella prospettiva più generale di tutela delle stabili convivenze), Corte cost. 138/2010 ha ritenuto, in effetti, comunque “riservata alla Corte costituzionale la possibilità di intervenire a tutela di specifiche situazioni”. Circa le numerose iniziative parlamentari di disciplina della materia, pare qui il caso di limitarsi a quella che ha avuto maggiore risonanza (e che non ha mancato di avere una rilevante influenza sulla parte della L. 76/2016 dedicata alle “convivenze”): si tratta del D.D.L. n. 1339 (Senato, XV legislatura), intitolato ai “Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi” (conosciuto con l’acronimo “DICO”), fondato sulla valorizzazione della convivenza, anche tra persone dello stesso sesso (quale emergente, in particolare, dalle risultanze anagrafiche, ai sensi dell’art. 4 D.P.R. 223/1989: c.d. famiglia anagrafica, V, 1.2). La indifferibilità dell’intervento legislativo, a seguito delle ricordate prese di posizione della Corte costituzionale e della Corte eur. dir. uomo, ha propiziato, nella XVII legislatura, iniziative tendenti alla formalizzazione (e conseguente disciplina) delle unioni di sesso diverso o uguale (sul modello francese dei “PACS”, DD.DD.LL. nn. 2069 e 2084, Senato), ovvero, secondo il modello tedesco, solo dello stesso sesso (ma con una parte dedicata alla disciplina del rapporto di convivenza), con il D.D.L. n. 2081, su cui ha finito per essere concentrata la discussione, in vista dell’esame in aula. Tale ultimo testo si componeva di due capi, rispettivamente intitolati “Delle unioni civili” e “Della disciplina della convivenza”. Come risultato di complesse mediazioni di carattere ideologico-politico, esso è stato, infine, in una confusa sequenza di commi di un unico articolo, appro-

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Ad esito di un acceso dibattito, il legislatore si è deciso ad intervenire con la L. 20.5.2016, n. 76, con la quale, come emerge dalla sua stessa intitolazione (“Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”), da una parte, si è inteso accogliere i ricordati, sempre più pressanti richiami, della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo, nella direzione del necessario riconoscimento di un adeguato statuto alle coppie di persone dello stesso sesso; dall’altra, si è conferito esplicito riconoscimento al rapporto di mera convivenza (sia pure, come si vedrà, qualificato da peculiari requisiti), dettando anche una specifica disciplina del contratto di convivenza. La scelta, dunque, è stata, in primo luogo, nel senso di non estendere alle coppie di persone dello stesso sesso l’istituto matrimoniale, consentendo loro di contrarre una “unione civile”, la quale, peraltro, risulta in larga misura rispecchiare la disciplina del matrimonio, attraverso la riproduzione (o il richiamo) delle relative regole (art. 12-35). Conseguentemente, pare più rispondente alla regolamentazione di tale (nuovo) istituto – ed all’esigenza di comprenderne il (delicato e controverso) rapporto con il matrimonio – dedicare ad esso una specifica trattazione nel capitolo dedicato, appunto, al matrimonio (V, 2.15-17). La seconda parte della L. 76/2016 concerne, come accennato, la disciplina della convivenza (di coppia eterosessuale o omosessuale) (art. 136-49, 65), nonché del contratto di convivenza (art. 150-64). A differenza della prima, la cui definizione si è visto essere stata ormai sostanzialmente imposta con urgenza al legislatore, si tratta di un corpo normativo, l’opportunità della cui adozione è stata oggetto di pareri contrastanti (e diffusamente negativi, soprattutto dato il relativo carente approfondimento in sede parlamentare e la mancanza di una reale urgenza di intervenire legislativamente al riguardo, una volta disciplinata l’unione civile tra persone dello stesso sesso). La regolamentazione introdotta – unanimemente identificata in termini di disciplina, per così dire, “leggera” della materia – si presenta ampiamente riproduttiva di pregressi approdi legislativi e giurisprudenziali sulle singole questioni, ma muove da una definizione, nell’art. 136 (anche a voler tacere del peso da riconoscere alla prescrizione della formalità anagrafica, di cui all’art. 137), di “conviventi di fatto” indubbiamente restrittiva, così da avere immediatamente indotto la generalità degli interpreti a porsi come inevitabile la questione del trattamento da riservare – in quanto “formazioni sociali” pur sempre permeate da intima interdipendenza esistenziale e conseguente intensa solidarietà – a quelle “convivenze” risultanti, sotto qualche profilo, estranee alla fattispecie di “convivenza”, per così dire, “formalizzata” dal legislatore (per la quale, quindi, non sembra neppure più attagliarsi la qualificazione “di fatto”). Ciò, in particolare, di fronte alle accennate numerose precedenti previsioni normative e prese di posizione giurisprudenziali venutesi a stratificare in materia, con riguardo alle quali – ma l’interrogativo concerne, invero, anche l’applicabilità di talune previsioni nuove (o quasi) della legge in questione, nonché di future disposizioni che non facciano esplicito riferimento all’accennata definizione legislativa di “convivenza” – risulta, non a caso, opinione prevalente la relativa persistente operatività pur in assenza di taluni dei requisiti ora legislativamente enunciati 31. vato dal Senato il 25.2.2016: trasmesso alla Camera dei deputati come P.D.L. n. 3634, il testo è stato approvato – senza alcuna delle modificazioni pure unanimemente reputate necessarie (anche solo sotto il profilo strettamente tecnico-giuridico) – l’11.5.2016 con il meccanismo della fiducia parlamentare, diventando la L. 20.5.2016, n. 76. 31 Con questo, evidentemente, sembrando chiaro come dovrebbe (o, ormai, avrebbe dovuto) costituire

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In questa fase di transizione, pare, allora, senz’altro preferibile – in attesa del formarsi di affidabili indirizzi interpretativi – procedere ad una trattazione del tema della rilevanza giuridica della “convivenza”, facendo prima cenno a quanto sin qui è risultato costituire “diritto vivente” in materia (a seguito degli interventi legislativi e giurisprudenziali succedutisi nel tempo), per procedere, poi, al sintetico esame della disciplina ora dettata nel contesto della L. 76/2016. a) Iniziando dagli interventi legislativi, anche alle coppie conviventi, così, ma solo se di sesso diverso, è stato consentito l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (art. 5 L. 19.2.2004, n. 40) e la convivenza prematrimoniale (evidentemente, quindi, tra soggetti di sesso diverso) è stata presa in considerazione, al fine di ammettere all’adozione i coniugi che, appunto, “abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni” (art. 64 L. 4.5.1983, n. 184, quale novellato dalla L. 28.3.2001, n. 149). Il “convivente more uxorio” può opporsi al prelievo di organi (artt. 32 e 232 L. 1.4.1999, n. 91). La stabile convivenza consente, a seguito della L. 9.1.2004, n. 6 (che ha corrispondentemente modificato l’art. 417), la promozione delle procedure finalizzate alla amministrazione di sostegno, alla interdizione e alla inabilitazione (per la scelta dell’amministratore di sostegno, del tutore e del curatore, v. analogamente gli artt. 408 e 424). Sul rispetto di evidenti vincoli di lealtà si fonda, poi, la estensione della facoltà di astensione dalla testimonianza a chi “pur non essendo coniuge dell’imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso” (art. 199 c.p.p.). Ancora più comprensiva risulta la previsione degli artt. 342 bis e ter, in tema di ordini di protezione contro gli abusi familiari, ai sensi della L. 4.4.2001, n. 154, che allude alla “condotta del coniuge o di altro convivente” 32. Del resto, anche la recente disciplina in tema di “consenso informato” non manca di contemplare (semplicemente) “il convivente” tra i soggetti (eventualmente) da coinvolgere nella “relazione di cura” (art. 12 L. 22.12.2017, n. 219). Se anche alla famiglia di fatto sono da ritenere riferibili le garanzie che gli artt. 31, 34, 36 e 37 Cost. apprestano alla vita familiare (dal punto di vista, rispettivamente, della formazione della famiglia, delle provvidenze per rendere effettivo il diritto allo studio, della sufficienza della retribuzione e della posizione della donna lavoratrice), giustificate si presentano le previsioni tendenti ad estendere anche alle convivenze non matrimoniali oggetto di adeguatamente attenta riflessione la pretesa stessa di pervenire ad una nozione unitaria di “convivenza”, valevole per gestire le innumerevoli problematiche giuridiche che possano coinvolgere la relazione affettivo-solidaristico (per le più diverse circostanze e motivazioni personali) non formalizzata: solo un’accezione differenziata di essa, adeguatamente (e sensibilmente) attenta alla concreta natura degli interessi e dei valori personali di volta in volta in gioco sembrerebbe, in effetti, maggiormente rispondente all’intrinseca natura del fenomeno (la via, ora battuta da noi, di una definizione di portata generale in via legislativa presentandosi, di conseguenza, come sicuramente la meno idonea – in una società notoriamente refrattaria, quale quella attuale, all’accettazione della imposizione di modelli in materia personale e familiare – a dar conto della possibile relativa polimorfa caratterizzazione, soggettiva ed oggettiva, nella realtà sociale). 32 Le indicazioni del testo non sono, ovviamente, esaustive. Così, ad es., l’art. 42 L. 20.10.1990, n. 302, tra gli aventi diritto all’elargizione prevista per i superstiti delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata, annovera anche i conviventi more uxorio (analogamente l’art. 81 L. 23.2.1999, n. 44, in materia di vittime di richieste estorsive e di usura, nonché l’art. 1460 L. 28.12.2015, n. 208, ai fini della spettanza dell’indennizzo a favore dei familiari delle vittime dell’alluvione di Sarno del 1998). Come nei casi accennati nel testo, in mancanza di una esplicita precisazione legislativa circa la necessaria diversità di sesso, si pone la questione – che comunque si tende, ormai, a risolvere in senso positivo – della rilevanza anche di convivenze omosessuali.

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forme di tutela (statali, regionali o comunali) nel campo dell’accesso all’abitazione ed in quello assistenziale, soprattutto quando gli interessi in gioco finiscano con l’essere, in sostanza, quelli dei figli 33. La disciplina del fenomeno della convivenza non matrimoniale è restata, a lungo, affidata, al di fuori degli specifici interventi legislativi, all’opera della giurisprudenza, costituzionale ed ordinaria, spesso chiamata a confrontarsi con esso. Ciò tanto nei rapporti dei conviventi nei confronti dei terzi, quanto in quelli reciproci. Dal primo punto di vista, in particolare, la rilevanza della convivenza è stata riconosciuta sia ai fini della successione del convivente nel contratto di locazione stipulato dall’altro, nel caso di morte di quest’ultimo o di cessazione della convivenza (almeno in caso di esistenza di prole) 34, sia per accordare al convivente il risarcimento del danno, patrimoniale e non patrimoniale, nel caso di uccisione, da parte di un terzo, del partner (mu33 In proposito, pare opportuno puntualizzare come la problematica concernente la rilevanza giuridica della famiglia di fatto non debba andare confusa – nonostante la relativa indubbia connessione – con il rilievo da accordare, fuori del matrimonio, al rapporto di filiazione: si tratta, in effetti, di una problematica specifica che, con maggiore precisione, è da identificare in termini di riconoscimento della f a m i g l i a n a t u r a l e . L’ordinamento si limita, infatti, a regolare (già nel contesto della riforma del 1975 con l’art. 317 bis2 e, ora, nel quadro della unitarietà di disciplina del rapporto di filiazione, a seguito della L. 219/2012) l’adempimento degli obblighi nei confronti dei figli nati fuori del matrimonio, adattandolo alle circostanze concrete, tra cui, ovviamente, non può essere trascurata – come, del resto, nel caso di filiazione matrimoniale – la convivenza eventualmente in atto tra i genitori. Una simile prospettiva – facente leva sulla pari dignità del rapporto di filiazione indipendentemente dalla “natura del vincolo che lega i genitori” – risulta con chiarezza sviluppata, ad es., da Corte cost. 13-5-1998, n. 166, al fine di assicurare ai figli la permanenza nell’abitazione dove si svolgeva la vita domestica, in caso di dissoluzione della convivenza di fatto, senza dovere ricorrere all’applicazione, in via analogica, della disciplina dettata con riguardo alla separazione ed al divorzio (e v. anche Corte cost. 21-10-2005, n. 394). In proposito, è da ricordare come una disciplina unitaria dell’assegnazione della casa familiare si sia inteso introdurre con l’art. 155 quater1 (ora art. 337 sexies), proprio in quanto incentrata sul carattere prioritario dell’interesse dei figli (al pari di tutta la nuova regolamentazione dell’affidamento dei figli stessi in caso di crisi familiare, applicabile anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati) (V, 4.10-11). 34 Una tale rilevanza è stata da Corte cost. 7-4-1988, n. 404, significativamente fondata sul carattere di essenzialità dell’abitazione e sul valore in genere accordato dal legislatore, onde assicurarne la stabilità ad estese categorie di soggetti (con l’art. 6 L. 27.7.1978, n. 392, che si riferisce indistintamente ai parenti, agli affini e anche agli eredi, pur se estranei), al fatto, di per se stesso considerato, della convivenza abituale col conduttore dell’immobile. Corte cost., ord. 11-6-2003, n. 204 (confermata da Corte cost., ord. 14-1-2010, n. 7), ha negato, invece, l’equiparabilità della situazione del convivente a quella del coniuge in relazione alla successione nel contratto di locazione in caso di cessazione della convivenza in mancanza di prole (sul punto assumendo rilievo, allora, la nuova disciplina di cui all’art. 144). La “convivente per un lasso di tempo non trascurabile del comodatario”, in quanto “codetentrice dell’appartamento destinato ad abitazione”, è stata ammessa, “quale detentrice qualificata”, ad esercitare l’azione di spoglio nei confronti del comodante (fratello del convivente) (Cass. 2-1-2014, n. 7). Ciò nella prospettiva secondo cui “il convivente gode della casa familiare, di proprietà del compagno o della compagna, per soddisfare un interesse proprio, oltre che della coppia”, venendosi a trovare, nel contesto di una “unione libera che tuttavia abbia assunto – per durata, stabilità, esclusività e contribuzione – i caratteri di comunità familiare”, in una situazione ben diversa da “quella di un ospite” e “riconducibile alla detenzione autonoma”, che lo legittima, quindi, all’azione di spoglio (Cass. 21-3-2013, n. 7214, nonché 15-9-2014, n. 19423, che parla di “una detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare”, alludendo al “negozio a contenuto personale alla base della scelta di vivere insieme e di instaurare un consorzio familiare”; v. anche Cass. 27-4-2017, n. 10377 e 11-9-2015, n. 17971, secondo la quale, comunque, la situazione di detenzione in questione “viene meno con la cessazione della famiglia per decesso del convivente”). Peraltro, viene negata, sulla base della convivenza, una situazione “qualificabile possesso” (Cass. 18-10-2016, n. 21023).

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tando un precedente prevalentemente contrario orientamento giurisprudenziale, anche come espressione della recente tendenza nel senso dell’abbandono di più rigide concezioni tradizionali in tema di ingiustizia del danno) 35. Sotto il profilo dei rapporti tra conviventi, dal carattere di dovere morale e sociale reputato proprio dell’impegno di assistenza reciproca tra i conviventi more uxorio, si è dedotta l’applicabilità del regime delle obbligazioni naturali (art. 2034) – con conseguente irripetibilità di quanto spontaneamente prestato – alle contribuzioni da ciascuno di essi effettuate per soddisfare le esigenze del ménage familiare 36. La diversità delle rispettive situazioni del convivente e del coniuge, costantemente 35 Cass. 2988/1994 (alla cui impostazione di fondo si richiama, più di recente, ad es., Cass. 16-9-2008, n. 23725), ha rilevato che, quanto al danno morale, “non può esservi dubbio che anche la perdita del convivente more uxorio determina nell’altro una particolare sofferenza, un patema analogo a quello che si ingenera nell’ambito della famiglia”; quanto al danno patrimoniale, è determinante “la prova del contributo patrimoniale e personale apportato in vita, con carattere di stabilità, dal convivente e che è venuto a mancare in conseguenza della sua morte”. Ciò ove la “convivenza di due soggetti” – la Corte precisa (ancora) “di sesso diverso” – abbia dato realmente vita ad una famiglia di fatto, quale “relazione interpersonale, con carattere di tendenziale stabilità, di natura affettiva e parafamiliare”, che “si esplichi in una comunanza di vita e di interessi e nella reciproca assistenza morale e materiale”. Con specifico riferimento al risarcimento del danno derivato dalla “lesione materiale, cagionata alla persona” del convivente, Cass. 29-4-2005, n. 8976, posto che “il dato comune che emerge dalla legislazione vigente e dalle pronunce giurisprudenziali, è che la convivenza assume rilevanza sociale, etica e giuridica in quanto somiglia al rapporto di coniugio, anche nella continuità nel tempo”, richiede che sia dimostrata “l’esistenza e la durata di una comunanza di vita e di affetti, con vicendevole assistenza materiale e morale”, la prova, cioè, “della assimilabilità della convivenza di fatto a quella stabilita dal legislatore per i coniugi” (ad una “relazione caratterizzata da stabilità e da mutua assistenza morale e materiale”, allude Cass. 23725/2008; una relazione di vita “assimilabile al rapporto matrimoniale”, richiede Cass. 7-6-2011, n. 12278; analogamente, in sostanza, Cass. 16-6-2014, n. 13654). Peraltro, Cass. 31-3-2013, n. 7128, oltretutto con riguardo ad un’ipotesi di danno riflesso da lesioni personali (per cui v., già, Cass. 8976/2005 e, poi, implicitamente, Cass. 7-3-2016, n. 4386), prende in considerazione – precisando che “la convivenza non ha da intendersi necessariamente come coabitazione” ed alludendo alla rilevanza pure “di relazione prematrimoniale o di fidanzamento” – anche uno “stabile legame tra due persone, connotato da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti”, pur se non necessariamente strutturato, al momento dell’altrui fatto illecito, come un rapporto di coniugio. Così, una volta riscontrata la presenza di “un legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale” le parti “abbiano spontaneamente e volontariamente assunto reciproci impegni di assistenza morale e materiale”, Cass. 13-4-2018, n. 9178, ritiene senz’altro che, “ai fini del risarcimento del danno da perdita del familiare, la coabitazione non è elemento costitutivo della famiglia di fatto, bensì semplice indizio o elemento presuntivo della sua ricorrenza” (e v. anche Trib. Firenze 25-3-2015, con riferimento al diritto al risarcimento della fidanzata, pur non coabitante con la vittima). Il risarcimento si tende a considerare da tempo senz’altro dovuto anche al convivente more uxorio di ugual sesso (Trib. Milano 12-9-2011). Alla posizione del convivente more uxorio allude l’art. 1292 D.Lgs. 7.9.2005, n. 209, in tema di esclusione dai benefici dell’assicurazione obbligatoria per i veicoli a motore e i natanti (con esclusione della sua qualità di “terzo”, al pari del coniuge, “limitatamente ai danni a cose”). Circa la rilevanza di una relazione qualificabile quale “famiglia di fatto” (nella prospettiva propria della c.d. famiglia ricomposta: V, 1.2), ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale a favore del convivente del genitore del figlio, in conseguenza dell’uccisione di quest’ultimo, v. Cass. 21-4-2016, n. 8037 (e, in proposito, v. pure Cass. 28989/2019). 36 In tale prospettiva, v., ad es., Cass. 22-1-2014, n. 1277, a proposito di periodiche dazioni di danaro nel corso del rapporto, considerate irripetibili se, oltre che caratterizzate da “spontaneità”, avvenute “nel rispetto dei principi di proporzionalità e adeguatezza” (e v. anche Cass. 1-7-2021, n.18721, con riguardo a spese effettuate per la ristrutturazione di un immobile di proprietà della convivente destinata a residenza familiare). Nella medesima prospettiva, quale adempimento di un’obbligazione naturale, Cass. 20-1-1989, n. 285, ha configurato anche la dazione di una somma di danaro da parte di un convivente all’altro in occasione della cessazione di una duratura convivenza.

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(almeno in linea di principio) ribadita dalla giurisprudenza (come accennato, anche costituzionale) 37, è stata ritenuta idonea a legittimare, dal punto di vista della legittimità costituzionale, l’attuale limitazione ai coniugi del reciproco diritto di successione a causa di morte 38, così come di escludere l’applicazione, in via analogica, alla famiglia di fatto del regime patrimoniale legale, quale disciplinato negli artt. 177 ss. 39 (non mancandosi, peraltro, per ovviare alla inapplicabilità delle regole previste per i rapporti tra coniugi, di invocare il principio dell’arricchimento senza causa 40, ai sensi dell’art. 2041) 41. Diffusa, piuttosto, è stata la tendenza a indirizzare i conviventi, ai fini della definizione degli assetti patrimoniali della convivenza, nella direzione della utilizzazione degli strumenti negoziali, anche in vista della relativa eventuale cessazione (e, quindi, in un’ottica di autoregolamentazione dei propri rapporti, che, in effetti, sola è sembrata realmente compatibile con la volontà di gestirli al di fuori dei vincoli che l’ordinamento ricollega al matrimonio) 42. 37 Di recente, comunque, Cass. 20-6-2013, n. 15481, muovendo, da una parte, dalla giurisprudenza secondo cui “il principio di indefettibilità della tutela risarcitoria trova spazio applicativo anche all’interno dell’istituto familiare” (V, 2.9), dall’altra, dai “segnali di una crescente attenzione del legislatore verso fenomeni di consorzio solidaristico e modelli familiari in cui per libera scelta si è escluso il vincolo, e con esso, le conseguenze legali del matrimonio”, pur reputando dovere restare “ferma la ovvia diversità dei rapporti personali e patrimoniali nascenti dalla convivenza di fatto rispetto a quelli originati dal matrimonio”, ha concluso che “la violazione dei diritti fondamentali della persona è configurabile all’interno di una unione di fatto, che abbia, beninteso, caratteristiche di serietà e stabilità, avuto riguardo alla irrinunciabilità del nucleo essenziale di tali diritti, riconosciuti, ai sensi dell’art. 2 Cost., in tutte le formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo”. Corte cost. 23-9-2016, n. 213, poi, in una prospettiva non dissimile (di tutela, cioè, di un diritto fondamentale, quello alla salute, “nell’ambito della comunità di vita”), ha reputato costituzionalmente illegittima la mancata inclusione del convivente tra i soggetti legittimati a fruire di permessi retribuiti per l’assistenza a persone affette da grave handicap (art. 333 L. 5.2.1992, n. 104 come risultante ai sensi della L. 4.11.2010, 183). 38 Corte cost. 26-5-1989, n. 310, al riguardo, evidenzia come la pacifica riferibilità della garanzia di cui all’art. 2 Cost. anche ai conviventi, non può ritenersi implicare anche la garanzia di un “diritto reciproco di successione mortis causa, il quale certo non appartiene ai diritti inviolabili dell’uomo, i soli presidiati dall’art. 2”. 39 In proposito, all’opportunità – al di là della disomogeneità delle situazioni – di evitare “un inammissibile appiattimento” tra famiglia di fatto e famiglia legittima si richiama Trib. Pisa 20-1-1988 (e v. anche App. Firenze 12-2-1991, reputando anch’essa infondata la relativa questione di legittimità costituzionale). 40 L’ingiustificato arricchimento sarebbe sussistente solo quando le prestazioni del convivente esorbitino dai limiti di “proporzionalità e adeguatezza”, rispetto a quanto da reputarsi confacente all’adempimento “dei doveri di carattere morale e civile di solidarietà e reciproca assistenza”, considerati gravare sui conviventi (risultando, quindi, priva di giustificazione la conseguente locupletazione dell’altro convivente: Cass. 15-5-2009, n. 11330, nonché Cass. 25-1-2016, n. 1266). Cass. 7-6-2018, n. 14732, ha precisato che, in caso di “conferimento effettuato a favore del partner in pendenza di una relazione sentimentale non finalizzato al vantaggio esclusivo di quest’ultimo, ma alla formazione e poi alla fruizione di un progetto comune” (nel caso di specie, una dimora comune), una volta “venuto meno il rapporto sentimentale tra i due”, il depauperato ha “diritto a recuperare quanto versato per quella determinata finalità, in piena applicazione e nei limiti dei principi dell’ingiustificato arricchimento” (ma v. la rilevanza accordata, onde escludere una simile ripetibilità, al risultare “la prestazione adeguata alle circostanze e proporzionale all’entità del patrimonio e alle condizioni sociali del solvens”: Cass. 18721/2021). 41 Quanto alla peculiare disciplina della impresa familiare, all’atteggiamento negativo di Cass. 2-5-1994, n. 4204, si contrappone l’apertura di Cass. 15-3-2006, n. 5632, secondo cui “l’art. 230 bis c.c. è applicabile anche in presenza di una famiglia di fatto, che costituisce una formazione sociale atipica a rilevanza costituzionale”. In proposito, v., comunque, infra, in relazione al nuovo art. 230 ter, quale introdotto ai sensi dell’art. 146 L. 76/2016. 42 Sulla base delle esperienze di altri paesi, si è a lungo discusso degli attuali limiti di liceità dei c o n t r a t t i d i c o n v i v e n z a , proponendosene anche, onde conferire certezza ad una prassi che tende a diffondersi, una

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b) L’art. 136 L. 76/2016 definisce i “conviventi di fatto” come “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”. Ai fini dell’“accertamento della stabile convivenza”, nella ricorrenza delle accennate condizioni, l’art. 137 rinvia “alla dichiarazione anagrafica”, resa ai sensi dell’art. 4 D.P.R. 223/1989 (concernente l’anagrafe della popolazione residente) 43. In dipendenza di una simile avvenuta “giuridicizzazione” della situazione di “convivenza”, prevale l’opinione che si possa parlare, ormai, di un vero e proprio nuovo stato familiare (II, 1.3): quello, appunto, di “convivente” 44. Risulta istituzionalizzata, innanzitutto, la relativa posizione verso la pubblica amministrazione, nel campo delle esigenze di assistenza reciproca, comunque già ampiamente tutelate a livello legislativo e regolamentare (in materia penitenziaria e sanitaria, peraltro anche, in certa misura, anticipandosi quanto ora previsto, in genere, in ordine alle “dichiarazioni anticipate di trattamento”: art. 138-41) 45. eventuale regolamentazione e tipizzazione in via legislativa. Pure prima dell’intervento legislativo in materia (con l’art. 150-64 L. 76/2016, su cui infra), in considerazione della meritevolezza degli interessi perseguiti (e, quindi, nella prospettiva dell’art. 13222, letto alla luce dell’art. 2 Cost.), un’articolata proposta è stata elaborata nell’ottobre 2011 a cura del Consiglio Nazionale del Notariato (proposta, questa, destinata ad avere ragguardevoli riflessi su successive iniziative di riforma legislativa e, attraverso queste, sotto molti aspetti, sulla stessa disciplina ora adottata della materia). In argomento, Cass. 8-6-1993, n. 6381, ha ritenuto che, in linea di principio, “la convivenza more uxorio tra un uomo ed una donna in stato libero non costituisce causa di illiceità e quindi di nullità di un contratto attributivo di diritti patrimoniali dall’uno a favore dell’altra o viceversa solo perché il contratto sia collegato a tale relazione”, concludendo, in particolare, per la validità di un contratto col quale si sia attribuito all’altra parte “il diritto di comodato di un appartamento”, anche se “vita natural durante”. I contratti aventi ad oggetto la regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra i componenti di una famiglia di fatto, da considerarsi “atipici” ai sensi dell’art. 1322, sono stati reputati, come tali, senz’altro ammissibili e validi, in quanto volti a regolare interessi meritevoli di tutela, in particolare, da Trib. Savona 24-6-2008. 43 Particolarmente controverso risulta il peso da riconoscere alle risultanze anagrafiche, ai fini dell’applicabilità della disciplina riferibile alla situazione di convivenza. Escluso il relativo carattere costitutivo della fattispecie legale di “convivenza”, tende a prevalere – e v., infatti, Trib. Milano 31-5-2016 – l’idea di una loro valenza di carattere probatorio (e, più specificamente, meramente presuntivo, con riferimento, in particolare, all’inizio della convivenza; diversamente, peraltro, Trib. Verona 2-12-2016, che ritiene poter essere provata la “stabile convivenza” solo attraverso le risultanze anagrafiche, non essendone ammessi “equivalenti”). E ciò anche per avere la Corte eur. dir. uomo 7-11-2013, ai fini delle esigenze di tutela giuridica della “vita familiare”, negato potersi attribuire peso decisivo alla stessa “convivenza”, almeno se intesa nel senso formalistico delle risultanze anagrafiche. Di recente, Cass. 9178/2018, ha ritenuto senz’altro “il dato della coabitazione attualmente un dato recessivo”, da intendere “come semplice indizio o elemento presuntivo dell’esistenza di una convivenza di fatto” (e v. anche Trib. Milano 30-1-2018). Il carattere esclusivamente probatorio delle risultanze anagrafiche sembra avallato, del resto, pure da Cass., sez. un., 5-11-2021, n. 32198, laddove vengono posti sul suo stesso piano, ai fini dell’accertamento del “fatto della nuova convivenza”, “altri indici di stabilità in concreto”. 44 Il perseguimento di un simile obiettivo da parte del legislatore – ispirato a precedenti iniziative di riforma della materia, come, in particolare, quella dianzi accennata dei DICO – sembra emergere, in particolare, dalla perimetrazione della nozione derivante dalla richiesta libertà di stato: limitazione, questa, che ha immediatamente suscitato fondate perplessità e preoccupazioni, di fronte alla frequenza del fenomeno della convivenza proprio tra persone ancora legate da vincoli di coniugio (e, ora, di unione civile), con conseguente proporsi del dianzi accennato problema del trattamento di simili situazioni. 45 Nella medesima prospettiva può essere inteso quanto previsto dall’art. 145, in tema di accesso alle graduatorie per “l’assegnazione di alloggi di edilizia popolare”. Del resto, anche quanto disposto dall’art. 148 in materia di funzioni di protezione in caso di incapacità dell’altra parte rispecchia (oltretutto lacunosamente) la già vigente disciplina.

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Vengono, poi, previsti una serie di diritti nei confronti dei terzi e dell’altra parte. Tra i primi, pare il caso di sottolineare il diritto a succedere nel contratto in caso “di morte del conduttore o di suo recesso dal contratto di locazione della casa di comune residenza” (art. 144), nonché, in caso di fatto illecito comportante il decesso del convivente, l’applicazione dei “medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite” (art. 149) 46. Tra i secondi, spiccano i nuovi diritti in campo abitativo, in caso di morte del convivente (art. 142-43) 47, nonché la pretesa agli alimenti, ove ne ricorra il presupposto dello stato di bisogno (V, 1.7), in caso di cessazione della convivenza, “per un periodo proporzionale alla durata della convivenza” (art. 165) 48. L’art. 146, poi, ha introdotto nel codice civile un art. 230 ter, concernente i diritti derivanti al convivente dalla partecipazione all’impresa familiare (dell’altro convivente) 49. Notevole rilevanza assume l’opzione a favore della possibilità, per i conviventi, di “disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza” (art. 150) 50. Per la forma del contratto di convivenza (così come per le relative modifiche e risoluzione), si prevede, sotto pena di nullità, l’atto pubblico o la scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato, che, assumendo le conseguenti responsabilità, “ne attestano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico” (art. 151). L’opponibilità ai terzi viene, poi, fatta di46 Previsione, quest’ultima, sintomatica di uno scarso approfondimento della problematica affrontata e, oltretutto, palesemente regressiva, a fronte dei dianzi ricordati approdi giurisprudenziali in materia, caratterizzati da una più ampia portata della tutela apprestata a favore della vittima dell’illecito (in quanto riferita, da una parte, anche alle lesioni personali, dall’altra, ad una sfera soggettiva non ristretta a quella emergente dalla nozione di “convivente”, quale delineata nell’art. 136-37). 47 Un simile (limitato) effetto successorio della convivenza richiama indubbiamente il diritto spettante al coniuge, ai sensi dell’art. 5402 (XII, 3.2), pur avendo il diritto del convivente superstite carattere temporaneo (due anni, ovvero pari al periodo di convivenza, comunque non oltre i cinque anni, essendone prevista, inoltre, la cessazione in caso di matrimonio, unione civile o nuova convivenza). Cass. 27-4-2017, n. 10377, esclusa comunque l’operatività a favore del familiare di fatto dell’art. 5402, ha ritenuto applicabile la nuova disciplina solo ove il rapporto di convivenza sia cessato dopo la relativa entrata in vigore. 48 Tale disposizione, a ragione diffusamente reputata inderogabile, pare rappresentare (come anche quella in precedenza accennata) il riflesso di una conseguita – sia pure attenuata – giuridicità del dovere di solidarietà tra conviventi, destinato ad emergere, quindi, almeno nel momento del venir meno dell’unione. Discutibile pare, allora, la scelta di collocare l’adempimento dell’obbligo alimentare in questione, nell’ordine degli obbligati ai sensi dell’art. 433 (V, 1.7), con precedenza (solo) sui fratelli e sorelle. In considerazione del suo carattere sicuramente innovativo, si è ritenuto che il diritto agli alimenti possa sorgere solo ove la convivenza sia cessata dopo l’entrata in vigore della L. 76/2016 (Trib. Milano 23-1-2017). Evidenzia i presupposti affinché sorga il diritto in questione, richiedendone una prova rigorosa, Trib. Milano 17-7-2019. 49 Si tratta di una previsione che, nell’intento di colmare una lacuna (ispirandosi a precedenti iniziative ormai lontane nel tempo), si presenta fin troppo carente, sotto diversi profili, rispetto al modello dell’art. 230 bis (V, 2.14), rendendo, così, prevedibilmente necessaria una sua interpretazione adeguatrice: ci si riferisce, in particolare, al silenzio circa il “diritto al mantenimento”, nonché alla mancata considerazione di diritti gestionali. Sicuramente più lineare, quindi, sarebbe stato limitarsi ad inserire il “convivente” tra i soggetti da tutelare elencati nell’art. 230 bis (con ciò, oltretutto, prendendo atto delle dianzi richiamate pregresse aperture in proposito della giurisprudenza). 50 In proposito, non si può fare a meno di sottolineare l’assenza, nella disciplina ora apprestata alla “convivenza”, di una qualsiasi regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra conviventi, dovendosi, di conseguenza, ritenere persistentemente operanti – in mancanza, appunto, di un “contratto di convivenza” – i (dianzi accennati) principi fin qui elaborati, in materia, dalla giurisprudenza.

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pendere dall’iscrizione all’anagrafe del comune di residenza dei conviventi, ai sensi del D.P.R. 223/1989 (art. 152) 51. Peraltro, la portata dell’istituto si presenza decisamente angusta, almeno alla luce dei suoi possibili contenuti, quali enunciati nell’art. 153, concernendo essi, oltre che la (di oscura funzione) “indicazione della residenza”, essenzialmente, le “modalità di contribuzione alle necessità della vita comune” 52 e l’eventuale scelta del regime patrimoniale legale della comunione dei beni 53: manca, infatti, qualsiasi riferimento, in particolare, alla materia delle conseguenze economiche della dissoluzione della convivenza, soprattutto in ordine alla quale si tende a mostrare interesse per la figura in questione 54. Ciò induce, allora, a riflettere circa il carattere tassativo o meno della previsione e ad interrogarsi sul valore conseguentemente da riconoscere ad eventuali pattuizioni al riguardo. Singolare si presenta la previsione di cause di “nullità insanabile” del contratto di convivenza (art. 156-57), riecheggianti – anche quanto a regime – veri e propri impedimenti matrimoniali (V, 2.4), quasi, insomma, da indurre a credere che il legislatore abbia finito col sovrapporre due (peraltro tradizionalmente reputate alternative) concezioni del contratto di convivenza stesso: la prima, tendente a individuare in esso (solo) un possibile arricchimento della situazione di convivenza, di per se stessa giuridicizzata e, come tale, fondativa (secondo quanto dianzi accennato) di uno stato personale (di natura familiare); l’altra, invece, propensa a riconoscere il contratto di convivenza quale unica via consentita agli interessati – nella prospettiva di valorizzazione della loro autonomia – per conseguire un peculiare status personale e familiare 55. L’intrinseca debolezza dei vincoli derivanti dal contratto di convivenza emerge, comunque, dalla relativa risolubilità, oltre che in caso di morte di uno dei contraenti o di matrimonio (o unione civile) “tra i contraenti o tra un contraente ed altra persona”, non 51

In effetti, una simile esigenza di carattere pubblicitario si ricollega soprattutto alla possibile scelta del regime legale di comunione dei beni (v. infra). Peraltro, quasi unanime è stato il rilievo dell’inadeguatezza dello strumento cui si è affidato il soddisfacimento dell’esigenza in questione (solo in parte rimediata da un intervento amministrativo, con la circolare del Ministero dell’Interno n. 7/2016). 52 Si aggiunge, “in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo”, con evidente allusione al principio contributivo, di cui all’art. 1433 (V, 2.10), che, quindi, i conviventi sono così in grado adottare come (vincolante) regola di fondo dei reciproci rapporti economici. 53 L’art. 154 prevede che il regime scelto può essere successivamente modificato (con la forma prevista dall’art. 151). 54 L’altra finalità su cui si è concentrata tradizionalmente l’attenzione per i contratti di convivenza risulta quella di accordare all’autonomia degli interessati spazi di regolamentazione in ordine ad aspetti successori del loro rapporto (non essendo presa in considerazione dalla legge la posizione di convivente ai fini della successione mortis causa): obiettivo in vista del quale sarebbe stata necessaria, ovviamente, una (diffusamente auspicata, ma qui omessa) deroga al divieto dei patti successori (XII, 1.2). 55 In tale ultima ottica non possono che essere lette, in particolare, la condizione dell’esclusività del rapporto (assenza di vincolo matrimoniale o di unione civile, ma anche di “altro contratto di convivenza”), la rilevanza dell’impedimento di “delitto” (di cui all’art. 88), la non assoggettabilità a termine o a condizione (con evidente richiamo al divieto in materia matrimoniale, di cui all’art. 108). Il contorto rapporto, ai fini del conseguimento di uno stato familiare, tra “convivenza” e “contratto di convivenza” emerge, poi, dal riferimento, come autonoma causa di nullità (oltre che alla minore età ed all’interdizione giudiziale), alla “violazione del comma 36”, in cui sono elencati i requisiti – i quali sembrerebbero assurgere, così, a requisiti di validità del contratto – richiesti per la ricorrenza della situazione di “convivenza”, quale ora (almeno dichiaratamente) suscettibile di essere presa in considerazione.

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solo a seguito di “accordo delle parti”, ma anche per “recesso unilaterale” (art. 159). In effetti, unica sicura forma di tutela resta la (dianzi accennata) eventuale insorgenza dell’obbligo alimentare 56. Per la dichiarazione risolutiva della convivenza è richiesta la stessa forma del contratto di convivenza (art. 160). Un peculiare (e macchinoso) regime di notifiche è stabilito per il caso di recesso unilaterale (art. 161), così come nell’ipotesi di matrimonio o di unione civile di uno dei contraenti (ovviamente se con altri: art. 162), nonché in quella di morte di uno dei contraenti (art. 163) 57.

5. Caratteri degli atti e dei diritti familiari. – Gli atti concernenti i rapporti familiari devono ritenersi contrassegnati da caratteri peculiari, quale riflesso della peculiarità degli interessi coinvolti nelle vicende familiari. Indubbiamente, ai fini della caratterizzazione degli atti in questione e delle situazioni giuridiche che ne derivano, è destinato ad assumere rilievo il superamento della tendenza a ravvisare l’esistenza di un “interesse superiore” della famiglia (V, 1.2): l’accreditarsi, cioè, di una visione della famiglia come formazione sociale, la cui meritevolezza di riconoscimento da parte dell’ordinamento dipende dalla sua concreta funzionalità ad assicurare lo sviluppo della personalità dei relativi membri, nel rispetto dei valori di libertà e di eguaglianza. L’intimità e l’essenzialità dei vincoli esistenziali che legano i membri del gruppo familiare sembrano imporre, comunque, che tali valori siano equilibrati con quelli di responsabilità e di solidarietà. Di qui la marcata specificità che è da ritenere continui a contraddistinguere gli atti familiari. Specificità alla luce della quale, pur in un indubbio quadro di valorizzazione dell’autonomia degli interessati nella disciplina dei reciproci rapporti, pare inaccettabile – almeno senza un adeguato controllo di compatibilità – l’estensione ad essi dei principi e delle regole considerate proprie dell’autonomia negoziale, in quanto elaborati con riferimento alla materia contrattuale 58. Ne consegue che, se all’accordo dei coniugi deve, oggi, essere riconosciuta una portata ben maggiore che in passato, tanto nella fase fisiologica della vita familiare, quanto in quella patologica 59, esso è destinato ad operare, pur sempre, entro una griglia di prin56 Ipotizzabile si presenta anche l’invocazione del meccanismo risarcitorio, già ammesso, come dianzi rilevato, dalla giurisprudenza pure a tutela del convivente more uxorio. Peraltro, i limiti intrinseci di operatività di tale strumento nello stesso ambito matrimoniale (V, 2.9) risultano qui accentuati in dipendenza dell’incerta sussistenza – e comunque perimetrazione – della doverosità dei comportamenti cui sono reciprocamente tenuti i conviventi. 57 In tale ultimo caso, ricevuta la notifica dell’estratto dell’atto di morte, il professionista intervenuto alla stipula deve provvedere “ad annotare a margine del contratto di convivenza l’avvenuta risoluzione del contratto” (oltre che ad informarne l’anagrafe del comune di residenza, presso il quale devono essere effettuate, come accennato, le formalità pubblicitarie, ai sensi dell’art. 152). 58 Così, in particolare, sono state ritenute applicabili le “norme generali che disciplinano la materia dei vizi della volontà”, ma sempre “nei limiti in cui dette norme risultino compatibili con la specificità” del negozio di diritto familiare considerato (nella specie, l’accordo di separazione consensuale: V, 3.2), con la conseguente esperibilità dell’azione di annullamento, in quanto “non limitata all’istituto contrattuale ma estensibile ai negozi che riguardano i rapporti giuridici non patrimoniali, cui appartengono quelli appunto di diritto familiare”, a presidio della “libertà del consenso come effetto del libero incontro della volontà delle parti” (Cass. 20-3-2008, n. 7450; circa la dichiarazione di riconciliazione, Cass. 12-1-2012, n. 334). 59 Particolarmente significativa, al riguardo, pare l’opzione legislativa nel senso di rimettere alla scelta dei

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cipi inderogabili (quali, in particolare, quello della preminenza dell’interesse del minore e quello di necessaria contribuzione ai bisogni della famiglia). La specificità risulta, ovviamente, maggiore per gli atti su cui venga a fondarsi la stessa società coniugale (o se ne produca la dissoluzione) e si determini l’acquisto (o la modificazione) degli stati familiari (status di coniuge, unito civilmente, figlio, genitore) (II, 1.3). Tali atti sono annoverabili tra quelli puri (non ammettendo l’apposizione di termini o condizioni) e personalissimi (non ammettendo rappresentanza nel relativo compimento, ma solo eccezionali ipotesi di intervento di un nunzio, come ai sensi dell’art. 111 per il matrimonio), oltre che tipici (in quanto prefigurati secondo rigidi modelli legali) e formali (o solenni, in considerazione dell’importanza che essi rivestono per le parti e di quella loro rilevanza sociale che ne impone spesso il compimento con l’intervento di organi pubblici). La tipicità dell’atto tende a riflettersi anche in quella degli effetti, disposti con norme, almeno in linea di massima, inderogabili. Una simile inderogabilità è più marcata per gli effetti di natura personale 60, mentre, quanto agli assetti patrimoniali della famiglia, sicuramente più estesa è la sfera di operatività riconosciuta all’autonomia degli interessati (tanto da essere consentita, con la forma prescritta, la stipulazione di convenzioni che diano vita a regimi patrimoniali atipici, ma, non a caso, con una serie di limiti sostanziali: artt. 159 ss.) (V, 2.11). La natura degli interessi esistenziali in gioco nei rapporti familiari condiziona i caratteri delle situazioni giuridiche soggettive di cui sono titolari, in quanto tali, i membri della famiglia. Quali diritti fondamentali della persona, i diritti familiari 61 presentano i caratteri della indisponibilità (non potendo la volontà degli stessi titolari incidere sulle relative vicende: essi risultano, quindi, irrinunciabili e inalienabili) e della imprescrittibilità, nonché della intrasmissibilità e della non patrimonialità (pur potendo, infatti, avere un contenuto economicamente rilevante, essi sono riconosciuti in vista della funzione che svolgono a tutela di esigenze esistenziali fondamentali della persona).

6. Parentela e affinità. – Il matrimonio e la generazione costituiscono la fonte dei rapporti che legano i membri della famiglia, sia in quella nozione più ristretta che rappresenta il privilegiato punto di riferimento dell’ordinamento vigente, sia in quella più allargata che, pur maggiormente rilevante in passato, ancora viene presa talvolta in considerazione (V, 1.2). Dal matrimonio scaturisce, così, tra i coniugi, il rapporto di coniugio, derivandone coniugi l’utilizzazione dello strumento della “negoziazione assistita” (art. 6) – che circoscrive drasticamente lo spazio riconosciuto all’intervento giudiziale nelle procedure tradizionali – o, addirittura, della via amministrativa della procedura “innanzi all’ufficiale di stato civile” (art. 12), per definire la propria crisi familiare (D.L. 12.9.2014, n. 132, quale convertito con la L. 10.11.2014, n. 162) (V, 3.2-5). Per la valutazione di tali istituti nella prospettiva di forte “valorizzazione dell’autonomia privata anche nella fase della crisi matrimoniale”, Cons. Stato, sez. III, 26-10-2016, n. 4478. 60 A tale riguardo, peraltro, è da rilevare una spinta nel senso di accordare crescente rilievo alla volontà degli interessati anche con riferimento a materie sin qui estranee a qualsiasi loro potere decisionale. Significative, così, risultano le recenti prospettive in tema di scelta del cognome familiare (IV, 2.10). 61 Tra cui è da annoverare anche lo stesso diritto di ciascuno al godimento ed al riconoscimento della propria posizione (status: II, 1.3) nell’ambito della famiglia, come presupposto e sintesi di diritti e doveri alla posizione medesima connessi.

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anche quello di affinità, che lega ciascun coniuge ai parenti dell’altro. La generazione si pone alla base del rapporto di parentela. La parentela è il “vincolo tra le persone che discendono dallo stesso stipite” (art. 74). Ai sensi dell’art. 75, sono parenti in linea retta coloro che discendono l’uno dall’altro, immediatamente (genitori e figli), o per generazioni successive (nonni e nipoti); sono parenti in linea collaterale coloro che, pur avendo un ascendente comune, non discendono l’uno dall’altro (fratelli e sorelle, zii e nipoti, cugini) 62. Circa i gradi che misurano la prossimità della parentela (art. 76), nella linea retta, si computano tanti gradi quante sono le generazioni, non contando lo stipite (il rapporto tra genitore e figlio è di primo grado, di secondo quello tra nonno e nipote); nella linea collaterale, i gradi si computano sulla base delle generazioni, risalendo da un parente fino all’ascendente comune e da questo discendendo all’altro parente (sempre escludendo lo stipite: di secondo grado è la parentela tra fratelli e sorelle, di terzo quella tra zio e nipote, di quarto quella tra cugini). Il rapporto di parentela è giuridicamente rilevante, in linea di massima 63, fino al sesto grado (art. 77) (in particolare, ai fini della successione legittima: art. 572). Modificando l’art. 74, la L. 219/2012, ha precisato – in applicazione del principio di cui al nuovo art. 315, per cui “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico” – che il vincolo di parentela sussiste “sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo” 64. Il sorgere del vincolo di parentela viene escluso solo “nei casi di adozione di persone maggiori di età, di cui agli artt. 291 ss.” 65. 62 I fratelli si definiscono germani, se hanno in comune ambedue i genitori, unilaterali, se hanno in comune un solo genitore (consanguinei il padre, uterini la madre). La distinzione assume rilievo in relazione all’obbligazione alimentare (art. 433, n. 6) ed in materia successoria (artt. 5702 e 5712). 63 Riferito, peraltro, alla parentela “in linea retta all’infinito” è il vincolo che determina la necessità dell’autorizzazione giudiziale ai fini del riconoscimento, ai sensi dell’art. 2511. 64 Risulta superata, così, la discussione circa la necessità o meno di distinguere, alla luce del precedente quadro normativo, la parentela legittima da quella naturale, a seconda che il rapporto di generazione, il quale è alla sua base, si radichi o meno nel matrimonio: distinzione – essenzialmente fondata sull’originario art. 2581, per cui il riconoscimento del figlio naturale produceva i suoi effetti solo nei riguardi del genitore (e non dei suoi parenti), “salvo i casi previsti dalla legge” (in particolare, nella previgente formulazione, artt. 871, 433, n. 2, 4671) – contestata sulla base della comprensività della (originaria) formulazione dell’art. 74, da interpretare alla luce del principio costituzionale (di cui all’art. 303) del superamento di ogni discriminazione nei confronti dei figli nati fuori del matrimonio (con conseguente inammissibilità di qualsiasi trattamento della loro posizione in contrasto col principio di eguaglianza rispetto ai figli nati nel matrimonio e, quindi, anche con riguardo alla rilevanza del rapporto di parentela con i parenti del genitore). Solo una limitata rilevanza della parentela naturale, in effetti, era stata riconosciuta dalla Corte costituzionale (4-7-1979, n. 55 e 12-4-1990, n. 184), ammettendo la successione legittima (ai sensi dell’art. 565) tra fratelli e sorelle naturali, prima dello Stato, ma esclusivamente in mancanza di altri successibili (in assenza, quindi, di altri parenti legittimi entro il sesto grado). Pur prendendo atto, allora, della posizione negativa assunta dalla Corte costituzionale (anche con la sentenza 23-11-2000, n. 532) e dell’impossibilità di “svolgere un non consentito ruolo di supplenza del legislatore”, Cass. 10-9-2007, n. 19011, aveva formulato l’auspicio di un intervento legislativo nel senso “della completa parificazione di tutti i parenti naturali a quelli legittimi, con tutte le conseguenze che ne derivano, tra l’altro, in ambito successorio”, attraverso “una nuova definizione dell’istituto della parentela, riferibile a tutte le persone che discendono da uno stesso stipite”. Ovvie, in effetti, si presentano le conseguenze dell’intervenuta riforma sulla disciplina della successione per causa di morte. 65 Tale formulazione ha suscitato un contrasto di opinioni circa la riferibilità o meno dell’accennata esclusione pure all’ipotesi di adozione in casi particolari, dato il rinvio, disposto per essa dall’art. 55 L. 184/1983,

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PARTE V – FAMIGLIA

Meno rilevante del rapporto di parentela è quello di affinità (art. 78), quale “vincolo tra un coniuge e i parenti dell’altro coniuge” 66. Linee e gradi di affinità corrispondono a quelli di parentela: il coniuge è affine di secondo grado in linea collaterale (cognato), rispetto al fratello del proprio coniuge (parente di secondo grado in linea collaterale di costui); i genitori sono affini in linea retta di primo grado (suoceri), rispetto al coniuge del proprio figlio (di cui sono, appunto in quanto genitori, parenti in linea retta di primo grado). Il rapporto di affinità (che assume, in particolare, rilievo in materia di impedimenti al matrimonio, art. 87, nonché di alimenti, art. 433, e di indennità in caso di morte del lavoratore, art. 2122) non cessa con la morte del coniuge da cui deriva (e, si ritiene, neppure col divorzio); cessa, invece, in caso di dichiarazione di nullità del matrimonio (salvo quanto previsto dall’art. 87, n. 4).

7. Gli alimenti. – L’obbligo di prestare gli alimenti, quale tipica ipotesi di obbligazione legale (XI, 1.1), trova il proprio fondamento nella solidarietà familiare (art. 433). Esso, peraltro, grava pure – e, anzi, con precedenza su ogni altro obbligato – sul donatario (art. 437) 67. Tale obbligo, comunque, può avere quale fonte anche l’autonomia privata (contratto, testamento: legato di alimenti, art. 660). L’obbligazione alimentare tra i componenti della famiglia è disciplinata, quanto all’identificazione degli obbligati, dall’art. 433, che stabilisce un ordine tra di essi, ponendo al primo posto il coniuge 68, quindi i soggetti legati da un rapporto di discendenza (figli e discendenti prossimi, genitori e ascendenti prossimi), poi gli affini in linea retta (generi e nuore, suoceri) e, infine, i fratelli e le sorelle. Nell’ambito della famiglia nucleare, in realtà, l’obbligo alimentare finisce con l’avere una funzione residuale: tra i coniugi (e tra le parti dell’unione civile: art. 111 L. 76/2016) opera, ai sensi dell’art. 1433, il dovere (reciproco) di contribuzione (V, 2.9-10), cui è tenuto anche il figlio finché dura la convivenza (evidentemente, proprio in considerazione di essa: art. 315 bis4); a favore dei figli (art. 315 bis) 69 e del coniuge, in ipotesi di sepa 

artt. 300 e 304, disciplinanti proprio gli effetti dell’adozione di persone maggiori di età (V, 4.8). In proposito, Cass. 29-4-2020, n. 8325, sembra dare (incidentalmente) per scontata l’interpretazione secondo cui “l’adozione in casi particolari non crea legami parentali con i congiunti dell’adottante ed esclude il diritto a succedere nei loro confronti”. Corte cost. 9-3-2021, n. 33 reputa “ancora controverso” – appunto alla luce dell’art. 55 L. 184/1984 – “se anche l’adozione in casi particolari consenta di stabilire vincoli di parentela tra il bambino e coloro che appaiono, e lui stesso percepisce, come i propri nonni, zii, ovvero addirittura fratelli e sorelle, nel caso in cui l’adottante abbia già altri figli propri” (e Corte cost. 9-3-2021, n. 32 parla di “incerta incidenza della modifica dell’art. 74”). Peraltro, Trib. min. Bologna 3-7-2020 propende per l’essere stata operata “un’abrogazione tacita dell’art. 55 della legge n. 184/ 1983, nella parte in cui richiama l’art. 300, comma 2” (solo limitandosi, per motivi di competenza, “a riconoscere il legame di parentela tra fratelli”). Comunque la questione risulta, infine, superata da Corte cost. 28-3-2022, n. 79, che ha reputato costituzionalmente illegittimo l’art. 55 della L. 184/1983, nella parte in cui rinvia all’art. 300. 66 La costituzione del rapporto di affinità è da ritenere esclusa tra le parti dell’unione civile, mancando, nella L. 76/2016, uno specifico riferimento all’art. 78. 67 Sulla rilevanza pur indubbiamente accordata in tale ipotesi alla riconoscenza, sembra prevalere, tutto sommato, l’idea di una sorta di restituzione del beneficio ricevuto: gli alimenti, infatti, sono dovuti dal donatario solo nei limiti del “valore della donazione tuttora esistente nel suo patrimonio”, art. 4383. 68 Alla cui posizione risulta assimilata quella dell’unito civilmente, ai sensi dell’art. 119 della L. 76/2016, il cui art. 165, poi, colloca con precedenza (solo) di quello dei fratelli e sorelle l’obbligo alimentare eventualmente gravante sul convivente in caso di cessazione della convivenza (V, 1.4). 69 Il dovere di mantenimento dei genitori nei confronti del figlio (al cui venir meno residua l’operatività della  

 

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razione a lui non addebitata (ove ne ricorrano i presupposti: V, 3.3), è dovuto il mantenimento. L’obbligazione di mantenimento si ritiene caratterizzata, in effetti, da un contenuto più ampio di quella alimentare (non trovando il proprio presupposto in uno stato di bisogno, cui sono destinati a sopperire gli alimenti), in quanto riferita al parametro del tenore di vita familiare, al quale il beneficiario, quindi, deve essere messo in grado di partecipare (o di continuare a partecipare) 70. Il presupposto del sorgere del diritto a ricevere gli alimenti (art. 438) è costituito dallo stato di bisogno di chi non sia in grado di soddisfare le proprie necessità di vita (anche se una simile condizione derivi da comportamenti del soggetto medesimo). La relativa misura si determina in proporzione del bisogno dell’alimentando e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli: le necessità di vita, che rappresentano il parametro di riferimento per la relativa concreta determinazione, non si reputano limitate allo stretto essenziale per la sopravvivenza, ma estese a tutto quanto consenta, alla luce delle valutazioni correnti, una vita dignitosa (pure, in particolare, in considerazione di eventuali esigenze di istruzione e formazione professionale), anche tenendo conto della posizione sociale del soggetto (in una prospettiva, quindi, di relatività, che esclude la possibilità di utilizzare criteri uniformi per tutti). Allo stretto necessario sono limitati, peraltro, gli alimenti tra fratelli (art. 4391). Gli alimenti sono dovuti solo dal momento della domanda giudiziale o dalla costituzione in mora dell’obbligato (art. 445), possibile essendo, fino alla relativa determinazione definitiva, un assegno provvisorio (art. 446). Circa le modalità di somministrazione, essi possono essere prestati, a scelta dell’obbligato, mediante un assegno periodico, ovvero mante 

sola obbligazione alimentare), come costantemente sostenuto dalla Cassazione (ad es., 11-3-1998, n. 2670; 25-72002, n. 10898; 8-2-2012, n. 1773), non cessa con il raggiungimento della maggiore età, ma si protrae “fino a quando non sia in grado di provvedere direttamente alle proprie esigenze, o non versi in colpa per il mancato raggiungimento dell’indipendenza economica”. Ciò assume, ovviamente, particolare rilevanza con riguardo alle esigenze derivanti dalla necessaria acquisizione di una adeguata istruzione e formazione professionale. Si tende a ritenere che, una volta venuto meno in conseguenza dell’espletamento di attività lavorativa, il diritto del figlio maggiorenne al mantenimento non risorga nel caso di un successivo abbandono dell’attività lavorativa medesima, che pure lo renda privo di autosufficienza economica (fermo restando, ove ne ricorrano i presupposti, il diritto agli alimenti: Cass. 7-7-2004, n. 12477; più di recente, 9-2-2021, n. 3163 e 14-3-2017, n. 6509). Circa la persistenza dell’obbligo di mantenimento, Cass. 4-6-2014, n. 12477, accenna alla necessità di applicare “criteri di rigore proporzionalmente crescente in rapporto all’età dei beneficiari” (e Cass. 22-6-2016, n. 12952, sottolinea il peso da conferire all’“avanzare dell’età” – almeno “in mancanza di ragioni individuali specifiche” – come “indicatore forte d’inerzia colpevole” nel conseguimento dell’“autosufficienza”; in prospettiva sostanzialmente analoga, Cass. 5-3-2018, n. 5088). Da ultimo, per l’accentuazione della “autoresponsabilità” del figlio per il proprio mantenimento, con un suo “obbligo”, una volta finiti gli studi, di attivarsi per cercare un “qualsiasi lavoro”, v. Cass. 29-7-2021, n. 21817 e 14-8-2020, n. 17183. Nel ribadire che è il genitore interessato alla declaratoria di cessazione dell’obbligo a dover provare la conseguita indipendenza del figlio (o la imputabilità allo stesso del relativo mancato conseguimento: Cass. 1-2-2016, n. 1858), Cass. 20-8-2014, n. 18076, anche ai fini della persistenza del diritto ad abitare la casa familiare, valorizza la rilevanza delle “circostanze di fatto da cui desumere in via presuntiva l’estinzione dell’obbligazione”, tenendo presente che “il diritto del figlio” – dato che “l’obbligo non può essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura” – “si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione”. Per l’accentuazione del peso della prova presuntiva, v. anche Cass. 17183/2020 (secondo cui, peraltro, “l’onere della prova delle condizioni che fondano il diritto al mantenimento è a carico del richiedente”). Per i problemi posti, al riguardo, dalla crisi familiare, v. l’art. 337 septies (V, 4.10). 70 In caso di divorzio, è previsto, a carico di uno dei coniugi, l’eventuale sorgere – in applicazione di complessi criteri – di un’obbligazione (quella di corrispondere un assegno di divorzio: V, 3.5), quando l’altro coniuge “non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive” (art. 56 l. div.).

 

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PARTE V – FAMIGLIA

nendo direttamente l’alimentando nella propria casa: in ultima analisi, in caso di divergenti vedute tra le parti, è il giudice a determinare il modo di somministrazione (art. 443). L’obbligazione degli alimenti è destinata a restare collegata alla sussistenza dei relativi presupposti. Di conseguenza, se dopo la relativa assegnazione “mutano le condizioni economiche di chi li somministra o di chi li riceve”, sarà l’autorità giudiziaria a provvedere, secondo le circostanze, nel senso della cessazione, riduzione o aumento (art. 440) 71. L’obbligazione ha natura personale e, quindi, cessa con la morte dell’obbligato (art. 448) 72, dovendosi, in conseguenza di ciò, individuare, in tal caso, un altro obbligato, in applicazione dell’ordine stabilito dall’art. 433. Il diritto agli alimenti, per la sua peculiare funzione, si ritiene rientrare tra i diritti fondamentali della persona e avere – nonostante la rilevanza economica del relativo contenuto – natura non patrimoniale (dato il carattere esistenziale dell’interesse che deve soddisfare). Proprio per questo, è da reputare irrinunciabile (e imprescrittibile, anche se si prescrivono le relative rate scadute da almeno 5 anni: art. 2948, n. 2), essendone prevista la incedibilità, oltre che l’inammissibilità di compensazione (art. 447), pure ove si tratti di prestazioni arretrate. Il credito alimentare, inoltre, è impignorabile (tranne che per causa di alimenti dovuti ad altri: art. 545 c.p.c.) e, di riflesso, insequestrabile (art. 671 c.p.c.).

8. Ordini di protezione contro gli abusi familiari. – Nel corpo del codice civile, con la L. 4.4.2001, n. 154 (recante “misure contro la violenza nelle relazioni familiari”), sono stati inseriti gli artt. 342 bis e ter, che contemplano la possibile adozione di ordini di protezione contro gli abusi familiari, in caso di condotte “causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente”, precisandone il relativo, duttile, contenuto. Tali disposizioni si presentano inserite in un contesto di misure finalizzate a dare risposta ad un problema particolarmente avvertito in una società percorsa da una innegabile incertezza di valori, anche familiari, e da rilevanti diversità culturali: misure quali, in particolare, l’eventuale allontanamento dalla casa familiare, con provvedimento del giudice penale, nei confronti dell’imputato (art. 282 bis c.p.p.) e la previsione di un peculiare procedimento per l’emanazione dei provvedimenti in questione (art. 736 bis c.p.c.). Il complesso delle misure introdotte dalla L. 154/2001 risulta coordinato, per quanto riguarda la posizione familiare dei minori 73, con il contemporaneo intervento – inquadrato nella L. 28.3.2001, n. 149 (V, 4.8) – diretto a consentire, attraverso la modifica degli artt. 330 e 333, l’ordine di allontanamento dalla residenza familiare del genitore o convivente che maltratti o abusi del minore (con la relativa competenza del tribunale per i minorenni, invece che del tribunale ordinario) 74. 71 Lo stesso regime di rivedibilità si estende anche al mantenimento nei confronti del coniuge separato e dei figli, nonché all’assegno di divorzio (artt. 1567, 337 quinquies e 91 l. div.). 72 L’art. 448 bis stabilisce che il figlio non è tenuto a prestare gli alimenti al genitore decaduto dalla responsabilità genitoriale (per il contenuto di tale disposizione, con riguardo ai relativi profili successori, v. infra, XII, 1.4). 73 La disciplina in questione è coordinata pure con le procedure di separazione e divorzio, nel cui quadro è stato previsto che possano venire adottati provvedimenti aventi i contenuti indicati all’art. 342 ter (art. 8). L’art. 123, lett. b, L. 206/2021 prevede l’introduzione di misure procedurali peculiari nel caso di violenza domestica o di genere, anche con specifico riguardo al minore ed all’esigenza di rispetto della sua volontà. 74 Ciò pone un problema di possibile sovrapposizione di competenze, in particolare, nei casi di violenza

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Per coprire l’intera area di possibile esplicazione di violenza nelle relazioni familiari, da una parte, lo strumentario di tutela risulta allargato ad ogni situazione di convivenza – non solo, quindi, matrimoniale o di unione civile (art. 114 L. 76/2016) – caratterizzata da una certa stabilità della relazione di vita (anche tra persone dello stesso sesso) 75. Dall’altra, la disciplina risulta applicabile – con una scelta pragmaticamente sensibile alla varietà delle situazioni esistenti nella realtà – pure nel caso di condotta pregiudizievole tenuta da altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o convivente, ovvero nei relativi confronti (art. 5) 76. Gli ordini che possono essere adottati concernono essenzialmente la cessazione della condotta pregiudizievole e l’allontanamento del responsabile dalla casa familiare, oltre alla inibizione di avvicinarsi ai luoghi in cui si svolge la vita della vittima. Risulta anche possibile imporre il pagamento di un assegno periodico a favore delle persone conviventi destinate a restare prive di mezzi adeguati (con l’eventuale corresponsione diretta da parte del datore di lavoro dell’obbligato). Puntuale è la disciplina tendente ad assicurare l’osservanza dei provvedimenti, la cui elusione espone il responsabile alle sanzioni penali previste dall’art. 388 c.p. (concernente la mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice) (art. 6).

indiretta, ossia di condotte abusive nei confronti del coniuge o convivente, atte a cagionare pregiudizio al minore costretto ad assistervi (e v. Trib. Genova 7-1-2003, per la rilevanza della considerazione della situazione del minore, ai fini dell’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 342 ter). 75 È da ritenere, quindi, anche indipendentemente dalla ricorrenza degli specifici requisiti cui l’art. 136 della L. 76/2016 ricollega la qualifica di “conviventi di fatto” (V, 1.4). 76 Ad un caso di allontanamento della figlia dalla casa familiare su richiesta della madre (per “violenze fisiche e morali”) ha riguardo Cass. 5-1-2005, n. 208 (e v. anche Trib. Messina 24-9-2005), che ha concluso nel senso della inammissibilità, in materia, del ricorso per Cassazione, pure ai sensi dell’art. 111 Cost. A rapporti conflittuali tra fratelli allude Trib. Padova 31-5-2006.

CAPITOLO 2

MATRIMONIO Sommario: 1. Matrimonio e famiglia. – A) ATTO. – 2. Le forme matrimoniali. – 3. Libertà matrimoniale e promessa di matrimonio. – 4. Il matrimonio civile. Requisiti. – 5. Formalità e celebrazione. – 6. Invalidità del matrimonio. – 7. Conseguenze della invalidità. – 8. Il matrimonio concordatario. – B) EFFETTI. – 9. Rapporti personali tra coniugi. – 10. Regime patrimoniale della famiglia. Il regime primario. – 11. Convenzioni matrimoniali. – 12. Comunione legale. – 13. Regimi convenzionali. – 14. Impresa familiare. – C) UNIONE CIVILE. – 15. Unione civile e matrimonio. – 16. Costituzione della unione civile. – 17. Effetti della unione civile.

1. Matrimonio e famiglia. – Per l’art. 291 Cost., il matrimonio costituisce il fondamento della famiglia, secondo la tradizionale prospettiva che ravvisa un imprescindibile collegamento, appunto, tra la nascita dell’organismo familiare (col relativo riconoscimento e garanzia da parte dell’ordinamento giuridico) e l’istituto matrimoniale. Certo, come si è accennato (V, 1.4), l’esperienza familiare e la sua positiva valutazione da parte dell’ordinamento, in vista dello sviluppo della personalità dei soggetti in essa coinvolti, da tempo tendono a non essere più subordinate alla celebrazione del matrimonio. Questo, tuttavia, continua a rivestire un ruolo centrale anche nella società attuale, quale momento di stabilizzazione e di conferimento di rilevanza sociale all’impegno di vita che le parti con esso assumono 1. Manca una definizione del matrimonio, ma esistono elementi per individuarne l’essenza già in quella proclamazione di esso come “fondamento” di una “società naturale” (la famiglia: art. 291 Cost.), che trova, poi, la propria puntualizzazione con la delineazione dei tratti salienti della società coniugale quale operante comunità di vita (artt. 143 ss.) e, forse ancor più, con l’identificazione del valore tutelato dall’ordinamento nella “comunione spirituale e materiale dei coniugi” (sul cui venir meno gli artt. 1 e 2 L. 1.12.1970, n. 898, non a caso, fondano il divorzio). Il matrimonio può essere, quindi, considerato l’atto col quale gli sposi assumono l’impegno di realizzare una comunione di vita stabile e socialmente garantita, caratterizzata dalla esclusività della relazione personale e dalla reciprocità dell’assistenza e della contribuzione al soddisfacimento delle esigenze comuni. 1

Una simile persistente rilevanza sociale del matrimonio sembra essere oggi confermata, forse alquanto paradossalmente, proprio dalle istanze ovunque insistentemente rivolte – e in crescente misura via via realizzate – ad estenderlo anche a persone dello stesso sesso, le quali, evidentemente, riconnettono all’ammissione al matrimonio il riconoscimento di una reale piena dignità sociale della loro unione (proprio in una simile prospettiva, del resto, essendosi mossa la Corte Suprema degli Stati Uniti, 26-6-2015, per ammettere al matrimonio le persone dello stesso sesso).

CAP. 2 – MATRIMONIO

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Se la stabilità dell’impegno non ne implica la indissolubilità, essendo ammesso il divorzio, la garanzia sociale che l’impegno stesso consegue col matrimonio 2 si manifesta conferendo quel connotato di doverosità ai comportamenti delle parti, che si riflette anche nella tutela apprestata dall’ordinamento ai relativi interessi personali e patrimoniali pure in caso di dissoluzione della comunità familiare. Il matrimonio, allora, si presta ad essere visto (e viene tradizionalmente considerato) sia nella prospettiva dell’atto, nel quale si esprime l’impegno di fondare la famiglia, sia in quella del rapporto che ne deriva, da intendere come complesso dei diritti e dei doveri che sostanziano lo stato coniugale. Si tratta di una distinzione che assume una particolare rilevanza proprio in un sistema giuridico come il nostro, il quale risulta caratterizzato, come si vedrà (V, 2.2), da una pluralità di forme matrimoniali: una simile pluralità, infatti, riguarda la disciplina dell’atto matrimoniale e non quella degli effetti che ne derivano, regolati unitariamente dall’ordinamento civile 3. Il matrimonio, come atto, è un negozio bilaterale, concorrendo alla sua formazione la volontà dei due nubendi. Esso ha le caratteristiche proprie degli atti familiari (V, 1.5), di cui costituisce l’ipotesi esemplare. Come tale rifugge da ogni assimilazione concettuale al contratto, quale strumento tipico di esplicazione dell’autonomia privata in campo patrimoniale. Non solo, dunque, il matrimonio ha una propria regolamentazione, significativamente in larga misura divergente da quella dettata per il contratto, ma l’eventuale disciplina di aspetti non specificamente regolati, data la peculiare natura personale degli interessi coinvolti, non può mai essere individuata attraverso la diretta applicazione di disposizioni dettate in materia contrattuale. La prospettazione, con la legislazione seguita alla rivoluzione francese, della natura contrattuale del matrimonio 4, in effetti, ha avuto il senso di una reazione contro la precedente riserva alla disciplina confessionale della materia matrimoniale e di una rivendicazione dell’autorità statale – nei confronti di quella ecclesiastica – pure in ordine ad un istituto, quello del matrimonio, essenziale per la vita dei cittadini. Non si è mancato, peraltro, già nel code civil del 1804, di dettare una normativa del tutto peculiare, rispetto a quella generale del contratto, anche dell’atto matrimoniale, oltre che dei suoi effetti. L’elemento costitutivo del matrimonio è rappresentato dalla sola volontà manifestata personalmente ed incondizionatamente dagli sposi nelle forme previste dalla legge (trattandosi di negozio solenne): l’atto è, infatti, personalissimo e puro. Ciò si deduce, in particolare, dall’art. 111, data l’eccezionalità della celebrazione per procura (con la partecipa2

Proprio il carattere di impegno socialmente garantito vale a differenziare l’esperienza familiare fondata sul matrimonio dalla famiglia di fatto (V, 1.4), nella quale, secondo la ricordata impostazione della Corte costituzionale (18-1-1996, n. 8 e 13-5-1998, n. 166), la comunità di vita resta pur sempre legata alla “affectio quotidiana – liberamente e in ogni istante revocabile – di ciascuna delle parti”, che, così, dimostrano di “non voler assumere i diritti ed i doveri che nascono dal matrimonio”. 3 L’esclusiva competenza dell’ordinamento civile in ordine alla disciplina degli effetti del matrimonio (cioè, del rapporto matrimoniale) ha avuto modo di essere con chiarezza ribadita dalla Corte costituzionale (5-4-1971, n. 169 e 11-12-1973, n. 176) in occasione dell’introduzione del divorzio (V, 3.4), onde escluderne il contrasto con gli obblighi assunti in materia matrimoniale dallo Stato nei confronti della Chiesa cattolica col Concordato. 4 Fu la Costituzione francese del 1791 ad enunciare il principio per cui “la loi ne considère le mariage que comme un contrat civil”.

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zione di un altro soggetto quale mero portavoce) e dall’art. 108 (divieto di apposizione di termini o di condizioni). Tendono ad essere, ormai, radicalmente superate le teorie che vedevano nel matrimonio un negozio plurilaterale (al cui perfezionamento, cioè, concorrerebbe la dichiarazione del celebrante), ovvero, addirittura, un atto di natura pubblicistica, espressione di poteri statali. La partecipazione del celebrante, pertanto, risulta necessaria, ma si pone non sul piano sostanziale della volontà costitutiva dell’atto, bensì su quello formale della richiesta solennità dell’atto (significativamente, l’art. 106 allude alla celebrazione “davanti all’ufficiale dello stato civile”) 5.

A) ATTO 2. Le forme matrimoniali. – A seguito della rivendicazione della competenza dell’autorità statale anche con riguardo all’atto matrimoniale, l’unico matrimonio riconosciuto come produttivo di effetti per l’ordinamento dello Stato restò quello contratto secondo le condizioni e le formalità previste dalla legislazione civile. Un tale sistema fu quello seguito, sulle orme del code civil, dal nostro codice civile del 1865, con la conseguenza che il cittadino interessato a vedere pure consacrato religiosamente il proprio vincolo matrimoniale doveva ricorrere ad una doppia celebrazione (restando solo quella civile rilevante per il conseguimento, appunto, degli effetti civili) 6. Il sistema fu profondamente mutato, nel quadro dei Patti Lateranensi, dal Concordato fra Stato e Chiesa cattolica dell’11.2.1929, ratificato con L. 27.5.1929, n. 810, cui diede attuazione, per la parte relativa al matrimonio (art. 34), la c.d. legge matrimoniale del 27.5.1929, n. 847. La contemporanea L. 24.6.1929, n. 1159, poi, consentì e regolamentò la celebrazione del matrimonio secondo i riti religiosi diversi da quello cattolico. A fronte della conservazione dell’unicità della disciplina degli effetti del matrimonio, il nostro ordinamento è risultato, così, caratterizzato da una pluralità di forme matrimoniali. Fin dall’entrata in vigore del nuovo sistema, si è, peraltro, evidenziato come, in realtà, le forme matrimoniali – almeno ove con ciò si intenda alludere a distinti modelli dell’atto matrimoniale e non ad una mera differenziazione di formalità celebrative – fossero da ritenere solo due, quella civile e quella c.d. concordataria (in quanto regolata dal Concordato e dalla relativa legislazione attuativa). Esclusivamente, cioè, quello concordatario, richiamato dal codice civile all’art. 82, sarebbe assurto alla dignità di peculiare modello di atto matrimoniale, essendosi l’ordinamento statale impegnato a riconoscere – con modesti limiti ed a condizione dell’osservanza di talune formalità – effetti civili al matrimonio quale disciplinato dal diritto canonico, non solo dal 5 Ne costituisce riprova il perfezionamento dell’atto anche in caso di “matrimonio celebrato davanti a un apparente ufficiale dello stato civile” (art. 113). 6 È da tenere presente che, dopo la restaurazione, la legislazione degli Stati preunitari (tra cui il codice civile per il Regno delle Due Sicilie e quello del Regno di Sardegna) era nuovamente ritornata al riconoscimento della competenza ecclesiastica in materia di contrazione del matrimonio. La diversa scelta del codice civile italiano unitario fu giustificata sulla base del principio liberale di “libera Chiesa in libero Stato”, sottolineandosi nella Relazione al codice civile che “il matrimonio, che è fondamento della famiglia, e perciò un’alta istituzione sociale, deve cadere sotto le prescrizioni dello Stato … Può il matrimonio avere una sanzione più alta, la sanzione religiosa; ma questa è fuori della competenza dello Stato”.

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punto di vista delle modalità della celebrazione, ma (e soprattutto) sotto il profilo del regime dei relativi requisiti sostanziali, riservando, inoltre, proprio all’ordinamento confessionale la competenza giurisdizionale esclusiva sulla validità del matrimonio stesso (V, 2.8). Il matrimonio celebrato secondo i riti religiosi dei culti diversi da quello cattolico (cui rinvia il codice civile all’art. 83), invece, altro non sarebbe, nel sistema del 1929, che un matrimonio civile nella sostanza, solo la cui celebrazione avviene con le formalità proprie delle singole confessioni religiose, onde consentire ai nubendi di evitare una doppia celebrazione: la disciplina dei requisiti dell’atto e la competenza a giudicare circa la relativa validità spetta, infatti, esclusivamente all’ordinamento statale. La revisione del Concordato del 18.2.1984 (ratificata con L. 25.3.1985, n. 121) – intervenuta in applicazione dell’art. 7 Cost., il quale, nel dare una copertura costituzionale ai Patti Lateranensi, prevede che solo le relative modificazioni accettate dalle due parti non richiedono procedimento di revisione costituzionale – e la nuova disciplina dei rapporti con le confessioni religiose diverse da quella cattolica 7, hanno mutato il quadro ordinamentale di riferimento. È opinione diffusa che l’autonomia della forma matrimoniale concordataria sia stata intaccata: da una parte, risultando assoggettato l’atto matrimoniale, ai fini del relativo riconoscimento agli effetti civili, ad un più penetrante controllo di carattere sostanziale; dall’altra, reputandosi superata la riserva di giurisdizione a favore degli organi ecclesiastici sulla validità dell’atto stesso (V, 2.8). Al contempo, le procedure previste per il matrimonio dei culti acattolici e per il conseguimento della relativa efficacia civile si presentano alquanto modificate, proprio per renderle tendenzialmente omogenee rispetto a quelle stabilite per il matrimonio concordatario. Resta, comunque, una rilevante diversità, costituita dalla competenza – anche se ormai solo concorrente – degli organi giurisdizionali ecclesiastici in ordine al giudizio sulla validità dell’atto matrimoniale, con conseguente applicazione delle norme del diritto canonico anche per quanto riguarda la ricorrenza dei suoi requisiti 8.

3. Libertà matrimoniale e promessa di matrimonio. – In considerazione della funzionalità dell’esperienza familiare a contribuire allo sviluppo della personalità del soggetto, il diritto alla formazione di una famiglia (e, quindi, anche a contrarre matrimonio) rappresenta un vero e proprio diritto fondamentale della persona, garantito dall’ordinamento come espressione della sua libertà. Significativamente, un tale diritto è sancito, a livello so7 Tale nuova disciplina dei rapporti con le confessioni religiose diverse dalla cattolica è intervenuta con leggi basate su i n t e s e con le relative rappresentanze (in applicazione dell’art. 83 Cost.). Simili intese sono, ormai, numerose, a partire da quella con le Chiese rappresentate dalla Tavola valdese (L. 11.8.1984, n. 449), fino a quella con la Chiesa Evangelica Luterana in Italia (L. 29.11.1995, n. 520), particolare rilevanza assumendo l’intesa con le Comunità ebraiche italiane (L. 8.3.1989, n. 101). 8 È evidente come indubbio rilievo, ai fini di una persistente considerazione di quella concordataria quale vera e propria forma matrimoniale, assumano, da un lato, i criteri adottati – alla luce del nuovo quadro ordinamentale – dagli organi giurisdizionali statali deputati al controllo delle decisioni ecclesiastiche per il relativo riconoscimento agli effetti civili; dall’altro, l’utilizzazione da parte dei giudici statali, per le valutazioni da operare circa la validità dell’atto matrimoniale (ora consentite dato il venir meno della riserva di giurisdizione e la conseguente concorrenza della giurisdizione civile e di quella ecclesiastica), della normativa civile statale o della disciplina canonistica (come pure ritenuto – peraltro senza reale riscontro nella pratica – preferibile da taluni) (V, 2.8).

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pranazionale, dall’art. 12 Conv. eur. dir. uomo e dall’art. 9 Carta dir. fond. U.E. 9. La libertà matrimoniale è garantita contro ogni tentativo di influenzarla. Così, l’art. 636 considera espressamente illecita la condizione testamentaria rivolta ad impedire “le prime nozze e le ulteriori” (XII, 2.12), dovendosi considerare pure illecita (per contrarietà all’ordine pubblico) qualunque clausola negoziale tendente al medesimo fine di condizionare la volontà matrimoniale. È in tale prospettiva, che la promessa di matrimonio, non solo non obbliga a contrarlo, ma neppure ad adempiere prestazioni cui ci si sia eventualmente impegnati per il caso di ripensamento (art. 79). Essa – se reciproca e formale (tale essendo considerata quella fatta per atto pubblico o scrittura privata, ovvero risultante dalla richiesta delle pubblicazioni) – obbliga esclusivamente a risarcire il danno cagionato all’altra parte per le spese fatte e per le obbligazioni assunte in vista del matrimonio. Ciò, peraltro, solo se il rifiuto a contrarre il matrimonio non sia stato determinato da un giusto motivo e sempre entro i limiti della relativa congruità rispetto alla condizione sociale delle parti (art. 81, ove si prevede che la domanda di risarcimento deve essere proposta entro l’anno dal rifiuto di celebrare il matrimonio) 10. Devono essere in ogni caso restituiti i doni che i fidanzati si siano fatti a causa della promessa di matrimonio (art. 80, ove pure si prevede, per la relativa richiesta, un termine annuale dal rifiuto di celebrazione, ovvero dalla morte dell’altro fidanzato) 11. Si ritiene che vi sia, inoltre, un obbligo di restituzione delle fotografie e della corrispondenza (ed altri oggetti simili), non tanto in quanto doni, ma in osservanza di una consuetudine 12.

4. Il matrimonio civile. Requisiti. – Per assicurare che il matrimonio sia idoneo a porsi a base di una compagine familiare atta ad assolvere il suo ruolo di formazione so9

Mentre nella prima disposizione si allude al “diritto di sposarsi e di fondare una famiglia” da parte di “uomini e donne”, nella seconda, più recente, “garantiti” risultano “il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia”, nel chiaro intento – con una simile distinzione di “diritti” – di registrare la tendenza a non ritenere ormai limitata la rilevanza della esperienza familiare alla famiglia (eterosessuale) fondata sul matrimonio (con conseguente riconoscimento alle “leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio” della competenza ad articolare la relativa regolamentazione, evidentemente prestando attenzione alle concrete realtà sociali dei diversi paesi). 10 Cass. 15-4-2010, n. 9052, ha considerato quella dell’art. 81 “una singolare obbligazione ex lege a carico della parte che si avvale del diritto di recesso dalla promessa di matrimonio … una particolare forma di riparazione riconosciuta al di fuori di un presupposto di illiceità”, l’onere della prova dell’esistenza di un giusto motivo “incombendo sul recedente”. Parla “non di una piena responsabilità per danni, ma di un’obbligazione ex lege”, anche Cass. 2-1-2012, n. 9, con esclusione della risarcibilità di voci di danno diverse da quelle contemplate dall’art. 81, “e men che mai di eventuali danni non patrimoniali”. Il necessario collegamento delle spese di cui si chiede il ristoro con il matrimonio è chiarito da Cass. 15-10-2015, n. 20889 (con riferimento all’abito da sposa, agli arredi ed ai lavori di ristrutturazione relativi alla casa destinata ad essere coniugale). 11 Cass. 8-2-1994, n. 1260, ha precisato che l’obbligo di restituzione in questione – da escludere per i beni consumabili o deteriorabili – sorge comunque, a prescindere, quindi, da requisiti di forma della promessa e indipendentemente dalle cause del mancato matrimonio. 12 Si è arrivati – invero discutibilmente, soprattutto per le conseguenze che se ne sono tratte – a identificare, “nella fase precedente il matrimonio”, “nella prospettiva della costituzione di tale vincolo un obbligo di lealtà, di correttezza e di solidarietà, che si sostanzia anche in un obbligo di informazione di ogni circostanza inerente le proprie condizioni psicofisiche e di ogni situazione idonea a compromettere la comunione materiale e spirituale alla quale il matrimonio è rivolto” (Cass. 10-5-2005, n. 9801, che reputa risarcibile, quindi, la lesione della personalità connessa alla eventuale frustrazione del “diritto alla sessualità” di uno dei coniugi).

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ciale fondamentale per lo sviluppo della personalità del soggetto, l’ordinamento richiede che i nubendi abbiano taluni requisiti (tradizionalmente, al riguardo, si parla di impedimenti matrimoniali, mentre il codice usa la terminologia di “condizioni necessarie per contrarre matrimonio”). In taluni casi, la mancanza del requisito può essere superata mediante autorizzazione (impedimenti dispensabili) 13. Non risulta esplicitamente annoverata tra i requisiti del matrimonio la diversità di sesso, la cui rilevanza viene ricavata da una interpretazione sistematica dell’intera disciplina matrimoniale vigente, quale principio inespresso, ma posto a fondamento dell’insieme delle disposizioni dettate in materia matrimoniale (si pensi a quelle che alludono a “marito” e “moglie”, come gli artt. 1071, 1081, 1431 e 143 bis) 14. 13 Il catalogo degli impedimenti matrimoniali si presenta alquanto differente nell’ordinamento canonico, comportando ciò delicati problemi, affrontati in sede di disciplina concordataria (e di relativa interpretazione), sia ai fini del riconoscimento dell’atto agli effetti civili, sia per quanto concerne la delibazione delle sentenze ecclesiastiche relativamente alla validità del matrimonio (V, 2.8). 14 La d i v e r s i t à d i s e s s o è stata da Cass. 22-2-1990, n. 1304, ritenuta, anzi, addirittura costituire (peraltro, in una prospettiva, come più oltre si vedrà, ormai superata) uno dei requisiti minimi per l’esistenza stessa del matrimonio. Proprio in considerazione di una tale essenzialità, Trib. Latina 10-6-2005 ha reputato non trascrivibile nei registri dello stato civile il matrimonio contratto tra cittadini italiani dello stesso sesso all’estero (in un paese – nella specie l’Olanda – la cui legislazione pure lo consente): “allo stato dell’evoluzione della società italiana, il matrimonio tra persone dello stesso sesso contrasta con la storia, la tradizione, la cultura della comunità italiana, secondo una valutazione recepita dal legislatore e trasfusa nelle norme di legge, sia di rango costituzionale sia ordinarie”. E ciò per contrasto con il limite che l’ordine pubblico pone al riconoscimento degli atti e dei provvedimenti anche degli altri Stati membri della C.E. (limite considerato sussistente alla luce della vigente disciplina interna e comunitaria). App. Roma 13-7-2006, pur non escludendo la possibilità di una futura “ricezione in ambito giuridico di nuove figure alle quali sia la società ad attribuire il senso ed il valore della esperienza ‘famiglia’”, ha confermato tale decisione, assumendo come inammissibile, allo stato, “una forzatura in via interpretativa dell’istituto matrimoniale” (in senso sostanzialmente analogo, App. Firenze 30-6-2008). Comunque, Trib. Venezia, ord. 3-4-2009, ha considerato fondato il dubbio di legittimità costituzionale della disciplina preclusiva del matrimonio tra persone dello stesso sesso (anche alla luce della tendenza sopranazionale per “una nozione di relazioni familiari tale da includere le coppie omosessuali”). Corte cost. 15-4-2010, n. 138 (che ha trovato conferma in Corte cost., ord. 22-7-2010, n. 276, in una prospettiva condivisa da Corte cost. 11-6-2014, n. 170), nel ritenere spettante “al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette, restando riservata alla Corte costituzionale la possibilità di intervenire a tutela di specifiche situazioni”, ha affermato che ogni interpretazione evolutiva dei precetti costituzionali “non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata”: si deve, insomma, ribadire – non essendo consentito “procedere ad un’interpretazione creativa” – che l’art. 29 “non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto” (la normativa del codice civile contemplante “esclusivamente il matrimonio tra uomo e donna” non potendo, allora, “considerarsi illegittima sul piano costituzionale”, trovando fondamento proprio nell’art. 29 e non dando luogo “ad una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio”). Quanto, poi, alla disciplina sopranazionale (artt. 12 CEDU e 9 Carta dir. fond. U.E.), la Corte sottolinea che essa “non impone la piena equiparazione alle unioni omosessuali delle regole previste per le unioni matrimoniali tra uomo e donna” (dato il relativo “rinvio alle leggi nazionali”, con conseguente riconoscimento della “discrezionalità del Parlamento”). Anche la Corte europea dir. uomo (24-6-2010), con un iter argomentativo in parte simile, pur ritenendo rientrare nel concetto della “vita familiare” tutelata dall’art. 8 CEDU l’unione tra persone dello stesso sesso, ha escluso che gli Stati siano vincolati ad estendere l’istituto matrimoniale alle unioni omosessuali, riconoscendo ai diversi legislatori – in un quadro europeo persistentemente caratterizzato da scelte molto differenziate sul punto – discrezionalità in proposito. Per contrasto con l’ordine pubblico (cui si riferisce l’art. 18, D.P.R. 396/2000, sull’ordinamento dello stato civile), il matrimonio celebrato all’estero tra persone dello stesso sesso, una delle quali cittadino italiano, non è stato ritenuto trascrivibile dalla circola-

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Proprio l’importanza che assume il matrimonio, quale atto fondativo della famiglia, ha indotto, in sede di riforma del 1975, a richiedere che gli sposi abbiano una età tale da farne presumere una adeguata maturità di determinazione volitiva. L’art. 84, pertanto, prendendo le distanze dal sistema precedente 15, ammette al matrimonio, in linea di principio, solo il maggiorenne. Può essere ammesso al matrimonio, su istanza dell’interessato, anche il sedicenne, ma solo a seguito di autorizzazione del Tribunale per i minorenni, ove ricorrano gravi motivi, previo accertamento – ad esito di un procedimento rigoroso – della sua maturità psico-fisica e della fondatezza delle ragioni addotte 16. re del Ministero dell’interno del 26.3.2001 (nonché da quella del 18.10.2007). L’orientamento contrario alla trascrivibilità risulta mantenuto fermo anche nella successiva circolare del 7.10.2014, contro l’atteggiamento favorevole assunto nei provvedimenti di alcuni Sindaci. In proposito, Cons. Stato, sez. III, 26-10-2015, n. 4899 (comunque cassata da Cass., sez. un. 27-6-2018, n. 16959), esclusa la configurabilità di “un diritto fondamentale della persona al matrimonio omosessuale”, ha smentito le conclusioni di T.A.R. Lazio 9-3-2015, che si era pronunciato nel senso della illegittimità dell’annullamento prefettizio delle trascrizioni effettuate. E ciò pur considerando la portata della sentenza della Corte eur. dir. uomo (21-7-2015), con cui è stata ritenuta illegittima, per contrasto con l’art. 8 CEDU, la persistente inerzia, da parte dell’Italia, nella introduzione di una adeguata regolamentazione delle unioni tra persone dello stesso sesso, in conseguenza del – considerato necessario – “riconoscimento giuridico e tutela della loro relazione”. Peraltro, Cons. Stato, sez. III, 1-12-2016, n. 5047, ha confermato l’annullamento della circolare da ultimo ricordata (da parte di T.A.R. Friuli Venezia Giulia 21-5-2015, n. 228). Notevole interesse presenta Cass. 15-3-2012, n. 4184, la quale, ad esito di una vasta ricognizione della disciplina nazionale e sopranazionale (con particolare riferimento all’art. 12 CEDU), ha ritenuto di poter giungere alla conclusione per cui una simile intrascrivibilità dipenderebbe non dalla “finora ripetutamente affermata ‘inesistenza’ di un matrimonio siffatto” e neppure – una volta esclusa anche una sua “contrarietà all’ordine pubblico” – “dalla ‘invalidità’, ma dalla inidoneità a produrre, quale atto di matrimonio appunto, qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano”. La trascrivibilità di un “matrimonio contratto in Francia da due cittadine francesi (di cui una anche cittadina italiana iure sanguinis)” è stata comunque ammessa, pur alla luce dell’attuale quadro normativo e giurisprudenziale, nazionale e sopranazionale, per le peculiari caratteristiche della relativa fattispecie, da App. Napoli decr. 8-7-2015. Il rifiuto di procedere alle pubblicazioni matrimoniali tra persone dello stesso sesso è stato ritenuto persistentemente legittimo da Cass. 9-2-2015, n. 2400, nonostante il riconosciuto indubbio “processo di costituzionalizzazione delle unioni tra persone dello stesso sesso”. In ogni caso, Corte eur. dir uomo 14-12-2017, nel considerare, in prospettiva futura, la nuova legislazione italiana in tema di unione civile tale da “apprestare più o meno la stessa protezione rispetto al matrimonio con riguardo alle fondamentali esigenze di una coppia in stabile ed impegnativa relazione” (e, quindi, implicitamente avallando la legittimità dell’eventuale riconoscimento, in Italia, degli effetti dell’unione civile ai matrimoni contratti all’estero), ha reputato, quanto al passato, contrario all’art. 8 CEDU il (pregresso) rifiuto di trascrizione del matrimonio contratto all’estero. In proposito, si ricordi come l’art. 128, lett. b, L. 76/2016 abbia demandato ad un decreto delegato la modificazione della disciplina di diritto internazionale privato, “prevedendo l’applicazione della disciplina dell’unione civile tra persone dello stesso sesso regolata dalle leggi italiane alle coppie formate da persone dello stesso sesso che abbiano contratto all’estero matrimonio, unione civile o altro istituto analogo”. Con il conseguente D.Lgs. 19.1.2017, n. 7, è stato introdotto nella L. 31.5.1995, n. 218, un art. 32 bis, il quale dispone che “il matrimonio contratto all’estero da cittadini italiani con persona dello stesso sesso produce gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana”. Cass. 14-5-2018, n. 11696, premesso come, in tal modo, “il legislatore italiano abbia inteso esercitare pienamente la libertà di scelta del modello di riconoscimento giuridico delle unioni omoaffettive”, ha concluso che, mentre i matrimoni contratti all’estero tra cittadini entrambi stranieri possono essere trascritti come tali in Italia, conservando la propria efficacia originaria (di matrimonio), quelli contratti all’estero tra cittadini italiani, ovvero tra cittadini l’uno italiano e l’altro straniero (c.d. “matrimoni misti”), sono trascrivibili solo come unioni civili, producendo i relativi effetti. 15 Nella sua formulazione originaria, il codice civile, evidentemente ponendosi nell’ottica della maturità sessuale (secondo la tradizionale prospettiva del diritto canonico), fissava l’età matrimoniale a 14 ed a 16 anni, rispettivamente per la donna e per l’uomo (e, con apposita dispensa, rispettivamente a 12 e 14). 16 Particolarmente delicato, ovviamente, è il giudizio relativo alla gravità dei motivi addotti, per il pericolo

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Preclude il matrimonio l’interdizione per infermità di mente (art. 85), trattandosi di forma di incapacità che l’ordinamento ricollega, con finalità protettive del soggetto stesso (art. 414), ad una totale inettitudine a provvedere ai propri interessi, anche di carattere personale (IV, 1.12). Possono, invece, contrarre matrimonio l’interdetto a seguito di condanna penale e l’inabilitato 17. Il requisito della libertà di stato, per cui non può contrarre matrimonio chi sia già vincolato matrimonialmente (art. 86), costituisce, poi, espressione di uno dei principi cardine, più che del nostro sistema familiare, della nostra stessa organizzazione sociale, storicamente fondata, appunto, sulla monogamia (la bigamia è prevista anche come reato dall’art. 556 c.p.). Addirittura su uno dei pilastri della nostra civiltà, l’esogamia, si fonda il divieto matrimoniale dipendente dalla esistenza di uno stretto rapporto di parentela e affinità (art. 87). Il divieto è ricollegato anche alla esistenza di un rapporto di filiazione adottiva 18. Il divieto, non dispensabile, riguarda gli ascendenti e i discendenti, i fratelli e le sorelle (anche se unilaterali), gli affini in linea retta (per i quali la dispensa è ammessa se l’affinità deriva da un matrimonio dichiarato nullo), nonché l’adottante e l’adottato (e i suoi discendenti), i figli adottivi della stessa persona, il figlio adottivo ed i figli della stessa persona, l’adottato e il coniuge dell’adottante (e viceversa). Può essere autorizzato dal tribunale il matrimonio tra zii e nipoti e quello tra affini in linea collaterale di secondo grado (cognati). L’art. 88 preclude il matrimonio tra le persone delle quali l’una sia stata condannata per omicidio consumato o tentato nei confronti del coniuge dell’altra (delitto). L’omicidio deve essere stato commesso dolosamente (non sembra valere, cioè, a determinare il divieto se colposo o preterintenzionale). L’insorgere di eventuali difficoltà nell’attribuzione della paternità (la c.d. turbatio sanguinis), in conseguenza dell’eventuale concorso di presunzioni contrastanti (quelle, in particolare, di cui all’art. 2321), si pone storicamente a base del divieto temporaneo di nuove nozze. Esso è disposto, con una previsione (art. 89) complessa e ripetutamente modificata (forse, ormai, addirittura inutile), per la donna prima che siano trascorsi 300 giorni dallo scioglimento (per morte o divorzio) o dall’annullamento del precedente matrimonio (con numerose limitazioni, giustificate dalla non ricorrenza, in taluni casi, delle ragioni del divieto stesso). Si tratta di una ipotesi tipica di mera irregolarità, dato che la relativa trasgressione comporta solo l’irrogazione di una (modesta) sanzione pecuniaria (art. 140).

di finire col perpetuare, di fatto, la situazione precedente alla riforma, avallando costumi (come il c.d. matrimonio riparatore), che si è inteso superare. Così, fughe d’amore e gravidanze, almeno di per se stesse (in mancanza, cioè, di ulteriori circostanze concrete, anche di carattere ambientale), tendono a non essere considerate sempre decisive. Nel senso, peraltro, dell’opportunità di “interpretare restrittivamente la nozione di ‘gravi motivi’”, in un’ottica di decisa valorizzazione – alla luce dell’univoca tendenza in tale direzione dell’ordinamento – della volontà del minore nubendo, almeno se libera da condizionamenti, Trib. min. Caltanissetta 26-10-2017. 17 Anche al beneficiario dell’amministrazione di sostegno (IV, 1.14) potrà essere precluso il matrimonio nel contesto del relativo provvedimento, estendendo a lui (ai sensi dell’art. 4114) la limitazione sussistente, in proposito, per l’interdetto. 18 Si ritiene che i divieti di cui ai nn. 6, 7, 8 e 9 dell’art. 87 concernano pure l’adozione di persone maggiorenni. I divieti matrimoniali continuano a gravare anche sul minore adottato, nonostante la generale cessazione dei suoi rapporti con la famiglia di origine (art. 27 L. 4.5.1983, n. 184).

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5. Formalità e celebrazione. – Le formalità che precedono la celebrazione del matrimonio, rispondono alla funzione di rendere nota la relativa intenzione dei nubendi, consentendo a chi ne sia a conoscenza di proporre opposizione. Si tratta, peraltro, di una funzione, almeno in larga misura, superata nell’odierna società. La pubblicazione (la cui complessa regolamentazione – artt. 93 ss. – è stata alquanto snellita dal D.P.R. 3.11.2000, n. 396) consiste nell’affissione per almeno otto giorni (a cura dell’ufficiale dello stato civile), in appositi spazi presso la porta della casa comunale, di un avviso contenente i dati identificativi di chi intende sposarsi. La formalità (considerata ipotesi di pubblicità-notizia) può essere abbreviata od omessa con autorizzazione del tribunale. La celebrazione in sua mancanza, comunque, non inficia il matrimonio, essendo prevista per i trasgressori (sposi e ufficiale di stato civile) solo una sanzione pecuniaria. L’art. 102 elenca le persone che possono fare opposizione (in genere, genitori e parenti prossimi; il pubblico ministero deve fare opposizione), ove siano a conoscenza di un impedimento. Sull’opposizione, da proporre con ricorso al presidente del tribunale del luogo dove è stata eseguita la pubblicazione (che può sospendere, se lo ritiene opportuno, la celebrazione), decide il tribunale con decreto motivato. Trascorsi tre giorni successivi alla pubblicazione senza che sia stata fatta alcuna opposizione (art. 99), l’ufficiale dello stato civile può procedere alla celebrazione del matrimonio. Questa avviene pubblicamente, in linea di massima nella casa comunale (art. 106 e, per le eccezioni, art. 110), alla presenza di due testimoni, con le relative dichiarazioni, fatte personalmente 19, di ciascuno degli sposi, previa lettura degli artt. 143, 144 e 147, cui segue la dichiarazione dell’ufficiale dello stato civile che essi sono uniti in matrimonio (art. 107). Il matrimonio è atto puro, che non ammette, cioè, termini o condizioni. Ove le parti le appongano, l’ufficiale di stato civile non può procedere alla celebrazione del matrimonio, che, comunque, ove ugualmente celebrato, produrrà i suoi effetti normali, il termine o la condizione dovendosi considerare non apposti (art. 108). L’ufficiale dello stato civile redige, quindi, l’atto di matrimonio, nel quale sono eventualmente inserite le dichiarazioni consentite (artt. 1622 e 283, rispettivamente, scelta del regime patrimoniale di separazione dei beni e riconoscimento di un figlio naturale). L’atto viene, poi, iscritto nell’archivio informatico del Comune. L’atto di matrimonio (inteso qui nel senso di documento) assume notevole rilevanza, dato che la sua presentazione rappresenta l’essenziale strumento di prova del matrimonio (art. 130) 20. Il possesso di stato 21, pur valendo a sanare i vizi di forma dell’atto (se ad esso conforme: art. 131), non può, però, supplire alla sua mancanza, ma solo consentire la prova della celebrazione, nel caso in cui l’atto non risulti essere stato inserito nei registri a ciò destinati (art. 1322) 22. 19 Del tutto eccezionale è la possibilità che la dichiarazione matrimoniale sia fatta da altri per conto dell’interessato. Ciò risulta ammesso solo in tempo di guerra, ovvero, previa autorizzazione del tribunale, se uno degli sposi risiede all’estero e concorrono gravi motivi (art. 111). Anche se si parla, in tal caso, di celebrazione per procura, qui, in realtà, non si è in presenza di un’ipotesi di rappresentanza, assumendo il terzo che interviene alla celebrazione la veste di un mero portavoce (nuncius) dello sposo. 20 Tanto che nell’atto di matrimonio, in considerazione del fatto che la mancanza di tale documento impedisce, in sostanza, la rivendicazione dello stato coniugale, si tende a ravvisare il titolo dello stato matrimoniale. 21 Elementi costitutivi del possesso di stato sono il nome (corrente identificazione della coppia col cognome previsto in conseguenza del matrimonio), il trattamento (reciproco rispetto dei doveri) e la fama (riconoscimento nella società dei due soggetti come marito e moglie). 22 Sono disciplinati, assoggettandoli al rispetto dei requisiti previsti per il matrimonio, il matrimonio del

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6. Invalidità del matrimonio. – Taluni difetti del procedimento di celebrazione del matrimonio danno luogo a mera irregolarità, con conseguente esclusiva irrogazione di una sanzione pecuniaria a carico dell’ufficiale dello stato civile e, eventualmente, degli sposi (artt. 134 ss.: omissione delle pubblicazioni, mancata presenza dei testimoni, incompetenza dell’ufficiale dello stato civile e mancato rispetto da parte sua di altre formalità, inosservanza del divieto temporaneo di nuove nozze). La violazione delle prescrizioni in materia di requisiti richiesti per contrarre matrimonio e la difettosità del consenso determinano l’inettitudine dell’atto matrimoniale a produrre i suoi effetti, con la relativa possibilità, accordata ad una più o meno ampia sfera di soggetti, di contestarne la validità. L’invalidità del matrimonio si ricollega, appunto, ai difetti genetici dell’atto matrimoniale, mentre un difettoso svolgimento del rapporto matrimoniale (che provoca la crisi della famiglia) consente, nei casi ed alle condizioni stabilite dall’ordinamento, la richiesta della separazione personale e del divorzio (cui consegue lo scioglimento del rapporto stesso) 23. Si parla, talvolta, anche di inesistenza del matrimonio, per alludere alla situazione in cui risultino, nel procedimento seguito, carenze tali da impedire la stessa identificabilità come atto matrimoniale di quanto sia stato posto in essere dalle parti (con impossibilità, quindi, in particolare, di ricollegarvi anche quegli effetti che l’ordinamento riconosce pure al matrimonio invalido: V, 2.7) 24. Proprio la disciplina della invalidità dell’atto matrimoniale rappresenta la conferma della peculiarità della materia familiare rispetto a quella contrattuale (e della conseguente inammissibilità – almeno senza un adeguato controllo di compatibilità di principi e regole – di una relativa assimilazione in via interpretativa: V, 1.5). Le categorie generali cittadino all’estero (art. 115) e il matrimonio dello straniero nello Stato (art. 116, secondo cui lo straniero deve presentare una dichiarazione di nulla-osta del proprio paese: la previsione della necessità – ai sensi della L. 15.7.2009, n. 94, per contrastare il fenomeno dei c.d. matrimoni di comodo – di presentare anche “un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano” è stata dichiarata costituzionale illegittima da Corte cost. 25-7-2011, n. 245). 23 Pur essendo concettualmente chiara la distinzione dei piani su cui operano l’invalidità e lo scioglimento del matrimonio (rispettivamente, l’atto ed il rapporto matrimoniale), è da sottolineare che non mancano interferenze tra i due piani, come risulta evidente già dalla rilevanza accordata dall’ordinamento a valutazioni relative al profilo funzionale del matrimonio (all’attuazione, cioè, del rapporto) per sopperire a difetti del relativo atto (artt. 1116, 1172, 1192, 1202, 1224, 1232). Risulta evidente, inoltre, come la possibilità di sciogliere il matrimonio con il divorzio, consentendo di raggiungere (e, in genere, più agevolmente) un risultato, dal punto di vista pratico, analogo a quello della relativa dichiarazione di nullità (cioè, la libertà di stato), valga a rendere meno avvertita – rispetto a quanto si verifica in regime di indissolubilità del matrimonio, in cui si tratta dell’unica via offerta per conseguire il risultato avuto di mira – l’esigenza di far valere l’invalidità dell’atto matrimoniale (con conseguente notevole diminuzione della rilevanza delle regole concernenti la validità dell’atto matrimoniale ed il relativo azionamento). 24 Secondo Cass. 22-2-1990, n. 1304, i requisiti minimi per la stessa configurabilità giuridica del matrimonio (e, quindi, per la sua esistenza) sono rappresentati dalla “manifestazione di volontà matrimoniale, da parte di due persone di sesso diverso, ad un ufficiale celebrante”, “in caso contrario, verificandosi una situazione di inesistenza”. Tale situazione si verifica, cioè, “nella sola ipotesi … di totale assenza di quella realtà fenomenica che costituisce la base naturalistica della fattispecie” (Cass. 9-6-2000, n. 7877). Si tenga presente, peraltro, come Cass. 153-2012, n. 4184, particolarmente in considerazione dell’attuale quadro normativo e giurisprudenziale sopranazionale, abbia escluso che si possa parlare di “inesistenza” del matrimonio in conseguenza dell’identità di sesso dei nubendi, “essendo radicalmente superatala concezione secondo cui la diversità di sesso dei nubendi è presupposto indispensabile, per così dire ‘naturalistico’, della stessa ‘esistenza’ del matrimonio”.

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dell’invalidità quali previste per il contratto (nullità e annullabilità: VIII, 9.4-10) risultano, in effetti, estranee alla disciplina dettata per il matrimonio (artt. 117 ss.): ciò pare attestato già dal contestuale impiego della terminologia di “nullità” (nell’intitolazione della relativa sezione del codice) e di quella di “impugnazione” (con riguardo alle singole ipotesi considerate) 25, per indicare l’azione finalizzata a far valere le carenze dell’atto matrimoniale (si parla, peraltro, anche di domanda e di azione di nullità, artt. 125 e 126, e di annullamento, art. 1172), alludendosi, poi, per regolarne gli effetti comunque prodotti, al matrimonio dichiarato nullo (art. 128). Sembra preferibile, quindi, limitarsi a constatare come, in materia matrimoniale, lungi dal ricorrere la netta contrapposizione al riguardo esistente in materia contrattuale tra il regime degli artt. 1421 (per la nullità) e 1441 (per l’annullabilità), assai articolato risulti la regolamentazione della legittimazione ad agire 26: il matrimonio può essere impugnato, in alcuni casi, oltre che dai coniugi, dagli ascendenti prossimi e dal pubblico ministero, anche da tutti coloro che abbiano “un interesse legittimo e attuale” (art. 1171: contrasto con le regole concernenti la libertà di stato, delitto e vincolo derivante da parentela, affinità e adozione) 27; in altri casi, dal tutore, dal pubblico ministero e da tutti coloro che abbiano “un interesse legittimo” (art. 119, che, in caso di interdizione, legittima anche la persona che era interdetta dopo la revoca dell’interdizione), ovvero dai coniugi, dai genitori e dal pubblico ministero (art. 1172, difetto di età); in altri casi ancora, dai due coniugi (art. 123, simulazione) o solo dal coniuge il cui consenso risulti viziato (art. 120, incapacità naturale, nonché art. 122, violenza, timore ed errore). La distinzione tra nullità ed annullabilità 28 può essere utilizzata, al più, per contrapporre le ipotesi di invalidità insanabile (come in caso di mancanza della libertà di stato, di delitto, nonché di vincolo di parentela, affinità, adozione e affiliazione, non superabile con autorizzazione) a quelle in cui il vizio dell’atto matrimoniale sia rimediabile (sanabile, secondo la terminologia corrente). La sanatoria del vizio opera, in genere, in conseguenza della coabitazione (da intendersi, comunque, non come mera condivisione dell’alloggio, ma nel senso di vera e propria convivenza come coniugi, secondo la più 25

Si ricordi come di impugnazione si tenda correntemente a parlare, in materia contrattuale, con riferimento all’azione indirizzata alla contestazione degli effetti del contratto annullabile (VIII, 9.8). 26 L’azione per impugnare il matrimonio si trasmette agli eredi solo quando il giudizio è già pendente alla morte del soggetto che lo abbia promosso (in quanto legittimato) (art. 127). Cass. 30-6-2014, n. 14794, nel considerare conseguentemente non legittimati alla proposizione dell’azione di annullamento gli eredi di chi, al momento delle nozze, versava in stato di incapacità naturale (art. 120) – come pure in caso di matrimonio contratto in presenza di vizi della volontà (artt. 122 e 123) – e sia deceduto senza aver proposto tale azione, sottolinea come “rimane comunque impregiudicata la legittimazione all’impugnazione da parte degli eredi nei casi in cui la legge la riconosca a tutti coloro che abbiano un interesse legittimo e attuale, a norma degli artt. 117 e 119 c.c.”. Circa la regola per cui l’azione di nullità non può essere promossa dal pubblico ministero dopo la morte di uno dei coniugi (art. 115), Cass. 28-2-2018, n. 4653. 27 Cass. 6-2-1986, n. 720, ha cercato di meglio precisare i limiti della portata di una simile legittimazione, estesa a “tutti coloro che abbiano … un interesse legittimo e attuale”, sottolineando come un interesse rilevante sia configurabile solo ove la posizione del terzo, che intenda far valere la invalidità, inerisca a “rapporti che attengono alla famiglia”, trattandosi, quindi, “di interessi omogenei alla natura del rapporto che forma oggetto dell’azione di nullità” (si è, così, in particolare, negata la legittimazione dell’I.N.P.S. ad impugnare il matrimonio per bigamia). 28 Una tale distinzione emerge esplicitamente dalla nuova intitolazione del capo II del titolo IX (libro I), in relazione all’esercizio della responsabilità genitoriale (V, 4.9-10).

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puntuale espressione impiegata nell’art. 1232), successivamente al venir meno del motivo di invalidità (protratta per almeno un anno, per i vizi cui si riferiscono gli artt. 1192, interdizione, 1202, incapacità di intendere o di volere, e 1224, violenza, timore ed errore; anche solo temporanea in tema di effetti della revoca della procura, art. 1116; al fatto stesso dell’instaurarsi della convivenza dopo la celebrazione del matrimonio si allude nel caso di simulazione, art. 1232) 29. A un effetto sanante del mero trascorrere del tempo si riferisce, per la simulazione, in alternativa alla convivenza, l’art. 1232 (un anno dalla celebrazione del matrimonio); non diversamente, l’art. 1172 (un anno dal raggiungimento della maggiore età), onde precludere l’azione al minore divenuto maggiorenne 30, e l’art. 1174 (un anno dalla celebrazione), per i casi in cui si sarebbe potuto autorizzare il matrimonio, nonostante il relativo divieto (ai sensi dell’art. 874). Tenendo presente quanto appena precisato circa la legittimazione all’azione e la sanabilità o meno del vizio dell’atto nelle diverse ipotesi, il matrimonio è considerato impugnabile ove sia stato contratto in assenza di uno dei suoi requisiti (su cui ci si è soffermati dianzi: V, 2.4): innanzitutto (art. 117), in violazione degli artt. 84 (età), 86 (libertà di stato), 87 (parentela, affinità, adozione e affiliazione), 88 (delitto). Esso può essere impugnato (art. 119) pure nell’ipotesi di interdizione per infermità di mente (art. 85). Sempre in tema di cause di invalidità del matrimonio, poi, è da sottolineare come la riforma del 1975 abbia inteso valorizzare l’integrità e l’effettività della volontà matrimoniale, estendendo, in particolare, la rilevanza invalidante dei vizi del consenso 31. Dal punto di vista delle carenze del profilo volitivo, il matrimonio risulta impugnabile, in primo luogo, per incapacità di intendere o di volere (incapacità naturale), qualunque sia la causa, anche transitoria, della menomazione della sfera decisionale del soggetto, purché sussistente al momento della celebrazione (art. 120) 32. Quali vizi del consenso, l’art. 122 contempla la violenza, il timore e l’errore. Resta 29 Le disposizioni che prevedono l’improponibilità dell’azione in dipendenza della convivenza sono sembrate – secondo un indirizzo seguito anche dalla Cassazione, poi sostanzialmente sconfessato dalle sezioni unite (V, 2.8, pure per i recenti sviluppi della questione) – espressione di un principio generale, di carattere fondamentale, del nostro ordinamento: quello, cioè, secondo cui la perfezione iniziale del consenso ed i conseguenti vizi dell’atto matrimoniale risultano destinati a perdere rilievo di fronte all’effettiva realizzazione di una comunità familiare funzionante. Ciò perché è da ritenere che siano i valori legati al concreto funzionamento della compagine familiare a venire privilegiati in un ordinamento, come il nostro, che tutela (sia a livello di legislazione costituzionale che ordinaria) la famiglia come luogo di operante comunità di vita. 30 Per l’art. 1172, la domanda proposta dal genitore o dal pubblico ministero deve, inoltre, essere respinta al raggiungimento della maggiore età del minore (evidentemente, al fine di consentire a lui di decidere), ovvero se vi sia stato concepimento o procreazione, sempre che sia accertata la volontà del minore di mantenere in vita il matrimonio. 31 Si osserva diffusamente come ciò sia avvenuto, oltre che per l’esigenza di valorizzare i profili di libertà e responsabilità dell’atto matrimoniale, anche nel tentativo di depotenziare la pressione a favore del divorzio, ancora non introdotto al momento della presentazione delle prime iniziative di riforma del diritto di famiglia. Non a caso, tale dilatazione della sfera della invalidità matrimoniale è risultata notevolmente ridimensionata nella fase finale della riforma, a seguito di quel definitivo recepimento del divorzio nel nostro ordinamento, che ha reso non più obbligata la via dell’impugnazione (e della conseguente dichiarazione di invalidità) del matrimonio per conseguire il risultato della libertà di stato. 32 L’incapacità naturale, nell’art. 120, viene in considerazione di per se stessa, indipendentemente, cioè, dalla malafede della controparte, che in materia contrattuale è richiesta, invece, dall’art. 428 (ove si allude anche alla rilevanza dell’esistenza di un pregiudizio, qui trascurata in quanto profilo attinente ai rapporti di natura patrimoniale) (IV, 1.16).

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privo di una propria autonoma incidenza il dolo: l’errore indotto, quindi, può essere fatto valere solo nei limiti in cui risulta rilevante l’errore spontaneo. a) La violenza, consiste nella minaccia di un male finalizzata all’estorsione del consenso: la tendenza a riferirsi, per definirne le caratteristiche, alla disciplina dettata in materia di contratto (artt. 1434 ss.: VIII, 2.12) trascura l’esigenza di assicurare comunque la libertà del consenso matrimoniale (sembrando, allora, preferibile tenere conto, data la natura personale ed esistenziale degli interessi in gioco, delle concrete condizioni psichiche del soggetto minacciato) 33. b) Il timore è considerato, a seguito della riforma, causa di invalidità del matrimonio quando sia di eccezionale gravità e derivi da cause esterne allo sposo: con ciò si è esclusa la rilevanza del mero timore reverenziale, consistente nell’influenza esercitata sul soggetto dalla sua soggezione nei confronti di altri. Circa il timore invalidante, si considerano i casi in cui il matrimonio sia avvertito come mezzo per sottrarsi a situazioni quali guerre civili e persecuzioni politiche, religiose o razziali. c) L’errore, consiste nella falsa rappresentazione della realtà che induce a prestare il consenso: la sua rilevanza è stata notevolmente ampliata in sede di riforma. Oltre alla ipotesi, già in precedenza reputata causa di invalidità, dell’errore sull’identità della persona (l’ipotesi poco realistica, cioè, di uno scambio fra la persona che si intendeva sposare e quella sposata), è considerata quella dell’errore essenziale su qualità personali dell’altro coniuge. Essenziale è l’errore che, oltre ad essere, in concreto, determinante del consenso (che non sarebbe stato, quindi, prestato se la ignoranza non vi fosse stata), cada sulle qualità – si ritiene tassativamente 34 – previste. Si tratta, innanzitutto, dell’esistenza di malattie (fisiche o psichiche) o di anomalie o deviazioni sessuali, tali da impedire lo svolgimento della vita coniugale (impotenza coeundi o generandi, omosessualità, gravi malattie sessualmente trasmissibili) 35. Sono rilevanti, poi, la condanna per delitto non colposo ad almeno cinque anni di reclusione, la dichiarazione di delinquenza abituale o professionale, nonché la condanna per delitti concernenti la prostituzione. Infine, il marito può invocare l’essere stata la gravidanza causata da altri (purché vi sia stato disconoscimento di paternità, se la gravidanza sia stata portata a termine). Con la riforma, ha trovato accoglimento la possibilità, prima correntemente negata in assenza di una specifica previsione, di impugnare il matrimonio in caso di simulazione: 33 Con la L. 19.7.2019, n. 69, dopo l’art. 558 c.p. (“induzione al matrimonio mediante inganno”), è stato introdotto un art. 558 bis cod. pen, per sanzionare (soprattutto nell’ottica della tutela delle donne nei confronti dei c.d. matrimoni forzati connessi ai flussi migratori nel nostro paese) la “costrizione o induzione al matrimonio” (con violenza o minaccia, ovvero in presenza di altre circostanze, quali l’approfittamento delle condizioni di vulnerabilità o di inferiorità psichica o di necessità di una persona). 34 È stato soppresso, infatti, in sede di finale approvazione della riforma, il riferimento, inizialmente previsto, ad “altri fatti di analoga rilevante gravità”. 35 Alla ignoranza della sieropositività dell’altro coniuge allude Trib. Belluno 9-3-1993; alla sua transessualità, cui sia conseguita – in dipendenza di adeguato trattamento medico-chirurgico – la rettificazione di attribuzione di sesso, ai sensi della L. 14.4.1982, n. 164, Trib. Bari 1-10-1993; a gravi psicosi, Trib. Napoli 9-5-1986. La omosessualità (non come “malattia o anomalia o deviazione sessuale”, ma quale “orientamento” atto a “definire l’identità sessuale”) è presa in considerazione da Trib. Milano 13-2-2013. Irrilevante è stato considerato “l’errore che cada sulla mera incapacità psicologica dell’altro coniuge di concepire in termini di condivisione e di rispetto reciproco il piacere erotico e l’affettività” (Cass. 12-2-2013, n. 3407).

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quando, cioè, “gli sposi abbiano convenuto di non adempiere agli obblighi e di non esercitare i diritti” discendenti dal matrimonio (art. 1231). L’accordo – non è, infatti, sufficiente che una sola delle parti abbia inteso escludere gli effetti tipici del matrimonio (c.d. riserva mentale) – deve riguardare l’esclusione della comunione di vita nel suo insieme e non di singoli diritti e doveri matrimoniali 36. Le parti, attraverso quello che per loro si presenta quale matrimonio meramente apparente, perseguono gli scopi più diversi. Le ipotesi maggiormente ricorrenti sono quelle dei matrimoni contratti (spesso con anziani) per ottenere permessi di soggiorno, di espatrio o, sulla base delle legislazioni dei differenti paesi in materia, una diversa cittadinanza (c.d. matrimoni di cittadinanza), nonché per conseguire vantaggi nell’attribuzione di alloggi e posti di lavoro. La disposta improponibilità dell’azione (comunque riservata ai soli coniugi) trascorso un anno dalla celebrazione del matrimonio, oltre che nel caso di convivenza, pur se di breve durata, circoscrive drasticamente, peraltro, la reale portata della simulazione matrimoniale nel nostro ordinamento 37.

7. Conseguenze della invalidità. – La pronuncia di invalidità del matrimonio dovrebbe comportare l’azzeramento (la relativa eliminazione, cioè, retroattiva) degli effetti del matrimonio, come se esso non fosse mai stato contratto. Il rilievo che il matrimonio assume come fondamento di una comunità familiare, anche in vista della procreazione, ha peraltro indotto, fin da tempi risalenti, a superare qui – risultando pure da ciò confermata la peculiarità delle problematiche familiari – la rigidità dei principi in materia negoziale che imporrebbero tale risultato. Già nel quadro della riforma, poi, in armonia con la valorizzazione, nella famiglia, della concreta esperienza di vita, nonché in vista di una più piena tutela dei figli (da non pregiudicare per comportamenti tenuti dai genitori), sono stati ricollegati al matrimonio dichiarato nullo effetti più rilevanti di quelli già antecedentemente riconosciutigli nella prospettiva del c.d. matrimonio putativo (tale essendo considerato quello contratto in buona fede dai coniugi) 38. Quanto ai figli, è ora affermato il principio secondo cui gli effetti del matrimonio valido si producono nei loro confronti (art. 1282). E questo, per i figli nati o concepiti durante il matrimonio dichiarato nullo, anche in caso di matrimonio contratto in malafede 36 Secondo l’interpretazione dominante (ad es., Trib. Pavia 15-10-1982), esclusa la rilevanza della mera riserva mentale, si ritiene poter essere presa in considerazione, appunto, solo la simulazione assoluta, reputando, inoltre, irrilevante il motivo per cui sia stato simulato il matrimonio (nel caso di specie, si trattava del desiderio di compiacere un genitore morente). Anche se la vicenda processuale e la conseguente decisione risultano diversamente impostate (in chiave, cioè, di violenza e di timore, data l’addotta previsione contrattuale di penali), ad un fenomeno simulatorio sembra riconducibile il caso esaminato da Trib. Pavia 4-4-2019 (si trattava di matrimonio dichiaratamente contratto nel contesto della partecipazione ad un programma televisivo: l’affermazione secondo cui “ciò che le parti hanno voluto è stato esattamente contrarre il vincolo” pare, nel caso di specie, contrastare con la contestuale ammissione che esse avessero inteso solo “partecipare al programma”). 37 Con una disposizione considerata discutibile nel quadro dei principi del nostro ordinamento, l’art. 1 bis 30 del D.Lgs. 25.7.1998, n. 286, come novellato dalla L. 30.7.2002, n. 189, ha previsto, per contrastare il fenomeno dei c.d. matrimoni di comodo, che il permesso di soggiorno per motivi familiari, rilasciato allo straniero in conseguenza del suo matrimonio nello Stato, “è immediatamente revocato qualora sia accertato che al matrimonio non è seguita l’effettiva convivenza salvo che dal matrimonio sia nata prole”. 38 Per la ricorrenza della buona fede, l’art. 1281 parifica all’ignoranza del vizio dell’atto l’essere stato il consenso estorto con violenza o determinato da timore di eccezionale gravità derivante da causa estranea agli sposi.

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da entrambi i coniugi, salvo che la nullità dipenda da incesto (art. 1284) 39. Per i provvedimenti da assumere relativamente ai figli, l’art. 1292 rinvia a quanto previsto per disciplinare le conseguenze della separazione personale dei genitori (art. 155) (V, 4.10). Per quanto concerne i coniugi, gli effetti del matrimonio valido si producono, fino alla sentenza che pronunzia la nullità, in favore dei coniugi che lo abbiano (o del solo coniuge che lo abbia) contratto in buona fede (art. 1281,3) 40. Ove ambedue i coniugi siano in buona fede, può essere disposto (per un periodo non superiore a tre anni) a carico di uno di essi l’obbligo di corrispondere all’altro, se costui non abbia adeguati redditi propri, un assegno determinato in proporzione delle sue sostanze (art. 1291). È evidente l’analogia con l’assegno di mantenimento, spettante in dipendenza della separazione personale (art. 1561-2), finendo, così, il matrimonio col proiettare effetti tra i coniugi anche oltre la relativa dichiarazione di invalidità. Ai sensi dell’art. 129 bis, il coniuge in buona fede ha diritto ad ottenere da quello cui sia imputabile l’invalidità del matrimonio una congrua indennità (in ogni caso, pure in mancanza, cioè, di prova del danno sofferto) 41. L’indennità deve essere commisurata almeno – ma, quindi, può risultare eventualmente superiore – a quanto necessario al mantenimento per tre anni. Tale indennità deve essere corrisposta dal terzo, ove a lui sia imputabile l’invalidità del matrimonio (se costui abbia concorso con uno dei coniugi a determinare l’invalidità, sarà con lui responsabile solidalmente). Quale ulteriore effetto destinato a proiettarsi al di là della dichiarazione di invalidità, il coniuge responsabile è anche tenuto a prestare all’altro, che versi in (o cui sopravvenga uno) stato di bisogno, gli alimenti, sempre che non vi siano altri obbligati (insomma, dopo i soggetti indicati nell’art. 433).

8. Il matrimonio concordatario. – L’originaria disciplina concordataria – coerentemente con l’intento, enunciato nell’art. 34 del Concordato dell’11.2.1929 (V, 2.2), di riconoscere “al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, gli effetti civili” – limitava l’intervento dell’ordinamento statale, da una parte, ai fini della efficacia civile del matrimonio, alla formalità della trascrizione nei registri dello stato civile (preclusa solo in caso di matrimonio contratto da persona interdetta per infermità di mente o già legata da altro matrimonio valido agli effetti civili); dall’altra, ai fini del riconoscimento delle sentenze in tema di validità del matrimonio dei tribunali ecclesiastici (cui era riservata la giurisdizione in materia) 42, ad un’attività (della competente Corte di appello) correntemente intesa come di mera presa d’atto della regolarità formale del procedimento in sede ecclesiastica. La regolamentazione risulta mutata a seguito dell’Accordo di revisione del 18.2.1984, 39

L’art. 1285 dispone che, in tale ultimo caso, si applichi l’art. 251 (ove si prevede la possibilità del riconoscimento del figlio previa autorizzazione giudiziale, in considerazione del suo interesse: V, 4.4). 40 Il coniuge in buona fede conserva, in particolare, i diritti successori nei confronti dell’altro, se deceduto anteriormente alla sentenza (art. 584). 41 Ai fini della ricorrenza di tale imputabilità, Cass. 10-5-1984, n. 2862 (analogamente, ad es., Cass. 18-4-2013, n. 9484), ritiene non essere “sufficiente la riferibilità oggettiva della causa di invalidità e non basta neppure la consapevolezza (certa o probabile) di essa, ma occorre altresì, un comportamento ulteriore (commissivo od omissivo) del responsabile, contrario al generale dovere di correttezza, che abbia contribuito alla celebrazione del matrimonio nullo” (in particolare, la “omessa comunicazione (deliberata o semplicemente volontaria) al coniuge in buona fede del fatto invalidante”). 42 Con conseguente applicazione, quindi, delle norme del diritto canonico concernenti i requisiti e la validità dell’atto matrimoniale.

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con il cui art. 8 (completato dall’art. 4 del Protocollo addizionale) 43 si è modificato il regime della trascrizione (assoggettandola a più rigorose condizioni), nonché soppressa la riserva di giurisdizione a favore dei tribunali ecclesiastici per le cause di nullità matrimoniale (prevedendosi anche un più incisivo controllo per il relativo riconoscimento) 44. Un fattore di incertezza del sistema che ne deriva è rappresentato dalla persistente mancata riformulazione della c.d. legge matrimoniale (L. 27.5.1929, n. 847, applicativa dell’originaria disciplina concordataria). Circa le formalità preliminari al matrimonio, sono necessarie le pubblicazioni civili su richiesta dei nubendi – che, così, effettuano la scelta per la forma matrimoniale concordataria – e del parroco che ha provveduto a quelle religiose. Ad esse segue il rilascio del nulla-osta alla celebrazione, col quale viene assicurata la trascrizione agli effetti civili del matrimonio. La celebrazione avviene col rito religioso, con prevista lettura degli articoli del codice civile relativi ai diritti e doveri dei coniugi. La celebrazione è seguita dalla redazione dell’atto di matrimonio – in cui possono essere inserite le dichiarazioni dei coniugi relative alla scelta della separazione dei beni ed al riconoscimento di figli naturali – in doppio originale, per consentire la trasmissione (con la richiesta di trascrizione, da fare entro cinque giorni dall’avvenuta celebrazione) di uno di essi all’ufficiale dello stato civile 45. La trascrizione, diversamente dal precedente regime, non può avere luogo quando gli sposi non abbiano l’età prescritta dalla legislazione civile e, in genere, in tutti i casi in cui sussista un impedimento al matrimonio che l’ordinamento civile considera inderogabile (V, 2.4) 46. Il matrimonio, intervenuta la trascrizione (trascrizione ordinaria o tempestiva, in quanto preceduta dal rilascio del prescritto nulla-osta e richiesta entro cinque giorni dalla celebrazione, anche se effettuata dall’ufficiale di stato civile oltre il termine previsto di ventiquattro ore dal ricevimento dell’atto), produce effetti civili dal momento della celebrazione. È ammessa anche la trascrizione tardiva, ove l’atto di matrimonio non venga trasmesso entro cinque giorni dalla celebrazione: occorre, a tal fine, la richiesta dei due sposi (o anche di uno di essi, con la conoscenza e senza l’opposizione dell’altro) 47 e 43 Nella nuova disciplina concordataria è significativamente scomparso il precedente riferimento al riconoscimento del matrimonio quale “sacramento … disciplinato dal diritto canonico”. 44 Risulta, inoltre, eliminata la possibilità di riconoscere, in caso di inconsumazione del matrimonio (prevista come causa di divorzio dall’art. 3, n. 2, lett. f, L. 1.12.1970, n. 898: V, 3.4), efficacia civile ai provvedimenti ecclesiastici di dispensa dal matrimonio rato e non consumato (possibilità di riconoscimento già reputata illegittima da Corte cost. 2-2-1982, n. 18, essendo quello ecclesiastico, nell’ipotesi in questione, “un procedimento, il cui svolgimento e la cui conclusione trovano dichiaratamente collocazione nell’ambito della discrezionalità amministrativa, e nel quale non vengono quindi garantiti alle parti un giudice e un giudizio in senso proprio”). Il superamento della riserva di giurisdizione è stato considerato pacifico a partire da Cass., sez. un., 13-2-1993, n. 1824 (più di recente, con chiarezza, Cass., sez. un., 18-7-2008, n. 19809; Cass. 6-7-2011, n. 14893; Cass., sez. un., 17-7-2014, n. 16379; Cass. 3-9-2014, n. 18627 e, da ultimo, 25-2-2020, n. 5078). 45 Le accennate formalità sono sostanzialmente analoghe a quelle ora previste, nelle diverse intese stipulate dallo Stato (V, 2.2), per i matrimoni da celebrare con riti religiosi diversi da quello cattolico. 46 La trascrizione può essere impugnata (dal pubblico ministero) in tutte le ipotesi in cui essa non si sarebbe potuta effettuare, data la sussistenza di una causa ostativa (art. 16 L. 847/1929). Secondo Corte cost. 1-3-1971, n. 32, la trascrizione è impugnabile anche in caso di incapacità naturale di una dei parti al momento della celebrazione, per non essere la stessa in grado di compiere la scelta a favore della forma matrimoniale concordataria. 47 La richiesta comune (o quella di uno degli sposi conosciuta e non contestata dall’altro) assume il valore di una necessaria conferma della scelta per la forma matrimoniale concordataria e la conseguente produzione degli effetti civili. A differenza, quindi, che nel regime precedente (in cui si ammetteva che l’iniziativa per la

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che entrambi abbiano conservato ininterrottamente lo stato libero dal momento della celebrazione a quello della richiesta 48. Nell’originario sistema concordatario – caratterizzato dalla riserva alla giurisdizione dei tribunali ecclesiastici dei giudizi circa la validità del matrimonio contratto secondo le norme del diritto canonico e ammesso a produrre effetti civili – la esecutorietà agli effetti civili delle decisioni ecclesiastiche era subordinata a un intervento della Corte di appello competente, correntemente inteso quale vaglio meramente formale della regolarità del procedimento 49. La Corte costituzionale è, però, intervenuta 50, concludendo per la illegittimità della legislazione applicativa del Concordato, laddove essa non prevedeva che spettasse alla Corte di appello “accertare che nel procedimento innanzi ai tribunali ecclesiastici sia stato assicurato alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa dei propri diritti, e che la sentenza non contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano”. A seguito della sopravvenuta revisione del Concordato, la Corte di appello – diversamente che in passato, solo su domanda delle parti o di una di esse – provvede alla dichiarazione di efficacia per l’ordinamento statale delle sentenze ecclesiastiche, controllando, in particolare, che sia stato assicurato alle parti il diritto di agire e di difendersi in giudizio in conformità dei principi fondamentali dell’ordinamento, nonché che ricorrano le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere (il riferimento è alle prescrizioni degli artt. 796 e 797 c.p.c., relativi alla delibazione delle sentenze straniere) 51. Ne consegue che, in particolare, le sentenze ecclesiastiche non sono suscettibili di essere rese esecutive in caso di contrarietà all’ordine pubblico italiano, da valutare, però, tenendo presente la peculiarità dei rapporti tra Stato e Chiesa e la specificità dell’ordinamento canonico (dal quale è regolato il vincolo matrimoniale, che in esso ha avuto origine: art. 4 del ricordato Protocollo addizionale), così da non potersi quest’ultimo ritenetrascrizione tardiva potesse essere assunta da qualunque interessato e dalla stessa autorità ecclesiastica), come ha sottolineato Cass. 24-3-1994, n. 2893 (seguita da Cass. 4-5-2010, n. 10734), essendo prescritta, in caso di istanza da parte di uno solo degli sposi, “l’attuale conoscenza e l’attuale mancanza di opposizione dell’altro”, è da escludere che ciò possa avvenire dopo la morte di quest’ultimo, non potendo esse “dedursi da una dichiarazione degli sposi stessi, resa in occasione del loro matrimonio, di consentire alla trascrizione del vincolo” (rimane, insomma, preclusa la trascrizione post mortem). Circa la necessità dell’accertamento del “consenso integro – espresso o tacito – dell’altro coniuge, da accertare con riguardo al momento” della domanda di trascrizione (formulata da un solo dei coniugi), v. Cass. 12-3-2018, n. 5894. 48 Gli effetti civili si producono anche in tal caso dalla celebrazione, ma sono fatti espressamente salvi gli eventuali diritti nel frattempo acquistati dai terzi. 49 La Corte d’appello era attivata (anche indipendentemente, quindi, da una richiesta delle parti) dalla trasmissione ad essa della sentenza ecclesiastica definitiva, col relativo decreto del Supremo Tribunale della Segnatura. 50 Corte cost. 2-2-1982, n. 18, ha giustificato il proprio intervento sulla base degli artt. 12 e 71 (sovranità dello Stato), nonché 24 Cost. (diritto di agire e resistere in giudizio a tutela dei propri diritti). 51 Tali ultime disposizioni sono state abrogate con l’entrata in vigore della riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato (L. 31.5.1995, n. 218). Per la loro persistente applicabilità nella materia in esame (e, quindi, ultrattività), si è pronunciata Cass. 30-5-2003, n. 8764 (confermata da Cass., sez. un., 18-7-2008, n. 19809), proprio sulla base del relativo richiamo da parte della normativa di revisione concordataria. Si era, comunque, in via generale, già escluso che la L. 218/1995 abbia avuto ricadute sulla delibazione delle sentenze ecclesiastiche (Cass. 10-7-1999, n. 7276; analogamente, ad es., Cass. 1-12-2004, n. 22514).

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re senz’altro violato in caso di qualsiasi divergenza tra la disciplina delle cause di nullità nei due ordinamenti 52. Ciò ha condotto ad una applicazione fin troppo permissiva, rispetto a quanto si sarebbe potuto attendere, di un simile “filtro”. Considerata sostanzialmente pacifica – in linea di principio, ma senza effettivo riscontro nella pratica – la contrarietà all’ordine pubblico di sentenze eventualmente fondate su impedimenti di carattere tipicamente religioso (come l’ordine sacro o il voto di castità), una simile contrarietà è stata affermata soprattutto in caso di esclusione, da parte di uno solo degli sposi, di uno dei caratteri che l’ordinamento canonico considera essenziali per il matrimonio (c.d. bona matrimonii: prolificità, indissolubilità e fedeltà), ovvero di apposizione unilaterale di una condizione, purché non manifestate all’altro coniuge, né da lui conosciute o conoscibili 53. Non è stato reputato tale da impedire la delibazione un errore su qualità dell’altro coniuge sicuramente irrilevanti per l’ordinamento civile 54, né si è persistentemente ritenuta (pur dopo contrasti anche giurisprudenziali) – e almeno fino ad un recente mutamento di indirizzo – ostativa della delibazione la circostanza che l’azione sia stata esercitata quando, data l’instaurazione della convivenza e la relativa persistente stabilità, essa non avrebbe più potuto essere proposta per l’ordinamento civile, in considerazione dell’effettiva realizzazione di una operante comunità di vita familiare 55. 52

Secondo l’impostazione di Cass., sez. un., 1-10-1982, n. 5026, richiamata dalla successiva giurisprudenza, una tale violazione si ha solo in caso di “contrarietà ai canoni essenziali cui si ispira in un determinato momento storico il diritto dello Stato ed alle regole fondamentali che definiscono la struttura dell’istituto matrimoniale così accentuata da superare il margine di maggiore disponibilità che l’ordinamento statuale si è imposto rispetto all’ordinamento canonico”. Cass. 19809/2008, pur affermando che l’ordine pubblico cui riferirsi in sede di riconoscimento delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale deve ritenersi “quello ‘italiano’ e non anche quello ‘internazionale’” (dunque, quello “interno”), ha precisato che “non ogni incompatibilità con l’ordine pubblico italiano rileva a impedire l’efficacia di esse in Italia, dovendo il giudice della delibazione tenere conto della specificità dell’ordinamento canonico” (“specificità” espressamente considerata dal Protocollo addizionale all’accordo del 1984), con la conseguenza che “la delibazione va negata soltanto se i giudici ecclesiastici abbiano dato rilievo a valori assolutamente incompatibili con quelli cogenti” per il nostro ordinamento (solo in caso, cioè, di incompatibilità “assoluta” e non “relativa”). Peraltro, una interpretazione drasticamente riduttiva dell’accennato riferimento alla “specificità dell’ordinamento canonico” opera Cass. 16379/2014, ritenendo che ad esso non possa attribuirsi altro senso che quello “di fungere da mera premessa generale, esplicativa delle ragioni per le quali vengono indicate, ‘in particolare’, le tre prescrizioni vincolanti il giudice della delibazione” (“relative alla competenza, al giudicato e al divieto di riesame del merito della sentenza canonica”). 53 Per una sintesi degli orientamenti giurisprudenziali, di recente, v., ad es., Cass. 14-2-2019, n. 4517 e 256-2019, n. 17036, che ricorda anche non essere comunque consentita “in fase di delibazione alcuna integrazione di attività istruttoria”. La giurisprudenza ha precisato che la sentenza ecclesiastica può essere comunque delibata, ove lo sposo che ha manifestato una volontà valida chieda la delibazione (o non si opponga ad essa: ad es., Cass. 2-3-2001, n. 3056 e Cass. 25-6-2009, n. 14906). 54 Un caso limite è stato quello in cui è stata ammessa la delibazione di una sentenza dichiarativa di nullità per errore di uno dei coniugi sulla qualità di laureato dell’altro (Cass. 26-5-1987, n. 4707). Cass. 19809/2008, affermato il principio della riconoscibilità delle sole sentenze ecclesiastiche di nullità “fondate su errori riguardanti fatti oggettivi, anche diversi da quelli di cui all’art. 122, purché incidenti su connotati o ‘qualità’ ritenute significative in base ai valori usuali e secondo la coscienza comune”, ha reputato, invece, non delibabile la sentenza ecclesiastica basata sulla ignoranza, da parte di uno dei nubendi, circa la infedeltà dell’altro prima del matrimonio (per il carattere marcatamente soggettivo dell’errore). 55 Cass., sez. un., 20-7-1988, n. 4700, seguita dalla successiva giurisprudenza, ha ritenuto, al riguardo, che una disposizione come quella dell’art. 1232, pur essendo norma imperativa interna, non costituisce “espres-

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Con la revisione del Concordato, come dianzi accennato, si considera venuta meno la riserva di giurisdizione, precedentemente sussistente in materia. Pure i tribunali civili possono, dunque, nel quadro di quella che risulta, ormai, una giurisdizione concorrente, sindacare la validità del matrimonio concordatario 56. Ciò ha anche indotto a concludere che la sentenza ecclesiastica, pure una volta delibata, non travolga senz’altro la sentenza di divorzio 57 (o, almeno, come si accennerà più oltre, i suoi effetti economici). Indubbiamente, la via del procedimento innanzi ai giudici ecclesiastici, con la successiva delibazione della relativa sentenza, viene spesso battuta per evitare le conseguenze patrimoniali del divorzio (V, 3.5), maggiormente onerose per la parte economicamente più forte: all’efficacia civile della sentenza ecclesiastica si ricollega, infatti, l’applicabilità sione di principi o di regole fondamentali” preclusivi della delibazione, contraddicendo quanto già sostenuto dalla stessa Cassazione (ad es., 18-6-1987, n. 5358 e 14-1-1988, n. 192). Essa aveva, infatti, reputato tale disposizione (e quelle analoghe: V, 2.6) espressione di un principio fondamentale in un ordinamento, come il nostro, il quale privilegia – a differenza di quello canonico che considera decisivo, data la sacramentalità del matrimonio, solo il suo momento genetico – nell’esperienza familiare il “momento sociale e dinamico” e la “stabilità della comunanza di vita spirituale e materiale”, con conseguente irrilevanza dei vizi del consenso, propri del matrimonio-atto, una volta che abbia avuto effettiva attuazione il matrimonio-rapporto. In questa ultima direzione, peraltro, si è più di recente orientata, almeno in via di enunciazione di principio, la ricordata Cass. 19809/2008, la cui impostazione è stata condivisa da Cass. 20-1-2011, n. 1343, secondo la quale, con riguardo “a date situazioni invalidanti dell’atto di matrimonio, la successiva prolungata convivenza è considerata espressiva di una volontà di accettazione del rapporto che ne è seguito e con questa volontà è incompatibile il successivo esercizio della facoltà di rimetterlo in discussione, altrimenti riconosciuta dalla legge”. Dopo ripetute conferme di tale orientamento (ad es., Cass. 8-2-2012, n. 1780), le difformi conclusioni di Cass. 4-6-2012, n. 8926 (che ha, in sostanza, pedissequamente riproposto le pur datate argomentazioni di Cass. 4700/1988) hanno convinto Cass. 14-1-2013, n. 712, a rimettere alle sezioni unite la composizione del così insorto contrasto di giurisprudenza. Le sezioni unite (n. 16379/2014) – evidenziato che “la distinzione tra ‘matrimonio-atto’ e ‘matrimonio-rapporto’ e la situazione giuridica di ‘convivenza tra coniugi’ o ‘come coniugi’, da ricondurre senza dubbio alcuno al matrimonio-rapporto, hanno … un nitido e solido fondamento nella Costituzione, nelle Carte Europee dei diritti e nella legislazione italiana” (tale “convivenza ‘come coniugi’” dovendosi intendere “quale elemento essenziale del ‘matrimonio-rapporto’, che si manifesta come consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo, ed esteriormente riconoscibile”) – hanno concluso che “la convivenza ‘come coniugi’, protrattasi per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio ‘concordatario’ regolarmente trascritto … è ostativa alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana delle sentenze definitive di nullità pronunciate di tribunali ecclesiastici, per qualsiasi vizio genetico del matrimonio accertato e dichiarato dal giudice ecclesiastico nell’ordine canonico nonostante la sussistenza di detta convivenza coniugale”. Una simile “convivenza coniugale” (la cui rilevanza ostativa alla delibazione risulta condivisa, ad es., da Cass. 26-11-2019, n. 30900; 28-1-2015, n. 1621; 27-1-2015, n. 1494), comunque, può essere rilevata “soltanto ad istanza di parte” (non, quindi, d’ufficio: così, ad es., pure Cass. 19-12-2016, n. 26188; 8-10-2018, n. 24729 e 12-9-2018, n. 22218, che ricorda trattarsi di “eccezione in senso stretto”, con le relative conseguenze sul piano procedurale) e, di conseguenza, non impedisce la delibabilità della sentenza ecclesiastica in caso di “domanda di delibazione, per così dire, ‘congiunta’” (tali ultime precisazioni sono condivise, in particolare, da Cass. 13-2-2015, n. 2942 e Cass. 1-4-2015, n. 6611). 56 Sembra prevalere la tendenza a considerare applicabile, da parte del giudice statale, la disciplina civile del matrimonio, pur non mancando validi argomenti a favore della necessità che anche il giudice statale applichi, ai fini del sindacato di validità, la disciplina canonistica dei requisiti matrimoniali (sempre, comunque, nei limiti della relativa conformità all’ordine pubblico italiano). Circa la possibilità – sulla base del principio di prevenzione – per il giudice italiano di statuire, in difetto di delibazione della sentenza ecclesiastica, sulla domanda di nullità del matrimonio concordatario, v., ad es., Cass. 18627/2014. 57 Reputando applicabile il principio della prevenzione temporale, la Cassazione (18-4-1997, n. 3345 e 25-6-2003, n. 10055) non ha mancato di considerare – con un indirizzo controverso e successivamente contestato (Cass. 4-2-2010, n. 2600 e 24-7-2012, n. 12989) – decisiva, al riguardo, l’anteriorità del momento della instaurazione del procedimento (di delibazione o di divorzio).

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del regime delle conseguenze dell’invalidità, quali disciplinate per il matrimonio civile dagli artt. 128 ss. e, in particolare, artt. 129 e 129 bis (V, 2.7) 58. Una migliore tutela del coniuge debole, allora, nei casi in cui non sia addirittura da considerarsi radicalmente preclusa la delibazione della sentenza ecclesiastica di invalidità, può derivare solo dal ritenere persistentemente operanti le statuizioni economiche adottate in sede di giudizio di divorzio, nonostante la eventuale successiva delibazione della sentenza di invalidità. E proprio in tale direzione si è mossa la giurisprudenza, nell’attesa, per ora vana, di un diffusamente auspicato intervento legislativo chiarificatore 59.

58 Così, ad es., Cass. 13-1-2010, n. 399, con riferimento agli effetti del passaggio in giudicato della sentenza di delibazione in pendenza del giudizio di separazione dei coniugi (si tenga presente, comunque, che “la pronuncia che rende esecutiva la sentenza ecclesiastica di nullità, successiva al passaggio in giudicato della sentenza di separazione, fa venir meno le statuizioni economiche relative al rapporto tra i coniugi in essa previste”, dato che, “venuto meno il vincolo matrimoniale, non possono sopravvivere le statuizioni dal quale esse dipendono”: Cass. 11-5-2018, n. 11553; per la cessazione della materia del contendere, relativamente al giudizio di separazione, in caso di sopraggiunta delibazione, Cass. 19-12-2017, n. 30496). Corte cost. 27-9-2001, n. 329 – alle cui conclusioni si richiama Cass. 8-11-2010, n. 22677 – ha ritenuto costituzionalmente legittimo l’attuale sistema che esclude, pur in presenza “fra i coniugi di una consolidata comunione di vita”, l’applicabilità della stessa disciplina prevista in conseguenza del divorzio. Ciò, peraltro, non mancando di evidenziare come, “per garantire effettività di tutela al soggetto economicamente più debole, il legislatore – nell’esercizio della sua discrezionalità – ben potrebbe intervenire sulla disciplina attuale degli effetti patrimoniali della nullità del matrimonio, affrancandola dalle rigidità che nel sistema vigente ne circoscrivono il contenuto entro limiti angusti (cfr., ad es., l’art. 129 cod. civ.)”. 59 Cass. 23-3-2001, n. 4202 e Cass. 4-3-2005, n. 4795, così, hanno concluso che, divenuta definitiva la statuizione relativa all’assegno di divorzio, per essersi su di essa formato il giudicato, tale statuizione resti comunque intangibile anche nel caso di successiva – da reputare comunque ammissibile (e v. pure, ad es., Cass. 12989/2012 e 12-9-2018, n. 22218) – delibazione della sentenza ecclesiastica di invalidità del matrimonio. Il principio è stato avallato da Cass. 18-9-2013, n. 21331, che ha anche precisato come la delibazione della sentenza ecclesiastica non costituisca un “giustificato motivo” sopraggiunto, legittimante, ai sensi dell’art. 91 l. div., la revisione dei provvedimenti economici quali definiti dalla sentenza di divorzio. Invece, il sopraggiungere della delibazione della sentenza ecclesiastica prima del formarsi del giudicato sulle conseguenze economiche del divorzio, determinando “il venir meno del vincolo coniugale”, si è ritenuto essere tale da impedire alla relativa procedura di proseguire (Cass. 7-10-2019, n. 24933). Peraltro, Cass. 23-1-2019, n. 1882, ha concluso che, quando sia passata in giudicato la cessazione degli effetti civili del matrimonio ed il processo prosegua per la definizione delle statuizioni economiche (ai sensi dell’art. 412 l. div.), “la valutazione di spettanza e quantificazione dell’assegno divorzile è ben ammissibile”, nonostante il sopraggiungere della delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità. Di conseguenza, Cass. 25-2-2020, 5078, ha ritenuto sussistere un contrasto giurisprudenziale, investendo le sezioni unite del quesito se, una volta formatosi – a seguito della sentenza parziale – il giudicato sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio, risulti indifferente la successiva delibazione della sentenza ecclesiastica “solo in presenza di statuizioni economiche assistite dal giudicato o anche in assenza di dette statuizioni” (restando, cioè, persistentemente consentito al giudice di regolare i rapporti patrimoniali tra gli ex coniugi secondo la disciplina prevista in materia di divorzio). Cass., sez. un., 31-3-2021, n. 9004, confermata l’ammissibilità della delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità pur dopo il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili, ha concluso che la delibazione stessa, anche se intervenuta prima che sia divenuta definitiva la decisione in ordine alle relative conseguenze economiche, “non comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio civile avente ad oggetto lo scioglimento del vincolo coniugale, il quale può dunque proseguire ai fini dell’accertamento della spettanza e della liquidazione dell’assegno divorzile” (e ciò perché “il giudicato formatosi in ordine all’impossibilità della ricostruzione della comunione tra i coniugi investe il titolo stesso del diritto all’assegno, la cui incontestabilità esclude, quanto meno ai fini che qui interessano, l’operatività della dichiarazione di nullità del matrimonio”).

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B) EFFETTI 9. Rapporti personali tra coniugi. – La riforma del 1975 ha dato piena attuazione – nei rapporti tra i coniugi (e di questi nei confronti dei figli) – al principio costituzionale per cui “il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi” (art. 292): la riserva dei “limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare” è stata sciolta nel senso di una loro mera eventualità, di fronte all’effettivo atteggiarsi dei rapporti familiari nella coscienza sociale, la valutazione delle cui dinamiche evolutive rappresenta il delicato compito del legislatore in materia (V, 1.1) 60. La disciplina ora contenuta nel codice civile istituzionalizza un modello di famiglia paritario e partecipativo, in cui i valori di rispetto reciproco e solidarietà sono affidati soprattutto all’impegno profuso dai suoi membri. I necessari interventi disposti dall’ordinamento, lungi dal tendere ad assicurare un presunto interesse superiore della famiglia stessa, risultano finalizzati esclusivamente ad assicurare che anche la formazione sociale fondamentale sia veramente luogo di promozione e sviluppo della personalità di ciascuno. Invece di concentrare, come nel precedente modello gerarchico ed autoritario, i poteri di governo della famiglia nel marito (quale capo della famiglia e, di conseguenza, titolare della potestà maritale e della patria potestà), ogni predefinita ripartizione di ruoli è superata dalla perentoria affermazione, secondo cui “con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri” (art. 1431): al loro accordo viene demandata la concreta articolazione degli assetti organizzativi della vita familiare (art. 1441). Gli obblighi reciproci che derivano dal matrimonio sono quelli di fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione nell’interesse della famiglia, coabitazione e contribuzione ai bisogni della famiglia (art. 1432-3). La famiglia ne risulta organismo la cui vitalità è da ricercare nel reciproco rispetto della dignità di ciascuno, attraverso quell’impegno di solidarietà, che riflette il carattere anche collettivo degli interessi, dei quali ognuno è portatore in quanto membro del gruppo. Pure i doveri verso i figli (art. 147) (V, 4.9) 61, del resto, sono regolati anche nel quadro della delineazione dei contenuti del rapporto coniugale, in quanto assunti ad oggetto di reciproca pretesa dei coniugi, nell’ambito della dimensione solidaristica del matrimonio 62. 60 L’idea che l’unità non rappresenti necessariamente un valore antitetico rispetto a quello dell’eguaglianza, dovendo il relativo rapporto essere valutato alla luce delle concrete dinamiche sociali, è stata espressa, prima della riforma e quasi quale suo viatico, da Corte cost. 13-7-1970, n. 133, in cui si sottolinea che “è proprio l’eguaglianza che garantisce quella unità e, viceversa, è la disuguaglianza a metterla in pericolo”, rafforzandosi, insomma, l’unità “nella misura in cui i reciproci rapporti tra i coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla parità”. 61 È da sottolineare come i doveri verso i figli, pur enunciati anche in sede di rapporto coniugale, non dipendano dalla sua ricorrenza, inerendo alla relazione che scaturisce dalla generazione in quanto tale (come reso evidente dal rinvio, nell’art. 147, al principio generale dell’art. 315 bis). In relazione al concorso negli oneri connessi a tali doveri, l’art. 148 rinvia senz’altro a quanto stabilito dall’art. 316 bis. 62 Per Cass. 2-9-2005, n. 17710, i comportamenti tali da costituire “violazione degli obblighi del genitore nei confronti dei figli” sono atti a risolversi “nella violazione dell’obbligo nei confronti dell’altro coniuge di concordare l’indirizzo della vita familiare e, in quanto fonte di angoscia e di dolore per l’altro coniuge, nella violazione del dovere di assistenza morale e materiale”. Così, ad es., nel contesto di un complesso quadro di stravolgimento del “legame di fiducia con il marito”, quale violazione dei doveri coniugali è stato considerato “l’esempio/incitamento alla figlia, vista quasi come compagna di avventure” (Trib. Prato 28-10-2016).

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La fedeltà rappresenta imprescindibile espressione della esclusività del rapporto personale, che si è visto essere connaturale all’idea di matrimonio (V, 2.1) 63. Più che all’angusta prospettiva dei rapporti sessuali, pare doversi avere riguardo a quella complessiva del necessario rispetto, in un’ottica di leale dedizione reciproca, della dignità dell’altro coniuge nei rapporti sociali 64. Il dovere di assistenza morale e materiale si presenta quale espressione particolarmente significativa di quel legame di solidarietà che è alla base del matrimonio e che impone il vicendevole aiuto (personale, oltre che economico), soprattutto nei momenti, per ciascuno, più difficili 65. Non a caso, il diritto all’assistenza morale e materiale è sospeso nei confronti del coniuge che si allontani ingiustificatamente dalla residenza familiare (art. 1461). I doveri di assistenza familiare (legati alla qualità di coniuge e di genitore) sono tutelati penalmente (art. 570 c.p.). Il dovere di collaborazione, poi, vale a precisare il precedente dovere, nel senso della promozione di un’attiva partecipazione, secondo le proprie capacità ed attitudini, alla vita del gruppo familiare nella sua dimensione collettiva 66. In tale prospettiva, ad esso si ricollega strettamente quello di contribuzione, che rappresenta il pilastro su cui la riforma ha fondato l’assetto economico della famiglia ed il relativo regime (esaminato specificamente più oltre: V, 2.10). L’importanza del dovere di coabitazione e della conseguente localizzazione della vita familiare (cui allude l’art. 337 sexies, disciplinando la sorte della “casa familiare” in caso di crisi del matrimonio) è attestata dalla insistenza del legislatore nel riferirsi alla residenza familiare (art. 144, per la relativa scelta; art. 1461, per l’allontanamento ingiustifi63 Significativamente, secondo Cass. 14-2-2012, n. 2059, la comprovata violazione dell’“obbligo di fedeltà coniugale fa presumere che abbia reso la convivenza intollerabile” (e v., ad es., Trib. Lecce 22-4-2020). Così, in particolare, ovviamente, in caso di “stabile relazione extraconiugale”: Cass. 5-2-2014, n. 2539. Più cauta Cass. 9-10-2012, n. 17196, in cui si richiama la necessaria prova, comunque, di “uno stretto rapporto di causa ad effetto” rispetto all’intollerabilità della convivenza. 64 Proprio al carattere di “offesa alla dignità e all’onore dell’altro coniuge”, “in considerazione degli aspetti esteriori con cui è coltivata e dell’ambiente in cui i coniugi vivono”, si riferisce Cass. 13-7-1998, n. 6834, per ritenere contraria al dovere di fedeltà la relazione di un coniuge con estranei, “anche se non si sostanzi in un adulterio” (e circa la rilevanza, al riguardo, della convinzione indotta nei terzi dal comportamento del coniuge, v. pure Cass. 12-12-2008, n. 29249). Ad “un impegno globale di devozione, che presuppone una comunione spirituale e materiale, di cui la fedeltà sessuale è soltanto un aspetto”, allude Cass. 11-8-2011, n. 17193. Una contrarietà al dovere in questione non è stata ritenuta ricorrere, a carico della moglie, nell’ipotesi di “legame platonico, essenzialmente concretatosi in contatti telefonici o via internet, e non connotato da reciproco coinvolgimento sentimentale, con condivisione e ricambio di lei dell’eventuale infatuazione di lui” (Cass. 12-4-2013, n. 8929). 65 La ricorrenza di un motivo di addebito è stata negata nel caso in cui uno dei coniugi, pur non avendone la necessità, si sia dedicato ad una attività lavorativa, al fine di affermare la propria personalità (sempre che tale decisione non risulti incompatibile con l’adempimento dei fondamentali doveri familiari): Cass. 11-7-2013, n. 17199. La giurisprudenza (Cass. 9-4-2015, n. 7132) fa anche riferimento alla “violazione del dovere di lealtà … così da minare il nucleo imprescindibile di fiducia reciproca che deve caratterizzare il vincolo coniugale” (in relazione alla dimostrata indisponibilità al superamento di situazioni incompatibili con l’osservanza dei doveri coniugali). 66 Sono state, così, ritenute “espressione del dovere di solidarietà familiare”, con la conseguenza che “non può chiedersene il compenso all’altro coniuge”, “le prestazioni professionali effettuate da un coniuge nell’interesse della famiglia” (nel caso di specie, progettazione e direzione di lavori di ristrutturazione della casa familiare da parte del coniuge architetto) (Trib. Napoli 4-7-2000).

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cato da essa) 67, con i possibili risvolti pure penali del suo abbandono (art. 570 c.p.). Alle ipotesi patologiche della convivenza ha riguardo la disciplina degli ordini di protezione contro gli abusi familiari (artt. 342 bis e ter, introdotti nel codice civile dalla L. 4.4.2001, n. 154), che possono comportare anche l’imposizione dell’allontanamento dalla casa familiare (V, 1.8). Coerente con una considerazione della coabitazione come funzionale alla realizzazione di valori comunitari di vita sembra, poi, la previsione per cui la proposizione di domande giudiziali dirette alla constatazione della crisi coniugale costituisce giusta causa di allontanamento dalla residenza familiare (art. 1462). Problema discusso è quello della sanzione per l’inosservanza dei doveri familiari, una volta ritenuta pacifica la loro incoercibilità. Al di là della ricordata tutela di carattere penale (artt. 570 ss. c.p.), l’avere il comportamento tenuto dal coniuge in violazione di tali doveri causato la crisi coniugale rende a lui eventualmente addebitabile la separazione personale (art. 1512) (V, 3.2), rientrando, inoltre, la valutazione delle ragioni della decisione anche tra gli elementi da considerare per la determinazione dell’assegno di divorzio (art. 56 L. 1.12.1970, n. 898) (V, 3.5) 68. 67

La gravità dell’allontanamento dalla casa familiare, in assenza di giusta causa, quale violazione di un fondamentale dovere coniugale, viene evidenziata da Cass. 23-6-2020, n. 12241; 15-1-2020, n. 648 e 15-12-2016, n. 25966 (che lo considerano, di conseguenza, “di per sé sufficiente a giustificare l’addebito della separazione personale”). Di recente, Cass. 16-4-2018, n. 9384, ha considerato giustificato l’allontanamento della moglie dalla casa coniugale, a seguito della “scoperta della condotta del marito, consistita nella navigazione su siti internet dedicati alla ricerca di relazioni extraconiugali”. 68 Un consistente indirizzo giurisprudenziale di merito (ad es., Trib. Firenze 13-6-2000, Trib. Milano 4-6-2002, Trib. Venezia 14-5-2009) si è orientato a favore dell’ammissibilità dell’attribuzione di un risarcimento del danno a favore del coniuge nei cui confronti sia avvenuta la violazione dei doveri coniugali (in occasione della separazione personale e in aggiunta alla dichiarazione di addebitabilità della stessa al coniuge responsabile). Ciò contro la impostazione tradizionale (di cui è espressione, in particolare, Cass. 6-4-1993, n. 4108), tendente a negare una simile possibilità, in considerazione della specificità della materia matrimoniale, anche per quanto concerne la disciplina dei relativi doveri e delle conseguenze della loro inosservanza. Pure la Cassazione (10-5-2005, n. 9801), una volta evidenziata l’esistenza di un vero e proprio “diritto soggettivo di un coniuge nei confronti dell’altro” a comportamenti conformi ai “doveri che derivano dal matrimonio”, ha abbandonato la tradizionale “impostazione volta ad esaltare la specificità e completezza del diritto di famiglia”, cui consegue che la violazione dei relativi obblighi trovi esclusivamente “la propria sanzione nelle misure tipiche in esso previste”. Si è ritenuto, cioè, che tali specifici rimedi “non sono strutturalmente incompatibili con la tutela generale dei diritti costituzionalmente garantiti” (tra cui è da annoverare “il rispetto della dignità e della personalità, nella sua interezza, di ogni componente del nucleo familiare”, dovuto da parte di ogni altro componente della famiglia), “non escludendo la rilevanza che un determinato comportamento può rivestire ai fini della separazione o della cessazione del vincolo coniugale e delle conseguenti statuizioni di natura patrimoniale la concorrente rilevanza dello stesso comportamento quale fatto generatore di responsabilità aquiliana”. Viene negato, comunque, che “la mera violazione dei doveri matrimoniali o anche la pronuncia di addebito della separazione possano di per sé ed automaticamente integrare una responsabilità risarcitoria” (e v. Cass. 6-8-2020, n. 16740). Cass. 1-6-2012, n. 8862, ha sostanzialmente confermato tale impostazione, sottolineando, allora, che “la responsabilità tra coniugi o nei confronti del figlio non si fonda sulla mera violazione dei doveri, matrimoniali o di quelli derivanti dal rapporto di genitorialità, ma sulla lesione, a seguito dell’avvenuta violazione di tali doveri, di beni inerenti la persona umana, come la salute, la privacy, i rapporti relazionali, ecc.” (per cui “possono sicuramente coesistere pronuncia di addebito e risarcimento del danno, considerati i presupposti, i caratteri, le finalità radicalmente differenti”). Con riguardo alla violazione del dovere di fedeltà, Cass. 15-9-2011, n. 18853, così, richiede, ai fini del sorgere di una responsabilità a fini risarcitori (ritenuta, peraltro, azionabile – con una soluzione che desta perplessità – anche in caso di avvenuta separazione consensuale; alla compatibilità – in quanto “azione del tutto autonoma rispetto alla domanda di separazione e di addebito” – con la mancanza di una domanda di addebito o con la relativa rinuncia allude Trib. Bari 18-3-2019), “la compromissione di un interesse costituzionalmente protetto … evenienza che può verifi-

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In conseguenza del matrimonio, la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito (art. 143 bis), mentre, prima della riforma, era previsto che essa lo sostituisse al proprio. Anche così configurata, la disciplina del cognome nella famiglia (ispirata ad esigenze di tutela dell’unità familiare nella sua identificazione sociale), pure per i riflessi relativi ai figli (ai fini della cui identificazione attualmente prevale, secondo la tradizione, la linea maschile di discendenza), è sembrata poco rispettosa del principio di eguaglianza dei coniugi, proponendosi anche da noi – come già avvenuto altrove – l’eliminazione della necessaria assunzione, da parte della moglie, del cognome maritale e l’introduzione della possibilità di una scelta, concordata nel momento del matrimonio, in ordine al cognome da trasmettere ai figli (IV, 2.10) 69. Il conferimento ai coniugi di una simile possibilità di scelta si risolverebbe, indubbiamente, in un ulteriore potenziamento di quella autonomia, della quale già essi dispongono nella definizione dei rispettivi rapporti e nell’organizzazione della vita familiare, sempre, comunque, entro la cornice dei diritti e dei doveri imposti in modo inderogabile ai coniugi medesimi (art. 160) 70. Secondo quella che viene correntemente definita come regola dell’accordo nel governo della famiglia, i coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fiscarsi in casi e contesti del tutto particolari”, in cui si sia determinata una “lesione della salute del coniuge” o un’offesa alla “dignità della persona” (e sempre ad esito della “necessaria prova del nesso di causalità”). A tale prospettiva si è allineata pure Cass. 7-3-2019, n. 6598, che ha negato la sussistenza di “un diritto alla fedeltà coniugale costituzionalmente protetto”, la relativa violazione essendo “sanzionabile civilmente”, appunto, solo “quando, per le modalità dei fatti, uno dei coniugi ne riporti un danno alla propria dignità personale, o eventualmente un pregiudizio alla salute” (quanto, poi, alla relativa posizione, “non può escludersi, in astratto, la configurabilità di una responsabilità a carico dell’amante”, ma solo ove “abbia leso o concorso a violare diritti inviolabili – quali la dignità e l’onore – del coniuge tradito”). La problematica in questione si ricollega a quella più generale, attualmente oggetto di notevole attenzione e di persistenti contrasti, concernente i rimedi applicabili in caso di c.d. i l l e c i t o e n d o f a m i l i a r e (con il ruolo da riconoscere, in materia, allo strumento del risarcimento del danno, con specifico riguardo al danno non patrimoniale). Proprio in una simile ottica, un “obbligo di risarcimento dei danni non patrimoniali” è stato ritenuto riferibile anche alla “violazione dei doveri inerenti al rapporto di filiazione” (Cass. 10-4-2012, n. 5652; 22-7-2014, n. 16657; 22-7-2014, n. 16657, nonché 16-2-2015, n. 3079, in relazione all’obbligo di mantenimento gravante sul genitore naturale fin dalla nascita del figlio e, quindi, anche anteriormente alla dichiarazione di paternità o maternità; e v., in termini molto comprensivi, Trib. Matera 7-12-2017, per la mancanza di “un’adeguata partecipazione e sostegno alla vita del figlio”) (V, 4.9). In proposito, è da evidenziare come lo stesso legislatore abbia previsto, nell’art. 709 ter c.p.c. (introdotto con la L. 8.2.2006, n. 54), la possibilità di disporre, a carico del genitore responsabile di gravi inadempienze ai propri doveri verso i figli in conseguenza della crisi matrimoniale, un risarcimento a favore dei figli stessi e dell’altro genitore. Si ricordi come Cass. 5-5-2020, n. 8459 abbia anche ritenuto ammissibile un eventuale risarcimento del danno a favore del padre, cui non sia stato comunicato dalla madre consapevole della paternità l’avvenuto concepimento di un figlio, per il pregiudizio del “diritto del padre naturale di affermare la propria identità genitoriale”. 69 In ricorrenti proposte di riforma della materia del cognome familiare (e v. anche IV, 2.10), è stata prospettata la modificazione dell’art. 143 bis, nel senso che “ciascun coniuge conserva il proprio cognome” (con le conseguenze destinate a derivarne rispetto all’attuale disciplina del cognome della moglie in caso di separazione personale e di divorzio) (così, ad es., già il D.D.L. n. 86 della XVI legislatura). 70 L’art. 143 ter disciplinava la cittadinanza della moglie (con particolare riferimento alla conservazione di quella italiana). Tale disposizione è stata abrogata dalla L. 5.2.1992, n. 91, che regola in via generale la materia della cittadinanza. L’art. 5 (come sostituito dalla L. 15.7.2009, n. 94) disciplina l’acquisto della cittadinanza italiana da parte del coniuge straniero o apolide di cittadino italiano (l’acquisto si produce quando costui “risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio se residente all’estero, qualora … non sia intervenuto lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e non sussista separazione personale dei coniugi”).

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sano la residenza della famiglia, alla luce delle esigenze di entrambi e quelle collettive (art. 1441). La necessità di soluzioni concordate riguarda, dunque, le scelte da cui dipende l’organizzazione della vita familiare, quali, in particolare, oltre che appunto la determinazione della residenza familiare, la precisazione del ruolo che ogni membro deve svolgere nel quadro dell’organizzazione stessa (senza, quindi, alcuna predefinizione), innanzitutto con riguardo allo svolgimento di attività lavorative extradomestiche ed alla relativa compatibilità con gli impegni familiari 71. Il rispetto dell’accordo, comunque, non può essere preteso quando mutino le circostanze, essendo espressione del dovere di leale collaborazione la ricerca di nuove adeguate soluzioni, nel rispetto delle esigenze di tutti. A ciascuno dei coniugi spetta, poi, per ovvi motivi di opportunità pratica nello svolgimento della vita familiare, il potere di attuare l’indirizzo concordato (art. 1442). Discusso è se un tale potere abbia anche una rilevanza esterna e comporti, quindi, la possibilità di impegnare, in attuazione del reciproco dovere di contribuzione, pure l’altro coniuge per le obbligazioni assunte per soddisfare le necessità della famiglia (e ciò a prescindere dal regime patrimoniale operante tra i coniugi, trattandosi di questione concernente il c.d. regime primario: V, 2.10). Indubbiamente, il governo della famiglia fondato sulla regola dell’accordo pone il problema delle conseguenze della relativa mancanza. Essendosi rinunciato a perpetuare la prevalenza della volontà di uno dei coniugi, la soluzione, in vista della salvaguardia dell’unità familiare, è stata trovata nel prevedere un intervento del giudice in caso di disaccordo (art. 145). Per evitare che un simile intervento determini una lesione dell’autonomia dei coniugi, si è previsto che esso abbia carattere essenzialmente conciliativo, in quanto mirato al raggiungimento di una soluzione concordata. Ove tale tentativo non riesca ed il contrasto concerna la fissazione della residenza o altri affari essenziali, solo su richiesta espressa e congiunta dei coniugi – i quali, così, esercitano pur sempre il loro potere di scelta, sia pure rimettendo al giudice la decisione – il giudice adotterà la soluzione più opportuna 72.

10. Regime patrimoniale della famiglia. Il regime primario. – La disciplina del regime patrimoniale della famiglia costituisce un elemento di rilevanza fondamentale nella delineazione del modello familiare che il legislatore intende vedere realizzato. Si tratta, infatti, del complesso delle norme destinate a regolare i rapporti di natura 71 È sulla base dell’accordo che devono essere risolti simili problemi: Cass. 9-5-1982, n. 2882, sottolinea che “il rifiuto di sottostare al metodo dell’accordo può essere valutato come motivo di addebito della separazione, sotto il profilo della violazione del più ampio dovere di collaborazione”. Cass. 7-5-1992, n. 5415, indica come doverosa via da percorrere, in caso di disaccordo, quella del ricorso alla procedura dell’art. 145. 72 Pur essendo stato reputato da Cass. 5415/1992, il “provvedimento … insuscettibile di coercizione, in quanto privo di efficacia esecutiva”, è da ritenere che il suo mancato rispetto da parte di uno dei coniugi possa costituire elemento di valutazione ai fini della pronuncia di addebito della separazione personale eventualmente seguita al perpetuarsi della crisi. Comunque, la disposizione ha trovato limitatissimi richiami nella pratica, tanto da farla diffusamente considerare una sorta di “ramo secco”: del resto, pure il suo significato – peraltro sicuramente importante nel contesto (anche temporale) della riforma – di dichiarata rottura con i pregressi assetti familiari discriminatori assume, ormai, una sempre minore pregnanza, a fronte dell’avvenuta evoluzione dei rapporti all’interno della famiglia nella realtà sociale. Comunque, l’art. 123, lett. ii, L. 206/2021 ha previsto un intervento in materia di art. 145 (oltre che di art. 316: V, 4.9) in sede di normativa delegata (dalle finalità invero alquanto oscure in rapporto alla disciplina attualmente vigente).

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patrimoniale dei coniugi proprio in considerazione di tale loro specifica condizione: risultano determinati, così, in ultima analisi, i riflessi che il matrimonio produce sul patrimonio (passato, presente e futuro) di ciascuno di essi. La scelta della riforma è stata nel senso di privilegiare il momento comunitario e partecipativo anche nello svolgimento delle relazioni economiche interessanti i membri della famiglia 73. L’esigenza avuta di mira è stata quella della tutela della eguaglianza sostanziale dei coniugi, cui è stata ritenuta funzionale la previsione, quale regime legale, del regime di comunione (appunto, legale) dei beni. Si è ritenuto opportuno, peraltro, conciliare una simile esigenza col rispetto di una certa indipendenza economica di ciascun coniuge (pure dal punto di vista delle sue iniziative), quale espressione di quella libertà che, a salvaguardia della dignità personale, non può essere conculcata in conseguenza del matrimonio. Ciò ha avuto riflessi tanto dal punto di vista della conformazione dello stesso regime legale di comunione dei beni 74, quanto sotto il profilo della sfera di autonomia riconosciuta agli interessati nella determinazione del proprio regime patrimoniale coniugale, in considerazione della molteplicità delle tipologie degli assetti economici familiari in una società complessa come la nostra. Il regime patrimoniale legale di comunione risulta, così, destinato ad operare solo ove le parti non abbiano scelto, nei limiti consentiti, un diverso regime con apposita convenzione (art. 159) (V, 2.11), in tal senso dovendosi intendere il suo carattere legale (e non in quello, dunque, della relativa inderogabilità). Indipendentemente dal regime patrimoniale esistente tra i coniugi (comunione legale o regime convenzionale), a salvaguardia degli obiettivi di eguaglianza e perequazione avuti di mira dal legislatore, in ogni caso opera, comunque, il principio contributivo: regolamentazione inderogabilmente finalizzata – in quanto immediata espressione della solidarietà coniugale – ad assicurare un livello essenziale di integrazione delle sfere patrimoniali dei coniugi in quanto tali. È proprio in una tale prospettiva che si parla di regime primario (inderogabile) con riferimento, appunto, al dovere di contribuzione, per il quale “entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia” (art. 1433) 75. Principio, questo, che si innerva nella quotidiana vita familiare attra73 La disciplina in esame concerne per definizione i rapporti tra coniugi, ma il legislatore non manca di tenere presente la posizione di altri soggetti (e, in particolare, dei figli) nella regolamentazione degli assetti economici complessivi della famiglia (basti pensare al dovere contributivo che grava sui figli conviventi, art. 315 bis4, nonché alla regolamentazione del fondo patrimoniale, artt. 167 ss., e dell’impresa familiare, art. 230 bis). 74 La prospettiva in cui si è mosso il legislatore risulta sintetizzata, di recente, da Cass. 17-5-2022, n. 15889, in cui si sottolinea che “se la finalità dell’istituto è quella di garantire l’uguaglianza delle sorti economiche dei coniugi in relazione agli eventi verificatisi dopo il matrimonio, il legislatore ha avuto anche ben presente l’esigenza di assicurare al singolo coniuge un adeguato spazio di autonomia nell’esercizio delle proprie attività professionali o imprenditoriali, ed in generale nella gestione dei propri redditi da lavoro come pure dei frutti ricavati dai bei personali. L’obiettivo era quello di fornire una disciplina che operasse un necessario ed equilibrato bilanciamento fra alcuni principi, tutti di rango costituzionale e, come tali, meritevoli in ugual modo di tutela, quali la tutela della famiglia (art. 29 Cost.), il principio di uguaglianza dei cittadini (art. 3 Cost.), la libertà di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), la remunerazione del lavoro (art. 35)”. 75 Al regime primario così inteso vengono contrapposti – seguendo una corrente terminologia di origine francese – i diversi possibili regimi patrimoniali, sulla scelta e concreta conformazione dei quali può incidere la volontà degli interessati, definiti, appunto, regimi secondari (di cui uno, quello di comunione, avente la di-

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verso il meccanismo gestionale di cui all’art. 144 (regola dell’accordo nelle scelte di indirizzo e potere disgiunto di relativa attuazione: V, 2.9). Viene, così, sancita espressamente la pari dignità, ai fini dell’assolvimento del proprio dovere contributivo da parte di ciascuno dei coniugi, del lavoro prestato all’interno della famiglia, rispetto a quello extradomestico. Pure il coniuge impegnato, in via esclusiva o prevalente, nell’attività lavorativa domestica (come tale improduttiva di reddito) è partecipe, allora, durante la convivenza matrimoniale, del tenore di vita consentito dalla complessiva economia familiare (e deciso d’accordo, ai sensi dell’art. 1441) 76. Il regime successorio e quello delle conseguenze patrimoniali della crisi familiare valgono (o, almeno, dovrebbero valere) ad assicurargli, poi, pure per il tempo successivo al venir meno della convivenza, un’adeguata partecipazione agli incrementi patrimoniali venutisi a realizzare nel corso della vita familiare. Per garantire una reale posizione di eguaglianza dei coniugi, peraltro, pare imprescindibile riconoscere loro, in ogni caso, poteri paritari di iniziativa economica nei confronti dei terzi, in vista del soddisfacimento delle necessità familiari. Solo conferendo una rilevanza esterna al dovere di contribuzione – legittimando, cioè, ciascun coniuge alla stipulazione di obbligazioni nell’interesse della famiglia, con efficacia direttamente vincolante nei confronti dei terzi anche per l’altro (pure, quindi, ove il regime operante sia quello della separazione dei beni) – si sottrae, in effetti, il coniuge meno provveduto di mezzi economici a condizionamenti da parte di quello più provveduto, tali da svuotare, di fatto, la regola dell’accordo della sua valenza egalitaria (così da renderla di valore esclusivamente formale). Una simile conclusione, anche in assenza di una disposizione espressa come quelle esistenti in altri ordinamenti, può essere argomentata proprio sulla base della vigenza del principio contributivo (quale emerge dagli artt. 1433 e 144) 77. Al piano del regime primario vengono diffusamente ricondotte, inoltre, le vicende relative alla casa familiare, sulla base delle numerose disposizioni che ad essa conferiscono autonoma considerazione – in conseguenza, appunto, di tale sua peculiare destinazione – rispetto agli altri beni di cui i coniugi (individualmente o insieme) siano titolari: art. 1441, per l’accordo di fissazione della residenza della famiglia; art. 5402, per la sorte della casa adibita a residenza familiare in caso di morte del coniuge che ne sia proprietario; art. 142 L. 76/2016, per il diritto spettante al convivente superstite sulla casa di cognità di regime legale). Essi sono definiti tali proprio perché destinati ad operare al di fuori delle regole inderogabili del primo e subordinatamente ad esse. 76 Tale tenore di vita assume, ovviamente, rilevanza in ordine alla individuazione dei bisogni della famiglia, cui deve essere rapportato il dovere di contribuzione. 77 La Cassazione si orienta, però, ad escludere che un coniuge possa, in regime di separazione dei beni, impegnare solidalmente l’altro – in mancanza di una deroga al principio generale secondo cui il contratto non produce effetti rispetto ai terzi (art. 1372) – “per le obbligazioni contratte, pur se riconducibili all’interesse della famiglia” (Cass. 7-7-1995, n. 7501 e 28-4-1992, n. 5063), anche se, facendo leva “sull’obbligo di ciascuno dei coniugi di contribuire ai bisogni della famiglia”, la stessa ha talvolta (Cass. 25-7-1992, n. 8995) ammesso “l’invasione della sfera giuridico patrimoniale di un coniuge da parte dell’altro”, con conseguente responsabilità solidale pure del primo per le spese effettuate dal secondo. Ai fini del sorgere di una responsabilità del marito, pur in assenza di una sua procura espressa o tacita alla moglie, si tende a considerare necessaria la ricorrenza di “una situazione di apparenza giuridica che facesse ritenere che questa operasse – pur senza spenderne il nome – per conto del marito” (Cass. 15-2-2007, n. 3471 e 6-10-2004, n. 19947).

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mune residenza”; art. 337 sexies1, per l’assegnazione della casa familiare a seguito di cessazione della convivenza della famiglia (anche ove non sussista il vincolo coniugale).

11. Convenzioni matrimoniali. – Le convenzioni matrimoniali sono gli accordi coi quali gli sposi – eccezionalmente con l’intervento di un terzo (art. 1671-2) – adottano un regime patrimoniale della famiglia diverso da quello legale di comunione (art. 159), ovvero modificano quello in atto 78. Si tratta di atti di natura negoziale, caratterizzati da una propria disciplina (artt. 159 ss.), ai quali quella generale in materia di contratto sembra poter essere applicata solo in quanto compatibile con tale specifica disciplina (una peculiare regolamentazione è prevista espressamente, comunque, per la simulazione: art. 164) 79. L’autonomia delle parti – cui è consentito avvalersi dei regimi tipizzati dal legislatore 80, ma anche dar vita a regimi atipici – incontra il limite del carattere inderogabile dei diritti e doveri conseguenti al matrimonio (art. 160). L’allusione è, in particolare, a quel dovere di contribuzione, che sostanzia il regime primario (V, 2.10) e che svolge, così, la 78 Si discute se possano essere considerati come convenzioni matrimoniali – ai fini dell’applicabilità della relativa disciplina, in particolare riguardo alla forma – gli accordi tra coniugi concernenti beni determinati e, di conseguenza, privi di un contenuto programmatico in ordine al regime patrimoniale della famiglia (in quanto, cioè, non concernenti la sorte di categorie di beni). Cass. 24-4-2007, n. 9863 e 12-9-1997, n. 9034, ritengono, in effetti, che tale qualifica dipenda dal riferimento ad una “generalità dei beni, anche di futura acquisizione”. Pure per Cass. 27-2-2003, n. 2954, le convenzioni in questione “riguardano sempre il regime patrimoniale complessivo della famiglia e non possono essere limitate a beni specifici”. Avendo dubitato, quindi, Cass. 27-10-2008, n. 25857, che per l’atto costitutivo di fondo patrimoniale (V, 2.13) possa parlarsi di convenzione matrimoniale, l’orientamento favorevole a tale qualificazione è stato, comunque, confermato da Cass. 25-3-2009, n. 7210, nonché da Cass., sez. un., 13-10-2009, n. 21658. 79 Controversi si presentano i limiti di ammissibilità, nel vigente contesto normativo, dei c.d. a c c o r d i p r e m a t r i m o n i a l i , essenzialmente finalizzati a disciplinare, già prima di contrarre matrimonio, le conseguenze economiche di una eventuale crisi familiare. La materia di tali accordi, quindi, non coincide con quella tipica delle convenzioni matrimoniali e finisce con l’interferire con l’operatività di regole inderogabili concernenti i rapporti patrimoniali tra coniugi (dovere di contribuzione, anche nei suoi riflessi post-matrimoniali: V, 3.5) e la successione mortis causa (con particolare riguardo al divieto dei patti successori ed alla tutela dei legittimari: XII, 1.2). Proprio in vista di ciò, una volta considerata apprezzabile la relativa funzione (anche alla luce delle esperienze straniere: Prenuptial Agreements), tende ad essere reputato opportuno, al riguardo, uno specifico intervento legislativo (e v., infatti, la P.D.L. n. 2669, Camera dei deputati, XVII legislatura, riprodotta nella P.D.L. n. 244 della XVIII legislatura, che prevede – peraltro senza sufficiente attenzione alla complessità della materia ed all’esigenza di un adeguato bilanciamento dei delicati interessi personali in gioco – l’introduzione della figura con un art. 162 bis). La materia di simili “accordi” risulta tra quelle prese in considerazione dal D.D.L. n. 1151, Senato, XVIII legislatura, avente ad oggetto la “Delega al Governo per la revisione del codice civile” (con estensione della portata della figura considerata ai “rapporti personali e quelli patrimoniali, anche in previsione dell’eventuale crisi del rapporto”, nonché ai “criteri per l’indirizzo della vita familiare e l’educazione dei figli”). Una qualche cauta apertura della giurisprudenza può ravvisarsi, comunque, in decisioni che hanno utilizzato il meccanismo della condizione per riconoscere alla volontà degli interessati la possibilità di ricollegare preventivamente la produzione di effetti di natura patrimoniale al verificarsi dell’evento rappresentato dalla loro eventuale futura separazione (Cass. 21-8-2013, n. 19304 e 21-12-2012, n. 23713). Assai più decisa (nel senso, cioè, dell’ammissibilità in materia, già allo stato, di una larga autonomia degli interessati) risulta la posizione di Trib. Torino 20-4-2012. 80 Solo quelli di comunione legale e di separazione dei beni sono regimi patrimoniali generali, coinvolgenti, cioè, la globalità dei rapporti patrimoniali dei coniugi. Sul loro sfondo, si possono eventualmente innestare, quali regimi patrimoniali particolari (in quanto limitati a disciplinare esclusivamente taluni rapporti patrimoniali dei coniugi), la comunione convenzionale ed il fondo patrimoniale. Ad una peculiare regolamentazione è sottoposta, poi, l’impresa familiare.

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funzione di “cerniera” tra i profili personali e quelli economici del rapporto matrimoniale. Gli sposi, poi, non possono, per la disciplina dei propri rapporti patrimoniali, rinviare genericamente a regimi previsti da altri ordinamenti o agli usi, dovendo enunciare specificamente le regole che intendono adottare (anche se corrispondenti a quelle altrove vigenti) (art. 161). Sono vietate, infine, le convenzioni tendenti a far comunque rivivere il regime della dote (art. 166 bis), soppresso dalla riforma, in quanto tipicamente espressione del modello di organizzazione familiare sconfessato (perché fondato sulla preminenza del ruolo del marito). Le convenzioni possono essere stipulate e modificate in ogni tempo (art. 1623) e, quindi, non solo prima, ma anche dopo la celebrazione del matrimonio, a differenza di quanto previsto, in linea di principio, anteriormente alla riforma. Circa la capacità di agire richiesta, anche il minore ammesso a contrarre matrimonio è reputato capace di stipulare le relative convenzioni, con l’assistenza dei genitori o del tutore (ovvero di un curatore speciale, ove nominato ai sensi dell’art. 90) (art. 165). L’inabilitato deve essere assistito dal curatore (art. 166). La forma richiesta, sotto pena di nullità, è quella dell’atto pubblico (art. 1621). La scelta del regime di separazione di beni, prima della riforma costituente regime legale, è facilitata, potendo essere semplicemente dichiarata nell’atto di celebrazione del matrimonio (e ciò anche in caso di matrimonio concordatario) (art. 1622). Una normale convenzione occorrerà, in tal caso, per optare, successivamente, a favore del regime di comunione. Poiché il regime patrimoniale della famiglia interessa i rapporti dei coniugi coi terzi, è previsto, a loro tutela, un peculiare regime di pubblicità, per metterli a conoscenza del regime patrimoniale di chi sia coniugato. Ai fini della opponibilità ai terzi, le convenzioni devono risultare da annotazione a margine dell’atto di matrimonio, contenente l’indicazione della relativa data, del notaio rogante e delle generalità dei contraenti (ovvero della scelta del regime di separazione dei beni) (art. 1624). L’art. 2647 prescrive, inoltre, se abbiano per oggetto beni immobili, la trascrizione nei registri immobiliari delle convenzioni costitutive del fondo patrimoniale, ovvero tendenti ad escludere tali beni dalla comunione, nonché degli atti di scioglimento della comunione e degli atti di acquisto di beni personali 81. In mancanza di annotazioni a margine dell’atto di matrimonio, il terzo può senz’altro ritenere che tra i coniugi operi il regime di comunione legale (si parla, al riguardo di pubblicità negativa). L’art. 1623, originariamente, subordinava il mutamento delle convenzioni, dopo il matrimonio, ad autorizzazione giudiziale. La relativa necessità è stata eliminata dalla L. 10.4.1981, n. 142. 81 Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, peraltro in contrasto con una diffusa opinione dottrinale, solo l’annotazione a margine dell’atto di matrimonio vale a rendere la convenzione – e, in particolare, quella costitutiva di fondo patrimoniale – opponibile ai terzi, mentre la trascrizione ha funzione di “mera pubblicità-notizia, inidonea ad assicurare detta opponibilità” (Cass. 19-11-1999, n. 12864; Cass. 16-11-2007, n. 23745). Il regime di doppia pubblicità è stato ritenuto legittimo da Corte cost. 6-4-1995, n. 111. Di una simile ricostruzione del regime pubblicitario in tema di convenzioni matrimoniali, con specifico riferimento alla costituzione del fondo patrimoniale, ha dubitato Cass. 25857/2008, ma l’orientamento dianzi accennato è stato confermato da Cass. 7210/2009 e da Cass., sez. un., 21658/2009, che ha concluso costituire l’annotazione “l’unica formalità pubblicitaria rilevante agli effetti della opponibilità della convenzione ai terzi” (e v. anche Cass. 12-12-2013, n. 27854).

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Le convenzioni modificative di convenzioni precedenti richiedono il consenso (manifestato per atto pubblico) di tutti coloro che ne erano parti e la relativa pubblicità è operata con annotazione in margine all’atto di matrimonio, nonché con annotazione a margine della trascrizione, ove prescritta, della convenzione originaria (art. 163).

12. Comunione legale. – Il regime di comunione è stato, in sede di riforma del 1975, ritenuto meglio rispondere all’esigenza di rispecchiare, anche nel campo dei rapporti patrimoniali, un modello familiare che valorizzi la comunità di vita tra i coniugi. Con tale regime si è inteso, in effetti, assicurare a costoro una partecipazione, in piena eguaglianza, all’accumulo ed alla gestione delle ricchezze familiari: l’obiettivo risulta perseguito, peraltro, in modo da salvaguardare (per la conformazione del contenuto e la non obbligatorietà del nuovo regime) una certa autonomia di ciascun coniuge. La comunione legale ha un carattere non universale, sia in quanto non si estende ai beni di cui i coniugi erano titolari anteriormente al matrimonio, sia perché lascia ciascuno dei coniugi comunque titolare di taluni beni essenziali per garantirgli una sfera di libertà in campo personale e professionale (e ciò inderogabilmente: art. 2103). a) Quanto all’oggetto, essa si atteggia – secondo l’esempio francese tenuto presente dal legislatore – come comunione degli acquisti: ne costituiscono oggetto, per l’art. 1771, appunto, gli acquisti compiuti dai coniugi, insieme o separatamente (in tal caso, l’acquisto si ritiene comunicarsi automaticamente ex lege all’altro coniuge), durante il matrimonio (lett. a). La sua disciplina (e, quindi, la sua natura), comunque, si discosta in maniera incisiva da quella generale della comunione, quale risulta regolata dagli artt. 1100 ss. 82. Da una simile comunione immediata restano esclusi i frutti dei beni propri ed i proventi dell’attività separata (stipendi, onorari e simili) (lett. b e c). Tali beni (e, quindi, i risparmi non utilizzati per acquisti) sono destinati a rientrare nella comunione solo al momento del suo scioglimento ed esclusivamente in quanto ancora non consumati (c.d. comunione di residuo) 83. 82 Corte cost. 17-3-1988, n. 311, ha sottolineato che, in vista delle sue peculiari finalità, “la disciplina della comunione legale fra i coniugi non è riconducibile a quella della comunione ordinaria”, trattandosi di “comunione senza quote” e risultando, così, “giustificata la diversità di regime” (nel caso di specie, concernente gli atti compiuti senza il necessario consenso di entrambi i coniugi, con riferimento all’art. 184). Ribadisce la “netta distinzione tra comunione ordinaria e comunione legale tra coniugi”, ad es., Cass., sez. un., 24-8-2007, n. 17952. 83 L’opinione prevalente è nel senso che il coniuge percipiente tali frutti e proventi possa utilizzarli (e consumarli) come meglio creda, una volta assolto il proprio dovere di contribuzione (fermo restando che gli acquisti con essi effettuati – ma non quando si tratta di forme di mero accantonamento dei redditi, come pare da ritenere per l’acquisto di BOT e simili – cadono immediatamente in comunione). Un tale orientamento risulta condiviso da Cass. 12-9-2003, n. 13441. Peraltro, Cass. 17-11-2000, n. 14897, nonché già Cass. 10-10-1996, n. 8865, hanno sostenuto che tra i redditi non consumati al momento dello scioglimento della comunione, oggetto di comunione di residuo, sono da comprendere non solo i redditi ancora sussistenti in tale momento, “ma anche quelli, percetti e percipiendi, rispetto ai quali il titolare non riesca a dimostrare che siano stati consumati o per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in comunione”. Espressamente contro simili conclusioni, comunque, si è pronunciata Cass. 7-2-2006, n. 2597 (cui adesivamente si riferisce, di recente, da Cass. 12-2-2021, n. 3767), per la quale la legge “non prevede vincoli di destinazione, né impone limiti o controlli al diritto di ciascun coniuge di disporre del surplus dei propri redditi”, non esistendo “alcun diritto di ciascun coniuge sui proventi dell’altro e sul modo in cui questi li amministra” e risultando avere il coniuge percettore, “manente communione, rispetto ai proventi

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Un regime analogo, per rispettare la sua autonomia di iniziativa economica (ma anche per meglio tutelare i creditori), si applica ai beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio ed agli incrementi dell’impresa costituita anche prima di esso (art. 178) 84. Costituiscono oggetto di comunione immediata, invece, le aziende gestite insieme dai coniugi, se costituite dopo il matrimonio (lett. d); mentre se essi gestiscono insieme l’azienda già appartenente ad uno dei coniugi prima del matrimonio, competono ad entrambi gli utili e gli incrementi (art. 1772). Controverso, peraltro, è il concetto di acquisti destinati ad entrare in comunione. La giurisprudenza tende ad escludere, pur contro una diffusa opinione, che tali siano taluni acquisti a titolo originario come, in particolare, gli acquisti per accessione 85 (nella comunione ritenendosi quasi pacificamente rientrare, comunque, quelli per usucapione) 86. Pure esclusi dalla comunione sarebbero i diritti di credito (anche, in particolare, con riguardo a quelli nascenti da un contratto preliminare stipulato da uno solo dei coniugi) 87. dell’attività personale, un potere di godimento, amministrazione e disposizione pieno, salvo il limite di contribuire ai bisogni della famiglia, che peraltro sussiste anche con riferimento ai beni personali”. 84 Al riguardo, Cass., sez. un., 17-5-2022, n. 15889 ha risolto la questione, oggetto di contrasto di vedute e rimessagli da Cass. 19-10-2021, n. 28872, relativa alla natura giuridica della comunione de residuo, tra la tesi “che attribuisce al coniuge non imprenditore un diritto di credito – pari alla metà del valore dell’azienda al momento dello scioglimento della comunione – e quella che invece opta per il riconoscimento di un diritto di compartecipazione alla titolarità dei singoli beni individuali”. Contro una simile configurazione di quello spettante al coniuge (non imprenditore) in termini di diritto reale, si è (coerentemente) optato per la relativa natura di diritto di credito, riconoscendogli, insomma, “un diritto di credito pari al 50% del valore dell’azienda, quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, ed al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data”. 85 Cass., sez. un., 27-1-1996, n. 651, cui si è allineata la successiva giurisprudenza (ad es., Cass. 9-3-2000, n. 2680 e, di recente, Cass. 29-10-2018, n. 27412), infatti, ritiene che occorrerebbe una deroga espressa all’art. 934, statuente il principio dell’acquisto per accessione: se ne deduce il carattere di bene personale della costruzione realizzata sul suolo personale di un coniuge. 86 Circa tali ultimi acquisti, Cass. 23-7-2008, n. 20296 (in un’ottica condivisa da Cass. 11-8-2016, n. 17033), ha precisato che “il momento determinante l’acquisto del diritto ad usucapionem da parte dell’altro coniuge, attesa la natura meramente dichiarativa della domanda giudiziale, s’identifica con la maturazione del termine legale d’ininterrotto possesso”. 87 Secondo la Cassazione (ad es., 11-9-1991, n. 9513, 27-1-1995, n. 987 e, ancora, 24-1-2008, n. 1548), “i diritti di credito, per la loro stessa natura relativa e personale, pur se strumentali all’acquisizione di una res, non sono suscettibili di cadere in comunione”, non risultando essi “qualificabili come beni in senso proprio”. Invece, si è senz’altro favorevoli “all’inclusione nella comunione legale immediata delle acquisizioni di partecipazioni societarie rappresentate da azioni e quote in virtù della prevalenza del carattere di investimento patrimoniale di tali operazioni che le rende del tutto rispondenti alla categoria degli ‘acquisti’ prevista dall’art. 177 c.c.”: Cass. 23-9-1997, n. 9355 (e per Cass. 2-2-2009, n. 2569, dovendo pure la quota sociale essere “ricondotta nella nozione di beni mobili fornita dall’art. 810”, “l’iniziale partecipazione di uno dei coniugi ad una società di persone ed i suoi successivi aumenti … rientrano conseguentemente tra gli acquisti che … costituiscono oggetto della comunione legale tra i coniugi, anche se effettuati durante il matrimonio ad opera di uno solo di essi”; diversamente, oggetto di comunione de residuo ritiene gli acquisti di quote di società di persone, Cass. 20-3-2013, n. 6876). Cass. 9-10-2007, n. 21098, peraltro, si è orientata nel senso che “anche i diritti di credito possono essere oggetto di acquisto alla comunione legale ai sensi dell’art. 177, comma 1, lett. a)” (traendone la conseguenza che pure “l’acquisto di obbligazioni societarie” con denaro costituente provento di attività separata del coniuge, trattandosi di una “forma d’investimento”, “trasforma il ‘provento’ dell’attività separata in un quid alii che … entra a far parte della comunione legale immediata e non della comunione de residuo”). Ma Cass. 15-1-2009, n. 799, ha inteso ridimensionare una simile apertura di principio, precisando che “l’atto deve avere ad oggetto l’acquisizione di un ‘bene’, ai sensi degli artt. 810, 812 e 813, dovendosi escludere, pertanto, che la comunione degli acquisti possa comprendere tutti indistintamente i diritti di

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Sono beni personali, esclusi dalla comunione legale, ai sensi dell’art. 1791: i beni posseduti anteriormente al matrimonio; i beni acquisiti successivamente per donazione o successione (quando non specificamente destinati dal disponente alla comunione); i beni di uso strettamente personale (vestiti, ornamenti, ecc.); i beni che servono all’attività professionale del singolo coniuge (attrezzature, suppellettili, ecc.); i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno (nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa); i beni acquistati con il prezzo (o con lo scambio) di beni personali (c.d. acquisti per surrogazione), purché ciò sia espressamente dichiarato all’atto dell’acquisto 88. Per l’esclusione dalla comunione dei beni immobili o mobili registrati è necessario che partecipi all’atto, dal quale espressamente risulti l’esclusione stessa, anche l’altro coniuge (art. 1792) 89. credito che ciascun coniuge può acquistare” (e concludendo che “se ben possono ritenersi acquisiti alla comunione legale i titoli di partecipazione azionaria, le quote di fondi d’investimento o i titoli obbligazionari acquistati con proventi di attività separata, in quanto entità che hanno una componente patrimoniale suscettibile di acquistare un valore di scambio, restano esclusi i meri diritti di credito, come quelli derivanti da un contratto preliminare di vendita, dalla partecipazione ad una cooperativa edilizia a contributo erariale o dal deposito bancario”). A favore dell’immediata caduta in comunione delle azioni di una banca popolare cooperativa si è pronunciata Cass. 18-9-2014, n. 19689, nel contesto di un regime articolato per i titoli di partecipazione ad una società cooperativa. Nel senso che pure i fondi comuni d’investimento possano ritenersi oggetto di comunione legale immediata, anche se acquistati con proventi dell’attività separata di uno dei coniugi, Cass. 15-6-2012, n. 9845 e App. Venezia 24-9-2013. In tema di acquisto a seguito di preliminare, una volta ritenuto escluso dalla comunione legale il diritto scaturente dal relativo contratto (essendo destinato a operare a favore della comunione solo il successivo trasferimento della proprietà del bene), si è reputato estraneo alla comunione legale l’immobile che, pur promesso in vendita a persona coniugata in regime di comunione legale, sia stato oggetto, poi, in conseguenza dell’inadempimento del promittente venditore, di trasferimento coattivo (ex art. 2932) “al promissario acquirente, con sentenza passata in giudicato dopo la pronuncia della separazione” (Cass. 3-6-2016, n. 11504). In analoga prospettiva, si ritiene che in tema di assegnazione di alloggi di cooperative edilizie a contributo statale, l’“acquisto della titolarità dell’immobile” (con la conseguente ricaduta in comunione) avviene solo nel momento della “stipula del contratto di trasferimento del diritto dominicale (contestualmente alla convenzione di mutuo individuale)”, mentre “la qualità di socio, e la correlata ‘prenotazione’, dell’alloggio” danno luogo solo a “diritti di credito nei confronti della cooperativa”, come tali inidonei a costituire oggetto di comunione legale (Cass. 30-5-2018, n. 13570). 88 Si tende a ritenere, comunque, che la dichiarazione in questione sia necessaria, ai fini dell’esclusione dell’acquisto dalla comunione legale, solo “quando possano sorgere dubbi circa la natura personale del bene impiegato per l’acquisto” (Cass. 5-5-2010, n. 10855). 89 Cass. 2-6-1989, n. 2688, ha discutibilmente ritenuto che, “quando all’acquisto proceda uno solo dei coniugi”, l’altro possa, prestando il proprio consenso al riguardo, “impedire la caduta del bene nella comunione” (indipendentemente, quindi, dalla ricorrenza di una delle ipotesi di carattere personale del bene, ai sensi dell’art. 1791: c.d. rifiuto del coacquisto ex lege). Contro una simile conclusione, che ha incontrato un certo favore in dottrina (in un’ottica di valorizzazione dell’autonomia degli interessati, invero difficilmente conciliabile con l’impianto normativo complessivo della comunione legale), Cass. 27-2-2003, n. 2954, si è orientata, invece, nel senso della indisponibilità del diritto alla comunione legale, data la natura meramente ricognitiva dell’atto di intervento previsto nella disposizione accennata (e v. anche Cass. 6-3-2008, n. 6120). In presenza di un simile contrasto (animato anche in dottrina), Cass., sez. un., 28-10-2009, n. 22755, ha concluso che “l’effetto limitativo della comunione si produce … solo se i beni sono effettivamente personali”, “l’intervento adesivo del coniuge non acquirente” potendo “rilevare solo come prova dei presupposti di tale effetto limitativo” e non “come atto negoziale di rinuncia alla comunione” (è solo, allora, “la natura effettivamente personale del bene a poterne determinare l’esclusione dalla comunione”, l’insussistenza di tale natura essendo suscettibile anche di un accertamento successivo ad istanza del coniuge non acquirente, pur “intervenuto nel contratto per aderirvi”: un simile “intervento adesivo”, comunque, assumendo natura di “confessione giudiziale”, con i connessi limiti – ai sensi dell’art. 2732 – alla relativa revocabilità). Insomma, l’intervento adesivo del coniuge si presenta quale “condizione necessaria ma non sufficiente per l’esclusione del bene dalla comu-

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b) L’amministrazione dei beni della comunione spetta (inderogabilmente: art. 2103), di regola, ai coniugi disgiuntamente; congiuntamente, invece, per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione (in linea di massima, quelli comportanti una significativa modificazione della consistenza del patrimonio) (art. 180) 90. Il rifiuto del consenso dell’altro coniuge può essere superato con un’autorizzazione giudiziaria, richiesta dal coniuge interessato, nel caso di atto necessario nell’interesse della famiglia o dell’azienda comune (art. 181). In talune circostanze (lontananza od altro impedimento di un coniuge), il compimento di atti di amministrazione richiedenti il consenso di entrambi i coniugi può essere affidato – con apposita autorizzazione del giudice e con le cautele eventualmente da questo stabilite – ad uno solo di essi (art. 182); in altre (minore età, interdizione, impedimento durevole, cattiva amministrazione), il giudice può addirittura escludere uno dei coniugi dall’amministrazione (restando salva la sua possibile reintegrazione, una volta venute meno le ragioni dell’esclusione) (art. 183). Gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro (art. 184), ove concernano beni immobili o mobili registrati, sono annullabili, su richiesta del coniuge il cui consenso era necessario (e in mancanza di convalida da parte sua), entro un anno (decorrente dalla data in cui quest’ultimo abbia avuto conoscenza dell’atto, ovvero dalla data della relativa trascrizione; comunque, non oltre un anno dallo scioglimento della comunione) 91. Se l’atto ha ad oggetto beni mobili, esso resta valido (a tutela dei terzi), ma il coniuge che lo ha compiuto deve ripristinare la comunione nello stato in cui si trovava precedentemente. c) Ai fini della responsabilità per i debiti, rileva la distinzione tra i creditori personali nione”, essendo necessaria “l’effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione dalla comunione” (Cass. 14-11-2018, n. 29342; e, a tal fine, si reputa necessaria la “tracciabilità” del danaro utilizzato per il pagamento del bene: Cass. 24-10-2018, n. 26981 e 12-3-2019, n. 7027). Peraltro, nel caso di “bene destinato all’esercizio dell’impresa o professione” (art. 1791, lett. d), l’eventuale “dichiarazione” (da parte del coniuge non acquirente) “esprime la mera condivisione dell’altrui intento”, con conseguente possibilità di una successiva “prova dell’effettiva (diversa)” destinazione del bene, indipendentemente da ogni indagine circa la sincerità dell’intento manifestato (Cass. 2-2-2012, n. 1523). Di recente, Cass. 14-8-2020, n. 17175 sembra allinearsi – anche se alquanto oscuramente – all’indirizzo riuscito prevalente, concludendo che “i coniugi in regime di comunione legale, al fine di effettuare l’acquisto anche di un solo bene in regime di separazione, sono tenuti a stipulare previamente una convenzione matrimoniale derogatoria del loro regime ordinario, ai sensi dell’art. 162, sottoponendola alla specifica pubblicità per essa prevista”. 90 Si è sottolineato che la disciplina dettata per gli atti di amministrazione “non è applicabile anche ai negozi di acquisto della proprietà (o di altri diritti reali)”, facendo sorgere l’atto di acquisto, “in virtù del relativo contratto, stipulato da un solo coniuge, … la contitolarità del bene in capo al coniuge rimasto estraneo all’atto – in quanto beneficiario ex lege degli effetti reali del negozio – pur non essendosi instaurato alcun rapporto contrattuale con il terzo” (Cass., sez. un., 23-4-2009, n. 9660). 91 La regola, che si allontana da quanto vale in materia di comunione ordinaria (in cui l’atto abusivo sarebbe senz’altro inefficace per mancanza di legittimazione del disponente), è stata ritenuta legittima da Corte cost. 17-3-1988, n. 311, proprio in considerazione della peculiare natura della comunione legale. In essa, quale “comunione senza quote”, i coniugi sono “solidalmente titolari, in quanto tali, di un diritto avente ad oggetto i beni della comunione” e “ciascun coniuge ha il potere di disporre dei beni della comunione”, costituendo il negozio posto in essere da uno solo dei coniugi senza il previsto consenso dell’altro – che si atteggia come “negozio (unilaterale) autorizzativo” – “negozio efficace e sottoposto alla semplice sanzione di annullabilità per iniziativa del titolare pretermesso” (così, Cass., sez. un., 9660/2009, seguendo, appunto, l’impostazione di Corte cost. 311/1988). Si è precisato che, dovendosi il regime dell’art. 184 applicare “a tutti gli atti dispositivi compiuti senza il consenso e in assenza di convalida”, anche “la donazione del bene in regime di comunione effettuata da parte di uno solo dei coniugi è invalida” (Cass. 31-8-2018, n. 21503).

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di ciascun coniuge (anche per obbligazioni anteriori al matrimonio: art. 187) e quelli per obblighi gravanti sui beni della comunione (c.d. creditori della comunione) 92. I primi possono rivalersi sui beni personali del coniuge debitore e solo sussidiariamente, fino al valore corrispondente alla sua quota (metà), sui beni comuni (sui quali, peraltro, sono preferiti i creditori della comunione) (art. 189) 93. I secondi hanno a disposizione il patrimonio comune e solo sussidiariamente possono agire sui beni personali di ciascun coniuge (per la metà del credito non soddisfatto) (art. 190). d) Lo scioglimento della comunione è determinato da eventi che comportano il venir meno della comunità di vita (morte, dichiarazione di assenza o di morte presunta, annullamento del matrimonio, divorzio, separazione personale) 94, oltre che dal mutamento convenzionale del regime patrimoniale (con passaggio al regime di separazione dei beni) e dal fallimento di uno dei coniugi (art. 191) 95. Esso è determinato, su richiesta di uno dei coniugi, anche dalla separazione giudiziale dei beni (in caso di interdizione, inabilitazione, cattiva amministrazione della comunione, disordine negli affari e condotte di un 92 Sono obblighi gravanti sui beni della comunione (art. 186), oltre ai pesi ed agli oneri gravanti su di essi al momento dell’acquisto ed ai carichi dell’amministrazione, quelli derivanti da debiti assunti, anche separatamente, nell’interesse della famiglia e quelli contratti congiuntamente (per qualunque finalità, pure se estranea ad esigenze familiari). 93 Cass. 14-3-2013, n. 6575, in relazione alla controversa problematica dell’espropriazione forzata di beni della comunione legale da parte del creditore personale di uno dei coniugi, ha concluso – senza nascondersi che ciascuna delle soluzioni prospettate al riguardo “presta il fianco ad inconvenienti” – che essa deve avere “ad oggetto il bene nella sua interezza e non per la metà, con scioglimento della comunione legale limitatamente al bene … e diritto del coniuge non debitore alla metà della somma lorda ricavata dalla vendita del bene stesso o del valore di questo, in caso di assegnazione”. Nella medesima prospettiva, v. anche, da ultimo, Cass. 13-5-2021, n. 12879. 94 Pur contro un diffuso avviso dottrinale, la giurisprudenza (Cass. 27-2-2001, n. 2844) si era orientata nel senso che, in caso di separazione personale dei coniugi, “lo scioglimento della comunione legale di beni si verifica, con effetto ex nunc, solo con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione o con l’omologa degli accordi di separazione consensuale”, “non spiegando alcun effetto al riguardo il provvedimento presidenziale ex art. 708 c.p.c.” (a maggior ragione ininfluenti, agli effetti dello scioglimento della comunione, considerandosi, quindi, la separazione di fatto e la proposizione della domanda di separazione personale). Comunque, si era reputato possibile – contro un precedente indirizzo – proporre la domanda giudiziale di scioglimento della comunione e divisione anche in pendenza della causa di separazione personale (e purché il relativo passaggio in giudicato sopravvenga nelle more del giudizio: Cass. 26-2-2010, n. 4757). Per risolvere definitivamente le incertezze in materia, nella prospettiva quasi concordemente auspicata per motivi di opportunità e coerenza, il legislatore è intervenuto con l’art. 2 L. 6.5.2015, n. 55, inserendo nell’art. 191, dopo il primo comma, la previsione secondo cui “nel caso di separazione personale, la comunione tra i coniugi si scioglie nel momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero alla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente, purché omologato. L’ordinanza con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati è comunicata all’ufficiale dello stato civile ai fini dell’annotazione dello scioglimento della comunione”. Si ritiene, poi, che, in caso di riconciliazione dei coniugi successivamente alla separazione personale, la comunione dei beni “si ripristini automaticamente tra i coniugi, una volta rimossa con la riconciliazione la causa di scioglimento della comunione”. Tale ripristino del regime di comunione, “con sovrapposizione a quello di separazione dei beni (conseguente alla precedente separazione personale dei coniugi), pur già operante tra i coniugi stessi dalla data della loro riconciliazione”, non può, però, “in difetto di alcuna segnalazione esterna di quell’evento”, secondo le norme che governano la pubblicità delle vicende giuridiche a tutela dei terzi, “essere opposto ai terzi che abbiano acquistato in buona fede a titolo oneroso” un immobile dal coniuge “che risultava unico ed esclusivo titolare dell’immobile” medesimo, benché lo avesse acquistato successivamente alla riconciliazione (Cass. 5-12-2003, n. 18619). 95 Tende a prevalere l’opinione della tassatività delle cause di scioglimento della comunione.

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coniuge tali da esporre a pericolo gli interessi dell’altro e della famiglia, carente contribuzione alle necessità familiari) (art. 193). Con lo scioglimento si tende a ritenere che subentri, fino alla divisione, un regime di comunione ordinaria sui beni già oggetto di comunione legale 96 (e se, in considerazione del tipo di causa di scioglimento, il rapporto matrimoniale persiste, il regime sarà, successivamente, quello di separazione dei beni). La divisione dei beni (art. 1941) avviene ripartendo in parti (inderogabilmente: art. 2103) eguali l’attivo e il passivo, dopo gli opportuni rimborsi e restituzioni (art. 192) (in sede di divisione, i coniugi hanno diritto al prelevamento dei beni mobili ad essi appartenenti prima della comunione o ad essi pervenuti durante la medesima per successione o donazione: artt. 195 ss.) 97. Il giudice può costituire, in relazione alle necessità della prole, a favore di uno dei coniugi l’usufrutto (c.d. usufrutto giudiziale) su una parte dei beni spettanti all’altro (art. 1942) 98.

13. Regimi convenzionali. – a) Ai sensi dell’art. 2101, le parti, con una convenzione matrimoniale, possono modificare il regime della comunione legale. È discusso, di conseguenza, se quello della comunione convenzionale costituisca un regime autonomo, ovvero una mera comunione legale modificata. Si tende a ritenere che gli interessati, in realtà, possano sia limitarsi ad apportare modifiche al regime legale, sia dar vita ad un modello atipico di comunione. Alle parti è consentito ampliare l’oggetto della comunione, allargandola a beni che non vi rientrerebbero (beni posseduti prima del matrimonio, comunione immediata di frutti e redditi professionali), ma anche restringere la relativa portata (con riferimento a categorie di beni) 99. Sono insuscettibili di essere ricompresi nella comunione (risultando, così, inammissibile una comunione universale) i beni di uso strettamente personale, quelli che servono all’esercizio della professione e quanto ottenuto a titolo di risarcimento del danno (art. 2102). Le regole di funzionamento della comunione legale possono essere modificate, ma con limiti rilevanti: sono inderogabili quelle concernenti l’amministrazione e l’uguaglianza delle quote (sia pure limitatamente ai beni che formerebbero comunque oggetto della comunione) (art. 2103) 100. 96 Con conseguente possibilità, per ciascun coniuge, “divenuto titolare della sua quota del diritto o del bene a suo tempo acquistato alla comunione legale”, di potere “liberamente e separatamente disporne” (Cass. 28-12-2018, n. 33546, in adesione all’impostazione prevalente; peraltro, per la persistente applicabilità delle norme del regime originario di comunione propende Cass. 28-2-2018, n. 4676). 97 In mancanza di prova contraria si presume – e, trattandosi di una presunzione relativa (o iuris tantum), è ammissibile qualsiasi mezzo di prova (comprese le presunzioni semplici) (III, 2.3) – che i beni mobili facciano parte della comunione. 98 Cass. 9-4-1994, n. 3350, ha ritenuto che “l’usufrutto giudiziale … si estingue con il raggiungimento della maggiore età da parte della prole” (secondo un avviso non condiviso da chi ne sostiene la possibile durata anche oltre tale momento, secondo quanto vale per il dovere di mantenimento: V, 4.9). Tale usufrutto è accostato all’usufrutto legale (IV, 1.8), con riguardo ai caratteri di incedibilità e inespropriabilità. 99 Dubbia è la possibilità dell’estromissione di singoli beni dalla comunione. La già ricordata Cass. 2954/2003 si è orientata negativamente, sulla base del ritenuto carattere necessariamente programmatico delle convenzioni matrimoniali. 100 Nonostante il silenzio dell’art. 2103, prevale l’opinione – fondata sui principi generali relativi alla responsabilità patrimoniale – di considerare indisponibile anche il regime della responsabilità patrimoniale pre-

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b) Diffusa è l’opzione degli sposi per la separazione dei beni, costituente regime legale fino alla riforma e, attualmente, unico regime patrimoniale generale alternativo a quello di comunione 101. Essa, indubbiamente agevolata dalla possibilità di dichiarane la scelta nell’atto di celebrazione del matrimonio (art. 1622), attribuisce una maggiore autonomia individuale ai coniugi, restando ciascuno titolare esclusivo dei beni acquistati durante il matrimonio (art. 215) e potendo goderli e amministrarli liberamente (art. 2171) 102. L’inderogabile dovere di contribuzione resta comunque a garanzia delle finalità perequative e partecipative cui si è ispirata la riforma (V, 2.10) 103. Regole particolari disciplinano i rapporti tra i coniugi per il caso in cui il patrimonio di uno di essi sia, a seguito di procura, amministrato dall’altro (artt. 2172-4 e 218). Di notevole rilevanza è il principio per cui, ove manchi la prova della proprietà esclusiva di un bene (che può essere fornita dal coniuge con ogni mezzo: art. 2191), esso si presume in comunione (ordinaria) per quote uguali (art. 2192). c) Una certa diffusione (anche se spesso con intenti frodatori nei confronti dei creditori) ha assunto il fondo patrimoniale. Con esso, determinati beni immobili o mobili registrati o titoli di credito (resi nominativi per assicurare la conoscibilità del vincolo: art. 1674) sono destinati a far fronte ai bisogni della famiglia (art. 1671) 104. La proprietà dei beni spetta ai coniugi (nel cui patrimonio si ritiene venirsi a determinare, così, un patrimonio separato), salvo che sia diversamente stabilito nell’atto costitutivo (art. 1681). La costituzione avviene con una convenzione matrimoniale, come tale assoggettata alle relative regole generali di forma e pubblicità (V, 2.11) 105. A destinare i beni (art. 1671), visto in materia di comunione legale (artt. 189 e 190). Discussa è la possibilità di stabilire convenzionalmente ulteriori cause di scioglimento della comunione, oltre a quelle stabilite dall’art. 191. 101 Non manca chi si orienta nel senso che la separazione dei beni non possa considerarsi – al di là della stessa enunciazione legislativa – un vero e proprio regime patrimoniale matrimoniale, ritenendo con essa verificarsi, piuttosto, una situazione di assenza di regime, data l’operatività delle regole comuni del diritto patrimoniale. Ciò sembra trascurare, peraltro, oltre all’inderogabile assoggettamento dei coniugi al dovere di contribuzione, le peculiari regole dettate negli artt. 215 ss. 102 La separazione dei beni si instaura tra i coniugi, oltre che per accordo dei coniugi stessi (anche attraverso la peculiare possibilità di scelta iniziale prevista dall’art. 1622), pure nei casi di scioglimento della comunione stabiliti dall’art. 191 (V, 2.11-12). 103 Si ricordi come controversa sia, in regime di separazione dei beni, l’estensione al coniuge di una responsabilità solidale per le obbligazioni contratte dall’altro nell’interesse della famiglia (V, 2.10). 104 Dei “bisogni della famiglia” tende ad essere offerta una nozione “non restrittiva”, così da “ricomprendere in tali bisogni anche quelle esigenze volte al pieno mantenimento ed all’armonico sviluppo della famiglia, nonché al potenziamento della sua capacità lavorativa, restando escluse solo le esigenze voluttuarie o caratterizzate da intenti meramente speculativi” (ad es., Cass. 11-7-2014, n. 15886). Alla necessità, onde consentire “l’esecuzione sui beni del fondo o sui frutti di esso”, di una “inerenza diretta ed immediata” della “fonte e ragione del rapporto obbligatorio” con i bisogni della famiglia, allude Cass. 19-6-2018, n. 16176. E, dovendo risultare l’obbligazione “sorta per il soddisfacimento dei bisogni familiari”, restano escluse quelle contratte “per esigenze di natura voluttuaria o meramente speculativa” (Cass. 27-2-2920, n. 5369). Per la rilevanza, ai fini dell’individuazione, dei “bisogni della famiglia”, della “regola dell’accordo” e, quindi, del “relativo indirizzo, concordato ed attuato dai coniugi”, v. Cass. 8-2-2021, n. 2904. Non si ritiene “idonea ad escludere, in via di principio, che il debito si possa dire contratto per soddisfare tali bisogni” la circostanza che esso “sia sorto nell’esercizio dell’impresa” (Cass. 28-5-2020, n. 10166). La finalità del soddisfacimento di bisogni familiari non è stata esclusa neppure per debiti di natura tributaria (inerenti ad attività a ciò finalizzate: Cass. 7-6-2021, n. 15741; 24-2-2016, n. 3600, anche per ampi riferimenti). 105 Non mancano, peraltro, dubbi circa la possibilità di considerare il fondo patrimoniale quale convenzio-

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i cui frutti sono impiegati per i bisogni della famiglia (art. 1682), possono essere i coniugi, insieme o individualmente, ovvero un terzo (anche con testamento). Il consenso di entrambi coniugi pare necessario in ogni caso (art. 1672). La forza del vincolo di destinazione deriva dal risultare l’esecuzione sui beni e sui relativi frutti esclusa per i debiti che i creditori conoscevano essere estranei ai bisogni familiari (art. 170) 106, con conseguente eventuale pregiudizio alle loro ragioni (ed esperibilità dell’azione revocatoria, ove ne ricorrano le condizioni, contro l’atto costitutivo) 107. L’amministrazione spetta ad entrambi i coniugi, con applicabilità delle stesse regole dettate per la comunione legale (art. 1683). Gli atti di disposizione dei beni devono essere compiuti, in linea di principio, congiuntamente e, se vi sono figli minori, con l’autorizzazione giudiziale, nei soli casi di necessità o utilità evidente (art. 169) 108. La cessazione del fondo consegue all’annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio (art. 1711) 109. Peraltro, se vi sono figli minori, la destinazione ne matrimoniale, con il relativo regime pubblicitario. I dubbi, in proposito, di Cass. 27-10-2008, n. 25857, risultano, comunque, superati da Cass. 25-3-2009, n. 7210 e Cass., sez. un., 13-10-2009, n. 21658, che ha ribadito essere “la costituzione di fondo patrimoniale … compresa tra le convenzioni matrimoniali”, come tale “soggetta alle disposizioni dell’art. 162 c.c. circa le forme delle convenzioni medesime” (anche ai fini della opponibilità ai terzi: V, 2.11). Così, Cass. 10-5-2019, n. 12545 sottolinea come sia inopponibile al creditore ipotecario il fondo patrimoniale “trascritto nei pubblici registri immobiliari, ma annotato a margine dell’atto di matrimonio successivamente all’iscrizione dell’ipoteca sui beni del fondo medesimo” (“la trascrizione del vincolo per gli immobili, ai sensi dell’art. 2647” essendo da reputare “degradata a pubblicità notizia e non sopperisce al difetto di annotazione nei registri dello stato civile”). 106 Si precisa correntemente che “l’onere della prova dei presupposti di applicabilità dell’art. 170 c.c. grava sulla parte che intende avvalersi” del relativo regime (Cass. 29-1-2016, n. 1632; 15886/2014; 19-2-2013, n. 4011). 107 Infatti, secondo una costante giurisprudenza (Cass. 7-10-2008, n. 24757; 7-7-2007, n. 15310; 23-9-2004, n. 19131), risultando “l’atto di costituzione del fondo patrimoniale … un atto a titolo gratuito”, esso “può essere dichiarato inefficace nei confronti del creditore, qualora ricorrano le condizioni di cui al n. 1 dell’art. 2901 c.c.” (concernente, appunto, le condizioni per l’esercizio dell’azione revocatoria). E ciò anche quando “provenga da entrambi i coniugi” e “non comporti un effetto traslativo”, determinando, comunque, “l’assoggettamento del bene ad un vincolo di destinazione” (Cass. 22-3-2013, n. 7259, con riferimento alla destinazione, da parte dei coniugi, mediante costituzione di fondo patrimoniale, di un appartamento di loro proprietà alle esigenze della famiglia della figlia). Si tenga presente come non si sia mancato di ritenere utilizzabile – dando luogo, comunque, a problemi sostanzialmente analoghi a quelli dianzi accennati – il meccanismo di cui all’art. 2645 ter, “al fine di rendere opponibile ai terzi la destinazione funzionale a casa familiare (anche) anteriormente all’apertura della successione che la riguardi ovvero della crisi che affetti il rapporto di coniugio o more uxorio” (come ricorda Cass. 18-6-2013, n. 15113). 108 L’art. 169 fa salva la volontà espressa nell’atto costitutivo in senso contrario alla necessità dell’agire congiunto per gli atti di disposizione. È dubbio se nell’atto costitutivo possa venire esclusa anche la necessità dell’autorizzazione giudiziale per gli atti dispositivi in presenza di minori: in senso favorevole, Trib. Verona 30-5-2000, nonché, di recente, Cass. 4-9-2019, n. 22069, secondo cui “la disciplina legale sancita dall’art. 169” – e, quindi, “la preventiva autorizzazione del giudice alla alienazione di beni del fondo” – è “applicabile solo in mancanza di deroga prevista nell’atto di costituzione”. Si tende a ritenere che il giudice abbia il potere-dovere di disporre circa il reimpiego delle somme ricavate dall’eventuale alienazione dei beni del fondo (ad es., App. Bari 15-7-1999). Cass. 22069/2019 ha chiarito che i figli – anche ormai maggiorenni, ma non economicamente autosufficienti – “quali beneficiari del fondo patrimoniale, sono legittimati ad agire in giudizio in relazione agli atti dispositivi eccedenti l’ordinaria amministrazione che incidano sulla destinazione dei beni del fondo”. 109 Sulla base del ritenuto carattere non tassativo dell’elencazione contenuta nell’art. 171, si è ammesso che, “in mancanza di figli, lo scioglimento del fondo patrimoniale può intervenire anche sulla base del solo consenso dei coniugi”: Cass. 8-8-2014, n. 17811, che ravvisa, comunque, “in capo ai figli minori una posizio-

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dei beni dura fino alla maggiore età dell’ultimo figlio (art. 1712), con ciò risultando esaltata quella funzionalizzazione dei beni alle esigenze dell’intera famiglia, che consente al giudice, a seguito della cessazione del fondo, addirittura di attribuire ai figli, in godimento o in proprietà, una quota dei beni (art. 1713).

14. Impresa familiare. – Nel contesto del regime patrimoniale della famiglia, è stato disciplinato quel particolare tipo di impresa, l’impresa familiare, caratterizzata dal fatto che in essa collaborano familiari dell’imprenditore (tali essendo considerati il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo) (art. 230 bis3) 110. La finalità perseguita è quella di garantire una tutela adeguata a costoro, ove prestino continuativamente (cioè non occasionalmente) la propria attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa 111, senza che sia giuridicamente configurabile un rapporto di diversa natura (in particolare, di lavoro dipendente o di società) 112 (art. 230 bis1). La famiglia viene qui, appunto in vista del perseguimento di una simile finalità di tutela del familiare-lavoratore, intesa in una accezione allargata (V, 1.2). In tal caso, pur non assumendo la veste di imprenditori (l’impresa è preferibilmente da ritenere che resti individuale di chi la organizza e la gestisce a proprio rischio, assumendo egli solo la qualifica di imprenditore) 113, i familiari partecipanti hanno, da una parte, il diritto al mantenimento, secondo la condizione patrimoniale della famiglia; dalne giuridicamente tutelata in ordine agli atti di disposizione del fondo”, estendendo tale posizione anche al nascituro. 110 Si ricordi come controversa sia stata la possibilità di considerare anche il convivente destinatario della disciplina in questione (V, 1.4, anche per l’introduzione, con riguardo alla posizione del convivente, ai sensi dell’art. 146 L. 76/2016, di un nuovo specifico art. 230 ter). 111 Discussa è l’identificazione delle mansioni che individuano la partecipazione all’impresa familiare. La prevalente tendenza (Cass. 19-2-1997, n. 1525) – non essendosi mancato di precisare che “il mero svolgimento di mansioni in ambito domestico, costituendo adempimento degli obblighi che derivano dal matrimonio, non è sufficiente a dare luogo ad un’impresa familiare” (Cass. 16-12-2005, n. 27839) – è di ritenere che l’attività del familiare, a tal fine, “sebbene diretta a soddisfare, in via immediata, esigenze domestiche e personali della famiglia”, debba risultare rilevante per l’attività dell’impresa, “in quanto funzionale e strumentale all’attuazione dei fini propri di produzione o di scambio di beni o di servizi” (in particolare, col sollevare dai compiti familiari, anche su lui gravanti, chi gestisce l’impresa, ponendolo “in condizione di dedicarsi totalmente all’accrescimento della produttività dell’impresa”: Cass. 3-11-1998, n. 11007). All’insufficienza, ai fini di tale individuazione, dell’avere il familiare fornito “contributi finanziari ed occasionali consulenze professionali” allude Cass. 15-6-2020, n. 11533. 112 Il regime di cui all’art. 230 bis è, quindi, da considerarsi residuale, in quanto destinato ad operare, come appunto discende dall’inciso iniziale del primo comma, “salvo che sia configurabile un diverso rapporto”. Riaffermato, appunto la “natura residuale” (e v., di recente, ad es., Cass. 11533/2020) e la “natura individuale dell’impresa familiare”, Cass., sez. un., 6-11-2014, n. 23676, per la relativa “incompatibilità con la disciplina delle società di qualunque tipo”, ne ha escluso la “configurabilità … quando già in limine l’esercizio dell’impresa rivesta forma societaria” (e, quindi, con riguardo al “lavoro prestato dal familiare del socio”, in tale situazione restando solo “applicabile il rimedio sussidiario, di chiusura, dell’arricchimento senza causa”). 113 Ciò secondo la prospettiva delineata da Cass. 27-6-1990, n. 6559, tendente a distinguere “un aspetto interno, costituito dal rapporto associativo del gruppo familiare quanto alla regolamentazione dei vantaggi economici di ciascun componente, ed un aspetto esterno, nel quale ha rilevanza la figura del famigliare, imprenditore, effettivo gestore dell’impresa, che assume in proprio i diritti e le obbligazioni nascenti dai rapporti con i terzi e risponde illimitatamente con i suoli beni personali” (non estendendosi, quindi, “il fallimento di detto imprenditore automaticamente al semplice partecipante all’impresa familiare”).

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l’altra, quello a partecipare agli utili ed agli incrementi dell’azienda 114, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato (precisandosi che il lavoro femminile è da considerarsi equivalente a quello maschile: art. 230 bis2) 115. Inoltre, le decisioni di maggiore rilevanza per la vita dell’impresa (impiego di utili ed incrementi, gestione straordinaria, indirizzi produttivi, cessazione dell’impresa), devono essere adottate a maggioranza dai familiari partecipanti (art. 230 bis1). Oltre ad avere diritto, ove venga a cessare il rapporto o sia alienata l’azienda, alla liquidazione in danaro del proprio diritto di partecipazione, il familiare ha pure un diritto di prelazione sull’azienda, in caso di divisione ereditaria o di relativo trasferimento (art. 230 bis5) 116.

C) UNIONE CIVILE 15. Unione civile e matrimonio. – Si è avuto modo di vedere (V, 1.4) come, di fronte all’emersione dell’istanza di tutela della relazione di vita instaurata tra persone dello stesso sesso, gli ordinamenti abbiano battuto vie diverse, considerate dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo comunque conformi ai principi della CEDU, se tali da garantire il rispetto dei “diritti fondamentali” degli interessati (non imponendosi, quindi, come via obbligata, quella del superamento del tradizionale principio di eterosessualità del matrimonio: V, 2.4) 117. In una simile prospettiva 118, il nostro legislatore ha preferito, allora, non allinearsi all’indirizzo di apertura del matrimonio alle coppie di persone dello stesso sesso, muovendosi, piuttosto, nella direzione dell’introduzione di un peculiare (nuovo) istituto, quello della “unione civile”, appunto finalizzato a regolamentare il rapporto di vita tra costoro (e considerando, comunque, anche le persone dello stesso sesso destinatarie della contestualmente introdotta “disciplina delle convivenze”). Nel far ciò, ci si è dichiaratamente ispirati alle opzioni di altri paesi (in primo luogo, la Germania) 119, nei quali, pe114

Efficacia di prova presuntiva è riconosciuta, da Cass. 5-9-2012, n. 14908, alla “predeterminazione delle quote di partecipazione agli utili” (quale eventualmente risultante, cioè, dall’“atto di predeterminazione delle quote formato ai fini fiscali”: Cass. 17-6-2003, n. 9683). 115 Cass. 23-6-2008, n. 17057, sottolinea che “gli utili da attribuire ai partecipanti all’impresa familiare vanno calcolati al netto delle spese di mantenimento, pure gravanti sul familiare che esercita l’impresa”. 116 Si è ritenuto trattarsi di una ipotesi di prelazione legale (VIII, 2.20), tale da consentire – attraverso l’operato richiamo dell’art. 732 – “il riscatto nei confronti del terzo acquirente (fino al momento della liquidazione della quota del partecipe), senza che all’applicazione di tale istituto possa essere d’ostacolo la mancanza di un sistema legale di pubblicità dell’impresa familiare, avendo il legislatore inteso tutelare il lavoro più che la circolazione dei beni” (Cass. 19-11-2008, n. 27475). 117 In tal senso, si richiamano qui ancora una volta Corte eur. dir. uomo 21-7-2015 e Corte eur. dir. uomo 14-12-2017, che, più di recente, ha reputato soddisfacentemente rispondere alle esigenze di tutela della relazione tra persone dello stesso sesso la recente legislazione italiana. 118 Fatta sostanzialmente propria da Corte cost. 15-4-2010, n. 138, che ha imposto al legislatore di intervenire in materia, chiarendo il relativo contesto costituzionale. 119 Si è ricordato (V, 1.4) come, anche in tale paese, nel 2017, sia stato ormai esteso l’istituto matrimoniale pure alle persone dello stesso sesso (corrispondentemente modificando il § 1353 BGB, secondo cui, ora, con una formulazione simile a quella impiegata dal legislatore francese nel 2013 novellando l’art. 143 code civil, il matrimonio è contratto “da due persone di differente o uguale sesso”).

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raltro, la tendenza sembra nel senso di avvicinare progressivamente – in funzione antidiscriminatoria – al modello matrimoniale la disciplina specificamente introdotta al fine di regolamentare i rapporti tra le persone dello stesso sesso (con l’eventuale approdo finale della loro ammissione al matrimonio) 120. Il testo della L. 20.5.2016, n. 76 (“Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”) risente del suo travagliato iter parlamentare 121, con la finale necessità di complesse mediazioni di carattere ideologico-politico, le quali non hanno certo contribuito alla relativa qualità e linearità, oltretutto finendo col demandare implicitamente alla giurisprudenza scelte di indubbia rilevanza di principio (oltre che al legislatore delegato la necessaria opera di completamento). La struttura stessa del provvedimento, consistente nell’alquanto confuso succedersi di 69 commi in un unico articolo, costituisce fedele specchio di ciò. Delle due parti di cui si compone la legge, la prima, di cui all’art. 11-35, è quella dedicata all’introduzione dell’istituto della unione civile tra persone dello stesso sesso, i contrasti, anche dell’ultim’ora, vertendo, in buona sostanza, su come riuscire a differenziarlo dal matrimonio: differenziazione, ovviamente, che gli uni tendevano ad emarginare, mentre gli altri ad esaltare, col risultato del ricorso a formule, la cui ambiguità ha finito, talvolta, col rispecchiare le (incrociate) riserve mentali di ciascuno. E quasi inutile pare sottolineare come ciò abbia determinato non pochi contrasti anche tra coloro che si sono da subito cimentati nella valutazione ed interpretazione del testo legislativo. Il tentativo di superare le resistenze nei confronti di una completa assimilazione, almeno quanto a concreta regolamentazione, dell’unione civile al matrimonio si è tradotto in alcune dichiarazioni di principio (invero, alquanto ridondanti e, nella sostanza, di scarso peso 122, come quella, di cui al co. 1, consistente nel definire “l’unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione”) 123 e differenziazioni, peraltro di sapore più che altro formale, attraverso l’eliminazione di taluni rinvii originariamente operati (salvo, poi, a trascrivere, più o meno fedelmente, il contenuto delle corrispondenti disposizioni), con un disordinato 120

Significativa, in tal senso, è la recente esperienza austriaca, anche in tale paese essendo stata, infine, rimossa la limitazione dell’accesso al matrimonio alle persone di sesso diverso (Corte cost. Rep. fed. austriaca 4-12-2017, n. 258, ritenendosi la “differenziazione in due istituti giuridici” non poter “essere mantenuta senza discriminare inammissibilmente le coppie omosessuali con riguardo al loro orientamento sessuale”). 121 Incentrato, almeno nella sua fase finale, sulla discussione del D.D.L. n. 2081 (Senato, XVII legislatura). 122 Nonostante, cioè, la fiducia riposta da taluni – tanto in sede di approvazione del provvedimento, quanto di suo successivo apprezzamento – nella carica, per così dire, “diversificatoria” rispetto al matrimonio di una simile definizione. 123 Così come la formulazione del co. 20, in cui, nel disporre l’applicabilità anche alle parti dell’unione civile di tutte le disposizioni comunque contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” (o termini equivalenti), si premette, con un certo gusto per l’ovvietà, “ciò al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso”. Si ricordi come nel medesimo comma si sia escluso, dando origine alla conseguente inevitabile frammentarietà della disciplina, che una simile regola valga per “le norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge” (oltre che per le disposizioni in tema di adozione: punto, questo, su cui si tornerà infra, V, 2.17). Quanto alla materia penalistica, essa è stata considerata ricompresa nella delega di cui all’art. 128, lett. c (concernente “modificazioni ed integrazioni normative per il necessario coordinamento con la presente legge delle disposizioni contenute nelle leggi, negli atti aventi forza di legge e nei decreti”), attuata col D.Lgs. 19.1.2017, n. 6.

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(oltre che talvolta incomprensibilmente lacunoso e contraddittorio) accatastamento di proposizioni normative.

16. Costituzione della unione civile. – La disciplina è introdotta dall’art. 12, in cui si prevede che “due persone maggiorenni dello stesso sesso costituiscono un’unione civile mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni”, precisandosi nel co. 3 che “l’ufficiale di stato civile provvede alla registrazione degli atti di unione civile tra persone dello stesso sesso nell’archivio dello stato civile”. Manca, quindi, una disciplina delle “formalità preliminari al matrimonio” (ed è stato ridotto all’essenziale il momento della manifestazione della volontà degli interessati), con ciò, evidentemente, essendosi inteso operare sul valore simbolico della relativa regolamentazione in materia matrimoniale (V, 2.5). Ma, anche a prescindere dallo scarso valore che ormai assume tale aspetto della normativa matrimoniale, non si può mancare di sottolineare come la disciplina attuativa della delega contenuta nell’art. 128, lett. a (concernente l’“adeguamento alle previsioni della presente legge delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni”), con il D.Lgs. 19.1.2017, n. 5, abbia finito – probabilmente andando al di là, nell’ansia di soddisfare esigenze funzionali integrative, delle stesse intenzioni del legislatore – proprio con l’omologare la disciplina dell’unione civile a quella del matrimonio, in particolare facendosi rivivere quella tempistica bifasica, nel matrimonio funzionale all’accertamento delle relative cause ostative 124. Né si è mancato, addirittura, di rispecchiare la celebrazione matrimoniale, con la menzione dei commi relativi ai diritti ed ai doveri delle parti, delineando, del resto, i contenuti del “documento attestante la costituzione dell’unione” sulla falsariga dell’“atto di matrimonio” (di cui all’art. 19) 125. Essendovi un diffuso consenso circa la sostanziale omogeneità – al di là della farraginosità della disciplina, come accennato avvitatasi tra rinvii alle disposizioni del codice in materia di matrimonio e loro più o meno fedele riproduzione – delle cause ostative e dell’invalidità (compreso il relativo regime dell’azionabilità e delle conseguenze) in ordine alla costituzione dell’unione civile, rispetto al modello matrimoniale, pare qui il caso di limitarsi ad accennare le (scarse) divergenze, per il resto rinviando alla trattazione precedentemente svolta (V, 2.4, 6-7). Non si è fatto riferimento, innanzitutto, alla “inapponibilità di termini e condizioni”, di cui all’art. 108. Difficile è pensare, però, che non si sia trattato di una mera svista 126, 124

In effetti, dopo essersi contemplata espressamente la richiesta di costituzione (art. 70 bis D.P.R. 396/2000), con un termine di trenta giorni (solo alla scadenza del quale si può procedere alla costituzione dell’unione civile: art. 70 octies) per effettuare le necessarie verifiche ed il conseguente possibile il rifiuto dell’ufficiale di stato civile a procedere alla costituzione dell’unione civile (art. 70 ter), si è giunti a delineare espressamente una disciplina delle opposizioni (artt. 70 undecies ss.). 125 Si allude, in particolare, agli artt. 70 octies e 70 quaterdecies. È da sottolineare come la normativa secondaria abbia finito anche con superare le remore del legislatore a conferire alla unione civile quella solennità sociale del matrimonio, in vista della quale l’art. 1071 prevede la dichiarazione dell’ufficiale dello stato civile che le parti “sono unite in matrimonio”. Infatti, la formula adottata (e di cui dare atto nel registro degli atti di unione civile: D.M. 27.2.2017, a sua volta attuativo del D.Lgs. 5/2017) contempla proprio una corrispondente dichiarazione. 126 È immediatamente risultato chiaro come, in dipendenza della discutibile tecnica legislativa adottata (e

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come tale inidonea a determinare una qualche reale diversità rispetto al matrimonio: l’inapponibilità in questione deve, infatti, ritenersi implicita caratteristica degli atti fondativi di uno status familiare, quale sicuramente è da considerare quello che deriva alle parti dalla costituzione dell’unione civile 127. Quanto all’età, una scelta precisa è stata quella nel senso di limitare alle “persone maggiorenni” l’accesso all’unione civile. In ciò, indubbiamente, la relativa disciplina viene a differenziarsi rispetto a quella matrimoniale (e di qui, di conseguenza, rilievi nel senso di un suo carattere discriminatorio). Peraltro, non si può mancare di evidenziare come lo stesso legislatore della riforma abbia considerato, ai fini del matrimonio, quale principio quello della maggiore età (841), la previsione del matrimonio del minore risultando ridotta – rispetto al passato – al rango di ipotesi eccezionale: un residuo di passate concezioni, quindi, la cui liquidazione con riferimento all’unione civile sembra allinearsi ad altre previsioni (che si avrà modo di esaminare), a ben vedere adombranti innovative prospettive in materia familiare. Piuttosto, non può sfuggire come, l’art. 17, nel riprodurre (invero alquanto contortamente) l’art. 122 (relativo ai vizi del consenso matrimoniale) e, in particolare, l’art. 1223, n. 1, abbia omesso il riferimento, ai fini della rilevanza dell’errore sulle qualità personali, alla esistenza di una “anomalia o deviazione sessuale” (V, 2.6). Comunque, onde considerare concretamente ininfluente una simile – qui è da credere non casuale – lacuna, può ricordarsi come la stessa omosessualità tenda ad essere ormai presa in considerazione, in materia matrimoniale, non in una simile prospettiva, ma in termini di “orientamento” atto a “definire l’identità sessuale” della persona (IV, 2.12): ricostruzione, questa 128, in chiave di rilevanza dell’identità sociale della persona, che sembrerebbe, invero, riferibile – risultando così privata di conseguenze pratiche l’omissione in questione – anche alla costituzione di una unione civile, ove viziata sotto il profilo della ricorrenza, appunto, di un (ignorato) orientamento sessuale – o di una (ignorata) anomalia sessuale – di una delle parti incompatibile con un progetto di vita comune conforme alla ratio dell’istituto qui in esame 129.

17. Effetti della unione civile. – Anche in relazione alla regolamentazione degli effetti della costituzione dell’unione civile, vi è una sostanziale equiparazione della posizione della parte dell’unione civile a quella del coniuge. Così, in particolare, attraverso il richiamo integrale della disciplina in materia di regime patrimoniale (113) 130 e successorio della fretta di concludere l’iter parlamentare del provvedimento), siano rimaste vistose lacune, quale, in particolare, quella relativa alla “donazione in riguardo di matrimonio”, di cui all’art. 785 (ma anche con rifermento alla materia societaria). 127 Ciò che sembra risultare confermato dalla previsione dell’art. 156, in cui – lasciandosi così intravedere una funzione, almeno lato sensu, costitutiva di uno status del “contratto di convivenza” (V, 1.4) – si dispone, appunto, il divieto in questione. 128 Per cui v., in particolare, Trib. Milano 13-2-2013. 129 Venendo in gioco, insomma, la stessa identità della persona. 130 Peraltro, manca, per coerenza con l’ammissione all’unione civile dei soli maggiorenni, il richiamo all’art. 165 (circa la capacità del “minore ammesso a contrarre matrimonio” alla stipula delle convenzioni matrimoniali). Manca anche un richiamo all’art. 166 bis (concernente il divieto di costituzione di dote), forse in quanto ritenuto ricollegato ad una problematica peculiare allo squilibrio un tempo legalmente sanzionato tra marito e moglie, nonché, inspiegabilmente, all’art. 161 (relativo all’inammissibilità del “riferimento generico a leggi o agli usi”).

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(art. 121). Solo a complicazioni interpretative prestandosi, del resto, l’essersi voluto (approssimativamente) trascrivere la disciplina concernente la protezione degli incapaci (115) e quella relativa agli “ordini di protezione contro gli abusi familiari” (114). Assai più lineare, in effetti, sarebbe stato semplicemente inserire anche la parte dell’unione civile, in aggiunta al coniuge, nelle corrispondenti disposizioni codicistiche 131. Vi sono, peraltro, taluni profili in ordine ai quali il legislatore sembra aver voluto prendere le distanze dalla disciplina matrimoniale. Manca, innanzitutto, un riferimento all’art. 78 (concernente il vincolo di affinità: V, 1.6). Ma c’è da chiedersi se, trattandosi di un vincolo certamente legato a concezioni familiari storicamente datate 132, non si sia anche qui in presenza dell’emersione di una possibile linea di tendenza evolutiva dell’ordinamento. Indubbiamente, l’ansia di differenziazione ha finito col trionfare – abbandonata ad evidenti fini compromissori l’iniziale idea di un mero richiamo – nella riformulazione, nell’art. 111-12, del contenuto degli artt. 143 e 144 133. Scarsa rilevanza, dal punto di vista sostanziale, assume, in proposito, il tentativo di espunzione di ogni riferimento al carattere “familiare” dell’unione civile (parlandosi qui di “bisogni comuni” cui orientare il dovere di contribuzione e di “residenza comune” come oggetto di necessaria fissazione) 134. Resta l’espunzione del dovere di “collaborazione” e di quello di “fedeltà” (V, 2.9), evidentemente da ricollegare all’idea (latente) che l’unione civile sia caratterizzata, rispetto al matrimonio, da un vincolo di minore intensità. Poco significativa pare l’omissione concernente il dovere di collaborazione, data la relativa incerta perimetrazione a fronte del “dovere di assistenza morale e materiale” (di cui si tende a considerare, al più, mera specificazione). Sicuramente di maggiore pregnanza – ideologica (e, non a caso, in tale ottica valorizzata) – si presenta l’omissione relativa al dovere di fedeltà. Comunque, la relativa scarsa portata concreta emerge da due ordini di considerazioni. In primo luogo, in relazione a tale dovere, è da tempo tramontata (come si è visto) la sua angusta prospettiva legata alla sfera della sessualità, finendo esso col risolversi nella valorizzazione di esigenze di lealtà, di dedizione (e fiducia) reciproca e di rispetto della dignità dell’altra parte: esigenze che non possono non considerarsi connaturate anche al rapporto di unione civile, come riflesso indefettibile dell’essere esso assunto proprio quale unione di coppia, caratterizzata 131 Sembra, insomma, che l’intento – alla base anche degli artt. 116 (in tema di rilevanza della “violenza” nel contratto: art. 14361), 117 (concernente la materia delle indennità di cui all’art. 2122), 118 (relativo alla sospensione della prescrizione: art. 29411) e 119 (in cui si accatastano residualmente, ma non senza omissioni, riferimenti a materie disparate, tra cui quella degli alimenti: V, 1.7) – sia stato quello di evitare l’ingresso nel codice civile di riferimenti all’unione civile (ed alle relative parti). Comunque, evidentemente nella confusione finale, gli artt. 132 e 133 (rispettivamente con riguardo agli artt. 86, libertà di stato, e 124, vincolo di precedente matrimonio) hanno finito col farlo. 132 Si allude all’idea del matrimonio come ad una vicenda destinata – per fini che nulla hanno a che vedere con l’attuale prospettiva affettiva e solidaristica della relazione personale di vita che lega i componenti del nucleo familiare ristretto (V, 1.2) – ad intrecciare (e unire) gruppi familiari. 133 Il mancato richiamo all’art. 145, concernente l’“intervento del giudice” in caso di disaccordo tra i coniugi, sembra, almeno in larga misura, da ricollegare all’esaurimento della sua stessa funzione storico-sistematica (V, 2.9). 134 Neppure del tutto riuscito, dato che nell’art. 112 si qualifica proprio come “familiare” l’“indirizzo della vita” da concordare.

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da esclusività (art. 14, lett. a), in quanto fondata su forti legami di affetto e solidarietà. In secondo luogo, adeguato rilievo pare da accordare anche al risultare estraneo alla disciplina dettata per la crisi dell’unione civile (V, 3.6) ogni riferimento all’istituto della separazione personale, con quella possibilità di relativo addebito (V, 3.2), in cui finisce tradizionalmente col risolversi l’eventuale sanzione della violazione del dovere in questione (da intendere, comunque, nella dianzi delineata prospettiva) 135. Anche in relazione a quanto previsto, dall’art. 110, con riguardo alla problematica del cognome, come elemento funzionale all’identificazione del gruppo familiare nella sua unitarietà, la ricerca di soluzioni originali – rispetto a quelle attualmente vigenti per i coniugi (art. 143 bis, “cognome della moglie”) – nella regolamentazione dell’unione civile ha finito col risolversi nell’anticipazione di modelli di disciplina, prevedibilmente destinati ad estendersi al rapporto matrimoniale (nella prospettiva, evidentemente, del superamento di residue discriminazioni tra coniugi in materia: IV, 2.10 e V, 2.9). Infatti, con una soluzione rispettosa dell’uguaglianza delle parti (in quanto fondata sul loro accordo, secondo una tendenza ormai prevalente negli ordinamenti a noi più vicini), si stabilisce che esse 136, “per la durata dell’unione civile”, “possono stabilire di assumere un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi” (restando comunque consentito alla parte il cui cognome non è stato scelto di “anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome”) 137. La disciplina dell’unione civile ha finito col lasciare (intenzionalmente) del tutto in ombra ogni questione legata all’eventuale presenza di figli nel relativo nucleo familiare. Ovviamente, una simile scelta di principio è destinata a demandare alla giurisprudenza di colmare la lacuna, in quei casi in cui, già attualmente, un comune rapporto di filiazione giuridicamente rilevante venga comunque a sorgere, in particolare attraverso l’adozione (secondo la legge italiana o all’estero: V, 4.8) 138. In effetti, da una parte, manca un riferimento agli artt. 147 e 148, conservati in sede di novellazione della disciplina della filiazione, per evidenziare che i doveri verso i figli costituiscono anche oggetto di una reciproca pretesa nel contesto del rapporto coniugale (V, 2.9). Dall’altra, in sede di finale 135

Anche nel caso di unione civile, comunque, sembra poter operare – nei limiti e con le precisazioni in cui ciò è ipotizzabile per il matrimonio (V, 2.9) – il rimedio rappresentato dal risarcimento del danno per violazione dei doveri connessi all’instaurazione del relativo rapporto. 136 Mediante “dichiarazione all’ufficiale di stato civile” (e v. quanto, al riguardo, operativamente prevede il D.Lgs. 5/2017: nuovi artt. 70 octies3 e 70 quaterdecies2 D.P.R. 396/2000). 137 I dubbi di illegittimità della disciplina applicativa del regime accennato – intestazione della scheda anagrafica individuale alla parte dell’unione civile con il cognome posseduto prima della relativa costituzione (indipendentemente, quindi, dall’opzione eventualmente operata ai sensi dell’art. 110 L. 76/2016: nuovo art. 203 bis D.P.R. 30.5.1989, n. 223) – sono stati superati da Corte cost. 22-11-2018, n. 212, richiamandosi alla uguale disciplina anagrafica – intestazione della scheda anagrafica “al cognome da nubile” – operante per il cognome della moglie, in ordine all’“aggiunta” al proprio del cognome del marito (considerato in termini di “cognome d’uso”). Pare il caso di evidenziare, comunque, come la Corte significativamente accenni, con riguardo a quella introdotta in materia di unione civile, alla “natura paritaria e flessibile della disciplina del cognome comune”. 138 Ma pare inevitabile come, in simili situazioni, non possa che farsi ricorso alla comune disciplina dettata per regolare l’esercizio della responsabilità genitoriale (anche con riguardo all’eventuale venir meno della convivenza familiare). Sembra da sottolineare, del resto, come pure la situazione dei figli inseriti in nuclei familiari costituiti con l’unione civile sia stata presa in considerazione dalla L. 11.1.2018, n. 4, recante misure “in favore degli orfani per crimini domestici”.

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definizione del testo del provvedimento è caduta l’inizialmente contemplata 139 – sul modello di altri ordinamenti – possibilità di adozione del figlio dell’altra parte, nella prospettiva dell’adozione in casi particolari, ai sensi dell’art. 441, lett. b, L. 184/1983. Peraltro, con una formula carica di ambiguità, nell’art. 120 si è previsto, una volta testualmente esclusa l’estensibilità alle parti dell’unione civile delle “disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184”, che “resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti” 140.

139

Ai sensi dell’art. 5 D.D.L. n. 2801. Circa gli esiti cui ha portato, in un clima di conseguente incertezza nella pratica, la formula in questione nella successiva giurisprudenza, v. infra, V, 4.8. 140

CAPITOLO 3

CRISI CONIUGALE Sommario: 1. Unità e crisi della famiglia. – 2. Separazione personale dei coniugi. – 3. Effetti della separazione personale. – 4. Divorzio. – 5. Effetti del divorzio. – 6. Scioglimento della unione civile.

1. Unità e crisi della famiglia. – La disciplina della crisi del rapporto coniugale rappresenta, probabilmente, l’aspetto più delicato della regolamentazione complessiva del fenomeno familiare 1. Il legislatore è chiamato, in effetti, nel momento in cui più accentuate sono le tensioni all’interno del gruppo, ad assicurare il rispetto della piena eguaglianza dei coniugi, garantendo, allo stesso tempo, l’interesse dei figli ad idonee condizioni di sviluppo della personalità. L’esigenza di realizzare un giusto equilibrio tra i valori di libertà e responsabilità, tende, allora, a indirizzare l’intervento legislativo verso forme di prevenzione e risoluzione dei confitti familiari fondate sulla valorizzazione dell’impegno degli interessati ad una consapevole ricerca di soluzioni condivise, quale via maestra per assicurare una migliore tutela di tutti i soggetti coinvolti nella crisi. Nel nostro ordinamento, non poche difficoltà interpretative sono legate alla persistente segmentazione della regolamentazione (per così dire, a doppio binario) della crisi familiare, tra codice civile, novellato nel 1975, in cui è contemplata la separazione personale, e legislazione sul divorzio del 1970, a sua volta, prima integrata nel 1978, poi profondamente rivisitata nel 1987 (nonché oggetto di anche successivi interventi). Impegno esegetico notevole, quindi, ai fini del relativo coordinamento sistematico, ha richiesto la frammentazione e stratificazione della disciplina dettata con riferimento a problematiche caratterizzate da omogeneità di esigenze, in caso di venir meno della famiglia come comunità di vita 2. Il principio dal quale non può prescindere qualsiasi intervento legislativo è sicuramente quello rappresentato dalla protezione costituzionale del matrimonio e della fami1 La trattazione che segue si riferisce alla famiglia fondata sul matrimonio, ma le problematiche concernenti la crisi familiare investono, evidentemente, anche i rapporti personali e patrimoniali che si radicano nell’unione civile e nella convivenza. Quanto all’unione civile, trattandosi, in sostanza, di verificare entro che limiti la disciplina dettata dalla L. 76/2016 si discosti da quella prevista per il matrimonio, il relativo esame è svolto infra, V, 3.6. Sulla convivenza e sulle questioni legate al suo venir meno, anche alla luce di quanto disposto dalla L. 76/2016, ci si è soffermati supra, V, 1.4. 2 Una disciplina programmaticamente unitaria delle problematiche più chiaramente caratterizzate da omogeneità di esigenze (in particolare, tutela dei figli e sorte della casa familiare) è stata introdotta, peraltro, con i nuovi artt. 337 bis ss. (riproduttivi degli artt. 155 ss., ai sensi della L. 8.2.2006, n. 54: V, 4.10-11). Una disciplina di carattere unitario sul piano processuale viene ora prospettata nel contesto dell’art. 123,24 della L. 26.11.2021, n. 206.

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glia, nella relativa interdipendenza (V, 2.1). Il carattere fondamentale della garanzia dell’unità familiare si presenta, in effetti, come valore chiaramente emergente dall’art. 291 Cost. Prioritario risulta, quindi, nel caso di situazione di crisi, la promozione del recupero del fisiologico funzionamento della comunità familiare, nella pienezza del suo significato di “comunione spirituale e materiale” (secondo la formula impiegata dagli artt. 1 e 2 L. 1.12.1970, n. 898) 3. I prodromi della crisi del rapporto coniugale tendono, il più delle volte, a farsi avvertire attraverso l’insorgere di una conflittualità in relazione alle decisioni concernenti la gestione della comunità familiare. In proposito, ha prevalso, con la previsione del meccanismo dell’art. 145 (V, 2.9), l’idea dell’utilità di un possibile intervento giudiziale, finalizzato ad indirizzare conflitti ancora non denotanti una vera e propria frattura della compagine familiare sulla via dell’accordo. Nel senso della promozione del ristabilimento di una funzionante comunione coniugale depongono, poi, tutte quelle previsioni, di carattere essenzialmente processuale, che, nelle procedure di separazione personale e di divorzio, sono indirizzate espressamente alla riconciliazione dei coniugi: in particolare, attraverso l’apertura di spazi di riflessione e di ripensamento contro iniziative avventate e dettate dal prevalere di fattori emozionali, spesso per loro stessa natura transitori. La necessità di garantire ai membri della famiglia – pur una volta venuta meno la funzionalità della formazione sociale a realizzare valori comunitari – condizioni di vita tali da non pregiudicarne in maniera decisiva personalità e dignità ha indotto, da tempo (e ovunque), a propendere per una disciplina della crisi familiare che pone in primo piano l’esigenza di non esasperare la situazione di conflittualità esistente tra i coniugi 4. L’adozione di soluzioni della crisi familiare congegnate in modo tale da smussare (piuttosto che massimizzare) l’esistente conflittualità, in quanto fondate sulla valorizzazione del consenso delle parti, si impone specialmente per la tutela degli interessi dei figli. In una simile prospettiva, non si manca, allora, di prevedere anche il ricorso a nuovi strumenti, come quello della mediazione familiare 5, funzionale – con l’ausilio di esperti nelle scienze relazionali – a ristabilire tra i coniugi condizioni di accordo, almeno in vista dei futuri reciproci rapporti e, soprattutto, dei rapporti con i figli (V, 4.10).

2. Separazione personale dei coniugi. – Nel regime di indissolubilità del matrimonio, vigente fino all’introduzione del divorzio nel 1970, il venir meno della comunione di vita coniugale e le sue conseguenze erano disciplinati esclusivamente attraverso la sepa3 Evidentemente illegittima si presenterebbe, quindi, ogni disposizione – per dirla con Corte cost. 22-7-1976, n. 181 – che “impedisca od ostacoli il perseguimento od il conseguimento dell’unità familiare”. 4 Prospettiva chiarissima, ad es., in Inghilterra, nella s. 1 del Family Law Act 1996, ove si prevede che, in caso di irrimediabile fallimento del matrimonio, esso debba essere chiuso “con il minimo di sofferenza per le parti e per i figli coinvolti”. Anche in una simile prospettiva – oltre che al dichiarato fine di rimediare all’ingolfamento della giustizia civile – può essere inteso l’intervento legislativo, col D.L. 12.9.2014, n. 132, quale conv. con la L. 10.11.2014, n. 162, tendente a valorizzare, attraverso il meccanismo della “negoziazione assistita” (art. 6), il momento stragiudiziale nella definizione della crisi familiare, fino a giungere alla previsione, ricorrendone le condizioni, di procedure di carattere meramente amministrativo (art. 12). 5 Il ricorso alla quale risulta indubbiamente incentivato nel quadro dell’intervento operato con la L. 206/2021 (v. art. 123, lett. f, n, o, p).

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razione personale, comportante una modificazione dei rapporti tra i coniugi, destinati a restare, comunque, tali (destinati, cioè, a rimanere nella condizione di separati a tempo indeterminato, in caso di mancanza di riconciliazione). Con l’introduzione del divorzio, la separazione personale, con la relativa conservazione del rapporto coniugale, ha assunto i connotati di situazione funzionalmente provvisoria, dato che essa vale a determinare una pausa di riflessione nei rapporti tra i coniugi, destinata a sfociare nel superamento della conflittualità, con la riconciliazione, ovvero, in caso di constatata irreversibilità della crisi coniugale, nel divorzio: nell’attuale quadro ordinamentale, quindi, l’eventuale persistenza della situazione di separazione, al di là di quanto necessario per una meditata riflessione sulla sorte del rapporto (e, comunque, al di là di quanto imposto dalle modalità temporali stabilite dal legislatore per il divorzio), costituisce frutto di una libera scelta di ambedue le parti nel senso della conservazione del rapporto stesso. La riforma del 1975 ha abbandonato il previgente modello di separazione basato, almeno in mancanza dell’accordo circa l’interruzione della convivenza e le relative conseguenze, sulla necessaria dimostrazione, da parte del coniuge richiedente, di una responsabilità dell’altro (secondo un catalogo tassativo di colpe coniugali: adulterio, volontario abbandono, eccessi, sevizie, minacce, ingiurie gravi) (separazione per colpa). L’opzione è stata per un modello di separazione fondato sulla mera constatazione di una situazione di intollerabilità della convivenza, in quanto più aderente alle normali dinamiche della crisi coniugale e atto ad evitare la massimizzazione delle lacerazioni, in vista sia di una possibile riconciliazione, sia dello stabilimento di pacifici e dignitosi futuri rapporti reciproci, soprattutto nell’interesse dei figli. Se rilevanti effetti l’ordinamento ricollega alla separazione legale, quale momento di formalizzazione della crisi familiare anche nella prospettiva – in mancanza del ripristino della comunione di vita in quel necessario periodo di riflessione nel quale la separazione stessa si traduce – del successivo divorzio, taluni effetti derivano pure dalla mera separazione di fatto, che consegue alla decisione di interrompere la convivenza, presa d’accordo o unilateralmente. L’allontanamento dalla residenza familiare, se non fondato sull’accordo e privo di giusta causa (come, in particolare, comportamenti contrari ai doveri matrimoniali dell’altro coniuge: V, 2.9) 6, determina la sospensione del diritto all’assistenza morale e materiale nei confronti del coniuge che, allontanatosi, rifiuti di tornarvi (art. 1461), il quale vi resta invece tenuto. Costituisce giusta causa di allontanamento, in particolare, la proposizione della domanda di separazione, annullamento e divorzio (art. 1462). La situazione di separazione di fatto, ritenuta ostativa all’adozione (art. 61 L. 4.5.1983, n. 184), risulta parificata – in virtù di un intervento della Corte costituzionale (7-4-1988, n. 404) – a quella legale ai fini della successione nel contratto di locazione ed è stata considerata causa di divorzio, se iniziata almeno due anni prima del 18 dicembre 1970 (art. 31, n. 2, lett. b, L. 1.12.1970, n. 898). 6

L’abbandono della residenza familiare, “senza aver proposto domanda di separazione personale”, è ritenuto, sotto il profilo probatorio, assumere senz’altro una “incidenza causale sulla crisi del matrimonio”: Cass. 14-2-2012, n. 2059. Comunque, Cass. 15-12-2016, n. 25966, richiama l’attenzione sull’onere, da parte di chi richieda la pronuncia di addebito, “di provare il rapporto di causalità tra la violazione e l’intollerabilità della convivenza”. Per Cass. 24-2-2011, n. 4540, la “giusta causa” è ravvisabile pure “nei casi di frequenti litigi domestici della moglie con la suocera convivente e nel conseguente progressivo deterioramento dei rapporti tra gli stessi coniugi, anche in assenza di tradimento o di violenze da parte del marito”.

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PARTE V – FAMIGLIA

La separazione legale, nella sistematica del codice civile, può essere consensuale o giudiziale 7. Il legislatore, con il D.L. 12.9.2014, n. 132, conv. nella L. 10.11.2014, n. 162, ha messo a disposizione degli interessati – pur senza modificare i profili sistematici e gli effetti degli istituti coinvolti – due nuove procedure di definizione della crisi coniugale, comuni alla separazione personale e al divorzio, nella ipotesi di cui all’art. 31, n. 2, lett. b, l. div. (utilizzabili anche per la modifica delle condizioni di separazione o di divorzio): quella consistente nella conclusione di una convenzione di negoziazione assistita (la quale prevede pur sempre un intervento giudiziale di controllo) (art. 6) e, in presenza di specifiche condizioni, quella fondata su un accordo innanzi all’ufficiale dello stato civile (che si esaurisce, quindi, sul piano amministrativo) (art. 12). a) La separazione consensuale si fonda su un accordo dei coniugi, necessariamente esteso sia alla decisione di separarsi, sia alla regolamentazione dei propri futuri rapporti reciproci e di quelli con i figli 8. L’accordo produce effetti solo con l’omologazione giudiziale (art. 1581), che è data con decreto del tribunale, ad esito di un procedimento (in cui interviene il pubblico ministero) che inizia con un tentativo di conciliazione e consiste in un controllo delle condizioni pattuite dai coniugi (non, invece, delle ragioni che hanno indotto i coniugi a chiedere la separazione). Ove gli accordi relativi all’affidamento ed al mantenimento dei figli siano reputati contrari ai loro interessi, il tribunale indica le modificazioni che considera opportune (senza, peraltro, potersi sostituire alle parti nell’apportarle) e, nel caso di inadeguata soluzione adottata dai coniugi, può rifiutare l’omologazione (art. 1582). Anche se non espressamente previsto, pare corretto ritenere che il controllo giudiziale si estenda pure al 7 Il procedimento relativo alla separazione personale dei coniugi (disciplinato dagli artt. 706 ss. c.p.c.) è stato modificato dalla L. 14.5.2005, n. 80 (che ha convertito il D.L. 14.3.2005, n. 35) e ulteriormente modificato da taluni interventi legislativi successivi (in particolare, dalla L. 54/2006 è stato introdotto l’art. 709 ter c.p.c., in tema di controversie conseguenti all’affidamento dei figli). Il provvedimento di separazione viene annotato nell’atto di matrimonio, ai sensi dell’art. 69, lett. d, D.P.R. 3.11.2000, n. 396. 8 Accordo considerato quale “negozio giuridico bilaterale a carattere non contrattuale” (Cass. 12-4-2006, n. 8516) o di “natura negoziale (quand’anche non contrattuale)”, con conseguente applicabilità, in particolare, delle “norme generali che disciplinano la materia dei vizi della volontà e della simulazione” (da far valere nelle forme di un giudizio ordinario: Cass. 20-3-2008, n. 7450; e v. Cass. 1-10-2012, n. 16664, per l’applicabilità, “nei limiti di compatibilità”, dei “criteri esegetici dettati per i negozi giuridici dagli artt. 1362 ss.”). Peraltro, occupandosi specificamente della questione, l’impugnabilità della separazione consensuale per simulazione è stata esclusa da Cass. 12-9-2014, n. 19319, essendo da ritenere la “iniziativa processuale diretta ad acquisire la condizione formale di coniugi separati … come atto incompatibile con la volontà di avvalersi della simulazione”. La giurisprudenza (Cass. 20-8-2014, n. 18066), ha ritenuto che “nella separazione consensuale, così come nel divorzio congiunto, ma pure in caso di precisazioni comuni che concludano e trasformino il procedimento contenzioso di separazione e divorzio, si stipula un accordo, di natura sicuramente negoziale, che, frequentemente, per i profili patrimoniali si configura come un vero e proprio contratto”: ciò richiamando l’impostazione secondo cui, nell’accordo tra le parti, “si ravvisa un contenuto necessario”, relativo alla conformazione dei rapporti con i figli, alla casa coniugale ed all’eventuale riconoscimento di un assegno di mantenimento o divorzile, “ed uno eventuale (la regolamentazione di ogni altra questione patrimoniale o personale tra i coniugi)”. Le “ulteriori pattuizioni, distinte da quelle che integrano il contenuto tipico” (“essenziale”) sarebbero negozi non aventi “causa” nella separazione, ma “semplicemente assunti ‘in occasione’ della separazione medesima … espressione di libera autonomia contrattuale” (Cass. 19-8-2015, n. 16909; 26-1-2018, n. 2036). Come tali, simili pattuizioni, in quanto tendenti a “dare un assetto generale alle relazioni” tra i coniugi (andando “ben oltre la necessità di definire l’obbligo di mantenimento”), potrebbero, a differenza dell’accordo nel suo “contenuto essenziale”, essere impugnate per simulazione (Cass. 30-8-2019, n. 21839, circoscrivendo le conclusioni di Cass. 19319/2014).

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rispetto dei diritti indisponibili nei rapporti reciproci dei coniugi (in particolare, con riguardo all’assistenza economica nei confronti del coniuge più debole) 9. 9

Secondo Cass. 22-1-1994, n. 657, il controllo giudiziale “involge anche le altre parti dell’accordo di separazione, come verifica del non travalicamento del canone di inderogabilità posto dall’art. 160” (“il limite del rispetto dei diritti indisponibili” è evocato da Cass. 24-7-2018, n. 19540, 13-2-2018, n. 10463, 20-8-2014, n. 180, e ribadito da Cass., sez. un., 29-7-2021, n. 21761). Con tale limite, viene ammessa la validità di eventuali accordi modificativi successivi all’omologazione, indipendentemente dal relativo controllo preventivo (la conformità all’art. 160 sarà, cioè, eventualmente verificata ad istanza della parte che ne lamenti la violazione). Sono considerate ammissibili anche le pattuizioni intervenute tra i coniugi anteriormente o contemporaneamente all’omologazione della separazione consensuale, pur non trasfuse nell’accordo omologato (solo, però, se “riguardano un aspetto che non è disciplinato nell’accordo formale e che è sicuramente compatibile con esso”, ovvero si collocano “in posizione di conclamata e incontestabile maggiore o uguale rispondenza all’interesse tutelato attraverso il controllo di cui all’art. 158”: Cass. 23-9-2013, n. 21736, 24-10-2007, n. 22329, 20-10-2005, n. 20290). Quanto al controllo sui contenuti dell’accordo, ad es., non è stata ritenuta omologabile la separazione consensuale, evidentemente per contraddittorietà, nel caso di prevista “persistenza della coabitazione da ‘separati in casa’” (pur contemplandosi “il venir meno di gran parte dei doveri nascenti dal matrimonio”: Trib. Como 6-6-2017). Circa i consentiti “accordi di separazione fra i coniugi contenenti attribuzioni patrimoniali da parte dell’uno nei confronti dell’altro e concernenti beni mobili o immobili”, non si è mancato di ritenere che essi “rispondono, di norma, ad un … proprio originario spirito di sistemazione dei rapporti in occasione dell’evento”, che svela “una sua ‘tipicità’ propria” (Cass. 14-3-2006, n. 5473), pur tendendo la stessa giurisprudenza ad intendere simili pattuizioni – comunque non configuranti “una convenzione matrimoniale” – in termini di “contratto atipico, valido sempre che non incida negativamente sui diritti e doveri nascenti dal matrimonio” (Cass. 24-4-2007, n. 9863, nonché Cass. 24321/2007 e 21736/2013, che ricorda come simili accordi possano concernere anche l’adempimento dell’obbligo di mantenimento dei figli, escludendo che essi realizzino una donazione, in quanto aventi “una funzione solutoria”). Si è ammesso (ad es., Trib. Reggio Emilia 26-3-2007) anche il ricorso, nel quadro degli accordi in questione, a vincoli di destinazione, ai sensi dell’art. 2645 ter (II, 2.9; XIV, 2.11). Pare il caso di sottolineare come, essendo rimasta persistentemente oggetto di contrastanti vedute da parte della giurisprudenza di merito – in conseguenza degli adempimenti specificamente richiesti dalla disciplina in materia di trasferimenti immobiliari – la questione concernente la possibilità che i provvedimenti che definiscono consensualmente la crisi coniugale (separazione consensuale, sentenza di divorzio su ricorso congiunto o su conclusioni conformi delle parti), nel prevedere (concordati) trasferimenti immobiliari, possano senz’altro attuarli (ovvero possano solo contenere un impegno al trasferimento stesso), Cass. 10-2-2020, n. 3089, la ha rimessa al primo presidente della Corte, per la relativa assegnazione alle sezioni unite. Le sezioni unite (21761/2021) – anche nell’ottica di “una lettura costituzionalmente orientata, che tenga conto del fondamento costituzionale dell’autonomia privata, ravvisabile negli artt. 2, 3, 41 Cost.” – hanno premesso, a seguito di una complessiva ricognizione della materia degli accordi in sede di separazione e divorzio, che “sono valide le clausole dell’accordo di divorzio a domanda congiunta, o di separazione consensuale, che riconoscano ad uno o ad entrambi i coniugi la proprietà esclusiva di beni mobili o immobili, o di altri diritti reali, ovvero ne operino il trasferimento a favore di uno di essi o dei figli, al fine di assicurarne il mantenimento”. Sulla questione particolare ad esse rimessa, hanno stabilito che “il suddetto accordo, in quanto inserito nel verbale di udienza, redatto da un ausiliario del giudice e destinato a far fede di ciò che in essa è attestato, assume forma di atto pubblico ai sensi e per gli effetti dell’art. 2699 e ove implichi il trasferimento di diritti reali immobiliari, costituisce, dopo la sentenza di divorzio resa ai sensi dell’art. 416 della legge n. 898 del 1970, che, in relazione alle pattuizioni aventi ad oggetto le condizioni inerenti la prole e ai rapporti economici, ha valore di pronuncia dichiarativa, ovvero dopo l’omologazione che lo rende efficace, valido titolo per la trascrizione a norma dell’art. 2657” (e sarà compito del cancelliere attestare, ai fini della relativa validità, “che le parti abbiano prodotto gli atti e rese le dichiarazioni” richieste in materia di trasferimenti immobiliari, ma non di verificare “l’intestatario catastale dei beni trasferiti e la sua conformità con le risultanze dei registri immobiliari”). Discussa resta la questione della esperibilità dell’azione revocatoria nei riguardi dei negozi traslativi immobiliari costituenti contenuto accessorio dell’accordo di separazione consensuale. L’indirizzo di fondo favorevole (per cui v., ad es., Cass. 12-4-2006, n. 8516), viene, comunque, reputato – ai fini della individuazione della disciplina da applicarsi, ai sensi dell’art. 2901 – da vagliare alla luce del riscontro, “nel concreto”, dei “tratti dell’obiettiva onerosità piuttosto che quelli della ‘gratuità’, in ragione dell’eventuale ricorrenza dei connotati di una sistemazione ‘solutorio-compensativa’ più am-

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b) Ciascuno dei coniugi può chiedere la separazione giudiziale sul fondamento di situazioni tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da esporre a grave pregiudizio la educazione della prole (art. 1511) 10. L’accento posto dalla stessa norma, poi, sul poter essere una simile situazione indipendente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi attesta come la separazione, lungi dall’essere considerata, come in passato, quale sanzione nei confronti di uno dei coniugi (per la violazione di doveri coniugali), sia vista quale rimedio ad una situazione di crisi familiare. Di conseguenza, si è ritenuto necessario – almeno come affermazione di principio (via via sempre più sfumata, fino a presentarsi, almeno nella sostanza, superata) – che l’intollerabilità abbia carattere oggettivo e non meramente soggettivo 11. Un compromesso dell’ultimo momento in sede di riforma ha, però, indiscutibilmente nuociuto alla linearità del sistema, incentrato su quel carattere rimediale della separazione, che dovrebbe valere ad evitare, nell’interesse dei coniugi e (soprattutto) della prole, la conflittualità inevitabilmente innescata da giudizi condotti in termini di responsabilità. Ci si riferisce alla conservazione della possibilità di perpetuare la prospettiva sanzionatoria della separazione, attraverso la richiesta e la conseguente dichiarazione di addebitabilità della separazione al coniuge, “in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio” (art. 1512). L’addebito (che può essere pure dichiarato, su reciproca richiesta, a carico di entrambi i coniugi), infatti, produce conseguenze tanto rilevanti (V, 3.3) da indurre le parti, nella prassi, a richiederne correntemente la pronuncia 12. L’abrogazione dell’art. 1512 risulta, quindi, a ragione insistentemente proposta. pia e complessiva” (Cass. 5473/2006, in una prospettiva per cui v., di recente, Cass. 15-4-2019, n. 10443 e 25-102019, n. 27409, secondo cui l’atto “sfugge alle connotazioni classiche sia dell’atto di donazione, sia dell’atto di vendita” e, in considerazione della sua “tipicità propria”, “la qualificazione dell’atto come oneroso o gratuito risponde esclusivamente al fine dell’applicazione della disciplina differenziata di cui all’art. 2901, senza incidere sulla giustificazione causale dell’attribuzione patrimoniale, riferibile alla sistemazione patrimoniale tra gli ormai ex coniugi”). 10 Nel nuovo quadro normativo, si è senz’altro ritenuto che anche il coniuge che abbia determinato, col proprio comportamento, la crisi familiare possa chiedere la separazione personale (Cass. 17-1-1983, n. 364, che ha reputato costituzionalmente legittima la disciplina, conferendo essa comunque rilievo alle “rispettive responsabilità”). 11 Per Cass. 10-6-1992, n. 7148, la situazione di intollerabilità dovrebbe risultare “oggettivamente apprezzabile e giuridicamente controllabile”, la separazione non potendo essere pronunciata per “il mero atteggiamento soggettivo di rifiuto della convivenza da parte di uno dei coniugi” (Cass. 10-1-1986, n. 67). Più di recente, comunque, accogliendo “un’interpretazione aperta a valorizzare elementi di carattere soggettivo, costituendo la ‘intollerabilità’ un fatto psicologico squisitamente individuale”, Cass. 9-10-2007, n. 21099, ha concluso che “ove la situazione di intollerabilità” – per “fatti obiettivi emersi” e giudizialmente accertabili – “si verifichi, anche rispetto ad un solo coniuge, questi ha diritto di chiedere la separazione” (sussistendo, “per ciascun coniuge”, “il diritto di ottenere la separazione e interrompere la convivenza”). Tende, in effetti, ormai a prevalere (trionfando con Cass. 5-8-2020, n. 16698, 29-4-2015, n. 8713 e, già, 21-1-2014, n. 1164) una simile concezione, per così dire soggettivistica della intollerabilità della convivenza, fondata su una situazione di “disaffezione e distacco di una delle parti, tale da rendere per essa intollerabile la convivenza”, di cui può essere ritenuta senz’altro “espressione … la presentazione stessa del ricorso e il successivo comportamento processuale”. 12 La portata innovativa della riforma in materia sembra affidata ad una equilibrata utilizzazione, da parte della giurisprudenza, della dichiarazione di addebitabilità. Al riguardo, significativamente, Cass. 9-10-2012, n. 17196, sottolinea “il carattere di eccezionalità dell’addebito”. In una simile direzione sembra muoversi, ad es., già Cass. 28-9-2001, n. 12130, quando ritiene necessario, a tal fine, “accertare se tale violazione abbia assunto efficacia causale nella determinazione della crisi coniugale” (non rilevando, insomma, le condotte, anche gravi, intervenute dopo il maturare della situazione di intollerabilità della convivenza: Cass. 30-5-2014, n. 12812;

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Solo abbastanza di recente, del resto, la giurisprudenza ha ritenuto inammissibile il c.d. mutamento del titolo della separazione, la possibilità, cioè, di chiedere una pronuncia di addebitabilità per comportamenti successivi alla separazione, trasformando una separazione consensuale (o giudiziale senza addebito) in separazione con addebito. Possibilità – incentivo ad una persistente conflittualità e fonte di ricatti nei confronti del coniuge economicamente più debole – che risulta in contrasto con la lettera dell’art. 1512, ove l’ammissibilità della richiesta e della dichiarazione di addebitabilità risulta ristretta al giudizio di separazione 13. La tendenza a disciplinare la separazione personale in modo tale da non esasperare la conflittualità, causa della crisi coniugale, si presenta evidentemente funzionale alla conservazione degli ancora sussistenti elementi di coesione tra i coniugi, in vista di una eventuale ripresa, nella sua pienezza, del consorzio coniugale o, almeno, di successivi rapporti collaborativi, soprattutto nell’interesse dei figli. Una indubbia valorizzazione dei profili di consensualità nella definizione della crisi familiare – anche se in un contesto normativo dichiaratamente funzionale al decongestionamento della giustizia civile, attraverso misure di “degiurisdizionalizzazione” – si è avuta con il ricordato recente intervento del legislatore, tendente a introdurre (con una disciplina concordemente reputata approssimativa, equivoca e, sotto molti profili, lacunosa) due nuove procedure, come dianzi accennato, comuni a separazione personale e divorzio (e utilizzabili anche per la modifica delle relative condizioni) (artt. 6 e 12 D.L. 132/2014, conv. nella L. 162/2014). e gravando “l’onere di provare la condotta” dell’altro coniuge “e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza” sulla parte che richiede l’addebito: Cass. 19-2-2018, n. 3923; nella medesima prospettiva, 5-8-2020, n. 16691, in una fattispecie caratterizzata dalla circostanza che la moglie “dopo le asserite violazioni del dovere di fedeltà da parte del marito, aveva continuato la convivenza con il marito per più di quindici anni”), ad esito di una “comparazione dei comportamenti di entrambi i coniugi, non potendo la condotta dell’uno essere giudicata senza un raffronto con quella dell’altro” (Cass. 14-2-2012, n. 2059; 14-11-2001, n. 14162). Peraltro, “ove i fatti accertati a carico di un coniuge costituiscano violazioni di norme di condotta imperative ed inderogabili – traducendosi nell’aggressione a beni e diritti fondamentali della persona, quali l’incolumità e l’integrità fisica, morale e sociale dell’altro coniuge, ed oltrepassando quella soglia minima di solidarietà e di rispetto comunque necessaria e doverosa per la personalità del partner – essi sono insuscettibili di essere giustificati come ritorsione e reazione al comportamento di quest’ultimo, e si sottraggono anche alla comparazione con tale comportamento” (Cass. 5-8-2004, n. 15101, nonché 22-3-2017, n. 7388 e 19-2-2018, n. 3925, con riferimento, appunto, alla perpetrazione di “violenze fisiche e morali”). Nel mentre non si è mancato di conferire rilevanza alle valutazioni concernenti anche il “periodo di convivenza prematrimoniale” (Cass. 20-6-2013, n. 1546), si sottolinea che, comunque, non può conferirsi alla “eventuale ‘tolleranza’ del coniuge a fronte delle intemperanze” dell’altro (anche se di lunga durata) “una sorta di efficacia di esimente oggettiva (il consenso dell’avente diritto)” (Cass. 20-9-2007, n. 19450, con riguardo ad un rapporto protrattosi per oltre venti anni, nonostante i comportamenti “vessatori e violenti” di uno dei coniugi). Per l’indisponibilità dei valori di rango costituzionale (come quelli “di uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi e di partecipazione paritaria alla conduzione familiare”), si è evidenziato, “ai fini dell’addebito”, che essi, nonostante “l’atteggiamento di tolleranza del coniuge che subisce la lesione dei propri diritti”, “non possono tollerare deroghe in virtù della permanenza, in alcune aree sociali, di quel ruolo gerarchico che legittimava l’autorità del marito nelle società patriarcali” (Cass. 21-4-2015, n. 8094). Circa i doveri coniugali (e, in particolare, quello di fedeltà), la cui violazione viene qui in considerazione, supra, V, 2.9. 13 La svolta si è avuta con Cass. 7-12-1994, 10512, secondo cui “è il rilievo fondante che l’ordinamento attribuisce, ai fini della separazione, all’intollerabilità della convivenza (o al grave pregiudizio all’educazione della prole) che impone che la responsabilità di essa sia accertata solo all’atto del verificarsi della causa di interruzione dell’unione familiare” (e che, quindi, la dichiarazione di addebito sia “richiesta e adottata soltanto nell’ambito del giudizio di separazione”: Cass. 20-3-2008, n. 7450).

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c) La convenzione di negoziazione assistita (art. 6) è conclusa, con l’assistenza di almeno un avvocato per parte, “al fine di raggiungere una soluzione consensuale” di separazione personale (nonché – nell’ipotesi di cui all’art. 31, n. 2, lett. b – di divorzio o di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio). Fondamentale, in tale procedura risulta il ruolo degli avvocati 14: essi, infatti, devono operare un tentativo di conciliazione delle parti, informarli circa la possibilità di esperire la mediazione familiare e, in presenza di figli minori, informarli “dell’importanza per il minore di trascorrere tempi adeguati con ciascuno dei genitori”. Essi devono, altresì, assicurare l’attuazione del necessario l’intervento di controllo in sede giudiziale, nonché adempimenti nei confronti dei competenti uffici dello stato civile. In relazione all’accennato controllo giudiziale, esso si presenta più semplice in assenza di figli (minori, nonché maggiorenni economicamente non autosufficienti, incapaci o portatori di handicap grave). L’accordo dev’essere trasmesso al procuratore della repubblica presso il tribunale competente e, ove non siano riscontrate – secondo l’equivoca terminologia impiegata – irregolarità, viene comunicato agli avvocati, per i successivi adempimenti, un nullaosta. In presenza di figli (rientranti nelle accennate categorie), la procedura risulta più complessa. L’accordo pure sarà trasmesso all’ufficio del pubblico ministero, che ne valuta la rispondenza agli interessi dei figli e, in caso di esito positivo di tale controllo, lo autorizza. In caso di valutazione negativa, l’accordo viene comunicato al presidente del tribunale, che fissa la comparizione delle parti e – come oscuramente disposto – provvede senza ritardo 15. L’accordo produce gli stessi effetti del corrispondente provvedimento giudiziale (di separazione personale, divorzio o modifica delle relative condizioni). d) L’accordo innanzi all’ufficiale dello stato civile (art. 12, specifica “innanzi al sindaco, quale ufficiale dello stato civile”), che contempla l’assistenza facoltativa dell’avvocato, concerne la separazione personale (nonché – nell’ipotesi di cui all’art. 31, n. 2, lett. b, l. div. – il divorzio o la modifica delle condizioni di separazione o di divorzio). Tale proce14 Ad essi, ai sensi dell’art. 52 del D.L. 132/2014, è demandato, in ogni procedura di “negoziazione assistita”, un doveroso controllo circa la conformità dell’accordo alle norme imperative ed all’ordine pubblico, con le conseguenze che qui, allora, si deve ritenere derivarne anche in ordine al non travalicamento dei limiti che incontra l’autonomia dei coniugi in materia di diritti indisponibili (V, 1.5, 2.11, 3.2, 3.5). L’art. 135 L. 206/2021 prospetta un ampliamento delle materie per cui può ricorrersi alla procedura in questione (anche, cioè, in materia “di affidamento e mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio, e loro modifica, e di alimenti”). Peraltro, non risulta accolta nel testo approvato la proposta di demandare agli avvocati “la valutazione di equità di cui all’art. 5, ottavo comma” L. 898/1970 (relativo alla corresponsione, su accordo delle parti, delle contribuzioni post-matrimoniali in unica soluzione: V, 3.5), nonché quella concernente la trascrivibilità degli accordi (e la relativa conservazione da parte dei Consigli dell’ordine degli avvocati). 15 Quasi inutile sottolineare la lacunosità della disciplina, tanto in relazione al contenuto dell’accordo (che, comunque, si tende a ritenere possa corrispondere a quello ammesso in sede di separazione consensuale: è stato puntualizzato da Cass. 21-1-2020, n. 1202 che ove “l’accordo stabilito tra i coniugi ricomprenda anche il trasferimento di uno o più diritti di proprietà su beni immobili … per procedere alla trascrizione dell’accordo è necessaria l’autenticazione del verbale di accordo da parte di un pubblico ufficiale a ciò autorizzato”, con relativa attestazione della “coerenza dei dati catastali con le risultanze dei registri immobiliari e con lo stato di fatto dell’immobile”), quanto, soprattutto, con riguardo alla posizione dei figli, in relazione alla previsione dell’art. 315 bis3 e in stridente contrasto con l’attenzione ad essi riservata, in un’ottica partecipativa, nelle procedure giudiziali (V, 4.10), ai sensi dell’art. 337 octies1 (prevedendosi solo che gli avvocati debbano informare le parti “della possibilità di esperire la mediazione familiare” e “dell’importanza per il minore di trascorrere tempi adeguati con ciascuno dei genitori”).

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dura – di carattere, quindi amministrativo – non è ammessa, però, in presenza di figli (rientranti, anche in questo caso, nelle accennate categorie). Per assicurare il carattere ponderato della loro comune decisione, è stato previsto – in caso di procedura concernente separazione o divorzio – che l’ufficiale dello stato civile, il quale riceve le dichiarazioni dei coniugi, li invita a comparire nuovamente, per confermare l’accordo (la mancata comparizione equivalendo a mancata conferma). Si è previsto – con una formula di discussa portata 16 – che, in questa procedura, “l’accordo non può contenere patti di trasferimento patrimoniale”. Qui, ovviamente, è lo stesso ufficiale dello stato civile a curare i successivi necessari adempimenti. Anche in questo caso, l’accordo produce gli stessi effetti del corrispondente provvedimento giudiziale. La separazione personale, come dianzi accennato, lascia sussistere – sia pure eroso nei suoi contenuti – il vincolo coniugale. Per riconciliazione si intende l’accordo con cui i coniugi fanno cessare gli effetti della separazione, non essendo richiesto, a tal fine, l’intervento giudiziale. Non solo, infatti, è sufficiente una dichiarazione espressa 17, ma il medesimo risultato è conseguibile, addirittura, tacitamente con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione, in quanto attestante, appunto, il ripristino della comunione di vita (art. 1571) 18. La riconciliazione vale a privare di rilevanza quanto verificatosi in precedenza, potendo la separazione essere nuovamente pronunciata solo per fatti e comportamenti intervenuti successivamente ad essa (art. 1572). Interrompe, inoltre, il decorso del periodo di separazione richiesto per il divorzio (ai cui fini, occorrerà, quindi, una nuova procedura di separazione ed il decorso, da essa, del periodo di tempo richiesto).

16 In effetti, dopo un intervento orientato diversamente, il Ministero dell’Interno (al rispetto delle cui indicazioni sono tenuti gli ufficiali dello stato civile), con circolare n. 6/15 del 24.4.2015, ha disposto che l’accordo può contenere la previsione – insindacabile da parte dell’ufficiale dello stato civile – di un assegno (di mantenimento o di divorzio), nonché, in sede di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio, una sua diversa quantificazione o attribuzione ex novo, solo restando esclusa, quindi, la relativa liquidazione una tantum (ed è da ritenere, in genere, ogni attribuzione consentita in sede di separazione consensuale e di divorzio su domanda congiunta). Una simile prospettiva ha trovato conferma da parte di Cons. Stato, sez. III, 27-10-2016, n. 4478, in chiave di “valorizzazione dell’autonomia privata anche nella fase della crisi matrimoniale” (e una volta reputata, nel vigente assetto legislativo, comunque complessivamente a sufficienza salvaguardata la posizione del “coniuge economicamente ‘più debole’”). 17 Ai sensi dell’art. 631 D.P.R. 3.11.2000, n. 396, la dichiarazione in questione è iscritta nell’archivio informatico del comune, mentre l’art. 69, lett. f, ne dispone l’annotazione nell’atto di matrimonio. Tale forma di pubblicità è stata ritenuta da Cass. 5-12-2003, n. 18619, necessaria, al fine di rendere opponibile ai terzi il ripristino, in dipendenza della riconciliazione, del regime di comunione legale, venuto meno in conseguenza della separazione (V, 2.12). 18 Cass. 12-1-2012, n. 334, sottolinea che “la dichiarazione espressa di riconciliazione dei coniugi separati”, considerata quale “convenzione di diritto familiare, alla quale sono applicabili i principi generali in tema di formazione del consenso”, ha efficacia riconciliativa autonoma rispetto al comportamento delle parti” (a nulla rilevando, quindi, che, per qualsiasi motivo, “l’effettiva ripresa della convivenza non sia seguita”). Ai fini della riconciliazione “per fatti univocamente incompatibili con la separazione”, l’accento viene posto sulla “concretezza degli atti, dei gesti e dei comportamenti posti in essere dai coniugi, valutati nella loro effettiva capacità dimostrativa della disponibilità alla ripresa e alla costituzione di una rinnovata comunione”, non essendo “sufficiente una mera ripresa della coabitazione, di carattere temporaneo ed occasionale” (Cass. 24-12-2013, n. 28655). Nel giudizio di separazione, l’accertamento dell’intervenuta riconciliazione “può avvenire anche d’ufficio da parte del giudice”, a differenza che nel procedimento di divorzio, in cui la “interruzione della separazione deve essere eccepita dal convenuto” (Cass. 9-6-2015, n. 11885).

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3. Effetti della separazione personale. – Come accennato, la disciplina vigente si presenta fondata su una articolazione della crisi coniugale tra separazione e divorzio, alla luce della quale la separazione personale non può non ritenersi conservare, nella sua transitorietà, una propria autonomia funzionale rispetto al divorzio: sembra contraddittoria, quindi, ogni assimilazione, in via interpretativa, delle relative conseguenze. Non può, cioè, per coerenza col sistema legislativo attuale, svuotarsi di ogni contenuto la persistenza – a seguito della separazione a differenza che del divorzio – del vincolo coniugale. La separazione determina, con la cessazione della convivenza, una modificazione del rapporto coniugale, soprattutto con riguardo ai rapporti personali. Contro la diffusa tendenza a considerare, in dipendenza di essa, totalmente estinti i doveri di natura personale, è da ritenere che permanga – in quel periodo che l’ordinamento assume come necessaria fase di riflessione – tra i coniugi un rapporto solidaristico, destinato a cessare solo col divorzio (ed il conseguente riacquisto dello stato libero), i cui riflessi sul piano patrimoniale sono espressione di un rapporto personale ancora rilevante, alla luce del quale doverosa si presenta l’assistenza morale, oltre che quella materiale, ed operante un peculiare dovere di rispetto reciproco 19. Sicuramente coerenti con la situazione di cessazione della convivenza in cui si risolve la separazione sono, sul piano personale, il venir meno della presunzione di concepimento durante il matrimonio (art. 2322), nonché l’esclusione della possibilità di adozione, ai sensi dell’art. 61 L. 4.5.1983, n. 184; su quello patrimoniale, lo scioglimento della comunione legale (art. 1911). La separazione, a conferma della sopravvivenza del rapporto coniugale, non priva la moglie del diritto all’uso del cognome del marito, salvo divieto giudiziale, quando tale uso sia a lui gravemente pregiudizievole. Il giudice può autorizzare, nelle stesse condizioni, la moglie a non farne uso (da ritenere, quindi, per lei, in linea di principio, doveroso) (art. 156 bis). Se con la separazione, venendo meno la convivenza, si ritiene cessare il dovere (reciproco) di contribuzione, sulle sue ceneri, in considerazione del vincolo solidaristico ed assistenziale che continua a legare i coniugi, sorge il dovere di sopperire alle esigenze del coniuge economicamente meno provveduto. Al coniuge cui non sia addebitabile la separazione spetta, così, un assegno di mantenimento, qualora non abbia adeguati redditi propri, dovendosi determinare l’entità della somministrazione in rapporto alle risorse 19 Se Cass. 7-12-1994, n. 10512, anche per argomentare l’inammissibilità del mutamento del titolo della separazione, sostiene che “non sussistono più a carico dei coniugi separati gli obblighi di carattere morale derivanti dal matrimonio”, la Corte costituzionale ha chiarito che la separazione costituisce “in conformità alla sua natura … una semplice fase del rapporto coniugale” (14-11-2000, n. 491) e che “la cessazione della convivenza non comporta immediatamente ed automaticamente il totale venir meno della comunione materiale e spirituale di vita e la separazione legale introduce una fase di sospensione della convivenza – con la permanenza di diritti e di obblighi – e di riflessione sulla possibilità di ripristinarla”, in cui sono destinati a persistere “il contributo personale e le esigenze di solidarietà” (24-1-1991, n. 23). Peraltro, con un giudizio di valore che sembra non del tutto aderente al persistentemente vigente complessivo quadro normativo dell’istituto, considerano “oggi ampiamente superata” una simile impostazione, ritenendo rappresentare la separazione “il momento della sostanziale esautorazione dei principali effetti del vincolo matrimoniale”, Cass. 4-4-2014, n. 7981 e 20-8-2014, n. 18078 (le quali, di conseguenza, concludono nel senso che la sospensione della prescrizione, di cui all’art. 2941, n. 1, non si applica ai coniugi legalmente separati, comunque contro l’avviso, ancora, di Cass. 1-4-2014, n. 7533, che si richiama all’insegnamento, in materia, di Corte cost. 19-2-1976, n. 35).

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economiche dell’altro coniuge (art. 1561-2). Per la valutazione della disparità economica tra i due coniugi, occorre tenere presente la situazione patrimoniale complessiva di ciascuno, da ritenere comprensiva non solo dei redditi ma anche dei cespiti (soprattutto se facilmente monetizzabili) e di ogni altra utilità a disposizione (non essendo da trascurare, in particolare, le concrete attitudini e potenzialità in campo lavorativo). L’obiettivo è quello di consentire al coniuge economicamente più debole la conservazione di un tenore di vita analogo a quello goduto in precedenza 20: la persistente rilevanza del vincolo coniugale si fa avvertire in pieno – oltre che nella conservazione dei diritti successori (su cui v. più oltre) – nella tendenza ad ammettere il coniuge più debole a partecipare all’evoluzione positiva, successivamente alla separazione, della situazione economica dell’altro 21. L’ammessa rivedibilità del contributo riconosciuto in sede di separazione (art. 1567) assicura il perseguimento di un simile obiettivo (proteggendo, peraltro, 20 Cass. 26-11-1996, n. 10465 (v. pure, ad es., 7-2-2006, n. 2626 e 4-4-2002, n. 4800), ha precisato, anzi, accentuando la valenza partecipativa di tale prestazione, che il tenore di vita rilevante quale parametro di riferimento dell’assegno di mantenimento “è quello offerto dalle potenzialità economiche dei coniugi, non già quello tollerato o subito o anche concordato con l’adozione di particolari criteri di suddivisione delle spese familiari e di disposizione dei redditi personali residui”: quello consono, insomma, all’effettiva “posizione economica” del coniuge più abbiente (Cass. 30-3-2009, n. 7614 e 18-8-1994, n. 7437). Che, ai fini dell’attribuzione dell’assegno al coniuge separato, criterio decisivo sia quello del mantenimento del “tenore di vita analogo a quello offerto dalle potenzialità economiche dei coniugi”, ha ribadito anche di recente Cass. 16-5-2017, n. 12196, sottolineandone, peraltro, la “sostanziale diversità” rispetto all’assegno divorzile (in quanto esso, a differenza di quest’ultimo, “presuppone la permanenza del vincolo coniugale”: e v., infatti, nello sviluppo della stessa – invero per i suoi protagonisti nota – vicenda, la negazione del diritto all’assegno di divorzio, da parte di App. Milano 16-11-2017, confermata da Cass. 30-8-2019, n. 21926, una volta accertata “un’attuale condizione non solo di autosufficienza, ma di benessere economico, tale da consentire un tenore di vita elevatissimo”). Circa la delicata questione concernente la portata degli oneri di attivazione professionale gravanti sul coniuge, al fine di sopperire alle proprie esigenze economiche dopo la separazione, v., da ultimo, Cass. 4-3-2021, n. 5932. Pure in relazione all’assegno di mantenimento, si tende, come con riguardo a quello di divorzio (V, 4.5), a negarne l’attribuzione, nel caso in cui, dopo il matrimonio, non si sia “instaurata alcuna comunione di vita” (Cass. 10-1-2018, n. 402 e 26-3-2015, n. 6164). Circa l’incidenza della convivenza intrapresa dal coniuge sul suo diritto all’assegno di mantenimento, Cass. 27-6-2018, n. 16982, ha concluso che tale diritto può “essere negato o eliminato se il coniuge debitore dimostri che l’altro coniuge abbia instaurato una convivenza more uxorio con altra persona che assuma i caratteri della stabilità, continuatività ed effettiva progettualità di vita” (salvo che “il coniuge richiedente l’assegno” dimostri “che quella convivenza non influisca in melius sulle proprie condizioni economiche”). Peraltro, Cass. 19-12-2018, n. 32871, ha ritenuto che “anche in caso di separazione legale dei coniugi, e di formazione di un nuovo aggregato familiare di fatto ad opera del coniuge beneficiario dell’assegno di mantenimento, si opera una rottura tra il preesistente tenore e modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza familiare ed il nuovo assetto fattuale avente rilievo costituzionale”, “con il conseguente riflesso incisivo dello stesso diritto alla contribuzione periodica, facendola venire definitivamente meno”. La persistenza del diritto all’assegno di mantenimento è stata negata anche in assenza di una “stabile convivenza” con altri, ove si sia dato vita, comunque, ad una relazione di vita qualificabile quale “famiglia di fatto” (integrando “il legame una comunione di vita interpersonale”: Trib. Como 12-4-2018). Simili esiti giurisprudenziali, indubbiamente, dovranno essere comunque verificati – pur tenendo presente la diversità delle situazioni conseguenti alla separazione e al divorzio, nonché della natura e presupposti delle contribuzioni radicate nelle situazioni stesse – alla luce dell’atteggiamento che Cass., sez. un., 5-11-2021, n. 32198 ha assunto in ordine alla questione dell’incidenza della convivenza da parte dell’ex coniuge sul suo diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio (V, 3.5). 21 È in tale prospettiva che Cass. 22-4-1998, n. 4094, ha sottolineato come, durante la separazione, non venga “meno la solidarietà economica che lega i coniugi durante il matrimonio e che comporta la condivisione delle reciproche fortune nel corso della convivenza”, con conseguente possibile modifica dell’assegno in questione in caso di “notevole incremento dei redditi di uno dei coniugi, verificatosi successivamente alla separazione”.

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anche il coniuge obbligato, tanto nel caso di modificazione peggiorativa delle sue condizioni economiche, quanto in quello di un eventuale miglioramento delle condizioni economiche dell’altro). All’assegno di mantenimento viene, poi, applicata, in via analogica, la disposizione dettata per l’assegno di divorzio (art. 57 L. 1.12.1970, n. 898), relativa all’adeguamento monetario automatico in dipendenza della svalutazione. È da ricordare come l’art. 1564-6 preveda pure incisive garanzie per la corresponsione dei contributi dovuti in conseguenza della separazione (in particolare, il sequestro dei beni dell’obbligato e l’ordine giudiziale di pagamento rivolto a terzi, a loro volta, suoi debitori) 22. Inoltre, l’art. 570 bis c.p. sanziona penalmente, in quanto tale, la violazione degli “obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi”. Il coniuge cui sia stata addebitata la separazione non gode, invece, del diritto all’assegno di mantenimento, potendo vedersi attribuire solo un più esiguo assegno alimentare, se versi (o venga successivamente a versare) in condizione di bisogno, secondo la generale disciplina dettata, per gli alimenti, dagli artt. 433 ss. (art. 1563) 23. Si tratta di una conseguenza di notevole rilevanza della dichiarazione di addebitabilità, in considerazione della diversità sia delle condizioni che consentono, rispettivamente, l’attribuzione dell’assegno di mantenimento e di quello alimentare, sia della relativa entità. Evidente è lo stimolo alla conflittualità che ne deriva, accresciuta dai gravi riflessi che l’addebito ha, per il coniuge nei cui confronti viene pronunciato, sotto il profilo successorio. Mentre, infatti, il coniuge cui non è addebitata la separazione – secondo una scelta del legislatore sicuramente significativa sul piano della complessiva configurazione dell’istituto – continua a godere in pieno dei diritti successori che gli derivano dalla qualità, appunto, di coniuge (artt. 5481 e 5851), quello al quale la separazione sia stata addebitata ha diritto solo ad un assegno vitalizio, ove al momento della morte dell’altro coniuge goda degli alimenti a suo carico. Tale assegno (da commisurare alle sostanze ereditarie ed alla qualità e al numero degli eredi legittimi) non può, inoltre, essere di ammontare superiore a quello alimentare goduto in precedenza (artt. 5482 e 5852). 22 L’art. 1414-416 della L. 28.12.2015, n. 208 (per la cui attuazione è stato emanato il D.M. 15.12.2016), ha previsto, in linea con talune esperienze straniere, “in via sperimentale” e con una dotazione, invero, esigua, un “Fondo di solidarietà a tutela del coniuge in stato di bisogno”, destinato ad aiutare “il coniuge in stato di bisogno che non è in grado di provvedere al mantenimento proprio e dei figli minori, oltre che dei figli maggiorenni portatori di handicap grave, conviventi, qualora non abbia ricevuto l’assegno determinato ai sensi dell’articolo 156 del codice civile per inadempienza del coniuge che vi era tenuto” (ad esito di un’apposita procedura giudiziale e salvo rivalsa “sul coniuge inadempiente per il recupero delle risorse erogate”). In proposito, a prescindere dall’erroneità del riferimento all’art. 156 per le esigenze di mantenimento dei figli, sicuramente criticabile risulta l’essersi trascurata la situazione, nella pratica più ricorrente e grave, conseguente all’omesso pagamento, da parte dell’ex coniuge tenutovi, dell’assegno di divorzio. 23 Si ricordi come la giurisprudenza, da qualche tempo, tenda a non esaurire, in sede di separazione personale, sul piano della pronuncia di addebito (e dei relativi riflessi economici) le conseguenze della violazione dei doveri coniugali, eventualmente sanzionando il comportamento del coniuge responsabile anche con l’applicazione del generale strumento risarcitorio (in aggiunta all’addebito e, addirittura, indipendentemente da esso: V, 2.9). Precisa, in proposito, Cass. 8-9-2014, n. 18870, che “le domande di risarcimento dei danni e di separazione personale con addebito sono soggette a riti diversi e non sono cumulabili nello stesso giudizio”. Si ritiene che anche al coniuge separato al quale sia stata addebitata la separazione spetti la pensione di reversibilità (“indipendentemente che versi o meno in stato di bisogno” e dall’attribuzione di un assegno: Cass. 2-2-2018, n. 2606, in linea, ad es., con Cass. 12-5-2015, n. 9649).

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4. Divorzio. – Difficile è stato, nel nostro ordinamento, il passaggio, con la L. 1.12.1970, n. 898, dal regime di indissolubilità del matrimonio a quello di dissolubilità: l’esigenza di rendere meno traumatico possibile un simile passaggio ha finito col condizionare molte scelte in proposito, addirittura sconsigliando lo stesso impiego del termine “divorzio” nella relativa legislazione, non a caso lasciata fuori del codice civile, nell’iniziale incertezza, oltretutto, della sua sorte (chiarita dal referendum del 12.5.1974, oltre che da numerosi interventi della Corte costituzionale). Il matrimonio, secondo il vigente art. 149, si scioglie con la morte di uno dei coniugi e negli altri casi previsti dalla legge (nel testo originario, invece, era presa in considerazione solo la morte). Alla “disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio” è intitolata, appunto, la legge ricordata, la quale distingue la pronuncia di scioglimento del matrimonio civile (art. 1) da quella di cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio concordatario (art. 2), per chiarire che il provvedimento giudiziale incide qui non sull’atto, ma sugli effetti del matrimonio (cioè sul rapporto). Ciò soprattutto, in considerazione della peculiarità del nostro sistema matrimoniale (V, 2.2), per fugare ogni dubbio di legittimità costituzionale in ordine all’intervento statale in materia, in presenza delle competenze riconosciute dalla disciplina concordataria (garantita dall’art. 7 Cost.) alla Chiesa in ordine all’atto matrimoniale ed all’accertamento della relativa validità 24. Il modello di divorzio accolto nel nostro ordinamento ed il suo fondamento si colgono nell’essere la relativa pronuncia conseguente all’accertamento “che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita” (artt. 1 e 2). Un tale modello, che vede il divorzio quale presa d’atto dell’irreversibilità della crisi del rapporto coniugale e rimedio alla sua definitiva frattura (c.d. divorzio-rimedio), si contrappone a quello tendente a configurarlo quale sanzione per la violazione dei doveri matrimoniali (c.d. divorzio-sanzione). Proprio una simile concezione del divorzio – ovunque ormai trionfante, in quanto legata alla valorizzazione, nell’esperienza familiare, dell’effettività della comunione di vita 25 – ha consentito, del resto, la conclusione nel senso della legittimità dell’istituto, pur in presenza della garanzia costituzionale della famiglia e del matrimonio, di cui all’art. 29 Cost. 26. 24

La Corte costituzionale (5-4-1971, n. 169 e 11-12-1973, n. 176), onde escludere ogni violazione degli accordi con la Chiesa circa la disciplina della forma matrimoniale concordataria, ha evidenziato che “lo Stato ha assunto unicamente l’impegno di riconoscere al matrimonio contratto secondo il diritto canonico, e regolarmente trascritto, gli stessi effetti civili del matrimonio celebrato davanti all’ufficiale dello stato civile: libero restando, peraltro, di regolare tali effetti, anche quanto alla loro permanenza nel tempo ed ai limiti che questa, secondo il suo proprio diritto, può incontrare in casi determinati”. 25 La prospettiva del divorzio quale rimedio alla definitiva frattura coniugale è evocata anche dalla terminologia, al riguardo, altrove impiegata (marital breakdown, Zerrüttungsprinzip). Sempre più diffusa nei diversi ordinamenti, comunque, è la tendenza a valorizzare l’accordo dei coniugi ai fini della constatazione del carattere irreversibile della crisi matrimoniale, con la conseguenza di accreditare – in vista dell’esigenza di rendere rapide le procedure dirette alla dissoluzione del vincolo coniugale – modelli di vero e proprio divorzio consensuale. Nel nostro ordinamento, anche alla luce delle recenti riforme dell’istituto (su cui v. oltre), l’accordo dei coniugi risulta destinato ad operare – fermo restando il regime delle relative cause – solo sui suoi aspetti procedurali (peraltro, fino al punto di autorizzare ad escludere, in presenza di talune condizioni, lo stesso carattere giurisdizionale della procedura). 26 Dato che, secondo quanto sottolinea Corte cost. 22-7-1976, n. 181, “la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio è una realtà sociale e giuridica che presuppone, richiede e comporta che tra i soggetti che ne costituiscono il nucleo essenziale, e cioè tra i coniugi, esista e permanga la comunione spiri-

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La pronuncia di divorzio – una volta esperito il tentativo di conciliazione 27 – richiede la necessaria ricorrenza di una delle cause elencate (tassativamente) nell’art. 3 (in modo, invero, alquanto asistematico) 28. Su di esse ha inciso la riforma del divorzio operata con la L. 6.3.1987, n. 74, la quale, in particolare, ha abbreviato il periodo di separazione personale, il cui decorso rappresenta, nella più gran parte dei casi, la causa su cui si basa, appunto, la pronuncia (valendo, evidentemente, la persistenza della separazione, al di là del tempo reputato dall’ordinamento necessario per un’adeguata riflessione delle parti in ordine alla sorte del proprio rapporto matrimoniale, ad attestare l’irreversibilità della relativa frattura). Il periodo di separazione è stato, poi, ulteriormente e drasticamente abbreviato – oltre che differenziato – dall’art. 1 L. 6.5.2015, n. 55. La separazione legale rappresenta, dunque, la più diffusa causa di divorzio (la separazione di fatto rileva solo se iniziata almeno due anni prima del 18 dicembre 1970). Essa deve essersi protratta ininterrottamente 29 per almeno dodici mesi dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale 30, ovvero per sei mesi nel caso di separazione consensuale. Il decorso del termine finisce col coincidere, quindi, con lo svolgimento della procedura di separazione, la quale deve risultare anche conclusa prima della domanda di divorzio (col passaggio in giudicato della relativa sentenza o con la omologazione della separazione consensuale) (art. 3, n. 2, lett. b) 31. tuale e materiale”, coerentemente Cass., sez. un., 26-4-1974, n. 1194, ha concluso che il riconoscimento e la protezione della famiglia “restano condizionati alla persistenza del nucleo familiare come realtà naturalmente operante, venuta meno la quale, la tutela costituzionale cessa di operare”. 27 Peraltro, l’esperimento di un tale tentativo, già reputato di dubbia configurabilità in caso di domanda congiunta di divorzio (in senso senz’altro negativo, Cass. 2-5-2018, n. 10463), risulta non più previsto nelle nuove procedure stragiudiziali (circa le quali, v. infra). Si tenga presente che l’art. 123, lett. hh, della L. 206/2021, nel prospettare l’introduzione di “un unico rito per i procedimenti su domanda congiunta di separazione personale dei coniugi, di divorzio e di affidamento dei figli nati fuori del matrimonio modellato sul procedimento previsto dall’art. 711 c.p.c.”, contempla “la possibilità che l’udienza per il tentativo di conciliazione delle parti si svolga con modalità di scambio di note scritte e che le parti possano a tal fine rilasciare una dichiarazione contenente la volontà di non volersi riconciliare”. 28 La giurisprudenza ha persistentemente sostenuto il carattere autonomo dell’accertamento concernente la irreversibilità della crisi del rapporto coniugale (dell’accertamento, cioè, del presupposto del divorzio, quale risulta configurato ai sensi degli artt. 1 e 2: ad es., Cass. 3-8-1990, n. 7799 e 6-11-1986, n. 6485), ma ha finito, poi, col privare un simile accertamento di qualsiasi contenuto sostanziale, ritenendolo implicitamente provato dalla durata medesima della separazione (causa del divorzio, secondo l’art. 3, n. 2, lett. b) o dallo stesso comportamento processuale delle parti (come, in particolare, il fallimento del tentativo di conciliazione). 29 Non deve essere, quindi, intervenuta riconciliazione (V, 3.3) tra i coniugi (v., ad es., Cass. 14-9-2017, n. 21345). Si prevede che l’eventuale interruzione della separazione debba essere eccepita dalla parte convenuta. 30 L’art. 124 del D.L. 132/2014 (conv. nella L. 162/2014) ha integrato tale disposizione, facendo riferimento, come termine iniziale, in alternativa, “dalla data certificata nell’accordo di separazione raggiunto a seguito di negoziazione assistita da un avvocato ovvero dalla data dell’atto contenente l’accordo di separazione concluso innanzi all’ufficiale di stato civile”. 31 La necessità del passaggio in giudicato del provvedimento di separazione potrebbe comportare – soprattutto in considerazione della drastica abbreviazione del periodo di tempo richiesto – un allungamento dei tempi necessari per il divorzio, soprattutto nel caso in cui, nell’ambito della procedura di separazione (giudiziale), vi sia controversia circa l’addebitabilità. Per evitare un simile inconveniente, la giurisprudenza aveva sancito, da una parte, l’ammissibilità di una c.d. sentenza parziale di separazione (una volta passata in giudicato, idonea a rendere proponibile la domanda di divorzio), con prosecuzione del processo solo sull’eventuale richiesta di addebito (Cass., sez. un., 3-12-2001, n. 15248); dall’altra, il passaggio in giudicato del capo sulla separazione, in caso di “impugnazione proposta con esclusivo riferimento all’addebito contro la sentenza che

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Inoltre, il divorzio può essere chiesto da uno dei coniugi quando l’altro sia stato condannato, dopo la celebrazione del matrimonio, con sentenza passata in giudicato (anche per fatti precedenti), all’ergastolo o a pena superiore a quindici anni, ovvero a qualsiasi pena detentiva per incesto, per reati sessuali, per reati connessi alla prostituzione, per reati gravissimi contro la persona del figlio o dello stesso coniuge, per reati contro l’assistenza familiare (art. 3, n. 1, lett. a, b, c, d). In tutte queste ipotesi, la domanda non è proponibile in caso di concorso nel reato e ove la convivenza coniugale sia ripresa. Il divorzio può essere chiesto, poi, anche se l’altro coniuge è stato assolto per infermità di mente da taluni dei delitti dianzi accennati (art. 3, n. 2, lett. a), nonché nel caso di estinzione del reato per gli stessi delitti (art. 3, n. 2, lett. c) e di procedimento per incesto per il quale non vi sia stata condanna per carenza del “pubblico scandalo” (art. 3, n. 2, lett. d). Altre cause di divorzio sono rappresentate: dall’avere l’altro coniuge, cittadino straniero, ottenuto all’estero l’annullamento del matrimonio o il divorzio, ovvero contratto all’estero nuovo matrimonio (art. 3, n. 2, lett. e); dalla mancata consumazione del matrimonio (art. 3, n. 2, lett. f ) 32; dall’essere passata in giudicato sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso, a norma della L. 14.4.1982, n. 164 (art. 3, n. 2, lett. g: IV, 2.11). Con tale ultima previsione, si è inteso riportare nell’alveo della disciplina generale del divorzio la previsione dell’art. 4 della legge citata, per cui “la sentenza di rettificazione di sesso … provoca lo scioglimento del matrimonio” (lo “determina”, secondo la terminologia impiegata dall’art. 31 D.Lgs. 1.9.2011, n. 150) 33. abbia pronunciato la separazione ed al contempo ne abbia dichiarato l’addebitabilità” (Cass., sez. un., 412-2001, n. 15279). Indirizzo confermato da Cass. 1-8-2008, n. 21001. Comunque, l’art. 709 bis c.p.c., introdotto dalla L. 14.5.2005, n. 80, ha previsto espressamente la possibilità di una sentenza non definitiva di separazione (suscettibile di passare in giudicato, ai fini del divorzio), con continuazione del giudizio “per la richiesta di addebito, per l’affidamento dei figli o per le questioni economiche”. Per evitare – diffusamente reputati inutili – tempi di attesa, non si è mancato di ipotizzare, almeno in taluni casi (ricorso congiunto in assenza di figli minori o equiparati), un divorzio immediato (senza, cioè, necessità di un previo provvedimento di separazione personale): il relativo D.D.L. n. 1504 bis della XVII legislatura, però, non ha avuto seguito. L’art. 123, lett. bb, L. 206/2021 contempla la possibilità di cumulare in uno stesso processo la domanda di separazione e quella di divorzio, precisando, comunque, che “quest’ultima sia procedibile solo all’esito del passaggio in giudicato della sentenza parziale che abbia pronunciato la separazione e fermo il rispetto del termine previsto dall’articolo 3, della legge 1° dicembre 1970, n. 898”. 32 L’ipotesi fu introdotta per sanare la sperequazione tra cittadini, conseguente all’applicabilità, nell’originario regime concordatario, dello scioglimento – a seguito di dispensa ecclesiastica resa efficace nell’ordinamento civile – del matrimonio rato e non consumato solo per coloro che avessero contratto il matrimonio nella forma concordataria. La relativa disciplina, dichiarata illegittima da Corte cost. 2-2-1982, n. 18, non risulta ripresa dall’accordo di revisione del Concordato del 1984. Cass. 10-5-2005, n. 9801, alla luce dell’ammessa sanzionabilità con il risarcimento del danno delle violazioni dei doveri matrimoniali (V, 2.9), in caso di divorzio per inconsumazione ha ritenuto possibile la condanna del coniuge (marito), il quale abbia in mala fede taciuto prima del matrimonio la sua incapacità coeundi, al risarcimento del danno subito dall’altro coniuge, “per lesione del diritto fondamentale a realizzarsi pienamente nella famiglia e nella società come donna, come moglie ed eventualmente come madre”. 33 Cass. 6-6-2013, n. 14329, ha ritenuto – seguendo, peraltro, una tesi non da tutti condivisa – ricollegabile a tale previsione (anche quale risultante a seguito dell’art. 31 D.Lgs. 150/2011) l’“operatività automatica” dello scioglimento del matrimonio in conseguenza del passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione: di qui il sospetto di illegittimità costituzionale, corroborato dall’esame della giurisprudenza costituzionale di altri paesi e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo, date le “conseguenze irreparabili sulla conservazione del vincolo anche nei confronti dell’altro coniuge”. Corte cost. 11-6-2014, n. 170, muovendo dall’impostazione di Corte cost. 138/2010 (V, 1.4), ha concluso – condividendo la premessa dei giudici rimettenti, rappresentata dalla conseguente automaticità dello scioglimento del matrimonio – nel senso della illegittimità

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Notevoli sono state, pure in sede di riforma del 1987, le remore nei confronti della valorizzazione – secondo una tendenza indubbiamente sempre più diffusa altrove – dell’elemento consensuale in relazione allo scioglimento del matrimonio, temendosi uno snaturamento dell’esistente (dianzi accennato) modello di divorzio. Quale soluzione di compromesso, è stata consentita la proposizione di una domanda congiunta di divorzio, “che indichi anche compiutamente le condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici” (art. 416) 34: da essa non viene fatta dipendere un’abbreviazione del necessario periodo di separazione, ma una mera semplificazione della procedura di divorzio. Non si è, così, introdotto un divorzio consensuale, dato che “i presupposti di legge”, la cui ricorrenza il tribunale deve verificare (non risultando, cioè, il giudice vincolato dall’accordo delle parti, a differenza che nella separazione consensuale), sono le cause previste in generale dall’art. 3. Si è inteso, piuttosto, offrire una via più rapida della procedura ordinaria, quando l’infruttuoso trascorrere del periodo di separazione convinca della irreversibilità della frattura coniugale, indirizzando le parti nel senso di una gestione concordata delle conseguenze della – appunto concordemente perseguita – dissoluzione del della disciplina in questione, data la mancanza, nel caso in cui entrambi i coniugi richiedano “di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato”, di un’“altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia”: “compito del legislatore” essendo, allora, quello, “di introdurre” – “con la massima sollecitudine” – una “forma alternativa (e diversa dal matrimonio) che consenta ai due coniugi di passare da uno stato di massima protezione giuridica ad una condizione di assoluta indeterminatezza”. Così, Cass. 21-4-2015, n. 8097, pur ritenendo che le conclusioni della Corte costituzionale siano di ostacolo alla “estensione del modello di unione matrimoniale alle unioni omoaffettive”, ha ammesso i coniugi ad una provvisoria “conservazione dello statuto dei diritti e dei doveri propri del modello matrimoniale”, fino all’intervento del legislatore con una “nuova regolamentazione”, atta a “colmare il deficit di tutela” esistente (e v. anche Trib. Roma 3-5-2016). L’art. 127 L. 76/2016, nel contesto della disciplina delle “unioni civili” (e in attuazione delle indicazioni di Corte cost. 170/2014), prevede ora, nel caso in cui i coniugi abbiano manifestato la volontà di non far venir meno il loro rapporto, “l’automatica instaurazione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso” (e si tenga presente come Corte eur. dir. uomo 14-12-2017 abbia reputato – implicitamente legittimando il meccanismo accennato – la nuova disciplina delle unioni civili tale da “offrire più o meno la stessa protezione rispetto al matrimonio con riguardo alle esigenze fondamentali di una coppia in stabile ed impegnativa relazione”). 34 L’art. 4, disciplinante la procedura di divorzio, è stato ulteriormente modificato dalla L. 80/2005, dopo la sua rilevante “semplificazione”, dichiaratamente perseguita – come si legge nella relativa relazione – nel contesto della riforma del 1987. Tra le disposizioni acceleratorie più significative, è da annoverare quella dell’art. 412 (secondo la nuova numerazione dei commi conseguente alla novellazione dell’art. 4), per cui, nel caso che il processo debba continuare (esclusivamente) per la definizione dell’assegno (ma anche, in genere, con riguardo alle questioni concernenti i rapporti, patrimoniali e non, con i figli, alla luce dell’interpretazione estensiva accreditata già da Cass. 18-4-1991, n. 4193 e Cass. 20-2-1996, n. 1314), il tribunale emette sentenza non definitiva relativa allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio (contro cui è ammesso solo appello immediato), suscettibile di passare autonomamente in giudicato (con conseguente applicazione del regime previsto dall’art. 10). Risolvendo un contrasto di giurisprudenza sul punto, Cass., sez. un., 24-6-2022, n. 20494 – preso atto che, “pur dopo il decesso del coniuge in corso di causa, un interesse di fatto alla prosecuzione del giudizio possa esistere in capo al coniuge aspirante all’assegno divorzile a vari fini, estranei di per sé al processo stesso: per conseguire l’assegno periodico a carico dell’eredità ai sensi dell’art. 9bis l. n. 898 del 1970; per costituirsi il presupposto ai fini dell’attribuzione della pensione di reversibilità ex art. 9 l. 898 del 1970; oppure quale premessa per la quota di indennità di fine rapporto dell’altro coniuge ex art. 12-bis l. 898 del 1970” (infra, V, 3.5) – ha concluso che “nel caso di pronunzia parziale di divorzio sullo status, con prosecuzione del giudizio al fine dell’attribuzione dell’assegno divorzile, il venir meno di un coniuge nel corso del medesimo non ne comporta la declaratoria di improseguibilità, ma il giudizio può proseguire nei confronti degli eredi, per giungere all’accertamento della debenza dell’assegno dovuto sino al momento del decesso” (decorrendo “il diritto a percepire l’assegno … dal passaggio in giudicato della sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio”).

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matrimonio, quale soluzione atta a meglio evitare presenti e future conflittualità (anche nell’interesse dei figli). Il procedimento di divorzio su domanda congiunta si svolge con rito abbreviato (“in camera di consiglio”): il tribunale, sentiti i coniugi, verificata l’esistenza dei presupposti di legge e valutata la rispondenza delle condizioni concordate all’interesse dei figli, decide con sentenza (con la quale vengono disposti, sulla base degli accordi, i provvedimenti concernenti i coniugi ed i loro rapporti con i figli). Ove, peraltro, il tribunale ravvisi che le condizioni concordate relativamente ai figli siano in contrasto con i loro interessi, il procedimento prosegue con la procedura ordinaria 35. Pure sul solo profilo procedurale (e non, quindi, sulla necessaria sussistenza dei presupposti del divorzio) 36 ha inciso – con l’introduzione della procedura di convenzione di negoziazione assistita (art. 6) e di quella di accordo innanzi all’ufficiale di stato civile (art. 12), limitatamente alla ipotesi di cui all’art. 31, n. 2, lett. b – l’intervento operato con il D.L. 132/2014 (conv. con la L. 162/2014), già preso in considerazione, in quanto comune alla materia della separazione personale (per cui v. il relativo esame supra, V, 3.2).

5. Effetti del divorzio. – Il tribunale, con l’intervento obbligatorio del pubblico ministero, pronuncia (in ogni caso) con sentenza lo scioglimento del matrimonio, ordinando la relativa annotazione all’ufficiale dello stato civile competente (art. 51). Il divorzio, infatti, ha “efficacia, a tutti gli effetti civili, dal giorno dell’annotazione della sentenza” (art. 102) 37. Da tale momento, riacquistato lo stato libero, ciascuno degli ex coniugi può contrarre nuove nozze. In conseguenza del divorzio, la donna perde il cognome del marito (aggiunto al proprio in dipendenza del matrimonio) (art. 52), ma può essere autorizzata (dal tribunale nella sentenza di divorzio) a conservarlo, ove sussista un interesse meritevole di tutela suo o dei figli (art. 53) 38. 35 Opera una netta differenziazione della procedura di divorzio su domanda congiunta (“l’accordo sotteso alla relativa domanda” rivestendo “natura meramente ricognitiva con riferimento ai presupposti necessari per lo scioglimento del vincolo coniugale”), rispetto a quella di separazione consensuale, Cass. 24-7-2019, n. 19540 (in adesione all’impostazione di Cass. 10463/2018), con la conseguenza dell’esclusione della revocabilità unilaterale del consenso e la possibilità, per il tribunale, di “provvedere ugualmente all’accertamento dei presupposti per la pronuncia di divorzio”, nonché “all’esame delle condizioni concordate dai coniugi, valutandone la conformità a norme inderogabili ed agli interessi dei figli”. 36 Anche se appare chiaro quanto una simile (consentita) degiurisdizionalizzazione della procedura di divorzio finisca con l’assumere un significato di rilievo nel senso di una valorizzazione, anche nel nostro ordinamento, della tendenza (diffusa pure negli altri ordinamenti: v., ad es., in Francia, la riforma, operata con la L. 2016-1547, in materia di “divorzio per mutuo consenso”) ad una sempre più marcata contrattualizzazione dell’istituto. 37 Si ritiene, peraltro, che la disposizione sia da interpretare “nel senso che gli effetti personali e patrimoniali della sentenza si producono tra le parti al passaggio in giudicato, mentre l’annotazione attiene unicamente agli effetti erga omnes della pronuncia stessa” (Cass. 4-8-1992, n. 9244): la formalità si presenta, così, necessaria ai fini dell’ottenimento del certificato di stato libero e della conseguente possibilità di contrarre nuove nozze (ma non, ad es., agli effetti successori, facendo il passaggio in giudicato della sentenza, nei reciproci rapporti, già “perdere alle parti la qualità di coniuge”: Cass. 9-6-1992, n. 7089). 38 Più che all’ipotesi di interesse alla conservazione del cognome maritale per esigenze di carattere professionale (assicurata già dalla disciplina generale del nome come strumento di identificazione del soggetto), si

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Per quanto concerne gli effetti patrimoniali, il legislatore è chiamato ad una difficile mediazione tra l’esigenza di tutela del coniuge più debole – il più delle volte, per i persistenti condizionamenti economico-sociali, ancora la moglie – ed il perseguimento dell’obiettivo, a seguito dello scioglimento del matrimonio, di un’effettiva eliminazione del vincolo coniugale (pure, quindi, nei suoi riflessi sul piano economico). A tale ultimo riguardo, non si può trascurare di sottolineare come alla base del riconoscimento del divorzio sia proprio l’accoglimento di una istanza di libertà (cui consegue inevitabilmente una valorizzazione dell’autoresponsabilità di ciascuno per le proprie necessità di vita nel tempo successivo). Anche a seguito della riforma del 1987, esplicitamente finalizzata – come si legge nella relazione ad essa – alla “tutela del coniuge economicamente più debole”, ha continuato a sussistere, comunque, la contraddittoria convivenza di due modelli di tutela: l’uno, fondato su istanze solidaristico-assistenziali (diffusamente evocate col richiamo ad una pretesa solidarietà postconiugale, con contenuti, peraltro, non univocamente precisati nelle diverse impostazioni); l’altro, invece, sul riconoscimento a ciascun coniuge di una vera e propria aspettativa ad una compartecipazione (in vista del soddisfacimento delle future necessità) alla complessiva situazione economica della famiglia, quale venutasi a realizzare col contributo di ambedue i coniugi alla vita familiare 39. Una simile contraddittorietà ha finito col condizionare, nella contorta configurazione datagli dall’art. 56, la ricostruzione della figura dell’assegno di divorzio, quale essenziale strumento finalizzato ad assicurare, appunto, la tutela del “coniuge economicamente più debole” in dipendenza del divorzio. In tale disposizione, il suo presupposto viene individuato nella mancanza di mezzi adeguati 40 e nella impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive (in particolare, per l’impossibilità di svolgere un’idonea attività lavorativa), essendo inoltre prescritto che si debba tenere conto, in vista del relativo riconoscimento, di una serie di criteri, rispecchianti il concreto “vissuto” matrimoniale (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed econotende a considerare rilevante il particolare interesse a vedere identificati, nei rapporti sociali, con lo stesso cognome tutti i componenti del nucleo familiare residuo (formato dalla donna e dai figli affidatigli). L’autorizzazione è modificabile per gravi motivi (art. 54). Di “ipotesi straordinaria”, che non può assecondare “il mero desiderio di conservare come tratto identitario il riferimento ad una relazione familiare ormai chiusa quanto alla sua rilevanza giuridica”, parla Cass. 12-2-2020, n. 3454. 39 Col divorzio, infatti, vengono meno quelle reciproche aspettative successorie, che risultano finalizzate a riequilibrare, nel caso di scioglimento del matrimonio per morte, le disparità di allocazione della ricchezza familiare tra i coniugi: il regime delle conseguenze patrimoniali del divorzio dovrebbe, allora, almeno tendenzialmente, svolgere proprio una simile funzione perequativa (pure in considerazione della derogabilità del regime legale di comunione, a ciò istituzionalmente finalizzato), nonché compensativa, nei limiti del possibile, dello squilibrio tra le condizioni dei coniugi, quale venutosi a determinare, al momento del venir meno della comunità coniugale, in dipendenza delle condivise scelte concernenti la conduzione della vita familiare. Proprio in tale ultima prospettiva, del resto, si muovono dichiaratamente, ad es., gli artt. 270 e 271 code civil. In proposito, v. infra i recenti significativi sviluppi in materia di contribuzioni economiche post-matrimoniali. 40 Da intendere in una prospettiva ampia, comprensiva oltre che dei redditi, dei cespiti patrimoniali e di ogni altra utilità disponibile. A “qualsiasi utilità suscettibile di valutazione economica, compreso l’uso di una casa di abitazione”, allude, ad es., Cass. 23-7-2020, n. 15773 (ma con esclusione della “rilevanza dell’entità dei patrimoni delle famiglie di appartenenza ovvero del loro apporto economico ai coniugi, in quanto trattasi di ulteriore criterio non previsto dall’art. 5 L. n. 898 del 1970”: Cass. 23-7-2020, n. 15774).

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mico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi: indici, tutti da apprezzare in rapporto alla durata del matrimonio). La discussione si è incentrata, allora, sul diverso modo di intendere il rapporto tra l’accennato presupposto e i criteri in questione, le diverse soluzioni risultando, ovviamente, condizionate dai differenti punti di vista circa il valore da conferire alla pregressa relazione di vita matrimoniale – con l’intrecciarsi in essa dei profili economici con quelli personali – nella valutazione, ai fini della definizione delle contribuzioni post-matrimoniali, della situazione delle parti al momento del venir meno della comunità di vita. In giurisprudenza, ha prevalso a lungo, ai fini del giudizio di adeguatezza dei mezzi disponibili (decisivo per l’attribuzione dell’assegno), l’indirizzo tendente a prescindere, in un’ottica dichiaratamente assistenziale (piuttosto che perequativa e compensativa), dalla valutazione degli indici indicati nel corpo dell’art. 56, in quanto ritenuti essere destinati ad incidere solo sulla quantificazione dell’assegno: salvo, poi, ad adottare quale parametro di valutazione dell’adeguatezza – e, quindi, in sostanza, come obiettivo da perseguire attraverso il riconoscimento dell’assegno – quello della (almeno tendenziale) conservazione del tenore di vita matrimoniale, ovvero quello di una dignitosa autosufficienza economica (indipendentemente, insomma, dal tenore di vita goduto durante la convivenza). La prima di tali prospettive è risultata a lungo dominante 41, fino ad una sua recente contestazione, tendente alla riproposizione della seconda. Il contrasto venutosi, così, a determinare ha finito, peraltro, con l’indurre la giurisprudenza ad un radicale ripensamento della stessa concezione bifasica del giudizio concernente il riconoscimento l’assegno, in quanto reputato fondato, cioè, su di una scissione tra il giudizio relativo all’attribuzione (improntato a un parametro – tenore di vita o esistenza dignitosa – comunque estraneo al dettato normativo) e quello relativo alla quantificazione (da condurre applicando i diversi criteri contemplati dall’art. 56). Si è concluso, allora, nel senso della non incompatibilità – in relazione alla individuazione della natura dell’assegno e della relativa finalizzazione – della funzione assistenziale e di quella perequativo-compensativa, dovendo l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi disponibili – così come la conseguente determinazione dell’assegno – avvenire proprio attraverso l’applicazione dei criteri individuati nell’art. 56, da considerare, quindi, decisivi, allo stesso tempo, tanto per l’attribuzione, quanto per la quantificazione dell’assegno: criteri, questi, atti a sostanziare una valutazione complessiva e comparativa della situazione delle parti al momento del venir meno della compagine coniugale, quale venutasi a determinare in dipendenza del condiviso modello di vita familiare e dei conseguentemente attuati assetti 41

Il giudizio di “inadeguatezza” – rispetto al tenore di vita matrimoniale – è stato operato, nella prospettiva accennata, raffrontando i mezzi del coniuge richiedente “ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso, o quale poteva legittimamente e ragionevolmente prefigurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto” (Cass. 22-2-2010, n. 4079). Anche con riferimento all’assegno di divorzio, è stato rilevato che il tenore di vita “cui rapportare il giudizio di adeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge richiedente dovrebbe essere quello offerto dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall’ammontare complessivo dei loro redditi e delle loro disponibilità patrimoniali, e non già quello tollerato o subito o anche concordato con l’adozione di particolari criteri di suddivisione delle spese familiari e di disposizione dei redditi personali residui” (Cass. 16-5-2005, n. 10210; Cass. 16-10-2013, n. 23442).

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personali e patrimoniali (con specifica attenzione, ovviamente, agli apporti concretamente forniti da ciascuno – e, in particolare, da chi richiede l’assegno – alla relativa conduzione) 42. 42

Per la giurisprudenza accreditatasi – contro un diverso indirizzo, tendente ad orientare “la valutazione relativa all’adeguatezza dei mezzi economici … ad un modello di vita economicamente autonomo e dignitoso (Cass. 2-3-1990, n. 1652) – a partire da Cass., sez. un., 29-11-1990, n. 11490 (e sintetizzata, ad es., da Cass. 2-7-2007, n. 14965 e 5-2-2014, n. 2546), la disciplina in materia – secondo una ricostruzione fondata su “una duplice indagine, attinente all’an ed al quantum” (sulla distinzione, cioè, tra il presupposto dell’assegno, rappresentato dalla inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante a conservare un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, ed i suoi criteri di quantificazione, da valutare in maniera “ponderata e bilaterale”) – avrebbe dovuto valere, senza creare confusioni tra l’assegno di divorzio e quello di mantenimento, ad offrire “una duttile risposta a tutti i vari modelli concreti di matrimonio”, evitando la creazione di “situazioni di eccessivo vantaggio (di ‘pura rendita’)”. Comunque, nonostante l’affermata natura “esclusivamente assistenziale” dell’assegno, si sottolineava come l’applicazione dei criteri di quantificazione dell’assegno stesso possa giungere “fino anche ad eliminare, in date condizioni, il diritto” ad esso. Così, in particolare, si è ritenuto che l’assegno sia da negare in caso di brevissima durata del matrimonio (per essere una comunità di vita “in realtà mai esistita”: Cass. 29-10-1996, n. 9439; peraltro, al paradossale riconoscimento di un assegno in conseguenza di un matrimonio sciolto per inconsumazione dopo una convivenza di appena una settimana è pervenuta Cass. 4-2-2009, n. 2721). Non si è mancato di attribuire, con funzione “assistenziale e integrativa”, un assegno anche in caso di coniuge benestante, ma comunque non in grado di conservare l’elevatissimo tenore di vita consentito dalle ragguardevoli ricchezze dell’altro coniuge (Cass. 28-10-2013, n. 24252 e 4-2-2011, n. 2747, in una prospettiva, insomma, riequilibrativa, in dipendenza del “notevole dislivello economico”). Si tenga presente come la questione di legittimità costituzionale, sollevata nei confronti dell’art. 56 l. div., in quanto, secondo il giudice rimettente (Trib. Firenze, ord. 22-5-2013, n. 239), da intendere – alla luce del “diritto vivente” – come finalizzato a “garantire al coniuge economicamente più debole il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio”, sia stata dichiarata infondata da Corte cost. 11-2-2015, n. 11, in considerazione del consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui i diversi criteri indicati dalla disposizione “agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto” – secondo il parametro, cioè, del “tenore di vita” matrimoniale – potendo “valere anche ad azzerarla”. Riprendendo in larga misura gli argomenti addotti nella ricordata ordinanza di Trib. Firenze (e sulla scia del risalente orientamento di Cass. 1652/1990), Cass. 10-5-2017, n. 11504 (seguita, ad es., da Cass. 22-6-2017, n. 15481, concernente un giudizio di revisione dell’assegno, ai sensi dell’art. 91, e dalla successiva giurisprudenza della stessa prima sezione della Cassazione) ha inteso superare il ricordato (consolidato) indirizzo esegetico delle sezioni unite, pur muovendo dalla stessa strutturazione “bifasica” di principio del giudizio attributivo dell’assegno divorzile. Nell’evidenziare come, a seguito del divorzio, gli ex coniugi debbano ormai considerarsi, a tutti gli effetti, “persone singole” (con conseguente negazione di qualsiasi valore al parametro della “conservazione del tenore di vita matrimoniale” e valorizzazione, invece, del “principio di ‘autoresponsabilità’”), quale criterio decisivo ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno (“fase dell’an debeatur) viene assunto – a prescindere, insomma, da qualsiasi considerazione circa i riflessi del pregresso rapporto coniugale sulla condizione degli interessati al momento del divorzio – quello della mancanza, in capo al richiedente, della “indipendenza o autosufficienza economica”, solo “all’esito positivo di tale prima fase” (e senza, quindi, quella “indebita commistione tra le predette due ‘fasi’ del giudizio”, che viene addebitata all’impostazione in precedenza seguita) potendosi passare “alla determinazione quantitativa dell’assegno (fase del quantum debeatur)”, con l’applicazione dei diversi criteri stabiliti nell’art. 56. A fronte delle diffuse – anche nella giurisprudenza di merito (ad es., Trib. Udine 1-6-2017, Trib. Roma 15-9-2017 e 26-9-2017, App. Genova 12-10-2017) – perplessità per il nuovo orientamento (e in attesa dell’intervento chiarificatore delle sezioni unite), con la P.D.L. n. 4605 (Camera dei deputati, XVII legislatura, esaminata solo in sede referente dalla Commissione Giustizia per la fine della legislatura) è stata prospettata una modifica dell’art. 56, tale da imprimere all’assegno divorzile una curvatura dichiaratamente riequilibrativa, così da consentire di tenere adeguatamente conto, nel momento dello scioglimento del matrimonio e in vista della vita definitivamente separata delle parti, delle loro reciproche condizioni, quali venutesi concretamente a determinare in dipendenza degli assetti personali e patrimoniali condivisi nel corso del rapporto coniugale. Come accennato nel testo, Cass., sez. un., 11-7-2018, n. 18287, ha inteso superare, sia il precedente indirizzo, quale

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consolidatosi a partire da Cass. 11490/1990, sia quello teorizzato da Cass. 11504/2017, abbandonando “la rigida distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell’assegno” e valorizzando – ove sussista uno “squilibrio”, alla luce della comparazione tra le posizioni delle parti – la circostanza che “la disparità della situazione economico-patrimoniale degli ex coniugi all’atto dello scioglimento del vincolo” si presenti come “dipendente dalle scelte di conduzione della vita familiare adottate e condivise in costanza di matrimonio”, con l’eventuale “sacrificio delle aspettative personali e reddituali di una delle parti”. Ciò con la conseguenza – imposta da una “declinazione costituzionale del principio di solidarietà” (di cui all’art. 29 Cost.) – che il “profilo assistenziale deve essere contestualizzato con riferimento alla situazione effettiva nella quale s’inserisce la fase di vita postmatrimoniale, in particolare in chiave perequativa-compensativa”, così da soddisfare, “in relazione alla durata, fattore di cruciale importanza nella valutazione del contributo”, le “legittime aspettative reddituali conseguenti al contributo personale ed economico fornito da ciascun coniuge alla conduzione familiare” (in applicazione di un “criterio … per la sua natura composita”, caratterizzato da una “elasticità necessaria per adeguarsi alle fattispecie concrete” rispecchianti la “pluralità dei modelli familiari”). La giurisprudenza successiva – pur riproponendosi qualche tentativo di riesumare surrettiziamente l’impostazione di Cass. 11504/2017 (e v., ad es., Cass. 9-8-2019, n. 21234, 7-10-2019, n. 24935, fino a 8-9-2021, n. 24250) – non ha mancato – accogliendo convintamente le scelte di fondo delle sezioni unite – di precisare l’accennata ricostruzione, sottolineando, in particolare, la necessaria ricorrenza di uno “squilibrio effettivo e di non modesta entità” e che la disparità debba essere “causalmente riconducibile, in via esclusiva o prevalente, alle scelte comuni di conduzione della vita familiare, alla definizione dei ruoli dei componenti la coppia coniugata, al sacrificio delle aspettative lavorative e professionali di uno dei coniugi” (così, Cass. 30-8-2019, n. 21926, la quale richiama l’attenzione anche sulla necessità di accertare se “il riconoscimento della funzione endofamiliare” del richiedente risulti già “attuato grazie agli interventi in corso di matrimonio dell’ex coniuge”; così pure Cass. 17-2-2021, n. 4215; alla rilevanza, ai fini del riconoscimento dell’assegno, dell’operatività dell’adottato regime patrimoniale di comunione allude Cass. 5-5-2021, n. 11787, sulla scia di 9-8-2019, n. 21228). Significativa, poi, è la negazione dell’assegno in caso di matrimonio di breve durata e senza figli (data la conseguente sostanziale irrilevanza del contributo alla vita familiare: Cass. 7-5-2019, 12041; la rilevanza essenziale, nella nuova impostazione della materia dell’assegno, del profilo della “durata del matrimonio”, anche quale criterio funzionale all’“accertamento del relativo diritto”, così da poterne “giustificare l’esclusione”, viene evidenziata da Cass., sez. un., 31-3-2021, n. 9004, che sottolinea dover essere essa riferita “all’intera durata del vincolo matrimoniale, anziché a quella effettiva della convivenza”, per tener conto pure del contributo “prestato in regime di separazione, soprattutto per quanto riguarda il mantenimento, l’istruzione e l’educazione dei figli”). La giurisprudenza di merito, ovviamente, tende a muoversi entro la cornice delineata dalle sezioni unite, in particolare con un drastico ridimensionamento dei profili assistenziali dell’assegno: App. Napoli 10-12019; Trib. Treviso 1-3-2019, che individua rigorose condizioni per il relativo riconoscimento in “funzione assistenziale”. E per la tendenza ad ammettere – “in virtù del rilievo primario dei principi solidaristici di derivazione costituzionale che informano i modelli relazionali familiari” – l’attribuzione di un assegno in funzione esclusivamente assistenziale, nel solo caso di vera e propria indigenza economica del richiedente, v., ad es., Cass. 30-8-2019, n. 21926. A consolidare e sistematizzare – contro i tentativi di ridimensionarne la portata, travisandone le scelte di fondo – la ricostruzione accennata, radicata nella pronuncia 1828/2018 (e considerata imperniata sulla decisa valorizzazione, nel contesto della “funzione composita” e “non solo assistenziale dell’assegno”, della sua “componente compensativo-perequativa”), con la precisazione dei relativi tratti salienti – anche alla luce dei dianzi ricordati successivi apporti giurisprudenziali – ha provveduto Cass., sez. un., 5-11-2021, n. 32198. Il 14.5.2019, la Camera dei deputati (XVIII legislatura) ha approvato la P.D.L. n. 506-A, risultante dalle modificazioni apportate alla P.D.L. n. 506 (riproduttivo del ricordato testo approvato dallo stesso ramo del Parlamento nella legislatura precedente). Nel testo in questione, largamente ispirato alla corrispondente disciplina francese dell’art. 271 code civil (e sostanzialmente allineato alle recenti conclusioni delle sezioni unite) si prevede che, ai fini del riconoscimento dell’assegno, devono essere valutati “in rapporto alla durata del matrimonio”, una serie di indici, tra cui, in aggiunta a quelli già attualmente contemplati (ma con la discutibile soppressione delle “ragioni della decisione”), sono da segnalare l’autonoma menzione della “età e stato di salute del richiedente” e, soprattutto, “la ridotta capacità reddituale dovuta a ragioni oggettive, anche in considerazione della mancanza di un’adeguata formazione professionale o di esperienza lavorativa, quale conseguenza dell’adempimento dei doveri coniugali nel corso della vita matrimoniale”, nonché “l’impegno di cura di figli comuni minori, disabili o comunque non economicamente indipendenti”. Si prevede, inoltre, la – attualmen-

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Dell’assegno, in quanto periodico e, quindi, destinato a durare nel tempo, deve essere assicurato l’adeguamento automatico con riferimento agli indici di svalutazione monetaria (art. 57). La sua corresponsione è garantita, oltre che dall’eventuale imposizione di garanzie all’obbligato, dalla possibilità, per il beneficiario, di ottenerne il pagamento diretto da chi deve corrispondere periodicamente all’obbligato stesso somme di danaro (in particolare, dal suo datore di lavoro) (art. 8), nonché, in quanto tale, dall’irrogazione di sanzioni penali a carico dell’ex coniuge inadempiente (originariamente ai sensi dell’art. 12 sexies e, ora, dell’art. 570 bis c.p.). Le disposizioni concernenti l’assegno per l’ex coniuge (così come quelle relative all’affidamento dei figli ed ai contributi a loro favore) possono essere, ove sopravvengano giustificati motivi (legati alla evoluzione delle condizioni personali ed economiche degli ex coniugi), assoggettate a revisione (art. 91), con conseguente possibile modificazione del relativo ammontare. L’obbligo di corrisponderlo cessa, poi, se il beneficiario contrae un nuovo matrimonio (art. 510) 43. te discussa – possibilità di predeterminare la durata dell’assegno (introducendo, insomma, in una prospettiva diffusa altrove, la figura dell’assegno temporaneo). 43 La giurisprudenza (Cass. 30-10-1996, n. 9505) si è orientata a lungo nel senso che il diritto all’assegno non cessi senz’altro in caso di convivenza more uxorio del beneficiario, pur ritenendo (Cass. 27-3-1993, n. 3720) che le eventuali prestazioni del nuovo partner, incidendo sulle sue condizioni economiche, possano far venire meno il presupposto del riconoscimento dell’assegno stesso (come pure di quello attribuito in dipendenza della separazione), ponendo il relativo obbligo in uno stato di quiescenza (Cass. 11-8-2011, n. 17195): insomma, “l’incidenza economica della convivenza deve essere valutata in relazione al complesso delle circostanze che la caratterizzano” e tenendo sempre presente che “i relativi, eventuali, benefici economici” hanno “natura intrinsecamente precaria” (Cass. 28-6-2007, n. 14921; e per la rilevanza dell’assunzione di nuovi carichi familiari da parte dell’obbligato, v. Cass. 22-3-2012, n. 4551). Peraltro, Cass. 3-4-2015, n. 6855 (e v. pure 29-9-2016, n. 19345 e 8-2-2016, n. 2466), ha – con il risultato di estendere corrispondentemente, in sostanza, la portata dell’art. 510 – senz’altro ricollegato alla instaurazione di una convivenza avente i caratteri della famiglia di fatto (in quanto atta a “rescindere ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzante la pregressa fase di convivenza matrimoniale”) il definitivo venir meno di ogni possibile pretesa nei confronti dell’ex coniuge, con l’“assunzione piena di un rischio” dell’eventuale cessazione del nuovo rapporto. Sollecitate a rimeditare un simile orientamento da Cass. 17-12-2020, n. 28995, le sezioni unite (32198/2021), alla luce del (ricordato nella nota precedente) nuovo indirizzo in materia di attribuzione dell’assegno di divorzio, hanno concluso – risultando il diverso orientamento “mancante di un saldo fondamento normativo attuale” e “neppure compatibile con la funzione dell’assegno divorzile, come delineata attualmente dalla giurisprudenza” – che, pur incidendo “l’instaurazione da parte dell’ex coniuge di una stabile convivenza sul diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio o sulla sua revisione nonché sulla quantificazione del suo ammontare”, essa “non determina necessariamente la perdita automatica ed integrale del diritto all’assegno”, se non quanto alla sua “componente assistenziale”, potendosi, insomma, riconoscere un assegno di divorzio a carico dell’ex coniuge in funzione “perequativocompensativa”, tenuto conto, in particolare, “della durata del matrimonio”. Le sezioni unite non mancano, comunque, di rilevare l’inadeguatezza dell’attuale disciplina, non solo accennando alla migliore funzionalità a governare situazioni del genere con un “assegno temporaneo” (ammissibile, però, solo su “accordo” delle parti, non potendo essere imposta una simile modalità di corresponsione – peraltro prevista nella proposta approvata da uno dei rami del parlamento, ricordata nella nota precedente – “per provvedimento del giudice”), ma alludendo anche alla opportunità di una eventuale modificazione dell’attuale regime. Viene auspicata, così – “in un’ottica di pacificazione e di prevenzione della conflittualità” – una revisione, improntata al modello diffuso altrove, dell’attuale disciplina della materia, col privilegiare, in via generale (e, quindi, anche giudizialmente), l’attribuzione, “in funzione compensativa, di una somma equitativamente determinata” (risultando ammissibile, allo stato, una simile sistemazione definitiva delle aspettative dell’ex coniuge meritevole di tutela economica, attraverso una prestazione una tantum, ai sensi dell’art. 58, solo “su accordo delle parti”: accordo, la cui definizione, di conseguenza, viene fortemente

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Su accordo delle parti, l’assegno periodico può essere sostituito da una prestazione c.d. una tantum (consistente in somme di danaro, titoli obbligazionari e azionari o beni immobili). Si tratta di una soluzione, corrente in altri ordinamenti (in cui è, anzi, considerata normale o, addirittura, privilegiata), sicuramente più rispettosa dell’opportunità di non perpetuare, pure a tempo indeterminato, rapporti (anche solo economici) tra gli ex coniugi. Poiché nessuna pretesa economica ulteriore – anche di carattere solo alimentare – può essere successivamente avanzata, la prestazione pattuita (è da ritenere anche in caso di domanda congiunta di divorzio) 44 deve essere ritenuta equa dal tribunale (art. 58) 45. Il divorzio determina il venir meno dei diritti in ordine alla successione del coniuge. Spetta, peraltro, un assegno periodico a carico dell’eredità, di natura alimentare, all’ex coniuge cui sia stato, in precedenza, riconosciuto il diritto all’assegno di divorzio e che versi in stato di bisogno. Esso non compete in caso di corresponsione una tantum di quanto dovuto in dipendenza del divorzio e si estingue nel caso di passaggio del beneficiario a nuove nozze o ove venga meno il bisogno (in tale ultima ipotesi, con possibilità di reviviscenza) (art. 9 bis). Il riconoscimento del diritto all’assegno di divorzio condiziona, inoltre, la tutela previdenziale del divorziato. Solo in quanto titolare di esso, infatti, quest’ultimo, in caso di morte dell’ex coniuge (e, ovviamente, se non passato a nuove nozze), ha diritto alla pensione di reversibilità (art. 92) 46. Ove esista – nell’ipotesi, evidentemente, di successisollecitata dalle sezioni unite agli interessati, eventualmente anche a seguito di un “suggerimento” in tal senso da parte del giudice). 44 Nel senso che “tale accertamento e valutazione di equità dell’accordo vanno compiuti anche in sede di divorzio ad istanza congiunta”, Cass. 5-5-2016, n. 9054. Circa la necessità della verifica giudiziale di equità dell’accordo di corresponsione una tantum, v. Cass. 28-2-2018, n. 4764 e 30-1-2017, n. 2224. 45 La giurisprudenza si è indirizzata nel senso della nullità, per illiceità della causa, degli accordi conclusi – in sede (e, comunque, in regime) di separazione personale – in vista del divorzio, tra l’altro, “per violazione del principio di radicale indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale espresso dall’art. 160” (Cass. 18-2-2000, n. 1810 e 10-3-2006, n. 5302, con riguardo agli accordi implicanti la rinuncia all’assegno di divorzio): ad una tale conclusione non ritenendosi ostare neppure l’introduzione del divorzio su domanda congiunta, dato che, in tal caso, “le intese raggiunte dalle parti sul relativo assetto economico attengono ad un divorzio che esse hanno già deciso di conseguire e non semplicemente prefigurato” (Cass. 11-8-1992, n. 9494). Un simile orientamento (la cui ratio sembra ostacolare, allo stato, anche corrispondenti accordi prematrimoniali: V, 2.11) – confermato, da ultimo, da Cass. 2224/2017 e, in precedenza, da Cass. 14-6-2000, n. 1809, precisato nel senso del carattere relativo dell’affermata nullità (invocabile, quindi, solo da chi richieda le prestazioni economiche) – risulta, peraltro, contestato da Trib. Torino 20-4-2012, in adesione ad una conforme posizione prospettata in dottrina. 46 La disciplina si presenta, invero, contraddittoria, in quanto, nonostante l’autonomia riconosciuta ai diritti pensionistici del divorziato (trattandosi di una forma di partecipazione diretta a quel particolare tipo di ricchezza familiare rappresentato dagli accantonamenti a scopo previdenziale: Cass., sez. un., 12-1-1998, n. 159), la loro concreta realizzazione viene subordinata al godimento dell’assegno di divorzio, attribuito sulla base di valutazioni relative alle condizioni economiche del soggetto (le quali, invece, dovrebbero risultare irrilevanti ai fini del godimento differito di quanto economizzato dalla famiglia nel suo insieme, da parte di chi vi abbia contribuito partecipando al ménage familiare). Le medesime considerazioni valgono – forse, a maggior ragione, dato il criterio proporzionale di partecipazione stabilito dall’art. 12 bis2, rigorosamente oggettivo e automatico – pure per la disciplina del diritto ad una quota della indennità di fine rapporto (ai fini del cui riconoscimento legislativo, del resto, si è convenuto che depongono “soprattutto criteri di carattere compensativo”: Corte cost. 24-1-1991, n. 23). Comunque, per eliminare le residue persistenti incertezze esegetiche in materia, l’art. 5 L. 28.12.2005, n. 263, ha stabilito che “per titolarità dell’assegno ai sensi del-

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vo matrimonio dell’ex coniuge – anche un coniuge superstite, il trattamento di reversibilità deve essere dal tribunale ripartito tra gli aventi diritto (eventualmente più di due, nell’ipotesi di una pluralità di successivi matrimoni) (art. 93). Per la ripartizione è previsto il criterio della durata dei rispettivi rapporti matrimoniali 47. Il divorziato ha anche diritto ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro ex coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro. Anche a tal fine, il divorziato deve essere titolare dell’assegno di divorzio. La quota è pari al quaranta per cento della indennità, con riferimento agli anni in cui il matrimonio sia coinciso col rapporto di lavoro (art. 12 bis) 48.

6. Scioglimento della unione civile. – La disciplina della crisi dell’unione civile 49, indubbiamente presenta, rispetto a quella fin qui esaminata concernente il matrimonio, tratti di notevole originalità: tratti che, pur riconducibili forse ad una visione dell’unione civile come destinata ad una maggiore instabilità del matrimonio (in quanto caratterizzata da una pretesa minore intensità solidaristica), finiscono col risolversi nella prospettazione di un modello di disciplina della crisi familiare, il quale, recependo diffuse istanze l’articolo 5 deve intendersi l’avvenuto riconoscimento dell’assegno medesimo da parte del tribunale ai sensi del predetto articolo 5”. In proposito, Cass. 20-2-2018, n. 4107, ha precisato che basta un riconoscimento giudiziale con “pronuncia non ancora passata in giudicato”. Sempre al riguardo, Cass. 28-5-2010, n. 13108, disattendendo un consistente indirizzo giurisprudenziale e dottrinale in senso contrario, aveva considerato comunque ricorrente il requisito della “titolarità dell’assegno” anche nel caso di accordo “di corresponsione, in unica soluzione, dell’assegno di divorzio”, ai sensi dell’art. 58. A fronte, peraltro, delle divergenti conclusioni riproposte da Cass. 5-5-2016, n. 9054 e 8-3-2012, n. 3635, la questione è stata rimessa alle sezioni unite. Cass., sez. un., 24-9-2018, n. 22434, ha discutibilmente aderito all’indirizzo tendente a negare la possibilità di attribuire la pensione di reversibilità in caso di “corresponsione in unica soluzione” delle contribuzioni postmatrimoniali, ritenendo da intendere l’allusione dell’art. 92-3 alla “titolarità dell’assegno … come titolarità attuale e concretamente fruibile dell’assegno divorzile al momento della morte dell’ex coniuge, e non già come titolarità astratta del diritto all’assegno che è stato in precedenza soddisfatto con la corresponsione in un’unica soluzione”. In una prospettiva sostanzialmente non dissimile, Cass. 28-9-2020, n. 20477 ha ritenuto assente il (reputato necessario) “requisito della titolarità dell’assegno divorzile” nel caso in cui esso sia stato “determinato in misura minima o anche meramente simbolica” (contrariamente, peraltro, a quanto a suo tempo sostenuto dalle sezioni unite 159/1998). In relazione all’interesse del coniuge aspirante alla pensione di reversibilità (o ad una sua quota) alla prosecuzione del giudizio concernente il riconoscimento dell’assegno (in quanto presupposto del diritto ad essa), pur dopo la morte del coniuge (e sempre che si sia già formato il giudicato sullo status ai sensi dell’art. 412), decisiva risulta la soluzione positiva offerta a tale ultima questione da Cass., sez. un., 24-6-2022, n. 20494 (supra, nota 34). Sul punto, v. pure Corte cost. 28-1-2022, n. 25. 47 Ha prevalso, a seguito dell’intervento di Corte cost. 4-11-1999, n. 419, la tesi che il risultato cui conduce il criterio della durata dei rispettivi rapporti matrimoniali (da applicarsi matematicamente, invece, secondo Cass., sez. un., 12-1-1998, n. 159) sia da sottoporre a correttivi (in particolare, in considerazione delle condizioni economiche dei soggetti interessati). Ci si riferisce, in proposito, alla necessaria ponderazione, in aggiunta al criterio della durata del matrimonio, di “ulteriori elementi, correlati alla finalità solidaristica che presiede al trattamento di reversibilità” (Cass. 18-8-2006, n. 18199, secondo una prospettiva consolidata, per cui, ad es., Cass. 5-3-2014, n. 5136 e 28-4-2020, n. 8263). È stato precisato che “la ripartizione della pensione di reversibilità tra ex coniuge e coniuge superstite deve essere determinata in base alla situazione esistente al momento del decesso al quale è collegato il beneficio previdenziale, e non può tenere conto di fatti sopravvenuti” (Cass. 28-7-2006, n. 17248). 48 Si è ritenuto risultare irrilevante la relativa eventuale “rinuncia in sede di separazione”, “poiché in violazione del principio fondamentale, espresso dall’art. 160, di indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale” (Trib. Napoli 10-6-2019). 49 L’art. 122 prevede l’ovvio scioglimento dell’unione civile in caso di morte (o dichiarazione di morte presunta) di una delle parti.

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già emerse a livello normativo e giurisprudenziale, appare probabilmente destinato ad imporsi – pure alla luce degli sviluppi al riguardo di altri ordinamenti – anche in materia matrimoniale 50. In primo luogo, così, non si è esteso all’unione civile l’istituto della separazione personale. Opzione, questa, ragionevole, dato che, nel nostro ordinamento, tale istituto, con la relativa disciplina (V, 3.2-3), sembra ancora troppo largamente condizionato dalla sua (obsoleta) storica funzione di alternativa al divorzio, risultandone anche largamente contestata la (ormai temporalmente ristretta, ma comunque pur sempre necessitata) funzione nella dinamica della regolamentazione della crisi familiare destinata a sfociare nel divorzio (V, 3.4). In una simile prospettiva, allora, pare soluzione ragionevole l’essersi limitato il legislatore a prevedere una pausa di riflessione di tre mesi tra una prima manifestazione di volontà di scioglimento dell’unione civile, “dinanzi all’ufficiale dello stato civile”, e la successiva proposizione della domanda di scioglimento (art. 124 L. 76/2016) 51. È chiaro come si sia, in tal modo, introdotta una nuova causa di divorzio 52, sostitutiva, limitatamente all’unione civile, di quella rappresentata, in materia matrimoniale, dalla pregressa separazione personale (V, 3.4), che lascia comunque ferma, ovviamente, la necessità di azionare una delle procedure attualmente previste per lo scioglimento del vincolo. In proposito, l’art. 125 richiama in blocco, appunto, l’art. 4 L. 898/1970, disciplinante (con l’art. 51, 5, pure richiamato) la procedura di divorzio, nonché, le recentemente introdotte procedure, di cui agli artt. 6 e 12 D.L. 132/2014, conv. con L. 162/2014 (rispettivamente, convenzione di negoziazione assistita e accordo innanzi all’ufficiale di stato civile), evidentemente ove ne ricorra la condizione, rappresentata dall’accordo circa il ricorso ad una delle procedure extragiudiziali di definizione della crisi familia50 Non può sfuggire come, in particolare, sia stato omesso qualsiasi richiamo agli artt. 1 e 2 L. 898/1970 (con l’ivi prevista necessità dell’accertamento “che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita”), recependosi, così, la tendenza, anche giurisprudenziale, a valorizzare decisamente il carattere potestativo della dissoluzione del nucleo familiare (con conseguente emarginazione dell’ accertamento in questione, ove comunque ricorra una delle cause di cui all’art. 3: accertamento, del resto, la richiesta del cui autonomo accertamento ha finito, come accennato supra, V, 2.4, con l’assumere in giurisprudenza un sapore esclusivamente formale). 51 Spazio di tempo di attesa, il cui decorso sembra, quindi, configurarsi – in una con la fase amministrativa preliminare (art. 631, lett. g-quinquies, D.P.R. 3.11.2000, n. 396) – come condizione di procedibilità della domanda di scioglimento dell’unione civile. Diversamente, peraltro, le azzardate conclusioni di Trib. Novara 5-7-2018 (che ritiene surrogabile la fase amministrativa dall’avvio della procedura giudiziale e dal relativo iter). 52 In aggiunta, cioè, a quelle di cui all’art. 3, n. 1 e n. 2, lett. a, c, d, ed e L. 898/1970, richiamate dall’art. 23 1 . Oltre all’omissione, appunto, della causa di cui alla lett. b (fondata sulla pregressa separazione), in sostanza sostituita, appunto, da quella in cui si risolve l’art. 124, non è stata, quindi, richiamata la causa di cui all’art. f, concernente la mancata consumazione del matrimonio (in ciò rinvenendosi, probabilmente, le tracce di una certa ambiguità – oltre che ritrosia – nell’affrontare le problematiche connesse alla sessualità delle persone dello stesso sesso che si uniscono civilmente). Manca anche il richiamo della causa di cui alla lett. g, concernente lo scioglimento del matrimonio conseguente alla rettificazione di attribuzione di sesso: la fattispecie risulta corrispondentemente disciplinata dall’art. 126, il quale prevede che “la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”. È da ricordare come, con l’art. 127, si sia inteso superare i problemi cui ha dato luogo l’applicazione della causa di divorzio, di cui alla lett. g (V, 3.4).

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re. Di conseguenza, in caso d’iniziativa unilaterale (prevedendo l’art. 124 che la manifestazione della “volontà di scioglimento” possa avvenire pure “disgiuntamente” e, quindi, provenire anche da una sola delle parti dell’unione civile), la via non potrà che essere quella della procedura giudiziale (sulla base, appunto, della nuova peculiare causa di divorzio) 53. Quanto agli effetti dello scioglimento dell’unione civile, l’art. 125 rinvia in toto alla disciplina dettata dalla L. 898/1970, con la sola esclusione delle relative parti concernenti il cognome della moglie (art. 52-4) 54, nonché le problematiche che investono i rapporti con i figli (art. 6 L. 898/1970, in coerenza con l’atteggiamento accennato supra, V, 2.17) 55. Di conseguenza, in relazione ai riflessi patrimoniali dello scioglimento dell’unione civile non si può qui che rinviare alla trattazione svolta supra, V, 3.5 56.

53 Le alternative cui può dar luogo l’applicazione dell’art. 124-25 sono rispecchiate nelle formule adottate (per la redazione degli atti dello stato civile) col D.M. 27.2.2017. Trib. Milano 3-6-2020 ricorda che la sola “manifestazione di volontà resa difronte all’ufficiale di stato civile” non determina il cambiamento dello status delle parti, con conseguente necessità, a tal fine (e anche in vista della produzione delle conseguenze economiche dello scioglimento della unione civile), di azionare la procedura di divorzio. 54 Una tale esclusione, peraltro applicativa dell’art. 110 (laddove limita alla “durata dell’unione civile” l’assunzione di “un cognome comune”), sembra finire con l’introdurre una irragionevole discriminazione tra la posizione della parte dell’unione civile e quella del coniuge. 55 Peraltro, pur nel silenzio del legislatore, in tutti quei casi in cui comunque sussista un rapporto di filiazione giuridicamente rilevante con due persone dello stesso sesso unite civilmente (una comune genitorialità essendosi venuta ad instaurare, in particolare, attraverso l’adozione in casi particolari, il riconoscimento di efficacia di provvedimenti stranieri di adozione o la trascrizione di atti di nascita stranieri: V, 4.2; V, 4.8), si pone, ovviamente, la questione – pare da risolvere positivamente nell’interesse dei minori coinvolti – dell’operatività della disciplina comune concernente l’esercizio della responsabilità genitoriale (anche, appunto, in relazione alle problematiche che si ricollegano al venir meno della convivenza familiare: V, 4.10-11). 56 Per coerenza con la dinamica procedimentale della causa di divorzio – fondata sulla pregressa separazione personale (art. 3, n. 2, lett b, L. 898/1970) – che l’art. 124 finisce col sostituire, è da ritenere sistematicamente corretto – nella prospettiva del recentemente introdotto art. 1912 (V, 2.12) – che lo scioglimento della comunione legale operi in coincidenza con la fase presidenziale del giudizio (se non già con la manifestazione della “volontà di scioglimento dinanzi all’ufficiale dello stato civile”). Per una delle prime applicazioni della disciplina concernente gli effetti dello scioglimento della unione civile, v. Trib. Pordenone 13-3-2019, che si richiama, ai fini della considerazione del rapporto di vita, in materia di riconoscimento dell’assegno di divorzio, ai più recenti approdi giurisprudenziali (valorizzando anche la “fase di convivenza di ‘fatto’ anteriore alla celebrazione dell’unione civile”, dato che solo con l’introduzione della relativa disciplina la coppia “ha potuto ‘legalizzare’ il proprio rapporto”).

CAPITOLO 4

FILIAZIONE Sommario: 1. Filiazione: attuale articolazione della disciplina. – 2. L’atto di nascita. – 3. Accertamento della filiazione. – 4. Accertamento della filiazione fuori del matrimonio. – 5. Legittimazione dei figli (cenni storici). – 6. Procreazione medicalmente assistita. – 7. Tutela del minore privo di assistenza. Affidamento. – 8. Adozione. – 9. Il rapporto di filiazione. – 10. Crisi familiare e tutela dell’interesse dei figli. – 11. Assegnazione della casa familiare.

1. Filiazione: attuale articolazione della disciplina. – La disciplina della filiazione è forse quella su cui più ha inciso la legislazione in materia familiare. Si tratta di una progressiva e globale revisione che, muovendo dai principi posti dall’art. 30 Cost. (da leggere in stretta connessione con gli artt. 2, 3, 29 e 31), trova il suo fulcro nella riforma del 1975 e il suo completamento nell’intervento operato dalla L. 10.12.2012, n. 219 (con la relativa dettagliata disciplina delegata, di cui al D.Lgs. 28.12.2013, n. 154) 1. I principi fondamentali sono quelli risultanti dall’art. 30, il cui primo comma sancisce che “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio”. L’attenzione è incentrata, così, sull’essenziale esigenza del figlio di essere messo in condizione di sviluppare le sue potenzialità di persona (art. 2), non trascurandosi, comunque, di evidenziare come la genitorialità rappresenti espressione, a sua volta, della personalità del genitore. Il “diritto” all’esercizio delle funzioni che la caratterizzano non può, quindi, essergli sottratto se non in caso di irrimediabile incapacità (art. 302) e solo riuscito vano ogni intervento di sostegno (imposto al legislatore dall’art. 31): ciò a garanzia del necessario rispetto dell’autonomia della famiglia, garantita dall’art. 291, nello svolgimento del suo fondamentale ruolo di luogo di formazione e socializzazione primaria delle nuove generazioni. È chiaro come, assunto quale obiettivo principale la tutela della personalità in via di formazione del figlio, nessuno spazio possa residuare alle passate odiose discriminazioni tra figli (legate alla preoccupazione di assicurare la solidità della struttura familiare, garanten1 L’art. 2 della L. 219/2012 ha, in effetti, demandato al Governo l’adozione di una normativa tendente alla “modifica delle disposizioni vigenti in materia di filiazione e di dichiarazione dello stato di adottabilità per eliminare ogni discriminazione tra i figli, anche adottivi, nel rispetto dell’art. 30 della costituzione, osservando, oltre ai principi di cui agli articoli 315 e 315 bis del codice civile, come rispettivamente sostituito e introdotto dall’articolo 1 della presente legge”, i “principi e criteri direttivi” dettagliatamente di seguito enunciati. Il D.Lgs. 154/2013 è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del giorno 8.1.2014 (con entrata in vigore al trentesimo giorno successivo alla pubblicazione: art. 108).

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done la continuità del patrimonio), a prescindere dalle circostanze della relativa generazione: in particolare, quindi, con riguardo a quelle nei confronti dei figli generati fuori del matrimonio. Il terzo comma dell’art. 30 affida, appunto, al legislatore il compito di assicurare a questi ultimi – quale evidente corollario del principio di eguaglianza (formale e sostanziale) sancito dall’art. 3 – “ogni tutela giuridica e sociale”. La portata della prevista riserva di compatibilità con “i diritti dei membri della famiglia legittima”, apprezzata alla luce del carattere eminentemente personale dei valori considerati nell’art. 30, è stata intesa, in sede di riforma del 1975, come essenzialmente limitata alla esigenza di evitare conflitti di lealtà nell’ambito del nucleo familiare ristretto fondato sul matrimonio (ad esso dovendosi intendere riferita la riserva in questione: V, 1.2) 2. Né il richiamo dei limiti dettati dalla legge per la ricerca della paternità (art. 304) può essere visto, in aderenza a modelli familiari ormai superati, come strumento di attuazione di interessi superiori o di tutela di soggetti diversi dallo stesso generato, trovando la discrezionalità del legislatore un argine invalicabile proprio nel necessario rispetto del principio di eguaglianza 3. I risultati conseguiti in sede di riforma del 1975, per l’attuazione dei principi costituzionali, sono stati oggetto di unanime apprezzamento, esaurendosi i rilievi critici ad alcune limitate opzioni normative. La raggiunta equiparazione sostanziale 4 tra filiazione nel matrimonio e fuori del matrimonio (definite, nel contesto della riforma del 1975, rispettivamente, filiazione legittima e filiazione naturale) ha, soprattutto, sfrondato lo stato di figlio legittimo dai suoi attributi di privilegio, facendo venir meno la stessa giustificazione del tradizionale favor legitimitatis (consistente nella preferenza accordata dall’ordinamento all’acquisto e alla conservazione dello stato di figlio legittimo, pure in contrasto con la realtà biologico-naturale): con ciò essa ha contribuito, in tema di accertamento della filiazione, alla decisa valorizzazione della realtà naturale (del favor veritatis, cioè, inteso nel senso di propensione dell’ordinamento per la corrispondenza tra verità biologica e verità legale) 5. 2 Esemplare di simili possibili conflitti di lealtà, presi in considerazione dal legislatore, si presenta la problematica relativa all’inserimento del figlio nato fuori del matrimonio di uno dei coniugi nella famiglia legittima di quest’ultimo (art. 252), pure la cui disciplina è stata ora oggetto di rimeditazione (V, 4.9). 3 Rimediando alla discriminazione in ordine alla ricerca (e conseguente dichiarazione giudiziale) della paternità e maternità del figlio nato a seguito di incesto (ai sensi del previgente art. 278), Corte cost. 28-11-2002, n. 494, ha sottolineato che “non è il principio di uguaglianza a dover cedere di fronte alla discrezionalità del legislatore, ma l’opposto”, chiarendo che il figlio è titolare di un “diritto, ove non ricorrano costringenti ragioni contrarie al suo stesso interesse, al riconoscimento formale di un proprio status filiationis”, quale “elemento costitutivo dell’identità personale”. 4 Secondo Corte cost. 13-5-1998, n. 166, “nello spirito della riforma del 1975, il matrimonio non costituisce più elemento di discrimine nei rapporti tra genitori e figli – legittimi e naturali riconosciuti – identico essendo il contenuto dei doveri, oltre che dei diritti, degli uni nei confronti degli altri”. Comunque, a “eliminare ogni residua discriminazione tra i figli nati nel matrimonio e i figli nati fuori del matrimonio o da matrimonio putativo, nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 30 della costituzione”, sono state finalizzate le proposte di riforma, sfociate, infine, nella L. 219/2012. 5 La connessione tra l’accennata equiparazione sostanziale e gli sviluppi in tema di accertamento della filiazione è stata con chiarezza evidenziata, ad es., da Corte cost. 14-5-1999, n. 170, in tema di azione di disconoscimento di paternità. Peraltro, è stata ritenuta “coessenziale all’ordinamento l’esigenza di un bilanciamento” di principi, dato che “il superamento della finalità, che permeava l’originaria impostazione legislativa, di preservare lo status di figlio legittimo, non elide la necessità di garantire i valori inerenti alla certezza e alla stabilità degli status” (con riferimento, evidentemente, al perseguimento del favor minoris), proprio l’art. 304 Cost. deponendo, contro l’attribuzione di un “valore indefettibilmente preminente alla verità biologica rispetto a quella legale”, nel senso che “il favor veritatis non costituisce un valore di rilevanza costituzionale assoluta da affermarsi comun-

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Nonostante tale equiparazione sostanziale, diffusa è restata l’insoddisfazione per una sistematica legislativa della materia, fondata su una persistente distinzione dei figli in diverse categorie, con la contrapposizione, in particolare, della filiazione naturale alla filiazione legittima. Anche se la riforma del 1975 ha abbandonato l’originaria terminologia del codice del 1942, implicante un palese giudizio di disvalore, di “filiazione illegittima” a proposito della nascita fuori del matrimonio 6, una simile contrapposizione, in effetti, ha continuato a costituire motivo di discriminazione – soprattutto per i relativi significativi risvolti sul piano successorio, data la diversa rilevanza del rapporto di filiazione in ordine alla parentela – sulla base di una circostanza (il matrimonio dei genitori) che non dovrebbe comportare conseguenze sulla posizione del figlio, in quanto a lui del tutto estranea. La disciplina anche formalmente unitaria del rapporto di filiazione (fondata sull’esclusiva rilevanza della procreazione e della relazione tra generante e generato), con una differenziazione limitata ai criteri governanti l’accertamento del rapporto stesso, è quella, del resto, che si è affermata in tutte le più recenti riforme straniere della materia. L’obiettivo perseguito dal legislatore con la L. 219/2012 è stato, appunto, quello di superare qualsiasi residua discriminazione tra i figli, abbandonando, in particolare, la prospettiva (propria della riforma del 1975) della equiparazione della situazione dei figli nati fuori del matrimonio a quella dei figli nati nel matrimonio, a favore dell’ottica della unificazione dello status di figlio 7. Principio che, enunciato in termini che non lasciano spazio a possibili equivoci nel nuovo art. 315 (“Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”) 8, trova que” (così, Cass. 30-5-2013, n. 13638, sintetizzando il percorso seguito, in materia, dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, anche alla luce degli orientamenti della L. 219/2012, in una prospettiva ampiamente condivisa, più di recente, da Corte cost. 25-6-2020, n. 127 e 18-12-2017, n. 272). In effetti, in proposito indubbia sembra – una volta posto in evidenza che “il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia” (Corte cost. 10-6-2014, n. 162) – la tendenza recente dell’ordinamento a privilegiare comunque, anche a discapito del rispetto da prestare al favor veritatis (per la riaffermazione, comunque, della cui persistente rilevanza, v., ad es., Cass. 21-2-2018, n. 4194, in relazione alla tutela del “diritto all’identità personale”, nonché Cass. 10-7-2018, n. 18140 e 14-12-2017, n. 30122, che ne parlano in termini di “fondamentale criterio valutativo in tutti i casi sia di accertamento che di rimozione della filiazione, salvo che non sia previsto diversamente a tutela di interessi di rango superiore”), e quindi al di là del dato biologico, la tutela dell’interesse superiore del minore, nella prospettiva di un’adeguata considerazione, onde risolvere le questioni relative al suo status, del principio di responsabilità genitoriale. Posto, insomma, che “in tutti i casi di possibile divergenza tra identità genetica e identità legale, la necessità del bilanciamento tra esigenze di accertamento della verità e interesse concreto del minore è resa trasparente dall’evoluzione dell’ordinamento”, Corte cost. 272/2017 (seguita da Corte cost. 127/2020) sottolinea come “la necessità di considerare il concreto interesse del minore in tutte le decisioni che lo riguardano” imponga sempre “un giudizio comparativo tra gli interessi sottesi all’accertamento della verità dello status e le conseguenze che da tale accertamento possano derivare sulla posizione giuridica del minore”. In proposito, v. infra, V, 4.3-4). 6 Di figli “nati fuori del matrimonio”, parla semplicemente l’art. 30 Cost., secondo una terminologia, del resto, già presente (promiscuamente con quella di “figli naturali”) nel codice civile del 1865. 7 Alquanto dissonante rispetto alle finalità di generale revisione del quadro normativo concernente la filiazione, concretamente perseguite attraverso l’ampia articolazione dei relativi contenuti, sembra risultare, invero, la intitolazione della L. 219/2012, con la sua riduttiva allusione a “Disposizioni in materia di riconoscimento di figli naturali” (oltretutto, tale da evocare – attraverso l’impiego della relativa terminologia – proprio la prospettiva sistematica che si è inteso superare). 8 Ovvia conseguenza dell’affermazione di un simile principio è stata la soppressione dell’istituto della legittimazione, che sulla diversificazione – ancora sussistente ad esito della riforma del 1975, con i suoi risvolti essenzialmente successori – dello stato di figlio trovava il suo fondamento (V, 4.5).

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la sua più significativa espressione – con tutte le conseguenze che ne derivano essenzialmente sul piano successorio – nella riscrittura dell’art. 74, con l’esplicita considerazione accordata, ai fini della sussistenza del vincolo di parentela e della sua rilevanza giuridica (V, 1.6), alla discendenza in quanto tale, radicata o meno che sia nel matrimonio 9. La realizzata unitarietà dello stato di figlio risulta affermata anche sul piano lessicale, con la previsione della sostituzione, nel codice civile, della terminologia di “figli legittimi” e di “figli naturali” con quella di “figli” (art. 111 L. 219/2012), affidandosi alla normativa delegata il compito di attuare una simile sostituzione anche nel resto della legislazione vigente (art. 21 lett. a). Non si è, comunque, inteso superare la rilevanza tradizionalmente accordata al matrimonio ai fini dell’attribuzione al nato dello stato di figlio, continuando ad articolare di conseguenza la relativa materia a seconda che la nascita avvenga nel matrimonio o fuori di esso. Anche al riguardo, quindi, è rimasta l’esigenza di una eventuale diversità di qualificazione, recepita nell’art. 21, lett. a, laddove si fa “salvo l’utilizzo delle denominazioni di ‘figli nati nel matrimonio’ o di ‘figli nati fuori del matrimonio’ quando si tratta di disposizioni a essi specificamente relative”. Si può, ormai, ritenere pienamente attuata nell’ordinamento l’impostazione di fondo emergente dall’art. 301 Cost., che conferisce rilevanza al fatto della procreazione 10, assicurando incondizionatamente al procreato il soddisfacimento delle sue esigenze esistenziali. Lo stesso accertamento formale dello status filiationis, attraverso procedure amministrative e, se del caso, giudiziali, risulta oggetto di un vero e proprio diritto del procreato, che non può trovare limiti se non nel suo stesso interesse: le residue limitazioni alla relativa affermazione, ancora presenti nel testo del codice novellato nel 1975, erano state, del resto, significativamente erose anche prima del recente intervento legislativo 11. Pure l’instaurazione di un rapporto di filiazione in mancanza di procreazione naturale (secondo una tradizionale terminologia, c.d. filiazione civile) viene, del resto, attraverso l’istituto dell’adozione, disciplinata dall’ordinamento esclusivamente quale strumento di tutela dell’interesse del nato che si trovi irrimediabilmente privo di assistenza (fin dal momento della nascita o successivamente), avendo l’adozione stessa da tempo perso la sua più risalente finalizzazione alla perpetuazione (sociale e patrimoniale) dell’organismo familiare. Ovviamente, la disarticolazione del processo generativo – rispetto ai fattori ed alle condizioni che ne caratterizzano le procedure naturali – consentita dai recenti progressi in campo bio-medico è destinata a porre la società di fronte a problematiche del tutto 9 La prospettiva di unificazione dello stato di figlio risulta, nel nuovo art. 74, estesa anche al “caso in cui il figlio è adottivo”. La concreta portata di una simile estensione dipende, peraltro, dall’interpretazione del secondo periodo della disposizione, ove viene escluso che il vincolo di parentela sorga “nei casi di adozione di persone maggiori di età, di cui agli articoli 291 e seguenti”. Si discute, infatti, se, per coerenza sistematica (e, quindi, al di là del dato testuale: V, 1.6), tale esclusione debba o meno intendersi come riferita anche all’adozione in casi particolari. 10 Chiarissima, in tal senso, ad es., Cass. 30-7-2014, n. 17277, laddove rileva che “l’ordinamento riconnette al fatto della procreazione la posizione del figlio e del relativo status, a tutela di una fondamentale esigenza della persona, dalla quale deriva il diritto all’affermazione pubblica di tale posizione”. 11 Come attestato, in particolare, dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’esclusione della possibilità di dichiarazione giudiziale di paternità e maternità in caso di procreazione incestuosa, con la già ricordata presa di posizione di Corte cost. 494/2002, secondo cui mai la Costituzione può ritenersi giustificare “una concezione della famiglia nemica delle persone e dei loro diritti”.

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nuove, schiudendo orizzonti spesso inquietanti ed imponendo difficili scelte a legislatori ed interpreti. Anche in tema di procreazione medicalmente assistita 12, peraltro, l’unico interesse rilevante non può che essere quello del generato (nella prospettiva della preminenza del favor minoris), dovendosi conseguentemente adattare, in vista della sua migliore tutela, i principi – anche di recente valorizzazione, come quello dianzi accennato del favor veritatis – che governano il rapporto tra derivazione biologica e responsabilità genitoriale.

2. L’atto di nascita. – È chiaro come, di fronte alla estesamente riconosciuta possibilità di fare emergere in seguito uno status filiationis conforme a quello cui per legge il soggetto ha diritto, la formazione iniziale dell’atto di nascita finisca con l’assumere una rilevanza minore che in passato. Esso continua, comunque, a svolgere la sua funzione di strumento di accertamento formale del rapporto di filiazione, anche attraverso il regime delle prescritte annotazioni degli atti relativi alle vicende via via incidenti sulla situazione personale del soggetto (art. 49 D.P.R. 3.11.2000, n. 396, sull’ordinamento dello stato civile) 13. Proprio per la sua peculiare efficacia probatoria, onde potersi avvalere dei diritti inerenti alla qualità di figlio, lo si definisce correntemente in termini di titolo dello stato di figlio. L’atto di nascita è formato sulla base della dichiarazione di nascita (corredata da una attestazione di avvenuta nascita, contenente le generalità della puerpera, nonché le indicazioni relative alla nascita), resa all’ufficiale dello stato civile da parte di uno dei genitori, di un loro procuratore speciale o di chi ha assistito al parto. La madre può esprimere la volontà di non essere nominata, che deve essere rispettata nella formazione dell’atto di nascita (V, 4.8). Nell’atto di nascita sono menzionate generalità, cittadinanza e residenza dei genitori coniugati (come padre, risulterà indicato il marito della puerpera, madre del nato), ovvero di chi intende rendere la dichiarazione di riconoscimento di filiazione fuori del matrimonio (artt. 29 e 30 del citato D.P.R., anche per i relativi termini) 14. 12 In relazione alla quale si finisce col delineare – accanto a quelli dianzi accennati, di carattere biologico o adottivo – un nuovo modello di filiazione, identificabile in termini di filiazione consensuale. 13 Si tenga presente che l’art. 51 L. 219/2012 prevede, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo attuativo della delega di cui all’art. 2, l’emanazione di un regolamento apportante le “necessarie e conseguenti modifiche alla disciplina dettata in materia di ordinamento dello stato civile dal regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396”. La regolamentazione in questione è intervenuta col D.P.R. 30.1.2015, n. 26. 14 Gli artt. 95 e 96 D.P.R. 396/2000 prevedono la r e t t i f i c a z i o n e degli atti dello stato civile (e la relativa procedura), applicabile anche agli atti di nascita. Si tratta di una materia divenuta di viva attualità – come, del resto, quella della t r a s c r i z i o n e degli “atti di nascita ricevuti all’estero” (art. 282, lett. b, soprattutto alla luce del principio della intrascivibilità degli atti dello stato civile formati all’estero “se sono contrari all’ordine pubblico”, di cui all’art. 18) – in relazione alle problematiche poste, in tema di filiazione, dalla procreazione medicalmente assistita (V, 4.6), oltre che con riguardo alle pratiche post mortem (infra, nota 54), in dipendenza della diffusione di richieste, appunto, di rettificazione da parte del c.d. genitore intenzionale. In senso favorevole alla utilizzabilità di tale procedura, ai fini dell’indicazione, come genitori, sia della madre biologica che della sua compagna (essendo il procreato frutto di un condiviso “progetto genitoriale” ed avendo, di conseguenza, a tutela della sua “identità personale”, il “fondamentale diritto di essere riconosciuto” come tale), Trib. Bologna 6-7-2018 e App. Perugia 18-11-2019 (che conclude anche nel senso della possibile “attribuzione del doppio cognome”) (contra, comunque, Trib. Agrigento 15-5-2019). Chiamata ad intervenire già da Trib. Pisa 15-3-2018, circa la legittimità della disciplina concernente la formazione dell’atto di nascita (nella

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parte in cui, appunto, non consentirebbe di formarlo riconoscendo la comune genitorialità da parte di due persone dello stesso sesso, nonostante il consenso prestato dalla “madre intenzionale” alla fecondazione eterologa della partner), Corte cost. 15-11-2019, n. 237, ha evitato di prendere chiaramente posizione, giudicando la questione inammissibile. Più di recente, con riguardo alla richiesta di rettificazione dell’atto di nascita (formato in Italia, anche se sulla base di pratica fecondativa applicata all’estero), Cass. 3-4-2020, n. 7668, richiamandosi ampiamente agli sviluppi argomentativi di Corte cost. 23-10-2019, n. 221 (infra, V, 4.6, nota 48), ha negato – evidenziando, così, in sostanza, i limiti da ritenere connaturati alla c.d. filiazione consensuale – la possibile rilevanza fondativa di una comune genitorialità al consenso prestato dalla c.d. madre intenzionale in sede di applicazione della procreazione medicalmente assistita, reputando sempre attuale il principio secondo cui “una sola persona abbia diritto ad essere menzionata come madre nell’atto di nascita, in virtù di un rapporto di filiazione che presuppone il legame biologico e/o genetico con il nato”. E ciò pure con l’evidenziazione dei tratti distintivi – dal punto di vista delle esigenze di tutela dell’interesse del procreato – della situazione considerata, rispetto a quella che si ricollega all’eventuale operatività dell’adozione, ovvero al riconoscimento di atti stranieri dichiarativi del rapporto di filiazione tra due donne: situazione, quest’ultima, cui, comunque, non risulterebbe omologabile quella della coppia omosessuale maschile che abbia fatto ricorso alla surrogazione di maternità (sostanzialmente nella stessa prospettiva Cass. 22-4-2020, n. 8029, nonché 23-8-2021, n. 23321, con l’esclusione, in particolare, del “ricorso alla nozione di ordine pubblico internazionale”, trattandosi di “nato in Italia da una cittadina italiana” e, quindi, “in possesso della cittadinanza italiana”, con conseguente applicazione dei principi fondamentali nazionali in materia di filiazione). Peraltro, Trib. Venezia 3-4-2019, in una situazione simile, ha sollecitato l’intervento della Corte costituzionale, in ordine alla (reputata) impossibilità, per due donne che abbiano fatto ricorso alla procreazione medicalmente assistita, di risultare (anagraficamente) come “genitori” del nato. Al riguardo, Corte cost. 4-11-2020, n. 230, ha concluso che “se il riconoscimento della omogenitorialità, all’interno di un rapporto tra due donne unite civilmente, non è imposto dagli evocati precetti costituzionali” – con conseguente dichiarazione di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale – “vero è anche che tali parametri neppure sono chiusi a soluzioni di segno diverso, in base alle valutazioni che il legislatore potrà dare alla fenomenologia considerata” (anche alla luce dell’essere stata “l’annotazione di una duplice genitorialità femminile riconosciuta dalla giurisprudenza non contraria a principi di ordine pubblico”). L’interesse del minore, poi, viene considerato comunque sufficientemente tutelato dalla possibilità di adozione in casi particolari in favore del partner dello stesso sesso del genitore biologico del minore, ai sensi dell’art. 441, lett. d, L. 184/1983. È da sottolineare, in effetti, come al risultato dell’instaurazione di una relazione genitoriale giuridicamente rilevante da parte di persone dello stesso sesso si sia giunti, oltre che attraverso il meccanismo dell’adozione in casi particolari (e, in genere, della trascrizione di provvedimenti stranieri di adozione) (V, 4.8, nota 74), a seguito della trascrizione in Italia – sulla base di una nozione di ordine pubblico ristretta e tale, quindi, da non essere a ciò di ostacolo – di atti di nascita formati all’estero, in ordinamenti dove risulta consentito (come in Spagna e in Belgio) una simile c.d. co-genitorialità. Una trascrizione del genere è stata reputata ammissibile da Cass. 30-9-2016, n. 19599 (e v. anche Trib. Napoli 6-12-2016), in considerazione sia del diritto del minore “a conservare lo status di figlio, riconosciutogli da un atto validamente formato in un altro Paese dell’Unione Europea”, sia dell’interesse del figlio “ad avere due genitori e non uno solo” (oltretutto alla luce, nel caso di specie, dei sussistenti legami genetici, trattandosi di figlio partorito da una donna coniugata con altra donna in Spagna, a seguito della donazione di ovulo da parte di quest’ultima), nell’assenza, “a livello costituzionale”, di “un divieto per le coppie dello stesso sesso di accogliere e anche di generare figli”. In una simile prospettiva (di conferma, cioè, degli effetti giuridici altrove ricollegati a nascite conseguenti ad “un progetto condiviso della coppia, espressione di affetto e di solidarietà reciproca”), si è mossa pure Cass. 15-6-2017, n. 14878, in relazione ad un atto di nascita (inglese) di un minore, partorito da una donna e considerato figlio anche della donna con lei coniugata (ma priva di legami biologici con il nato), non senza considerare rilevante, in materia, anche l’evoluzione che il nostro ordinamento ha avuto con la L. 76/2016. Decisiva, ai fini della soluzione favorevole al recepimento nei registri di stato civile italiani delle indicazioni emergenti dagli atti di nascita stranieri, è risultata la considerazione secondo cui essa “non si pone in contrasto con l’ordine pubblico internazionale” (Cass. 23-8-2021, n. 23319). Comunque, sollecitata ancora ad intervenire da Trib. Padova 9-12-2019 (con riguardo, appunto, alla impossibilità di far riconoscere, in assenza di un atto di nascita straniero da trascrivere, attraverso corrispondenti risultanze anagrafiche la propria qualità genitoriale da parte della partner della madre biologica), la Corte costituzionale (9-3-2021, n. 32), muovendosi nell’ottica esclusiva dell’interesse del minore, anche valorizzando il finale richiamo di Corte cost. 230/2020 al doversi orientare il legislatore “in direzione di più pene-

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3. Accertamento della filiazione. – Per l’attribuzione dello stato di figlio 15, si continua a seguire il tradizionale indirizzo, tendente a valorizzare il rapporto coniugale della madre: è considerato padre il marito della madre, se il concepimento o la nascita 16 sono avvenute durante il matrimonio (presunzione di paternità: art. 231) 17. Al fine di fissare il tempo del concepimento, è prevista una presunzione di concepimento durante il matrimonio (art. 2321). Si presume – con una presunzione correntemente considerata assoluta – concepito durante il matrimonio il figlio nato non oltre 300 giorni dall’annullamento del matrimonio, dal relativo scioglimento (per morte o divorzio), dalla separazione personale, ovvero dalla data dell’udienza di prima comparizione in tali giudizi (ove i coniugi siano stati autorizzati a vivere separatamente) (art. 2322). Del nato dopo i 300 giorni, per il quale non opera tale presunzione, ciascuno dei coniugi ed i loro eredi possono provare il concepimento durante il matrimonio (o la convivenza nei casi considerati dall’art. 2322, concernenti la situazione conseguente alla separazione tranti ed estesi contenuti giuridici del suo rapporto con la ‘madre intenzionale’”, ha posto l’accento sulla presenza di “una preoccupante lacuna dell’ordinamento nel garantire tutela ai minori e ai loro migliori interessi”. In particolare, viene riconosciuta “l’insufficienza del ricorso all’adozione in casi particolari” (per la sua attuale configurazione legislativa, inadeguata soprattutto in caso di crisi della coppia), chiamando, di conseguenza, il legislatore ad intervenire prontamente, onde “colmare il denunciato vuoto di tutela”, in ordine al riconoscimento di “legami affettivi stabili … nei confronti della madre intenzionale”: ciò attraverso “una riscrittura delle previsioni in materia di riconoscimento”, ovvero la “introduzione di una nuova tipologia di adozione, che attribuisca, con una procedura tempestiva ed efficace, la pienezza dei diritti connessi alla filiazione”. Nel sollecitare, allora, “un intervento del legislatore, che disciplini in modo organico la condizione dei nati da PMA da coppie dello stesso sesso”, la Corte, conclusivamente, adombra l’eventualità di un proprio intervento sostitutivo, dato che “non sarebbe più tollerabile il protrarsi dell’inerzia legislativa, tanto è grave il vuoto di tutela del preminente interesse del minore”. Comunque, App. Cagliari 16-4-2021, in motivato disaccordo con la giurisprudenza dianzi esaminata (e sulla base di “una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 8” L. 184/1983), ha senz’altro ammesso l’annotazione sull’atto di nascita del riconoscimento da parte dell’altro genitore dello stesso sesso della madre (partoriente). Sui problemi specificamente concernenti, in proposito, la maternità surrogata, v. infra, V, 4.6, nota 56. 15 L’art. 7 D.Lgs. 154/2013 ha ristrutturato il titolo VII del libro I, espungendo, in particolare, dalla intitolazione dei suoi capi (e dalle rubriche degli articoli) ogni allusione al carattere di legittimità dei figli (in relazione alle previsioni in precedenza specificamente riferite alla filiazione legittima e già disciplinate, appunto, nel capo I, intitolato “Della filiazione legittima”) e solo impiegando l’espressione “figli nati fuori del matrimonio” con riferimento all’accertamento dello stato nei loro confronti (capo IV). 16 Con la previsione, ai fini dell’operatività della presunzione di paternità, anche della nascita durante il matrimonio si è inteso superare la possibilità precedentemente accordata al marito di disconoscere la paternità del figlio – pur “reputato legittimo” – nato prima che siano trascorsi centottanta giorni dalla celebrazione del matrimonio (con conseguente revisione dell’art. 2321 e soppressione del previgente art. 233). Tale nuova disciplina è stata, da Corte cost. 10-6-2014, n. 162, ritenuta significativa espressione di una “nuova concezione della paternità”. 17 La presunzione, secondo un’opinione condivisa da Cass. 5-4-1996, n. 3194 e 27-8-1997, n. 8059 (la cui terminologia è, ovviamente, quella riferita al quadro normativo previgente), opera solo “quando vi sia un atto di nascita di figlio legittimo” (onde la rilevanza della formazione di tale atto e delle dichiarazioni rese a tal fine). Invece, “ove la madre abbia dichiarato il figlio come naturale, resta esclusa l’operatività della presunzione e difetta lo status di figlio legittimo”, senza che sia necessario l’esercizio dell’azione di disconoscimento di paternità: ciò anche per permettere l’accertamento – volontario o giudiziale – “della paternità naturale di persona diversa dal marito”. Ovviamente, la presunzione in questione risulta posta fuori gioco anche nel caso in cui la madre, avvalendosi della possibilità accordata dall’art. 301 D.P.R. 396/2000, manifesti la “volontà di non essere nominata”.

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personale) (art. 2341-2) 18. Il figlio può, comunque, proporre azione per provare di essere stato concepito durante il matrimonio (art. 2343). La prova della filiazione avviene attraverso l’atto di nascita (quale titolo dello stato) (V, 4.2) e, in sua mancanza, dimostrando il continuo possesso di stato di figlio (art. 236) 19. Quest’ultimo risulta da un serie di fatti, dai quali sia complessivamente consentito desumere, per il soggetto, la relazione di filiazione e di parentela con la famiglia a cui pretende di appartenere (art. 2371). Devono concorrere il trattamento (l’essere sempre stato trattato come figlio, risultando assolti, nei suoi confronti, gli obblighi che la legge pone a carico dei genitori), la fama (l’essere sempre stato considerato come figlio nei rapporti sociali e riconosciuto come tale in famiglia, da intendere qui in una accezione allargata) (art. 2372). L’atto di nascita preclude, in linea di massima, la pretesa all’attribuzione di uno stato diverso (art. 238): è necessario, a tal fine, l’esercizio di una delle azioni (definite azioni di stato, in cui deve intervenire il pubblico ministero), che la legge prevede tassativamente per l’accertamento, appunto, di uno stato diverso da quello risultante dall’atto di nascita (con la sua conseguente modificazione). a) La presunzione di paternità del marito (evidentemente con riferimento alla filiazione nel matrimonio) può essere vinta – in quanto presunzione relativa – con l’azione di disconoscimento di paternità. L’azione si presenta ora disciplinata in modo diverso dal passato, risultando superate, in particolare, le limitazioni previste in precedenza (ai sensi dell’abrogato art. 235, contenente – in ossequio alla tradizionale operatività in materia del favor legitimitatis: V, 4.1 – una elencazione, reputata tassativa, di casi), non a caso intaccate dall’intervento della giurisprudenza costituzionale e di quella ordinaria 20. Nel confermare, infatti, che l’azione di disconoscimento di paternità del figlio nato nel matrimonio può essere esercitata, oltre che dal marito, anche dalla madre e dal figlio (art. 243 bis1), il legislatore ha optato per una formulazione elastica e comprensiva, richiedendo semplicemente che chi agisce provi (evidentemente con ogni mezzo, in particolare avvalendosi delle attuali acquisizioni della scienza) “che non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto padre” (art. 243 bis2). Si è ribadito, inoltre, che la sola di18

Non operando la presunzione di concepimento durante il matrimonio, ove al figlio nato oltre i trecento giorni l’udienza presidenziale di separazione “sia stato attribuito impropriamente lo status di figlio nato nel matrimonio”, il marito separato “può esercitare l’azione residuale e imprescrittibile di contestazione dello stato di figlio” (“e non quella di disconoscimento di paternità, che presuppone l’operatività della presunzione surrichiamata”: Cass. 21-2-2018, n. 4194, con una interpretazione – anche se non dichiaratamente – analogica della disciplina dettata relativamente all’ambito dell’azione di contestazione: v. infra). 19 La disciplina del possesso di stato non viene riferita, come in precedenza, solo ai figli nati nel matrimonio (come emerge anche dal collegamento sistematico con la nuova disciplina del reclamo e della contestazione dello stato di figlio). 20 Così, in relazione alla necessità – desumibile dal previgente art. 2351, n. 3 – della previa dimostrazione dell’adulterio, rispetto all’ammissione delle prove ematologiche e genetiche, Corte cost. 6-7-2006, n. 266, aveva reputato fondata la questione, valorizzando specificamente “i progressi della scienza biomedica che, ormai, attraverso le prove genetiche od ematologiche, consentono di accertare la esistenza o la non esistenza del rapporto di filiazione”. Facendo leva su tale decisione, in base di una “lettura costituzionalmente orientata” dell’intero art. 2351, Cass. 6-6-2008, nn. 15088 e 15089, avevano sganciato, poi, la possibilità del ricorso alla prova ematologica e genetica dalla “previa dimostrazione”, rispettivamente, del celamento della gravidanza da parte della moglie e della impotenza del marito nel periodo compreso tra i 300 ed i 180 giorni prima della nascita.

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chiarazione della madre (in particolare, quindi, l’ammissione di avere commesso adulterio) non vale ad escludere la paternità del marito (art. 243 bis3). I termini per l’esercizio dell’azione – correntemente considerati di decadenza – sono diversi a seconda del soggetto legittimato 21. Il marito può agire entro un anno decorrente dalla nascita, quando egli si trovava nel luogo di essa, ovvero, in caso di lontananza, dal giorno del suo ritorno (e, in ogni caso, se prova di non aver avuto notizia della nascita al momento del ritorno, dal giorno in cui ne abbia avuto notizia). Se prova di avere ignorato la propria impotenza di generare, ovvero l’adulterio della moglie al tempo del concepimento, il termine decorre solo dal giorno in cui ne abbia avuto conoscenza (art. 2442-3): così recependosi, in sostanza, gli esiti della dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale della previgente disciplina 22. La madre può agire entro sei mesi dalla nascita (art. 2441), ovvero – anche in questo caso in applicazione di un orientamento della Corte costituzionale in ordine alla previgente disciplina 23 – dal giorno in cui sia venuta a conoscenza dell’impotenza di generare del marito. Con una marcata valorizzazione dell’esigenza di certezza e stabilità dello status in precedenza acquisito dal figlio (e, quindi, in ossequio ad un favor minoris, visto come ostativo ad una rilevanza del favor veritatis, tale da porre in pericolo un assetto relazionale 21

Gli artt. 245, 246 e 247 disciplinano, rispettivamente, la sospensione del termine in caso di interdizione del legittimato, la trasmissibilità dell’azione in caso di sua morte, la legittimazione passiva. 22 La Corte costituzionale era, infatti, intervenuta due volte (6-5-1985, n. 134 e 14-5-1999, n. 170), argomentando, in particolare, la rilevanza della conoscenza delle circostanze contrarie alla paternità dall’essere venute, ormai, meno “le remore all’accertamento della verità biologica”, data l’avvenuta “equiparazione della filiazione naturale a quella legittima” (col conseguente tramonto delle ragioni giustificative del favor legitimitatis): “la crescente considerazione del favor veritatis” non si è ritenuta entrare in “conflitto con il favor minoris”, dato che “la verità biologica della procreazione” risulta “componente essenziale dell’interesse del medesimo minore”, il suo “diritto alla propria identità” realizzandosi nella “affermazione di un rapporto di filiazione veridico”. Cass. 23-10-2008, n. 25623, aveva confermato che il termine annuale per la proposizione dell’azione – considerato di decadenza (e, come tale, rilevabile d’ufficio) – decorre dalla conoscenza, da parte del marito, dell’adulterio della moglie (su di lui incombendo l’onere di provare la tempestività della proposta azione). Cass. 30-5-2013, n. 13638, ha precisato che, anche in vista della – ancora attuale, pur nel bilanciamento con il favor veritatis – “necessità di garantire i valori inerenti alla certezza a alla stabilità degli status”, il termine annuale di decadenza dall’azione “decorre dalla data di acquisizione della conoscenza dell’adulterio della moglie e non da quella di raggiunta ‘certezza’ negativa della paternità biologica” (evidentemente in conseguenza di ulteriori approfondimenti bio-medici in sede extragiudiziale). Diversamente sembra, peraltro, più di recente, Cass. 9-2-2018, n. 3263 (sostanzialmente seguita da Cass. 6-3-2019, n. 6517), la quale ha avallato le conclusioni dei giudici d’appello, che avevano ricollegato la decorrenza del termine dall’acquisita “certezza” in ordine all’adulterio – pur già in precedenza conosciuto – solo “all’esito dell’espletamento dell’esame del Dna”. Nel ritenere introdotta nell’ordinamento, a seguito della L. 40/2004 (V, 3.6), “una nuova ipotesi, per certi versi tipica, di disconoscimento”, Cass. 11-7-2012, n. 11644 (le cui conclusioni risultano avallate da Cass. 28-3-2017, n. 7965), ha ritenuto che l’azione possa essere esercitata dal coniuge non consenziente all’inseminazione eterologa, decorrendo comunque il termine annuale di decadenza dal “momento in cui sia acquisita la certezza del ricorso a tale metodo di procreazione”. Per Cass. 18-12-2017, n. 30294, una volta prestato, da parte del marito, il consenso alla pratica di procreazione medicalmente assistita (inseminazione eterologa della moglie), la relativa revoca, che l’art. 63 L. 40/2004 consente “fino al momento della fecondazione dell’ovulo”, successiva a tale momento deve ritenersi inefficace (ai fini dell’operatività dell’art. 91, preclusivo dell’esercizio di disconoscimento della paternità). 23 Corte cost. 14-5-1999, n. 170, aveva esteso anche alla madre la rilevanza, in proposito, del momento della conoscenza dell’impotenza di generare del marito.

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ormai consolidato), si è preclusa – prevedendo un ulteriore termine di decadenza – la possibilità di proporre, da parte della madre e del marito, l’azione di disconoscimento oltre i cinque anni dal giorno della nascita (art. 2444) 24. Essendo evidentemente prevista una simile limitazione temporale alla proponibilità dell’azione nel suo interesse, il figlio non è stato ad essa assoggettato e, quindi, l’azione si atteggia come per lui imprescrittibile (art. 2445) 25. Per il figlio minorenne, l’azione può essere promossa da un curatore speciale, nominato dal tribunale (ordinario) su istanza dello stesso minore che abbia compiuto i quattordici anni, ovvero del pubblico ministero, se di età inferiore (art. 2446) 26. b) L’azione di reclamo dello stato di figlio può essere proposta, per far valere uno stato di figlio diverso da quello emergente dall’atto di nascita, qualora vi siano state supposizione di parto (quando, cioè, la donna indicata nell’atto di nascita come madre non è tale) o sostituzione di neonato (art. 2391). Con riguardo alla filiazione nel matrimonio, si prevede che l’azione di reclamo possa essere esercitata anche da chi sia nato nel matrimonio, ma sia stato iscritto anagraficamente come figlio di ignoti (come accade tipicamente quando la madre non abbia voluto essere nominata nell’atto di nascita) (art. 2392, che fa salvo il caso di intervenuta sentenza di adozione). Si prevede pure, sempre con riguardo alla filiazione nel matrimonio, che possa essere reclamato uno stato di figlio conforme alla presunzione di paternità da chi sia stato riconosciuto in contrasto con tale presunzione, nonché da chi sia stato iscritto anagraficamente in conformità di altra presunzione di paternità (art. 2393). Con riguardo al primo caso, si pensi alla possibile – secondo la giurisprudenza – denuncia, da parte di donna coniugata, del figlio come nato fuori del matrimonio, con conseguente suo riconoscimento da parte di un terzo come proprio figlio; con riguardo alla seconda ipotesi, un conflitto di presunzioni di paternità è ipotizzabile nel caso in cui la madre abbia contratto un nuovo matrimonio in violazione del divieto temporaneo di nuove nozze (art. 89: V, 2.4). Caso particolare di reclamo dello stato di figlio nato nel matrimonio è quello, già accennato, di cui all’art. 2343. Viene anche previsto, quale criterio finale di esercizio 24 Il termine in questione non viene esteso, peraltro, evidentemente per motivi di ragionevole opportunità, all’ipotesi del marito lontano dal luogo della nascita al momento dell’evento. 25 Significativamente, Cass. 26-6-2014, n. 14557, ha ritenuto applicabile il nuovo regime anche ai giudizi pendenti. 26 Tale ultima disposizione, introdotta dalla L. 4.5.1983, n. 184, per evitare possibili elusioni della disciplina dell’adozione, è stata ritenuta costituzionalmente legittima da Corte cost. 27-11-1991, n. 429, ove interpretata nel senso della necessaria valutazione, da parte del giudice (cui sia stata richiesta dal pubblico ministero la nomina del curatore speciale), dell’interesse del minore all’esercizio dell’azione. È stata pure esclusa l’illegittimità della mancata attribuzione al preteso padre naturale della possibilità di agire (che, quindi, potrà solo rivolgersi al pubblico ministero). Cass. 8-2-2012, n. 1784, ha senz’altro definito costui portatore “di un interesse di mero fatto” (che, come tale, non lo legittima a intervenire nel procedimento di disconoscimento della paternità). Proprio con riferimento alle azioni proposte dal curatore speciale, si è venuto ad affermare, nel contesto di una generale sempre maggiore valorizzazione dell’interesse del minore nelle azioni di stato, l’indirizzo tendente ad affermare, ai fini del relativo accoglimento o meno, la costante necessità, appunto, “di un accertamento in concreto dell’interesse del minore … con riferimento agli effetti del provvedimento richiesto in relazione all’esigenza di uno sviluppo armonico dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale” (Cass. 22-12-2016, n. 26767), senza, quindi, potersi conferire rilevanza decisiva a “considerazioni meramente economiche” (Cass. 6517/2019). In una simile prospettiva, Cass. 3-4-2017, n. 8617, sottolinea che la “verifica” dell’interesse del minore debba essere sempre “condotta in termini di attualità, anche in sede di appello”.

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dell’azione, che essa può essere esercitata, altresì, per reclamare un diverso stato di figlio, quando il precedente sia stato comunque rimosso (art. 2394). È da sottolineare che, ove il soggetto risulti avere uno stato di figlio diverso da quello reclamato, dovrà preventivamente rimuovere tale stato mediante l’esercizio (è da ritenere pure contestuale) delle opportune azioni (di contestazione dello stato di figlio o impugnazione del riconoscimento). L’azione spetta al figlio (art. 2491) ed è imprescrittibile (art. 2492). c) L’azione di contestazione dello stato di figlio, che è imprescrittibile (art. 2482), spetta a chi, dall’atto di nascita, risulti suo genitore e a chiunque vi abbia interesse (art. 2481). Il legislatore, evidentemente per risolvere l’incertezza che ne ha da sempre caratterizzato la portata, la dichiara esercitabile nei (soli) casi in cui l’art. 2391-2 ammette l’azione di reclamo dello stato di figlio (art. 240: supra, lett. b), non mancando, peraltro, interpretazioni in senso estensivo del relativo ambito (in particolare, con riguardo al caso di mancanza del matrimonio dei genitori o di non concepimento durante il matrimonio). L’azione in esame, comunque, si ritiene aver carattere residuale 27. Sul piano della prova della filiazione, infine, il nuovo art. 241, superando le limitazioni del previgente sistema, ha senz’altro ammesso, in mancanza dell’atto di nascita e del possesso di stato, la possibilità di fornirla in giudizio con ogni mezzo.

4. Accertamento della filiazione fuori del matrimonio. – L’attribuzione dello stato di figlio, nel caso di nascita fuori del matrimonio, avviene o con un atto di accertamento volontario della procreazione da parte del genitore (riconoscimento) o con un accertamento giudiziale (dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità) di tale fatto 28. La dichiarazione giudiziale della filiazione fuori del matrimonio produce gli stessi effetti del riconoscimento (art. 2771) e, quindi, l’attribuzione dello status di figlio, inteso nella sua unitarietà, ai sensi dell’art. 315, anche con riguardo all’instaurazione del vincolo di parentela (art. 2581, con riferimento al nuovo art. 74). a) Discussa è la natura del riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio. Di fronte al vero e proprio diritto del generato allo stato di figlio, data l’attuale possibilità di esperire l’azione di dichiarazione giudiziale senza i tradizionali limiti, è da negare, ormai, una sua efficacia costitutiva dello stato. Esso si presenta, quindi, come atto volontario inquadrabile, pur con le peculiarità che gli sono proprie (per la natura degli interessi che coin27 Con ciò, Cass. 8-9-1995, n. 9463, vuole intendere che essa concerne solo “le contestazioni diverse dalla paternità” (per la cui negazione risulta, insomma, esperibile esclusivamente l’azione di disconoscimento). Cass. 21-2-2018, n. 4194, peraltro, ha precisato che è con questa azione che deve agire il marito separato, nel caso in cui al figlio – nato oltre trecento giorni dopo l’udienza presidenziale del giudizio di separazione – sia stato attribuito impropriamente (non operando in tal caso la presunzione di paternità di cui all’art. 2321) lo status di figlio nato nel matrimonio (e non con quella di disconoscimento di paternità, che presuppone l’operatività della relativa presunzione). In particolare (con riferimento alle categorie previgenti), non è esercitabile dal preteso padre naturale “del figlio che, nato da madre coniugata, abbia lo stato di figlio legittimo del marito di questa, in forza dell’atto di nascita … per contrastare tale paternità legittima” (Cass. 24-3-2000, n. 3529). 28 Peraltro, il peso dell’accertamento formale in questione sembra risultare sempre più eroso, come attesta la tendenza a ritenere “l’obbligazione di mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio … collegata allo status genitoriale”, sorgendo essa “con la nascita per il solo fatto di averli generati” (Cass. 22-7-2014, n. 16657, che ravvisa nel disinteresse del genitore “gli estremi dell’illecito civile”). Circa il necessario rimborso delle spese sostenute per il mantenimento del figlio a carico del genitore di cui sia stata successivamente accertata la paternità, v. Trib. Roma 26-2-2016 (che dispone anche il risarcimento del danno non patrimoniale a favore della madre, “per aver dovuto crescere un figlio “nella colpevole assenza del padre”).

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volge ed in quanto punto di riferimento di una specifica, alquanto dettagliata, disciplina), nella categoria del negozio di accertamento. Si tratta di un atto unilaterale, pur se può avvenire congiuntamente da parte dei due genitori (art. 2501), sempre personalissimo. La sua irrevocabilità è così marcata da farlo sopravvivere, addirittura, alla revoca del testamento in cui sia eventualmente contenuto (art. 256). Si tratta di atto puro, come emerge dall’art. 257, che dichiara nulle – senza, peraltro, che ne risulti viziato l’atto – le clausole (quindi, anche condizione e termine) dirette a limitarne gli effetti. Già con la riforma del 1975 era venuto meno il divieto di riconoscimento da parte di chi fosse coniugato, al tempo del concepimento, con persona diversa dall’altro genitore (c.d. filiazione adulterina) (art. 2501): barriera invalicabile eretta, in precedenza, a tutela degli interessi (essenzialmente economici) della famiglia legittima (e del suo “capo”). Era rimasto (quale unica ipotesi, dunque, di irriconoscibilità), invece, il divieto relativo ai figli incestuosi (con una limitata eccezione in conseguenza dell’eventuale buona fede dei genitori e previa autorizzazione giudiziale). Con riguardo ai figli che si trovino nella corrispondente condizione, in quanto nati da persone legate da un vincolo di parentela in linea retta all’infinito o in linea collaterale nel secondo grado (fratelli e sorelle), ovvero di affinità in linea retta, il nuovo art. 251 (che ha eliminato anche ogni riferimento – indubbiamente odioso per il figlio – alla previgente terminologia) ha ammesso la possibilità del riconoscimento. La necessità della previa autorizzazione giudiziale (in caso di minore di competenza del tribunale per i minorenni: art. 2511-2 e art. 381 disp. att.) – “avuto riguardo all’interesse del figlio e alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio” – vale a chiarire come decisiva in materia non possa che essere la protezione della personalità del figlio, di fronte ai rischi connessi alla divulgazione della sua origine. Per effettuare il riconoscimento, il genitore deve avere compiuto i sedici anni: art. 2505, che ammette anche la possibilità di autorizzazione giudiziale ad una età inferiore, “valutate le circostanze e avuto riguardo all’interesse del figlio”. La preminente rilevanza accordata – pur eventualmente in contrasto col favor veritatis – all’interesse del figlio al riconoscimento (e, quindi, alla instaurazione del rapporto di filiazione col genitore) emerge anche nella previsione secondo cui il riconoscimento del figlio che abbia compiuto i quattordici anni resta inefficace senza il suo assenso (art. 2502). Inoltre, il (secondo) riconoscimento del figlio infraquattordicenne non può avvenire (è inefficace) senza il consenso dell’altro genitore che già lo abbia riconosciuto (art. 2503). In caso di rifiuto del consenso, il genitore che intenda effettuare il riconoscimento – diffusamente reputato titolare, al riguardo, di un proprio diritto costituzionalmente garantito (c.d. diritto alla genitorialità) – può rivolgersi al tribunale, il quale, con le modalità procedimentali previste 29, autorizzerà il riconoscimento, evidentemente se lo ritenga rispondente, in concreto, all’interesse del figlio (art. 2504) 30. 29 In particolare, disponendo, nel giudizio che consegue all’opposizione del genitore che per primo lo ha riconosciuto, l’audizione del minore, se dodicenne, o anche di età inferiore se capace di discernimento (IV, 1.7). Corte cost. 11-3-2011, n. 83, ha riconosciuto al minore, in detto giudizio (essendo qui in gioco “l’accertamento del rapporto genitoriale con tutte le implicazioni connesse”), la qualità di parte, con le connesse prerogative di rappresentanza sostanziale e processuale. 30 Posto che “l’interesse del minore al riconoscimento da parte di entrambi i genitori naturali si presume”, avendo il figlio “diritto al riconoscimento del proprio status filiationis e alla propria identità biologica” (quale

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Il riconoscimento può avvenire anche prima della nascita. Il riconoscimento del nascituro da parte del padre può avvenire o contestualmente a quello della gestante o dopo il riconoscimento di quest’ultima (e col suo consenso, ai sensi dell’art. 2503) (art. 44 D.P.R. 3.11.2000, n. 396). È ammesso anche, nell’interesse dei suoi discendenti, il riconoscimento del figlio premorto (art. 255). Il riconoscimento è atto formale. Esso può avvenire: nell’atto di nascita (con dichiarazione resa all’ufficiale dello stato civile); con dichiarazione al momento del matrimonio (inserita nell’atto di matrimonio: art. 64 D.P.R. 396/2000); con apposita dichiarazione resa all’ufficiale dello stato civile o ad un notaio; in un testamento, qualunque sia la relativa forma (art. 2541). In tale ultima ipotesi, il riconoscimento – avente effetto dal giorno della morte del testatore – ha valore di atto autonomo (solo incluso nel testamento), onde la sua irrevocabilità, nonostante l’eventuale revoca del testamento (art. 256). Il riconoscimento è inammissibile (e, quindi, inefficace) se in contrasto con il già esistente stato di figlio (art. 253). Esso può essere impugnato per violenza (dall’autore del riconoscimento, entro un anno dalla cessazione della violenza o dal conseguimento dell’età maggiore, se l’autore è minore: art. 265), per interdizione giudiziale 31 (dal rappresentante dell’interdetto o dallo stesso autore dopo la revoca dell’interdizione, entro un anno da essa: art. 266), per difetto di veridicità (art. 263). In tale ultimo caso, l’azione può essere proposta dal suo autore, dal riconosciuto e da chiunque vi abbia interesse 32. “elemento costitutivo della sua identità personale”), e che anche “il diritto del genitore ad effettuare il riconoscimento è un diritto soggettivo primario, che trova le sue fonti nell’art. 30 Cost.”, Cass. 27-5-2008, n. 13830, ha concluso che, data “la concorrenza di questi due diritti primari”, “l’uno o l’altro possono essere sacrificati solo nel caso in cui venga dimostrata l’esistenza di fatti gravi e irreversibili, caratterizzati da connotazione di eccezionalità, tali da far ritenere che il riconoscimento da parte del genitore naturale potrebbe compromettere seriamente lo sviluppo psicofisico del minore” (sostanzialmente analoghi sviluppi in Cass. 30-7-2014, n. 17277 e in Cass. 2-2-2018, n. 4763, che reputa non ostative anche condotte moralmente censurabili o pendenze penali, accordando rilievo, piuttosto, all’accertamento di “gravi carenze come figura genitoriale”; per Cass. 14-2-2019, n. 4526, non assumerebbe rilievo neppure l’essere stato mosso l’autore “dal proposito di conseguire vantaggi personali, quanto all’ottenimento del permesso di soggiorno”; ma eventualmente ostativa è stata riconosciuta l’“abituale condotta prevaricatrice e violenta” del padre biologico: Cass. 30-6-2021, n. 18600). Circa l’aggiunta, in ipotesi di secondo riconoscimento paterno, del patronimico al cognome della madre, Cass. 16-1-2020, n. 772 ne ha ammessa la legittimità, “purché non gli arrechi pregiudizio in ragione della cattiva reputazione del padre e purché non sia lesivo della sua identità personale, ove questa si sia definitivamente consolidata con l’uso del solo matronimico nella trama dei rapporti personali e sociali”. In tale contesto (tendente, insomma, a rendere sostanzialmente eccezionale la preclusione del secondo riconoscimento), ovviamente, “l’audizione del minore assume un particolare rilievo” (Cass. 27-3-2017, n. 7762). 31 È controversa l’ammissibilità dell’impugnazione del riconoscimento anche per incapacità naturale. Cass. 8-10-1970, n. 1869, contro l’avviso di parte della dottrina, non la ritiene consentita: resterebbe possibile, se del caso, come in ipotesi di errore (e di dolo), solo l’impugnazione per difetto di veridicità. 32 La giurisprudenza ha tradizionalmente condiviso la tesi, secondo la quale l’impugnazione “è ammessa in ogni caso in cui il riconoscimento sia obiettivamente non veridico” e, quindi, pure da parte di chi, in malafede, lo abbia “effettuato con la consapevolezza dell’altrui paternità” (Cass. 24-5-1991, n. 5886, avallata, da ultimo, da Cass. 21-2-2019, n. 5242). Comunque, essa ha accordato, in tal caso (c.d. riconoscimento di compiacenza), al figlio successivamente rinnegato una tutela risarcitoria, per la “lesione al diritto all’identità personale” (Cass. 31-7-2015, n. 16222). Peraltro, non si è mancato di concludere – nel caso in cui, appunto, “il riconoscimento sia stato effettuato nella piena consapevolezza della sua falsità biologica” – nel senso della relativa irretrattabilità “non solo da chi lo ha effettuato … ma anche da parte dei terzi” (così, in contrasto con l’accennato orientamento, sulla base di una “interpretazione costituzionalmente orientata”, Trib. Roma 5-10-2012 e Trib. Firenze 30-7-2015). La Corte costituzionale (25-6-2020, n. 127), richiamandosi alle conclusioni della propria precedente pronuncia n. 272/2017 (v. infra), ha giudicato infondata la relativa questione di legittimità costituzionale, ritenendo che, pure

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Durante la minore età, l’impugnazione per difetto di veridicità può essere promossa da un curatore speciale (art. 264) 33. La imprescrittibilità dell’azione – a differenza di quanto originariamente previsto – risulta ora disposta esclusivamente riguardo al figlio: in sostanziale analogia con quanto previsto per l’azione di disconoscimento di paternità, l’autore del riconoscimento lo può impugnare solo entro un anno (dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita), salvo che provi di avere ignorato la propria impotenza al tempo del concepimento, il termine decorrendo, allora, dalla relativa conoscenza (analogo regime si applica anche alla madre che, a sua volta, abbia effettuato il riconoscimento). Comunque – e ciò vale anche per gli altri legittimati – l’azione non può essere proposta oltre i cinque anni dall’annotazione del riconoscimento 34. “nel caso dell’impugnazione del riconoscimento consapevolmente falso da parte del suo autore”, occorra – nell’ormai consolidata ottica secondo cui è sempre necessario “bilanciare la verità del concepimento con l’interesse concreto del figlio alla conservazione dello status acquisito” – evitare soluzioni costituenti “il risultato di una valutazione astratta e predeterminata”, operando, piuttosto, ai fini dell’accoglimento dell’azione, “una razionale comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei soggetti coinvolti” (con riguardo, in particolare, alla “durata del rapporto di filiazione e del consolidamento della condizione identitaria acquisita per effetto del falso riconoscimento”). Circa la legittimazione alla impugnazione, Cass. 22-11-1995, n. 12085, ha ritenuto, in particolare, ammissibile anche l’azione del vero genitore. Quanto alla prova da fornire, il precedente indirizzo tendente ad irrigidirne particolarmente il regime (richiedendo il raggiungimento della prova dell’“assoluta impossibilità di concepimento”: ad es., Cass. 11-9-2015, n. 17970) risulta superato da Cass. 14-12-2017, n. 30122 e 10-7-2018, n. 18140 (col richiamo ai criteri considerati operanti per ogni altra azione di stato). La disciplina dell’azione in questione (dato che la “verità del rapporto di filiazione” rappresenta “un valore necessariamente da tutelare … in funzione di un’imprescindibile esigenza di certezza dei rapporti di filiazione” e “la falsità del riconoscimento lede il diritto del minore alla propria identità”) era stata ritenuta costituzionalmente legittima da Corte cost. 22-4-1997, n. 112, pure sotto il profilo della relativa (previgente) generalizzata imprescrittibilità (in ordine alla quale, neanche Corte cost. 12-1-2012, n. 7, aveva ritenuto di potere intervenire, trattandosi di materia la cui disciplina è riservata al legislatore). Con riguardo ad un caso di surrogazione di maternità (e, quindi, di impugnazione dell’avvenuto riconoscimento da parte della c.d. madre sociale o committente), App. Milano, ord. 25-7-2017 ha dubitato della legittimità costituzionale dell’art. 263, in quanto, “prescindendo dalla valutazione in concreto dell’interesse del minore a conservare lo status acquisito”, avrebbe “una funzione sanzionatoria”, inammissibile proprio perché finisce col riflettersi sul figlio”. Corte cost. 18-12-2017, n. 272, ha concluso nel senso della infondatezza della questione, una volta ritenuto, però, che, anche in relazione all’azione di cui all’art. 263, salvo che in caso di azione proposta dal figlio stesso, si debba comunque operare un bilanciamento tra le esigenze in gioco, attraverso “un giudizio comparativo tra gli interessi sottesi all’accertamento della verità dello status e le conseguenze che da tale accertamento possano derivare sulla posizione giuridica del minore” (ai cui fini si deve tener conto, senza automatismi, di “variabili molto più complesse della rigida alternativa vero o falso”, quali “oltre alla durata del rapporto instauratosi col minore e quindi alla condizione identitaria già da esso acquisita”, “le modalità del concepimento e della gestazione e la presenza di strumenti legali che consentano la costituzione di un legame giuridico col genitore contestato, che pur diverso da quello derivante dal riconoscimento, quale è l’adozione in casi particolari, garantisca al minore un’adeguata tutela”: una valutazione comparativa cui non può rimanere estranea “la considerazione dell’elevato grado di disvalore che il nostro ordinamento riconnette alla surrogazione di maternità, vietata da apposita disposizione penale”). 33 La relativa istanza può provenire dal figlio stesso che abbia compiuto il quattordicesimo anno, ovvero dal pubblico ministero o dall’altro genitore che abbia riconosciuto il figlio, quando si tratti di figlio di età inferiore. L’art. 74 L. 4.5.1983, n. 184, per evitare elusioni delle regole in materia di adozione attraverso falsi riconoscimenti, ha prescritto la comunicazione al tribunale per i minorenni, da parte dell’ufficiale dello stato civile, del riconoscimento ad opera di persona coniugata di un figlio nato fuori del matrimonio non riconosciuto dall’altro genitore. Nel caso in cui, ad esito delle opportune indagini, vi siano fondati motivi di non veridicità del riconoscimento, il tribunale, anche d’ufficio, nomina un curatore speciale per l’esercizio dell’azione. 34 Corte cost. 25-6-2021, n. 133 ha concluso nel senso della illegittimità costituzionale dell’art. 2633, “nella parte in cui non prevede che, per l’autore del riconoscimento, il termine annuale per proporre l’azione di impugnazione decorra dal giorno in cui ha avuto conoscenza della non paternità” (“qualsivoglia ragione l’abbia

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b) Nel codice civile del 1865, la dichiarazione giudiziale della paternità era ammessa solo in caso di ratto o di stupro. In quello del 1942, si provvide ad un allargamento dei casi di esperibilità dell’azione, che rimasero, comunque, tassativi. Per la preminente rilevanza accordata all’interesse del figlio a godere dello stato che gli compete in dipendenza della procreazione, già con la riforma del 1975 è stato sancito il principio per cui la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità è consentita in tutti i casi in cui è ammesso il riconoscimento (art. 2691), potendo la relativa prova essere fornita con ogni mezzo (art. 2692) 35. Il nuovo art. 278, poi, ha previsto che, nel caso in cui ricorra la situazione considerata nell’art. 251 (supra, lett. a), la soluzione sia la medesima e, quindi, occorra l’autorizzazione giudiziale per promuovere l’azione 36. Al figlio, così, sembra effettivamente riconosciuto un vero e proprio diritto a vedere accertato il suo stato 37. La maternità è dimostrata provando l’identità di chi si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna che si pretende essere madre (art. 2693) 38. La sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di suoi rapporti col preteso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità (art. 2694), in considerazione dell’eventualità di una pluralità di partners. Il giudice gode di ampia discrezionalità in relazione all’ammissione e valutazione dei mezzi di prova (art. 2693). Dato che i progressi scientifici hanno reso altamente attendibideterminata”): ciò, in particolare, per la diversità di trattamento rispetto a quanto consentito al padre coniugato per l’esercizio dell’azione di disconoscimento di paternità, ai sensi dell’art. 2442-3 (v. supra, V, 4.3). Infondata, invece, è stata reputa la questione concernente la preclusione dell’azione una volta che siano trascorsi cinque anni dall’annotazione del riconoscimento: operando una simile decadenza solo dopo “un così lungo decorso del tempo”, l’avvenuto consolidamento dello status filiationis giustifica, in effetti, “che la prevalenza di tale interesse sia risolta in via automatica dalla fattispecie normativa” (anche perché “l’interesse a far valere la verità biologica … può essere fatto valere dallo stesso figlio, per il quale l’azione di impugnazione del riconoscimento risulta imprescrittibile”. 35 Si sottolinea che “la giurisprudenza è univoca nell’affermare che, nell’ipotesi di nascita per fecondazione naturale, la paternità è attribuita come conseguenza del concepimento, sicché è esclusivamente decisivo l’elemento biologico, non occorrendo anche una cosciente volontà di procreare del presunto padre” (dato “il principio della responsabilità che necessariamente accompagna ogni comportamento potenzialmente procreativo”: Cass. 25-9-2013, n. 21882). Cass. 13-12-2018, n. 32308, ha considerato manifestamente infondati i dubbi di illegittimità costituzionale della disciplina in esame, laddove “attribuisce la paternità naturale in base al mero dato biologico, senza alcun riguardo alla volontà contraria alla procreazione del presunto padre”. 36 I limiti ancora posti all’esercizio dell’azione erano stati rimossi da Corte cost. 28-11-2002, n. 494, che aveva riconosciuto lesiva del figlio, in quanto non responsabile, e del suo interesse, unico da considerare rilevante, la discriminazione nei confronti di costui, legata al carattere incestuoso della filiazione. Il suo interesse al relativo accertamento, infatti, risultando comunque protetto, dato che solo a lui è riconosciuta l’iniziativa (art. 270) e, in caso di minore, occorre il suo consenso (se già in età tale da poterlo esprimere) o la valutazione di rispondenza al suo interesse dell’azione. 37 Proprio in una simile prospettiva, si è affermato un indirizzo tendente ad ammettere il risarcimento del danno non patrimoniale – talvolta definito “da privazione della figura genitoriale” – subito dal figlio per la (colpevole) carente partecipazione del genitore, fin dall’inizio, alla sua vita (V, 2.9, nel contesto della problematica del c.d. illecito endofamiliare). 38 Nega, peraltro, che tale regola costituisca “principio fondamentale di rango costituzionale”, Cass. 30-9-2016, n. 19599 (in vista del riconoscimento in Italia di un atto di nascita straniero da genitori dello stesso sesso: V, 4.8). Facendo sostanzialmente applicazione dei recenti approdi in materia di anonimato della madre (V, 4.2 e 4.8), Cass. 22-9-2020, n. 19824 ha precisato che l’azione di accertamento della maternità ex art. 269, “ove la madre abbia esercitato il diritto al c.d. parto anonimo, è sottoposta alla condizione della revoca della rinuncia alla genitorialità giuridica da parte della madre, ovvero della morte di quest’ultima, non essendovi più in entrambi i casi elementi ostativi per la conoscenza del rapporto di filiazione”.

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li i risultati delle prove ematologiche e genetiche, queste hanno finito con l’assumere un ruolo di primo piano (e spesso decisivo): il rifiuto ingiustificato di sottoporsi ad esse è valutabile come significativo elemento di prova (ai sensi dell’art. 1162 c.p.c.) 39. Il giudice, comunque, può fondare il proprio convincimento anche altrimenti (pure escludendo, quindi, tale genere di prove) 40. L’azione è considerata imprescrittibile per il figlio (art. 2701) 41 e può essere proseguita, dopo la sua morte, dai suoi discendenti (art. 2703); può anche essere promossa da costoro dopo la sua morte entro due anni (art. 2702) 42. L’azione può essere promossa, nell’interesse del minore, dal genitore che esercita la responsabilità genitoriale su di lui (avendolo già riconosciuto) o dal tutore (con l’autorizzazione giudiziale) (art. 2731). Per promuovere o proseguire l’azione, se il figlio ha compiuto i quattordici anni, occorre il suo consenso (art. 2732). Nel caso di minore infraquattordicenne, spetta al tribunale preliminarmente valutare la corrispondenza dell’azione promossa dal genitore all’interesse del figlio 43. Il giudizio di ammissibilità dell’azione, originariamente previsto dall’art. 274, era stato piegato anche a tale finalità dalla Corte costituzionale 44. La riforma del 1975 aveva lasciato sopravvivere, in effetti, una simile fase preliminare (ritenuta costituire autonomo 39 In tal senso, ad es., Cass. 21-5-2014, n. 11223. Cass. 5-6-2018, n. 14458, ha reputato manifestamente infondata una questione di legittimità costituzionale sollevata in proposito. Il peso anche determinante di tale condotta processuale, “posta in correlazione con le dichiarazioni della madre”, risulta evidenziato da Cass. 9-4-2009, n. 8733. Si precisa che, data la non sussistenza “di un ordine gerarchico delle prove riguardanti l’accertamento giudiziale della paternità e maternità”, “il rifiuto ingiustificato del padre di sottoporsi agli esami ematologici … può essere liberamente valutato dal giudice, ai sensi dell’art. 1162 c.p.c, anche in assenza della prova dei rapporti sessuali tra le parti” (Cass. 28-3-2017, n. 7958). 40 Rilevanza è accordata, a tal fine, in particolare, alla convivenza more uxorio dei genitori ed al possesso di stato da parte del figlio. Cass. 3-4-2007, n. 8355, prospetta l’opportuna integrazione, a fini probatori, di “risultanze probatorie di valore indiziario” e degli “esiti della consulenza tecnica” relativa alle “prove ematologiche e genetiche” (per la cui efficacia, v. Cass. 25-3-2015, n. 6025, purché effettuate nel rispetto delle c.d. “linee guida” in materia: Cass. 31-7-2015, n. 16229). 41 Cass. 29-11-2016, n. 24292, ha considerato manifestamente infondata la relativa questione di legittimità costituzionale, costituendo “il diritto del figlio ad uno status filiale corrispondente alla verità biologica … una delle componenti più rilevanti del diritto all’identità personale che accompagna senza soluzione di continuità la vita individuale e relazionale, non soltanto nella minore età, ma in tutto il suo svolgersi”. 42 L’art. 276, nel disporre che la domanda deve essere proposta nei confronti del presunto genitore o, in sua mancanza dei suoi eredi, ha ora previsto pure che, in mancanza di questi ultimi, essa debba essere proposta nei confronti di un curatore speciale nominato dal giudice (ovviando, così, alla possibile situazione di inammissibilità dell’azione in cui si risolveva la rigorosa interpretazione di Cass., sez. un., 3-11-2005, n. 21287). La nuova disciplina è stata ritenuta applicabile, sulla base di ampie considerazioni circa la ratio della riforma, anche ai giudizi pendenti alla sua entrata in vigore (Cass. 19-9-2014, n. 19790). Cass. 24-1-2020, n. 1667 ha reputato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 270, “nella parte in cui prevede termini differenziati, quando l’azione sia proposta dal figlio o dai suoi discendenti dopo la sua morte”, per “l’evidente disomogeneità delle situazioni considerate”. 43 Al riguardo, la contrarietà all’interesse del figlio viene reputata sussistere “solo in caso di concreto accertamento di una condotta del preteso padre che sarebbe tale da giustificare una dichiarazione di decadenza dalla responsabilità genitoriale, ovvero della prova dell’esistenza di gravi rischi per l’equilibrio affettivo e psicologico del minore e per la sua collocazione sociale” (senza che rilevino, in particolare, “le intenzioni manifestate dal presunto genitore di non voler comunque adempiere i doveri morali inerenti la responsabilità genitoriale”: Cass. 21-6-2018, n. 16356). 44 Ragionando nella prospettiva dell’art. 2504, Corte cost. 20-7-1990, n. 341, aveva allargato, cioè, la portata di tale giudizio anche al controllo della “convenienza al minore dell’accertamento formale del rapporto di filiazione”.

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procedimento contenzioso), tradizionalmente destinata a verificare il carattere non temerario o, addirittura, ricattatorio nei confronti del convenuto – la sussistenza, insomma, del c.d. fumus boni iuris – dell’azione. La duplicazione delle attività e l’allungamento dei tempi conseguenti alla previsione di un giudizio (pur sommario) sull’ammissibilità dell’azione sono stati oggetto di serrata critica, giungendosi, infine, alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma 45. Al divieto di indagini sulla paternità e maternità naturali in caso di filiazione incestuosa irriconoscibile si coordinava originariamente la previsione – attuativa del principio dell’art. 301 Cost. – della possibilità, per il figlio, “in ogni caso in cui non può proporsi l’azione per la dichiarazione di paternità o maternità”, di agire (previa autorizzazione giudiziale) per ottenere il mantenimento, l’istruzione e l’educazione (e se maggiorenne in stato di bisogno, gli alimenti) (art. 279): senza costituire, così, lo stato di filiazione, essendo escluso, in particolare, l’acquisto, da parte del soggetto dichiarato obbligato, di qualsiasi diritto o potestà nei confronti del figlio. Il sostanziale superamento del divieto sembra finire col limitare il ruolo della – pur ora mantenuta – azione a situazioni del tutto marginali 46.

5. Legittimazione dei figli (cenni storici). – L’unificazione dello status di figlio ha comportato, per coerenza, la soppressione della sezione II, capo II, titolo VII del libro primo, relativa al tradizionale istituto della legittimazione dei figli naturali (art. 110 L. 219/2012). Istituto, questo, di evidente notevole importanza in un sistema, come quello originario del codice civile, che discriminava incisivamente la posizione dei figli nati fuori del matrimonio rispetto a quella dei figli nati nel matrimonio, ma di rilevanza già marginale a seguito della relativa sostanziale equiparazione, a seguito della riforma del 1975. La legittimazione, in effetti, valeva ad attribuire “a colui che è nato fuori del matrimonio la qualità di figlio legittimo” (“per susseguente matrimonio dei genitori”: abrogato art. 2801-2), consentendo di superare ogni residua differenza ancora riscontrabile tra lo stato dei figli: in particolare, quella dipendente dall’instaurare la filiazione fuori del matrimonio effetti solo riguardo al genitore nei cui confronti l’accertamento stesso fosse avvenuto (originario art. 2581) (negandosi, infatti, l’instaurazione – pure con i riflessi successori – di un generale rapporto di parentela con i relativi congiunti). 6. Procreazione medicalmente assistita. – La possibilità, offerta dal progresso scientifico, di intervenire nel processo riproduttivo ha determinato l’insorgere di ovvi problemi in ordine allo stato dei figli così generati. Di fronte alla vasta gamma delle situazioni cui può dar luogo la combinazione artificiale dei fattori della riproduzione (gameti maschili e femminili), arduo è il compito del legislatore e dell’interprete, comunque destinato a 45 Cass. 4-7-2003, n. 10625, aveva sollecitato un giudizio di legittimità costituzionale, per il carattere inutilmente defatigatorio della procedura. La questione, giudicata inammissibile da Corte cost. 11-6-2004, n. 169, fu accolta da Corte cost. 10-2-2006, n. 50, che ha ritenuto il giudizio di ammissibilità – soprattutto avendone la “evoluzione della disciplina procedimentale totalmente vanificato la funzione in vista della quale tale giudizio era stato originariamente previsto” – “un inutile duplicato idoneo solo a favorire istanze dilatorie” (precisando che l’esigenza della rispondenza dell’azione all’interesse del minore “potrà essere eventualmente delibata prima dell’accertamento della fondatezza dell’azione di merito”). 46 A parte il caso di mancata autorizzazione giudiziale al riconoscimento, ai sensi dell’art. 251, si ipotizza di ritenere, in proposito, consentito al figlio non riconosciuto optare – sulla base di personali scelte di convenienza – per far valere i diritti derivanti dall’art. 279, pur quando potrebbe altrimenti conseguire lo stato di figlio.

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doversi confrontare con questioni intorno alle quali si agitano concezioni etiche divergenti. Le tecniche di procreazione medicalmente assistita (p.m.a) finiscono inevitabilmente con lo scontrarsi con i principi e le regole fin qui affermatisi in materia di filiazione, in particolare con riguardo al rapporto tra derivazione biologica e responsabilità nei confronti del generato. Ad essere posti in discussione sono soprattutto il principio di verità (della corrispondenza, cioè, tra realtà naturale e stato giuridico del nato, una volta minato lo stesso presupposto sostanziale di tale principio, rappresentato dalla costante convergenza tra realtà naturale e realtà genetica) e quello della indisponibilità degli status personali e delle relative azioni (la volontà di chi si avvale delle nuove tecniche finendo, infatti, col potere incidere sullo stato del generato) 47. Con la L. 19.2.2004, n. 40, anche il nostro legislatore, tra prevedibili polemiche e discussioni di principio non sempre costruttive, ha dettato una – subito diffusamente (e sotto vari profili) contestata – regolamentazione della procreazione medicalmente assistita 48. 47 Non esitandosi, di conseguenza, a parlare, in proposito, di una genitorialità consensuale (V, 1.1), nella prospettiva di un vero e proprio “sistema alternativo” (“speciale”) di “attribuzione dello status”, con conseguente inapplicabilità della disciplina del codice civile (prospettiva per cui v., ad es., Trib. Messina 28-9-2017, avallata da Cass. 15-5-2019, n. 13000). 48 L’accesso alle tecniche di p.m.a. è riservato alle coppie maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile (peraltro, a seguito di Corte cost. 5-6-2015, n. 96, una tale limitazione risulta rimossa – in quanto ritenuta in contrasto con gli artt. 3 e 32 Cost. – per le coppie fertili portatrici di gravi malattie genetiche trasmissibili: IV, 1.2), entrambi viventi (art. 5). Circa tali condizioni, si è dubitato, in particolare della legittimità costituzionale della relativa limitazione alle coppie eterosessuali (con l’irrogazione della sanzione previste dall’art. 122 a chi applichi le tecniche di p.m.a.). Con un’ampia motivazione, Corte cost. 23-10-2019, n. 221, ha reputato infondata la relativa questione (ritenendola comunque implicitamente limitata alle coppie omosessuali femminili). Una volta individuato il senso profondo della questione nella legittimità o meno di prevedere limitazioni al “diritto a procreare” (o “alla genitorialità”), in quanto “declinabile anche come diritto a procreare con metodi diversi da quello naturale”, ha ritenuto, in effetti, la limitazione in discussione costituire applicazione ragionevole – in considerazione della discrezionalità consentita al legislatore nel “trovare un punto di equilibrio tra le diverse istanze” – delle due “idee di base” della L. 40/2004. Da una parte, posta la finalizzazione della legge a rimediare “alla sterilità o infertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimovibile”, non si è giudicata “omologabile all’infertilità (di tipo assoluto e irreversibile) della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive” la “infertilità ‘fisiologica’ della coppia omosessuale (femminile)” (come, del resto, quella analoga “della donna sola e della coppia eterosessuale di età avanzata”). Dall’altra, una volta reputata “non irrazionale e ingiustificata, la preoccupazione legislativa di garantire, a fronte delle nuove tecniche procreative, il rispetto delle condizioni ritenute migliori per lo sviluppo della personalità del nuovo nato”, ragionevole è stata considerata la scelta tendente ad assicurare che la “struttura del nucleo familiare scaturente dalle tecniche in questione … riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre” (non risultando inficiata una simile conclusione “dai più recenti orientamenti della giurisprudenza comune sui temi dell’adozione di minori da parte di coppie omosessuali e del riconoscimento in Italia di atti formati all’estero dichiarativi del rapporto di filiazione in confronto a genitori dello stesso sesso”: l’elemento di ragionevole differenziazione essendo rappresentato dalla circostanza che “l’adozione” – ma il ragionamento sembra valere anche per l’altra situazione considerata – “presuppone l’esistenza in vita dell’adottando”, col suo “interesse a mantenere relazioni affettive già di fatto instaurate e consolidate”, mentre “la p.m.a. serve a dare un figlio non ancora venuto ad esistenza ad una coppia, o a un singolo, realizzandone le aspirazioni genitoriali”, non presentandosi irragionevole, allora, “che il legislatore si preoccupi di garantirgli quelle che, secondo le sue valutazioni e alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale, appaiono, in astratto, come le migliori condizioni ‘di partenza’”). Simili sviluppi risultano sostanzialmente avallati da Corte cost. 4-11-2020, n. 230, la quale, comunque, non manca di evidenziare come, se la soluzione nel senso del “riconoscimento della omogenitorialità, all’interno di un rapporto tra due donne unite civilmente, non è imposto dai precetti costituzionali”, l’ordinamento risulti aperto “a soluzioni di segno diverso, in base alle valutazioni che il legislatore potrà dare alla fenomenologia considerata”. Tale impostazione argomentativa risulta ampiamente utilizzata da

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Per limitarsi qui alle norme più direttamente incidenti sullo stato del generato (su altri aspetti di tale regolamentazione, cfr. IV, 1.2; IV, 2.5 e V, 4.2), pare opportuno, innanzitutto, sottolineare come, pur avendo la legge vietato il ricorso a tecniche di tipo eterologo (comportanti l’utilizzazione di gameti estranei alla coppia che accede al trattamento) 49 (art. 43), non avesse mancato di disciplinarne le conseguenze sullo stato del procreato (art. 91). Ciò ha consentito di assicurare la piena operatività della preminente Cass. 3-4-2020, n. 7668, al fine di negare – in caso di “atto di nascita formato in Italia” – la possibilità di una cogenitorialità (femminile), in conseguenza dell’applicazione di tecniche di p.m.a. (V, 4.2, nota 14). 49 Il divieto delle tecniche eterologhe rientra tra i profili della legge sottoposti al referendum che, ammesso da Corte cost. 28-1-2005, nn. 45, 46, 47, 48, 49, è risultato invalido per il mancato raggiungimento del richiesto quorum di elettori votanti. Successivamente, Trib. Milano, 23-11-2009 ha considerato infondata la relativa questione di legittimità costituzionale, dato che “la tutela esclusiva della genitorialità biologica, pur potendo non essere condivisibile, non risulta sindacabile poiché attiene alla discrezionalità riservata al legislatore che così ha voluto proteggere il diritto del nascituro alla propria identità biologica”, in una ragionevole prospettiva di “preminenza dell’interesse del minore nell’ambito di un bilanciamento con gli altri interessi coinvolti”. A riaprire la discussione in proposito, è stata Corte eur. dir. uomo 1-4-2010, la quale ha reputato contraria alla Conv. eur. dir. uomo (art. 8, diritto al rispetto della vita privata e familiare; art. 14, divieto di discriminazione) la legislazione austriaca, laddove prevede il divieto delle tecniche di procreazione assistita con ricorso alla donazione di ovuli, nonché il divieto di donazione di sperma nel caso di fecondazione in vitro (ma non in quello di fecondazione in vivo). Tale presa di posizione, pur riguardando una legislazione alquanto diversa dalla nostra (che vieta la fecondazione eterologa in ogni caso), è stata ritenuta atta a fornire supporto alla riproposizione della questione di legittimità costituzionale, sia sotto il profilo del contrasto con l’art. 1171 Cost., per violazione degli artt. 8 e 14 CEDU (alla luce dei “principi di ordine generale” enunciati dalla Corte eur. dir. uomo), sia sotto quello del contrasto con l’art. 3 Cost., per essere stati irragionevolmente esclusi dalla procreazione medicalmente assistita “proprio i soggetti completamente sterili” (Trib. Firenze, 6-9-2010; v. anche Trib. Milano, 2-2-2011). Trib. Catania, 21-10-2010 ha prospettato la questione di legittimità per contrarietà, oltre che all’art. 1171, agli artt. 2, 3, 31 e 32, per essere – una volta qualificate “le tecniche di PMA come rimedi terapeutici” – “trattate in modo diverso le coppie con problematiche di procreazione a seconda del tipo di sterilità che le colpisce”, restando escluse “paradossalmente proprio le coppie che presentano un quadro clinico più grave”. Nelle more del giudizio di costituzionalità, è intervenuta, però, la decisione della Grande Camera della Corte eur. dir. uomo (3-11-2011), la quale, diversamente da quanto precedentemente sostenuto dalla sentenza (della Prima Sezione) del 2010, ha affermato che “gli Stati hanno il diritto di scegliere le regole interne idonee a disciplinare l’accesso alla procreazione assistita di carattere eterologo” (dovendo, comunque, “tenere conto dei mutamenti introdotti dalla scienza medica”). La Corte costituzionale (ord. 7-6-2012, n. 150) ha, di conseguenza, ordinato la restituzione degli atti ai giudici rimettenti, affinché, in considerazione della indiscutibile “incidenza sulle questioni di legittimità costituzionale del novum costituito dalla sentenza della Grande Camera” (dovendo la questione dell’eventuale “contrasto della disposizione interna con le norme della CEDU” essere risolta avendo riguardo alle “norme della CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo”), “procedano ad un rinnovato esame dei termini della questione”. La questione di legittimità è stata riproposta da Trib. Firenze, 29-3-2013, Trib. Milano, 3-4-2013 e Trib. Catania, 13-4-2013, per la discriminazione delle coppie sterili, necessitate al ricorso alla fecondazione eterologa, “nel proprio diritto di determinare la propria condizione genitoriale”. E la Corte costituzionale (10-6-2014, n. 162), ha censurato – programmaticamente distinguendo, comunque, la questione concernente la “donazione di gameti”, qui in discussione, da quella della “surrogazione di maternità” – il divieto in questione, con conseguente sua eliminazione dalla disciplina complessiva della materia, valorizzando la “fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi” della “coppia assolutamente sterile o infertile” nel senso di un “progetto di formazione di una famiglia caratterizzata dalla presenza di figli, anche indipendentemente dal dato genetico”: “irrazionale” risultando, in particolare, che una legge avente “il dichiarato scopo ‘di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o infertilità umana’” neghi il “diritto a realizzare la genitorialità … in danno delle coppie affette dalle patologie più gravi” (ben potendo, con gli ordinari strumenti interpretativi, il tessuto normativo della legge stessa risultare idoneo, senza alcun pericolo di determinare un “vuoto normativo”, a disciplinare l’intera materia, pur nella nuova estensione, anche, in particolare, con riguardo allo “stato giuridico del nato ed i rapporti con i genitori”).

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tutela dell’interesse del generato – nella prospettiva, del resto, già precedentemente indicata dalla Corte costituzionale e dalla Cassazione 50 – anche nel nuovo contesto (determinato dall’intervenuta pronuncia di incostituzionalità dell’art. 43) della riconosciuta liceità delle tecniche eterologhe, assumendo l’esigenza di assicurare una simile tutela un peso decisivo nei confronti di chi abbia prestato il proprio consenso all’applicazione delle tecniche in esame (debitamente informato in ordine alle problematiche connesse con la p.m.a.: art. 61) 51: risulta precluso, così, se si tratta di coppia coniugata, l’esercizio dell’azione di disconoscimento della paternità, adducendo la mancata coabitazione o la propria impotenza (V, 4.3) 52, ovvero, se si tratta di coppia convivente, l’esercizio dell’azione di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità (di cui all’art. 263) (V, 4.4). Il c.d. donatore di gameti resta estraneo comunque a qualsiasi rapporto col nato (senza acquisto di diritti o assunzione di obblighi) (art. 93). In relazione alla procreazione a seguito di tecniche omologhe e, ora, anche eterologhe, non si può mancare di evidenziare come, attribuendo ai nati “lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche” (art. 8) 53, si sia anche conferito un carattere di automaticità al riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio, sostituendosi, in sostanza, il consenso preventivamente prestato al trattamento alla dichiarazione (appunto di riconoscimento), altrimenti sempre necessaria – e, ovviamente, dopo il concepimento – per l’attribuzione al nato dello stato di figlio nato fuori del matrimonio (V, 4.4). È stato, inoltre, vietato alla “madre del nato a seguito di applicazione delle tecniche” in questione la possibilità, in genere riconosciutagli (ai sensi dell’art. 301 D.P.R. 3.11.2000, n. 396), di avvalersi della facoltà di non essere nominata, restando anonima (art. 92): an50 Posta da Corte cost. 26-9-1998, n. 347, in primo piano l’esigenza di “tutelare la persona nata a seguito di fecondazione assistita”, Cass. 16-3-1999, n. 2315, aveva, infatti, precluso al marito già consenziente alla fecondazione eterologa (con seme, cioè, di soggetto sconosciuto) della moglie il successivo esercizio dell’azione di disconoscimento della paternità, ai sensi dell’art. 2351, n. 2. 51 L’art. 63 prescrive la forma scritta per la prestazione del consenso e impone uno spazio di tempo di almeno sette giorni tra la prestazione del consenso e l’applicazione della tecnica. Prevede, inoltre, che il consenso possa essere revocato, ma solo “fino al momento della fecondazione dell’ovulo”. La materia della prestazione del consenso risulta disciplinata, in dettaglio, dal D.M. 28.12.2016, n. 265. Si ricordi come l’art. 91 ammetta anche un “consenso ricavabile da atti concludenti”. Cass. 18-12-2017, n. 30294, ne ha dedotto l’inefficacia della revoca del proprio consenso, da parte del marito, ove successiva, appunto, a tale momento (con la conseguente improponibilità, da parte sua, dell’azione di disconoscimento di paternità). Trib. S.M. Capua Vetere 27-1-2021 ha ritenuto, allora, legittima la prosecuzione – nonostante l’opposizione del marito che aveva inizialmente prestato il proprio consenso alla fecondazione in vitro degli ovociti della moglie – dell’applicazione delle tecniche di p.m.a., su richiesta della moglie, con lo scongelamento degli embrioni crioconservati ed il relativo inserimento in utero, anche dopo l’avvenuta separazione personale dei coniugi (essenzialmente nella prospettiva della “tutela dell’embrione”). Pare il caso di ricordare come l’art. 311-20 code civil preveda che “il consenso è privato di effetto in caso di decesso, di deposito di una istanza di divorzio o di separazione personale o di cessazione della comunione di vita, sopravvenuti prima della realizzazione della procreazione medicalmente assistita” (intesa nella dinamica delle diverse fasi che la caratterizzano: art. 2141-2 code de la santé publique, che si riferisce espressamente a quella del “trasferimento dell’embrione”). 52 Peraltro, Cass. 11-7-2012, n. 11644, ha escluso “che possano sussistere limiti per l’esercizio di tale azione da parte del figlio, certamente estraneo al consenso eventualmente prestato dal genitore e portatore di un interesse alla verità biologica che deve considerarsi meritevole di tutela”. 53 Inevitabili tensioni nell’applicazione dei principi enunciati dal legislatore si sono registrate in relazione al noto caso dello scambio di embrioni, ricordato supra, IV, 1.2.

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che per tale via, così, si è finito col delineare una peculiare condizione del nato a seguito di tecniche di procreazione assistita. Pare opportuno, infine, ricordare come il divieto di applicare post mortem le tecniche di procreazione assistita (artt. 5 e 122) 54, nonché quello, anche penalmente sanzionato (nei confronti di chi le realizzi, organizzi o pubblicizzi) 55, concernente le pratiche di surrogazione di maternità (art. 126) lascino comunque aperto – nel comportare, in quest’ultimo caso, la nullità di qualsiasi accordo al riguardo – il problema dello stato di chi sia stato eventualmente generato in violazione di tali divieti 56.   54 L’impianto di un embrione crioconservato dopo la morte del marito è stato considerato comunque atto a produrre conseguenze sullo status del procreato da Trib. Messina 28-9-2017, con riconoscimento (in applicazione dell’art. 8) della paternità del nato – da un embrione impiantato all’estero – al marito della madre, defunto da oltre trecento giorni e che aveva manifestato il proprio consenso alla pratica. Contro l’avviso di App. Ancona 12-3-2018, che aveva assunto un diverso atteggiamento, Cass. 15-5-2019, n. 13000, giunge sostanzialmente alle stesse conclusioni, allargando le maglie del procedimento di rettificazione dell’atto di nascita (V, 4.2) e dichiaratamente prescindendo – la pratica era avvenuta in Spagna, dove risulta consentita (sia pure con limitazioni temporali) – dalla “illiceità, o meno, della pratica in Italia” (dato che ciò “non potrebbe certamente riflettersi, in negativo, sul nato e sull’intero complesso dei diritti a lui riconoscibili”). Quale presupposto dell’operatività della regola dell’art. 8 è considerato il consenso del marito, non solo al momento dell’accesso alla pratica di p.m.a. (e “persistito fino al suo decesso”), ma pure “arricchito dall’espressa autorizzazione all’utilizzo, post mortem, del proprio seme crioconservato” (peraltro, alla luce dell’art. 91, “anche solo mediante atti concludenti”). 55 Al riguardo, è da ricordare come la giurisprudenza abbia escluso l’applicazione della sanzione penale per la coppia che vi abbia fatto ricorso all’estero (i cui componenti, comunque, non rientrano tra i soggetti punibili ai sensi dell’art. 126), anche in ordine al reato di alterazione di stato (di cui all’art. 5672 c.p.): Cass. pen. 10-3-2016, n. 13525. 56 Nella giurisprudenza di merito non ha mancato di manifestarsi una propensione a valorizzare la c.d. maternità sociale – conseguente all’attuazione della surrogazione di maternità – in ordine all’esclusione delle condizioni, nei confronti del procreato, per la pronuncia dello stato di abbandono (ai fini dell’adozione: V, 3.8) e di quelle per disporre interventi in materia di responsabilità genitoriale (ai sensi dell’art. 333: IV, 1.8): rispettivamente, Trib. min. Milano 6-9-2012 e 1-8-2012. Peraltro, Cass. 11-11-2014, n. 24001, riaffermato il carattere di “ordine pubblico del divieto di pratiche di surrogazione di maternità”, almeno nel caso – specificamente in esame – di “surrogazione eterologa” (caratterizzata dall’assenza di qualsiasi “legame genetico con il nato”), ha confermato la dichiarazione di adottabilità del procreato. La delicata problematica è stata affrontata, nei confronti dell’Italia, da Corte eur. dir. uomo 27-1-2015, con una discutibile conclusione nel senso della illegittimità dell’allontanamento, a fini adottivi, dai genitori committenti del bambino nato all’estero a seguito di maternità surrogata (senza alcun legame genetico con i genitori committenti stessi), contestando le motivazioni dei giudici nazionali – soprattutto dal punto di vista di una pretesa eccessiva valorizzazione, da parte loro, della “esigenza di mettere fine ad una situazione di illegalità” – e ritenendo violato l’“interesse superiore del bambino” (nonostante, invero, una convivenza di pochi mesi con i committenti), ma non reputando, comunque, necessaria “la riconsegna del bambino agli interessati”. La Grande Camera (24-1-2017), tuttavia, ha ritenuto insussistente la violazione dell’art. 8 CEDU (concernente il “diritto al rispetto della vita privata e familiare”), conferendo, ai fini del necessario bilanciamento degli interessi coinvolti, un peso rilevante, rispetto all’interesse dei ricorrenti “ad assicurare il proprio sviluppo personale proseguendo la loro relazione con il minore”, all’“interesse generale in gioco” ed all’esigenza di evitare di “legalizzare la situazione da essi creata in violazione di norme importanti dell’ordinamento italiano” (oltretutto, l’esistenza di “una vita familiare de facto” risultando esclusa, data “l’assenza di legami biologici tra il minore e gli aspiranti genitori, la breve durata della relazione con il minore e l’incertezza dei legami dal punto di vista giuridico”). In una prospettiva tutto sommato simile, che nella “valutazione comparativa”, comunque necessaria quando sia in discussione l’esigenza di tutela dell’interesse del minore nella definizione del suo status giuridico, non possa non rientrare “la considerazione dell’elevato grado di disvalore che il nostro ordinamento riconnette alla surrogazione di maternità, vietata da apposita disposizione penale” (in particolare, per l’intollerabile vulnus alla “dignità della donna”), viene sottolineato da Corte cost. 18-12-2017, n. 272 (su cui supra, V, 4.4, nota 32). Proprio a tali ultime considerazioni si è ricollegata Cass., sez. un., 8-5-2019,  n. 12193, la quale è stata chiamata a pronunciarsi (da Cass. 22-2-2018, n. 4382) in ordine al riconoscimento di

 

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7. Tutela del minore privo di assistenza. Affidamento. – L’accentuata attenzione per l’interesse del minore – il cui carattere superiore lo rende criterio esclusivo di risolu 

efficacia nel nostro ordinamento al provvedimento giurisdizionale straniero che abbia accertato il rapporto di filiazione tra un cittadino italiano (quale c.d. “genitore d’intenzione” o “sociale”) e due gemelli, nati all’estero, appunto, da maternità surrogata (provvedimento canadese riconosciuto efficace anche nel nostro ordinamento da App. Trento 23-2-2017, in considerazione dell’interesse dei minori “alla conservazione di una identità ormai legittimamente acquisita all’estero”). La Corte ha concluso che l’interesse del minore “alla conservazione dello status filiationis legittimamente acquisito all’estero … è destinato ad affievolirsi in caso di surrogazione di maternità”, il relativo divieto “segnando il limite oltre il quale cessa di agire il principio di auto-responsabilità fondato sul consenso alla relativa pratica, e torna ad operare il favor veritatis, che giustifica la prevalenza dell’identità genetica e biologica”: un simile divieto è di ostacolo al richiesto riconoscimento, essendo “qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l’istituto dell’adozione”, “non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull’interesse del minore, nell’ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione”. Ciò anche perché residua – fermo restando “il rapporto di filiazione col genitore genetico” – “la possibilità di conferire rilievo al rapporto genitoriale” (del genitore sociale) “mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l’adozione in casi particolari, prevista dall’art. 441, lett. d, L. 184/1983”, atta ad “assicurare una tutela comparabile a quella ordinariamente ricollegabile allo status filiationis” (lo spunto per una simile considerazione è offerto da Corte cost. 272/2017). Resta disatteso, così, l’indirizzo possibilista riproposto, ad es., da Trib. Roma 11-5-2018. Del resto, anche la Grande Camera della Corte eur. dir. uomo (parere consultivo del 10-4-2019, su richiesta dell’Adunanza Plenaria della Corte di cassazione francese), ha concluso che il diritto al rispetto della vita privata del minore, ai sensi dell’art. 8 CEDU, se impone di riconoscere una relazione legale di filiazione col “genitore intenzionale” (oltre che, ovviamente, con quello “biologico”, i cui gameti siano stati impiegati nella procedura di maternità surrogata), non impone che ciò avvenga attraverso la registrazione del certificato di nascita straniero (in cui il genitore d’intenzione è designato come genitore legale), risultando sufficiente che l’interesse superiore del minore sia tutelato anche attraverso l’operatività di altri strumenti, come l’adozione, a condizione che la relativa procedura sia caratterizzata da effettività e rapidità nella tutela dell’interesse stesso (e v. anche Corte eur. dir. uomo 16-7-2020). Destinata a porsi, allora, è la questione se, nel nostro ordinamento, l’adozione in casi particolari, cui la giurisprudenza tende – ora pure con l’avallo di Cass. 12193/2019 con riguardo alle relazioni radicate nella surrogazione di maternità – a fare ricorso per conferire rilevanza al rapporto genitoriale (del genitore d’intenzione) (V, 4.8), valga a soddisfare le indicazioni della Corte europea. Così, Cass. 29-4-2020, n. 8325, reputando inadeguato alla “imprescindibile” adesione “alle prescrizioni del parere consultivo” il meccanismo alternativo – rispetto alla trascrizione del provvedimento straniero – di tutela dell’“interesse superiore del minore”, quale identificato da Cass. 12193/2019 nella eventuale operatività dell’adozione in casi particolari, ha sollevato – oltre che per contrasto “con i principi di inviolabilità dei diritti fondamentali del minore, d’uguaglianza, non discriminazione, ragionevolezza e proporzionalità” (artt. 2, 3, 30 e 31 Cost.) – questione di legittimità costituzionale della disciplina in materia (intesa, appunto, “secondo l’interpretazione attuale del diritto vivente” risultante dalla ricostruzione delle sezioni unite). Corte cost. 9-3-2021, n. 33, esclusa la rilevanza di “un preteso ‘diritto alla genitorialità’” della coppia promotrice della pratica in discussione e concentrata l’attenzione sul solo “interesse del minore”, non ha ritenuto che esso possa ritenersi “soddisfatto dal riconoscimento del rapporto di filiazione con il solo genitore ‘biologico’”. Alla luce della ricordata giurisprudenza della Corte eur. dir. uomo, allora, se pure può essere considerato legittimo l’orientamento contrario alla trascrivibilità di eventuali atti stranieri di accertamento della filiazione, la tutela dell’interesse del minore, che esige il riconoscimento del legame giuridico anche col “genitore d’intenzione”, non è parsa risultare adeguatamente assicurata – soprattutto nel caso di sopravvenuta crisi della coppia – dal meccanismo dell’adozione in casi particolari, non garantendo questo “la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato” (ovviamente, “allorché ne sia stata accertata in concreto la rispondenza agli interessi del bambino”). Così, nel riconoscere che spetta – ma si precisa significativamente “in prima battuta” (evidentemente prospettando l’eventualità di futuri interventi della Corte al riguardo in caso di persistente inerzia legislativa) – al legislatore il “bilanciamento tra la legittima finalità di disincentivare il ricorso a questa pratica e l’imprescindibile necessità di assicurare il rispetto dei diritti del minore”, si conclude nel senso della “ormai indifferibile individuazione delle soluzioni in grado di porre rimedio all’attuale situazione di insufficiente tutela degli interessi del minore”. Effettivamente, infine, anche per porre rimedio ad una simile situazione è intervenuta Corte cost. 28-3-2022, n. 79, con la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 55 della L. n. 184/1983, nella parte in cui rinvia all’art. 300, con la relativa esclusione – nell’ipotesi di adozione in casi particolari – di rapporti tra l’adottato ed i parenti dell’adottante (e v. V, 4.8).

 

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zione di tutte le questioni che lo concernono (esemplare, in tal senso, l’art. 3 della già più volte ricordata Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20.11.1989) – pone di fronte a difficili scelte nel delicato rapporto tra la sua tutela ed il rispetto dell’autonomia della famiglia. Il quadro dei principi costituzionali vale a fornire le coordinate pure per gli interventi del legislatore di tipo, in senso lato, sostitutivo, previsti dall’art. 302 Cost. nelle situazioni di incapacità dei genitori ad assolvere la loro essenziale funzione nei confronti dei figli: si impone, al riguardo, quella gradualità che costituisce, non a caso, la direttiva di fondo della legislazione in materia di affid amento e ad ozione, nella privilegiata prospettiva del diritto del minore ad una famiglia (secondo l’intitolazione della L. 4.5.1983, n. 184, quale sostituita dalla L. 28.3.2001, n. 149) 57. Posto il principio per cui “il minore ha diritto di crescere ed essere educato nella propria famiglia” (art. 11), ad assicurare il rispetto dell’autonomia di questa devono essere finalizzati gli opportuni “interventi di sostegno e di aiuto”, dato che le eventuali “condizioni di indigenza dei genitori … non possono essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia” (art. 12). Solo nel caso in cui, nonostante tali interventi di supporto, “la famiglia non è in grado di provvedere alla crescita e all’educazione del minore” (art. 14), sono chiamati, allora, ad operare gli interventi con funzione sostitutiva, il cui spazio, evidentemente, nel disegno del legislatore, dovrebbe essere destinato ad un progressivo auspicabile restringimento 58. In una simile prospettiva, il minore “temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo” può essere affidato ad una famiglia o ad una persona singola, ovvero, solo in via subordinata, inserito in una comunità di tipo familiare (il ricovero in un istituto di assistenza è stato considerato rimedio del tutto residuale e da superare in ogni caso entro il 31.12.2006)   57

Nell’impianto originario del codice civile, a fornire risposta all’esigenza di “assistenza all’infanzia moralmente o materialmente abbandonata” (Relaz. cod. civ., n. 194) era finalizzato, in particolare, l’istituto della a f f i l i a z i o n e (artt. 404 ss.), risultato, però, di scarso successo e definitivamente soppresso dalla L. 184/1983. L’art. 403, ora radicalmente riformulato ai sensi dell’art. 127 della L. 206/2021, prevede un eventuale “intervento della pubblica amministrazione a favore dei minori”, “quando il minore è moralmente o materialmente abbandonato o si trova esposto, nell’ambiente familiare, a grave pregiudizio e pericolo per la sua incolumità fisica e vi è dunque emergenza di provvedere”. Ciò nell’attesa dell’adozione degli opportuni provvedimenti da parte del tribunale per i minorenni (di cui il nuovo testo della disposizione disciplina minuziosamente tempi, procedure e possibili contenuti). 58 Rileva Cass. 14-5-2005, n. 10126 (in una prospettiva uniformemente seguita dalla giurisprudenza successiva: ad es. 16-2-2018, n. 3915), che “in questo contesto – di valorizzazione e di recupero, finché possibile, del legame di sangue, ed anche dei vincoli, come quelli con i nonni, che affondano le loro radici nella tradizione familiare, la quale trova il suo riconoscimento nella Costituzione (art. 29) – si rende necessario un particolare rigore, da parte del giudice del merito, nella valutazione di abbandono del minore quale presupposto per la dichiarazione dello stato di adottabilità”, da limitare alle situazioni di carenze, “da parte dei genitori e degli stretti congiunti”, tali “da pregiudicare, in modo grave e non transeunte, lo sviluppo e l’equilibrio psico-fisico del minore stesso”. Significativamente, così, Cass. 4-11-2019, n. 28257, sottolinea la necessità che l’affidatario sia scelto valorizzando il mantenimento del rapporto con la famiglia di origine (“che è criterio guida di ogni scelta in tema di affido minorile”: contestando, allora, la mancata valutazione, nel caso considerato, della possibilità dell’affido ai nonni). La priorità dell’affidamento “ai membri della c.d. ‘famiglia allargata’” (nella specie, zia) viene evidenziata anche da Cass. 11-6-2021, n. 16569. Per la necessaria “previa e rigorosa verifica delle eventuali possibilità di recupero della famiglia biologica di provenienza”, v., ad es. Cass. 8-9-2008, n. 22640, che sottolinea, peraltro, come ciò sia comunque da “rendere compatibile con i cruciali (e ben diversamente stringenti) tempi dettati dai delicati meccanismi dell’età evolutiva del minore”. Circa la rilevanza, ai fini delle valutazioni in materia, della “mancata assistenza prestata” per aiutare il genitore “nel recupero della genitorialità”, Cass. 22-8-2018, n. 20954 (in proposito, V, 4.8).

 

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PARTE V – FAMIGLIA

(art. 2). L’affidamento, come risulta chiarito anche dalla sua necessaria temporaneità (art. 44), è finalizzato ad assicurare un’adeguata tutela dell’interesse del minore, nel tempo strettamente necessario a consentire, attraverso opportuni interventi, il recupero della famiglia di origine, gli sforzi dei servizi sociali dovendo indirizzarsi, innanzitutto, nel senso di agevolare i rapporti con la famiglia di provenienza ed il rientro nella stessa del minore (art. 52). Peraltro, di fronte alla realtà rappresentata da affidamenti protratti a lungo nel tempo, senza il venir meno delle difficoltà della famiglia d’origine e con il conseguente realizzarsi delle condizioni dello stato di abbandono (di cui all’art. 8), il legislatore ha ritenuto opportuno disporre che, ove la famiglia affidataria del minore (ovviamente se in possesso dei relativi requisiti) chieda di poterlo adottare, “il tribunale per i minorenni, nel decidere sull’adozione, tiene conto, dei legami affettivi significativi e del rapporto stabile e duraturo consolidatosi tra il minore e la famiglia affidataria” (conferendosi, così, un certo valore di titolo preferenziale al “prolungato periodo di affidamento”: art. 45 bis, quale introdotto dalla L. 19.10.2015, n. 173). E si è pure stabilito che in ogni caso – anche, cioè, ove il minore rientri nella sua famiglia, sia affidato ad altra famiglia o sia adottato da altra famiglia – dev’essere tutelata (sempre, ovviamente, se rispondente all’interesse del minore) la “continuità delle positive relazioni socioaffettive consolidatesi durante l’affidamento” (evidentemente, per evitare che la vicenda dell’affidamento resti priva di qualsiasi traccia nella vita successiva dei soggetti in essa coinvolti) (art. 45 ter) 59. Viene favorito l’affidamento previo consenso dei genitori, solo in mancanza del quale provvede il tribunale per i minorenni (art. 41-2) 60: nel provvedimento di affidamento, comunque, devono essere sempre disciplinati il mantenimento dei rapporti del minore con i genitori e gli altri componenti della sua famiglia (art. 43). Lo stesso affidatario, il quale ha il dovere di provvedere al mantenimento ed all’educazione e istruzione del minore (esercitando, in sostanza, i poteri connessi con la responsabilità genitoriale), deve tener conto delle indicazioni dei genitori (salvo che costoro non siano incorsi in provvedimenti incidenti sulla loro responsabilità genitoriale) (art. 51). Sono tali profili dell’affidamento in questione ad evidenziarne la netta differenza ri  59 Circa la realizzazione della tutela dell’interesse del minore alla continuità affettiva, assicurandogli comunque incontri regolari con i già affidatari, v. App. Catania 6-2-2018 (provvedimento di cui Cass. 14-2-2019, n. 4524, ha negato la ricorribilità per cassazione, approfittando dell’occasione per definire il ruolo e i diritti degli affidatari in applicazione della L. 173/2015, precisando che “il loro ‘diritto’ non è certo quello di ottenere l’adozione, bensì, esclusivamente, di vedere assicurata/valutata la continuità affettiva, coincidente col superiore ‘interesse’ dei minori”). 60 Ovviamente nell’attesa dell’istituzione del tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie, ai sensi dell’art. 124, lett. a, L. 206/2021. Una sorta di dettagliato “vademecum” in tema di affidamento familiare disposto giudizialmente (in ordine ai relativi presupposti applicativi ed all’iter procedurale) si rinviene in Cass. 16569/2021. L’affidamento è stato reputato ammissibile anche nei riguardi di una coppia di fatto omosessuale da Trib. min. Bologna 31-10-2013 e Trib. min. Palermo 9-12-2013 (che valorizza, in proposito, pure la circostanza dell’“entusiastica adesione” del ragazzo, ormai prossimo al raggiungimento della maggiore età). Un’ipotesi particolare di affidamento è stata introdotta dall’art. 10 L. 11.1.2018, n. 4, con riguardo “al minore rimasto privo di un ambiente familiare idoneo a causa della morte del genitore, cagionata volontariamente dal coniuge, anche legalmente separato o divorziato, dall’altra parte dell’unione civile, anche se l’unione civile è cessata, dal convivente o da persona legata al genitore stesso, anche in passato, da relazione affettiva” (art. 45 quinquies). In tal caso, il tribunale deve provvedere privilegiando “la continuità delle relazioni affettive consolidatesi tra il minore stesso e i parenti fino al terzo grado”.

 

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spetto all’affidamento preadottivo, con cui non deve essere confuso, data la finalizzazione di quest’ultimo all’inserimento definitivo – a seguito dell’adozione, del cui procedimento costituisce una fase necessaria (artt. 22 ss.) – in un’altra famiglia (anche se, indubbiamente, la L. 173/2015 finisce col superare l’originaria prospettiva di una rigorosa totale incomunicabilità tra affidamento e adozione). È da sottolineare come la L. 149/2001 abbia molto ampliato lo spazio riconosciuto alla partecipazione del minore alle procedure che lo coinvolgono, in applicazione delle direttive delle ricordate Convenzioni internazionali in materia di tutela dei minori. In relazione all’affidamento, così, è prescritta l’audizione del minore dodicenne o anche di età inferiore, in considerazione – secondo una prospettiva ormai diffusa nella maggior parte degli ordinamenti – della sua capacità di discernimento (art. 41, 6). Anche con riguardo all’adozione, non solo è stata mantenuta la necessità del consenso ad essa da parte del minore che abbia compiuto i 14 anni, ma risulta costantemente prevista la necessità dell’audizione del minore dodicenne o anche di età inferiore, sempre in considerazione della sua capacità di discernimento (artt. 72-3, 226, 231, 251, 354, 451-2) 61. Al minore deve essere, inoltre, assicurata l’assistenza legale fin dall’inizio (e nel corso) del procedimento di adottabilità (art. 84) 62.

8. Adozione. – L’incremento delle garanzie processuali, tanto per il minore, quanto per i suoi genitori e per i suoi parenti la cui posizione viene considerata rilevante (quelli, cioè, entro il quarto grado che abbiano rapporti significativi con il minore: art. 102), rappresenta la novità più appariscente della nuova disciplina dell’adozione (ai sensi della ricordata L. 149/2001) 63. Tali soggetti, infatti, immediatamente avvertiti dell’apertura del procedimento, in applicazione del principio del contraddittorio (prima, invece, scarsamente rispettato) sono messi in grado di far valere i propri interessi, legalmente assistiti, in ogni fase del procedimento stesso (artt. 84, 102). Il legislatore sembra, così, tenere adeguatamente conto della gravità, per i soggetti coinvolti, del sacrificio della relazione fondata sul legame di sangue che l’adozione comporta, sia pure al fine di assicurare al minore la tutela della sua personalità, nei casi in cui l’ambiente familiare (o, addirittura, la relativa mancanza) ne mettano in pericolo lo sviluppo. La finalità che l’adozione dei minori risulta chiamata ad assolvere attualmente nel nostro ordinamento è, in effetti, l’inserimento del fanciullo in una nuova famiglia, con l’acquisto dello stato di figlio legittimo nella pienezza del relativo rapporto con gli adot61 Secondo Cass. 26-3-2010, n. 7282, l’attuale disciplina dell’audizione del minore (IV, 1.8) “riflette una nuova considerazione del minore quale portatore di bisogni e interessi che, se consapevolmente espressi, pur non vincolando il giudice, non possono essere da lui ignorati”: ciò onde renderlo “parte attiva del procedimento”, riconoscendogli “l’esercizio sempre più effettivo dei diritti fondamentali”. 62 Cass. 17-2-2010, n. 3805, negando la necessaria sussistenza di un conflitto di interessi tra la posizione del tutore e quella del minore, ha ritenuto ammissibile – ove non ricorrano i presupposti per la nomina di un curatore speciale che a ciò provveda – la designazione del difensore del minore stesso da parte del tutore. 63 Sterilizzando proprio la parte più significativa della riforma, già col D.L. 24.4.2001, n. 150 (convertito in L. 23.6.2001, n. 240), l’applicabilità delle regole procedurali previgenti è stata prorogata “in via transitoria, fino alla emanazione di una specifica disciplina della difesa di ufficio nei procedimenti” in questione. Tale proroga, sulla base di provvedimenti successivamente via via emanati, è risultata operante fino al 30.6.2007 (art. 12 L. 12.7.2006, n. 228, che ha convertito il D.L. 12.5.2006, n. 173).

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tanti (tradizionalmente definito di filiazione civile). Ciò a partire dalla L. 5.6.1967, n. 431, cui si deve l’introduzione della c.d. adozione speciale 64, destinata ad essere, poi, superata (anche sotto il profilo terminologico, parlandosi in essa semplicemente di “adozione”) dalla L. 184/1983 (ampiamente novellata dalla L. 149/2001). Della più risalente funzione dell’adozione, quale strumento di perpetuazione del cognome e del patrimonio familiare, resta traccia, peraltro, nell’adozione di persone maggiori di età, mentre la disciplina dell’adozione in casi particolari è destinata a dare una soluzione alle problematiche poste da situazioni, nelle quali l’adozione legittimante si presenta inopportuna od impossibile. La regolamentazione del fenomeno dell’adozione internazionale completa, poi, il vigente quadro sistematico dell’adozione. a) L’adozione dei minori è prevista a favore dei minori dichiarati in stato di adottabilità (art. 71), a seguito dell’accertamento di una “situazione di abbandono, perché privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi” 65. La mancata assistenza – per il rispetto che si ritiene dovuto alla famiglia di origine ai fini della formazione di chi vi è nato (V, 4.7) – non rileva, ove sia dovuta a causa di forza maggiore di carattere transitorio (art. 81) 66. 64 È con la L. 431/1967 che, per dirla con Corte cost. 10-2-1981, n. 11, si è verificato lo spostamento del “centro di gravità dell’adozione dall’interesse dell’adottante a quello dell’adottato”, chiarendosi “il carattere funzionale del diritto dei genitori del sangue, che sta e viene meno in relazione alla capacità di assolvere i compiti previsti nel primo comma dell’art. 30 Cost.”. 65 Per Cass. 23-5-1997, n. 4619, ai fini della sussistenza della situazione di abbandono, “non è necessario che da parte dei genitori vi sia una precisa volontà di abbandonare il figlio, essendo sufficiente che essi tengano un comportamento inconciliabile con i doveri loro imposti dall’art. 147 c.c. e dall’art. 30 Cost.” (con riferimento, nel caso di specie, ad “anomalie della personalità … che si traducano in incapacità di allevare ed educare i figli”). All’idea di “inadeguatezza genitoriale”, allude, ad es., Cass. 14-2-2018, n. 3594. Più in generale, ci si riferisce alla sussistenza di una “situazione familiare tale da compromettere in modo grave e irreversibile un armonico sviluppo psico-fisico del bambino” (così, ad es., Cass. 11-12-2019, n. 32412). Alla necessità di operare “un giudizio prognostico teso a verificare l’effettiva ed attuale capacità di recupero delle capacità e competenze genitoriali”, allude Cass. 3-10-2019, n. 24790. Circa l’opportunità che, comunque, la procedura dia – in vista delle relative indagini – spazio adeguato anche all’esercizio di un eventuale “diritto di ripensamento” da parte di chi pure abbia abbandonato il figlio nell’immediatezza del parto (“in un momento di particolare fragilità psicologica”), v. App. Catania 8-7-2021. In un contesto normativo (come quello attuale in materia, improntato al principio per cui “il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia”: art. 11) di valorizzazione delle potenzialità offerte – in vista della tutela dell’interesse del minore a godere di un ambiente di vita consono allo sviluppo della sua personalità – dall’apporto dei parenti (artt. 81 e 94), pienamente giustificata appare la tendenza giurisprudenziale ad evitare, ove possibile, l’“adozione ultrafamiliare”, con conseguente favore nella valutazione di eventuali “figure vicariali dei parenti più stretti”, a condizione, ovviamente, “che abbiano rapporti significativi con il bambino e si siano resi disponibili alla sua cura ed educazione” (nella prospettiva, cioè, degli artt. 101 e 121): Cass. 16-2-2018, n. 3915 (e v. anche 27-3-2018, n. 7559; sull’esigenza di “rapporti significativi pregressi” insiste, ad es., Cass. 11-4-2018, n. 9021). 66 La L. 219/2012 ha posto l’attenzione sulla necessità di precisazioni in ordine alla nozione di abbandono morale e materiale, con particolare riguardo alla “irrecuperabilità delle capacità genitoriali in un tempo ragionevole” e alle “condizioni di indigenza dei genitori” (art. 21, lett. n). Il D.Lgs. 154/2013 ha conseguentemente modificato l’art. 15, lett. c, relativo alla dichiarazione dello stato di adottabilità, introducendo un riferimento alla “provata irrecuperabilità delle capacità genitoriali dei genitori in un tempo ragionevole”. Risulta, inoltre, aggiunto un art. 79 bis, finalizzato alla segnalazione ai comuni, da parte del giudice, delle “situazioni di indigenza di nuclei familiari che richiedono interventi di sostegno”. Si ritiene, in effetti, che la transitorietà “debba essere necessariamente correlata al tempo di sviluppo compiuto e armonico del minore” (Cass. 18-6-2012, n. 9949). Circa la necessità, comunque, di un “bilanciamento (dell’interesse del minore) con quello dei genitori a conservare il legame filiale, ove tale scelta non determini danni irreversibili nello sviluppo psicofisico del mino-

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Pure a seguito dell’intervento legislativo del 2001, l’adozione resta consentita solo ai coniugi. Ai fini della necessaria stabilità del relativo rapporto, è richiesto che il matrimonio duri da almeno tre anni (senza separazione, neppure di fatto), pur essendo sufficiente, ai fini della ricorrenza del requisito della stabilità, una convivenza stabile e continuativa per almeno tre anni prima del matrimonio (art. 61, 4). Ai singoli è consentita, invece, solo l’adozione in casi particolari 67. I coniugi “devono essere affettivamente idonei e capaci di educare, istruire i minori che intendano adottare” (art. 62) e possono adottare più volte (art. 67, che prevede anche criteri preferenziali) 68. Diffusamente criticata era la precedente rigidità dei requisiti di età degli aspiranti adottanti, conseguentemente oggetto di numerosi interventi della Corte costituzionale. Proprio seguendo le direttive di questa, se la differenza di età minima tra adottanti e adottato viene fissata, in linea di principio, in 18 anni e quella massima in 45 anni, è stata pure”, Cass. 22-11-2013, n. 26204. Proprio alla luce del carattere di “misura eccezionale” dell’adozione comportante la recisione di ogni legame con la famiglia d’origine (carattere di “eccezionalità”, quale “extrema ratio”, del resto univocamente sottolineato nella nostra giurisprudenza: ad es., Cass. 14-4-2016, n. 7391, 30-6-2016, n. 13435, 3915/2018 e 22-8-2018, n. 20954, che sintetizza le conclusioni, al riguardo, della giurisprudenza della Corte eur. dir. uomo; e v. infra le conseguenze che ne trae il recente indirizzo dichiaratamente favorevole al possibile ricorso alternativo alla c.d. “adozione mite”), Corte eur. dir. uomo (21-1-2014) ha preso posizione a favore della necessità di prevedere, anche da parte del nostro ordinamento, una forma di adozione – sostanzialmente corrispondente alla francese adoption simple (artt. 360 ss. code civil) – da utilizzare in quei casi in cui potrebbero essere sufficienti misure “meno invasive” della vita familiare (il cui rispetto è imposto dall’art. 8 CEDU) dei genitori di sangue. Il richiamo è a quella c.d. a d o z i o n e m i t e , che, nelle situazioni di “semiabbandono permanente”, dovrebbe consentire di garantire al minore una famiglia idonea alla sua crescita, evitando, al contempo, una completa rottura del legame con la famiglia d’origine. Si tratta di una figura – in una prospettiva di gradualità del percorso adottivo – sperimentata, in effetti, già da Trib. min. Bari 7-5-2008 (e da qualche altro giudice minorile, come Trib. min. Brescia 21-12-2010), legittimata essenzialmente attraverso una lettura estensiva dell’art. 441, lett. d, in materia di “adozione in casi particolari”, laddove si riferisce alla “constatata impossibilità di affidamento preadottivo”, così da considerare una simile impossibilità riferita anche alla “impossibilità giuridica” (e non solo a quella di fatto). Proprio nella prospettiva di una simile “adozione mite” si muove dichiaratamente, ora, Cass. 16-4-2018, n. 9373, evidenziando che essa “non presuppone una situazione di abbandono dell’adottando” e, di conseguenza, “non rappresenta una extrema ratio” (dato che “non comporta la recisione dei rapporti del minore con la famiglia di origine”), andando disposta per “salvaguardare, in concreto, la continuità affettiva ed educativa dei legami in atto” del minore con i soggetti che se ne prendono cura. Così, pure Cass. 13-2-2020, n. 3643 (che allude alla necessità, in proposito, di “una completa indagine sulla concreta condizione di abbandono morale e materiale del minore”), la cui impostazione argomentativa risulta condivisa da Cass. 25-1-2021, n. 1476, Su di una lettura evolutiva dell’art. 27, poi, si fonda quella che viene da alcuni (a partire già da Trib. min. Roma 5-7-1988) indicata come a d o z i o n e a p e r t a , in modo da intendere in senso strettamente giuridico la disposta cessazione dei rapporti verso la famiglia d’origine (e lasciando, quindi, spazio a persistenti relazioni di carattere affettivo). 67 Il nostro sistema di adozione è stato considerato, sotto tale profilo, costituzionalmente legittimo da Corte cost. 16-5-1994, n. 183, nonostante i dubbi manifestati circa la sua conformità alla Convenzione europea in materia di adozione di minori (Strasburgo, 24.4.1967, ratificata con L. 22.5.1974, n. 357), ritenendo che tale Convenzione si limiti a conferire al legislatore nazionale “una semplice facoltà” di consentire l’adozione al singolo: facoltà di cui il legislatore italiano, in effetti, si è avvalso con riferimento all’adozione in casi particolari (oltre che con riguardo alle peculiari circostanze di cui all’art. 254-5). Tale prospettiva risulta confermata da Cass. 21-7-1995, n. 7950, 18-3-2006, n. 6078 e 14-2-2011, n. 3572 (secondo cui “le persone non coniugate non possono ottenere il riconoscimento del provvedimento di adozione di un minore pronunciato all’estero con gli effetti di dell’adozione legittimante, ma solo con gli effetti dell’adozione in casi particolari”). 68 Sulla questione della trascrizione dei provvedimenti stranieri di adozione (e di atti di nascita stranieri), con particolare riferimento a quelli disposti a favore di coniugi dello stesso sesso, v. supra, V, 4.2, nota 14, nonché infra, nota 74.

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re prevista la relativa derogabilità, ove risulti che dalla mancata adozione derivi un danno grave e non altrimenti evitabile al minore. Viene consentita l’adozione, inoltre: quando il limite massimo di età sia superato di non più di 10 anni da uno solo degli adottanti; quando gli adottanti abbiano già figli, anche adottivi, dei quali almeno uno sia minore; quando l’adozione riguardi un fratello o una sorella del minore già da essi adottato (art. 63, 5, 6). Come già accennato (V, 4.7), il minore che abbia compiuto i 14 anni deve prestare personalmente il proprio consenso all’adozione e deve essere personalmente sentito il minore dodicenne o comunque capace di discernimento (art. 72-3). A differenza di quanto accade in altri ordinamenti, l’adozione prescinde da qualsiasi rilevanza del consenso dei genitori (o dei parenti). Non è accordata, poi, alcuna facoltà di scelta agli aspiranti adottanti, che possono solo dichiarare la propria disponibilità e, ove reputati idonei, essere selezionati dal tribunale per i minorenni per l’affidamento preadottivo di un minore dichiarato in stato di adottabilità (art. 22), destinato a sfociare (dopo un periodo di un anno, prorogabile di un altro anno), se non revocato (art. 23), nella vera e propria dichiarazione di adozione (art. 25). Lo stato di adottabilità del minore è dichiarato a seguito dell’accertamento delle condizioni dianzi ricordate, attraverso una procedura che la riforma del 2001, come accennato, ha reso più idonea a garantire gli interessi del minore e quelli dei suoi genitori (o parenti), assicurando il rispetto del contraddittorio 69 e distinguendo nettamente il ruolo del giudice (tribunale per i minorenni) da quello dell’organo motore della procedura (il procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni) (artt. 9 ss.). Al procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni compete, infatti, proporre al tribunale per i minorenni il ricorso che mette in moto la procedura (art. 92). Tale procedura, in relazione alla quale il tribunale dispone dei più ampi poteri istruttori per accertare la sussistenza dello stato di abbandono del minore (art. 101), si svolge in costante contraddittorio, ove risulti la relativa esistenza, con i genitori e i parenti la cui posizione è considerata rilevante (quelli “entro il quarto grado che abbiano rapporti significativi con il minore”: art. 102) (art. 12) 70. La sentenza che dichiara lo stato di adottabilità del minore viene pronunciata ad esito di una rigorosa verifica delle condizioni previste (art. 69 Fondamentale, al riguardo, è la previsione secondo cui “il procedimento di adottabilità deve svolgersi fin dall’inizio con l’assistenza legale del minore e dei genitori o degli altri parenti, di cui al comma 2 dell’art. 10” (art. 84), nonché quella che prevede il necessario avvertimento circa l’apertura del procedimento ai genitori ed ai parenti, con l’invito alla nomina di un difensore (e la nomina di uno di ufficio ove essi non vi provvedano) (art. 102). 70 Ovviamente, la dichiarazione dello stato di adottabilità sarà immediata ove non esistano genitori (perché deceduti o il figlio non sia stato riconosciuto) e parenti (art. 111-2) (ma v. le ricordate considerazioni di App. Catania 8-7-2021). La procedura è rinviata, nel caso di figlio non riconoscibile per difetto di età del genitore, fino al compimento del sedicesimo anno di quest’ultimo, purché il figlio risulti comunque assistito convenientemente nel frattempo (art. 113). Cass. 7-2-2014, n. 2802, ha ammesso la chiusura del procedimento (ai sensi dell’art. 115) in un caso in cui la madre, che inizialmente si era avvalsa della facoltà di non voler essere nominata, ai sensi dell’art. 301 D.P.R. 396/2000, ma successivamente aveva riconosciuto il figlio nel concesso termine di sospensione della procedura. Ha precisato Cass. 3-12-2018, n. 31196, che, in conseguenza di un parto anonimo, il diritto della madre biologica non risulta precluso dalla declaratoria di adottabilità del minore, “a meno che alla stessa non sia seguito l’affidamento preadottivo del minore”. Si sottolinea che “la dichiarata disponibilità di uno dei parenti entro il quarto grado ad occuparsi del minore non è sufficiente, di per sé, ad escludere la situazione di abbandono”, detta disponibilità non dovendo risultare “meramente velleitaria e obiettivamente inattuabile”, ma “suffragata da elementi oggettivi che la rendano credibile” (Cass. 31-10-2008, n. 26371).

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15): debitamente notificata (art. 162), essa può essere impugnata dal pubblico ministero o dalle altre parti avanti la Corte d’appello, sezione per i minorenni, contro la cui decisione è ammesso ricorso per Cassazione (art. 17). Divenuta definitiva, la sentenza è trascritta a cura del cancelliere su apposito registro conservato presso la cancelleria del tribunale (art. 18). A seguito dell’adozione, l’adottato acquista, a tutti gli effetti, lo stato di figlio nato nel matrimonio degli adottanti, dei quali assume e trasmette il cognome, mentre cessa ogni suo rapporto con la famiglia di origine (restando salvi i soli divieti matrimoniali, fondati sulla parentela) (art. 271-3) 71. Al contrario di quanto in precedenza previsto, è ora stabilito che l’adottato ha diritto di essere informato di tale sua condizione dai genitori adottivi (art. 281), essendo pure ammesso a conoscere l’identità dei suoi genitori biologici, dopo i 25 anni (o la maggiore età se concorrono gravi motivi di salute psico-fisica), previa autorizzazione del tribunale per i minorenni (art. 285-8: c.d. “diritto alle origini”) 72. b) A prescindere dall’essere stato dichiarato in stato di adottabilità (e, quindi, senza la necessaria ricorrenza di una “situazione di abbandono”), ai sensi dell’art. 71, il minore può essere adottato ove ricorrano particolari circostanze (adozione in casi particola71

Pare opportuno sottolineare come il nuovo art. 74, delineando la nozione di parentela (V, 1.6), abbia voluto riferire espressamente la posizione dell’adottato all’unitario stato di figlio. Si ricordi come anche la materia del cognome dell’adottato sia stata coinvolta nel generale intervento di riscrittura, da parte della Corte costituzionale, della disciplina vigente in materia di trasmissione del cognome ai figli (IV, 2.10 e V, 4.9). 72 Informazioni circa l’identità dei genitori biologici possono essere fornite anche ai genitori adottivi per gravi motivi, sempre su autorizzazione del tribunale per i minorenni, che potrà fornirle anche ai sanitari, ove ricorra un grave pericolo per la salute dell’adottato (art. 284). Corte cost. 25-11-2005, n. 425, aveva ritenuto costituzionalmente legittimo l’art. 287, che preclude l’accesso alle informazioni nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai sensi dell’art. 301 D.P.R. 396/2000: ciò per la tutela sia della gestante, sia dello stesso figlio, ponendolo al riparo “da decisioni irreparabili” della madre, per lui evidentemente “ben più gravi”. Peraltro, Corte eur. dir. uomo 25-9-2012, ha reputato violare l’art. 8 CEDU, concernente il diritto al rispetto della vita privata, la disciplina italiana, per non assicurare un equo bilanciamento tra l’interesse della madre biologica a mantenere l’anonimato e quello del figlio adulto, adottato da terzi, ad accedere alle informazioni sulle sue origini. Comunque è successivamente intervenuta, in materia, Corte cost. 22-11-2013, n. 278, che ha dichiarato la illegittimità costituzionale della ricordata disposizione, “nella parte in cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre – che abbia dichiarato di non voler essere nominata – su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione”. E, nel persistente silenzio del legislatore (peraltro almeno attivatosi, nella XVII legislatura, con l’approvazione, da parte della Camera dei deputati, di un testo, passato al Senato come D.D.L. n. 1978), non si è mancato immediatamente di ammettere, su istanza del figlio, l’interpello della madre (App. Catania 5-12-2014). Cass., sez. un., 25-1-2017, n. 1946, ha confermato un simile indirizzo, nel senso, cioè, della necessità di assicurare comunque al figlio, con una procedura rispondente alle prescrizioni della Corte costituzionale, la possibilità di “conoscere le proprie origini” (per cui v., anche con riferimento all’ipotesi di morte della genitrice biologica, Cass. 21-7-2016, n. 15024 e 9-11-2016, n. 22838; il “diritto all’interpello” è stato negato, peraltro, nell’ipotesi in cui “la madre versi in uno stato di incapacità, anche non dichiarata, e non sia pertanto in grado di revocare validamente la propria scelta”: Cass. 9-8-2021, n. 22497, che, in una tale situazione, ha comunque riconosciuto – sia pure con “l’osservanza di tutte le cautele necessarie a garantire la massima riservatezza, e quindi la non identificabilità, della madre biologica” – il diritto di accesso ai dati sanitari della madre), con il solo limite rappresentato, a seguito dell’interpello, da un persistente “diniego della madre di svelare la propria identità”. Cass. 20-3-2018, n. 6963, reputando la formulazione dell’art. 285 tale da consentirlo, ha considerato estensibile il diritto (pure di carattere “fondamentale”) dell’adottato alla conoscenza dell’identità anche di “sorelle e fratelli biologici adulti”, previa acquisizione – in un’ottica di “corretto bilanciamento tra le due posizioni almeno astrattamente in conflitto” – del loro “consenso all’accesso alle informazioni richieste” (o constatazione del relativo “diniego”, “mediante procedimento giurisdizionale idoneo ad assicurare la massima riservatezza ed il massimo rispetto della dignità dei soggetti da interpellare”).

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ri) 73: a) da persone a lui (orfano di madre e di padre) unite da vincolo di parentela fino al sesto grado o da un rapporto stabile e duraturo, preesistente alla morte dei genitori; b) dal coniuge del genitore (anche adottivo), così da favorire, nel suo interesse, l’unità della famiglia; c) se si tratta di minori (orfani di padre e di madre) portatori di handicap; d) quando sia stata constatata l’impossibilità di affidamento preadottivo (art. 441) 74. L’ado  73 Tende ad affermarsi – anche sulla scia della giurisprudenza della Corte eur. dir. uomo (supra, nota 66) – la prospettiva tendente a considerare – superando la tradizionale idea di una sua marginalità ed eccezionalità – l’adozione in casi particolari quale vero e proprio modello alternativo di adozione, definibile (secondo una terminologia corrente in altri ambienti) quale a d o z i o n e s e m p l i c e , in contrapposizione a quella legittimante (qualificata, nell’intitolazione del titolo II L. 184/1983, semplicemente come “adozione”), a sua volta individuata in termini di a d o z i o n e p i e n a (per una simile ottica, in chiave di “diversa genitorialità adottiva”, v., ad es., Cass. 22-6-2016, n. 12962). 74 Pare il caso di evidenziare come, in relazione alla fattispecie di adozione disciplinata dall’art. 441, lett. d, anche la stessa Cassazione non abbia mancato di riferirsi alla terminologia di adozione mite (Cass. 9373/2018 e 1476/2021): supra, nota 66. L’adozione ai sensi dell’art. 441, lett. d, sulla base di una interpretazione del riferimento alla “impossibilità” come estensibile a quella giuridica, per mancanza dello stato di abbandono, è stata ritenuta ammissibile anche a favore della convivente dello stesso sesso della genitrice biologica di una minore (Trib. min. Roma 30-7-2014, confermata da App. Roma 23-12-2015). La Cassazione (22-6-2016, n. 12962, che non ha reputato necessitata la chiamata in causa delle sezioni unite) ha avallato una simile impostazione (fatta propria anche da App. Torino 27-52016, in riforma di provvedimenti diversamente orientati, come Trib. min. Piemonte e Valle d’Aosta 11-9-2016, ma espressamente contestata da Trib. min. Milano 17-10-2016) e la relativa prospettiva interpretativa – dichiaratamente di carattere evolutivo – con riguardo a “tutte le ipotesi in cui, pur in difetto di uno stato di abbandono, sussista in concreto l’interesse del minore a vedere riconosciuti i legami affettivi sviluppatisi con altri soggetti, che se ne prendono cura”, senza possibilità di conferire “rilievo all’orientamento sessuale del richiedente e della conseguente natura della relazione da questo stabilita con il partner” (e v. i richiami di Corte cost. 221/2019). Una remora all’utilizzazione del meccanismo dell’adozione in casi particolari (per le coppie non coniugate, come sono ovviamente quelle omosessuali) è stata, peraltro, individuata nell’art. 481, secondo cui la responsabilità genitoriale finirebbe col competere al solo adottante (Trib. min. Palermo 7-7-2017). Nel senso, invece, di una possibile condivisione della responsabilità genitoriale (con conseguente possibilità di disporre l’adozione anche nel caso di partner dello stesso sesso del genitore biologico), alla luce della generale previsione dell’art. 315 bis, Trib. min Bologna 31-8-2017 e App. Napoli 4-7-2018. Pare il caso di sottolineare come la via dell’adozione in casi particolari, ai sensi dell’art. 441, lett. d, sia stata considerata – come accennato non senza contrasti – trovare legittimazione, per gli uniti civilmente, nella (volutamente) ambigua formulazione dell’art. 120, L. 76/2016, laddove, esclusa l’operatività, per le persone unite civilmente, delle “disposizioni” di cui alla L. 184/1983, si precisa che “resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti” (V, 3.17). Del riconoscimento dell’efficacia di provvedimenti stranieri di adozione (nel caso di specie statunitense e concernente l’adozione da parte di due uomini) in cui sono indicati come adottanti due persone dello stesso sesso, si è occupata Cass. 16-6-2017, n. 14987, la quale richiama la rilevanza, al riguardo, della Convenzione dell’Aja del 29.5.1993 (ratificata con la L. 476/1998), il cui art. 24 stabilisce che “il riconoscimento dell’adozione può essere rifiutato da uno Stato contraente solo se essa è manifestamente contraria all’ordine pubblico, tenendo presente l’interesse superiore del minore”). Per il riconoscimento di adozioni pronunciate all’estero (problematica, questa, i cui termini ha cercato di chiarire Corte cost. 7-4-2016, n. 76), v., comunque, App. Milano 16-10-2015 e App. Napoli 5-4-2016 (relativamente all’adozione legittimante “incrociata” di due minori, ciascuno da parte della coniuge della rispettiva madre biologica), confermata da Cass. 31-5-2018, n. 14007 (risultando la sentenza straniera di adozione non contraria all’ordine pubblico, “valutato in relazione al superiore interesse dei minori ed al mantenimento della stabilità della vita familiare venutasi a creare con entrambe le figure genitoriali”). Un riconoscimento analogo, ma con riguardo all’adozione di due minori da parte di una coppia omosessuale maschile, ha operato, ad es., Trib. min. Firenze 8-3-2017. Peraltro, con riguardo alla dichiarazione di efficacia in Italia di provvedimenti stranieri di adozione legittimante da parte di una coppia di due uomini, Cass. 11-11-2019, n. 29071, ha sollecitato l’intervento delle sezioni unite (in particolare, evidenziando la diversità della fattispecie in esame rispetto a quella decisa in senso favorevole da Cass. 14007/2018, concernendo quest’ultima “un contesto familiare caratterizzato dalla presenza di almeno un genitore biologico”). Cass., sez. un., 31-3-2021, n. 9006, con ampia motivazione, ha ritenuto che si possa riconoscere efficacia al provvedimento giurisdizionale straniero, non risultando in   contrasto con i principi dell’ordine pubblico internazionale l’essere gli adottanti una coppia omoaffettiva maschi-

 

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zione (salvo che nel caso di adozione da parte del coniuge del genitore) è consentita anche a chi non è coniugato 75. È chiaro come, per tale via, l’ordinamento abbia cercato di rendere più elastico il sistema dell’adozione, sempre in vista della realizzazione del preminente interesse del minore, attraverso la salvaguardia degli affetti consolidati o in situazioni di difficile attuazione, altrimenti, dell’adozione stessa: l’accertamento della ricorrenza dell’interesse del minore condiziona, appunto, la dichiarazione di adozione, ad esito di una procedura, nella quale sono chiamati ad intervenire tutti i soggetti i cui interessi risultano coinvolti, rivolta a vagliare la peculiarità della concreta situazione (artt. 56 s.). Gli effetti di questo tipo di adozione non sono quelli dell’adozione legittimante 76, ma, salvo che per l’esercizio delle tipiche funzioni del genitore da parte dell’adottante (art. 48), quelli dell’adozione delle persone maggiorenni (art. 55, che richiama, in proposito, le relative disposizioni del codice civile) 77. A ciò viene fatta conseguire anche la possibilità della revoca della adozione (non ammessa, invece, in genere, per l’adozione dei minori), in caso di indegnità dell’adottato o dell’adottante, oltre che per la violazione dei doveri degli adottanti (artt. 51 ss.). c) L’originaria disciplina dell’adozione, nonostante diffuse perplessità al riguardo, è stata conservata, con talune modificazioni, mantenendone la sua collocazione nel codice (artt. 291 ss.) e limitandone la portata ai maggiorenni. Lo scopo dell’adozione delle persone maggiori di età resta essenzialmente quello tradizionale (pur non mancandosi, nella pratica, di piegarla a scopi diversi), consistente nell’assicurare la continuazione  

le, almeno “ove sia esclusa la preesistenza di un accordo di surrogazione di maternità a fondamento della filiazione” e una volta accertato che il provvedimento non si sia basato “solo sul consenso dei genitori biologici”, ma “abbia valutato positivamente l’idoneità genitoriale in concreto degli adottanti”. Sui problemi che si pongono, con riguardo all’omogenitorialità, in sede di formazione, rettificazione e trascrizione dell’atto di nascita, v. supra, V, 4.2, nota 14 (nonché, per quanto concerne l’ipotesi di maternità surrogata, V, 4.6, nota 56). 75 I requisiti degli adottanti sono specificati, in relazione alle diverse ipotesi, nell’art. 442-4. Per l’adozione è necessario l’assenso dei genitori e del coniuge dell’adottando (461), anche se la relativa negazione può essere superata (nell’interesse del minore), salvo che l’assenso sia rifiutato dai genitori esercenti la responsabilità genitoriale o dal coniuge convivente (462). La giurisprudenza, peraltro, ha interpretato restrittivamente la portata del dissenso del genitore, reputandolo non avere valenza preclusiva quando sia stata “accertata una situazione di disgregazione del contesto familiare d’origine del minore in conseguenza del protratto venir meno del concreto esercizio di un rapporto effettivo con il minore stesso da parte del genitore esercente la responsabilità” (Cass. 16-7-2018, n. 18827). Comunque, in relazione alle difficoltà riconducibili proprio alla disposizione in questione, in vista di un’applicazione del meccanismo dell’adozione in casi particolari da considerare atta a soddisfare pienamente l’interesse del minore, v., da ultimo, Corte cost. 9-3-2021, nn. 32 e 33. 76 Si sottolinea derivarne una situazione che “nega comunque al figlio e all’adottante il diritto a una relazione pienamente equiparata alla filiazione” (Cass. 29-4-2020, n. 8325). 77 Il nuovo art. 74, nel considerare espressamente estesa l’operatività del vincolo della parentela anche al figlio adottivo, ne esclude il sorgere “nei casi di adozione di persone maggiori di età, di cui agli artt. 291 e seguenti”. Una interpretazione letterale della disposizione deporrebbe, allora, nel senso della instaurazione del vincolo di parentela anche nel caso di adozione in casi particolari (peraltro, dovendosi una simile conclusione – e di qui le divergenze di vedute immediatamente sorte al riguardo – conciliare, sotto il profilo sistematico, con l’art. 55 e, in particolare, con il richiamo ivi operato all’art. 300 c.c.) (sul punto, v. supra, V, 1.6). Comunque, da ultimo, Corte cost. 28-3-2022, n. 79, ha giudicato costituzionalmente illegittimo – per la privazione che ne deriva al minore della relativa “rete di tutele personali e patrimoniali” – l’art. 55, nella parte in cui, mediante il rinvio all’art. 300, prevede che l’adozione in casi particolari non induce alcun rapporto tra l’adottato ed i parenti, dell’adottante, con i conseguenti riflessi sulla portata dell’art. 74.

 

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della famiglia dell’adottante, come emerge dall’essere stata essa consentita – almeno nella previsione codicistica, il cui senso, però, è stato profondamente mutato dal ripetuto intervento della Corte costituzionale – solo alle persone prive di discendenti (legittimi o legittimati: art. 2911) 78. L’adozione richiede una differenza di età di almeno 18 anni 79; può avvenire anche da parte di due coniugi ed è ammessa l’adozione di più persone, pure con atti successivi (art. 294). Occorre, ovviamente, il consenso dell’adottante e dell’adottato (art. 296), nonché l’assenso dei genitori dell’adottando e del coniuge dell’adottante e dell’adottando (art. 297). L’adozione viene pronunciata dal tribunale (ordinario) (art. 313), verificatane la corrispondenza all’interesse dell’adottando (art. 312). Quanto agli effetti dell’adozione, l’adottato assume il cognome dell’adottante e lo antepone al proprio (art. 2991; in caso di adozione compita da coniugi, art. 2993, assumeva quello del marito, fino al recente intervento della Corte costituzionale in materia di trasmissione del cognome: IV, 2.9 e V, 4.9) e acquista gli stessi diritti spettanti ai figli legittimi in ordine alla successione dell’adottante (mentre quest’ultimo non vanta diritti successori nei confronti dell’adottato) (art. 304). L’adottato conserva tutti i diritti e i doveri verso la propria famiglia di origine e l’adozione non vale ad instaurare rapporti di parentela tra l’adottato e i parenti dell’adottante (art. 300) 80. L’adozione, poi, può essere revocata per indegnità dell’adottato o dell’adottante (artt. 305 ss.). d) La L. 184/1983 ha regolato anche il fenomeno dell’adozione internazionale, la cui diffusione è legata soprattutto alla difficoltà del ricorso all’adozione di minori italiani (del tutto marginale risultando l’ipotesi inversa, pure contestualmente disciplinata, dell’espatrio di minori italiani a scopo di adozione). La normativa originaria è stata ampiamente modificata dalla L. 31.12.1998, n. 476, con cui è stata ratificata la Convenzione dell’Aja del 29.5.1993, onde accrescere le garanzie a favore dei minori, evitando abusi e assicurando in ogni caso la tutela degli interessi dei minori stranieri coinvolti (spesso oggetto di un vero e proprio mercato). Per evitare gli inconvenienti del passato (legati alla ricerca personale del minore all’estero o all’intervento di intermediari non sempre operanti in modo corretto), è stato fissato un iter procedurale rigoroso. Gli aspiranti all’adozione di un minore straniero, aventi i requisiti previsti, in genere, per l’adozione di minori, devono, a seguito di una propria dichiarazione di disponibilità (art. 29 bis1) 81, ottenere un decreto – emesso dal   78 Corte cost. 19-5-1988, n. 557, in effetti, ha dichiarato tale previsione costituzionalmente illegittima, consentendo l’adozione in questione anche a persone che abbiano “discendenti legittimi o legittimati maggiorenni e consenzienti”. Corte cost. 20-7-2004, n. 245, ha ritenuto, poi, illegittima la disposizione anche nella parte in cui non prevede che l’adozione di maggiorenni sia vietata “in presenza di figli naturali riconosciuti dall’adottante, minorenni o, se maggiorenni, non consenzienti”. Una nuova formulazione della disposizione sarebbe stata sicuramente opportuna, quindi, nel contesto della recente revisione della disciplina della filiazione (che non risulta, invece, essere intervenuta in proposito), eventualmente anche accogliendo le proposte di limitarne, sul modello di altre esperienze, l’applicabilità alla ricorrenza di più stringenti condizioni, come, in particolare, la pregressa sussistenza di significativi rapporti personali tra le parti. 79 Cass. 3-4-2020, n. 7667, comunque, ha concluso che tale divario minimo di età può essere “ragionevolmente ridotto”, attraverso una interpretazione dell’art. 291 costituzionalmente orientata, al fine di “tutelare situazioni familiari consolidatesi da tempo e fondate su una comprovata affectio familiaris”. 80 Tale principio risulta espressamente ora ribadito dal nuovo art. 74 (supra, V, 1.6). 81 La disciplina dei requisiti degli aspiranti all’adozione internazionale è stata reputata costituzionalmente le 

 

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tribunale per i minorenni sulla base di una approfondita relazione dei servizi sociali – attestante l’idoneità ad adottare (art. 30). Successivamente, essi devono conferire l’incarico a curare la procedura di adozione ad uno degli enti a ciò autorizzati dalla Commissione per le adozioni internazionali (costituita presso la Presidenza del Consiglio dei ministri e composta ai sensi dell’art. 38, la quale ha emanato “linee guida” per gli enti autorizzati in data 1.3.2005): l’ente svolge tutte le pratiche necessarie all’estero e le attività necessarie a consentire l’incontro tra gli aspiranti all’adozione ed il minore, trasmettendo alla Commissione la documentazione richiesta (art. 31). La Commissione, valutate le conclusioni dell’ente incaricato, dichiara che l’adozione risponde al superiore interesse del minore e ne autorizza l’ingresso e la residenza in Italia, a condizione che il minore si trovasse in situazione di abbandono (e fosse impossibile l’adozione all’estero) e che anche nel Paese straniero l’adozione abbia gli stessi effetti di quella italiana, consistenti nell’acquisto dello stato di figlio legittimo e nella cessazione dei rapporti con la famiglia di origine (in caso contrario, occorre che i genitori naturali consentano espressamente alla produzione di tali effetti e che il tribunale per i minorenni riconosca la conformità dell’adozione alla Convenzione dell’Aja) (art. 32). L’adozione pronunciata all’estero produce gli stessi effetti dell’adozione dei minori (di cui all’art. 27), una volta che il tribunale abbia accertato che sussistono i requisiti previsti dalla Convenzione e che il provvedimento sia conforme ai principi fondamentali del nostro diritto di famiglia e dei minori, ordinandone la trascrizione nei registri dello stato civile (art. 35). Ne consegue anche l’acquisto, da parte dell’adottato, della cittadinanza italiana (art. 343).

9. Il rapporto di filiazione. – La trattazione della materia degli effetti della filiazione non può che essere ora condotta unitariamente, in considerazione dell’affermazione del principio della unicità della condizione di figlio, alla luce del nuovo art. 315, per cui “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico” 82. Nel nuovo quadro normativo 83 – in coerente sviluppo, del resto, di quanto già previsto dalla L. 8.2.2006, n. 54, con riguardo alle conseguenze della crisi familiare – il legislatore, per dare una configurazione sistematicamente coerente a tale materia, nel titolo IX del codice civile (“Della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio”), al capo I intitolato “Dei diritti e doveri del figlio”, ha affiancato, nel capo II, la disciplina concernente l’“Esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all’esito di procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio” (V, 4.10). L’art. 315 bis, nella prospettiva dell’art. 301 Cost. 84, ma guardando – secondo la tendenza  

gittima da Corte cost. 29-7-2005, n. 347, dovendo essa venire interpretata nel senso di “ritenere ammissibile l’adozione internazionale negli stessi casi in cui è ammessa l’adozione nazionale legittimante o in casi particolari”. 82 Peraltro, è da ritenere che una simile trattazione potesse già essere sostanzialmente unitaria, dato il riferimento dell’originario art. 261 all’assunzione, da parte del genitore, quale conseguenza del riconoscimento del figlio naturale, di tutti i doveri e i diritti che egli aveva nei confronti dei figli legittimi (e comportando l’adozione dei minori l’acquisto dello stato di figlio legittimo). 83 Si tenga presente che il D.Lgs. 154/2013 ha disposto, con l’art. 1047-10, la retroattività – “fermi gli effetti del giudicato formatosi prima dell’entrata in vigore della L. 10.12.2012, n. 219” – della nuova disciplina delle azioni di stato e del riconoscimento dei figli. 84 È da ricordare come l’art. 301 Cost. accosti al “dovere” il “diritto” dei genitori di mantenere, istruire ed  

 

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ovunque trionfante a concentrare l’attenzione sull’interesse del figlio e sulla sua preminenza – al rapporto che deriva dalla generazione dal punto di vista del generato, riconosce al figlio il “diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni” 85. Con tale ultima precisazione si è inteso, evidentemente, richiamare i genitori al rispetto della personalità in via di formazione del minore, cui deve essere assicurata progressivamente una crescente autonomia (in conformità, del resto, a quanto previsto dalle più volte richiamate Convenzioni internazionali in materia di tutela dei minori) 86. L’affermazione, poi, del “diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti” formalizza, in termini di principio generale, l’esigenza che il figlio sia sempre inserito in un contesto relazionale adeguato ad assicurarne pienamente lo sviluppo della personalità 87. Il mantenimento deve essere conforme, ovviamente, al tenore di vita della famiglia. Il diritto di mantenimento (e il corrispondente dovere dei genitori) – ma è da ritenere che ciò valga anche per gli altri diritti (e corrispondenti) doveri, con gli opportuni adattamenti in relazione all’età del figlio – perdura anche oltre il raggiungimento della maggiore età da parte del figlio (e si ricordi come la convivenza del figlio maggiorenne influisca anche sull’assegnazione della casa familiare, in caso di crisi della famiglia: V, 4.11) 88. L’obbligazione di mantenimento – che si ritiene avere, verso l’esterno, carattere di solidarietà – è, ai sensi dell’art. 316 bis1 (cui rinvia ora l’art. 148 con riguardo ai doveri coniugali) ripartita tra i genitori (con evidente riferimento al criterio posto a base del dove 

educare i figli, intendendo evidenziare, così, che la genitorialità rappresenta un aspetto fondamentale della personalità del soggetto (v. anche V, 4.4). 85 Si è visto come l’art. 147 consideri il rispetto delle prerogative che l’art. 315 bis riconosce ai figli quale oggetto di un dovere – e di conseguente reciproca pretesa – dei coniugi (V, 2.9). 86 La prospettiva fatta propria dal legislatore emerge con chiarezza, in particolare, dalla previsione dell’art. 315 bis3 (secondo cui il figlio minore dodicenne, e anche di età inferiore se capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano), da leggere in stretto coordinamento con quella intitolata, appunto, all’ascolto del minore (art. 336 bis: IV, 1.8). Nessuno spazio residua, ovviamente, in vista del rispetto da prestare all’autonomia della famiglia nello svolgimento della funzione educativa, per qualsiasi finalizzazione della relativa attività a scopi prestabiliti. L’originaria formulazione dell’art. 147 si richiamava alla necessaria conformità di tale attività, oltre che “ai principi della morale” (riferimento conservato fino alla riforma del 1975), “al sentimento nazionale fascista”. 87 Al principio in questione si ricollegano, evidentemente, la dichiarazione dell’art. 11 L. 184/1983 (con la conseguente articolazione della disciplina dettata in tema di affidamento e adozione: V, 4.7-8), nonché la disciplina dei rapporti del figlio con i membri della famiglia in dipendenza del venir meno della convivenza familiare (V, 4.10). Nell’ottica accennata non può che essere inquadrato anche quanto ora disposto dall’art. 317 bis, relativamente ai rapporti con gli ascendenti. Pare opportuno sottolineare come al tradizionale elenco dei diritti del minore (e corrispondenti doveri dei genitori) sia stato aggiunto quello relativo all’assistenza morale, con il quale si è inteso, evidentemente, esaltare l’essenzialità, ai fini di un armonico sviluppo della personalità del figlio, del rapporto personale di vita: ciò in una prospettiva che sembra essere stata anche in precedenza privilegiata con la previsione della cura del figlio tra gli obiettivi cui si deve tendere nella conformazione del suo rapporto con i genitori in conseguenza della crisi familiare (art. 337 ter1-2, già art. 1551-2, a seguito della L. 54/2006). 88 Il dovere di mantenimento si ritiene pacificamente persistere, oltre la maggiore età, finché il figlio “ha raggiunto l’indipendenza economica o è stato posto nelle condizioni concrete per conseguirla” (così, ad es., Cass. 25-7-2002, n. 10898), tendendosi, di recente, ad accentuare notevolmente il profilo della “autoresponsabilità” dello stesso per il proprio mantenimento (con un suo “obbligo”, una volta finiti gli studi, di attivarsi per cercare un “qualsiasi lavoro”: Cass. 14-8-2020, n. 17183). Successivamente, i genitori restano tenuti a corrispondere gli alimenti, ai sensi dell’art. 433, n. 3, ove ne ricorrano i presupposti (comunque, in proposito, v. più ampiamente supra, V, 1.7).

 

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re di contribuzione) in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo. Quando i genitori non hanno mezzi sufficienti, sono gli ascendenti, in ordine di prossimità, a dover fornire ad essi i mezzi necessari all’adempimento dei loro doveri nei confronti dei figli 89. Ove vi sia inadempimento da parte del genitore, può essere ordinato che una quota dei redditi dell’obbligato venga versata direttamente all’altro coniuge o a chi sopporta le spese (art. 316 bis2) 90. Quanto al cognome , secondo la disciplina anteriore ai recenti interventi della Corte costituzionale (cui è auspicabile segua tempestivamente il necessario – anche secondo la stessa Corte – intervento sistematico del legislatore) 91 (IV, 2.10), nel caso di filiazione nel matrimonio (cui è da assimilare l’ipotesi di adozione del minore), il figlio assumeva quello del padre in forza di un principio considerato implicito nella legislazione civile. Nel caso di filiazione fuori del matrimonio, il figlio assume il cognome del genitore che per primo lo riconosce e assumeva (sempre prima dell’accennato intervento della Corte costituzionale) quello del padre nell’ipotesi di riconoscimento fatto contemporaneamente dai due genitori. Il figlio può decidere, ove la filiazione nei confronti del padre sia stata accertata successivamente al riconoscimento da parte della madre, circa l’assunzione del cognome del padre, aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre. Se il figlio è minore, sarà il giudice a decidere circa l’assunzione del cognome del padre (art. 262) 92. Il figlio ha il – peraltro non sanzionabile – d overe di rispettare i propri genitori e, finché convive in famiglia, deve contribuire al relativo mantenimento, in ragione delle sue sostanze e del suo reddito (art. 315 bis4). Tali obblighi non cessano col raggiungimento della maggiore età.   89

L’obbligazione degli ascendenti, secondo Cass. 23-3-1995, n. 3402, ha carattere sussidiario e non sorge “per il solo fatto che uno dei genitori non dia il proprio contributo al mantenimento dei figli se l’altro genitore è, nonostante ciò, in grado di mantenerli”. 90 L’accertamento giudiziale della filiazione (fuori del matrimonio) determina, per il genitore, “l’obbligo di provvedere al mantenimento del figlio a partire dalla nascita di quest’ultimo” e l’altro genitore – che abbia “sostenuto interamente tutte le spese per il mantenimento” – ha diritto ad ottenere “il rimborso delle spese, consistendo il mantenimento in una obbligazione solidale di entrambi i genitori, sottoposta pertanto alla disciplina dell’art. 1299” (Cass. 23-11-2007, n. 24409). Tende a diffondersi, nella prospettiva della risarcibilità del c.d. illecito endofamiliare (V, 2.9), il riconoscimento di un risarcimento del danno (patrimoniale e non patrimoniale) a favore del figlio ed a carico del genitore (solo successivamente dichiarato tale e, quindi, fino ad allora inadempiente ai propri obblighi personali e patrimoniali), per non aver potuto godere delle potenzialità – anche con riguardo alla propria preparazione – consentite dall’inattuato rapporto col genitore (pure in relazione alla relativa posizione sociale: App. Bologna 10-2-2004; Trib. Venezia 18-4-2006). In ipotesi del genere, alla “violazione dei doveri inerenti al rapporto di filiazione” è stato, anche dalla Cassazione (10-4-2012, n. 5652, Cass. 16-2-2015, n. 3079), ricollegato un eventuale “obbligo di risarcimento dei danni non patrimoniali”. 91 Si ricordi come Corte cost. 31-5-2022, n. 130 (completando la portata dell’intervento di Corte cost. 21-122016, n. 286, limitato a consentire ai genitori di trasmettere ai figli, al momento della nascita, di comune accordo, “anche il cognome materno”) abbia dichiarato costituzionalmente illegittimi l’art. 2621, nonché, “in via consequenziale”, la norma emergente dal sistema normativo complessivo della trasmissione del cognome al figlio nato nel matrimonio, l’art. 2993 e l’art. 271 L. 184/1983, nella parte in cui prevedono l’assunzione del cognome del padre (o del marito), anziché prevedere che il figlio (o l’adottato) assuma i cognomi dei genitori (o degli adottanti), nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo – al momento, rispettivamente, del riconoscimento, della nascita o nel procedimento di adozione – per attribuire il cognome di uno di loro soltanto. 92 Dovendosi avere “solo cura dell’interesse del minore” (Cass. 17-7-2007, n. 15953, nonché, ad es., 3-2-2011, n. 2645, 15-12-2011, n. 27069 e 11-7-2017, n. 17139) (e v. più ampiamente, nel contesto della trattazione concernente il cognome, IV, 2.10).

 

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L’esercizio della responsabilità genitoriale (secondo la terminologia, implicante evidenti risvolti concettuali, introdotta a seguito della recente riforma della materia) 93 è disciplinato dagli artt. 316 ss. 94. Già con la riforma del 1975, comunque, risultava abbandonato e sostituito con quello alla potestà dei genitori – in conformità all’accolto modello di famiglia fondato sulla parità dei coniugi – il previgente riferimento alla patria potestà, quale prerogativa del marito-padre, esercitabile dalla madre solo in sua mancanza (o in altri casi particolari). Alla responsabilità genitoriale, la cui titolarità compete ad entrambi i genitori (salvo il caso di decadenza), il figlio è soggetto sino alla maggiore età o all’emancipazione. Essa è esercitata – nel doveroso riconoscimento al figlio di spazi di autonomia decisionale via via crescenti 95 – dai genitori di comune accordo. Ciò ha indotto ad introdurre un meccanismo atto a superare, nell’interesse del figlio, le eventuali situazioni di disaccordo (cui sia estranea la ricorrenza di un vero e proprio pregiudizio per il minore, tale da giustificare i provvedimenti sulla potestà, di cui agli artt. 330 ss.) (IV, 1.8), senza violare l’autonomia decisionale dei genitori e assicurando, al contempo, la loro parità (art. 3162-3). È stata prevista, quando il contrasto verte su questioni di particolare importanza, la possibilità di ricorrere al giudice 96. Il giudice svolge, innanzitutto, ascoltato pure il figlio (maggiore di dodici anni e anche di età inferiore ove capace di 93 Altri ordinamenti, per evitare di evocare – già nella relativa identificazione sotto il profilo terminologico – qualsiasi connotazione autoritaria della posizione dei genitori nel rapporto con i figli, hanno da tempo preferito adottare espressioni come quella di “cura genitoriale” (elterliche Sorge) o di parental responsibility. In Francia, si parla di autorité parentale, quale “insieme di diritti e di doveri finalizzati all’interesse del figlio”, prevedendo ora, con una direttiva pienamente rispettosa della dignità e della autonomia del figlio, che i genitori “associano il figlio alle decisioni che lo concernono, secondo la sua età ed il suo grado di maturità” (art. 371-1 code civil, ai sensi della L. 2002-305 del 4.3.2002). Alla “responsabilità genitoriale” si riferisce pure il già ricordato regolamento comunitario 27.11.2003, n. 2201, con riguardo, evidentemente, alla terminologia ritenuta più consona a rappresentare la posizione dei genitori nei confronti del figlio, quale titolare di veri e propri diritti in vista della realizzazione degli interessi di cui è considerato portatore. Secondo un diffuso auspicio (che trovava, del resto, già riscontro nella stessa giurisprudenza, la quale non aveva mancato spesso di parlare senz’altro di “responsabilità genitoriale”: ad es., Cass. 15-9-2011, n. 18863), allora, il D.Lgs. 154/2013, nella prospettiva indicata dall’art. 21, lett. h, L. 219/2012, ha sistematicamente sostituito tutti i precedenti richiami alla potestà dei genitori col riferimento alla nozione, appunto, di responsabilità genitoriale. Peraltro, la pregressa terminologia non manca di essere ancora spesso (erroneamente) evocata in notiziari, discussioni e (autorevoli) dichiarazioni. 94 Quella spettante ai genitori è da ritenere che costituisca, pure nella prospettiva ora privilegiata dal legislatore, esempio significativo di potestà, quale peculiare situazione giuridica complessa attribuita dall’ordinamento in vista della tutela di interessi altrui reputati meritevoli di peculiare protezione (II, 3.7; IV, 1.8). Pare il caso di sottolineare come con l’applicazione della disciplina comune in materia di responsabilità genitoriale siano da risolvere anche le problematiche concernenti la c.d. omogenitorialità, con riguardo, cioè, alle ipotesi in cui sia venuto a costituirsi un rapporto di filiazione giuridicamente rilevante – e, quindi, una situazione di bigenitorialità – con due persone dello stesso sesso (V, 4.2; V, 4.8). 95 È, appunto, alla luce del necessario rispetto della crescente autonomia del minore (IV, 1.7) che deve essere comunque intesa e applicata, attualmente, la disciplina dell’art. 318, in tema di abbandono della casa del genitore (col potere riconosciuto loro di richiamare, anche ricorrendo al giudice tutelare, il minore che se ne sia allontanato senza permesso). Tale disposizione si ricollega a quanto previsto dall’art. 3161, secondo cui i genitori di comune accordo stabiliscono la residenza abituale del minore. 96 Risulta ora soppresso, evidentemente in considerazione delle diffuse perplessità al riguardo sotto il profilo del rispetto della uguaglianza dei genitori, il previgente riconoscimento al padre del potere di adottare i provvedimenti indifferibili, in caso di incombente pericolo di grave pregiudizio per il figlio. L’art. 123, lett. ii, L. 206/2021 dispone “di procedere al riordino della disciplina di cui agli articoli 145 e 316” (si aggiunge “attribuendo la relativa competenza al giudice anche su richiesta di una sola parte”: precisazione, invero, poco chiara, dato che già attualmente al giudice può rivolgersi “ciascuno dei genitori”).

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discernimento), una funzione persuasiva e solo se il contrasto permane (non decide egli stesso ma) attribuisce il potere di decisione al genitore che, nel caso concreto, ritiene più idoneo a curare l’interesse del figlio. L’esercizio della responsabilità genitoriale 97 si concentra in uno dei genitori nel caso di lontananza, incapacità o altro impedimento dell’altro. La responsabilità genitoriale comune non cessa con il venir meno della convivenza (a seguito di separazione, annullamento del matrimonio o divorzio) ed il relativo esercizio è disciplinato nel contesto degli effetti della crisi familiare (art. 317) (V, 4.10). Risulta ora riconosciuto agli ascendenti il diritto di mantenere significativi rapporti con i nipoti minorenni, con possibilità di ricorso al giudice per l’adozione dei provvedimenti più idonei nell’esclusivo interesse del minore (317 bis1-2). Tale ultimo richiamo all’interesse del minore – in una con la competenza attribuita, in proposito, al tribunale per i minorenni (come, in genere, nell’attesa della istituzione, ai sensi dell’art. 124 L. 206/2021, lett. a, del “tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie”, per i provvedimenti in materia di controllo della responsabilità genitoriale: art. 381 disp. att.) – induce a ritenere che, alla base della valorizzazione della posizione dell’ascendente, vi sia pur sempre la preminente considerazione delle esigenze relazionali del minore stesso 98. Il legislatore, pur nel contesto della perseguita unicità dello stato di figlio, ha preso in considerazione, nell’interesse del figlio nato da genitori non uniti in matrimonio, oltre alla (dianzi accennata) problematica concernente il suo cognome (art. 262), i problemi peculiari che l’esercizio della responsabilità genitoriale presenta nei relativi confronti (e, quindi, con riguardo alla c.d. famiglia naturale: V, 1.4). Al riconoscimento (e, in generale, ai sensi dell’art. 2771, all’accertamento) della filiazione fuori del matrimonio consegue, per il genitore, la titolarità della responsabilità genitoriale sul figlio. Se il riconoscimento è avvenuto da parte di uno solo dei genitori, è solo a lui che ne compete l’esercizio. Ove il fi97 La trattazione degli aspetti di carattere più specificamente patrimoniale della regolamentazione della responsabilità genitoriale, nonché l’esame dei meccanismi concernenti il relativo controllo, ai sensi degli artt. 330 ss., sono stati svolti a proposito della condizione giuridica del minore (e della protezione che ai suoi interessi viene apprestata, appunto, attraverso la previsione e la disciplina della responsabilità genitoriale), supra, IV, 1.8. 98 Indubbiamente più opportuna sembra presentarsi, allora, la formulazione dell’art. 337 ter1, che dichiaratamente si muove, appunto, nell’ottica dell’esigenza del minore (e del corrispondente suo “diritto”) di conservare significativi rapporti con gli ascendenti (e gli altri parenti) (V, 4.10). Anche la Corte eur dir. uomo (20-1-2015 e 7-12-2017), la quale sembra far rientrare nel rispetto dovuto alla loro “vita familiare” (ai sensi dell’art. 8 CEDU) un vero e proprio “diritto di visita” dei nonni, onde conservare il “legame familiare” coi nipoti, riconosce, comunque, il carattere non incondizionato di tale diritto. Insomma, l’esercizio del diritto degli ascendenti (i provvedimenti che incidono sui quali sono ritenuti impugnabili con ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 1117 Cost.: Cass. 25-7-2018, n. 19780 e 12-11-2018, n. 19001) resta pur sempre subordinato ad una valutazione avente di mira “l’esclusivo interesse del minore”, sussistente solo “quando il coinvolgimento degli ascendenti si sostanzi in una fruttuosa cooperazione con i genitori per l’adempimento dei loro obblighi educativi” (Cass. 12-6-2018, n. 15238; valutazione che, ovviamente, dovrà essere particolarmente rigorosa in caso di “contestazione da parte dei genitori”. Cass. 19-5-2020, n. 9144). Così, Cass. 25-7-2018, n. 19779 non esita a parlare, in proposito, di “posizione recessiva nei confronti dei minori” (sempre dovendosi tener debito conto “della volontà espressa” dai nipoti). Cass. 19780/2018 ha ritenuto competere il diritto in questione anche a chi si affianchi al “nonno biologico”, ove “abbia instaurato con il minore una stabile relazione affettiva, dalla quale lo stesso possa trarre beneficio sul piano della formazione” (con riferimento alla seconda moglie del nonno).

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glio nato fuori del matrimonio sia stato riconosciuto da entrambi i genitori, il relativo esercizio spetta ad entrambi (art. 3164) 99. Con riguardo al caso del riconoscimento di un figlio nato fuori del matrimonio da parte di persona coniugata, effettuato durante il matrimonio, spetta al giudice la decisione circa il relativo affidamento e l’adozione di ogni altro provvedimento a tutela del suo interesse morale e materiale (art. 2521). In tale ipotesi, può essere autorizzato, nell’interesse del figlio, il suo inserimento nella famiglia del genitore, con le cautele stabilite dal giudice, una volta accertato il consenso dell’altro coniuge convivente, dei figli ultrasedicenni conviventi, nonché dell’altro genitore che abbia effettuato il riconoscimento. Nel caso di riconoscimento anteriore al matrimonio, oltre al consenso dell’altro genitore, occorre solo il consenso del coniuge (salvo che costui fosse a conoscenza dell’esistenza del figlio o che il figlio già convivesse col genitore all’atto del matrimonio) (art. 2522-4) 100. Si tratta di una disciplina, la cui eventuale incidenza negativa sulla posizione del figlio nato fuori del matrimonio trova la propria ragione nel rispetto della unità e lealtà interna del nucleo familiare (con la conseguente giustificazione della sua legittimità costituzionale, alla luce della riserva di compatibilità con “i diritti dei membri della famiglia legittima”, prevista – dall’art. 303 Cost. – come unico possibile limite alla “tutela giuridica e sociale” dei figli nati fuori del matrimonio) 101.

10. Crisi familiare e tutela dell’interesse dei figli. – Preso atto dell’inevitabilità del verificarsi di crisi familiari, il legislatore concentra, da tempo, la sua attenzione sulla sorte dei figli, correntemente indicati, con espressione che rischia di diventare un luogo comune, quali “vittime incolpevoli” della crisi familiare dei genitori. La direttiva di fondo seguita in materia – dal nostro legislatore come dagli altri che si sono occupati, di recente, di una simile problematica – è nel senso di assicurare ai figli, nei limiti del possibile, al di là della rottura della compagine familiare, l’effettivo apporto personale, oltre che economico, di ambedue i genitori (principio della bigenitorialità): di promuovere, cioè, in una prospettiva di superamento della conflittualità (soprattutto in ordine alla sorte della stessa prole), il sorgere di una comunità parentale, che sopravviva al fallimento di quella familiare. Data per scontata la continuità, al di là della crisi familiare, dei doveri dei genitori connessi alla responsabilità genitoriale nei confronti dei figli (art. 3172), il principio basi99 L’art. 3165 dispone che il genitore che non esercita la responsabilità genitoriale vigila sull’istruzione, sull’educazione e sulle condizioni di vita del figlio. Tale previsione sembra riferirsi alle ipotesi in cui il giudice, in caso di mancanza – iniziale, dato che, se si tratta di venire meno della convivenza, deve applicarsi, in materia di esercizio della responsabilità genitoriale, la disciplina del capo II del titolo IX – della convivenza dei genitori, abbia adottato provvedimenti circa l’esercizio della responsabilità genitoriale. 100 Con l’art. 2525 si è ora stabilito – in applicazione del principio dell’art. 21, lett. e, n. 1, L. 219/2012, tendente a demandare “esclusivamente al giudice la valutazione di compatibilità di cui all’art. 30, terzo comma, della Costituzione” – che, in caso di disaccordo tra i genitori, ovvero di mancato consenso degli altri figli conviventi, la decisione sia rimessa al giudice (previo ascolto dei figli minori che abbiano compiuto dodici anni o anche di età inferiore ove capaci di discernimento), ovviamente sempre tenendo conto dell’interesse dei minori. 101 Un analogo ordine di motivazioni era collocato tradizionalmente a base del c.d. diritto di commutazione, spettante ai figli legittimi del defunto nei confronti di quelli naturali (art. 5373: XII, 3.2). Non si mancava di dubitare già della legittimità della sua conservazione anche nel quadro normativo previgente: di qui le istanze per la relativa soppressione, ora evidentemente avvenuta in applicazione del principio della unicità dello stato di figlio.

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lare è quello per cui tutti i provvedimenti relativi alla prole devono essere adottati “con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa” (art. 337 ter2). Era criticabile, nel nostro ordinamento, data l’unitarietà della problematica dei rapporti tra genitori e figli in dipendenza della dissoluzione della comunità di vita familiare, la duplicazione della relativa disciplina (in sede, cioè, sia di separazione personale che di divorzio), cui si aggiungeva la ancora diversa disciplina dei rapporti con i figli in conseguenza del venir meno della convivenza dei genitori non coniugati. Una simile frammentazione – peraltro in larga misura ovviata dagli interventi della giurisprudenza (costituzionale e ordinaria) – il legislatore aveva inteso superare con la L. 8.2.2006, n. 54, recante disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli. Tale provvedimento, nel sostituire l’originario art. 155 (quale già novellato nel quadro della riforma del diritto di famiglia del 1975), integrandolo con taluni articoli aggiuntivi, prevedeva espressamente (nel suo art. 42) l’applicabilità della nuova disciplina “anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”: risultava eliminata così, in particolare, quella diversità di regolamentazione con riguardo ai figli di genitori non coniugati, che finiva col rappresentare per essi una forma di discriminazione 102. Il superamento definitivo, anche sotto il profilo sistematico, dell’accennata frammentazione si è avuto, infine, con la L. 10.12.2012, n. 219 e la relativa normativa applicativa (D.Lgs. 28.12.2013, n. 154), le quali hanno disciplinato unitariamente la problematica connessa alla crisi familiare negli artt. 337 bis ss. (peraltro riproduttivi, quanto a contenuti, della da poco riformata normativa in materia), inseriti nel capo II, titolo IX (“Della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri dei figli”), libro I, intitolato, appunto, “Esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all’esito di procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio”. Alla luce di quanto accennato, è da sottolineare come ovunque contestato sia risultato il tradizionale assetto dei rapporti con la prole incentrato sull’affidamento ad uno dei genitori (c.d. monogenitoriale), prevalendo il favore per modelli di affidamento congiunto o, addirittura, per il superamento dell’idea (e della terminologia) stessa di affidamento. 102

Ciò soprattutto se la portata dell’accennata disposizione fosse stata intesa nel senso di attribuire al tribunale ordinario anche la competenza per i provvedimenti concernenti i figli dei genitori non coniugati, in precedenza considerati rientrare nella competenza del tribunale per i minorenni quanto agli aspetti relativi ai rapporti personali e in quella del tribunale ordinario quanto agli aspetti relativi ai rapporti economici. In senso contrario, però, Cass., ord. 3-4-2007, n. 8362, aveva concluso che “la competenza ad adottare i provvedimenti nell’interesse del figlio naturale spetta al tribunale per i minorenni”, comunque, rispetto al passato, con “una attrazione, in capo allo stesso giudice specializzato, della competenza a provvedere, altresì, sulla misura e sul modo con cui ciascuno dei genitori naturali deve contribuire al mantenimento del figlio” (onde evitare un “evidente sacrificio del principio di concentrazione delle tutele”). Una simile soluzione è stata considerata avere assunto dignità di “diritto vivente” (e v. anche Cass. 27-10-2010, n. 22001) da Corte cost. 5-3-2010, n. 82. Per superare la situazione venutasi a creare in conseguenza dell’accennato orientamento giurisprudenziale, data la relativa diffusamente lamentata incongruenza con lo spirito della legge e con le prospettive di unificazione sistematica dello stato di figlio, dopo diverse iniziative legislative tendenti a concentrare ogni competenza nel tribunale ordinario (e nell’attesa che si concretizzi la diffusamente auspicata istituzione del tribunale della famiglia, ora programmata, come già accennato, quale “tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie”, dall’art. 124, lett. a, L. 206/2021), tale risultato risulta conseguito, nel quadro degli interventi della L. 219/2012, con l’avvenuta novellazione dell’art. 38 disp. att. (ulteriormente modificato dall’art. 128 L. 206/2021).

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Solo con la riforma del divorzio del 1987, da noi, era stata prevista la possibilità – estesa dalla giurisprudenza anche in materia di separazione – di disporre, ove reputato utile all’interesse dei minori, l’affidamento congiunto o alternato, mentre il modello dominante nella prassi ha continuato ad essere quello dell’affidamento ad uno solo dei genitori, col riconoscimento all’altro, attraverso il c.d. diritto di visita, della conservazione di rapporti personali con i figli. Questo modello presenta ora tendenzialmente superato, in ossequio alla finalità che l’art. 337 ter1 espressamente individua nel diritto del figlio minore, in caso di separazione dei genitori, “di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale” 103. A tal fine, carattere prioritario si è attribuito all’affidamento del figlio ad ambedue i genitori (art. 337 ter2) (definito affidamento condiviso) 104. Carattere eccezionale è inevita103 Nel nostro ordinamento, a differenza che in altri, non si prende in considerazione la sempre più frequente realtà delle c.d. f a m i g l i e r i c o m p o s t e (V, 1.2), anche, e soprattutto, con riguardo all’interesse dei figli alla conservazione di rapporti con figure significative di riferimento diverse dai genitori e parenti. Così, ad es., in Francia, l’art. 371-41 code civil prevede che il giudice, ove lo ritenga nel suo interesse, “fissa le modalità delle relazioni tra il minore ed un terzo, parente o meno” e, in Germania, il §1626 BGB si riferisce alla “frequentazione di altre persone, con le quali il figlio ha legami, se la loro conservazione giova al suo sviluppo” (il §1685 risultando intitolato alla “frequentazione del figlio con altre persone di riferimento”, tra cui sono contemplati espressamente il precedente coniuge ed il precedente convivente registrato del genitore). Nel vuoto normativo, il diritto del minore alla conservazione di rapporti col c.d. genitore sociale – attraverso una “interpretazione certamente evolutiva ma costituzionalmente e convenzionalmente conforme dell’art. 337 ter” – è stato prospettato da Trib. Palermo 15-4-2015 (nel caso di specie, si trattava della ex convivente, quindi dello stesso sesso, della madre biologica). Successivamente, App. Palermo 31-8-2015, nel ritenere impossibile una simile interpretazione, pur condividendone la sostanza, ha sollevato, in proposito, la questione di legittimità costituzionale. Peraltro, Corte cost. 20-10-2016, n. 225, non ha reputato sussistere “il vuoto di tutela dell’interesse del minore presupposto dal giudice rimettente”, richiamando – invero alquanto riduttivamente, a fronte della specificità della problematica coinvolta (relativa alla posizione, in genere, del genitore sociale, soprattutto, poi, ove si tratti di partner dello stesso sesso del genitore biologico) – l’applicabilità, in casi del genere, del rimedio di cui all’art. 333 (IV, 1.8), ove si ritenga che gli ostacoli posti alla conservazione di rapporti significativi costituiscano una “condotta comunque pregiudizievole al figlio” (alla persona interessata risultando, così, aperta solo la via consistente nella sollecitazione dell’intervento del pubblico ministero, ai sensi dell’art. 336). In applicazione dell’itinerario indicato dalla Corte costituzionale, v. App. Palermo 7-4-2017. Proprio alla luce di tali interventi giurisprudenziali, pare il caso di evidenziare come la problematica concernente la valorizzazione del ruolo del genitore sociale abbia finito, nei tempi più recenti, con l’intrecciarsi con quella della c.d. omogenitorialità, con riguardo alle ipotesi in cui non si sia comunque realizzata, anche in tal caso, quella situazione di co-genitorialità (v. supra, V, 4.2, nota 14, anche per ulteriori rinvii), che sembra rendere operante la disciplina comune concernente l’esercizio della responsabilità genitoriale nelle situazioni di crisi familiare (e v. infra, in questo stesso paragrafo). Comunque, Trib. Como 18-4-2019, non ha esitato a disporre – a seguito del riscontro di un “grave disturbo della personalità” della madre – il collocamento di una minore presso il marito (e sia pure nel contesto dell’affidamento ai servizi sociali), quale “genitore sociale”. 104 Le persistentemente diffuse – ma ingiustificate – remore nei confronti dell’affidamento congiunto hanno indotto a ricorrere a una simile variante lessicale: resta il dubbio dell’inutilità di continuare a riferirsi alla idea stessa di “affidamento” (non a caso abbandonata altrove), una volta che si sia inteso dare piena attuazione al principio della continuità del rapporto parentale con i figli al di là della crisi familiare. Ovviamente, in considerazione della mancata convivenza dell’intero nucleo familiare, dovranno essere pur sempre stabiliti i tempi e le modalità della permanenza del figlio presso ciascun genitore (così come misura e modalità del relativo contributo personale e materiale). Nella prospettiva della “condivisione” del rapporto col figlio, è evidente come peso decisivo, al riguardo, sia destinato ad avere – non meno che nella fase fisiologica della vita familiare – l’accordo dei genitori, potendo il giudice (oltre che intervenire in caso di disaccordo) discostarsene

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bilmente destinato a residuare, in una simile prospettiva, all’affidamento ad uno solo dei genitori: per disporlo, infatti, occorre un provvedimento motivato con riguardo alla contrarietà all’interesse del minore dell’affidamento ad ambedue i genitori (art. 337 quater1) 105. solo (come evidenzia, ad es., Cass. 20-6-2012, n. 10174) in caso di contrarietà all’interesse del figlio stesso (art. 337 ter2). È da tenere presente che, a riprova della delicatezza della materia e della difficoltà di una sua regolamentazione soddisfacente per tutti, risultano già proposte – anche in conseguenza di sue pretese disfunzioni applicative – modifiche della disciplina introdotta dalla L. 54/2006 (e ora confermata dalla L. 219/2012 e dal D.Lgs. 154/2013). In proposito, un dibattito particolarmente ampio è stato quello occasionato, di recente, dal D.D.L. n. 735 (Senato, XVIII legislatura: “Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità”). 105 Per Cass. 18-6-2008, n. 16593 (secondo un indirizzo successivamente confermato: ad es., 26-3-2015, n. 6132 e 2-1-2017, n. 27), posto che “l’affidamento condiviso non può ragionevolmente ritenersi precluso, di per sé, dalla mera conflittualità fra i coniugi”, la relativa esclusione “dovrà risultare sorretta da una motivazione non più solo in positivo sull’idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sull’inidoneità educativa del genitore che in tal modo si escluda dal pari esercizio della potestà genitoriale” (dato che ciò potrà avvenire “solo ove la sua applicazione risulti pregiudizievole per l’interesse del minore”: Cass. 11-7-2017, n. 17137). Tale impostazione risulta uniformemente seguita dalla giurisprudenza. Così, è stato affermato che “l’oggettiva distanza esistente tra i luoghi di residenza dei genitori non preclude la possibilità di un affidamento condiviso” (Cass. 2-12-2012, n. 24526, con la precisazione che ciò non risulta incompatibile “con il mantenimento della collocazione del minore presso l’abitazione della madre”; al carattere di per se stesso non decisivo del trasferimento della residenza da parte del genitore collocatario allude Cass. 12-5-2015, n. 9633; ma un affidamento esclusivo è stato reputato più adeguato in un caso in cui uno dei genitori viva ormai stabilmente in un lontano paese straniero, trascurando anche il minimo degli incontri previsti, insufficienti essendo considerati i contatti – anche frequenti – via cellulare o skype: Cass. 17-1-2017, n. 977) e che anche la rilevanza di gravi “vicende relative ai rapporti personali” di uno dei genitori con l’altro resta condizionata alla “enunciazione delle ragioni per le quali tali vicende renderebbero, in rapporto all’attualità, del tutto evidente la inidoneità” del genitore (Cass. 7-12-2010, n. 24841). Comunque, la difficoltà di mantenimento di un proficuo rapporto con l’altro genitore non ha mancato di spingere – in regime di affidamento condiviso – ad un divieto di trasferimento del genitore collocatario in altro paese (Trib. Roma 7-7-2017). In ogni caso, ci si è riferiti ad una possibile rilevanza ostativa di un “comportamento gravemente denigratorio” assunto dal padre e dalla sua famiglia nei confronti della madre (Cass. 11-8-2011, n. 17191). Per la (dubbia) rilevanza, ai fini della determinazione del regime dell’affidamento (e, in particolare, ai fini di quello esclusivo), della sindrome di alienazione parentale (PAS, presa in considerazione nel D.D.L. n. 735) o sindrome della madre malevola (MMS), v. Cass. 16-5-2019, n. 13274 e 17-5-2021, n. 13217, che si richiama, comunque, alla necessaria ricorrenza “di accertate, irrecuperabili carenze d’espressione delle capacità genitoriali”. Corrente è la conclusione per cui “l’affidamento condiviso non impone una ripartizione paritaria e perfettamente simmetrica dei tempi di permanenza” presso i due genitori (ad es., Trib. Messina 27-11-2012 e, di recente, Cass. 13-2-2020, n. 3652) e che, quindi, il carattere condiviso dell’affidamento “non esclude che il minore possa essere prevalentemente collocato presso uno dei genitori, anche se l’altro dovrà avere ampia possibilità di vederlo e tenerlo con sé” (Cass. 20-1-2012, n. 785; 10-12-2014, n. 26060; 12-5-2015, n. 9633; 30-7-2018, n. 20151; 10-10-2018, n. 25134: sempre sottolineandosi l’esigenza, ai fini del rispetto del “principio di bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune nei genitori nella vita del figlio”, di garantire “al genitore non collocatario ampi periodi di tempo per tenere il figlio presso di sé”; alla necessaria considerazione della complessità degli interessi in gioco, comunque partendo dall’esigenza di assicurare il benessere del minore, alludono Cass. 3652/2020 e 16-6-2021, n. 17221). Usuale, nella prassi, si presenta, allora, l’individuazione, appunto, di un genitore c.d. c o l l o c a t a r i o (non necessariamente, però, da individuare secondo la tesi della c.d. maternal preference: App. Catania 3-7-2017). Per un fermo richiamo, comunque, nel senso che le autorità competenti devono garantire l’effettività del mantenimento della relazione tra il genitore non (abitualmente) convivente e il figlio, Corte eur. dir. uomo 15-9-2016. Contro l’accennata prassi risultano, peraltro, di recente orientate le (discusse) “Linee guida” in materia del Tribunale di Brindisi, elaborate in data 3.3.2017. Analogamente, in sostanza, il (diffusamente criticato per la sua eccessiva rigidità e difficoltà operativa) D.D.L. n. 735, tendente a ripartire tra i genitori la permanenza del minore secondo “tempi paritetici o equipollenti, salvi i casi di impossibilità materiale” (e, in ogni caso, non inferiori a dodici giorni presso ciascun genitore: art. 111-2). L’attuazione del principio di bigenitorialità (nel senso dianzi accennato) rende inevitabili, ovviamente, spostamenti tanto del minore,

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In tale ipotesi, evidentemente, l’assetto dei rapporti resta fondato, come nel sistema precedente, su di un affidamento sostanzialmente monogenitoriale (con la previsione, comunque, di adeguate modalità di frequentazione e di contribuzione dell’altro genitore, sempre in considerazione dell’accennato diritto del figlio alla continuità del rapporto con ambedue i genitori). È stato chiarito come, ai fini dell’affidamento, non possa conferirsi alcuna rilevanza agli eventuali giudizi di responsabilità per la crisi (come l’addebito della separazione), né, almeno in quanto tali, a circostanze quali la religione professata, il trasferimento in altra città o Stato, ovvero l’attività svolta dal genitore: decisivo deve restare solo il riscontro della idoneità – nell’interesse del minore all’armonico sviluppo della personalità – a svolgere i compiti connessi alla qualità di affidatario. La esclusiva finalizzazione dei provvedimenti in materia alla realizzazione dell’interesse del minore sconsiglia di parlare di “diritti” dei genitori (all’affidamento e alla visita), trattandosi in ogni caso di situazioni le quali, più correttamente, sono da identificare in termini di diritto-dovere (munus) dei genitori stessi 106. quanto dei genitori. La riduzione della possibilità di circolazione delle persone in dipendenza del (caotico) susseguirsi – a partire dal D.P.C.M. 8.3.2020 – dei provvedimenti occasionati dall’epidemia di Covid-19 non ha mancato di determinare, quindi, nel silenzio dei provvedimenti stessi sul punto (e nella conseguente situazione di grave incertezza per interessati e operatori), l’insorgere di problemi al riguardo. Significativamente, Trib. Milano 11.3.2020 ha senz’altro ritenuto che “alcuna ‘chiusura’ di ambiti regionali può giustificare violazioni di provvedimenti di separazione o divorzio” (in materia di “attuazione delle disposizioni di affido e collocamento dei minori”). Del resto, prima in chiarimenti governativi, poi nel modello di “autocertificazione” prescritto per giustificare gli spostamenti, tra le motivazioni ammesse è stata presto inserita quella concernente gli “obblighi di affidamento di minori”. Comunque, l’accennata situazione di incertezza ha propiziato una notevole confusione e diversità di atteggiamenti – inevitabilmente condizionati da valutazioni del tutto personali – da parte dei giudicanti. Così, da una parte, nonostante l’accennata consentita possibilità di spostamenti per assicurare l’attuazione del principio di bigenitorialità, una certa diffusione ha avuto la tendenza ad ammettere i contatti col genitore diverso da quello collocatario prevalente (solo) attraverso strumenti telematici (in particolare, Trib. Bari 3-4-2020, ritenendosi, nel “bilanciamento tra due diritti costituzionali”, “assolutamente prevalente … quello a tutela della salute dei minori”, su quello “dell’esercizio del diritto di visita che risponde all’interesse primario della prole”, da considerarsi, quindi, “recessivo”; in senso analogo, più sommariamente, ad es., Trib. Napoli 26-3-2020, Trib. Vasto 2-4-2020 e Trib. Monza 17-4-2010); dall’altra, non si è mancato senz’altro di valorizzare – con un richiamo, in ogni caso, ad un “grande senso di responsabilità genitoriale” – gli spazi di consentita circolazione personale, “a garanzia del rispetto del principio di bigenitorialità” (Trib. Brescia 31-3-2020). Peculiari modalità con riguardo agli “incontri tra genitori e figli in spazio neutro, ovvero alla presenza di operatori del servizio socio-assistenziale” sono state temporaneamente previste dall’art. 837 bis della L. 24-4-2020, n. 27. 106 Si sottolinea da tempo correntemente (v., ad es., già Cass. 9-5-1985, n. 2882) che, in materia di affidamento (e, secondo una terminologia che continua ad essere utilizzata, di “diritto di visita”), “esula da tali provvedimenti qualsiasi aspetto sanzionatorio” e che lo stesso diritto di visita, in quanto diretto esclusivamente a realizzare l’interesse dei figli, “costituisce espressione di un munus del coniuge non affidatario” (per lui, cioè, “un obbligo”). Così, anche di recente, Cass. 20151/2018 (che ricorda come sia tale, comunque, pure la posizione dell’affidatario). Significativo è, allora, il giudizio di compatibilità, senza preclusioni di principio, dell’ufficio di affidatario con l’esercizio di una attività professionale come quella di pornostar (App. Firenze 3-3-1995), ovvero la stessa collocazione presso il genitore che pure si era reso responsabile di “condotte aggressive, irrispettose ed infedeli” verso l’altro, anche se atte a determinare l’addebito della separazione (Cass. 10-7-2013, n. 17089). In relazione poi, all’affidamento al genitore che abbia dato vita ad una convivenza omosessuale, Cass. 11-1-2013, n. 601, bolla senz’altro come “mero pregiudizio” quello “che sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale”. L’essere ora fondata la tutela del figlio minore sul riconoscimento di un suo “diritto” alla continuità del rapporto con (ambedue) i genitori non può, ovviamente, che rafforzare la prospettiva dell’assenza, in materia, di “diritti” dei genitori stessi. La giurisprudenza (in particolare, Cass. 25-9-1998, n. 9606) aveva già da tempo convenuto pure sull’utilità, per il fanciullo, del-

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Secondo la precedente disciplina, pur conservando entrambi i genitori la titolarità della potestà sui figli, il relativo esercizio spettava, almeno di regola, al solo genitore affidatario. Pur prevedendosi ora che anche l’esercizio della responsabilità genitoriale compete senz’altro ad entrambi i genitori (art. 337 ter3), è stato (invero discutibilmente) affermato il principio per cui, in caso di affidamento esclusivo ad uno dei genitori (e sempre “salva diversa disposizione del giudice”), è a lui che spetta “l’esercizio esclusivo della responsabilità” (art. 337 quater3) 107. Il tribunale dispone di ampi poteri: pur dovendo prendere atto degli accordi dei genitori, può adottare soluzioni diverse rispetto a quelle concordate (in caso di loro contrarietà all’interesse dei figli). Il tribunale, inoltre, può disporre d’ufficio l’assunzione di mezzi di prova che reputi opportuni per formare il proprio convincimento (consulenze tecniche, relazioni dei servizi sociali) 108. Importante è il ruolo del pubblico ministero, la cui partecipazione viene assicurata in tutte le procedure che toccano gli interessi dei figli minori (e quale ulteriore strumento di relativa garanzia, non essendo riconosciuta ad essi la qualità di parte nei procedimenti qui in esame) 109. l’intrattenimento di rapporti personali con i n o n n i . Si è continuato a negare, però, che questi siano titolari di un proprio diritto di visita, trattandosi di conferire, anche al riguardo, esclusiva rilevanza alle esigenze relazionali del minore e, quindi, ad un suo interesse. La nuova disciplina (che pure non si è ritenuto attribuire “agli ascendenti del minore un autonomo diritto di visita”: Cass. 17191/2011, con riferimento al testo del 2006, sul punto immodificato nel 2013) correttamente configura espressamente quale diritto del figlio la conservazione di “rapporti significativi” con gli ascendenti (oltre che con gli altri parenti di entrambi i genitori: art. 337 ter1). Indubbiamente, allora, suscita perplessità (nonché inevitabili problemi di compatibilità con la prospettiva accennata e di coordinamento sistematico) il nuovo art. 317 bis, che configura come diritto degli ascendenti quello di “mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni”, con possibilità di ricorso al giudice in caso di impedimento al relativo esercizio (V, 4.9). E si ricordi, al riguardo, come sia stata persistentemente negata la possibilità di “un intervento dei nonni o di altri familiari” nei procedimenti di separazione e di divorzio coinvolgenti minori (conferma il consolidato orientamento, Cass. 27-12-2011, n. 28902). 107 Il superamento della precedente divaricazione, a seguito della separazione, tra titolarità ed esercizio della potestà, avrebbe dovuto rendere ultronea, a differenza che in passato, l’espressa previsione per cui le decisioni di maggiore interesse per il figlio (quali quelle relative a istruzione, educazione e salute) devono essere adottate di comune accordo da entrambi i genitori (337 ter3). La persistente rilevanza della prescrizione si ricollega, peraltro, all’accennata previsione in tema di affidamento esclusivo. L’art. 123, lett. d, L. 206/2021, prospetta che, in materia di cambio di residenza e di scelta dell’istituto scolastico (“anche prima della separazione dei genitori”), si debba prevedere essere “sempre necessario il consenso di entrambi i genitori, ovvero, in difetto, del giudice”. In caso di disaccordo, inevitabilmente la decisione è rimessa al giudice (art. 337 ter3). Così, ad es., in relazione al “regime alimentare del figlio minore” (Trib. Roma 7-10-2016), ovvero con riguardo alla condivisione di particolari pratiche religiose (nel caso di specie, quelle inerenti al credo dei testimoni di Geova, Cass. 24-5-2018, n. 1295). E, per evitare conseguenze pregiudizievoli per il figlio, non si è mancato di ammettere che i provvedimenti in materia possano anche restringere i diritti individuali di libertà dei genitori (ad es., in tema di libertà religiosa: Cass. 30-8-2019, n. 21916). Con riferimento alla delicata (e controversa) problematica concernente la somministrazione di vaccini, essendo in gioco “il rischio di un pregiudizio grave al minore”, si è ritenuto comunque applicabile il rimedio di cui all’art. 333 (App. Napoli, sez. min., 30-8-2017) (IV, 1.8). 108 Risultano correntemente evidenziati gli ampi poteri istruttori e decisori d’ufficio del giudice (“attese le esigenze pubblicistiche in gioco”: Cass. 24-8-2018, n. 21178). 109 Peraltro, Cass., sez. un., 21-10-2009, n. 22238, ha ritenuto che i minori, in quanto “portatori di interessi contrapposti o diversi da quelli dei genitori”, possano essere, comunque, “qualificati parti in senso sostanziale”. La “mancata assunzione, da parte dei minori portatori dell’interesse tutelato, della formale qualità di parte” risulta ribadita, ad es., da Cass. 28902/2011, 30-7-2020, n. 16410 e 31-3-2014, n. 7478 (che reputa “la partecipazione del minore nel conflitto genitoriale” come destinata a “esprimersi … mediante il suo ascolto”:

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PARTE V – FAMIGLIA

Pure in dipendenza di quanto disposto da Convenzioni internazionali 110, è sembrata imporsi la necessità di conferire attenzione alle opinioni ed ai desideri dei figli, ovviamente da raccogliere nelle forme procedurali più opportune (direttamente o indirettamente, in relazione alla loro età e capacità di discernimento). Risulta previsto, quindi, che il giudice sia tenuto a disporre l’ascolto del figlio ultradodicenne e anche se di età inferiore, ove capace di discernimento (art. 337 octies1) 111. Al fine di evitare il perpetuarsi di situazioni di conflittualità (durante e ad esito della crisi familiare), un ruolo rilevante tende a riconoscersi alla mediazione familiare, quale strumento funzionale a ristabilire tra i coniugi condizioni di accordo spontaneo, almeno in vista dei futuri rapporti reciproci e con i figli. Le aperture in tale direzione di altri ordinamenti, dopo avere trovato riscontro, da noi, nella prassi di taluni tribunali, risultano ora condivise dall’art. 337 octies2: il percorso della mediazione può essere indicato dal giudice, ove lo ritenga opportuno, alle parti (sempre col loro consenso ed in vista della migliore tutela dell’interesse dei figli) 112. Sotto il profilo economico, i genitori restano tenuti a provvedere al mantenimento dei figli in misura proporzionale alle proprie possibilità (in applicazione del principio dell’art. 316 bis1): ove necessario, allora, potrà essere stabilita, appunto “al fine l’“imprescindibilità dell’audizione”, è stata considerata senz’altro idonea a soddisfare le prerogative del minore quale “parte sostanziale” del procedimento da Cass. 10-11-2014, n. 19007). 110 Si allude all’art. 12 della Convenzione sui diritti del fanciullo di New York, 20.11.1989, ratificata con L. 176/1991, e agli artt. 3, 5, 6 della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli di Strasburgo, 25.1.1996, ratificata con L. 77/2003, i quali garantiscono al minore, ove capace di discernimento, il diritto di esprimere la sua opinione, ovviamente una volta adeguatamente informato, nelle procedure che lo interessano (v. anche art. 241 Carta dir. fond. U.E.) (IV, 1.7). Tali disposizioni garantiscono pure che le opinioni stesse vengano “debitamente prese in considerazione”, evidentemente come espressione della libertà di autodeterminazione da riconoscere al minore: da tale punto di vista sembra presentarsi riduttiva anche la nuova disciplina, apparendo posta l’audizione del minore essenzialmente sul piano degli altri “mezzi di prova”. L’art. 123, lett. dd, opportunamente, allora, prevede – appunto “anche alla luce della normativa sovranazionale di riferimento” – che si proceda, in sede di normativa delegata, al “riordino delle disposizioni in materia di ascolto del minore” 111 Reputando costituire “violazione del principio del contraddittorio … il mancato ascolto dei minori” interessati, Cass., sez. un., 22238/2009 (nonché, ad es., Cass. 7478/2014), ha concluso nel senso della invalidità della decisione adottata in caso di (immotivata) assenza di una simile audizione. Sull’ascolto del minore, v. pure supra, IV, 1.8 e V, 4.9. Pare il caso di sottolineare come, nel caso in cui si tratti semplicemente di prendere “atto di un accordo dei genitori, relativamente alla condizioni di affidamento dei figli”, sia stato consentito al giudice – così finendo discutibilmente con l’affievolire la portata generale del principio della necessità dell’ascolto – di non procedere all’ascolto, non solo se “in contrasto con l’interesse del minore”, ma anche ove lo ritenga “manifestamente superfluo” (art. 337 octies1). Del resto, si è già segnalato (V, 3.2) come, nella procedura di definizione della crisi familiare attraverso la “negoziazione assistita”, di cui all’art. 6 D.L. 132/2014 (conv. in L. 162/2014), sia stato conferito peso del tutto inadeguato alla posizione del minore ed all’esigenza del suo ascolto. 112 Un ruolo ancora maggiore al “procedimento di mediazione familiare” tenderebbe, peraltro, a riconoscere – quale vera e propria condizione di procedibilità – l’accennato D.D.L. n. 735, che prevede anche l’istituzionalizzazione della figura (non ignota alla giurisprudenza: v., ad es., Trib. Milano 29-7-2016) del coordinatore genitoriale, in funzione di “risoluzione alternativa delle controversie” coinvolgenti il minore. Oltre che prevedere, come già accennato (V, 3.1), una implementazione del ruolo della mediazione familiare, pure la L. 206/2021 prospetta, in effetti (art. 123, lett. ee), di introdurre “la facoltà per il giudice, anche istruttore, su richiesta concorde di entrambe le parti, di nominare un professionista … dotato di specifiche competenze in grado di coadiuvare il giudice per determinati interventi sul nucleo familiare, per superare conflitti tra le parti, per fornire ausilio per i minori e per la ripresa o il miglioramento delle relazioni tra genitori e figli”.

CAP. 4 – FILIAZIONE

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di realizzare il principio di proporzionalità”, la corresponsione di un assegno periodico – automaticamente rivalutabile – a carico di uno dei genitori (art. 337 ter4-5, che prevede analiticamente i criteri di determinazione di tale assegno) 113. Tutti i provvedimenti concernenti i figli (in tema di affidamento, responsabilità genitoriale, contribuzioni economiche e casa familiare) sono assoggettabili a revisione (artt. 337 quinquies, 91 l. div., 710 e 7115 c.p.c.) 114. Pare il caso, inoltre, di sottolineare come, in tutti i casi in cui sia venuto a costituirsi un rapporto di filiazione giuridicamente rilevante – e, quindi, bigenitoriale – con due persone dello stesso sesso (V, 4.2; V, 4.8), pur nel silenzio del legislatore, sia da ritenere comunque operante – non diversamente, del resto, che nella fase fisiologica della convi113 Posto il principio secondo cui, “salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti” (i limiti della cui possibile portata risultano, peraltro, controversi), “ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito”, quali criteri di determinazione dell’assegno – finalizzati alla realizzazione del “principio di proporzionalità” – sono contemplati: “le attuali esigenze del figlio”; “il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori”; “i tempi di permanenza presso ciascun genitore”; “le risorse economiche di entrambi i genitori”; “la valenza dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore”. Il legislatore sembrerebbe privilegiare, ai fini del mantenimento, forme di soddisfacimento diretto delle esigenze dei figli (anche se il punto non viene esplicitato come nel progetto di riforma sfociato nella L. 54/2006). La giurisprudenza, peraltro (e pur non senza contrasti: v. infatti, anche di recente, nel senso che “la forma privilegiata dal legislatore è quella diretta”, Trib. Salerno18-4-2017, nonché le ricordate “Linee guida” del Tribunale di Brindisi e, de iure condendo, l’accennato D.D.L. n. 735), ha negato che “il contributo diretto da parte di ciascuno dei genitori costituisca la regola” (Cass. 785/2012). Cass. 18-8-2006, n. 18187, aveva già evidenziato, comunque, come la previsione della corresponsione di un assegno sia da ritenere senz’altro compatibile – ovviamente “ove ne sussistano i presupposti” – con l’affidamento congiunto e, ora, con quello condiviso (in tal senso sembrando effettivamente deporre lo stesso art. 337 ter4 ed i criteri di determinazione in esso indicati). Cass. 26060/2014 ha esplicitamente escluso, anche alla luce del nuovo quadro normativo, “che ciascuno dei genitori debba provvedere paritariamente, in modo diretto ed autonomo”, al soddisfacimento delle esigenze dei figli. In applicazione del principio per cui l’obbligo di mantenimento dei genitori persiste oltre la maggiore età nei confronti dei figli non economicamente indipendenti (V, 1.7 e 4.9, cui si rinvia per l’approfondimento della problematica), il giudice può disporre un assegno periodico pure a favore dei figli maggiorenni (da versare, salvo diversa determinazione del giudice, direttamente all’avente diritto) (art. 337 septies1). L’art. 337 septies2 parifica, peraltro, la situazione dei figli maggiorenni “portatori di handicap grave” a quella dei figli minori (l’art. 37 bis disp. att. specifica che tali sono da considerare quelli cui si riferisce l’art. 33 L. 5.2.1992, n. 104). A favore dell’ammissibilità di un eventuale intervento del figlio maggiorenne nei processi di separazione e di divorzio dei genitori, onde far valere le proprie ragioni, si è pronunciata Cass. 19-3-2012, n. 4296. 114 L’introdotto art. 709 ter2 c.p.c. prevede la possibilità dell’adozione di gravi sanzioni nei confronti del genitore che non adempia ai propri obblighi nei confronti del minore (ammonizione; risarcimento del danno nei confronti del minore; risarcimento del danno nei confronti dell’altro genitore; sanzione amministrativa pecuniaria). L’art. 123, lett. mm, L. 206/2021 prospetta, comunque, il riordino della disciplina di cui all’art. 709 ter c.p.c.”. Una sanzione penale in tutti i casi di violazione degli obblighi di natura economica era stata introdotta dall’art. 3 L. 54/2006. Tale disposizione è stata abrogata contestualmente all’introduzione (col D.Lgs. 1.3.2018, n. 21) del nuovo art. 570 bis c.p.c., il quale prevede l’assoggettamento del coniuge alle pene previste dall’art. 570 c.p., in caso di mancata “corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio”, ovvero di violazione degli “obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli”. L’espresso riferimento alla figura del coniuge ha fatto dubitare che la portata della disposizione possa estendersi all’assegno di mantenimento disposto a favore dei figli di genitori non coniugati (ad es., Trib. Treviso 8-5-2018: con applicabilità del regime – di meno agevole operatività – dell’art. 570 c.p.). Peraltro, La Cassazione – superando, così, possibili dubbi di legittimità costituzionale – ha ritenuto comunque operante la ricordata disposizione, sulla base della (non abrogata) comprensiva norma di rinvio dell’art. 42 L. 54/2006 (Cass. pen. 17-10-2018, n. 56080 e 24-10-2018, n. 55744).

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PARTE V – FAMIGLIA

venza – la disciplina comune concernente l’esercizio della responsabilità genitoriale in dipendenza della crisi familiare.

11. Assegnazione della casa familiare. – Pure la disciplina dell’assegnazione della casa familiare concerne una problematica che si pone in termini omogenei in tutti i casi di dissoluzione della famiglia come comunità di vita. La regolamentazione della materia è intervenuta prima, nel 1975, con riguardo alla separazione e, poi, con la riforma del 1987, anche in tema di divorzio. La disciplina dettata dall’art. 337 sexies1 (come già l’art. 155 quater1, ai sensi della L. 54/2006), al pari delle altre disposizioni concernenti le conseguenze della crisi familiare nei rapporti tra genitori e figli (V, 4.10) 115, assume portata generale, come tale estesa – oltre che alla separazione, al divorzio e alla invalidità del matrimonio – anche al venir meno della convivenza di genitori non coniugati 116. L’ordinamento conferisce rilevanza alla destinazione dell’immobile a casa familiare e le relative vicende tendono ad essere correttamente ricondotte al piano del regime primario (V, 2.10): un’autonoma considerazione della sorte di tale bene, rispetto a quella di ogni altro, emerge oltre che nell’ipotesi, appunto, di cessazione della convivenza familiare, in quella di morte di uno dei coniugi (art. 5402) (XII, 3.2). L’assegnazione dell’abitazione nella casa familiare presuppone, ovviamente, che i coniugi (o i conviventi) fossero, in precedenza, legittimati a goderne insieme (e con i figli): ne avessero, cioè, la disponibilità. Ciò sulla base di un titolo, che può essere rappresentato dal diritto di proprietà comune o di uno di essi, da un altro diritto reale (usufrutto, abitazione), da un diritto di locazione (in tal caso si reputa operare, ai sensi dell’art. 62-3 L. 27.7.1978, n. 392, una cessione ex lege del contratto) o (come spesso accade) di comodato 117. 115 Non si può mancare di sottolineare come il D.Lgs. 154/2013, nell’abrogare – in perfetta coerenza con la portata generale conferita alla disciplina degli artt. 337 ter ss., secondo l’impostazione già seguita dall’art. 42 L. 54/2006 circa la sfera applicativa dei previgenti artt. 155 ss. – le disposizioni dell’art. 6 l. div. in materia di conseguenze del divorzio per i figli, abbia lasciato sopravvivere proprio il relativo co. 6, concernente, appunto, l’assegnazione della casa familiare. Una simile soluzione – sicuramente inopportuna sul piano sistematico generale – potrebbe acquistare senso solo ponendola in relazione con la problematica concernente la opponibilità dell’assegnazione (alla luce del dettato dell’art. 337 sexies1: v. infra, nota 125). 116 Si ricordi come Corte cost. 13-5-1998, n. 166 (la cui portata fu completata da Corte cost. 21-10-2005, n. 394), avesse ritenuto già consentita anche in caso di cessazione di un rapporto di convivenza more uxorio l’assegnazione della casa familiare al genitore affidatario: ciò sulla base dei principi generali governanti i rapporti personali ed economici tra genitori e figli, in vista delle esigenze di piena tutela delle necessità materiali e psicologiche di questi ultimi. Per l’assegnazione in dipendenza di situazioni di convivenza, v., ad es., Cass. 11-9-2015, n. 17971. Si ricordi come l’art. 142 L. 20.5.2016, n. 76, in relazione alla sorte della “casa di comune residenza” (in caso di morte del proprietario), faccia espressamente “salvo quanto previsto dall’art. 337 sexies”. 117 Circa l’ammissibilità dell’assegnazione – da taluni contestata – nell’ipotesi di comodato (IX, 4.6), la soluzione favorevole (con opportune precisazioni) di Cass., sez. un., 21-7-2004, n. 13603 (fondata sulla configurabilità di un “vincolo di destinazione dell’immobile alle esigenze abitative familiari idoneo a conferire all’uso cui la casa doveva essere destinata il carattere di termine implicito della durata del rapporto”), seguita dalla successiva giurisprudenza (ad es. Cass. 14-2-2012, n. 2103 e 2-10-2012, n. 16769; diversamente, senza alcuna motivazione del dissenso, Cass. 7-7-2010, n. 15986), risulta posta in dubbio da Cass. 18-6-2013, n. 15113, che ha concluso per la opportunità della rimessione della questione alle sezioni unite.

CAP. 4 – FILIAZIONE

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L’interesse rilevante ai fini dell’assegnazione si ritiene essere (solo) quello dei figli, anche per la collocazione delle disposizioni in materia tra quelle concernenti, appunto, i relativi rapporti con i genitori 118. Alla luce della disciplina previgente, l’affidamento dei figli o la convivenza con figli maggiorenni ancora non economicamente autosufficienti erano, così, senz’altro considerati costituire presupposto necessario per l’assegnazione (al coniuge non titolare, o titolare esclusivo, del diritto sul bene). Tale prospettiva sembra destinata a rimanere sicuramente ferma pure in applicazione dell’attuale disciplina, la quale si limita a prevedere, al riguardo, che il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli (art. 337 sexies1) 119. L’esclusiva attenzione riservata all’interesse dei figli, così, ha finito col far escludere che – sia pure subordinatamente e ad esito di un giudizio di bilanciamento con esso – possano essere presi in considerazione, ai fini della decisione circa l’assegnazione, interessi di diversa natura (come, ad es., nel caso di immobile indispensabile per l’attività professionale del coniuge che sia titolare del diritto su di esso o specificamente attrezzato per una sua grave infermità) 120. Cass., sez. un., 29-9-2014, n. 20448, ha confermato l’indirizzo favorevole, condividendo (e specificando ulteriormente) le considerazioni svolte nel 2004, in ordine agli oneri probatori gravanti sulle parti e – in relazione alle diverse situazioni prospettabili – alla corretta applicazione delle regole governanti il comodato, ai sensi dell’art. 1809. Per l’esigenza secondo cui “la volontà di assoggettare il bene a vincoli d’uso particolarmente gravosi, quali la destinazione a residenza familiare, non può essere presunta ma va positivamente accertata”, Cass. 18-8-2017, n. 20151. 118 Cass., sez. un., 26-7-2002, n. 11096, è sembrata intenzionata a ribadire definitivamente (sulle orme di Corte cost. 13-5-1998, n. 166) che l’assegnazione “costituisce una misura di tutela esclusiva della prole, diretta ad evitare … l’ulteriore trauma di un allontanamento dall’abituale ambiente di vita”. Con riguardo alla disciplina del 2006 (come riprodotta in quella attualmente vigente), Cass. 22-3-2007, n. 6979, evidenzia che “la nuova disposizione mostra di volere dare consacrazione legislativa, con il riferimento all’‘interesse dei figli’ in genere, proprio al consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte” (e per il successivo univoco orientamento in tal senso della giurisprudenza, v., ad es., Cass. 29-9-2016, n. 19347; 12-10-2018, n. 25604 e 13-12-2018, n. 32231, secondo cui, peraltro, non rileva, ai fini dell’assegnazione alla madre collocataria, che questa si fosse – “in conseguenza della crisi dei rapporti col padre del bambino” – allontanata dall’abitazione prima dell’introduzione del giudizio). Insomma, il giudice non può “prescindere dall’affidamento dei figli minori o dalla convivenza con i figli maggiorenni non ancora autosufficienti che funge da presupposto inderogabile dell’assegnazione” (Cass. 15-1-2018, n. 772). Anche la Corte costituzionale, del resto, sembra volersi muovere in tale ottica (Corte cost. 30-7-2008, n. 308). È da sottolineare come, in considerazione del tipo di interesse da tutelare, oggetto di assegnazione sia dalla giurisprudenza (ad es., già Cass. 9-12-1983, n. 7303) intesa la casa familiare non come mero immobile, ma come tutto quanto vale ad identificare “lo standard di vita familiare oggettivato in quella organizzazione di beni”, comprendente, quindi, anche “i beni mobili, gli arredi, gli elettrodomestici ed i servizi”. 119 La mancanza del precedente riferimento all’affidamento dei figli minori (o alla convivenza di figli maggiorenni) pare dipendere dal carattere ormai normale, nella prospettiva propria dell’affidamento condiviso, della conservazione di un rapporto paritario nei confronti dei figli da parte di entrambi i genitori. La scelta tra costoro, ai fini dell’assegnazione, non può che ricollegarsi, quindi, al concreto atteggiarsi, nelle diverse ipotesi, dell’interesse dei figli in proposito, evidentemente con specifico riguardo alla loro abituale collocazione abitativa: il carattere condiviso dell’affidamento, in effetti, non può essere inteso come comportante, quasi per logica necessità, una sorta di pendolarismo della residenza dei figli per periodi tendenzialmente uguali. Sembra, poi, difficile da ipotizzare – almeno in assenza di un accordo in tal senso dei genitori – la previsione della conservazione del godimento della casa familiare ai figli, con una “turnazione” della presenza in essa dei genitori (per gli evidenti disagi che ne conseguirebbero ai genitori). In caso di affidamento monogenitoriale, la situazione pare presentarsi sostanzialmente invariata rispetto al passato. 120 Si tratta di un indirizzo, fermo a partire da Cass., sez. un., 28-10-1995, n. 11297, secondo cui “l’assegnazione della casa familiare”, in quanto “strumento di protezione della prole”, “non può conseguire altre e

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PARTE V – FAMIGLIA

Comunque, l’assegnazione, per contemperare gli interessi e le esigenze di tutti i membri della famiglia, può essere limitata ad una parte soltanto dell’immobile 121. Si è espressamente previsto – recependo, in sostanza, un precedente indirizzo giurisprudenziale – che dell’assegnazione si debba tenere conto nella regolazione dei rapporti economici tra i coniugi, considerando, in particolare, la titolarità della proprietà del bene 122. Il diritto di godimento della casa familiare, poi, “viene meno” nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio 123. Quanto, infine, al discusso problema della opponibilità ai terzi della situazione consediverse finalità” (Cass. 22-7-2015, n. 15367, richiamata da Cass. 772/2018). Peraltro, un contrario risalente indirizzo (per cui v., ad es., Cass. 9-6-1990, n. 5632) sembra avere trovato consenso pure più di recente, risultando riproposto – in un’ottica, quindi, polifunzionale dell’assegnazione – da App. Venezia 6-3-2013 (con riguardo al caso di un “genitore presso il quale il minore non vive stabilmente”, ma “non vedente”, da non privare “della continuità abitativa essenziale alle sue abitudini di vita ed alle esigenze lavorative”). 121 Una soluzione in tal senso, una volta considerata “esperibile in relazione del lieve grado di conflittualità coniugale”, è vista come funzionale ad agevolare in concreto “la condivisione della genitorialità” (Cass. 12-11-2014, n. 24156 e 11-4-2014, n. 8580). Cass. 15-10-2020, n. 22266 richiama l’attenzione sul profilo della necessità che, a tal fine, l’abitazione sia “agevolmente divisibile”, affinché l’unità abitativa da destinare al genitore non affidatario “sia del tutto autonoma”. 122 Circa i riflessi che il venir meno del diritto di abitazione in questione determina in ordine alla conseguente modifica dell’ammontare dell’assegno di mantenimento disposto a favore del coniuge, rimasto senza casa, Cass. 21-7-2015, n. 15272 (e v. pure 23-7-2020, n. 15773), conclude che tale modifica non dev’essere necessariamente proporzionale al canone di mercato dell’immobile che il coniuge risulti tenuto a lasciare. Si ritiene che “la gratuità dell’assegnazione dell’abitazione non si estende alle spese correlate” al relativo uso (come, in particolare, la tassa sui rifiuti e gli oneri condominiali: Cass. 7-5-2018, n. 10927). 123 L’estinzione del diritto derivante dall’assegnazione sembra comunque richiedere un provvedimento giudiziale di revoca (anche in considerazione di quanto stabilito nell’ultimo periodo dell’art. 337 sexies1). La previsione, nella sua formulazione letterale, risulta criticabile, in quanto il soddisfacimento dell’interesse dei figli, ritenuto costituire esclusiva ratio dell’assegnazione, corre il rischio di essere pregiudicato da situazioni personali del genitore assegnatario (tali da non far necessariamente venire meno le esigenze dei figli stessi poste a fondamento dell’assegnazione). Già Trib. Napoli 9-11-2006, aveva evidenziato, quindi, che “una lettura costituzionalmente orientata” della norma impone di interpretarla nel senso per cui “non vi è alcun automatismo, nonostante l’apparente tenore letterale della legge: anche in caso di nuove nozze o di convivenza more uxorio del genitore assegnatario la revoca dell’assegnazione va disposta solo se corrisponda all’interesse dei figli”. Per Corte cost. 30-7-2008, n. 308, così, la “coerenza della disciplina e la sua costituzionalità possono essere recuperate ove la normativa sia interpretata nel senso che l’assegnazione della casa coniugale non venga meno al verificarsi degli eventi di cui si tratta (instaurazione di una convivenza di fatto, nuovo matrimonio), ma che la decadenza dalla stessa sia subordinata ad un giudizio di conformità all’interesse del minore”. La persistenza del diritto ad abitare la casa coniugale resta, ovviamente, comunque legata alla persistenza del presupposto relativo, consistente nella presenza di figli minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti conviventi (con conseguente possibilità, per l’altro coniuge, di azionare la procedura di revisione, ai sensi degli artt. 710-711 c.p.c. e 91 l. div.). L’art. 337 sexies2, inoltre, dispone che, nel caso di cambiamento di residenza o di domicilio di uno dei coniugi, l’altro possa chiedere, se il mutamento interferisce con le modalità dell’affidamento, la ridefinizione degli accordi o dei provvedimenti adottati (anche di carattere economico). Risolvendo un contrasto giurisprudenziale in proposito, Cass., sez. un., 9-6-2022, n. 18641 ha ritenuto che “l’attribuzione dell’immobile adibito a casa familiare in proprietà esclusiva dell’assegnatario in sede di divisione configura una causa automatica di estinzione del diritto di godimento con tale destinazione”, con il conseguente “conferimento allo stesso immobile di un valore economico pieno corrispondente a quello venale di mercato”. Quindi, il diritto di godimento dell’immobile derivante dall’assegnazione – venendo esso appunto meno con l’attribuzione in sede divisoria al coniuge già assegnatario – “non potrà avere alcuna incidenza sulla determinazione del conguaglio dovuto all’altro coniuge” comproprietario dell’immobile.

CAP. 4 – FILIAZIONE

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guente all’assegnazione 124, si è stabilito che il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono “trascrivibili e opponibili ai terzi ai sensi dell’articolo 2643” 125.

124 Tale situazione tende ad essere configurata quale diritto personale di godimento (peraltro “variamente segnato da tratti di atipicità”: Cass., sez. un., 11096/2002 e 13603/2004). Si è ritenuto che il provvedimento di assegnazione non sia opponibile “al creditore ipotecario che abbia acquistato il suo diritto sull’immobile in base ad un atto iscritto anteriormente alla trascrizione del provvedimento di assegnazione” (Cass. 20-4-2016, n. 7776). 125 È da tenere presente come la disciplina anteriore alla L. 54/2006, anche – e soprattutto – alla luce delle sue finalità di tutela di interessi esistenziali preminenti dei figli, fosse interpretata nel senso di considerare necessaria la trascrizione solo per assicurare l’opponibilità dell’assegnazione oltre (e non entro) il novennio (Cass. 11096/2002, cui si è allineata la giurisprudenza successiva). Ha suscitato perplessità e propiziato dubbi esegetici, di conseguenza, la portata della nuova prescrizione (riproduttiva dell’art. 155 quater1, di controversa interpretazione proprio sul punto) in materia di opponibilità del provvedimento di assegnazione (che si presta ad essere intesa nel senso della necessità in ogni caso della relativa trascrizione ai fini della opponibilità ai terzi, secondo quanto pare propensa a ritenere Cass. 15113/2013). La conservazione dell’art. 66 l. div. (pur nel contesto del quadro legislativo complessivamente conseguente alla normativa del 2013) potrebbe assumere il significato, allora, di intenzionale mantenimento, nel sistema delle conseguenze della crisi familiare (e, in particolare, dell’assegnazione della casa familiare), di quell’espresso richiamo (nella seconda frase della disposizione: “l’assegnazione, in quanto trascritta, è opponibile al terzo acquirente, ai sensi dell’art. 1599 del codice civile”) all’art. 1599 (IX, 4.1), cui non aveva mancato di riferirsi il ricordato indirizzo giurisprudenziale, onde giungere ad una soluzione più rispettosa dell’interesse del figlio. Risultato, comunque, che è ritenuto conseguibile, anche valorizzando, pur di fronte alla lettera della nuova disposizione, il carattere preminente dell’interesse del figlio alla conservazione dell’habitat domestico. E, in effetti, la giurisprudenza sembra intenzionata a dare continuità all’indirizzo accennato, nel senso, cioè, dell’opponibilità “nei limiti del novennio” dell’assegnazione non trascritta (Cass. 17-3-2017, n. 7007; 24-1-2018, n. 1744). Peraltro diversamente, ora, Cass. 15-4-2022, n. 12387, la quale si orienta a ritenere che l’assegnazione, ormai, “sarà opponibile solo in quanto trascritta”. Si tenga presente che la relativa opponibilità assicura la stabilità dell’assegnazione dell’immobile, senza impedire al creditore del coniuge proprietario, fermo restando il vicolo di destinazione, “di pignorarlo e di determinarne la vendita coattiva” Cass. 11-7-2014, n. 15885). Isolata è rimasta Cass. 11-9-2015, n. 17971, secondo cui l’opponibilità infranovennale opererebbe nei confronti del terzo acquirente dell’immobile sulla base della sua mera consapevolezza della pregressa situazione di convivenza. V., infatti, le precisazioni di Cass. 10-4-2019, n. 9990, secondo cui il provvedimento di assegnazione successivo alla cessione, da parte del coniuge esclusivo proprietario, al terzo può essergli opposto solo in caso di pregressa “instaurazione di un rapporto, in corso di esecuzione, tra il terzo medesimo ed il predetto coniuge, dal quale quest’ultimo derivi il diritto di godimento funzionale alle esigenze della famiglia”, sul cui “contenuto viene a conformarsi il successivo vincolo disposto dal provvedimento di assegnazione” (escludendosi, quindi, la sufficienza della “mera consapevolezza da parte del terzo, al momento dell’acquisto, della pregressa situazione di fatto di utilizzo del bene immobile da parte della famiglia”). Da ultimo, peraltro, Cass. 30-9-2021, n. 26541 ha richiamato l’attenzione sulla possibile rilevanza – ai fini dell’opponibilità dell’assegnazione al terzo avente causa pure in caso di trasferimento immobiliare anteriormente al provvedimento di assegnazione – dell’eventuale riscontro, tra proprietario disponente e terzo, di “un intento elusivo riconducibile ad ipotesi di abuso del diritto”. Distinguendosi “tra opponibilità ed efficacia” della pronuncia giudiziale di assegnazione, si è ritenuto che il terzo acquirente possa instaurare “un ordinario giudizio di cognizione”, onde accertare “l’insussistenza delle condizioni per il mantenimento del diritto personale di godimento a favore del coniuge assegnatario” (con particolare riferimento al presupposto rappresentato dalla presenza di figli minorenni o di figli maggiorenni non economicamente autosufficienti conviventi: Cass. 1744/2018 e 22-7-2015, n. 15367). Da un simile accertamento dell’illegittimità dell’occupazione, deriva il diritto del proprietario alla conseguente indennità (a decorrere dalla data di deposito della sentenza, per Cass. 15367/2015, ovvero dalla data di costituzione in mora, per Cass. 1744/2018). Si è anche precisato che, se debitamente trascritto, il diritto dell’assegnatario continua ad essere opponibile al terzo anche dopo la morte dell’altro coniuge (Cass. 1744/2018: quale “vicolo di destinazione collegato all’interesse dei figli”).

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PARTE V – FAMIGLIA

PARTE VI

PROPRIETÀ E DIRITTI REALI

CAPITOLO 1

PROPRIETÀ Sommario: 1. Nozione. – 2. Contenuto e caratteri. – 3. Atti emulativi. – 4. Contenuto della proprietà e garanzia costituzionale. – 5. Proprietà fondiaria. – 6. Immissioni. – 7. Rapporti di vicinato. – 8. Proprietà agraria. – 9. Proprietà edilizia. – 10. “Appartenenza” e beni immateriali: la c.d. proprietà intellettuale.

1. Nozione. – Lo studio della proprietà nell’ordinamento vigente trova i suoi fondamentali punti di riferimento nella definizione che ne offrono l’art. 42 della Costituzione e l’art. 832 del codice civile. Ad essi, nel nuovo quadro sistematico-giuridico determinato dall’inserimento del nostro paese nel contesto comunitario e dal tentativo di dotare l’Unione europea di strumenti politico-istituzionali di respiro costituzionale, non si può fare a meno di aggiungere l’art. 17 della Carta dir. fond. U.E. La comprensione della portata di tali testi normativi, nella loro diversità, richiede almeno un breve cenno a taluni sviluppi storici dell’istituto della proprietà, sia pure limitatamente a quelli in cui più immediatamente le relative formulazioni si radicano. L’art. 436 del codice civile del 1865, traducendo il corrispondente art. 544 code civil, definiva la proprietà come “il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalle leggi o dai regolamenti”. L’enunciazione legislativa in questione risultava basata, così, sull’idea di assolutezza della proprietà e la rilevanza decisiva di una simile connotazione può essere colta ponendo mente al fatto che la proprietà, in tal modo configurata, costituiva il centro di gravità del codice civile (e, quindi, secondo la concezione fatta propria dai codificatori ottocenteschi, dell’intero sistema della legislazione civile) 1. A chiarire il significato di tale enuncia1 Si ricordi, in proposito, come il code civil del 1804 ed il codice civile italiano del 1865 ruotassero proprio intorno all’istituto della proprietà: la disciplina – secondo la terminologia impiegata nelle intestazioni dei libri del codice civile italiano – “delle persone” (libro I), infatti, era sostanzialmente funzionale all’individuazione dei possibili titolari “dei beni, della proprietà e delle sue modificazioni” (libro II), per effetto “dei modi di acquistare e di trasmettere la proprietà e gli altri diritti sulle cose” (libro III) (I, 2.3).

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PARTE VI – PROPRIETÀ E DIRITTI REALI

zione – vero e proprio baricentro, dunque, della organizzazione giuridica dei rapporti economici dell’epoca – contribuisce, poi, il suo necessario collegamento con l’art. 291 dello Statuto albertino del 1848, secondo cui “tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili”, venendosi la proprietà a collocare tra i fondamentali diritti di libertà 2, nella prospettiva della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, in cui era sancito il carattere “inviolable et sacré” del diritto di proprietà. Tale configurazione della proprietà rappresentava il risultato dello sconvolgimento che la rivoluzione francese e l’ideologia borghese che ne era riuscita trionfatrice avevano prodotto nei rapporti politico-economici. Nel corso dei secoli, la concentrazione in un solo soggetto delle prerogative relative ai beni, secondo il modello del dominium romano (almeno quale affermatosi ad esito di un lungo processo storico), aveva lasciato il posto ad un diverso assetto. Sui beni – con particolare riguardo a quelli di maggiore rilevanza economica e, quindi, soprattutto alle terre – si era finito col determinare il concorso di una molteplicità di posizioni giuridicamente rilevanti, come riflesso dell’organizzazione politica feudale. A caratterizzare il regime di appartenenza e di utilizzazione dei beni stessi era, in effetti, una commistione di situazioni giuridiche, di incerta collocazione tra il diritto pubblico e quello privato, in quanto in larga misura espressione di sovranità (risultando originate da poteri di supremazia riconosciuti, spesso a cascata e con interferenze reciproche, a soggetti investiti di autorità in campo civile e religioso). Si trattava di una stratificazione di diritti sui beni che, proprio perché radicata nell’organizzazione politica della società e legata all’ereditarietà, tendeva a perpetuarsi, con una rigidità tale da impedire, in sostanza, la circolazione e rendere notevolmente problematico lo sfruttamento ottimale dei beni medesimi. La concorrenza su di essi di diritti della più differente natura e origine – signorili e privati, individuali e collettivi 3 – si risolveva, insomma, in una istituzionalizzata ed immodificabile frammentazione delle facoltà di godimento e dei poteri decisionali, che finiva col precludere la possibilità di qualsiasi modificazione degli assetti produttivi e di un reale sviluppo della economia. Ad una simile situazione reagirono le correnti di pensiero illuministiche e giusnaturalistiche che propugnavano una netta separazione della sovranità dalla proprietà, riconoscendo, con una sorta di regolamento di competenze, la prima all’autorità politica e la seconda ai privati, cui avrebbe dovuto essere in esclusiva riservata, di conseguenza, l’azione in campo economico. La proprietà veniva, così, assumendo il carattere della assolutezza, in quanto posta al riparo da qualsiasi intromissione di altri privati e della stessa autorità politica, nei confronti della quale, dunque, la proprietà medesima era rivendicata quale manifestazione di libertà della persona: attributo fondamentale atto a garantire ad essa la necessaria sfera di autonomia nella società, anche al fine dello sviluppo della propria personalità, nell’interesse privato e generale, attraverso l’iniziativa economica. 2 L’articolo in questione seguiva, in effetti, quelli relativi alla libertà individuale (art. 26), all’inviolabilità del domicilio (art. 27) e alla libertà di stampa (art. 28). 3 La moltiplicazione delle situazioni definibili reali trovava espressione, oltre che nella distinzione tra dominio diretto e dominio utile (di cui è rimasta ancora eco nella disciplina vigente dell’enfiteusi), nell’accatastamento sui beni produttivi di canoni, censi, livelli, decime, tendenzialmente perpetui, nonché di pretese, anch’esse tipicamente illimitate nel tempo, fondate su forme di appartenenza collettiva e usi civici.

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La liberazione della proprietà dai passati condizionamenti – come strumento di efficiente sfruttamento dei beni e di rafforzamento delle categorie economicamente più attive – rappresentò, allora, il programma portato avanti in contrasto con l’assetto socioeconomico esistente, inevitabilmente destinato a soccombere di fronte alla vitalità delle nuove correnti della società. Ad esito del relativo processo storico, il codice civile francese del 1804 ha costituito, con la sua ricordata definizione della proprietà, avente valore di dichiarazione di portata sostanzialmente costituzionale, e con la sistematica impressa alla intera legislazione civile, la definitiva sanzione dei nuovi equilibri della società. L’eccezionalità di ogni compressione delle facoltà e dei poteri del proprietario, derivante esclusivamente da precisi divieti, si proietta anche nella drastica delimitazione dei poteri pubblici ablativi della proprietà, esercitabili solo “per causa di utilità pubblica legalmente riconosciuta e dichiarata” e dietro “pagamento di una giusta indennità”, tale da salvaguardarne il valore economico nel patrimonio, secondo la previsione dell’art. 438 cod. civ. 1865. A testimoniare, comunque, il mutamento degli scenari in corso già all’epoca della redazione del codice postunitario, rispetto a quelli in cui si inquadrava il code civil, non si può mancare di sottolineare come, tra la definizione della proprietà dell’art. 436 e l’appena ricordata precisazione della portata dei poteri pubblici su di essa, si collocasse la previsione per cui “le produzioni dell’ingegno appartengono ai loro autori secondo le norme stabilite da leggi speciali” (art. 437). L’affiorare di nuove forme di ricchezza – di cui si iniziava, così, il faticoso tentativo di inserimento nelle categorie tradizionali dell’appartenenza – e la mobilizzazione della ricchezza stessa, in dipendenza dello sviluppo dell’economia industriale e creditizia, determinano il, sia pur lento, tramonto dell’importanza della proprietà terriera. Le nuove forme di ricchezza, poi, si presentano come espressione di una sempre più marcata prevalenza dell’attività organizzativo-produttiva, rispetto a quella essenzialmente legata al mero godimento dei beni. E il fenomeno si salda, del resto, con l’importanza progressivamente riconosciuta al lavoro (anche come reale legittimazione dell’appartenenza dei beni). Ciò, evidentemente, sotto la spinta della pressione di forze sociali emergenti, con conseguente avvertita inadeguatezza della concezione (ancora privilegiata dal codice del 1865) tendente a considerare la proprietà refrattaria a controlli e interventi pubblici, finalizzati ad assicurarne un esercizio consono alle nuove esigenze di una moderna economia complessa e alla realizzazione di equilibri socialmente accettabili tra gli interessi antagonistici 4. È questo lo scenario in cui si inserisce l’elaborazione e l’emanazione del codice civile vigente, il quale, con una scelta significativa, non definisce più la proprietà, ma la posizione attribuita al proprietario in ordine ai beni. L’art. 832 stabilisce che “il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”. All’idea (che di per se stessa esclude qualsiasi possibilità di modulazione) di assolutezza si sostituisce, così, quella di pienezza ed esclusività, per di più subito temperata dal richiamo di quei 4 In tale direzione si muovono, a cavallo tra il XIX ed il XX secolo, e via via sempre più decisamente poi, il marcato condizionamento pubblico dei rapporti economici, attraverso incentivazioni e piani di sviluppo, nonché la stessa gestione pubblica diretta di rilevanti attività economico-produttive.

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PARTE VI – PROPRIETÀ E DIRITTI REALI

limiti, la cui generica previsione sembra assumere il senso di una generale possibilità di adattamento legislativo del contenuto della proprietà alla complessità degli interessi, pubblici e privati, incidenti sui beni. La normalità della imposizione di obblighi, che emerge dalla nuova formula legislativa, allontana ulteriormente e decisamente, poi, il modello di proprietà del codice civile del 1942 da quello tradizionalmente fondato sul riconoscimento al proprietario di un potere tendenzialmente illimitato e discrezionalmente esercitabile, a prescindere da ogni sua compatibilità col perseguimento di finalità ritenute essenziali dall’ordinamento. Norme quali quelle (che verranno esaminate più oltre) relative al divieto degli atti d’emulazione (art. 833), non a caso previsto immediatamente dopo la definizione del contenuto del diritto (e quasi a chiarirne ulteriormente la portata), ovvero alla estensione verticale della proprietà fondiaria (art. 840) valgono ad evidenziare il significato che assume, ormai, la proprietà, indubbiamente intesa come ampio riconoscimento di interessi reputati meritevoli di tutela, ma solo nei limiti in cui l’esercizio del diritto sia effettivamente indirizzato alla relativa realizzazione. Il contenuto stesso del diritto, così, viene ad essere considerato non predefinibile in astratto, risultandone demandata la determinazione alla disciplina concretamente dettata dal legislatore con riguardo ai vari tipi di beni, in tal senso presentandosi condizionato anche il riferimento alla pienezza del diritto 5. Già dalle disposizioni generali (capo I, titolo II, libro III) è dato cogliere il carattere programmaticamente poco significativo di qualsiasi definizione generale della proprietà, se non arricchita di sostanza in considerazione, appunto, della disciplina specificamente concernente il regime delle diverse tipologie di beni. Discusso è se ciò abbia addirittura finito col determinare quel superamento dell’unità concettuale della proprietà, cui si tende diffusamente ad alludere parlando, nel nuovo quadro ordinamentale, piuttosto che della proprietà, delle proprietà. Certo è che la conformazione del contenuto della proprietà viene, in relazione ai diversi beni, articolata in maniera decisamente differenziata e tale da assicurare il soddisfacimento degli interessi, generali e individuali, a ciascun tipo di bene specificamente riferibili. L’ideologia produttivistica alla base del codice, concentrata sull’obiettivo del perseguimento – quale valore fondamentale da realizzare – dell’incremento della ricchezza nazionale complessiva attraverso lo sviluppo dell’attività produttiva, impone, allora, un peculiare regime dei beni produttivi 6. Viene già avvertita, comunque, pure la rilevanza delle esigenze – che oggi definiremmo legate alla salvaguardia della qualità della vita – di ca5 Come si legge nella Relaz. cod. civ., n. 402, la proprietà non è più considerata “diritto primigenio o naturale dell’individuo”, dato che “la misura stessa del diritto si desume organicamente dalle finalità per cui il potere è riconosciuto e varia quindi in relazione ai diversi beni suscettibili di appropriazione”. “I mezzi idonei alla tutela dell’interesse pubblico in concorso con l’interesse privato possono essere, secondo le varie categorie di beni e le diverse situazioni di fatto, o di carattere negativo, come i limiti legali, o di carattere positivo, come gli oneri in senso stretto e gli obblighi imposti al privato” (n. 405). 6 Ricordando i principi della Carta del lavoro (21.4.1927), la Relaz. cod. civ., n. 403, sottolinea che la proprietà deve essere intesa non come “la proprietà passiva, ma la proprietà attiva, che non si limita a godere i frutti della ricchezza, ma li sviluppa, li aumenta, li moltiplica”. Rispetto ai “beni che interessano la produzione nazionale”, a differenza che per quelli “che servono all’uso o al godimento individuale”, “la proprietà assume una configurazione nella quale riescono modificate le note fondamentali di pienezza ed esclusività del diritto dichiarate nella definizione e meglio emerge quell’aspetto di diritto-dovere, pur dichiarato nella definizione stessa” (n. 386, ad illustrazione dell’abrogato art. 811: II, 2.2 e II, 2.10).

CAP. 1 – PROPRIETÀ

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rattere culturale e urbanistico-ambientale, come attesta la prevista generale possibilità di espropriazione non solo dei beni che interessano la produzione nazionale (quando il proprietario ne “abbandona la conservazione, la coltivazione o l’esercizio”), ma anche di quelli considerati di prevalente interesse pubblico (in quanto concernenti il decoro delle città e la tutela dell’arte, della storia e della salute pubblica) (art. 838). Esemplare di una simile nuova concezione del riconoscimento ai privati di una proprietà adeguata nel suo contenuto alla garanzia degli interessi, anche generali, concorrenti sui beni, risulta l’assoggettamento a regole particolari dei beni d’interesse storico e artistico (art. 839), col rinvio alla relativa legislazione speciale nello stesso periodo varata. La pianificazione urbanistica (per la prima volta organizzata sistematicamente con la legislazione del 1942) è, poi, fonte di significativi obblighi collegati alla proprietà immobiliare urbana (artt. 869 ss.) e l’attenzione alla proprietà dei fondi rustici ne determina la sottoposizione a incisivi obblighi, non solo ai fini dell’incremento produttivo (artt. 846 ss., sul riordinamento della proprietà rurale, e 857 ss., sulla bonifica integrale), ma anche per evitare, attraverso la previsione di vincoli idrogeologici e difese fluviali, il pericolo di “danno pubblico” (art. 866). La disciplina del codice civile, in tale prospettiva, si presenta quale centro di riferimento dell’articolato sistema della legislazione speciale, cui è affidata, in misura sempre più larga, la specifica configurazione del regime di appartenenza dei beni socialmente rilevanti, in quanto importanti ai fini produttivi o per il soddisfacimento di concorrenti interessi di carattere generale e individuale. E si tratta di una prospettiva destinata ad essere decisamente rafforzata nel momento in cui la posizione di centralità nel sistema viene assunta dalla Costituzione della Repubblica. La proprietà che interessa la Costituzione è essenzialmente quella, appunto, dei beni socialmente rilevanti, in quanto finalizzati all’attività produttiva – anche in funzione di garanzia dell’accesso al “lavoro” su cui è dichiaratamente “fondata” la Repubblica (art. 11) – o al soddisfacimento di esigenze sociali primarie (come nel caso dell’abitazione), secondo quanto emerge dalla stessa enunciazione per cui “la proprietà è pubblica o privata” e “i beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati” (art. 421). Solo rispetto a tali beni, in effetti, acquista concreto significato l’art. 422, ove si sancisce che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. Si tratta di una formula, invero, non del tutto limpida: da una parte, si avverte ancora l’eco della risalente concezione della proprietà privata quale diritto fondamentale (sono i diritti fondamentali ad essere riconosciuti e garantiti, secondo l’art. 2 Cost.); dall’altra, emerge come, in quanto mero rapporto economico (la materia è affrontata nel corrispondente titolo della Costituzione), relativamente ad essa, attribuzione (acquisto), utilizzazione (godimento) e conformazione (limiti) vengano fatti dipendere unicamente dalle scelte legislative, cui risulta assegnato l’obiettivo di indirizzarla nel senso della realizzazione della funzione sociale e della promozione di un accesso generalizzato. Non c’è da meravigliarsi, allora, che con particolare urgenza sia stato avvertito il problema relativo alla possibilità o meno di dedurre dalla normativa costituzionale in questione la garanzia di un contenuto minimo della proprietà (VI, 1.4), che non possa essere conculcato, se non nel puntuale rispetto del principio per cui “la proprietà privata può essere, nei casi

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preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale” (art. 423). Pare innegabile che ne derivi una marcata funzionalizzazione del diritto di proprietà, nel senso di un suo riconoscimento, anche quanto a modi di atteggiarsi in concreto, come strumento di tutela dell’interesse particolare del titolare, ma da esercitare sempre compatibilmente con la realizzazione di finalità economico-sociali imposte dall’ordinamento, perché considerate espressione dell’interesse generale. Diventa, allora, essenziale individuare simili finalità, a chiarire le quali sembrano valere – rendendo, così, meno evanescente di quanto possa apparire la formula della funzione sociale – le disposizioni successive della stessa Costituzione, soprattutto laddove si allude, oltre che a quello dell’incremento produttivo, all’obiettivo del conseguimento di equi rapporti sociali (art. 44, che si riferisce ai conseguenti obblighi e vincoli alla proprietà terriera), anche attraverso l’accesso alla (e l’avvicendamento nella) proprietà, sulla base della valorizzazione del lavoro e del connesso risparmio (art. 472, che finalizza il risparmio popolare, in particolare, alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e all’azionariato popolare). La funzione sociale della proprietà e la generalizzazione dell’accesso ad essa finiscono, insomma, per integrarsi nella definizione delle finalità che il legislatore deve avere di mira nella disciplina della proprietà. A loro volta, poi, esse sono da apprezzare alla luce della più generale scelta della Costituzione nel senso della valorizzazione della persona umana e delle sue esigenze di sviluppo, in un’ottica solidaristica (art. 2), atta ad assicurare una reale eguaglianza sostanziale (art. 32). Non si dimentichi, del resto, come sicurezza, libertà e dignità umana rappresentino pure i parametri di valutazione della legittimità dell’iniziativa economica privata (art. 412, elencazione cui la L. cost. 11.2.2022, n. 1, ha aggiunto espressamente salute e ambiente). Il miglioramento della qualità della vita, anche in vista della sua proiezione nel futuro, costituisce parte essenziale del programma che la Costituzione demanda al legislatore (cui non può, quindi, mancarsi di rapportare la proprietà privata), promovendo “lo sviluppo della cultura e la ricerca” e tutelando “il paesaggio” (già nel testo originario della norma da intendere pure nel senso di patrimonio ambientale, secondo quanto ora reso esplicito dall’espresso riferimento nell’aggiunto co. 3 – sempre ai sensi della L. cost. 1/2022 – alla tutela dell’“ambiente”, della “biodiversità” e degli “ecosistemi”, “anche nell’interesse delle future generazioni”) e “il patrimonio storico e artistico della Nazione” (art. 9) 7. La nozione di proprietà che ne emerge – e che ha rappresentato la direttiva seguita dal legislatore in oltre mezzo secolo, in una prospettiva dinamica inevitabilmente determinata da quegli avvicendamenti politici che costituiscono la vera ricchezza della democrazia – deve raffrontarsi, ora, con la definizione che del diritto di proprietà offre, all’art. 17, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Indubbiamente, la materia è trattata nel contesto del relativo capo II, dedicato alla “libertà”. Il sospetto di un ritorno a concezioni del passato pare peraltro da fugare, trattandosi di una collocazione essenzialmente da ricollegare alle tradizioni costituzionali di taluni paesi, che continuano ad annoverare la proprietà tra i diritti fondamentali, pur of7 Si ricordi come “un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente” costituisca uno dei compiti cui allude l’art. 3 del TUE (secondo quanto previsto anche dall’art. 37 Carta dir. fond. U.E.). Ad un riconoscimento esplicito dell’esigenza di tutela dell’ambiente risulta finalizzata la L. cost. 1/2022.

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frendone una definizione in larga misura assimilabile a quella della nostra Costituzione 8. L’affermazione per cui “ogni persona ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquistato legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità” – oltre che già di per sé alludere, in sostanza, alla necessità che l’acquisto della proprietà avvenga in conformità della disciplina legislativa relativa all’accesso ai beni – viene precisata nel senso che “l’uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti imposti dall’interesse generale”. Riconoscendosi, con ciò, al legislatore l’esercizio di una generale funzione conformativa del contenuto della proprietà, difficilmente dubitabile si presenta la compatibilità del relativo modello di proprietà con quello delineato dall’art. 42 della nostra Costituzione (ai diversi legislatori nazionali, in realtà, sembra così essersi inteso proprio affidare il compito di caratterizzare più specificamente il richiamato interesse generale, quale parametro di riferimento per la disciplina del contenuto del diritto di proprietà) 9.

2. Contenuto e caratteri. – Il diritto di proprietà, che costituisce tradizionalmente il prototipo delle situazioni giuridiche soggettive con carattere di assolutezza e realità (II, 3.5) (nonché, in prospettiva storica, il modello concettuale della figura stessa del diritto soggettivo), vede il suo contenuto definito, come dianzi accennato, dall’art. 832 (secondo cui “Il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”). L’art. 42 Cost., in effetti, presuppone la relativa formulazione codicistica, per precisarne senso e portata con riferimento al quadro d’insieme dei valori costituzionali ed alla loro effettiva attuazione, affidata all’azione legislativa. Per contenuto del diritto di proprietà, si intendono, come si è avuto modo di approfondire in generale parlando di contenuto del diritto soggettivo (II, 3.3), l’insieme delle facoltà e dei poteri riconosciuti al titolare, in vista della realizzazione del suo interesse. Proprio dalla definizione offerta dall’art. 832, è stato possibile cogliere, del resto, l’accresciuta complessità del contenuto del diritto soggettivo, alla cui concreta determinazione, secondo quanto sottolineato nel precedente paragrafo con specifico riferimento alla proprietà, concorre in maniera crescente la previsione di limiti e, addirittura, di obblighi, in una prospettiva di bilanciamento dell’interesse – ritenuto dall’ordinamento meritevole di tutela – del titolare con gli altri interessi, individuali e generali, con cui si trova a confrontarsi. L’art. 832 riconosce al proprietario “il diritto di godere e disporre delle cose in modo 8 L’art. 14 della Legge Fondamentale tedesca (Grundgesetz) del 1949, che colloca la disciplina della proprietà nel quadro dei diritti fondamentali, stabilisce che di essa “contenuto e limiti vengono stabiliti dalla legge” e che “la proprietà impone degli obblighi. Il suo uso deve al tempo stesso servire al bene della collettività”. 9 Quanto, poi, all’enunciato principio per cui “nessuno può essere privato della proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la perdita della stessa”, pare da sottolineare, piuttosto, la carica garantistica del profilo della tempestività del ristoro del proprietario. Si ricordi che anche l’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 alla Conv. eur. dir. uomo del 1950, nel sancire che “ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni” (e che “nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale”), fa salvo il diritto degli Stati di legiferare “per regolamentare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale”. Significativamente, l’art. 345 TFUE, enuncia il principio – del quale discussa, peraltro, è l’effettiva portata – per cui “i trattati lasciano del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri”.

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pieno ed esclusivo”. Secondo quanto già sottolineato (II, 3.3), è da precisare, innanzitutto, come risulti più corretto parlare, al riguardo, di facoltà di godimento e di potere di disposizione, rispettivamente con riferimento alla possibilità, appunto attribuita al proprietario, di utilizzare il bene e di determinare la relativa condizione giuridica (anche di appartenenza) con propri atti giuridici (costituendo diritti reali limitati su di esso, alienandolo, locandolo, ecc.) 10. È chiaro, comunque, come a caratterizzare la situazione del proprietario rispetto a quella del titolare di qualsiasi altro diritto, anche di natura reale, siano i caratteri di pienezza ed esclusività. La pienezza è da intendere nel senso che al proprietario, a differenza che nel caso degli altri diritti reali, non sono specificamente attribuiti facoltà e poteri (più o meno estesi), ma è conferita la generalità delle forme di godimento e disposizione che il bene consente (gli altri diritti reali, in effetti, risultano definiti nel loro contenuto proprio per la determinatezza delle facoltà e dei poteri del titolare, in contrapposizione ad una simile generalità delle prerogative del proprietario) (VI, 3.1). La pienezza non può, peraltro, essere intesa in senso astratto e naturalisticamente assoluto (secondo quanto, invece, in passato si riteneva insito nel carattere di assolutezza della proprietà: VI, 1.1): il proprietario vede delimitate le sue possibilità di utilizzazione e di disposizione del bene dall’insieme delle regole che ne disciplinano il regime quanto, appunto, a utilizzabilità e disponibilità (che valgono a delineare, quindi, i tratti della natura del bene stesso sotto il profilo giuridico). Solo in relazione alle modalità di utilizzazione e disposizione consentite dall’ordinamento nei confronti del bene, cioè, al proprietario è riconosciuta una situazione di preminenza rispetto ad ogni altro soggetto, potendo egli tenere ogni comportamento (di carattere materiale e giuridico) che rientri in tali limiti. È l’ordinamento, insomma, in relazione ai diversi beni, a conformare, in concreto, 10

La sempre maggiore gravosità degli oneri incombenti sulla proprietà tende, da qualche tempo, a rendere oggetto di particolare attenzione la questione (individuata con terminologia varia, tra cui quella di abbandono semplice o mero del fondo), pur da sempre discussa, concernente la possibilità, per il proprietario, di rinunciare semplicemente al suo diritto di proprietà sul bene immobile (l’abbandono dei beni mobili dando luogo al relativo eventuale acquisto di altri – quale res derelicta e, quindi, nullius – mediante occupazione: VI, 2.2), con la conseguente operatività del principio dell’art. 827 (per cui “i beni immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato”: II, 2.1). In proposito, Trib. Rovereto ord. 22-5-2015 ha ritenuto senz’altro ricavabile “un principio generale”, nel senso della (diffusamente condivisa) ammissibilità di una “rinuncia alla proprietà” del fondo (con “funzione meramente abdicativa/dismissiva”), mediante un “atto unilaterale non recettizio, con il quale si esprime in maniera massima il potere dispositivo insito nel diritto di proprietà e rappresentato dalla volontà di non avere più un determinato bene” (problematico restando solo l’aspetto pubblicitario dell’acquisto, nel caso di specie, a favore della regione Trentino-Alto Adige, ai sensi dell’art. 67 del relativo statuto). La rinuncia abdicativa “esprime un interesse meritevole di tutela per l’ordinamento, coincidente con la sola dismissione del diritto”, per Trib. Trieste 27-2-2017. App. Genova 27-11-2018 ha confermato (contro il divergente avviso di T.A.R. Piemonte 28-3-2018, fondato essenzialmente sulla invocazione della funzione sociale della proprietà) un simile orientamento, concludendo che “siano trascrivibili gli atti rinuncia in questione” e che “la trascrizione sarà effettuata solo contro lo Stato” (“avvenendo l’acquisto da parte dello Stato a titolo originario”). Peraltro, Trib. Genova 1-3-2018 ha precisato che “anche dell’atto unilaterale, tra cui quello della rinuncia abdicativa, va esaminato l’aspetto causale”, con conseguente eventuale sua “nullità per illiceità della causa” (da intendere come “causa in concreto”: VIII, 3.5). In proposito, si ricordi come Cons. Stato, ad. plen., 20-1-2020, n. 4, pur ritenendo di non dovere affrontare la questione “dell’astratta ammissibilità nell’ordinamento generale, sotto uno stretto profilo civilistico, della rinuncia al diritto di proprietà su un bene immobile” (ai fini della soluzione da dare alla problematica specificamente oggetto di attenzione: quella, cioè, della c.d. occupazione acquisitiva: VI, 2.4), abbia rilevato essere prevalente la propensione dottrinale “per l’ammissibilità della rinuncia abdicativa al diritto dominicale”.

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la portata delle facoltà e dei poteri del proprietario (in tal senso essendo da intendere il riferimento dell’art. 832 ai limiti e agli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico, ovviamente in vista, attualmente, del perseguimento delle finalità precisate dall’art. 42 Cost.). Egli, poi, a sua volta, può anche dar vita, con proprie manifestazioni di volontà (che rientrano nel suo potere di disposizione), a vincoli di natura reale od obbligatoria, i quali valgono a delimitare le sue possibilità di godimento (si pensi ad un usufrutto, ad una servitù, ad un comodato) o di disposizione (si pensi ad un divieto di alienazione stabilito contrattualmente o alle limitazioni derivanti dalla costituzione di un fondo patrimoniale). Il carattere di pienezza della proprietà, in considerazione delle motivazioni economiche che ne hanno portato storicamente all’affermazione (come si è visto nel precedente paragrafo), si pone alla base della tendenziale limitazione temporale (oltre che di contenuto, come attestato dal principio della tipicità dei diritti reali: VI, 3.1) dei vincoli gravanti su di essa, sia sotto il profilo delle facoltà di godimento (ad es., durata dell’usufrutto: art. 979), che del potere di disposizione (ad es., temporaneità del divieto di alienazione: art. 1379). Proprio al carattere di pienezza si ricollega l’elasticità del diritto di proprietà. Il diritto di proprietà rimane tale anche se le possibilità di godimento e di disposizione consentite al proprietario si trovino ad essere compresse, attualmente, dall’esistenza di un diritto altrui avente ad oggetto il bene. La peculiare forza della proprietà è rinvenibile nella sua attitudine a riespandersi automaticamente al venir meno della situazione giuridica che ne limiti le potenzialità rispetto al bene, riassumendo in pieno il contenuto di facoltà e poteri che la caratterizzano (come accade, ad es., in conseguenza dell’estinzione di un diritto di usufrutto costituito sul bene, col riespandersi della nuda proprietà a proprietà piena). Qualificando il diritto di proprietà in termini di esclusività, ci si riferisce alla possibilità riconosciuta al proprietario di escludere chiunque altro (salvo che non si tratti del titolare di un diritto che comprime, allo stato, il contenuto della proprietà) dal godimento del bene (ius excludendi alios): per la proprietà, più che per qualsiasi altro diritto reale, si avverte il senso del carattere assoluto del diritto (II, 3.5). Tradizionale espressione (e retaggio nel codice) di tale attributo della proprietà è rappresentato dal diritto di chiudere il fondo (art. 841). Alla esclusività, viene tradizionalmente ricondotta anche l’inammissibilità del concorso di una pluralità di diritti di proprietà sullo stesso bene, essendo, invece, ammissibile la contitolarità del diritto, secondo le regole della comunione (art. 1100) (VI, 4.1). A caratterizzare il diritto di proprietà contribuiscono anche altre norme. Così, il carattere della imprescrittibilità emerge implicitamente 11 dall’art. 9483, laddove si prevede l’imprescrittibilità di quell’azione di rivendicazione, che costituisce lo strumento elettivo posto a disposizione del proprietario per far valere le sue ragioni (VI, 2.6). Contestualmente si prevede anche, peraltro, che nel conflitto tra un proprietario inerte e un utilizzatore sia da preferire quest’ultimo, una volta realizzatesi a suo favore le condizioni della usucapione (VI, 5.7). L’inerzia del proprietario, poi, quando si tratti dei beni che interessano la produzione nazionale o di prevalente interesse pubblico, risulta sanziona11

civil.

Il carattere della imprescrittibilità risulta, invece, enunciato espressamente nell’attuale art. 2227 code

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ta, nel sistema del codice, dall’art. 838, il quale dispone, in tal caso, la possibilità di espropriazione 12. Al carattere dell’imprescrittibilità si ricollega logicamente quello della perpetuità, tradizionalmente considerato proprio della proprietà. Sono state, però, individuate ipotesi in cui la proprietà, pur non perdendo i suoi connotati caratteristici sul piano sostanziale (e, in particolare, la pienezza), non si presenta tale (c.d. proprietà temporanea). Esempi vengono indicati nella situazione conseguente alla sostituzione fedecommissaria (artt. 692 s.) e nella proprietà superficiaria a termine (art. 953). Si è ricordato (VI, 1.1) come già nel codice civile del 1865 cominciasse ad emergere l’attenzione per nuove forme di ricchezza estranee alla materialità propria delle cose: si tratta dei c.d. beni immateriali (II, 2.1), circa la peculiare collocazione dei diritti che li concernono all’interno delle tradizionali categorie della “appartenenza” si accennerà più oltre (VI, 1.10).

3. Atti emulativi. – Ripetutamente, si è evidenziato come particolarmente indicativa del nuovo atteggiamento del legislatore in ordine all’idea di proprietà (e, più in generale, di diritto soggettivo) sia la norma, che significativamente segue quella rivolta a definirne il contenuto e di cui assume la veste di completamento, con la quale viene sancito il divieto degli atti emulativi. Si tratta dell’art. 833, che vieta al proprietario di “fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o di recare molestia ad altri”. In tale norma si individua correntemente un’applicazione della figura dell’abuso del diritto, quale limite di carattere generale del diritto soggettivo: limite per cui al titolare si ritengono consentiti esclusivamente i modi di esercizio del diritto conformi allo scopo in vista del quale il diritto stesso sia stato riconosciuto al soggetto, a seguito della valutazione di meritevolezza del relativo interesse (II, 3.4) 13. La fattispecie qui prevista si pone indiscutibilmente in tale prospettiva. Il compimento dell’atto emulativo, in effetti, non è diretto a soddisfare alcun interesse meritevole di tutela e, in particolare, quell’interesse economico in vista del quale il diritto di proprietà è riconosciuto, in quanto posto in essere non al fine di trarre una qualche utilità dal bene, ma semplicemente allo scopo di nuocere ad altri 14. È da sottolineare come il legislatore abbia programmaticamente inteso restringere la portata della regola in questione, limitandola agli atti esclusivamente finalizzati a nuocere ad altri 15. Con ciò, indubbiamente, risulta fortemente attenuata la stessa utilizzabilità della norma ai fini della ricostruzione in termini generali del divieto dell’abuso del diritto. E la giurisprudenza, a sua volta, si è orientata nel senso di un’applicazione decisamente 12

Proprio in tale prospettiva, il legislatore non ha mancato di prevedere, in particolare, la possibilità di assicurare l’utilizzazione delle terre incolte (o non sufficientemente sfruttate) (L. 4.8.1978, n. 440). 13 Come si è a suo tempo sottolineato (II, 3.4), il legislatore ha preferito rinunciare ad una enunciazione di carattere generale della figura dell’abuso del diritto, facendone, piuttosto, applicazione nella delineazione degli istituti fondamentali del diritto privato (proprietà e obbligazione: artt. 833 e 1175). 14 È questo il senso che sembra sinteticamente riconoscere all’art. 833 la Relaz. cod. civ., n. 408, secondo cui “tale divieto afferma un principio di solidarietà tra privati e nel tempo stesso pone una regola conforme all’interesse della collettività nell’utilizzazione dei beni”. 15 Sempre nella Relaz. cod. civ., n. 408, si evidenzia essersi ritenuto “opportuno, per evitare eccessi pericolosi nell’applicazione della norma, esigere espressamente il concorso dell’animus nocendi”.

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restrittiva della norma, richiamandola (dunque raramente, pure per il suo reputato carattere residuale) solo nel caso di riscontrata assenza di un qualsiasi vantaggio del proprietario: al di fuori, quindi, di qualunque tentativo di utilizzarla in un’ottica di reale bilanciamento tra l’interesse del proprietario agente e gli interessi altrui pregiudicati dalla sua attività 16. Proprio una così rigorosa accezione accolta dell’inutilità dell’atto per il proprietario è alla base, in genere, della mancata applicazione della norma, che poco ha contribuito, allora, a contenere i comportamenti arbitrari tenuti dai proprietari nell’esercizio del proprio diritto 17. La difficoltà, da parte del soggetto che lamenta la lesione del proprio interesse, di dimostrare il carattere emulativo dell’atto deriva, soprattutto, dalla necessità di provare l’intenzione lesiva del proprietario (animus nocendi) 18. La prevalente dottrina, peraltro, ritiene infondato l’orientamento giurisprudenziale in tal senso. Indubbiamente, comunque, in una certa agevolazione della posizione del soggetto leso si risolve l’ammissione della possibilità di presumere l’elemento intenzionale dalle caratteristiche oggettive dell’atto lamentato 19. Poiché l’atto di cui sia accertato il carattere emulativo è da considerare illecito, contro chi lo ha posto in essere può essere chiesta non solo l’eliminazione di quanto compiuto in violazione del relativo divieto (ad es., la rimozione di piante collocate solo per impedire la veduta del vicino o l’abbattimento del manufatto costruito al solo scopo di chiudere le luci esistenti nel muro altrui), ma anche il risarcimento del danno.

16 Nel ribadire che “non può ritenersi emulativo l’atto che comunque risponda a un interesse del proprietario”, Cass. 22-1-2016, n. 1209, esclude che “il giudice possa compiere una valutazione comparativa discrezionale fra gli interessi in gioco ovvero formulare un giudizio di meritevolezza e di prevalenza fra l’interesse del proprietario e quello di terzi”. 17 Cass. 5-3-1984, n. 1515, afferma senz’altro non essere sufficiente “che il comportamento del soggetto attivo arrechi nocumento o molestia ad altri, occorrendo altresì che il fatto sia posto in essere per tale esclusiva finalità senza essere sorretto da alcuna giustificazione di natura utilitaristica dal punto di vista economico e sociale”, bastando che gli atti “siano soggettivamente intesi a procurargli un vantaggio”. Dovendosi il carattere emulativo dell’attività “valutare in termini restrittivi”, il divieto la colpisce solo se “manifestamente priva di utilità” (Cass. 7-3-2012, n. 3598 e, in sostanza, Cass. 19-3-2013, n. 6823, in relazione alla creazione di un terrapieno in un terreno agricolo; Cass. 31-10-2018, n. 27916, ribadisce la necessaria assenza “di qualsiasi utilità in capo al proprietario”). Inoltre, si ritiene che “gli atti di emulazione possono consistere solo in comportamenti positivi e non omissivi”: dato che “una condotta attiva comporta di per sé un costo in termini di spesa o di esplicazione di energie psicofisiche, l’astensione da essa non può, di per sé, essere ispirata solo ed esclusivamente dall’animus nocendi” (Cass. 20-10-1997, n. 10250, in un caso di omessa potatura di piante). Pur senza operare un giudizio di proporzionalità tra il vantaggio ricavabile dall’atto e l’altrui nocumento (come diffusamente auspicato in dottrina, la quale tende ad orientarsi nel senso di prospettare un vero e proprio obbligo di attivazione nell’interesse altrui, fondato su una lettura della norma ispirata agli artt. 2 e 422 Cost.), non si è mancato, comunque, di alludere alla necessaria ricorrenza “di un apprezzabile vantaggio del proprietario” (Cass. 25-3-1995, n. 3558). 18 Corrente è l’affermazione per cui, ai fini della ricorrenza dell’atto emulativo, occorre, oltre ad un elemento oggettivo (consistente nell’inutilità dell’atto per il proprietario), “un elemento soggettivo costituito dall’animus nocendi, ossia l’intenzione di nuocere o recare molestia ad altri” (Cass. 3558/1995; 27-6-2005, n. 13732). 19 In applicazione di tale principio, ad es., Trib. Napoli 20-2-1997 ha ritenuto ricorrente l’ipotesi dell’atto emulativo nel caso di collocazione su un terrazzo di piante di alto fusto (nella specie, di lauro), tali da impedire la veduta del vicino, senza “una qualche utilità, da valutarsi oggettivamente, per la convenuta” (in quanto inutili ai fini di una migliore privacy e ingiustificate dal punto di vista dell’amenità).

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PARTE VI – PROPRIETÀ E DIRITTI REALI

4. Contenuto della proprietà e garanzia costituzionale. – Con riguardo al contenuto del diritto di proprietà, delicata problematica risulta quella che si è posta in presenza del già richiamato art. 42 Cost. (VI, 1.1). Tale norma, da una parte, demanda al legislatore – con la previsione in materia, quindi, di una riserva di legge – la disciplina di tutti i profili della proprietà, in vista (e, ovviamente, nei limiti) della realizzazione delle contemplate finalità di carattere sociale (c.d. conformazione del contenuto del diritto di proprietà); dall’altra, fa ciò sulla premessa di una dichiarata garanzia della proprietà stessa, che impone il relativo indennizzo, nel caso in cui l’interesse generale ne renda necessaria la sottrazione al privato (mediante il trasferimento coattivo: espropriazione). Si è posto, allora, il problema dei limiti entro cui il contenuto del diritto di proprietà possa essere compresso, almeno senza il riconoscimento, appunto, di un ristoro economico a favore del proprietario, discutendosi, in proposito, della configurabilità o meno, alla luce dei principi costituzionali, di un contenuto minimo della proprietà, intangibile dallo stesso legislatore. Indubbiamente, le concrete possibilità di utilizzazione del bene da parte del proprietario vengono a dipendere dalla disciplina delle relative modalità ad opera del legislatore, sulla base di valutazioni compiute in vista del necessario bilanciamento tra gli interessi del proprietario e quelli, generali e individuali, eventualmente considerati meritevoli di tutela, che i diversi beni si presentano atti a soddisfare. Il diritto di proprietà non si può, quindi, ritenere sottratto al privato, almeno fin quando l’anche notevole riduzione del suo contenuto di facoltà e poteri – comunque costantemente nel dovuto rispetto del principio di eguaglianza – ne consenta un sia pur ristretto esercizio. Il problema si pone, invece, quando le limitazioni imposte svuotino di ogni sostanza economicamente apprezzabile il diritto del proprietario (con una sorta di espropriazione non ablativa o anomala), riducendolo ad una mera apparenza (per di più fonte di obblighi, come quelli di carattere fiscale). Determinante, in proposito, è risultato, ovviamente, il ruolo della Corte costituzionale, le cui prese di posizione sono state inevitabilmente oggetto di contrastanti apprezzamenti, data la indubbia forte valenza politico-ideologica del problema in esame. Da una parte, essa ha ammesso la legittimità di drastiche limitazioni (senza indennizzo) del contenuto della proprietà – di carattere sempre obiettivo e generale – in relazione a determinate intere categorie di beni (come, ad es., quelli qualificabili quali bellezze naturali) 20; dall’altra, però, ha fermamente sostenuto che il proprietario si deve considerare espropriato (con conseguente diritto all’indennizzo) quando i vincoli (anche per il loro caratte20 In tale prospettiva, Corte cost. 29-5-1968, n. 56, ha ritenuto, in particolare, non indennizzabili i vincoli di inedificabilità previsti relativamente a taluni beni a salvaguardia del paesaggio (tutelato dall’art. 92 Cost.): in quanto simili beni, per le loro peculiari caratteristiche intrinseche, si presentano già “originariamente di interesse pubblico”, il vincolo deve reputarsi connaturale ad essi. Il peculiare regime dei beni culturali e paesaggistici, in relazione alla loro specifica natura, è ora organicamente disciplinato dal D.P.R. 22.1.2004, n. 42, che li considera rientrare nel “patrimonio culturale” del paese (art. 2), assoggettandoli a significative forme di tutela “anche attraverso provvedimenti volti a conformare e regolare diritti e comportamenti” ad essi relativi (art. 3). Una volta avvenuta la dichiarazione di interesse culturale dei beni (artt. 13 ss.), incisivi limiti e obblighi gravano sul proprietario (e, in genere, sul possessore) dal punto di vista della loro conservazione e circolazione (regole particolari concernono la prelazione e l’espropriazione), con gravi sanzioni, anche penali, in caso di inosservanza. Si ricordi come già il codice civile (art. 839) consideri necessario prevedere una specifica disciplina con riguardo alla proprietà privata di beni d’interesse storico e artistico. La definizione, l’individuazione ed il regime dei beni paesaggistici sono disciplinati negli artt. 131 ss.

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re a tempo indeterminato) si traducano in un sacrificio tale da incidere sul diritto di proprietà al di là di quanto possa reputarsi tollerabile, in considerazione della natura dei vari beni, secondo le correnti valutazioni sociali (le quali, insomma, assumerebbero la funzione di limite per la discrezionalità dell’intervento del legislatore) 21. In particolare, così, con riguardo all’evoluzione della legislazione urbanistica tendente a considerare estraneo al contenuto della proprietà il diritto di edificare (ius aedificandi, su cui anche VI, 1.9), è stato ritenuto insuperabile il riconoscimento di adeguata rilevanza alle relative facoltà del proprietario 22. È evidente come, una volta garantito il proprietario assicurandogli almeno l’indennizzo, la discussione concernente il contenuto minimo della proprietà finisca col risolversi in quella relativa alla congruità dell’indennizzo spettante in caso di espropriazione (dato che, come si è a ragione sottolineato, la tutela del valore economico della proprietà si presenta quale riflesso della tutela del contenuto del relativo diritto). Il codice civile parla, in proposito, di giusta indennità (art. 834), mentre l’art. 423 allude, senza specificazioni, all’indennizzo. L’art. 17 Carta dir. fond. U.E. si riferisce ad una giusta indennità (da pagare in tempo utile). Anche a tale riguardo, essenziale è stato il ruolo della Corte costituzionale, la quale è dovuta intervenire ripetutamente, per vagliare la legittimità dei criteri di determinazione degli indennizzi espropriativi via via previsti dal legislatore (con interventi necessitati proprio dalle pronunce della Corte). L’orientamento che si è affermato risulta nel senso che l’indennizzo, pur non dovendosi necessariamente sempre commisurare al valore venale del bene (dato che, altrimenti, potrebbe restare trascurata la natura generale dell’interesse perseguito con la espropriazione, con cui è da bilanciare l’interesse particolare del privato), da questo non possa mai prescindere 23: esso, cioè, deve rappresentare, in ogni caso, un serio ristoro per il proprietario privato del suo diritto. Tale non può essere certo considerata una indennità meramente simbolica o irrisoria, ma solo una indennità congrua, seria e adeguata. Di conseguenza, il legislatore si è mosso, in anni vicini, tra i due poli rappresentati dal valore venale del bene e dal reddito dominicale rivalutato e moltiplicato per dieci (in so21 Deve ritenersi espropriata la proprietà, secondo la nota posizione della Corte costituzionale (20-1-1966, n. 6 e 29-5-1968, n. 55), quando “il sacrificio imposto venga ad incidere sul bene oltre ciò che è connaturato al diritto di proprietà, quale viene riconosciuto nell’attuale momento storico”. 22 Per Corte cost. 30-1-1980, n. 5, “il diritto di edificare continua ad inerire alla proprietà … anche se di esso sono stati compressi e limitati portata e contenuto, nel senso che l’avente diritto può solo costruire entro i limiti, anche temporali, stabiliti dagli strumenti urbanistici”: “la concessione di edificare non è attributiva di diritti nuovi, ma presuppone facoltà preesistenti”. Successivamente, peraltro, si è sottolineato (ai fini della legittimità dei criteri di quantificazione dell’indennizzo dovuto in caso di espropriazione) che, comunque, “la destinazione urbanistica comporta un valore aggiunto (rendita di posizione) rispetto al contenuto essenziale del diritto di proprietà”, da considerare adeguatamente nel “bilanciamento tra interesse generale ed interesse privato” (Corte cost. 16-6-1993, n. 283). Chiara, in proposito, si presenta la recente affermazione di Cass., sez. un., 9-6-2021, n. 16080, secondo cui “nell’attuale ordinamento, il diritto di edificare è insito nella proprietà del suolo”, quale “naturale estrinsecazione del diritto di proprietà del suolo, sebbene sottoposto alle condizioni conformative e di utilità sociale previste dalle leggi e dagli strumenti urbanistici” (“essendo dato all’amministrazione soltanto di regolarne l’esercizio conformemente ai piani ed agli strumenti urbanistici e di governo territoriale, non già di discrezionalmente ‘costituirlo’ e neppure ‘trasferirlo’”). 23 Con conseguente sicura illegittimità delle disposizioni eventualmente determinative dell’indennizzo di aree urbane sulla base del mero valore agricolo (come l’art. 16 L. 22.10.1971, n. 865, quale modificato dall’art. 14 L. 28.1.1977, n. 10).

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stanza, secondo la prospettiva adottata già dalla L. 15.1.1885, n. 2892, sul risanamento della città di Napoli), col determinare l’indennità – in caso di esproprio di area fabbricabile, nelle rimanenti ipotesi venendo essa determinata senz’altro secondo il valore venale del bene – nella relativa media, percentualmente diminuita del 40 per cento in mancanza del consenso del privato ad un accordo di cessione (originario art. 37 D.P.R. 8.6.2001, n. 327) 24. Infine, a seguito dell’ulteriore intervento della Corte costituzionale e in vista di una soluzione definitiva, anche in quanto compatibile con le prescrizioni sopranazionali in materia, con la Legge finanziaria 2008 (art. 289 L. 24.12.2007, n. 244, modificativo del ricordato art. 37) l’indennità di espropriazione delle aree fabbricabili è stata senz’altro determinata nella misura del valore venale del bene 25 (con una possibile riduzione del venticinque per cento in caso di espropriazione finalizzata ad interventi di riforma economico-sociale e un eventuale aumento del dieci per cento in caso di accordo di cessione).

5. Proprietà fondiaria. – Una disciplina articolata il codice civile detta per la proprietà fondiaria, quella cioè concernente i beni immobili (urbani e agricoli). L’importanza da sempre riconosciuta alla proprietà di tali beni giustifica l’estensione della relativa regolamentazione (e ciò pure in un momento storico in cui, come ripetutamente accennato, 24 Corte cost. 5/1980, aveva richiamato il principio per cui la misura dell’indennizzo deve essere “riferita al valore effettivo del bene espropriato, determinato in relazione alle sue caratteristiche e alla sua destinazione economica”. Successivamente, Corte cost. 283/1993, riassumendo i propri precedenti (tendenti a considerare legittima la combinazione di più criteri, purché almeno uno agganciato al valore venale), ha concluso nel senso che “il rischio dell’astrattezza del criterio di quantificazione dell’indennità di espropriazione è evitato quando uno dei parametri che concorrono sia ancorato al valore venale”. La previsione di una determinazione più favorevole in caso di cessione volontaria da parte del proprietario si è ritenuta, poi, legittima, dato che “la spinta della valutazione verso valori più vicini a quelli reali contribuisce ad accelerare l’acquisizione del bene espropriando”, con l’indubbio vantaggio di una più sollecita definizione delle procedure espropriative, risultandone anche deflazionato il relativo contenzioso. La legittimità costituzionale del ricordato nuovo sistema di liquidazione dell’indennità di espropriazione delle aree fabbricabili è rimasta, comunque, dubbia, dato l’atteggiamento negativo assunto dalla Corte eur. dir. uomo (29-3-2006), in sede di interpretazione dell’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 alla Conv. eur. dir. uomo. Così, in applicazione dell’art. 1171 Cost. (che impone, nell’esercizio della “potestà legislativa”, il rispetto dei vincoli derivanti “dagli obblighi internazionali”), la Corte costituzionale (24-10-2007, n. 348), preso atto che la propria precedente giurisprudenza doveva ritenersi connessa al “carattere transitorio” della disciplina dell’indennizzo, divenuta, invece, ormai definitiva, ha concluso per la relativa illegittimità costituzionale. L’art. 37 D.P.R. 327/2001, infatti, attribuisce una indennità “inferiore alla soglia minima accettabile di riparazione dovuta ai proprietari espropriati”, in quanto avulsa da un “ragionevole legame con il valore venale”. Sottolineandosi che il legislatore, peraltro, “non ha il dovere di commisurare integralmente l’indennità di espropriazione al valore di mercato del bene”, viene additata (al legislatore nuovamente chiamato a intervenire) come possibile una soluzione atta a realizzare “l’equilibrio tra l’interesse individuale dei proprietari e la funzione sociale della proprietà … in modo differenziato, in rapporto alla qualità dei fini di utilità pubblica perseguiti” (fermo restando che il “valore del bene” dev’essere preso in considerazione “quale emerge dal suo potenziale sfruttamento non in astratto, ma secondo le norme ed i vincoli degli strumenti urbanistici vigenti nei diversi territori”). In ossequio a tale decisione, come di seguito accennato nel testo, il legislatore ha modificato l’art. 37 D.P.R. 327/2001 con la L. 244/2007. Corte cost. 10-6-2011, n. 181, ha, poi, dichiarato illegittimo anche l’art. 402-3 D.P.R. 327/2001, concernente l’indennità di espropriazione di aree non edificabili, dato che “il criterio del valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura prevalente nella zona”, “ignorando ogni dato valutativo inerente ai requisiti specifici del bene”, “elude il ‘ragionevole legame’ con il valore di mercato”, essenziale ai fini della ricorrenza del “serio ristoro” richiesto dalla consolidata giurisprudenza della corte. 25 Il “valore venale del bene” viene inteso come “valore di mercato” (Cass. 31-10-2018, n. 27934).

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indubbiamente la scena economica tendeva ormai sempre più a vedere protagonisti altri beni). I beni immobili, infatti, risultano per propria natura atti a costituire il punto di riferimento di una molteplicità di interessi, sia individuali (dei soggetti, cioè, interessati alla loro utilizzazione, con gli inevitabili riflessi che ciò comporta per la vicinanza dei fondi altrui) che superindividuali (ricollegabili alle esigenze generali dello sviluppo economicosociale o a quelle, più specifiche, delle collettività che dalla loro utilizzazione e conservazione risentono immediate conseguenze sul piano economico-sociale). Il codice si propone il coordinamento di tali interessi, in una prospettiva globale di continuità – ben rispecchiata dal susseguirsi delle sezioni all’interno del medesimo capo II del titolo relativo alla proprietà – che finisce col superare i tradizionali steccati ricollegati alla natura privatistico-individuale o meno dell’interesse regolato. E l’ottica adottata è indubbiamente attenta, oltre che al complessivo incremento delle potenzialità produttive dei beni (dichiarato motivo conduttore della disciplina dei beni di rilievo economico), anche ai problemi posti, in genere, dall’uso del territorio (extraurbano e urbano) e delle sue risorse 26. Non a caso, al generale perseguimento, in materia di proprietà fondiaria, di scopi di pubblico interesse si riferisce comprensivamente l’art. 845, che rinvia, in proposito, alla legislazione speciale e al complesso della disciplina dettata di seguito nel codice. Innovativa, innanzitutto, si presenta già la norma – che significativamente apre la sezione dedicata alle “disposizioni generali” del capo relativo alla “proprietà fondiaria” – destinata a regolare la estensione verticale della proprietà. Il principio tradizionale in materia era quello per cui “chi ha la proprietà del suolo ha pur quella dello spazio sovrastante e di tutto ciò che si trova sopra o sotto la superficie” (art. 440 cod. civ. 1865). Ancora sostanzialmente in linea con un simile principio si presenta l’affermazione secondo cui la proprietà del suolo si estende al sottosuolo, con tutto ciò che esso contiene, potendovi il proprietario svolgere qualsiasi attività di utilizzazione che non rechi danno ai vicini (già, comunque, con la significativa riserva del rispetto, in particolare, della legislazione speciale in tema di miniere, cave e torbiere, nonché di antichità e belle arti, di acque, di opere idrauliche) (art. 8401). La novità si rinviene nella previsione secondo cui il proprietario del suolo non può impedire attività altrui che si svolgano a tale profondità nel sottosuolo o a tale altezza nello spazio sovrastante che egli non abbia interesse ad escluderle (art. 8402). Una simile regola segna l’evidente distacco dall’idea della proprietà come astratta signoria assoluta sulla cosa, a favore, piuttosto, di una concezione che ricollega il riconoscimento della meritevolezza del suo esercizio, quale diritto di escludere gli altri, alla sussistenza di un interesse effettivo del soggetto che ne è investito: a segnare i limiti dell’espansione del diritto di proprietà nel sottosuolo e nello spazio sovrastante al suolo, è l’interesse che deriva al titolare della proprietà sul fondo dalla ricorrenza di una concreta possibilità di relativa utilizzazione. Costui, insomma, è tutelato solo se viene invasa la sfera di utilizzabilità (secondo un criterio di normalità) del sottosuolo e dello spazio sovrastante, al più tenendosi conto delle possibili destinazioni future del bene. Si pensi, al riguardo, quali consentite attività altrui, all’apertura di gallerie o canalizzazioni (per eventuali servizi) a profondità tale da non pregiudicare l’utilizzabilità del fondo; ovvero, se 26 Di sempre più viva attualità risultano attualmente, con riguardo allo sfruttamento del territorio, le problematiche relative alla tutela ambientale (II, 2.1; II, 3.10; VI, 1.1; X, 2.1).

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non addirittura al sorvolo, al caso del passaggio del braccio di una gru (evidentemente temporaneo, in quanto destinato alla costruzione di un’opera in altro fondo) 27. Con riferimento alla disciplina generale della proprietà fondiaria, si è ricordato (VI, 1.2) come al principio dell’esclusività del diritto di proprietà si ricolleghi la possibilità, per il proprietario, di chiudere in qualunque tempo il fondo (art. 841). L’esercizio di tale facoltà dovrà avvenire, comunque, nel rispetto degli eventuali diritti di terzi sul bene, come nel caso dell’esistenza su di esso di una servitù di passaggio (in tale ipotesi, in linea di massima, ammettendosi la chiusura, con contestuale offerta al titolare della servitù delle chiavi del cancello, in applicazione dell’art. 10642). Tradizionale è la regola per cui il proprietario del fondo non può impedire (secondo quanto deve ritenersi a lui in genere consentito) l’accesso ad esso per l’esercizio della caccia, a meno che il fondo sia chiuso nei modi stabiliti dalla legislazione in materia di caccia o vi siano colture suscettibili di derivarne danno (art. 8421). Ciò a condizione che chi pretende di accedere al fondo sia munito della licenza rilasciata dalle competenti autorità amministrative (art. 8422). L’accesso al fine dell’esercizio della pesca, invece, presuppone il consenso del proprietario del fondo (art. 8423) 28. L’accesso ed il passaggio nel fondo non possono essere impediti, ove necessari, al fine di costruire o riparare un muro o altra opera propria del vicino o comune (art. 8431), ovvero a chi intenda recuperare la cosa che vi si trovi accidentalmente o l’animale che vi sia riparato sfuggendo alla custodia. Il proprietario può, peraltro, impedire l’accesso consegnando la cosa o l’animale (art. 8433). L’accesso, nei casi indicati, giustificato da tradizionali esigenze di opportuna collaborazione tra vicini, deve ritenersi senz’altro lecito, dovendone, ovviamente, ricorrere le previste condizioni (come il carattere di necessarietà dell’accesso o la non intenzionalità dell’immissione del bene o dell’animale nel fondo altrui) 29. Ovviamente, se l’accesso cagiona danno, è dovuta un’adeguata indennità (art. 27 In relazione alle “concrete possibilità di utilizzazione dello spazio”, Cass. 26-2-1996, n. 1484, ha escluso, ad es., che possa considerarsi lesiva del diritto del proprietario dell’area sottostante la collocazione di un condotto pluviale all’altezza di metri 3,60 da un’area destinata a posto macchina, “in considerazione del fatto che ogni sfruttamento a scopo edificatorio del suolo era inipotizzabile riguardo al contesto edilizio in cui esso era inserito” (analogamente, Cass. 16-12-2012, n. 17680, con riguardo alla “immissione di sporti nello spazio aereo sovrastante il fondo del vicino”, nonché Cass. 28-2-2018, n. 4664, relativamente “a un cornicione sporgente per circa 60 cm”). Insomma, vi è sempre la necessità di una puntuale valutazione della sussistenza “di un concreto interesse del proprietario sottostante ad opporsi alla occupazione della colonna d’aria” (Cass. 5-6-2012, n. 9047): valutazione da effettuare “con riferimento non soltanto all’attuale situazione e destinazione del suolo, ma anche alle sue possibili, future utilizzazioni, sia pure in concreto non individuate, purché compatibili con le caratteristiche e la normale destinazione del suolo medesimo” (Cass. 11-8-2011, n. 17207; 23-7-2020, n. 15698). Circa il sottosuolo, Cass. 16-1-2020, n. 779, in considerazione della estensione ad esso della proprietà, ha concluso che “incombe alla parte che assuma di avere la proprietà separata sul sottosuolo fornire la relativa prova, avente ad oggetto l’atto di trasferimento separato del suolo proveniente da colui che, mediante successivi atti di trasferimento, ha trasferito a terzi la proprietà del suolo”. 28 Ciò appare giustificato nel caso di pesca in acque di proprietà privata, mentre non manca di destare talune perplessità nell’ipotesi che il transito sul fondo sia necessario esclusivamente per accedere ad acque pubbliche. È da tenere presente che Corte cost. 25-3-1976, n. 57, ha reputato infondata la questione di legittimità di tale disciplina, laddove esclude dal diritto di accesso “coloro che intenderebbero avvalersene per fini di ordine artistico e scientifico”, come nel caso di fotografi di animali vaganti. 29 La situazione del titolare del fondo è ritenuta da Cass. 27-2-1995, n. 2274 (e v. anche Cass. 2-3-2018, n. 5012), avere “il carattere di una obbligazione propter rem che si risolve in una limitazione legale del diritto del titolare del fondo per una utilità occasionale e transeunte del vicino”. L’eventuale pronuncia del giudice, ove resasi necessaria dal mancato consenso all’accesso, quindi, è “meramente dichiarativa e non costitutiva”.

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8433). È da sottolineare come qui il codice non parli di risarcimento, ma di indennità, trattandosi, secondo l’interpretazione preferibile, di una ipotesi di c.d. responsabilità da atto lecito (X, 2.2) 30.

6. Immissioni. – Tra le “disposizioni generali” in tema di proprietà fondiaria spicca quella disciplinante le immissioni. Tale previsione, nell’attestare come il legislatore fosse indubbiamente attento ad adeguare la regolamentazione della proprietà alle trasformazioni economiche in atto, assume (soprattutto nel secondo comma) una rilevanza esemplare dell’atteggiamento del codice a favore dello sviluppo delle attività produttive. L’art. 8441 dispone che il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni derivanti dal fondo del vicino, se non superino la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi. Per immissioni si intendono tutte le propagazioni, come quelle (esemplificate dal codice) consistenti in fumo, calore, esalazioni, rumore, scuotimenti (e, in generale, in tutto ciò che abbia una materialità, fino a comprendere radiazioni e onde elettromagnetiche). Le immissioni cui si ha riguardo sono quelle indirette: si deve trattare, cioè, di ripercussioni sul proprio fondo di attività poste in essere sul fondo altrui (e non dell’intromissione di altri sul proprio fondo). La vicinanza dei fondi è intesa in senso lato, dato che le propagazioni in questione, soprattutto in relazione a quelle industriali, possono avere una rimarchevole portata. Il proprietario è tenuto a sopportare le immissioni altrui, nei limiti, però, della normale tollerabilità, la quale deve essere giudicata dal punto di vista del fondo che le riceve. Ai fini di tale giudizio, assume rilevanza la condizione dei luoghi. Si tratta, quindi, di un criterio di carattere relativo 31, che tiene conto della situazione economico-ambientale della zona in cui si trova il fondo, anche alla luce della sua disciplina urbanistica (evidentemente diversa sarà la soglia della tollerabilità in una zona ospedaliera, residenziale, commerciale o industriale). Delicato, al riguardo, è il rapporto con la legislazione di tutela ambientale (come, ad es., la L. 13.7.1966, n. 615, in tema di inquinamento atmosferico o la L. 26.10.1995, n. 447, con il conseguente D.P.C.M. 14.11.1997, in tema di inquinamento acustico). La giurisprudenza ha chiarito la diversità di oggetto dell’art. 844 rispetto a simili normative: ne deriva che anche la loro (necessaria) osservanza, con la conseguente assenza di pericoli per la salute della collettività, non vale ad impedire un eventuale giudizio di intollerabilità, ai sensi – e in vista dell’applicazione – dell’art. 844 32. 30 Che si tratti di “un’ipotesi di responsabilità da atto lecito” risulta confermato, di recente, da Cass. 29-9-2020, n. 20540. 31 Come ribadito, ad es., da Cass. 29-10-2015, n. 22105 (con riguardo al rumore di una lavatrice in fase di centrifuga, dovendosi il limite in questione essere apprezzato “con riguardo al caso concreto, tenendo conto delle condizioni naturali e sociali dei luoghi e delle abitudini della popolazione”). 32 In questo senso, Cass. 25-8-2005, n. 17281; 17-1-2011, n. 939 e 16-10-2015, n. 20927, con riferimento anche a Corte cost. 24-3-2011, n. 103, concernente la portata dell’art. 6 ter della L. 27.2.2009, n. 13 (relativo all’accertamento della tollerabilità delle immissioni acustiche), dalla Corte non considerata tale da superare un simile indirizzo esegetico (analogamente, Cass. 7-10-2016, n. 20198 e 12-11-2018, n. 28893). Sulla continuità dell’indirizzo stesso non pare avere inciso – nonostante dubbi in senso contrario – neppure la novellazione dell’art. 6 ter da parte della L. 30.12.2018, n. 145. Nella stessa prospettiva, Cass. 1-7-1994, n. 6242, ha ritenuto ininfluenti (o comunque non decisive), in ordine all’operatività dell’art. 844, le autorizzazioni amministrative all’esercizio dell’attività e le normative comunitarie (in materia di inquinamento acustico). “Da ritenersi senz’altro illecite” e, quindi, sempre “non tollerabili”, sono, comunque, le immissioni che “superano i limiti di

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La norma in questione, pur se indubbiamente interferisce con la problematica della salvaguardia della salute, tende ad essere considerata istituzionalmente destinata a risolvere conflitti tra proprietari di fondi 33. Peraltro, la giurisprudenza non manca di ammettere, se ne ricorrano le condizioni (ove si tratti, cioè, di una relazione tra titolari di diritti su fondi vicini), l’utilizzabilità dell’art. 844 anche a difesa della salute (soprattutto in vista della tutela di tipo inibitorio che essa consente) 34. Un deciso ampliamento della portata operativa dell’art. 844 deriva dall’orientamento che consente di avvalersene, non solo – oltre che ovviamente al proprietario – ai titolari di un diritto reale (enfiteuta, superficiario, usufruttuario) sul fondo, ma anche (in via di applicazione analogica) ai titolari di un diritto personale di godimento (come il locatario). In tale ultimo caso non si ritiene consentita, però, in vista dell’eliminazione delle immissioni, la richiesta di interventi tali da importare modificazioni strutturali dell’immobile da cui provengono 35. L’art. 8442 dispone che, nell’applicare l’accennato principio, il giudice debba contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, potendo tenere conto della priorità di un determinato uso. Sulla base di tale disposizione (oggetto di non poche perplessità e preoccupazioni), si ritiene (sia pure con diffusi dissensi, soprattutto in dottrina) che il giudice, ad esito di un simile giudizio, possa consentire anche la prosecuzione di immissioni – solo, peraltro, ove non eliminabili con idonei accorgimenti tecnici – tali da superare la soglia della normale tollerabilità, imponendo un indennizzo a carico di chi provoca le immissioni (e venendo a costituire, così, una situazione giuridica sostanzialmente corrispondente ad una servitù coattiva). È da escludere, comunque, che le esigenze della produzione (anche se considerate prevalenti su quelle legate al godimento della proprietà) possano giustificare la prosecuzione di immissioni lesive della salute, le quali devono essere considerate, quindi, sempre illecite e, come tali, senz’altro vietate 36. tollerabilità che le leggi e i regolamenti fissano nel pubblico interesse” (Cass. 8-3-2010, n. 5564; 939/2011; 20-12-2018, n. 32943). 33 Per Corte cost. 23-7-1974, n. 247, in effetti, l’art. 844 “si limita a considerare solo l’interesse del proprietario ad escludere ingerenze da parte del vicino sul fondo proprio … senza riguardare, ma anche senza pregiudicare, la protezione di interessi diversi, eventualmente spettanti anche ad altre persone o ad intere collettività”. Alla tutela della salute e dell’ambiente “è rivolto in via immediata un altro ordine di norme”, restando “salva in ogni caso l’applicabilità del principio generale di cui all’art. 2043”. 34 Così, già per Cass., sez. un., 15-10-1998, n. 10186, trattandosi di azione esercitata dal proprietario, “l’azione inibitoria ex art. 844 può essere esperita dal soggetto leso per consentire la cessazione delle esalazioni nocive alla salute, salvo il cumulo con l’azione per la responsabilità aquiliana prevista dall’art. 2043”. 35 Cass. 11-11-1992, n. 12133, ribadito che “l’art. 844 è posto a tutela del diritto (reale) di godimento di un fondo, sia questo compreso nel fascio di facoltà di cui è costituito il dominio ovvero costituisca specifico oggetto di uno ius in re aliena”, ritiene legittima, per il conduttore, “l’applicazione analogica … sussistendo l’identica ragione di tutela”, con l’esclusione, però, in tale ultimo caso, della possibilità di chiedere, “per ricondurre le immissioni nei limiti della normale tollerabilità”, “l’adozione di accorgimenti tecnici comportanti modificazione delle strutture dell’immobile da cui le propagazioni derivano”. 36 Secondo la dominante giurisprudenza, “le immissioni disciplinate dall’art. 844 c.c. vanno distinte in tre categorie e cioè: a) immissioni non superanti la normale tollerabilità, le quali debbono essere tollerate; b) immissioni eccedenti la normale tollerabilità ma giustificate dalle esigenze della produzione, le quali non possono essere vietate in quanto si ricollegano ad esigenze produttive delle imprese e corrispondono alle esigenze di un certo tipo di società da valutarsi secondo le circostanze di tempo e di luogo; c) immissioni eccedenti la normale tollerabilità e non giustificate da esigenze produttive, le quali sono pertanto illecite e vanno senz’altro vietate” (così, ad es., già Cass. 23-2-1982, n. 1115). Qualsiasi contemperamento di esigenze, comunque, si arresta di fronte al rilievo che “i diritti alla tranquillità, alla salute ed al normale svolgimento della vita familia-

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L’azione esercitata ai sensi dell’art. 844 ha carattere inibitorio e reale e si ritiene correntemente rientrare nello schema dell’azione negatoria 37. Il giudice, oltre a poter ordinare l’eliminazione della fonte delle immissioni, può subordinare la prosecuzione dell’attività da cui derivano le immissioni stesse all’adozione di idonei accorgimenti tecnici, ordinandone la messa in opera (anche quale condizione per il giudizio di contemperamento previsto dall’art. 8442). Chi si trovi nel possesso del fondo può agire pure in via possessoria con l’azione di manutenzione (trattandosi di molestie: art. 1170). Se dalle immissioni è derivato un danno alle persone o alle cose, può essere chiesto contestualmente il relativo risarcimento 38. Resta fermo che l’azione risarcitoria, di carattere personale, compete anche indipendentemente dalla ricorrenza delle dianzi accennate condizioni per l’esercizio dell’azione ai sensi dell’art. 844 (si pensi, in particolare, a chi subisca danno dalle altrui immissioni trovandosi sul fondo esposto ad esse per motivi di lavoro). re all’interno di una casa di abitazione non possono trovare equivalente in una somma di denaro, trattandosi di diritti primari e non surrogabili” (Cass. 30-7-1984, n. 4523). Insomma, “in relazione al fattore salute, che è ormai intrinseco nell’attività di produzione oltre che nei rapporti di vicinato”, resta escluso ogni possibile “contemperamento delle esigenze della produzione con le esigenze della proprietà” e perde rilevanza la stessa “priorità di un determinato uso” (Cass. 11-4-2006, n. 8420), dovendo “sempre considerarsi prevalente – rispetto alle esigenze della produzione – la soddisfazione di una normale qualità della vita” (Cass. 31-8-2018, n. 21504): “il contemperamento delle esigenze della produzione” potendo, così, “assumere rilevanza soltanto al fine di adottare quei rimedi tecnici che consentano l’esercizio dell’attività nel rispetto del diritto dei vicini a non subire immissioni superiori alla normale tollerabilità” (Cass. 5564/2010). La “priorità dell’uso” costituisce, in ogni caso, solo “criterio sussidiario e facoltativo” (Cass. 11-5-2005, n. 9865). Per un invito a prendere in considerazione, nel bilanciamento degli interessi, anche la natura di spiccata utilità sociale dell’attività svolta nel fondo da cui provengono le immissioni (nella specie, attività ricreative e sportive parrocchiali), Trib. Palermo 17-2-2021. 37 In quanto “posta a tutela del diritto di proprietà o di altro diritto reale di godimento” (Cass. 31-10-2014, n. 23283; 22-10-2019, n. 26882). 38 Risarcimento esteso al danno non patrimoniale: Cass. 13-3-2007, n. 5844, che ritiene, “in presenza di un’attività illegittima”, non applicabili, in sede risarcitoria, i criteri “di contemperamento di interessi contrastanti e di priorità d’uso”. Cass. 23283/2014 considera il “danno da immissione sussistente in re ipsa” (così anche Cass. 11-3-2019, n. 6906, ma contra 1-10-2018, n. 23754) e Cass. 5-2-2018, n. 2668, reputa il “danno non patrimoniale risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico, quando sia riferibile alla salubrità ambientale” (da quantificare “secondo un giudizio di pura equità”). La giurisprudenza (Cass. 28-5-2015, n. 11125, sulla scia di Cass., sez. un., 27-2-2013, n. 4848) ha distinto nettamente l’azione reale, da esperirsi “nei confronti del proprietario del fondo da cui le immissioni provengono … per l’accertamento dell’illegittimità delle immissioni e per la realizzazione delle modifiche strutturali necessarie al fine di fare cessare le stesse”, dall’azione personale, da proporsi “secondo i principi della responsabilità aquiliana e cioè nei confronti del soggetto individuato dal criterio di imputazione della responsabilità” (colpa o dolo, ex art. 2043, o custodia della cosa, ex art. 2051; non, quindi, nei confronti del proprietario, per “il solo fatto di essere” tale; Cass. 15-11-2016, n. 23245, ritiene comunque possibile il cumulo dell’azione di natura reale nei confronti del proprietario del fondo di provenienza delle immissioni, con quella, “verso altro convenuto, per responsabilità aquiliana”). Cass. 20927/2015, ricordato come la giurisprudenza abbia già considerato danno risarcibile la “lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria casa di abitazione” e la “lesione al diritto al riposo notturno” (in particolare, Cass. 19-12-2014, n. 26899, con riguardo “alla serenità” ed “all’equilibrio della mente”), ha reputato “rafforzata dal fondamento normativo costituito dall’art. 8 CEDU” – in quanto ritenuto tale da garantire anche la “vivibilità dell’abitazione e la qualità della vita all’interno di essa” – “la risarcibilità del danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite anche a prescindere dalla sussistenza di un danno biologico documentato”. Tale orientamento, risulta confermato da Cass., sez. un., 1-2-2017, n. 2611, che considera tutelati, quali “diritti costituzionalmente garantiti”, il “diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione” ed il “diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini quotidiane”.

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7. Rapporti di vicinato. – Nel quadro della proprietà fondiaria, il codice dedica una specifica disciplina alla proprietà rurale (con riguardo al suo riordinamento) (artt. 846 ss.) e alla proprietà edilizia (con riferimento alla disciplina urbanistica) (artt. 869 ss.); dedica, poi, attenzione alle problematiche legate alla bonifica integrale (artt. 857 ss.) e ai vincoli idrogeologici e difese fluviali (artt. 866 ss.), in relazione alle quali gli interessi di carattere individuale sono considerati decisamente subordinati a quelli collettivi e generali (igiene, salute, sviluppo economico, sicurezza); disciplina minuziosamente, infine, i c.d. rapporti di vicinato (artt. 873 ss.), dettando regole atte a consentire l’ordinata coesistenza tra le proprietà fondiarie vicine. Regole, queste, certamente indirizzate a risolvere conflitti individuali, ma con indubbi riflessi di carattere economico-sociale generale, soprattutto con riguardo all’esigenza di assicurare alla proprietà fondiaria nel suo complesso un efficiente assetto produttivo. Le sezioni dedicate ai rapporti di vicinato concernono: le distanze nelle costruzioni, piantagioni e scavi, e dei muri, fossi e siepi interposti tra i fondi; le luci e vedute; lo stillicidio; le acque. Si tratta di una disciplina assai dettagliata, spesso di remota tradizione, qui ovviamente esaminata solo nelle linee generali. Pare opportuno premettere, al riguardo, come i limiti legali della proprietà derivanti dai rapporti di vicinato si distinguano dalle servitù (anche legali) e come tale autonomia sia stata evidenziata dal codice vigente, il quale li ha regolati in relazione alla proprietà (a differenza del codice del 1865 che se ne occupava nel quadro delle servitù), ritenendoli manifestazione di essa e inerenti al suo normale contenuto. Tali limiti, infatti, hanno carattere di reciprocità (con conseguente gratuità) e di automaticità (in quanto derivano direttamente dalla legge, in presenza della prevista situazione dei fondi), non consistendo in un peso imposto su fondo a vantaggio di un altro fondo, come si verifica per la servitù (anche legale), la cui costituzione richiede uno specifico titolo (VI, 3.6-7). In quanto inerenti al contenuto del diritto di proprietà, tali limiti legali sono imprescrittibili (la pretesa alla relativa osservanza è, infatti, destinata a cedere solo in caso di usucapione, da parte del vicino, di una facoltà con essi incompatibile) e tutelabili mediante l’azione negatoria (dato che il vicino, violandoli, fa implicitamente valere una pretesa tendente a comprimere l’altrui diritto di proprietà) (VI, 2.7) 39. Chi invoca la violazione di un limite di buon vicinato, potrà ottenere, quindi, oltre al risarcimento del danno eventualmente subito, provvedimenti di tipo inibitorio e tendenti alla riduzione in pristino della situazione dei luoghi (in particolare, con l’eliminazione delle opere illegittimamente realizzate) (art. 8722). Ci si potrà avvalere anche, in quanto possessori, dell’azione di manutenzione. La disciplina delle distanze riguarda, innanzitutto, quella da osservare nelle costruzioni. Il principio generale dettato dal codice è quello dell’osservanza, tra le costruzioni, 39 Dato il “carattere reale dell’azione medesima, qualificabile come negatoria servitutis”, essa “è esperibile esclusivamente nei confronti del proprietario confinante” (Cass. 18-9-2006, n. 20126; “attuale proprietario”, precisa Cass. 7-2-2017, n. 3236). In quanto “modellata sullo schema dell’actio negatoria servitutis”, l’azione per ottenere il rispetto delle distanze legali è, salvo gli effetti dell’eventuale usucapione, imprescrittibile” (Cass. 23-1-2012, n. 871; 31-5-2021, n. 15142). Proprio in dipendenza della equiparabilità all’actio negatoria servitutis dell’“azione intesa a far valere i limiti legali della proprietà”, si è concluso per la relativa trascrivibilità, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2653, n. 1 (Cass., sez. un., 12-6-2006, n. 13523). Si tenga presente che “anche il comproprietario può agire a tutela della proprietà comune al fine di far valere l’osservanza delle distanze legali, senza che sia necessario integrare il contraddittorio nei confronti degli altri comproprietari” (Cass. 23-6-2020, n. 12325).

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di una distanza non minore di tre metri (art. 873). Ciò per evitare, tra le costruzioni stesse, intercapedini troppo anguste e antigieniche. L’accennata determinazione della distanza ha carattere, comunque, solo residuale e minimo, rinviando la citata disposizione alle indicazioni dei regolamenti edilizi locali che prevedano una distanza maggiore. Si tratta di una materia in cui sono preminenti gli interessi di carattere generale, legati al corretto sviluppo urbanistico degli abitati, secondo le scelte degli organi istituzionalmente responsabili in materia, con conseguente prevalenza delle previsioni contenute negli strumenti urbanistici su quelle del codice (e inderogabilità da parte delle convenzioni private, a differenza di queste ultime) 40. Il rinvio operato dall’art. 873 ai regolamenti locali acquista notevole rilevanza sotto il profilo dei rimedi riconosciuti ai privati contro le violazioni altrui. L’art. 8722, infatti, prevede che chi abbia risentito un danno dall’abuso edilizio di altri – in quanto la edificazione sul fondo vicino, avvenuta in contrasto con la disciplina urbanistica, gli abbia arrecato un pregiudizio 41 – possa senz’altro chiedere, trattandosi di atto illecito, il risarcimento del danno 42. La riduzione in pristino (e, quindi, la demolizione dei manufatti costruiti in violazione delle prescrizioni di legge), invece, può essere chiesta solo per la violazione delle norme dettate dal codice in materia di distanze, ovvero di quelle richiamate dal codice in funzione integrativa 43. Il criterio seguito dal codice è quello della c.d. prevenzione temporale (nel senso che chi costruisce per primo condiziona le possibilità edificatorie del vicino) 44. Quando si 40 Ciò perché le prescrizioni di tali strumenti sono “dettate, contrariamente a quelle del codice civile, a tutela dell’interesse generale a un prefigurato modello urbanistico” (Cass. 18-10-2018, n. 26270). Cass. 16-3-2015, n. 5163, ha ribadito che “la nozione di costruzione, agli effetti dell’art. 873, è unica e non può subire deroghe, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, da parte delle norme secondarie” (“per ‘costruzione’ deve intendersi qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità ed immobilizzazione rispetto al suolo”; così, ad es., anche Cass. 8-8-2019, n. 21173). 41 Come accade per la violazione delle prescrizioni relative ai divieti di edificare, nonché ai volumi e alle altezze delle costruzioni, da cui risulti diminuita la panoramicità e la luminosità del proprio edificio. 42 A prescindere, ovviamente, dall’esperimento dei rimedi in via amministrativa, in quanto titolare di un interesse legittimo all’osservanza della disciplina urbanistica dettata a tutela dell’interesse generale. In proposito, si ritiene che, determinando “la violazione della prescrizione sulle distanze tra le costruzioni” un “danno in re ipsa”, si debba, “di norma, presumere, sia pure iuris tantum”, il “pregiudizio patrimoniale subito al diritto di proprietà” (Cass. 9-11-2020, n. 25082). 43 La giurisprudenza considera tali le norme di fonte legislativa e regolamentare (regolamenti edilizi locali) che impongano distanze maggiori tra gli edifici, anche se determinate in funzione dell’altezza degli edifici stessi (ma non quelle concernenti solo le altezze), nonché distanze comunque da osservare dai confini, escludendo del tutto l’edificabilità sul confine, ovvero distanze particolari in caso di pareti con finestre (in tali ultimi due casi risulta inoperante il principio della prevenzione temporale, essendo radicalmente preclusa la possibilità di costruire edifici in aderenza: ciascuno deve osservare, infatti, la prescritta distanza dal confine). È da sottolineare come Cass. 3-2-1999, n. 886, limitando, così, notevolmente la portata attuale della regola del codice, abbia stabilito che “qualora il regolamento edilizio sia privo di disposizioni sulle distanze legali tra fabbricati si devono applicare quelle previste dall’art. 17 L. 6.8.1967, n. 765 e non già la disciplina dell’art. 873”. La disposizione indicata (che ha aggiunto l’art. 41 quinquies alla L. 17.8.1942, n. 1150) prevede che “la distanza dagli edifici vicini non può essere inferiore all’altezza di ciascun fronte dell’edificio da costruire”. 44 Problematica – ferma “l’inoperatività del criterio della prevenzione allorquando la disciplina regolamentare imponga il rispetto di una distanza inderogabile delle costruzioni dai confini” – è stata considerata l’applicabilità del criterio in questione nella “ipotesi in cui le disposizioni locali prevedano una distanza tra costruzioni maggiore di quella codicistica” (Cass. 12-3-2015, n. 4965). In proposito, Cass., sez. un., 19-5-2016, n. 10318 (e v., ad es., Cass. 9-9-2019, n. 22447), ha concluso che, in tal caso, in presenza dei presupposti stabiliti

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costruisce, si può scegliere se costruire rispettando la metà della distanza prescritta (quindi un metro e mezzo o la metà della maggiore distanza risultante dalla normativa edilizia), costruire ad una distanza inferiore o, addirittura, sul confine. Il vicino dovrà rispettare la distanza legale tra le costruzioni (tre metri o maggiore, se così prescritto): se la prima costruzione è a un metro e mezzo dal confine, altrettanto dovrà fare anche lui. Se la costruzione è stata fatta sul confine, però, egli ha la scelta tra arretrare a tre metri dal confine, ovvero avanzare anche la propria costruzione fino al confine, chiedendo la comunione forzosa del muro (previo pagamento della metà del relativo valore, ai sensi dell’art. 874: si tratta di un diritto potestativo), ovvero costruendo in aderenza (art. 877). Se il muro è stato costruito ad una distanza inferiore alla metà di quella legale (ma non sul confine), il vicino può chiedere (ove non intenda arretrare corrispondentemente per rispettare la distanza legale) di avanzare fino alla costruzione altrui, chiedendo la comunione del muro o costruendo in aderenza, salvo che chi per primo ha costruito non preferisca demolire la sua costruzione o estenderla fino al confine (art. 875: dovrà essere pagato il valore del suolo eventualmente da occupare con la nuova costruzione). Regole peculiari sono dettate per muri di cinta, muri divisori e utilizzazione del muro comune. Altre disposizioni prescrivono le distanze da osservare per opere diverse dalle costruzioni (come pozzi, canali, fossi) e per le piantagioni. Importante è l’art. 890 che impone, per manufatti o depositi di sostanze nocivi o pericolosi, l’osservanza di una distanza tale da preservare i fondi vicini da ogni danno alla solidità, salubrità e sicurezza. Minutamente è disciplinata la distanza da osservare per piantare siepi ed alberi, a seconda delle relative caratteristiche (art. 892), prevedendosi la relativa estirpazione in caso di piantagione a distanza inferiore a quella prescritta (art. 894). Disciplinata, inoltre, è la comunione di fossi, siepi ed alberi. Un problema di osservanza di distanze si pone anche in relazione alle aperture degli edifici, destinate a illuminare, dare aria e possibilità di vista agli ambienti, a tale riguardo distinguendosi tra luci e vedute. Luci sono le aperture che consentono il passaggio di luce ed aria, ma non l’affaccio sul fondo vicino 45. Vedute (o prospetti) sono le aperture che permettono di affacciarsi e guardare di fronte, obliquamente o lateralmente (art. 900). L’apertura di luci non deve rispettare distanze, potendosi esse aprire anche sul muro posto sul confine (art. 903). Le luci (che vengono, infatti, definite luci di tolleranza), però, possono essere chiuse ad iniziativa del vicino, ove sussistano le condizioni (dianzi accennate) per acquistare la comunione del muro o per costruire in adedal codice, operi comunque il principio della prevenzione, ovviamente adattato alla distanza prescritta dai regolamenti edilizi, cui è da riconoscere “portata integrativa delle disposizioni dettate in materia dal codice civile”. 45 Data l’importanza della distinzione tra i due tipi di apertura, il codice indica i requisiti delle luci. Esse devono essere munite di inferriata e di rete, avere il lato inferiore a un’altezza dal pavimento del locale non minore di due metri e mezzo se al piano terreno o di due metri se ai piani superiori, avere il lato inferiore ad un’altezza dal suolo del fondo vicino non inferiore a due metri e mezzo (salvo che si tratti di locale in tutto o in parte interrato e non sia possibile rispettare tale altezza) (art. 901). A scanso di equivoci, poi, si stabilisce che l’apertura priva dei caratteri di veduta o prospetto è senz’altro considerata quale luce (art. 902). Si precisa che “la natura di veduta o di luce (regolare o irregolare) deve essere accertata alla stregua delle caratteristiche oggettive dell’apertura, rimanendo irrilevante l’intenzione del suo autore o la finalità dal medesimo perseguita” (Cass. 5-11-2011, n. 233). Inoltre, “affinché sussista una veduta, è necessario, oltre al requisito della inspectio, anche quello della prospectio sul fondo del vicino … assoggettando il fondo alieno ad una visione mobile e globale” (Cass. 21-5-2012, n. 8009). Si è precisato, così, che “non è qualificabile come veduta la soletta di copertura di un fabbricato, normalmente accessibile e praticabile, priva di parapetto” (Cass. 10-2-2020, n. 3043).

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renza (art. 904). Le vedute, se dirette (o frontali) possono essere aperte solo ad una distanza di un metro e mezzo dal fondo del vicino (o sopra il suo tetto) (art. 905); se laterali od oblique, a non meno di settantacinque centimetri, dal più vicino lato della finestra o sporto (art. 906). Il carattere di veduta dell’apertura è rilevante, in quanto determina conseguenze in ordine alla distanza delle costruzioni. Chi ha acquistato il diritto di avere vedute verso il fondo vicino (essendo stata costituita una servitù, contrattualmente o per usucapione, in tale ultimo caso a seguito dell’apertura della veduta e del suo mantenimento per il tempo a ciò necessario) può pretendere che il proprietario di questo si astenga dal fabbricare a distanza minore di tre metri (art. 9071). Ciò vale anche in ipotesi di costruzione in appoggio, che dovrà comunque arrestarsi ad almeno tre metri sotto la soglia della veduta (art. 9073). In caso di apertura di vedute abusive, il proprietario del fondo pregiudicato può esercitare l’azione negatoria (in quanto possessore anche l’azione di manutenzione). Dell’opera che violi il diritto di veduta può essere chiesta la rimozione o la modificazione per quanto necessario ad assicurare il normale esercizio del diritto leso. Circa lo stillicidio, vale il principio per cui il proprietario deve costruire i tetti in modo che le acque piovane scolino sul suo terreno e non su quello altrui (art. 9081). Quanto, infine, alle acque, la tradizionale distinzione tra acque pubbliche e acque private, solo alle quali ultime si riferisce la normativa dettata dal codice (artt. 909 ss.), è stata radicalmente innovata dalla sopravvenuta disciplina del settore. L’importanza dell’acqua, quale risorsa di essenziale interesse sociale, costituisce il fondamento della disciplina codicistica 46, come emerge con chiarezza dall’art. 912. All’autorità giudiziaria è, infatti, demandata la risoluzione dei conflitti tra privati relativi alla sua utilizzazione, sulla base della valutazione dei loro reciproci interessi, con riferimento ai previsti vantaggi che possano derivarne all’agricoltura o all’industria. Viene prevista la costituzione di consorzi (artt. 914 e 918 ss.), anche coattivi (art. 921). Poteri sostitutivi sono riconosciuti, poi, in caso di inerzia dei proprietari nel compimento delle opere necessarie (art. 915). Accanto all’interesse all’incremento produttivo – su cui pure qui si polarizza l’attenzione del codice – si è venuto, più di recente, ad affermare, in materia, l’interesse ambientale. È in tale prospettiva che l’art. 1 L. 5.1.1994, n. 36 (disposizioni in materia di risorse idriche, rifluito nell’art. 144 D.Lgs. 3.4.2006, n. 152), afferma che “tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal sottosuolo, sono pubbliche” (costituendo “una risorsa che è salvaguardata e utilizzata secondo criteri di solidarietà”) 47. Dubbia è risultata – a fronte della specifica e articolata disciplina dettata dalla normativa accennata in ordine alla “gestione delle risorse idriche” – la situazione derivatane in ordine all’applicabilità della disciplina del codice. Anche a volerne considerare una persistente attualità, la sua rilevanza risulta, comunque, del tutto marginale, pure alla luce del D.P.R. 18.2.1999, n. 238, il quale, nell’individuare la categoria residuale delle acque (di 46 Nella Relaz. cod. civ., n. 428, si sottolinea, in proposito, che “nella determinazione dei limiti di utilizzazione delle acque domina sempre il principio di socialità e di subordinazione dell’interesse privato all’interesse nazionale della produzione”. 47 Ne consegue – “tutte le acque, per essere state espressamente dichiarate pubbliche”, dovendosi ormai ritenere “ricomprese tra i beni indicati dall’art. 822”, relativo al “demanio pubblico” (II, 2.10) – “l’inalienabilità di detti beni, quali beni pubblici” (Cass., sez. un., 17-9-2015, n. 18215, a proposito del lago di Lucrino).

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origine piovana) private, ha espressamente abrogato l’art. 910 (concernente l’uso delle acque che limitano o attraversano un fondo).

8. Proprietà agraria. – Nel quadro della proprietà fondiaria, come accennato, il codice civile affronta problematiche legate al perseguito incremento produttivo dei terreni agricoli, prestando notevole attenzione, peraltro, soprattutto attraverso il rinvio alla legislazione speciale in materia, anche al soddisfacimento di ulteriori interessi generali, legati allo sviluppo sociale ed alla sicurezza del territorio. Sotto tale ultimo profilo, particolare rilevanza è attribuita alla disciplina dei vincoli idrogeologici e delle difese fluviali, con la previsione dell’assoggettabilità dei terreni, appunto, al vincolo idrogeologico (art. 866), pure con specifico riferimento al rimboschimento (art. 867), in vista del quale sono prospettati penetranti interventi dell’autorità competente (fino all’espropriazione dei terreni interessati). I proprietari di terreni rivieraschi sono sottoposti, poi, ad obblighi di attivazione per evitare l’eventualità di danni all’agricoltura o agli abitati (art. 868). Al conseguimento “di fini igienici, demografici, economici o di altri fini sociali” è finalizzata la disciplina della bonifica integrale (artt. 857 ss.). Ai privati viene imposto l’onere di partecipare alle spese a ciò necessarie (art. 860), gravando su di loro anche l’obbligo di eseguire opere ritenute necessarie (art. 861). Lo strumento per perseguire le finalità avute di mira è rappresentato dalla costituzione di consorzi di bonifica (art. 862) e di miglioramento fondiario (art. 863). Anche in materia, in linea con la generale previsione dell’art. 838, è prevista la possibilità di procedere alla espropriazione nei confronti dei proprietari che non osservino gli obblighi imposti in vista dell’attuazione dei piani di bonifica (art. 865). Il riordino della proprietà rurale (con finalità di incremento produttivo, ma anche di sviluppo demografico e sociale) era, nel disegno del codice, affidato essenzialmente alla disciplina della minima unità colturale 48. L’intero sistema è rimasto paralizzato, però, dalla mancata determinazione della minima unità colturale 49. L’art. 5 bis D.Lgs. 18.5.2001, n. 228 (sull’orientamento e modernizzazione del settore agricolo), quale inserito dall’art. 7 D.Lgs. 29.3.2004, n. 99, ha abrogato le previsioni del codice relative alla minima unità colturale (artt. 846-848), perseguendo lo scopo della “conservazione dell’integrità aziendale” attraverso la disciplina del compendio unico (definito con riferimento a livelli minimi di redditività determinati in sede regionale). Alla ricomposizione di tale unità produttiva sono ricollegate agevolazioni fiscali (oltre che relativamente agli onorari notarili per gli atti a ciò necessari). Il compendio unico (terreni e relative pertinenze, compre48 Tale era definita la estensione di terreno non frazionabile a seguito di trasferimenti, anche in sede di successione (art. 8461), determinata con riferimento alle potenzialità di lavoro di una famiglia agricola (art. 8462). Per gli atti lesivi di tale unità produttiva risultava prevista l’annullabilità, ad istanza del pubblico ministero (art. 848). La ricomposizione fondiaria era perseguita attraverso la costituzione di consorzi (art. 850), con piani di riordinamento e possibilità di trasferimenti coattivi (art. 851). 49 In proposito, pare opportuno ricordare anche l’istituto tirolese del m a s o c h i u s o , quale unità poderale trasmissibile solo unitariamente anche in sede successoria. Le previsioni in materia dello Statuto della Regione Trentino-Alto Adige sono state attuate nel quadro della legislazione della Provincia autonoma di Bolzano, da ultimo con la L. prov. Bolzano 28.11.2001, n. 17. La disciplina precedente, in relazione a taluni suoi profili discriminatori tra discendenza maschile e femminile (e, quindi, in applicazione dell’art. 31 Cost.), è stata dichiarata costituzionalmente illegittima da Corte cost. 14-7-2017, n. 193.

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si i fabbricati) costituisce una unità indivisibile per dieci anni dal momento della sua costituzione, infrazionabile per effetto di trasferimenti a causa di morte o per atti tra vivi (con conseguente nullità degli atti aventi per effetto il suo frazionamento) 50. Alla proprietà agraria è stato dato particolare rilievo dalla Costituzione, in applicazione dei ricordati principi concernenti la proprietà privata e la relativa funzione sociale (art. 422). L’art. 44 pone, in materia, il duplice obiettivo del razionale sfruttamento del suolo e del perseguimento di equi rapporti sociali. A tal fine è demandata al legislatore la previsione di obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, la fissazione di limiti alla sua estensione, l’attuazione della bonifica, la trasformazione del latifondo, la ricostituzione delle unità produttive, anche nella prospettiva dell’aiuto alla piccola e media proprietà. L’art. 472, poi, prescrive di favorire l’accesso del risparmio popolare alla proprietà diretta coltivatrice. Alla eliminazione del fenomeno del latifondo ed alla conseguente trasformazione delle colture (onde evitare il fenomeno delle terre incolte), con la diffusione della proprietà agricola in vista del soddisfacimento di evidenti esigenze economico-sociali, si è provveduto attraverso i provvedimenti finalizzati ad attuare la riforma agraria, come la L. 12.5.1950, n. 230 (colonizzazione della Sila e territori ionici) e la L. 21.10.1950, n. 841 (espropriazione, trasformazione e assegnazione di terreni ai contadini). Sugli assegnatari delle proprietà risultanti dall’applicazione di provvedimenti di questo tipo si sono fatti gravare incisivi limiti e obblighi, in particolare con divieti di trasferimento (sanzionati anche con l’eventuale decadenza dall’assegnazione). Su questa linea, più di recente, è intervenuta la L. 4.8.1978, n. 440, relativa alla utilizzazione delle terre incolte, abbandonate o insufficientemente coltivate, anche attraverso la loro assegnazione, per la coltivazione, a chi ne faccia domanda. È da ricordare come, in tale ultima legge, centrale si presenti il ruolo delle Regioni, in applicazione delle competenze, pure di carattere legislativo, ad esse demandate, in materia di agricoltura, dall’art. 117 Cost. (già nella sua originaria formulazione). Alle Regioni risultano, quindi, riconosciute funzioni assorbenti nella materia in questione, sulla quale non poca incidenza hanno avuto anche le fonti normative comunitarie e la relativa applicazione interna. La protezione della posizione di chi dedica la propria attività lavorativa all’agricoltura è alla base – pur non mancando ulteriori motivazioni legate al miglioramento delle modalità imprenditoriali di sfruttamento dei terreni agricoli – dei numerosi interventi che hanno incisivamente condizionato i contratti agrari, assicurando la stabilità nel godimento (a condizioni di favore) dei terreni sui quali si opera. Ne è risultata una considerevole limitazione dei poteri del proprietario di fondi agricoli, fino alla stessa perdita del diritto, come nel caso della legislazione tendente ad agevolare l’affrancazione delle enfiteusi (VI, 3.3). Basti pensare, al riguardo, ai limiti posti alla mezzadria (e ad altri contratti associativi analoghi), con la promozione della relativa trasformazione in affitto, nonché la tendenza ad assicurare l’acquisizione della proprietà (in particolare attraverso un diritto di prelazione: c.d. prelazione agraria) a beneficio dei coltivatori diretti (significative, in tal senso, sono la L. 15.9.1964, n. 756 e la L. 26.5.1965, n. 590, con le successive modificazioni) 51. 50 La disciplina in questione è dichiarata applicabile anche ai piani di ricomposizione fondiaria e di riordino fondiario promossi dalle regioni, province, comuni e comunità montane. 51 La disciplina della prelazione agraria a favore del coltivatore in caso di trasferimento oneroso del fondo,

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Un quadro organico della materia dei contratti agrari è quello derivante dalla L. 3.5.1982, n. 203, a sua volta successivamente integrata e modificata, con la quale si è inteso incidere sulla durata dei contratti di affitto (anche in corso), in particolare a coltivatore diretto, determinando autoritativamente il canone (c.d. equo canone) e promovendo ulteriormente la conversione in affitto dei contratti associativi (v. anche IX, 4.4). Taluni eccessivi (e irragionevoli) squilibri nelle posizioni delle parti hanno, peraltro, determinato la necessità di interventi della Corte costituzionale 52.

9. Proprietà edilizia. – Sempre nel quadro della proprietà fondiaria, il codice civile si sofferma sulla proprietà edilizia, quasi contemporaneamente assoggettata ad una innovativa disciplina organica con la fondamentale legge urbanistica (L. 17.8.1942, n. 1150), la quale ha, poi, persistentemente costituito il punto di riferimento di successivi continui interventi legislativi. Gli interessi che ruotano intorno all’edificazione dei suoli ed alla proprietà degli edifici sono numerosi e fin troppo noti, pubblici e privati, generali e individuali. Con l’interesse allo sfruttamento economico privato dei suoli si devono conciliare le esigenze di salvaguardia dell’ambiente, di razionalizzazione del fenomeno della urbanizzazione (per assicurare un accettabile livello di qualità di vita nelle città), di soddisfacimento dell’essenziale bisogno abitativo (col necessario sviluppo dell’attività edificatoria, anche pubblica, onde garantire l’accesso a costi ragionevoli al godimento di abitazioni). La materia è, quindi, di singolare vastità ed è oggetto di una consistente legislazione speciale, cui, del resto, rinvia il codice, anche per quanto concerne le regole da osservarsi nelle zone sismiche (art. 8712). In esso si accenna ai piani regolatori comunali (oltre che ai regolamenti edilizi comunali: art. 8711), i quali costituiscono lo strumento essenziale di pianificazione urbanistica (art. 869). Il piano regolatore generale conserva, anche attualmente, una posizione centrale nella pianificazione territoriale, tra quella di livello più ampio (regionale e provinciale) e quella più particolareggiata (piano regolatore particolareggiato, che trova nel primo il proprio quadro di riferimento, costituendone strumento attuativo). Allo strumento in questione è rimessa la previsione delle zone di espansione urbana, con la dedi cui all’art. 8 L. 590/1965, è stata integrata dall’art. 7 L. 14.8.1971, n. 817 (e v. anche il D.Lgs. 228/2001 e la L. 99/2004), prevedendosi l’estensione del relativo diritto anche al coltivatore diretto proprietario di fondi confinanti con i fondi offerti in vendita. È da tenere presente che, ai fini della prelazione da parte del confinante, è richiesta una “contiguità fisica e materiale, per contatto reciproco lungo la comune linea di demarcazione” (ad es., Cass. 20-1-2006, n. 1106 e 13-2-2018, n. 3409). La destinazione a “utilizzazione edilizia, industriale o turistica” in base a piani regolatori, che esclude la prelazione ai sensi dell’art. 82 L. 590/1965, è intesa come “possibilità” e non come “certezza di uno sfruttamento del terreno diverso da quello agricolo” (Cass. 6-3-2006, n. 4797). 52 Corte cost. 7-5-1984, n. 138, così, ha ritenuto non “rispondente all’imprescindibile requisito dell’utilità sociale, voluto dall’art. 41 ed esplicitato per la proprietà fondiaria dall’art. 44, una conversione indiscriminatamente disposta anche per i casi in cui il concedente abbia adempiuto i suoi oneri, e in cui quindi, funzionando il rapporto normalmente, risulta senza dubbio ingiustificata la trasformazione forzosa disposta dal legislatore”. Corte cost. 5-7-2002, n. 318, ha, poi, dichiarato costituzionalmente illegittimi gli artt. 9 e 62, in quanto disciplinanti l’equo canone di affitto in modo “privo di qualsiasi razionale giustificazione”, fondandosi il relativo meccanismo su dati catastali obsoleti, così da non potere “sicuramente essere posto a base di una disciplina dei contratti agrari rispettosa della garanzia costituzionale della proprietà terriera privata e tale da soddisfare, nello stesso tempo, la finalità della instaurazione di equi rapporti sociali, imposta dall’art. 44 Cost.”.

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terminazione, in particolare, delle diverse destinazioni all’interno dell’area urbana stessa (edificazione privata e pubblica, verde, parcheggi, attività industriali, servizi pubblici, ecc.). La legislazione nazionale non ha mancato di stabilire degli standards – finalizzati a determinare i limiti di edificabilità consentiti, a seconda delle caratteristiche dei suoli dal punto di vista urbanistico – validi sull’intero territorio nazionale e tali da ovviare all’eventuale mancanza dei piani regolatori (L. 6.8.1967, n. 765). Il quadro che deriva dalla legislazione in materia urbanistica ed edilizia 53 determina una rigorosa delimitazione dei poteri di iniziativa edificatoria del proprietario del suolo, concretamente condizionati, appunto, dagli strumenti urbanistici. L’attività edificatoria del privato ha costituito oggetto di interventi ispirati, nel tempo, a diversi orientamenti di fondo da parte del legislatore, nei cui confronti è, a sua volta, ripetutamente intervenuta la Corte costituzionale, a garanzia, come accennato, della salvaguardia del c.d. contenuto minimo del diritto di proprietà, da ritenersi coperto dalla garanzia costituzionale dell’art. 422, pur nel perseguimento degli obiettivi della funzione sociale e della accessibilità generalizzata della proprietà (VI, 1.4). La facoltà di edificare (ius aedificandi) era originariamente considerata senz’altro rientrante nel contenuto del diritto di proprietà, solo essendo assoggettata ad un provvedimento autorizzatorio (non oneroso) del Comune (licenza edilizia) il concreto esercizio di tale facoltà, al fine di assicurarne la conformità con i criteri stabiliti dagli strumenti urbanistici. Anche per superare le perplessità conseguentemente manifestate dalla Corte costituzionale circa la legittimità dell’imposizione senza indennizzo, da parte degli strumenti urbanistici stessi, di vincoli di inedificabilità di durata indefinita, una riforma radicale della materia dell’edificabilità dei suoli fu operata con la L. 28.1.1977, n. 10 (cui fu affiancata la L. 5.8.1978, n. 457, in tema di edilizia residenziale). Con essa si sostituì alla licenza edilizia la concessione edilizia, provvedimento di diversa natura, in quanto avente alla base della relativa previsione l’idea che la facoltà di edificare non inerisca al diritto di proprietà dei suoli, come profilo del suo contenuto, ma costituisca oggetto di una attribuzione (concessione) da parte del Comune, quale unico titolare del diritto allo sfruttamento edilizio del suo territorio. Proprio in quanto tale, la concessione edilizia comportava, per chi intendesse costruire, il pagamento di ragguardevoli somme di danaro, in considerazione tanto della situazione di vantaggio conseguente al riconoscimento della possibilità di costruire, quanto dei costi gravanti sull’ente locale per le opere di urbanizzazione (godute anche dal costruttore) 54. 53

Si ricordi come già l’originario art. 117 Cost. riconoscesse competenza legislativa alle Regioni in materia urbanistica. Il relativo nuovo testo (ai sensi dell’art. 3 L. cost. 18.10.2001, n. 3) affida più comprensivamente alla legislazione concorrente di Stato e Regioni, peraltro con delicati problemi di delimitazione delle rispettive competenze, il “governo del territorio”. 54 L’essenzialità, ai fini del legittimo esercizio dell’attività costruttiva, del provvedimento amministrativo è stata energicamente confermata dalla L. 28.2.1985, n. 47, relativa al controllo dell’attività urbanistico-edilizia, finalizzata alla repressione (sul piano penale, amministrativo e civile) del fenomeno dell’abusivismo edilizio. Nel quadro della materia (su cui hanno inciso i ripetuti provvedimenti tendenti a consentire la sanatoria delle opere abusive), conglobata nel D.P.R. 380/2001, particolare rilievo assumono, sotto il profilo sanzionatorio, le notevoli limitazioni cui è assoggettata la circolazione degli edifici abusivi, specialmente con la previsione di ipotesi di nullità dei relativi atti (VIII, 3.3; IX, 1.6). Comunque, gli effetti dell’eventualmente intervenuto condono edilizio “sono limitati al campo pubblicistico e non pregiudicano i diritti dei terzi”, potendo, quindi, il proprietario del fondo contiguo “chiedere l’abbattimento o la riduzione a distanza legale della costruzione”, in applicazione della disciplina codicistica in materia di distanze tra edifici (Cass. 26-9-2005, n. 18728).

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La Corte costituzionale, comunque, ha ribadito che “la concessione di edificare non è attributiva di diritti nuovi, ma presuppone facoltà preesistenti”, continuando il diritto di edificare ad inerire alla proprietà. Successivamente la stessa Corte non ha mancato di riconoscere come la destinazione urbanistica (operata dai relativi strumenti) comporti, peraltro, pur sempre un “valore aggiunto (rendita di posizione) rispetto al contenuto essenziale del diritto di proprietà” 55. Anche in considerazione di tali interventi della Corte (e della corrispondente posizione della Cassazione e del Consiglio di Stato), il legislatore è intervenuto nuovamente, riordinando l’intera problematica col testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (D.P.R. 6.6.2001, n. 380, successivamente a più riprese modificato e integrato). L’attività edificatoria, almeno nel caso in cui consista in interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio (nuove costruzioni, ristrutturazione urbanistica, ristrutturazione edilizia) 56, è ora subordinata all’ottenimento del permesso di costruire (art. 10), sembrando volersi dare atto, in sostanza, che la facoltà di costruire inerisca al diritto di proprietà. Il rilascio del permesso, però, comporta la corresponsione di un contributo, secondo il principio introdotto dalla legislazione precedente (rapportato, quindi, agli oneri di urbanizzazione ed al costo di costruzione) (art. 16). La proprietà edilizia (qui intesa come proprietà degli edifici) è stata assoggettata a penetranti limiti e obblighi anche sotto il profilo dell’esercizio, da parte del proprietario, delle possibilità di sfruttamento del bene attraverso l’attribuzione ad altri del relativo godimento (IX, 4.3). L’autonomia contrattuale in materia di locazioni, così, è stata notevolmente incisa, soprattutto per realizzare la tutela del locatario di immobili destinati ad uso abitativo, tanto per assicurargli la stabilità nel godimento del bene (di fronte al non agevole reperimento di abitazioni), quanto per garantirgli condizioni economiche favorevoli. La funzione sociale della proprietà è, in effetti, destinata a farsi avvertire in tutta la sua portata in relazione ad un bene, come l’abitazione (all’accesso alla proprietà del quale l’art. 472 Cost. considera finalizzato il risparmio popolare), con cui viene soddisfatto un bisogno della persona sicuramente essenziale. Anche l’attenzione per le esigenze dello svolgimento delle attività economiche ha determinato interventi legislativi sull’autonomia privata nel campo delle locazioni (quelle ad uso non abitativo), onde garantire la stabilità del rapporto, l’indennizzo per la perdita dell’avviamento e l’eventuale accesso alla stessa proprietà del bene utilizzato per la propria attività (attraverso il diritto di prelazione) 57. 55 Si tratta, rispettivamente, delle già ricordate sentenze 30-1-1980, n. 5 e 16-6-1993, n. 283 (VI, 1.4, cui si rinvia, in generale, per la problematica relativa all’espropriazione e al relativo indennizzo; ivi anche il riferimento alle decise considerazioni di Cass., sez. un., 9-6-2021, n. 16080, circa la “attuale” inerenza dello ius aedificandi al contenuto del diritto di proprietà). 56 Anche alla luce delle modificazioni successivamente intervenute nella disciplina in materia, l’art. 6 definisce l’attività edilizia libera, mentre gli interventi di minore rilevanza urbanistica, se non soggetti a mera comunicazione di inizio lavori asseverata (art. 6 bis), sono specificati nell’art. 22 e sono subordinati alla sola segnalazione certificata di inizio di attività (almeno trenta giorni prima dell’effettivo inizio dei lavori, art. 23). 57 La materia (IX, 4.3), anche a prescindere dalla legislazione più immediatamente legata alle conseguenze degli eventi bellici, è stata contrassegnata dalla frequenza degli interventi legislativi, culminati, nella complessa prospettiva dianzi accennata, nella organica L. 27.7.1978, n. 392, tra l’altro introduttiva, per le locazioni ad uso abitativo, del meccanismo dell’equo canone. La successiva maggiore considerazione delle ragioni della proprietà ha indotto il legislatore, dopo numerosi ulteriori interventi non sistematici (con particolare riguardo

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Il rilievo sociale dell’accesso alla proprietà delle abitazioni, con le connesse esigenze di tutela di chi intenda investirvi i propri risparmi (art. 47 Cost.), è alla base della disciplina in tema di acquisto di immobili da costruire (D.Lgs. 20.6.2005, n. 122) (IX, 1.5). Ciò attraverso l’imposizione al costruttore di adeguata garanzia fideiussoria (art. 2) e di obblighi assicurativi (art. 4), nonché la dettagliata previsione del contenuto del contratto preliminare (art. 6) e di un regime privilegiato per l’acquirente in caso di procedura esecutiva avente ad oggetto l’immobile (artt. 9 ss., in cui si prevede anche l’istituzione di un Fondo di solidarietà per gli acquirenti di beni immobili da costruire). Nella prospettiva, poi, di una migliore organizzazione economica – e del conseguente relativo sviluppo – dell’attività edificatoria privata, anche attraverso la valorizzazione dell’autonomia degli interessati, il legislatore ha inteso sostanzialmente confermare la diffusa prassi contrattuale della c.d. cessione di cubatura, disponendo, nell’art. 2643, n. 2 bis (introdotto dal D.L. 13.5.2011, n. 70, conv. in L. 12.7.2011, n. 106), la trascrivibilità dei contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano i diritti edificatori, “previsti da normative statali o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione territoriale” 58. alla durata del rapporto di locazione, assoggettato ripetutamente ad un regime di proroga, tendenzialmente in considerazione della peculiare situazione soggettiva del locatario), a rimeditare la problematica delle locazioni ad uso abitativo, disciplinandole in modo articolato e tale da assicurare un più adeguato bilanciamento degli interessi contrapposti. Ciò è avvenuto con la L. 9.12.1998, n. 431, che ha anche previsto misure di sostegno al mercato delle locazioni, mentre con la legislazione successiva si sono adottate ulteriori misure per ridurre il disagio abitativo e incrementare l’offerta di alloggi in locazione, pure attraverso adeguate forme di incentivazione e una più efficiente attivazione dei meccanismi dell’edilizia residenziale pubblica e, in genere, sovvenzionata e agevolata (a partire dalla L. 12.11.2004, n. 269). 58 Con riferimento alle previsioni dei dianzi ricordati standards urbanistici, disciplinanti, tra l’altro, la cubatura edificabile da parte dei proprietari dei suoli (in particolare, ai sensi della disciplina della L. 765/1967), si sono diffusi nella pratica, in effetti, contratti tendenti a cedere, da parte dei proprietari di terreni, quote di cubatura a favore dei proprietari di fondi contigui, onde incrementare la cubatura ivi edificabile ai sensi della regolamentazione urbanistica in atto. La giurisprudenza ha reputato meritevoli di tutela le finalità perseguite con tali contratti operanti la c.d. cessione di cubatura, peraltro oscillando – come, del resto, la dottrina – in ordine alla relativa qualificazione giuridica ed ai conseguenti effetti. Da una parte, cioè, una simile “cessione” è stata assimilata “al trasferimento di un diritto reale immobiliare” (essenzialmente ai fini del suo assoggettamento “ad imposta proporzionale di registro”: ad es., Cass. 14-5-2007, n. 10979); dall’altra, “la natura di contratto traslativo di un diritto reale” è stata – anche in ordine alla esclusione della necessità della forma scritta ad substantiam – negata, sottolineandosi che “a determinare il trasferimento di cubatura … è esclusivamente il provvedimento concessorio che, a seguito della rinuncia del cedente, può essere emanato dall’ente pubblico a favore del cessionario, non essendo configurabile tra le parti un contratto traslativo” (Cass. 24-9-2009, 20623, quindi nell’ottica di una “efficacia solo obbligatoria ed interna tra gli stipulanti” dell’accordo di cessione, per cui v., ad es., Cass. 10-10-2018, n. 24948). L’introduzione della citata disposizione (su cui v. anche IX, 1.5 e XIV, 2.7), comunque, pur indiscutibilmente confermando la meritevolezza della prassi accennata (e, almeno in qualche misura, tipizzandone gli strumenti), non pare aver conseguito il risultato di dare alla materia la perseguita – e diffusamente auspicata dagli operatori – certezza (anche in relazione agli aspetti tributari della problematica). A ciò, allora, risulta finalizzato il tentativo di sistemazione della materia da parte di Cass., sez. un., 9-6-2021, n. 16080, ad esito di una esaustiva ricostruzione dei vari indirizzi giurisprudenziali e dottrinali. Pur prestando indubbia attenzione all’impostazione di Cass. 20623/2009, circa una “natura” della vicenda “non traslativa né costitutiva di un diritto reale, bensì meramente obbligatoria”, la Corte reputa non poterne condividerne la marginalizzazione dell’“accordo privatistico”, derivante dalla relativa ricostruzione nell’ottica di una “fattispecie a formazione progressiva”, avente il proprio baricentro sul lato pubblicistico-amministrativo del “rilascio del permesso di costruire per cubatura aumentata”. Così, in ordine alla cessione di cubatura, viene rivendicato il suo carattere di “atto di disposizione patrimoniale di estremo rilievo sul piano privatistico”, concernente, sia pure in un’ottica estranea all’“ambito della realità” (la “non realità dell’atto di cessione di cubatura” risultando ad esito di una puntuale critica di tutte le ipotizzate varianti ricostruttive in tal senso), “diritti” (appunto, i diritti edificatori), i quali, quindi, “tra le parti vengono costi-

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10. “Appartenenza” e beni immateriali: la c.d. proprietà intellettuale. – La caratteristica della esclusività – quale possibilità riconosciuta al titolare di escludere chiunque altro dallo sfruttamento del bene (VI, 1.2) – rappresenta il profilo che vale a ricollegare al tema della proprietà la delicata problematica concernente l’appropriazione delle utilità economiche di cui l’ordinamento considera possibile fonte anche quanto sia privo della materialità. Si è accennato, al riguardo, come, in dipendenza della evoluzione della realtà economico-sociale, il concetto di bene giuridico si sia allargato al di là delle cose materiali, per ricomprendere tutto ciò che, pur in assenza di materialità, l’ordinamento ha preso via via in considerazione, assumendolo quale fonte di utilità e, di conseguenza, potenziale oggetto di conflitti di interessi da comporre mediante l’attribuzione di situazioni giuridiche soggettive (e, in particolare di diritti soggettivi) (II, 2.1). L’attenzione a tali nuove forme di ricchezza, cui genericamente ci si riferisce in termini di beni immateriali, è testimoniata, già nel codice civile del 1865, dal ricordato art. 437, per il quale “le produzioni dell’ingegno appartengono ai loro autori secondo le norme stabilite da leggi speciali”. Da tale disposizione, che significativamente segue immediatamente la definizione del diritto di proprietà, da una parte, emerge il tentativo di dare una qualche consistenza oggettiva alle nuove forme di ricchezza, al fine di poterle ricondurre al sistema del diritto patrimoniale (con l’utilizzazione di una terminologia evocativa come quella di “produzioni” dell’ingegno), attraverso una evidente dilatazione del concetto di “appartenenza”; dall’altra, affiora la consapevolezza della peculiarità dei nuovi fenomeni, che ne impone una disciplina specifica mediante “leggi speciali” da lasciare fuori dal contesto del codice. Il codice civile del 1942 – nell’intento di assolvere anche in proposito alla funzione di centro di gravità dell’intero sistema giuridico e punto di riferimento sistematico della legislazione speciale – ha optato per l’inclusione nel proprio ambito almeno dei principi fondamentali concernenti l’ormai consolidata fenomenologia delle creazioni dell’ingegno, disciplinandola nel libro V, dedicato al lavoro (artt. 2575 ss.). Con ciò il legislatore ha certamente voluto chiarire la lontananza dei diritti riconosciuti in materia dal modello proprietario, storicamente costruito per adeguarsi alla materialità dell’oggetto di diritti: preferibile è parso conferire rilevanza decisiva al titolo riconosciuto quale fondamento della legittimazione allo sfruttamento delle utilità economiche di cui l’idea è ritenuta possibile fonte, costituito dal lavoro 59. Non certo casuale è la collocazione della sobria normativa in materia subito dopo la disciplina dell’azienda e, nel suo ambito, dei segni tuiti, trasferiti e modificati direttamente per effetto” del contratto (con estensibilità “alla materia del principio consensualistico”, “netta rivalutazione del sostrato privatistico” dell’operazione economica e ridimensionamento del ruolo del permesso di costruire, in termini di “elemento esterno di regolamentazione pubblicistica di un diritto di origine privatistica”). Da una simile ricostruzione vengono fatte conseguire: la non necessità della “forma scritta ad substantiam ex art. 1350”; la trascrivibilità ex art. 2643, n. 2 bis; l’assoggettabilità “ad imposta proporzionale di registro come atto ‘diverso’ avente ad oggetto prestazione a contenuto patrimoniale” (e non quale atto traslativo della proprietà immobiliare ovvero traslativo o costitutivo di diritti reali immobiliari), nonché, “in caso di trascrizione e voltura, ad imposta ipotecaria e catastale in misura fissa”. 59 Nella Relaz. cod. civ., n. 1043, si sottolinea che “per quanto questa materia nel nostro diritto e nei diritti stranieri formi tradizionalmente oggetto di leggi speciali, è parso che il nuovo codice civile, nel libro dedicato al lavoro, non potesse ignorare quella suprema tutela del lavoro, che trova espressione nel diritto di autore e nei diritti sulle invenzioni industriali”.

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distintivi dell’impresa e del marchio, a loro volta tutelati come beni essenziali in quel moderno assetto dei rapporti produttivi, il cui progresso resta in larga misura affidato proprio alla innovatività delle idee. Quella dei beni immateriali costituisce, comunque, una categoria per sua natura aperta all’estensione a sempre nuove tipologie di fenomeni, via via che l’evoluzione della realtà economico-sociale ne prospetti il possibile sfruttamento come nuove fonti di utilità. Basti pensare all’irruzione sulla scena economica del software e delle banche dati, nonché alla sempre maggiore estensione dell’area di protezione riconosciuta a tutto ciò che, nel mercato, vale a conferire maggior pregio alla produzione (si pensi, ad es., alle indicazioni geografiche e alle denominazioni di origine). Tali potenzialità di sfruttamento il legislatore provvede a disciplinare con specifiche normative – ormai di origine prevalentemente comunitaria, trattandosi di problematiche tipicamente di portata sopranazionale in una economia sempre più globalizzata – in un delicato equilibrio tra esigenze individuali di appropriazione del valore (anche come stimolo del progresso) ed esigenze sociali di utilizzazione: questo, sempre in una difficile rincorsa con la realtà economica e con la tecnologia. Il tenace sforzo di impiegare le tradizionali e collaudate categorie dell’appartenenza e, in particolare, il concetto di proprietà, ha indotto ad avvalersi correntemente di terminologie come quella comprensiva di proprietà intellettuale, per indicare genericamente le situazioni giuridiche soggettive riconosciute in ordine allo sfruttamento della creazione intellettuale, specificate, poi, con riferimento alla proprietà letteraria e artistica e alla proprietà industriale. Significativamente, il legislatore ha intitolato “codice della proprietà industriale” il D.Lgs. 10.2.2005, n. 30, con cui si è tentato il riordino della disciplina concernente la relativa materia (per la proprietà letteraria e artistica, v. la L. 22.4.1941, n. 633, “Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio”, su cui numerosi sono stati, anche di recente, gli interventi legislativi modificativi e integrativi). Deve essere chiaro, peraltro, che il riferimento terminologico alla “proprietà”, come accennato, pare valere (e in ciò esaurire il proprio reale significato) solo ad evocare l’idea di esclusività dello sfruttamento della creazione eventualmente accordato al soggetto sulla base della ricorrenza di specifici requisiti e ad esito di particolari formalità e procedure, con il corrispondente ampliamento del concetto di “appartenenza”. Opportuno risulta, in proposito, il diffuso richiamo alla necessaria cautela nella utilizzazione di concettualizzazioni e regole proprie della proprietà con riguardo ai c.d. nuovi beni, al più potendosi fare, prestando adeguata attenzione alla specificità dei problemi da risolvere nei singoli casi, un cauto ricorso allo strumento dell’analogia (I, 3.14), onde supplire ai ritardi che qui spesso inevitabilmente contraddistinguono l’intervento del legislatore. È solo alla luce di simili considerazioni che deve intendersi (e può anche ritenersi utile), allora, l’uso dell’espressione nuove proprietà – traduzione della felice formula new properties – per alludere a tutte le nuove forme di ricchezza, estranee alla materialità che caratterizza la cosa come tradizionale oggetto di diritti (e specificamente di proprietà). Con essa, insomma, ci si vuole semplicemente richiamare alla esigenza di riconoscere la esclusività dello sfruttamento economico in ordine a fenomeni, di tipologia estremamente variegata e in continua evoluzione, in relazione ai quali la nozione di bene tende a sfumarsi, allargandosi a comprendere, nella prospettiva di valore economicamente rilevante, la prestazione di un servizio (con una sempre meno chiara demarcazione, oltretutto, tra la categoria del diritto reale e quella del diritto di credito).

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Anche il carattere di esclusività riconosciuto ai diritti concernenti i beni in questione si è sempre atteggiato, del resto, in maniera del tutto peculiare, alla luce della rilevanza necessariamente da accordare alle esigenze sociali di utilizzazione di innovazioni capaci di contribuire al progresso comune. Così, all’idea tradizionale di perpetuità della proprietà si sostituisce qui quella di temporaneità delle prerogative riconosciute al titolare del diritto di sfruttamento: una temporaneità tanto più accentuata, quanto più forte si fa avvertire il peso delle accennate esigenze sociali (v., ad es., artt. 15, 24 e 60 D.Lgs. 30/2005 e artt. 25 ss. L. 633/1941), le quali inevitabilmente determinano, inoltre, una marcata funzionalizzazione dei diritti accordati 60. Resta, in ogni caso, indiscutibilmente utile il richiamo alla disciplina proprietaria per dare una risposta a problemi come, ad es., quello della eventuale contitolarità del diritto, risolto, infatti, col rinvio alle regole proprie della comunione (art. 10 L. 633/1941 e art. 6 D.Lgs. 30/2005, che significativamente pone, al riguardo, il limite della compatibilità). La peculiarità delle situazioni giuridiche che l’ordinamento ricollega alla creazione intellettuale risulta, poi, notevolmente accentuata dall’intreccio dei profili patrimoniali, concernenti il relativo sfruttamento, con quelli morali, legati alla rivendicazione della qualità di autore dell’opera (c.d. diritto morale d’autore) o dell’invenzione quale contenuto di un vero e proprio diritto della personalità (art. 20 L. 633/1941 e art. 62 D.Lgs. 30/2005) (IV, 2.7) 61. La eterogeneità degli interessi che si ricollegano ai fenomeni considerati (ed al cui bilanciamento è finalizzato l’intervento del legislatore) si rispecchia nella diversità delle fonti legislative che, in continuo fermento, li regolano. Proprio per l’importanza assunta da una simile regolamentazione, essa costituisce materia di indagine di specifiche discipline (diritto d’autore, diritto industriale). Si tratta di una fenomenologia refrattaria, per la novità dei caratteri con cui emerge nella realtà, ad ogni tentativo di ricostruzione sistematica ai fini della relativa disciplina. La stessa distinzione di fondo operata dal codice civile tra la materia del diritto di autore sulle opere dell’ingegno letterarie e artistiche (artt. 2575 ss.) e quella delle invenzioni industriali (artt. 2584 ss.), rispecchiata nella legislazione speciale (L. 633/1941, concernente il diritto di autore; D.Lgs. 30/2005, codice della proprietà industriale) 62, finisce col 60 Si pensi, in proposito, per le invenzioni industriali, all’onere di attuazione e alla licenza obbligatoria per mancata attuazione su istanza di chi sia interessato all’attuazione (artt. 69 ss. D.Lgs. 30/2005). 61 Come tale disciplinato diversamente, sotto il profilo della legittimazione a farlo valere dopo la morte dell’autore, dai diritti patrimoniali che l’ordinamento ricollega alla creazione intellettuale (art. 23 L. 633/1941 e art. 62 D.Lgs. 30/2005). 62 È opportuno almeno ricordare l’estensione della materia regolata in tali testi normativi. L’art. 1 D.Lgs. 30/2005 specifica che “ai fini del presente codice, l’espressione proprietà industriale comprende marchi ed altri segni distintivi, indicazioni geografiche, denominazioni di origine, disegni e modelli, invenzioni, modelli di utilità, topografie dei prodotti a semiconduttori, informazioni aziendali riservate e nuove varietà vegetali”. La L. 633/1941, nella sua vigente formulazione, considera protette “le opere dell’ingegno di carattere creativo che appartengono alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, alla architettura, al teatro ed alla cinematografia, qualunque sia il modo o la forma di espressione. Sono altresì protetti i programmi per elaboratore … nonché le banche di dati che per la scelta o la disposizione del materiale costituiscono una creazione intellettuale dell’autore” (art. 1, più in dettaglio specificato dall’art. 2). Tale ultima legge, tra i “diritti connessi all’esercizio del diritto di autore”, regola anche i diritti concernenti: la produzione di fonogrammi; l’emissione radiofonica e televisiva; le opere cinematografiche o audiovisive; l’interpretazione ed esecuzione artistica; i

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mostrare i propri limiti di fronte a fenomeni del tutto nuovi, come quelli legati alle tecnologie informatiche. Così, in relazione al software, controverso è stato l’inquadramento della sua regolamentazione, discussa restando la scelta legislativa di disciplinare i programmi per elaboratore nel contesto della materia delle opere dell’ingegno regolate dalla legislazione sul diritto di autore (D.Lgs. 29.12.1992, n. 518: artt. 64 bis ss. L. 633/1941) 63.

bozzetti di scene teatrali; le fotografie; la corrispondenza epistolare ed il ritratto; il titolo, le rubriche, l’aspetto esterno dell’opera, gli articoli e le notizie. 63 Per restare nel campo dei fenomeni di meno chiaro inquadramento, anche la protezione delle banche dati ha trovato collocazione nel contesto delle materie disciplinate dalla L. 633/1941 (artt. 64 quinquies ss., con la relativa novellazione da parte del D.Lgs. 6.5.1999, n. 169), non diversamente da quella delle opere del disegno industriale “che presentino di per sé carattere creativo e valore artistico” (art. 2, n. 10, aggiunto dal D.Lgs. 2.2.2001, n. 95).

CAPITOLO 2

ACQUISTO E TUTELA DELLA PROPRIETÀ Sommario: 1. Modi di acquisto. – 2. Occupazione. – 3. Invenzione. – 4. Accessione. – 5. Unione e commistione. Specificazione. Accessioni fluviali. – 6. Azioni a difesa della proprietà. Azione di rivendicazione. – 7. Altre azioni a tutela della proprietà. – 8. Azioni di nunciazione.

1. Modi di acquisto. – La disciplina dei modi di acquisto rappresenta uno dei profili fondamentali della regolamentazione generale dell’istituto della proprietà. Alla relativa determinazione, in una con quella dei modi di godimento e dei limiti, non a caso allude l’art. 422 Cost. come strumento idoneo ad assicurarne la funzione sociale e la diffusione generalizzata dell’accesso 1. L’art. 922 traccia il quadro dei modi di acquisto della proprietà, offrendone un elenco (“per occupazione, per invenzione, per accessione, per unione e commistione, per usucapione, per effetto di contratti, per successione a causa di morte”) di carattere non tassativo, come è chiarito dal rinvio finale agli “altri modi stabiliti dalla legge”. Il codice accomuna nell’elencazione modi di acquisto a titolo originario e modi di acquisto a titolo derivativo 2, non tutti caratteristici della sola proprietà, ma anche di ogni altro diritto (o, come nel caso della usucapione, dei soli diritti reali di godimento su cosa altrui). Tra i modi di acquisto non menzionati dall’art. 922, basti pensare, nel contesto della disciplina codicistica, alla fruttificazione e all’acquisto in buona fede del possesso di beni mobili (art. 1153). Sono almeno da ricordare, poi, l’aggiudicazione all’asta giudiziaria, nonché i trasferimenti coattivi di carattere giudiziale (come, ad es., quello previsto, in materia di fondo patrimoniale, dall’art. 1713), ovvero quelli basati su provvedimenti amministrativi (espropriazione, requisizione, confisca, prelazione artistica). Pare il caso di ricordare come la distinzione tra modi di acquisto a titolo originario e modi di acquisto a titolo derivativo (II, 4.7) sia basilare, data la diversità dei principi di fondo che li governano. Modi di acquisto a titolo originario sono quelli in cui l’acquisto del diritto in capo al soggetto non dipende dalla precedente titolarità del diritto in capo ad un altro soggetto. Modi di acquisto a titolo derivativo sono quelli in cui, invece, vi è una tale dipendenza dell’acquisto dal diritto di un altro soggetto, che ne era precedente1 Si ricordi come, ai sensi dell’art. 472, risulti in particolare favorito l’accesso, attraverso il risparmio, “alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese”. 2 Per titolo si intende correntemente la fattispecie cui l’ordinamento ricollega l’acquisto del diritto (II, 4.7).

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mente titolare (vi è, cioè, una trasmissione del diritto dal precedente al nuovo titolare). Decisivo risulta che l’ordinamento consideri o meno rilevante il collegamento tra la nuova situazione di titolarità e la precedente. La rilevanza, negli acquisti derivativi (e, rispettivamente, l’irrilevanza in quelli originari), di un simile collegamento (ossia la realizzazione, con gli acquisti derivativi, di un fenomeno di trasmissione del diritto, che è tecnicamente definito successione) 3 determina, con riferimento ad essi, l’operatività del principio per cui nessuno può trasmettere ad altri un diritto che non ha o un diritto di contenuto più ampio di quello di cui risulti titolare (nemo plus iuris in alium tranferre potest quam ipse habet), nonché del principio secondo il quale i difetti e le vicende pregiudizievoli (nullità, annullabilità, rescissione, risoluzione) concernenti il titolo del diritto di colui che lo trasmette si ripercuotono – almeno in linea di massima – sulla posizione dell’acquirente (resoluto iure dantis resolvitur et ius accipientis). A ciò consegue la difficoltà della prova del diritto di proprietà (VI, 2.6), almeno ove il soggetto non possa dimostrare di avere acquistato a titolo originario. In caso di acquisto a titolo derivativo, infatti, non è sufficiente la dimostrazione dell’idoneità (della mancanza, cioè, di difetti) del titolo del proprio acquisto, ma occorre analoga dimostrazione con riguardo all’acquisto del proprio dante causa e, via via, ininterrottamente fino a un acquisto a titolo originario (che, per così dire, rappresenta il solido aggancio della catena dei trasferimenti successivi dello stesso diritto). Non a caso, al riguardo, si parla di probatio diabolica e l’ordinamento, come si avrà modo di vedere, facilita il compito di chi voglia dimostrare il proprio diritto di proprietà attraverso la disciplina del possesso e dei suoi effetti (in particolare, ai fini dell’usucapione, quale fondamentale modo di acquisto a titolo originario). Come accennato, accanto all’usucapione (la quale, oltre che della proprietà, è modo generale di acquisto a titolo originario dei diritti reali di godimento su cosa altrui), l’art. 922 – che si riferisce anche all’acquisto a titolo derivativo mediante il contratto e la successione a causa di morte – contempla, come modi di acquisto a titolo originario peculiari della proprietà, l’occupazione, l’invenzione, l’accessione, la specificazione, l’unione o commistione. Nel presente capitolo saranno esaminati esclusivamente questi ultimi, rinviando l’approfondimento della usucapione al capitolo quinto (dedicato al possesso ed ai suoi effetti) e lo studio del contratto e della successione a causa di morte, rispettivamente, alla Parte VIII e alla Parte XII.

2. Occupazione. – L’occupazione costituisce forse il modo di appropriazione primigenio: il comportamento di materiale impossessamento, ricorrendo le condizioni previste dall’art. 923, produce l’acquisto della proprietà della cosa. Suscettibili di occupazione sono le cose mobili che non sono di proprietà di alcuno 3 La successione avviene tra il soggetto che trasmette il diritto (autore o dante causa) ed il soggetto che acquista il diritto (successore o avente causa). La successione può essere inter vivos (vi allude l’art. 922 riferendosi al contratto) o mortis causa (vi allude l’art. 922 riferendosi alla successione a causa di morte). Può riguardare situazioni giuridiche determinate (a titolo particolare) o l’insieme delle situazioni giuridiche patrimoniali (trasmissibili) facenti capo a un soggetto (a titolo universale). Nel concetto di acquisto a titolo derivativo si comprende anche la costituzione di diritti reali limitati su cosa altrui da parte del proprietario: diritti nuovi, ma il cui acquisto dipende pur sempre dal diritto di cui sia titolare un altro soggetto (successione costitutiva).

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(art. 9231). Non possono, quindi, acquistarsi per occupazione gli immobili, i quali, ove non siano di proprietà di alcuno, spettano al patrimonio dello Stato (art. 827). Oltre all’attività di materiale apprensione (adprehensio) della cosa, si reputa necessaria, ai fini dell’acquisto della proprietà sulla cosa, l’intenzione di appropriarsi della cosa stessa, escludendone tutti gli altri (animus occupandi). L’occupazione, valendo l’accennata intenzione a qualificare un comportamento materiale del soggetto, si ritiene rientrare tra i c.d. atti reali (o operazioni materiali), a loro volta inquadrati tra gli atti giuridici in senso stretto (II, 4.5). È da escludere che si tratti di un atto negoziale (e, in particolare, di un negozio di attuazione), dato che non occorre la volontarietà dell’effetto giuridico dell’acquisto della proprietà sul bene, tale effetto ricollegandosi al materiale impossessamento. Ne consegue la sufficienza, perché l’effetto in questione si produca (come, del resto, perché si producano, più in generale, gli effetti dell’impossessamento ai fini dell’acquisto del possesso), della capacità di intendere e di volere (c.d. capacità naturale) del soggetto 4. Possono costituire oggetto di occupazione solo le res nullius, tali perché mai appartenute ad alcuno, ovvero le cose abbandonate (res derelictae) con l’intenzione di dismetterne la proprietà (animus derelinquendi) 5. L’art. 9232, accanto alle cose abbandonate, contempla “gli animali che formano oggetto di caccia e di pesca”. Per la caccia, è da ricordare come la fauna selvatica sia considerata (dalla L. 11.2.1992, n. 157, sulla linea della L. 27.12.1977, n. 968) costituire, nel suo complesso, patrimonio indisponibile dello Stato, essendone, peraltro, consentita l’appropriazione di singoli capi da parte di privati, ma solo nei limiti in cui l’attività venatoria risulti permessa (a stretto rigore, quindi, si dovrebbe, al riguardo, parlare di – consentita, secondo quanto è da ritenere anche per fiori, frutti selvatici e funghi esistenti sul fondo altrui – occupazione di cosa altrui: res alicuius). Regole peculiari esistono per l’acquisto della proprietà di sciami di api (art. 924), animali mansuefatti (art. 925), colombi, conigli e pesci di peschiera (art. 926) 6. 4 Cass. 18-6-1986, n. 4072, ha avuto modo di chiarire che “sia nell’occupazione che nell’atto di acquisto del possesso è indispensabile la volontà del soggetto di esercitare la propria signoria sulla cosa mentre l’effetto è determinato direttamente dalla legge in relazione a circostanze che esulano del tutto dall’elemento interiore o spirituale e cioè al fatto che non esista alcun diritto di proprietà alieno sul bene oggetto dell’adprehensio”. Quest’ultima “postula la mera volontà del soggetto di esercitare la propria signoria sulla cosa, mentre l’effetto giuridico che ne deriva ex lege non è affatto voluto dall’agente”. Ne consegue che, “per l’acquisto del possesso (come per l’occupazione), non è affatto necessaria la capacità di agire ma basta la capacità naturale di intendere e di volere”. Negli atti giuridici in senso stretto, tra cui rientra l’ipotesi in questione, è richiesta “la consapevolezza e la volontà dell’agente e perciò si distinguono dai fatti giuridici in senso stretto”, ma “gli effetti derivano direttamente dalla legge e non sono affatto stabiliti dalla volontà privata”, come, invece, nei negozi giuridici, in cui “gli effetti sono quelli cui è diretta la volontà dell’agente”. Dato che “per acquistare il possesso è sufficiente la capacità di intendere e di volere (capacità naturale)”, Cass. 3-12-2004, n. 22776, sottolinea che di essa “può essere dotato in concreto anche il minore di età”. 5 Posto che l’abbandono assume la portata di modo di estinzione della proprietà dei beni mobili, discussa è la possibilità, con analogo effetto, della semplice rinuncia al diritto di proprietà sui beni immobili (VI, 1.2). 6 Pare interessante ricordare come la prospettiva dell’impossessamento, quale modo di acquisto di una situazione giuridica tutelata rispetto al bene, abbia trovato applicazione, di fronte alla carenza di una specifica disciplina legislativa, per assicurare l’utilizzazione esclusiva delle bande di trasmissione radio-televisiva, configurando la giurisprudenza, al riguardo, una situazione di possesso, “suscettibile di spoglio o molestia” (Cass. 6-10-1987, n. 7440) (VI, 5.3).

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3. Invenzione. – La disciplina dell’invenzione concerne le cose smarrite (o sottratte al proprietario o da lui dimenticate), ancora oggetto, quindi, di proprietà, a differenza di quelle abbandonate. Anche tale modo di acquisto della proprietà interessa solo le cose mobili. Chi trova la cosa non ne acquista la proprietà, ma ha l’obbligo di restituirla al proprietario e, se non lo conosce, di consegnarla immediatamente al sindaco del luogo in cui la ha ritrovata, indicando le circostanze del ritrovamento (art. 927) 7. Il sindaco procede a pubblicizzare il ritrovamento nei modi indicati dall’art. 928 e, trascorso un anno da tale formalità, il ritrovatore acquista la proprietà della cosa trovata (o ha diritto al relativo prezzo, se vi è stata necessità di venderla) (artt. 9291). Il ritrovatore, in caso di restituzione della cosa al proprietario, ha diritto a chiedere un premio, pari al decimo della somma (o del valore della cosa) ritrovata (fino a euro 5,16, per il sovrappiù il premio è del ventesimo) (art. 930). È da tenere presente che, agli effetti della disciplina relativa all’invenzione, al proprietario sono equiparati – in sua eventuale sostituzione – il possessore e il detentore (art. 931). Dettagliate norme particolari (cui rinvia espressamente l’art. 933) sono dettate dal codice della navigazione (artt. 510 ss. e 993 ss.) relativamente ai relitti marini e aerei, il cui ritrovamento non ne comporta mai l’acquisto della proprietà da parte del ritrovatore, ma solo il diritto ad un premio. Una disciplina specifica è anche dettata, ad es., per le cose ritrovate in treno (D.P.R. 30.3.1961, n. 197). Un particolare regime è previsto per il ritrovamento del tesoro. Tale è considerata qualunque cosa mobile di pregio, nascosta o sotterrata, di cui nessuno possa provare di essere proprietario (art. 9321), in conseguenza del tempo trascorso. Il tesoro appartiene al proprietario del fondo in cui si trova (e al proprietario è parificato il solo enfiteuta: art. 959). Il ritrovatore, a condizione che il ritrovamento sia avvenuto casualmente 8, ha diritto alla metà del tesoro. La stessa regola vale anche in caso di scoperta del tesoro in una cosa mobile altrui (si pensi all’ipotesi dell’occultamento in un doppiofondo di un armadio) (art. 9322). Per il ritrovamento di oggetti di interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, dispone dettagliatamente la legislazione specificamente dettata in tale materia (art. 9323: artt. 42 ss. D.Lgs. 22.1.2004, n. 42). 4. Accessione. – L’accessione può essere intesa, in senso lato, come modo di acquisto della proprietà in conseguenza dell’unione di altre cose alla propria, in considerazione del carattere principale riconosciutogli. È in tale prospettiva – come espansione, cioè, del7 Il ritrovatore si considera detentore della cosa (nell’interesse altrui), salvo che non la trattenga consapevolmente con l’intenzione di farla propria: in tal caso egli è possessore in mala fede. Il ritrovatore che non rispetti gli obblighi previsti dall’art. 927 (nonché dall’art. 932, relativo al ritrovamento del tesoro), oltre che responsabile di un illecito civile (con conseguente risarcimento del danno), era ritenuto suscettibile di essere punito ai sensi dell’art. 647 c.p. (appropriazione di cose smarrite, del tesoro e di cose avute per errore o caso fortuito). Tale disposizione è stata abrogata dall’1 del D.Lgs. 15.1.2016, n. 7, risultando i relativi comportamenti qualificati (solo) come illeciti civili, ai sensi dell’art. 41, lett. d, e, f, assoggettati anche ad una “sanzione pecuniaria civile” (su cui, X, 1.1 e 2.1), “oltre che alle restituzioni e al risarcimento del danno secondo le leggi civili” (art. 31). 8 È dubbio se possa essere considerato tale il ritrovamento a seguito di ricerca, eventualmente sulla base di indagini e di documenti reperiti in proposito.

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la proprietà (e, quindi, nel contesto delle relative “disposizioni generali”) – che il fenomeno era regolato dal codice civile del 1865 (art. 443), specificandolo, poi, con riferimento all’incorporazione di cose mobili ad immobili, all’unione di cose mobili tra loro, alle conseguenze dello scorrere delle acque sugli immobili. Il codice civile vigente ha riordinato radicalmente la materia, disciplinando l’accessione tra i “modi di acquisto della proprietà” e concentrando l’attenzione soprattutto sul problema dell’incorporazione di mobili ad immobili, cui si riferisce la nozione di accessione intesa in senso stretto. Con una norma che costituisce un vero e proprio principio generale, l’art. 934 dispone che “qualunque piantagione, costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo”. È fatto salvo quanto previsto nelle disposizioni successive per bilanciare, nelle diverse situazioni ipotizzabili, gli interessi del proprietario del fondo e del proprietario delle cose incorporate (tenendo presente anche l’eventualità di incorporazione ad opera di un soggetto diverso dal proprietario del fondo e dal proprietario delle cose incorporate) (artt. 935, 936 e 937). È fatta salva, poi, la possibile esclusione dell’operatività del principio nel caso che “risulti diversamente dal titolo”. Tale esclusione può dipendere dalla legge (come si ritiene, ad es., nel caso delle opere fatte sul fondo servente dal proprietario del fondo dominante, ai sensi dell’art. 1069), ma, soprattutto, da una volontà espressa con un contratto, che attribuisca al costruttore la proprietà delle cose realizzate (con la costituzione di un diritto di superficie, ai sensi dell’art. 952: VI, 3.2). L’acquisto evidentemente si fonda su un giudizio di preminenza, in linea di principio, del bene immobile rispetto ai mobili che vi possono essere incorporati e al risultato dell’opera: bilanciamento degli interessi in gioco, invero, non sempre rispondente alle dinamiche economiche attuali, che vedono nel terreno su cui si elevano solo una componente del valore delle costruzioni. Per aversi l’acquisto, l’incorporazione deve essere stabile. L’acquisto, inoltre, è definitivo, quali che siano, cioè, le successive vicende interessanti le cose incorporate 9. Le disposizioni successive disciplinano, in dettaglio, le ipotesi di opere fatte dal proprietario del suolo con materiali altrui (art. 935), di opere fatte da un terzo con materiali propri (art. 936) 10, di opere fatte da un terzo con materiali altrui (art. 937). La disciplina, estremamente articolata, privilegia indubbiamente la posizione del proprietario del fondo, alla luce dell’esigenza generale di evitare che le pretese contrapposte degli interessati finiscano col risolversi in una perdita di rilevanti valori economici, in quanto già comunque realizzatisi attraverso l’attività produttiva dell’opera. Peraltro, la prevalenza del valore da riconoscere all’opera realizzata rispetto al suolo, 9

Si ritiene che l’acquisto a favore del proprietario del suolo operi automaticamente (Cass. 12-6-1987, n. 5135; 10-3-2011, n. 5739; 29-10-2018, n. 27412), conseguendo esso alla incorporazione, da intendere quale fatto giuridico in senso stretto (II, 4.4). Cass., sez. un., 16-2-2018, n. 3873, ha precisato che “la costruzione realizzata dal comproprietario sul suolo comune diviene di proprietà comune agli altri comproprietari del suolo, salvo contrario accordo, traslativo della proprietà del suolo o costitutivo di un diritto reale su di esso, che deve rivestire la forma scritta ad substantiam”. 10 Viene precisato che il regime ivi previsto “si applica ai soli casi di opere realizzate da soggetto che non abbia con il proprietario del fondo alcun rapporto giuridico, di natura personale o reale” (Cass. 18-12-2015, n. 25449, che ne esclude, quindi, l’applicabilità nel caso in cui “la fonte dell’attività costruttiva era costituita da un’obbligazione nascente da contratto, sebbene successivamente caducato”, dovendosi allora applicare la disciplina dell’art. 1458).

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sia pure a determinate condizioni, è alla base della regola enunciata dall’art. 938 per l’ipotesi di occupazione di porzione di fondo attiguo. Se nella costruzione di un edificio si sconfina nel terreno attiguo, occupandone in buona fede una porzione, l’autorità giudiziaria, tenuto conto delle circostanze, può attribuire al costruttore la proprietà dell’edificio e del suolo occupato (a condizione che il proprietario di quest’ultimo non abbia fatto opposizione entro tre mesi dall’inizio della costruzione) 11. L’opera e il suo valore sono riconosciuti prevalenti, insomma, sulle ragioni della proprietà del suolo (cui è conferita preminenza, in sostanza, solo nel caso di una tempestiva interruzione dell’attività di realizzazione dell’opera stessa): il principio dell’incorporazione funziona qui, allora, in termini sostanzialmente inversi rispetto alla regola generale e per questo si parla correntemente, al riguardo, di accessione invertita (l’opera, cioè, attrae la proprietà del suolo su cui insiste). Tale regola si applica solo ove sia una parte della costruzione ad occupare il fondo altrui (e non l’intera costruzione, applicandosi, in tal caso, invece, la regola dettata dall’art. 936 per la costruzione fatta con propri materiali sul suolo altrui). La parte in questione deve essere essenziale per l’idoneità della costruzione realizzata a svolgere la sua funzione (tale non sarebbe, ad es., un muro di cinta o un piazzale asservito alla costruzione per migliorarne l’uso) 12. Occorre, poi, che l’occupazione sia avvenuta in buona fede. Prevale l’opinione secondo cui, in questo caso, non operi la presunzione di buona fede prevista dall’art. 1147 (in materia di possesso, ma con una portata ritenuta di carattere generale). Il soggetto interessato all’acquisizione della proprietà del suolo occupato ha, quindi, l’onere di provare la propria buona fede 13. Il costruttore, infine, è tenuto a pagare al proprietario del suolo il doppio del valore del suolo occupato (con una soluzione considerata – nonostante le sue radici storiche – da taluno ingiustificata), oltre il risarcimento dei danni (ove il suolo residuo abbia subito un deprezzamento a seguito della sottrazione della parte occupata) 14. Alla prospettiva dell’accessione invertita si è ispirato (a partire dal 1983) un discusso – ma via via consolidatosi (sia pure con successive precisazioni, con un progressivo abbandono, peraltro, dell’impostazione originaria) – indirizzo giurisprudenziale tendente ad assicurare alla Pubblica Amministrazione l’acquisto della proprietà su beni immobili utilizzati per scopi di interesse pubblico, in caso di occupazione illegittima (cioè, in assenza di un provvedimento autorizzativo o nel caso in cui un tale provvedimento sia viziato e 11 L’attribuzione della proprietà avviene, su domanda del costruttore che abbia sconfinato, con una sentenza costitutiva, a seguito di una valutazione, da parte del giudice, dell’apprezzabilità dei contrapposti interessi in gioco (come è chiarito dall’espressione “tenuto conto delle circostanze”). 12 Cass. 14-12-2012, n. 23018, puntualizza che la possibile “attribuzione al costruttore della proprietà dell’opera realizzata e del suolo si riferisce esclusivamente alla costruzione di un edificio, cioè di una struttura muraria complessa idonea alla permanenza al suo interno di persone e di cose” (e non, quindi, di “opere diverse, quali un muro di contenimento o di divisione”: Cass. 16-9-2019, n. 22997). 13 Nel confermare che qui “la buona fede non è presunta, ma deve essere provata dal costruttore”, Cass. 10-1-2011, n. 345, si riferisce, ai fini della ricorrenza di “un ragionevole convincimento del costruttore di edificare sul proprio suolo”, “alla ragionevolezza dell’uomo medio” (e v. anche Cass. 12-4-2018, n. 9093). 14 L’orientamento nel senso di reputare “l’azione nascente dall’art. 938” esperibile anche “dallo stesso proprietario del suolo occupato per ottenere il pagamento dell’indennità”, risulta avallato da Cass. 14-2-2017, n. 3899, “in quanto il dominus soli abbia contemporaneamente domandato l’acquisto coattivo della proprietà del suolo in favore del costruttore convenuto (ferma l’opzione per la demolizione da parte di quest’ultimo”).

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successivamente annullato, ovvero quando, occupato d’urgenza un suolo privato per la costruzione di un’opera, l’occupazione stessa sia diventata illegittima per scadenza dei termini entro cui è prescritta l’emanazione del provvedimento definitivo di espropriazione). Si è parlato correntemente, al riguardo, di occupazione acquisitiva (o appropriativa) da parte della Pubblica Amministrazione, almeno fino al più recente tentativo di ricondurre la vicenda della occupazione sine titulo nell’alveo delle procedure ablative della proprietà privata, di cui all’art. 423 Cost. Tale controversa problematica ha determinato la necessità di ripetuti interventi del legislatore, anche a seguito di prese di posizione della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo 15. 15

A partire da una nota decisione (Cass., sez. un., 26-2-1983, n. 1464), la giurisprudenza ha ritenuto che la proprietà dell’immobile illegittimamente occupato si acquisti (a titolo originario) alla pubblica amministrazione, a seguito della sua radicale trasformazione e della conseguente irreversibile destinazione all’opera pubblica (che vale ad estinguere il diritto di proprietà del privato): trattandosi di un comportamento illecito, al privato spetta il risarcimento del danno, con prescrizione quinquennale. Tale indirizzo ha trovato recepimento da parte del legislatore, al fine di regolarne il profilo economico. Un primo criterio riduttivo del risarcimento del danno (L. 8.8.1992, n. 359 e L. 28.12.1995, n. 549) è stato reputato illegittimo da Corte cost. 2-11-1996, n. 369. Il legislatore è dovuto nuovamente intervenire, prima in via temporanea (L. 23.12.1996, n. 662), poi dando vita ad un nuovo assetto normativo complessivo della materia (art. 43 D.P.R. 8.6.2001, n. 327, t.u. in materia di espropriazione per pubblica utilità, intitolato alla “utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”). Con tale normativa è stata prevista l’emanazione di un atto di acquisizione da parte della P.A. e confermata espressamente la natura risarcitoria del credito del privato: l’ammontare del risarcimento dovuto al proprietario è stato fissato, in via generale, “nella misura corrispondente al valore del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità”. Cass., sez. un., 6-5-2003, n. 6853, ha concluso – anche in considerazione della distinzione operata dalla stessa Cassazione tra occupazione appropriativa e occupazione usurpativa (ricorrente quando nel comportamento della P.A. non sia ravvisabile l’esercizio di alcun potere amministrativo, data la carenza, originaria o sopravvenuta, di una dichiarazione di pubblica utilità: v. Corte cost. 11-5-2006, n. 191), con conseguenze differenti nei rapporti col privato – che l’istituto dell’occupazione appropriativa “si colloca in un contesto di regole sufficientemente chiare, precise e prevedibili” circa la posizione del privato ed il risarcimento che gli compete, pure sotto il profilo della prescrizione (quinquennale), avendo esso, da tempo, anche “trovato previsione normativa espressa”: con ciò ritenendo superata la situazione che la Corte eur. dir. uomo (30-5-2000) aveva considerato contrastare con la Conv. eur. dir. uomo (art. 1 del Protocollo addizionale n. 1, relativo al “diritto al rispetto dei propri beni”). La Corte europea dei diritti dell’uomo, peraltro (6-3-2007), ha continuato a reputare contraria alla Convenzione anche la nuova disciplina (introduttiva della c.d. acquisizione sanante e considerata soddisfacente da Cons. Stato, ad. plen., 29-4-2005, n. 2) di questo tipo di “espropriazione indiretta” e ciò, al fondo, per non poter essere considerato ammissibile permettere alla “amministrazione di trarre vantaggio dal suo comportamento illegale”. Sulla problematica è intervenuta, allora, Corte cost. 24-10-2007, n. 349, che ha dichiarato costituzionalmente illegittima la disciplina della L. 662/1996, precedente a quella vigente di cui all’art. 43 D.P.R. 327/2001, concludendo con l’affermazione di principio che “il giusto equilibrio tra interesse pubblico ed interesse privato non può ritenersi soddisfatto da una disciplina che permette alla pubblica amministrazione di acquisire un bene in difformità dallo schema legale e di conservare l’opera pubblica realizzata, senza che almeno il danno cagionato, corrispondente al valore di mercato del bene, sia integralmente risarcito”. Lo stesso art. 43 è stato, infine, dichiarato illegittimo da Corte cost. 8-10-2010, n. 293: pur risultando fondata tale dichiarazione sul contrasto con l’art. 76 Cost. (per avere il legislatore delegato ecceduto i limiti della delega conferitagli), la Corte non manca di esprimere dubbi circa la conformità del regime previsto ai principi della CEDU, evidenziando come “il legislatore avrebbe potuto … disciplinare in modi diversi la materia, ed anche espungere del tutto la possibilità di acquisto connessa esclusivamente a fatti occupatori, garantendo la restituzione del bene al privato, in analogia con altri ordinamenti europei”. Il legislatore è intervenuto nuovamente con l’art. 34 D.L. 6.7.2011, n. 98, conv. in L. 15.7.2011, n. 111, introducendo l’art. 42 bis nel D.P.R. 327/2001. Si prevede la possibilità di un provvedimento di acquisizione, solo, però, a seguito di una valutazione della ricorrenza di “attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico”, comparativamente con gli interessi del proprietario alla restituzione del bene (ed in “assenza di ragionevoli alternative”), con il riconoscimento di un indennizzo in misura pari al valore venale del bene, aumentato del dieci per cento o, in alcuni casi, del venti per cento (a titolo di liquidazione forfetaria del pregiu-

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dizio non patrimoniale; forfetariamente – nella misura del cinque per cento sul valore determinato del bene – è anche indennizzato, “se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno”, il pregiudizio conseguente alla pregressa occupazione senza titolo). Un simile modo di acquisizione – comunque non retroattiva (il passaggio del diritto di proprietà restando sospensivamente condizionato al pagamento delle somme dovute o al loro deposito) – del bene dovrebbe assumere, così, pure per la sua onerosità per la pubblica amministrazione, un carattere eccezionale. Anche alla luce della nuova disciplina (oltre che della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo), Cass. 14-1-2013, n. 705, ha ritenuto definitivamente da superare il “principio”, pur fino a tempi recenti ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, “secondo cui l’occupazione appropriativa per fini di pubblica utilità non seguita da espropriazione determina, comunque, l’acquisto della proprietà, in capo alla P.A., dell’area occupata per effetto della realizzazione dell’opera pubblica” (essendo “la realizzazione dell’opera pubblica in sé un mero fatto, non idoneo ad assurgere a titolo dell’acquisto”). Di fronte al carattere illecito dello spossessamento ed alla conseguente inammissibilità dell’acquisto dell’area da parte della P.A. (“anche quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità”), Cass., sez. un, 19-1-2015, n. 735, ha ribadito che “il privato ha diritto a chiederne la restituzione salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno”. Peraltro, Cass., sez. un., ord. 13-1-2014, n. 441, ha sollevato questione di legittimità costituzionale pure sulla nuova disciplina, reputando l’introdotto meccanismo di “procedimento espropriativo semplificato” – particolarmente in relazione alla discrezionalità lasciata alla stessa P.A. circa la scelta tra la restituzione del bene o il relativo acquisto – ancora lesivo della garanzia di cui all’art. 42 Cost. (anche relativamente alla natura ed ai criteri di liquidazione del previsto “indennizzo”). La questione è stata giudicata infondata da Corte cost. 30-4-2015, n. 71: rilevato trattarsi di “un istituto diverso da quello precedentemente disciplinato dall’art. 43” e tale da consentire “una tutela giurisdizionale parzialmente ‘conformata’, in modo da garantire comunque un serio ristoro economico”, la Corte ha ritenuto delineata dalla norma “una procedura espropriativa”, data la peculiarità della “situazione fattuale chiamata a risolvere”, “eccezionale”, la quale, “sebbene necessariamente ‘semplificata’ nelle forme, si presenta ‘complessa’ negli esiti”, “l’adozione del provvedimento acquisitivo” presupponendo “una valutazione comparativa degli interessi in conflitto” e risultando “consentita esclusivamente allorché costituisca l’‘extrema ratio’ per la soddisfazione di attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico”, al fine proprio di “eliminare definitivamente il fenomeno delle ‘espropriazioni indirette’” (sempre assistita, comunque, da uno “stringente obbligo motivazionale”, in ordine al non presentarsi “ragionevolmente possibile la restituzione, totale o parziale, del bene, previa riduzione in pristino”). L’intera vicenda è stata ripercorsa da Cons. Stato, sez. IV, 7-11-2016, n. 4636 (sulle tracce di Cons. Stato, ad. plen., 9-2-2016, n. 2), evidenziando come l’“illecito permanente” in cui si risolve la condotta dell’amministratore venga a cessare – con la conseguenza che ne derivano sul piano della “determinazione del quantum del risarcimento” – anche a seguito “della rinuncia abdicativa da parte del proprietario implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte dell’irreversibile trasformazione del fondo” (per la problematica della rinuncia abdicativa, VI, 1.2). E, “qualora il privato abdichi alla proprietà, il risarcimento del danno da mancato godimento del bene può essere chiesto per il periodo compreso tra l’inizio dell’occupazione e la proposizione della domanda risarcitoria che segna la perdita della proprietà” (Cass. 24-5-2018, n. 12961). Circa il carattere di danno in re ipsa di quello conseguente all’occupazione illegittima di un immobile (da quantificare “in base all’integrale valore di mercato del bene”: Cass. 7-9-2020, n. 18584) v., diversamente, Cass. 6-8-2018, n. 20545 (in senso favorevole) e Cass. 25-5-2018, n. 13071 (in senso contrario). Al riguardo, in un’ottica compromissoria, Cass. 20-11-2018, n. 29990 ha preferito parlare di “una presunzione iuris tantum” (e sostanzialmente in tal senso, con precisazioni, Cass. 7-7-2020, n. 18566). Peraltro, un radicale mutamento di prospettiva risulta impresso ora alla materia da Cons. Stato, ad plen., 20-1-2020, nn. 2 e 4. Facendo leva sulle indubbie problematicità della soluzione da ultimo accennata, in quanto tendente ad “attribuire al privato una sorta di diritto potestativo direttamente ricadente nella sfera giuridica dell’amministrazione”, si è concluso nel senso che “la rinuncia abdicativa del proprietario” non sia strumento atto a far cessare l’“illecito permanente dell’occupazione sine titulo”. L’unica soluzione possibile viene, allora, individuata nella piena – e non surrogabile – operatività del meccanismo di cui all’art. 42 bis, nella sua configurazione di “procedimento ablatorio sui generis”, ma, comunque, atto ad inserirsi nel quadro dell’art. 423 Cost., dovendo essere rimessa sempre all’amministrazione, nell’ottica dell’esercizio di un suo “potere-dovere” (“in ordine alla scelta finale, all’esito della comparazione degli interessi”), “il potere di valutare se apprendere il bene definitivamente” (ovviamente, “sulla base degli stringenti criteri motivazionali delineati dal 4° comma dell’art. 42 bis” e “verso la corresponsione dell’indennizzo parametrato ai criteri stabilito nel 1° comma”), “o restituirlo al privato” (“con salvezza, in entrambe le ipotesi, del diritto al risar-

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5. Unione e commistione. Specificazione. Accessioni fluviali. – Nella prospettiva più ampia dell’accessione, accennata all’inizio del paragrafo precedente, l’art. 939 disciplina, alludendo all’unione e commistione, il fenomeno dell’accessione di mobile a mobile. Se cose (mobili) appartenenti a diversi proprietari sono state unite o mescolate, in modo da formare un sol tutto, ma sono separabili senza notevole deterioramento, ciascuno conserva la proprietà della sua cosa e ha diritto a chiederne la separazione. Se le cose sono diventate inseparabili, la proprietà ne diventa comune in proporzione al valore delle cose spettanti a ciascuno (art. 9391). È da rilevare che la commistione, caratterizzata dalla perdita di identità delle cose, determina sempre l’inseparabilità (uova, farina e zucchero in un dolce). L’unione, invece, lasciando sussistere l’identità delle cose, può determinare una situazione di separabilità (pietra preziosa e anello) o di inseparabilità (infisso e vernice). La regola esposta non opera se una delle cose può essere considerata principale o vi è una notevole sproporzione di valore tra le cose: in tal caso il proprietario della cosa principale acquista la proprietà del tutto. Il proprietario della cosa principale deve corrispondere un indennizzo pari al valore della cosa che vi è unita o mescolata. Se, però, l’unione o la mescolanza sia avvenuta senza il suo consenso ad opera del proprietario della cosa unita o mescolata, l’indennizzo è pari alla somma minore tra l’aumento di valore della cosa principale ed il valore della cosa accessoria (art. 9392). Il codice ha disciplinato anche l’ipotesi della trasformazione della cosa ad opera dell’uomo. L’art. 940 parla, al riguardo, di specificazione. Se taluno ha adoperato una materia altrui per dar vita ad una cosa nuova, ne acquista la proprietà pagandone il prezzo al proprietario, salvo che il valore della materia sorpassi notevolmente il valore della mano d’opera. Solo in tal caso la proprietà della cosa, quale risultante dalla trasformazione della materia che gli apparteneva, spetta al proprietario di quest’ultima, il quale deve pagare il prezzo della mano d’opera. La disciplina del fenomeno risulta coerente con la valorizzazione del lavoro produttivo 16: è esso, infatti, ad attribuire alla materia, trasformandola, cimento dei danni per il periodo dell’occupazione illegittima e degli eventuali danni ulteriori”). Di conseguenza, per il privato inciso, escluso “il ricorso ad un istituto di natura prettamente privatistica, limitativo e derogatorio all’istituto dell’art. 42 bis” (“di chiara matrice pretoria”), l’unica via aperta resta quella di “compulsare la pubblica amministrazione, attraverso una correlativa istanza-diffida, all’esercizio del potere-dovere di porre comunque termine alla situazione di illecito permanente costituita dall’occupazione senza titolo e di ricondurla a legalità” (azionando, se del caso, “lo strumentario processuale efficace per reagire all’inerzia della pubblica amministrazione”). Anche a fronte della continuità dell’orientamento ora contestato nella giurisprudenza della Cassazione (da ultimo, Cass. 19-2-2020, n. 4252 e 18566/2020), una simile presa di posizione (pur dichiarandosi con essa “offerta al privato una tutela celere, concentrata e definitiva dell’interesse leso”), sarà chiamata, prevedibilmente, a confrontarsi con dubbi di legittimità costituzionale e di effettiva aderenza – rimettendo, in buona sostanza, proprio allo stesso autore del comportamento illecito ogni decisione – ai rilievi in precedenza avanzati dalla Corte eur. dir. uomo. Cass., sez. un., 20-7-2021, n. 20691, acclarata la “natura intrinsecamente indennitaria del credito vantato dal proprietario del bene e globalmente inteso dal legislatore, come un unicum non scomponibile nelle diverse voci”, ha confermato la generale competenza del giudice ordinario per “le controversie sulla determinazione e corresponsione dell’indennizzo dovuto” ai sensi dell’art. 42 bis (anche, quindi, con riferimento a quanto spettante per la pregressa occupazione senza titolo: la determinazione di una simile indennità “nella misura del cinque per cento sul valore venale del bene all’attualità” non viene reputata, comunque, “foriera di un deficit di tutela per le parti, avendo il legislatore previsto una clausola di salvaguardia che fa salva la prova di una diversa entità del danno”). 16 Non a caso, l’art. 468 cod. civ. 1865, nel quadro della generale valorizzazione della proprietà che caratterizzava il codice stesso, adottava la soluzione inversa (prevalendo, quindi, la prestazione della mano

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la qualità di cosa nuova (onde solo se il valore della materia sia notevolmente superiore a quello della mano d’opera impiegata la proprietà della prima prevale sul riconoscimento del lavoro) 17. L’accessione di immobile ad immobile è stata disciplinata dal codice – secondo una tradizione che affonda le sue radici nel diritto romano e che attesta la rilevanza che hanno, da sempre, avuto da noi i fenomeni idrogeologici – con riferimento alle c.d. accessioni fluviali. La materia è stata, peraltro, radicalmente innovata dalla L. 5.1.1994, n. 37, la quale ha attratto nella sfera del demanio pubblico, nella prospettiva di una più efficiente salvaguardia ambientale, taluni degli incrementi del suolo conseguenti all’azione dell’acqua sul suolo. Hanno ancora riflessi sulla proprietà privata, determinandone l’acquisto: l’alluvione, consistente nelle unioni di terra e negli incrementi che si formano progressivamente e impercettibilmente nei fondi rivieraschi di fiumi e torrenti (attribuiti, di regola, al proprietario del fondo: art. 941); l’abbassamento del livello di laghi e stagni che lasci scoperti terreni (la cui proprietà viene riconosciuta ai proprietari del lago o dello stagno: art. 943); l’avulsione, che consiste nel distacco, causato dalla corrente, di una parte considerevole e riconoscibile di un fondo rivierasco e nel relativo trasporto altrove (la proprietà ne è acquistata dal proprietario del fondo cui si è unita la parte staccata, il quale deve pagare al proprietario del fondo che ha subito l’avulsione un’indennità nella misura del maggior valore conseguito dal proprio fondo: art. 944). Appartengono al demanio pubblico: i terreni abbandonati dalle acque correnti che insensibilmente si ritirano da una riva portandosi sull’altra (come pure i terreni abbandonati da mare, laghi, lagune e stagni appartenenti al demanio pubblico: art. 942); le isole e le unioni di terra che si formano nel letto di fiumi o torrenti (art. 945); l’alveo abbandonato da fiumi e torrenti (art. 946).

6. Azioni a difesa della proprietà. Azione di rivendicazione. – Il codice disciplina, nello stesso capo, quattro azioni: l’azione di rivendicazione, l’azione negatoria, l’azione di regolamento di confini, l’azione per apposizione di termini. Tali azioni – tendenti a garantire le prerogative connesse alla titolarità del diritto – sono definite azioni petitorie, in contrapposizione alle azioni a difesa del possesso (azioni possessorie). Esse sono azioni reali, in quanto caratterizzate dalla esperibilità nei confronti di chiunque interferisca – impedendolo, contestandolo od ostacolandolo – con l’esercizio del diritto reale sulla cosa. Come tali si distinguono dalle azioni personali, che competono al titolare di un diritto di credito nei confronti del solo soggetto passivo, ove costui non tenga il comportamento attraverso cui si realizza l’interesse del primo 18. Vi sono, poi, due azioni riconosciute al d’opera sulla proprietà della materia solo se tale “da sorpassare di molto il valore della materia adoperata”: art. 470). 17 Si tende a ritenere che la specificazione produca l’effetto acquisitivo che gli è proprio indipendentemente dalla buona fede e dalla consapevolezza (e, a maggior ragione, dalla volontarietà) della trasformazione della materia altrui. L’attività umana sarebbe qui da prendere in considerazione solo quale forza materiale modificatrice dello stato delle cose preesistente e, quindi, come fatto giuridico in senso stretto. 18 Dubbio, peraltro, è diffusamente considerato, come si avrà modo di vedere, il carattere reale dell’azione di apposizione di termini (VI, 2.7). Carattere petitorio e reale ha anche l’azione confessoria, prevista a tutela dei diritti reali di godimento su cosa altrui (VI, 3.1).

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proprietario, al titolare di altro diritto reale di godimento su cosa altrui e al possessore: la denunzia di nuova opera e la denunzia di danno temuto (azioni di nunciazione). Fondamentale è l’azione di rivendicazione (rei vindicatio), disciplinata dall’art. 948. Essa può essere esercitata dal proprietario nei confronti di chiunque possieda o detenga la cosa, al fine di ottenerne la restituzione: come tale, essa rappresenta il prototipo dell’azione reale. Legittimato attivo è il proprietario che non sia in possesso del bene e oggetto dell’azione (c.d. petitum) è la condanna del convenuto (l’attuale possessore o detentore) 19 alla restituzione della cosa (posseduta o detenuta illegittimamente), previo accertamento del diritto di proprietà dell’attore 20. L’azione di rivendicazione è dichiarata imprescrittibile (art. 9483). Il codice, dunque, non sancisce esplicitamente il principio per cui la proprietà non si perde per inerzia del titolare, ma qualifica espressamente come imprescrittibile l’azione diretta al recupero, da parte del proprietario, delle sue prerogative rispetto al bene: con ciò, allora, indirettamente risultando sancita l’imprescrittibilità del diritto di proprietà, dato che una delle relative facoltà essenziali è rappresentata proprio dall’esperibilità dell’azione in questione. Il codice avverte, comunque, che, se l’azione di rivendicazione non si prescrive, ciò non esclude che altri possa acquistare per effetto del proprio possesso la proprietà per usucapione, prevalendo, di conseguenza, sul proprietario persistentemente inerte. L’art. 9481 precisa anche che, se il convenuto, dopo la domanda (e, quindi, nel corso del giudizio), abbia cessato, per fatto proprio, di possedere o detenere la cosa (cercando di sottrarsi all’obbligo di restituzione, ad es., cedendola ad altri), l’azione può essere proseguita nei suoi confronti e costui resta obbligato a recuperare la cosa stessa a proprie spese per l’attore o, in mancanza, a corrispondergliene il valore, oltre a risarcirgli il danno. Se, peraltro, il proprietario riesce a conseguire ugualmente la restituzione della cosa direttamente dal nuovo possessore o detentore, è tenuto a restituire al precedente possessore o detentore (contro cui aveva agito) la somma ricevuta in luogo di essa (art. 9482). Come si è dianzi accennato (VI, 2.1), la prova richiesta all’attore per la dimostrazione della proprietà si presenta difficile, almeno ove costui non possa dimostrare di avere acquistato a titolo originario. La dimostrazione di un proprio valido acquisto a titolo derivativo (ad es., per contratto o testamento) non è sufficiente, dati i ricordati limiti caratterizzanti tale tipo di acquisto: occorre, perciò, provare che, a sua volta, il dante causa abbia validamente acquistato da altri, e così via, risalendo fino ad un soggetto che abbia acquistato a titolo originario, cui riferire (e da cui far partire) la serie dei successivi (eventualmente nu19 Rilevante è solo che il soggetto contro cui si agisce sia attualmente possessore o detentore della cosa: costui potrà o meno opporre l’esistenza di un titolo alla base della sua situazione possessoria, ben potendosi anche limitare a far valere il proprio possesso in quanto tale (gravando in ogni caso sull’attore la dimostrazione del suo diritto di proprietà, con la conseguente illegittimità del possesso del convenuto). 20 Il proprietario può anche agire non per ottenere la restituzione della cosa, ma solo per rimuovere una situazione di incertezza sulla titolarità del diritto, con un’azione di (mero) accertamento della proprietà. In tal caso, la giurisprudenza, ove l’attore abbia insomma il possesso della cosa (ma non si tratti di “possesso acquistato con violenza o clandestinità, ovvero sulla cui legittimità sussista uno stato di obiettiva e seria incertezza”: Cass. 30-12-2011, n. 30606), lo ritiene “esonerato dall’onere della prova richiesta per la rivendicazione” (e tenuto, quindi, solo ad “allegare e provare il titolo del proprio acquisto”: Cass. 14-4-2005, n. 7777), “perché tale azione tende non già alla modifica di uno stato di fatto, ma solo alla eliminazione di uno stato di incertezza circa la legittimità del potere di fatto sulla cosa di cui l’attore è già investito” (Cass. 9-6-2000, n. 7898).

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merosi) trasferimenti (c.d. probatio diabolica) 21. L’ordinamento, comunque, facilita il compito di chi intende dimostrare il proprio diritto di proprietà, consentendo di far valere, quale modo di acquisto a titolo originario, l’intervenuta usucapione: ciò attraverso l’invocazione della successione nel possesso e dell’accessione del possesso (VI, 5.3), così da creare una continuità del possesso stesso – col conseguente cumulo dei periodi di relativo esercizio da parte dei successivi possessori – ai fini del completamento del tempo necessario per maturarla (ventennale o, in presenza delle richieste condizioni, decennale. Per i beni mobili l’onere probatorio risulta meno gravoso, per la possibile invocazione delle conseguenze dell’acquisto in buona fede del possesso, ai sensi dell’art. 1153) (VI, 5.6-7). È da tenere presente come l’accertamento della qualità di proprietario e la condanna alla restituzione siano inopponibili a chi abbia conseguito il possesso o la detenzione successivamente alla domanda (restando sempre salvo il ricordato obbligo del convenuto di recuperare la cosa o pagarne il valore). L’attore, però, ove si tratti di proprietà avente ad oggetto un bene immobile, potrà conseguire una simile opponibilità attraverso la trascrizione della domanda di rivendicazione (art. 2653, n. 1), assicurandosi, così, che la sentenza produca effetto pure nei confronti dei terzi aventi causa dal convenuto successivamente alla trascrizione stessa. Se la domanda non viene accolta (in particolare, per non essere stata ritenuta raggiunta la prova della proprietà), essa potrà essere successivamente riproposta anche nei confronti dello stesso convenuto (adducendo nuove prove). La sentenza, infatti, non è diretta ad accertare – e non vale a costituire giudicato sul punto – la legittimità del possesso (del convenuto), ma l’esistenza del diritto di proprietà (dell’attore).

7. Altre azioni a tutela della proprietà. – Al proprietario spetta anche l’azione negatoria. Egli può agire per far dichiarare l’inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa, quando abbia motivo di temerne pregiudizio (art. 9491). Se sussistono anche turbative o molestie, ne può chiedere la cessazione, oltre l’eventuale risarcimento del danno (art. 9492) 22. Essa, dunque, è esperibile (esclusivamente) contro chi affermi sulla cosa un diritto reale di godimento su cosa altrui (negatoria servitutis) 23. Si tratta essenzialmente di un’azione di accertamento (negativo), il cui oggetto, peraltro, può eventualmente ampliarsi a finalità 21 Si ritiene che il rigore di un simile principio risulti “attenuato in caso di mancata contestazione da parte del convenuto dell’originaria appartenenza del bene ad un comune dante causa, ben potendo in tale ipotesi il rivendicante assolvere l’onere probatorio su di lui incombente limitandosi a dimostrare di avere acquistato tale bene in base ad un valido titolo di acquisto” (Cass. 5-11-2010, n. 22598). Comunque, “la prova della proprietà dei beni immobili non può esser fornita con la produzione dei certificati catastali, i quali sono solo elementi sussidiari in materia di regolamento di confini ai sensi dell’art. 950” (Cass. 4-3-2011, n. 5257). 22 È da ricordare come essa si ritenga competere non esclusivamente al proprietario, ma anche all’enfiteuta e all’usufruttuario (art. 10122, secondo cui egli deve, comunque, chiamare in giudizio il proprietario). Al “titolare di un diritto reale di godimento sul fondo servente diverso da quello di proprietà” allude Cass. 15-5-2018, n. 11823. 23 Cass. 29-5-2001, n. 7277, precisa che l’azione “non soccorre il proprietario del bene nell’ipotesi in cui, ancorché si verifichi una molestia o un turbamento del possesso o godimento del bene medesimo, la turbativa non si sostanzi in una pretesa di diritto sulla cosa” (così anche Cass. 5-12-2018, n. 31382). Comunque, l’azione è esperibile anche in assenza “di atti materialmente lesivi della proprietà dell’attore … a fronte di inequivoche pretese reali affermate dalla controparte sulla stessa”, onde “far chiarezza al riguardo con l’accertamento dell’infondatezza di dette pretese” (Cass. 8-3-2010, n. 5569). Si esclude correntemente che essa possa essere esperita nei confronti di chi si presenti come titolare di un diritto di godimento di natura personale.

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di tipo inibitorio (in relazione ai comportamenti lesivi) e ripristinatorio (come la eliminazione delle opere lesive) 24. L’azione è imprescrittibile. La prova non è rigorosa come quella richiesta in materia di rivendicazione, bastando che l’attore fornisca la dimostrazione del proprio diritto sulla base di un valido titolo di acquisto (anche di carattere derivativo). Sarà il convenuto, ove intenda far valere la titolarità di un diritto limitativo di quello dell’attore (e da lui dimostrato), a dover fornire – secondo i principi generali in tema di distribuzione dell’onere della prova (art. 26972) – la prova dell’esistenza del suo preteso diritto 25. In caso di incertezza del confine tra due fondi, ciascuno dei proprietari può chiedere che il confine stesso sia fissato giudizialmente (art. 9501). Si tratta dell’azione di regolamento di confini (actio finium regundorum), che è anch’essa un’azione reale e imprescrittibile, con natura dichiarativa e ricognitiva 26. Essa presuppone, quindi, l’incertezza del confine (che può riguardare o meno una zona di terreno ben delimitata di cui sia incerta l’appartenenza) 27. L’azione in questione si distingue, quindi, da quella di rivendicazione, in quanto la contestazione non verte sul diritto di proprietà di ciascuno dei proprietari dei fondi finitimi, ma sulla delimitazione dei rispettivi fondi, in dipendenza di una situazione di relativa incertezza (oggettiva o soggettiva) 28. Ogni mezzo di prova risulta ammesso (art. 9502). Ci si è riferiti, in proposito, a testimonianze in ordine alla pregressa esistenza di termini o a consuetudini circa la reciproca posizione dei fondi. In mancanza di altri elementi, il giudice si attiene – quale prova, dunque, di natura solo sussidiaria – al confine delineato nelle mappe catastali (art. 9503) 29. Quella in esame è un’azione duplice, nella quale, cioè, entrambe le parti hanno reciprocamente l’onere 24

Alla possibile “condanna alla trasformazione o demolizione dell’opera”, allude Cass. 31-12-2014, n. 27564. È da sottolineare come, a differenza che con l’azione (possessoria) di manutenzione (VI, 5.8), l’attore ottenga qui una tutela definitiva, in quanto non limitata alla conservazione della sua situazione possessoria, ma fondata sull’accertamento del suo diritto. 25 Per l’attore, infatti, “l’azione non mira all’accertamento dell’esistenza della titolarità della proprietà, ma a chiedere la cessazione dell’attività lesiva, mentre al convenuto incombe l’onere di provare l’esistenza del diritto di compiere tale attività” (Cass. 27-12-2004, n. 24028; 15-10-2014, n. 21851; 28-3-2019, n. 8694). 26 Si ritiene che tale azione spetti, oltre cha al proprietario, a chiunque agisca come titolare di un diritto reale di godimento su cosa altrui (enfiteusi, servitù, usufrutto, uso). 27 Si parla, al riguardo, secondo la ricostruzione storica della figura, di actio finium regundorum qualificata, in contrapposizione a quella simplex, ricorrente, invece, ove la contestazione non concerna una zona di terreno determinata. 28 Viene sottolineato che “la natura dell’azione non muta per il fatto che l’attore chieda il rilascio dell’area di sua proprietà occupata dal convenuto”, essendo “l’effetto recuperativo una conseguenza dell’accertamento del confine” (9-10-2006, n. 21686; 8-3-2010, n. 5569; 22-2-2011, n. 4288, che ne trae la conseguenza del non costituire domanda nuova la richiesta di rimessione in pristino dello stato dei luoghi, in caso di “opere illegittimamente realizzate dal convenuto nella porzione di terreno posseduta senza alcun titolo”; Cass. 28-3-2019, n. 8693, parla di un “intrinseco effetto recuperatorio” dell’azione). Dalla diversa natura delle due azioni (rivendica e regolamento di confini) deriva la conseguenza che solo in caso di “conflitto tra i rispettivi titoli di proprietà … sull’attore incombe l’onere di fornire la prova del suo diritto di proprietà in forza di un titolo di acquisto originario” (Cass. 24-4-4-2018, n. 10066). 29 Si precisa che, peraltro, “qualora si tratti di fondi appartenenti originariamente come unico appezzamento ad un solo proprietario, deve necessariamente farsi riferimento agli atti di frazionamento allegati ai contratti di vendita o di divisione” (e, in caso di risultanze discordanti, “al confine indicato nel tipo di frazionamento indicato nel titolo di acquisto formatosi e trascritto in epoca più risalente”): Cass. 23-6-2020, n. 12322.

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di provare la rispettiva estensione dei fondi, indipendentemente, insomma, da quale dei proprietari abbia, in concreto, preso l’iniziativa tendente a rimuovere la situazione di incertezza (non si applica, quindi, il principio per cui actore non probante reus absolvitur). Mentre con l’azione in precedenza esaminata si tende ad eliminare una situazione di incertezza in ordine ai confini dei fondi, con l’azione di apposizione di termini ciascuno dei proprietari, se tra i fondi contigui mancano o sono diventati irriconoscibili i termini, ha diritto di chiedere che essi siano apposti o ristabiliti a spese comuni (art. 951). Essa presuppone, quindi, la certezza dei confini, ma la mancanza attuale di segni (cippi, pali, siepi, reti metalliche) che li attestino con chiarezza (evidentemente al fine di evitare future incertezze e contestazioni) 30. È anch’essa considerata (pur se non concordemente) un’azione duplice, in quanto può essere intentata indifferentemente da uno qualunque dei proprietari dei fondi contigui e l’interesse che tende a soddisfare è comune (onde la suddivisione a metà delle spese per l’apposizione dei termini). Discussa è la natura di tale azione. Si ritiene diffusamente che essa abbia carattere personale, tendendo semplicemente a costringere il vicino a partecipare alla spesa necessaria per l’apposizione dei termini. Si è rilevato, peraltro, a supporto del suo carattere reale, che il proprietario, prendendone l’iniziativa, esercita una facoltà insita nel suo diritto di proprietà (quella, cioè, che venga assicurata una visibile e certa delimitazione dei fondi, al cui esercizio consegue il sorgere dell’obbligo dell’altro proprietario di contribuirvi paritariamente). La competenza per materia spetta attualmente al giudice di pace (art. 71, n. 1, c.p.c.).

8. Azioni di nunciazione. – Come accennato, le azioni di nunciazione competono al proprietario (pur se non si trovi nel possesso del bene), al titolare di altro diritto reale di godimento su cosa altrui e al possessore (ma, almeno secondo l’opinione dominante, non al detentore). Tali azioni sono due: denunzia di nuova opera e denunzia di danno temuto. Sono azioni cautelari, indirizzate, cioè, a prevenire il pericolo di danni derivanti da opere intraprese o da cose esistenti su altri fondi. Quanto alla denunzia di nuova opera, chi abbia ragione di temere che da una nuova opera (come costruzioni, demolizioni, scavi), intrapresa da altri su un fondo proprio o altrui, sia per derivare danno ad una sua cosa può denunziare all’autorità giudiziaria la nuova opera, purché questa non sia terminata e non sia trascorso un anno dal suo inizio (art. 11711). Non occorre, dunque, che il realizzarsi del danno sia certo, considerandosi sufficiente un timore ragionevole che esso si verifichi 31. A seguito di una sommaria cognizione della situazione, l’autorità giudiziaria può vietare la continuazione dell’opera, ovvero permetterla, prescrivendo, in ogni caso, le cautele che ritenga opportune (art. 11712). Si ritiene che, con ciò, il legislatore alluda alla prestazione di una cauzione pecuniaria da parte di chi abbia avuto provvisoriamente ragione, così da garantire la controparte nel caso che, nel prosieguo, siano ricono30 Secondo Cass. 30-4-2014, n. 9512, tale azione presupponendo la certezza del confine, “implicitamente contiene l’azione di regolamento del confine, e in questa si modifica, ove, per le eccezioni del convenuto, insorga contrasto circa la linea di confine, lungo la quale i termini devono essere apposti”. 31 L’azione può essere proposta “anche con riferimento ad opere che, pur non immediatamente lesive, siano suscettibili di essere ritenute fonte di un futuro danno in forza dei caratteri obiettivi che potrebbero assumere se condotte a termine” (Cass. 30-11-2012, n. 21491).

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sciute le sue ragioni (nel caso di sospensione, quindi, a carico di chi abbia agito, per il risarcimento del danno eventualmente derivante al convenuto in dipendenza della sospensione stessa, qualora le ragioni della denunzia si rivelino infondate nella decisione definitiva; nel caso di autorizzazione alla continuazione, invece, a carico del convenuto, per la demolizione o riduzione dell’opera e per il risarcimento del danno che ne soffra il denunziante, se costui ottenga una sentenza favorevole, nonostante la permessa continuazione) (art. 11712). Con la denunzia di danno temuto, chi abbia ragione di temere che da qualsiasi edificio, albero o altra cosa derivi il pericolo di un danno grave e prossimo (che l’evento temuto possa, cioè, verificarsi da un momento all’altro) ad una sua cosa può denunziare il fatto all’autorità giudiziaria e ottenere, secondo le circostanze, che si provveda per ovviare al pericolo (art. 11721) 32. Tale azione non presuppone, cioè, come la precedente, un’attività di trasformazione della situazione dei luoghi, bensì una situazione dei luoghi dalla quale si ha ragione di temere un danno, ove non si intervenga su di essa 33. Il giudice dispone qui di poteri più ampi, avendo una estesa discrezionalità nella scelta delle misure reputate maggiormente idonee a far cessare la situazione di pericolo (anche, ad es., abbattimenti e demolizioni). Non è posto alcun termine per la esperibilità dell’azione in questione, la quale può, quindi, essere esercitata finché perduri il pericolo che ne costituisce il presupposto. È anche previsto che l’autorità giudiziaria, qualora ne sia il caso, possa disporre idonea garanzia per i danni eventuali che il denunziante potrebbe subire (art. 11722). Le azioni di nunciazione si caratterizzano per la presenza di due fasi. La prima ha carattere cautelare (in quanto rivolta ad assicurare gli effetti della futura decisione con l’emanazione di provvedimenti provvisori e urgenti), mentre la seconda, di merito (tendente ad accertare l’esistenza o meno dei presupposti della situazione giuridica per cui sia stato chiesto l’intervento cautelare del giudice), distinta dalla prima, potrà essere di natura petitoria o possessoria, a seconda della natura della situazione giuridica dedotta in giudizio a fondamento dell’azione 34.

32 La condizione dell’azione “non deve individuarsi in un danno certo o già verificatosi, bensì anche nel (solo) ragionevole pericolo che il danno si verifichi” (Cass. 28-5-2004, n. 10282). 33 Come evidenzia Cass. 9-10-1997, n. 9783, “l’azione di danno temuto postula un rapporto di cosa a cosa, nel senso che il fondo altrui deve costituire pericolo per quello proprio”. 34 Per Cass. 5-7-1999, n. 6950, “le azioni di nunciazione (artt. 1171 e 1172 c.c.), che possono avere natura possessoria o petitoria, si articolano in una prima fase di natura cautelare, che si esaurisce con il provvedimento provvisorio, ed in una seconda che si svolge secondo le regole di un ordinario giudizio di cognizione” (di “natura petitoria o possessoria a seconda che la domanda risulti volta a perseguire la tutela della proprietà o del possesso”: Cass. 26-1-2006, n. 1519). Si precisa che, esauritasi la fase cautelare, “il successivo processo di cognizione richiede un’autonoma domanda di merito” (Cass. 31-8-2018, n. 21491).

CAPITOLO 3

DIRITTI REALI DI GODIMENTO SU COSA ALTRUI Sommario: 1. La categoria. La tutela. – 2. Superficie. – 3. Enfiteusi. – 4. Usufrutto. – 5. Uso e abitazione. – 6. Servitù prediali. Caratteri e tipologia. – 7. Servitù coattive (o legali). – 8. Servitù volontarie. – 9. Usi civici e proprietà collettive. – 10. Oneri reali.

1. La categoria. La tutela. – Si è visto come, nel quadro dei diritti assoluti, la categoria dei diritti reali valga ad abbracciare, da una parte, la proprietà, dall’altra, i diritti reali su cosa altrui, relativamente ai quali si distingue, poi, a seconda del tipo di interesse tutelato, tra diritti reali di godimento e diritti reali di garanzia (II, 3.5). I primi conferiscono al titolare la possibilità di esercitare sulla cosa di proprietà di altri facoltà di godimento che tipicamente rientrano nel contenuto del diritto di proprietà, di cui, conseguentemente, determinano una compressione. I secondi (pegno, ipoteca), invece, conferiscono al creditore che ne sia titolare il diritto di essere soddisfatto, con preferenza rispetto agli altri creditori, sul valore del bene oggetto del relativo diritto (il loro approfondimento, quindi, trova più opportuna collocazione nel contesto dello studio degli strumenti che l’ordinamento pone a disposizione del creditore per assicurare la realizzazione del suo interesse: VII, 6.4 ss.). È con riferimento al diritto di proprietà (e in contrapposizione al suo carattere di pienezza), col quale vengono a concorrere nello sfruttamento delle utilità che il bene risulta atto ad offrire, che i diritti reali di godimento su cosa altrui – in quanto conferiscono al relativo titolare solo talune determinate facoltà di godimento – sono correntemente definiti come diritti reali limitati o parziari. Soprattutto tale ultima qualificazione, invero, potrebbe far credere che, a seguito della loro costituzione, una parte delle facoltà in cui si articola il contenuto della proprietà venga da essa scorporata e trasferita al titolare del nuovo diritto. In realtà, la proprietà, pur in presenza di simili diritti, conserva inalterata la sua essenza, come risulta attestato dal fatto che, ove il diritto reale limitato venga meno (per una qualsiasi delle cause in cui ciò può verificarsi), essa si riespande automaticamente nella sua pienezza. Ecco perché, per rappresentare la situazione conseguente alla costituzione di un diritto reale limitato 1, in relazione alla proprietà ed 1 Si sottolinea che il contratto cui si ricollega l’acquisto della titolarità di un diritto reale su cosa altrui non ha carattere traslativo, non comportando il trasferimento di facoltà del proprietario, ma derivativo-costitutivo: esso vale, cioè, a costituire ex novo il diritto, sia pure quale derivazione (e di qui il carattere derivativo e non originario di tale costituzione) dalla proprietà e in dipendenza dell’esercizio dei poteri che ne costituiscono il contenuto (II, 4.7).

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alla relativa concorrenza sul bene, correttamente si allude ad una compressione del diritto di proprietà, il cui carattere di elasticità consiste, appunto, in questa sua attitudine a riespandersi ed a riappropriarsi di ogni potenzialità di sfruttamento delle utilità del bene, venute meno le situazioni giuridiche che ne determinano una limitazione (VI, 1.2) 2. Proprio per il risolversi i diritti reali limitati in una stabile compressione del diritto di proprietà, si è storicamente affermato, in materia, il principio della inammissibilità della creazione di nuove figure ad opera dei privati (numerus clausus), in stretta connessione con quello della tipicità dei relativi contenuti 3. Caratteristica del diritto reale – e, quindi, anche di quelli su cosa altrui – è, come accennato (II, 3.5), l’immediatezza, in quanto al titolare è consentito di realizzare il suo interesse direttamente sulla cosa, attraverso l’esercizio delle facoltà e dei poteri conferiti dall’ordinamento rispetto alla cosa stessa (per questo è riconosciuta una corrispondente situazione di possesso). L’inerire il diritto reale alla cosa (c.d. inerenza del diritto reale) vale a conformare stabilmente – e nei confronti della generalità dei consociati – l’assetto delle utilità che la cosa è atta ad offrire (e che a ciascuno dei titolari di diritti concorrenti su di essa è consentito trarre). Non si tratta, allora, solo dell’esigenza di assicurare la concentrazione in un soggetto, il proprietario, delle decisioni rilevanti per lo sfruttamento della cosa (con la valorizzazione della nozione di proprietà come libertà riconosciuta al soggetto rispetto al bene stesso, punto di forza dell’ideologia economico-sociale costituente il fondamento delle codificazioni ottocentesche): alla base del principio di tipicità sembra effettivamente (e persistentemente, nonostante i diffusi dissensi) porsi la opportunità che esclusivamente al legislatore sia consentito dar vita a modelli di diritti del tipo in questione, a seguito del necessario bilanciamento, secondo schemi frutto di scelte rientranti nella sua competenza, delle posizioni soggettive riconosciute rispetto alla cosa. Che alle parti non sia consentito dar vita a diritti reali diversi da quelli previsti e disciplinati dall’ordinamento – pur in mancanza di una esplicita preclusione in tal senso – pare conseguire anche dal principio dell’art. 13722, per cui “il contratto non produce effetti rispetto ai terzi che nei casi previsti dalla legge”: in una incidenza sulla posizione dei terzi si risolve, indubbiamente, la costituzione di un diritto reale, in quanto ad essi per definizione opponibile (col dovere di astensione che ne deriva). Liberi restano gli interessati, peraltro, sulla base della loro autonomia contrattuale, di costituire, rispetto al bene, i più svariati vincoli di carattere (non reale ma) personale, con efficacia meramente obbligatoria e, quindi, limitata ai propri rapporti 4. 2 È per questo che, nel caso in cui la situazione di proprietario e quella di titolare di un diritto reale limitato si riuniscano nella stessa persona, il proprietario non eserciterà le facoltà (già) costituenti il contenuto di quest’ultimo come titolare di esso, ma in quanto proprietario, verificandosi il fenomeno dell’estinzione del diritto reale limitato per confusione (il diritto reale limitato, in quanto per definizione su cosa altrui, non può, infatti, in tale ipotesi, continuare a sussistere). 3 Costituisce, in effetti, affermazione tuttora corrente quella per cui – in considerazione del “principio di tipicità necessaria dei diritti reali” (Cass. 26-2-2008, n. 5034) – “i diritti reali di godimento costituiscono un numerus clausus” (Cass. 26-9-2000, n. 12765). Rilevato, allora, doversi considerare “fermo nella giurisprudenza il principio della tipicità dei diritti reali, con quello sovrapponibile del numerus clausus”, la relativa persistente vitalità risulta ribadita, ad esito di un esame critico dell’indirizzo critico (tendente ad ammettere, cioè, “diritti reali creati per contratto”), da Cass., sez. un., 17-12-2020, n. 28972. 4 In tal caso, peraltro, non potendosi conseguire, in materia di beni immobili, il risultato dell’opponibilità erga omnes con la trascrizione, dato il principio di tipicità degli atti assoggettabili a tale forma di pubblicità (XIV, 2.7).

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Nella prospettiva della limitazione della perpetuità dei vincoli di carattere reale sui beni, all’imprescrittibilità del diritto di proprietà si contrappone la previsione di una piena operatività della prescrizione con riguardo ai diritti reali limitati, ove il relativo mancato esercizio sia protratto per un periodo di venti anni: ciò con la conseguente riespansione del diritto del proprietario nella pienezza delle relative facoltà a seguito dell’estinzione del diritto che lo comprimeva. Un simile effetto (correntemente identificato come consolidazione) oltre che ricollegarsi alla scadenza del termine finale (nel caso di costituzione del diritto a tempo determinato), può ritenersi discendere (automaticamente) anche dalla espressa rinunzia da parte del titolare (la quale richiede la forma scritta sotto pena di nullità, art. 1350, n. 5, ed è soggetta a trascrizione, art. 2643, n. 5; v. anche XIII, 2.3). I diritti reali limitati, inoltre, si estinguono per confusione, quando nella medesima persona si riunisce la titolarità della proprietà e di uno di tali diritti (come nel caso in cui, in tema di servitù, il proprietario del fondo servente acquisti la proprietà di quello dominante). Si tratta, infatti, di situazioni giuridiche che assumono significato proprio rispetto al diritto del proprietario (diritti su cosa altrui), quali relativi limiti, con la conseguenza dell’inconcepibilità della contestuale titolarità della proprietà e del diritto che la limita (nemini res sua servit). La tutela del titolare dei diritti reali limitati è tradizionalmente affidata all’azione confessoria, la quale tende a fare riconoscere l’esistenza del diritto stesso, data l’assolutezza dei diritti in questione (tutelati, quindi, erga omnes), tanto nei confronti del proprietario, quanto nei confronti di chiunque ne contesti l’esercizio. Tale azione (petitoria e reale: VI, 2.6) risulta espressamente prevista solo in materia di servitù prediali (art. 1079), ma la sua portata viene considerata generalizzabile ed estesa, appunto, alla tutela di tutti i diritti reali su cosa altrui (quasi che la legislazione, a proposito delle servitù, ne abbia inteso disciplinare il prototipo) 5. I diritti reali limitati, inoltre, sono suscettibili di tutela possessoria, attraverso l’esercizio delle relative azioni (risultando ammesso il c.d. possesso di diritti, 11401: VI, 5.1). Il codice civile disciplina, nell’ordine, superficie, enfiteusi, usufrutto, uso, abitazione e servitù prediali. Un simile ordine pare dettato da una motivazione logico-sistematica, dato che alle prime due figure (superficie ed enfiteusi) si riconnettono, anche sul piano storico, particolari forme di proprietà (o di situazioni ad essa in larga misura assimilabili).

2. Superficie. – Il fenomeno che con la disciplina del diritto di superficie il legislatore ha inteso regolare è quello della proprietà delle costruzioni separata dalla proprietà del suolo su cui insistono. Si tratta, cioè, di una divisione orizzontale della proprietà, in deroga al principio di fondo che governa l’estensione (in senso verticale) della proprietà immobiliare: il principio (su cui si fonda l’accessione come modo di acquisto della proprietà: VI, 2.4), enunciato dall’art. 934, per cui tutte le costruzioni (come pure le piantagioni e, in genere, le opere) che insistono sul suolo appartengono al proprietario. Principio, questo, già prospettato nel codice civile del 1865 come derogabile, con la conseguenza che dottrina e giurisprudenza ammettevano la possibilità di una pro5 La Relaz. cod. civ., n. 514, ricorda come il codice civile del 1865 addirittura non prevedesse espressamente tale azione – anche se tradizionalmente ammessa a tutela dei diritti reali limitati – neppure in materia di servitù. Circa la necessaria prova attraverso “un titolo derivativo ad substantiam proveniente dal proprietario del fondo preteso servente o da un suo dante causa”, Cass. 2-5-2013, n. 10238.

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prietà divisa, appunto, per piani orizzontali. Proprio le esigenze economiche che spingevano ad una simile soluzione hanno indotto il legislatore a disciplinare espressamente il fenomeno 6, che affonda, peraltro, le sue radici nel diritto romano e in quello intermedio. Il codice distingue due situazioni riferibili alla figura del diritto di superficie. L’art. 9521 prevede la costituzione, da parte del proprietario del suolo, del diritto di fare e mantenere una costruzione al di sopra del suolo a favore di altri, che ne acquista la proprietà. Si parla, a tale riguardo, di concessione di costruzione (ius ad aedificandum), quale diritto reale di godimento su cosa altrui. A seguito dell’effettuazione della costruzione, il titolare del diritto in questione (superficiario) acquista la proprietà della costruzione. Tale proprietà, in quanto separata dalla proprietà del suolo e consentita dall’esistente diritto di superficie (da cui, quindi, dipende e che viene, per così dire, ad incorporarsi con la proprietà della costruzione), è definita proprietà superficiaria 7. Ai sensi dell’art. 9522, poi, è consentito al proprietario di una costruzione già esistente di alienarla separatamente dalla proprietà del suolo su cui essa insiste, determinando, così, la situazione di proprietà superficiaria (la quale, comunque, comporta implicitamente l’attribuzione del relativo diritto di superficie da cui dipende). La costituzione di un diritto di superficie può riguardare anche costruzioni al disotto del suolo altrui (art. 955) (come talvolta si verifica, ad es., per le cantine). Non è ammessa, invece, una proprietà delle piantagioni separata da quella del suolo (art. 956), per il possibile pregiudizio che si è ritenuto poterne derivare all’efficienza dell’agricoltura ed al suo sviluppo. La costituzione può essere fatta a tempo indeterminato o determinato. In tale ultimo caso, allo scadere del termine, a seguito della estinzione del diritto di superficie, il proprietario del suolo diventa proprietario della costruzione (art. 953), riprendendo ad operare, in sostanza, il principio dell’accessione, non più paralizzato dall’esistenza del diritto di superficie. La costituzione a tempo determinato si presenta particolarmente utile, da una parte, nel caso in cui vi sia un interesse del proprietario a non spogliarsi in modo tendenzialmente perpetuo della possibilità di dare una nuova destinazione al suolo (anche al fine di sfruttarne nuove potenzialità economiche) 8; dall’altra, quando le esigenze del superficiario siano legate ad una situazione dei luoghi soggetta a mutamenti nel tempo, influenti sul loro possibile sfruttamento (si pensi alle costruzioni relative a distributori di carburanti o al servizio di piste di sci). Il diritto in questione può essere acquistato per contratto o per testamento: nella prima ipotesi 9, trattandosi di diritto reale relativo ad un immobile, il contratto dovrà avere 6 Le ragioni dell’intervento legislativo sono chiarite nella Relaz. cod. civ., n. 444, ove si allude alla “importanza dell’istituto, che ha avuto tanta accresciuta applicazione nell’edilizia moderna”, con chiaro riferimento alla crescente importanza, nell’edilizia, degli edifici divisi per piani di proprietà individuale di differenti soggetti, insistenti su un suolo normalmente di proprietà comune (art. 1117) (VI, 4.2). 7 Proprio tale dipendenza della proprietà superficiaria dall’esistenza del diritto di superficie e dalla relativa concessione di costruzione induce a preferire la tesi secondo cui la proprietà stessa si acquisti a titolo derivativo (e non originario). Cass. 17-10-2013, n. 23593, per differenziare le due figure, evidenzia che “l’usufrutto è un diritto reale limitato nel tempo e nelle facoltà, mentre la superficie può essere perpetua ed attribuisce al superficiario facoltà dominicali piene e stabili”. 8 L’istituto della superficie (con durata fino a novantanove anni) è stato, così, utilizzato per consentire, su suoli di proprietà comunale, la costruzione di edifici residenziali (L. 22.10.1971, n. 865). 9 Il contratto potrà essere a titolo gratuito od oneroso, prevedendo un corrispettivo. Tale corrispettivo si ritiene da taluni possa assumere la forma di un canone periodico, anche di carattere perpetuo (solarium). Ciò è

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la forma scritta, sotto pena di nullità (art. 1350, n. 2), ed è soggetto a trascrizione (art. 2643, n. 2). È discussa la possibilità di una usucapione del diritto di superficie (e, in particolare, della proprietà superficiaria), dato che il possesso della costruzione (realizzata o già esistente) sembra implicare quello del suolo e, quindi, l’usucapione anche della proprietà relativa 10. Quanto alle conseguenze dell’estinzione del diritto di superficie per scadenza del termine, è previsto, da un lato, che essa comporti l’estinzione dei diritti reali eventualmente costituiti dal superficiario sulla costruzione (si pensi ad un usufrutto); dall’altro, che i diritti gravanti sul suolo si estendano alla costruzione, con la sola esclusione della ipoteca (art. 9541, che rinvia anche all’art. 28161). I contratti di locazione stipulati dal superficiario durano solo per l’anno in corso alla scadenza (art. 9542). Il diritto di superficie non si estingue, salvo patto contrario, in conseguenza del perimento della costruzione (art. 9543). Si prescrive, per effetto del non uso protratto per venti anni, il diritto di fare la costruzione sul suolo altrui (art. 9544), evidentemente in quanto considerato diritto reale di godimento su cosa altrui. Da ciò deriva che il superficiario, la cui costruzione – da lui edificata sulla base del diritto concessogli o acquistata separatamente dalla proprietà del suolo – sia perita, può, entro tale limite di tempo, anche ricostruire sul suolo altrui. Il perimento della costruzione, cioè, facendo venire meno la relativa proprietà superficiaria (per sua natura, trattandosi di proprietà, imprescrittibile), determina una sorta di riviviscenza del diritto di superficie come diritto di fare la costruzione sul suolo altrui, con conseguente necessità per il superficiario, onde evitarne l’estinzione per prescrizione, di provvedere tempestivamente ad un suo esercizio (effettuando una nuova costruzione).

3. Enfiteusi. – L’istituto della enfiteusi, di origine romana e molto diffuso per lo sfruttamento delle terre nei tempi e nei luoghi in cui dominava il latifondo, fu radicalmente escluso dal code civil, il quale vi vedeva il residuo di una organizzazione economico-produttiva da superare, in quanto legata a modelli di proprietà diversi da quello, caratterizzato dalla libertà da vincoli eccessivi, che intendeva privilegiare. Fu disciplinato, invece, pur con un certo sfavore, dal codice civile del 1865, che lo conservò anche in aderenza alla sua persistente diffusione in alcune zone del paese. Il codice civile del 1942 intese rivitalizzare l’enfiteusi, ritenendola utile nell’interesse generale 11, se opportunamente disciplinata in modo tale da realizzare un adeguato bilanciamento tra gli interessi delle parti (concedente ed enfiteuta), così da renderne attraente la costituzione. La legislazione più recente, nella prospettiva di un aperto favore per la posizione del lavoratore-coltivatore (e, quindi, nel quadro della nuova legislazione agraria), ha finito, modificandone profondamente la disciplina codicistica, con l’emarginare l’istituto, promovendo l’estinzione delle enfiteusi ancora in corso (a beneficio della piena proprietà da parte dell’enfiteuta-coltivatore) 12. espressamente previsto dalla disciplina dell’istituto (Erbbaurecht) in Germania (nel codice civile e nella legislazione successiva), dove l’istituto ha trovato un più ampio favore. 10 Si sottolinea, al riguardo, che conseguentemente ipotizzabile sarebbe solo una usucapione avente a proprio fondamento l’invocazione di un titolo, come nel caso di quella abbreviata decennale (art. 11592). 11 Tale interesse generale viene individuato, nella Relaz. cod. civ., n. 447, in quello “del miglioramento dei fondi e dell’incremento della produzione nazionale”. 12 In materia, sono da ricordare, in particolare, la L. 22.7.1966, n. 607, e la L. 18.12.1970, n. 1138 (le quali

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È da tenere presente come l’enfiteusi, pur finalizzata essenzialmente all’organizzazione dell’assetto produttivo – in situazioni caratterizzate dall’opportunità del relativo miglioramento – dei fondi rustici (e come tale concepita e disciplinata dal codice civile: enfiteusi rustica), si ritenga potere avere come oggetto anche fondi urbani (enfiteusi urbana o edificatoria) 13, per assicurarne lo sfruttamento edilizio (cui pare, comunque, meglio attagliarsi lo strumento del diritto di superficie). Il codice non definisce la enfiteusi, pur regolando minuziosamente i vari aspetti del relativo rapporto e dichiarando inderogabili diverse tra le norme dettate in materia (art. 9572): norme alcune delle quali, comunque, abrogate o modificate dalla legislazione successiva. Dalla disciplina in questione si ricavano i tratti essenziali della figura, che corrispondono, del resto, alla sua configurazione tradizionale: il proprietario (concedente) cede il godimento di un immobile (in linea di massima, come accennato, un fondo rustico) ad un altro soggetto (enfiteuta), che acquista su di esso facoltà e poteri sostanzialmente corrispondenti a quelli spettanti al proprietario, con l’obbligo di migliorare il fondo e di pagare un canone. L’art. 9591 esplicitamente riconosce all’enfiteuta “gli stessi diritti che avrebbe il proprietario” su frutti, tesoro e sottosuolo (l’art. 9592 estende il diritto dell’enfiteuta anche alle eventuali accessioni). Non c’è da meravigliarsi, quindi, che sia da sempre materia di discussione se, in considerazione delle prerogative accordategli, il proprietario in senso sostanziale (in quanto titolare della situazione soggettiva preminente sul bene) possa essere identificato nel concedente o nell’enfiteuta, non a caso ambedue definiti come titolari di un vero e proprio dominio sulla cosa (dominio diretto il proprietario-concedente, denominato anche direttario, dominio utile l’enfiteuta, denominato anche utilista). La durata dell’enfiteusi può essere perpetua o temporanea. La durata minima è fissata, comunque, in venti anni, essendosene ritenuta una inferiore non rispondente alle finalità (anche di carattere generale) dell’istituto (art. 958). L’enfiteuta ha, innanzitutto, l’obbligo di migliorare il fondo. Significativamente, tale obbligo è considerato per primo dall’art. 9601, in quanto strettamente connesso con la funzione economica stessa dell’istituto (essenzialmente destinato, appunto, a consentire un miglioramento produttivo dei fondi, con beneficio per l’agricoltura). Inoltre, l’enfiteuta ha l’obbligo di pagare un canone, consistente in una somma di danaro o in una quantità fissa di prodotti naturali (non, quindi, proporzionata alla produzione complessiva), senza poterne mai pretendere una remissione o riduzione in conseguenza di eventi concernenti la produzione (art. 9602). Tale canone tende ad essere – pur non senza contrasti – considerato quale ipotesi di onere reale (VI, 3.10). Prima di esaminare ulteriormente la disciplina vigente, pare opportuno sottolineare come la conformazione del rapporto (ed il conseguente bilanciamento degli interessi delle parti) sia stata radicalmente alterata dalla soppressione (con la L. 1138/1970) dei primi tre commi dell’art. 971, che precludevano l’affrancazione del fondo per almeno venti hanno rivoluzionato, ad esclusivo beneficio dell’enfiteuta-coltivatore, la disciplina dell’istituto), nonché la L. 14.6.1974, n. 270, cui si aggiungono numerosi interventi della Corte costituzionale. 13 Le enfiteusi urbane sono state prese in considerazione, in particolare, dalla L. 1138/1970, per estendere ad esse, nella stessa prospettiva seguita per le enfiteusi rustiche, restrittivi criteri di determinazione dei relativi canoni: criteri, peraltro, difficilmente giustificabili in materia di rapporti legati non all’agricoltura ma all’edilizia (e dichiarati, almeno parzialmente, illegittimi dalla Corte costituzionale).

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anni e prima dell’effettuazione dei miglioramenti pattuiti, nonché dalla modificazione (con la L. 607/1966) dell’art. 9722, che faceva prevalere la devoluzione sull’affrancazione in caso di grave inadempimento dell’enfiteuta ai suoi obblighi. Nella stessa prospettiva, si inserisce la soppressione dell’art. 962 (con la L. 607/1966), il quale prevedeva i criteri per la revisione periodica del canone, che il legislatore ha sostituito con la fissazione di coefficienti di rivalutazione del tutto inidonei ad assicurare un ragionevole adeguamento dei canoni alla realtà economica (come tali, dichiarati illegittimi dalla Corte costituzionale, per contrasto con l’art. 42 Cost., a salvaguardia della posizione del proprietario). L’enfiteusi può essere costituita per contratto o testamento. Nel caso di contratto, esso richiede la forma scritta sotto pena di nullità (art. 1350, n. 2) ed è soggetto a trascrizione (art. 2643, n. 2). L’enfiteuta (a cui carico sono le imposte e gli altri pesi gravanti sul fondo: art. 964) può disporre del proprio diritto sia per atto tra vivi che per testamento (art. 9651) (nel caso di contratto, esso è soggetto alle stesse regole del contratto costitutivo della enfiteusi). Nell’atto costitutivo può essere pattuito il divieto di cessione per atto tra vivi per un tempo non maggiore di venti anni (art. 9653) 14. Nell’ipotesi di alienazione del proprio diritto da parte dell’enfiteuta, il nuovo enfiteuta resta obbligato in solido col precedente per il pagamento dei canoni non soddisfatti (art. 9671). Non è ammessa, invece, la subenfiteusi (art. 968). In quanto possessore, sono ovviamente esperibili da parte dell’enfiteuta le azioni possessorie. Il concedente ha diritto di richiedere la ricognizione del proprio diritto da chi si trova nel possesso del fondo enfiteutico un anno prima del compimento del ventennio (art. 9691): ciò per evitare al proprietario la perdita del suo diritto, in conseguenza dell’eventuale usucapione altrui (si ricordi, infatti, come l’attività dell’enfiteuta rispetto al bene sia difficilmente distinguibile da quella di un proprietario) 15. Sono espressamente previste, come cause di estinzione dell’enfiteusi, il perimento totale del fondo (art. 9631, che disciplina, nei commi successivi, le conseguenze del perimento parziale), nonché la prescrizione per non uso protratto per venti anni (art. 970). Alla cessazione dell’enfiteusi, all’enfiteuta sono dovuti rimborsi per i miglioramenti apportati al fondo e per le addizioni fatte (art. 975). Per le locazioni concluse dall’enfiteuta è richiamato il regime di quelle concluse dall’usufruttuario (art. 977: esse continuano fino alla scadenza, ma non oltre il quinquennio dalla cessazione dell’enfiteusi). Nello schema dell’enfiteusi, assumono un ruolo centrale, quali modi di cessazione del rapporto, con effetti opposti, l’affrancazione e la devoluzione. a) Il diritto di affrancazione (o riscatto) è il potere dell’enfiteuta di conseguire la proprietà del fondo, mediante la corresponsione al concedente di una somma di danaro. Circa la natura di tale diritto, è controverso se si tratti di un diritto potestativo, ritenendo senz’altro ricollegati alla manifestazione unilaterale di volontà dell’enfiteuta i relativi effetti, ovvero – ove si ammetta la categoria – di un diritto potestativo giudiziale (II, 3.6), dato che la L. 607/1966 ne disciplina l’esercizio in via giudiziale, con un provvedimento 14 L’art. 9654 dispone che, in caso di alienazione compiuta contro il divieto, l’enfiteuta non è liberato dai suoi obblighi verso il concedente, restandovi tenuto in solido con l’acquirente. 15 Le spese dell’atto di ricognizione sono a carico del concedente (art. 9692). Circa la natura di tale atto, è discusso se si tratti di una dichiarazione di scienza o di un negozio di accertamento. Esso, in ogni caso, si ritiene faccia piena prova, tra le parti, della esistenza e del contenuto del rapporto.

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che “dispone … l’affrancazione” (art. 44). Se l’affrancazione viene esercitata consensualmente, essa richiede la forma scritta (art. 1350, n. 6). Il favore per l’affrancazione, col conseguimento della proprietà del fondo da parte del coltivatore-enfiteuta, risulta marcatamente accentuato nella legislazione successiva al codice, alterando in modo decisivo l’equilibrio tra la posizione di tale soggetto e quella del concedente. Ai sensi dell’art. 9722, l’affrancazione prevale attualmente in ogni caso sulla devoluzione, a prescindere dalla gravità degli inadempimenti dell’enfiteuta, e non può essere neppure mai ostacolata da una clausola risolutiva espressa (art. 973). Inoltre, il diritto di affrancazione può essere fatto valere indipendentemente da qualsiasi considerazione della pregressa durata del rapporto e dall’effettuazione dei miglioramenti (come in precedenza stabilito dalla parte abrogata dell’art. 971). Quanto all’ammontare della somma da corrispondere ai fini del suo esercizio, la determinazione riferita alla capitalizzazione del canone annuo sulla base dell’interesse legale (venti volte, in considerazione dell’originario tasso legale del cinque per cento) è stata sostituita da una capitalizzazione riferita a quindici volte l’ammontare del canone, a sua volta determinato con criteri palesemente estranei alla realtà economica 16. b) Al concedente compete il diritto di devoluzione, cioè il potere di far cessare il rapporto di enfiteusi sul fondo (art. 972). Dovendo essere esercitato in via giudiziale, un simile potere viene considerato un diritto potestativo giudiziale. La devoluzione può essere chiesta in due casi: se l’enfiteuta deteriora il fondo o non lo migliora; se l’enfiteuta è in mora nel pagamento di due annualità del canone. Come si è accennato, la domanda di devoluzione, attualmente, non preclude mai all’enfiteuta il diritto di affrancare il fondo.

4. Usufrutto. – L’usufrutto ha rappresentato, in passato, un modello diffuso di configurazione giuridica dei modi di godimento dei beni (e ciò giustifica la minuziosità della sua disciplina). La sostanziale dissociazione che esso comporta (sia pure in misura minore dell’enfiteusi) tra la proprietà del bene e le facoltà di relativo godimento – con la drastica compressione della prima, ma anche con l’impossibilità, per il titolare dell’usufrutto, di avvalersi delle opportunità offerte dall’eventuale evoluzione della realtà economica – rende l’istituto largamente inadeguato alle esigenze di un’economia dinamica come l’attuale, facendone risultare alquanto marginale il ruolo 17. Tale situazione emerge con chiarezza dall’art. 981, relativo al contenuto del diritto di usufrutto. L’usufruttuario ha diritto di godere della cosa, traendone tutte le utilità che es16

I successivi criteri di ragguaglio del canone, con i relativi riflessi sul computo del capitale di affrancazione, individuati dal legislatore nelle LL. 607/1966, 1138/1970 e 270/1974, sono stati via via sconfessati dalla Corte costituzionale (in particolare, 7-4-1988, n. 406, nonché, più di recente, 23-5-1997, n. 143), per la mancata previsione “di coefficienti di maggiorazione idonei a mantenerne adeguata, con una ragionevole approssimazione, la corrispondenza con la effettiva realtà economica”. Corte cost. 20-5-2008, n. 160, ha concluso analogamente in materia di enfiteusi urbane. Sul problema dell’individuazione dei criteri di determinazione del capitale di affrancazione per le enfiteusi (costituite prima del 28.10.1941) con canone originariamente pattuito in natura, Cass. 26-5-2014, n. 11700. 17 Non a caso, la Relaz. cod. civ., n. 466, sottolinea che le “innovazioni principali in materia di usufrutto tendono a temperare gli inconvenienti economici di questo istituto”, ritenendosi, in particolare, a giustificazione della limitazione della sua durata, “antieconomico consentire un prolungamento dello stato di disintegrazione della proprietà, nel quale il titolare di questo diritto non ne ha l’esercizio” (n. 468).

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sa sia atta ad offrire (ed il suo diritto si estende anche alle accessioni della cosa, art. 983, ma non al tesoro, art. 988, come, invece, nell’enfiteusi), spettandogli tutti i frutti naturali e civili per la durata del suo diritto (art. 9841) 18. Per essere messo in grado di realizzare le utilità che gli spettano, egli ha diritto di conseguire il possesso della cosa (art. 982). Significativamente, di conseguenza, la tradizionale definizione della figura del proprietario è quella di nudo proprietario. L’usufruttuario, però, deve rispettare la destinazione economica della cosa: non può, cioè, mutare la organizzazione produttiva e di sfruttamento della cosa rispetto a quella operata dal proprietario 19, restando precluse, del resto, anche a quest’ultimo ulteriori decisioni al riguardo per la durata del diritto. Precluse, ad es., risultano la trasformazione del fondo rustico destinato a colture seminative in vigneto o frutteto (e viceversa, essendo consentite solo le rotazioni agrarie), il cambio d’uso dell’immobile urbano da abitativo a commerciale, la trasformazione di un edificio alberghiero in clinica. La temporaneità è caratteristica fondamentale dell’usufrutto (per limitarne gli inconvenienti sul piano economico). La sua durata non può eccedere la vita dell’usufruttuario (e l’usufrutto costituito a favore di persona giuridica ha un limite di trenta anni) (art. 979). L’usufrutto, quindi, non è mai ereditariamente trasmissibile da parte dell’usufruttuario e, se ceduto, si estingue comunque con la morte del soggetto a cui favore sia stato originariamente costituito (anche ove non fosse ancora scaduto il termine finale fissato nel negozio costitutivo del diritto) 20. Espressamente vietata è la disposizione mortis causa con cui l’usufrutto sia lasciato a più persone successivamente (ad un soggetto e, alla sua morte, ad un altro soggetto: c.d. usufrutto successivo), tale disposizione valendo solo a favore di chi si trovi, alla morte del testatore, per primo chiamato a goderne (art. 698). Si tende ad ammettere ciò, invece, in caso di atto tra vivi a titolo oneroso 21, ritenendosi, comunque, che la costituzione possa avvenire esclusivamente a favore di più persone tutte già viventi al momento della costituzione. 18 L’art. 9842-3 stabilisce il criterio della proporzionalità con i periodi di rispettivo godimento per la ripartizione dei frutti (e relative spese) tra proprietario e usufruttuario, in caso di successione nel godimento nel periodo produttivo. Circa i frutti civili, l’usufruttuario può locare le cose oggetto del suo diritto e le locazioni concluse, purché risultanti da atto pubblico o da scrittura privata di data certa, continuano al di là della cessazione dell’usufrutto, ma non oltre un quinquennio, salvo che la cessazione dell’usufrutto avvenga per scadenza del termine stabilito (art. 999). In relazione alla durata del rapporto di locazione, è controverso se debbano trovare comunque applicazione i termini previsti dalla legislazione in materia di locazione urbana e di affitto di fondi rustici (in senso contrario, ad es., Cass. 10-4-2008, n. 9345, secondo cui “la regola prevista dall’art. 999 … vale in ogni caso e non può dirsi abrogata dalla legislazione successiva”). 19 Secondo la giurisprudenza, con ciò si intende alludere alla “utilità che la cosa presentava al momento della costituzione dell’usufrutto, non con riguardo alla funzione cui la cosa sarebbe oggettivamente idonea, bensì alla funzione a cui la cosa era adibita in concreto in precedenza dal pieno proprietario” (Cass. 19-61962, n. 1550). Il codice civile del 1865 parlava di “obbligo di conservarne la sostanza, tanto nella materia quanto nella forma” (art. 477, con una trasposizione della formula tradizionale, per cui la facoltà di godimento deve essere esercitata salva rerum substantia). 20 Fermo ciò, l’usufrutto, in caso di premorienza del cessionario, “fino alla morte dell’originario e primo usufruttuario, diviene suscettibile di successione mortis causa” (Cass. 27-3-2002, n. 4376; per l’applicazione di un simile principio nell’ipotesi di cessione di quota di usufrutto non congiuntivo, Cass. 4-5-2016, n. 8911). 21 L’art. 795, infatti, preclude al donante sostituzioni vietate nel testamento. L’art. 796 consente, peraltro, al donante di riservare l’usufrutto a sé e, dopo di lui, a vantaggio di un’altra persona o di più persone, ma non successivamente.

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L’art. 678 consente il legato di usufrutto a favore di più soggetti, con diritto di accrescimento tra loro (art. 678) e la costituzione di un simile c.d. usufrutto congiuntivo (nel quale la quota di ciascuno si accresce, cioè, ai superstiti, concentrandosi l’intero diritto in capo al più longevo ed estinguendosi con la sua morte) è senz’altro consentita anche per atto tra vivi. Con riguardo alla costituzione, l’art. 978 stabilisce che l’usufrutto – che rappresenta una figura paradigmatica di diritto reale di godimento su cosa altrui – si costituisce per legge o volontariamente (per atto tra vivi, a titolo oneroso o gratuito, ovvero per testamento) e può acquistarsi anche per usucapione. Ipotesi di usufrutto legale, una volta soppresso (con la riforma del diritto di famiglia) quello prima spettante al coniuge superstite, è ora solo l’usufrutto dei genitori sui beni dei figli minori (art. 324: IV, 1.8), peraltro contrassegnato da indubbie peculiarità rispetto alla figura generale. La riforma del 1975 ha introdotto anche un caso di usufrutto giudiziale, a seguito dello scioglimento della comunione legale (a favore del coniuge affidatario dei figli su beni spettanti all’altro coniuge) (art. 1942: V, 2.12). Se relativo ad immobili, il contratto costitutivo di usufrutto richiede la forma scritta (art. 1350, n. 2) e deve essere trascritto (art. 2643, n. 2). L’usufrutto può avere ad oggetto qualsiasi bene, mobile o immobile, comprese le universalità di fatto (ad es., un gregge o una mandria) 22 e quelle di diritto (eredità: 1010), nonché le aziende (art. 2561) 23. In caso di miglioramenti, l’usufruttuario ha diritto a una indennità, ove essi sussistano al momento della restituzione della cosa (art. 985). Egli può eseguire anche addizioni che non alterino la destinazione economica del bene (art. 986: le addizioni possono essere dall’usufruttuario tolte alla fine dell’usufrutto, salvo che il proprietario preferisca tenerle indennizzandolo). Se l’usufrutto comprende cose deteriorabili (quelle, cioè, “che senza consumarsi in un tratto, si deteriorano poco a poco”: vestiti, apparecchi elettrici, ecc.), l’usufruttuario può servirsene normalmente, dovendole, alla fine dell’usufrutto, restituire nello stato in cui si trovano (art. 996). Regole peculiari vengono dettate per impianti e macchinari (art. 997) e per le scorte vive e morte (art. 998). L’usufrutto può avere ad oggetto anche cose consumabili (come, ad es., le derrate alimentari e tale è considerato anche il danaro) (c.d. quasi usufrutto: art. 995). In questo caso, l’usufruttuario ha diritto di servirsi di esse (potendole, quindi, consumare), in quanto ne acquista la proprietà, con l’obbligo di pagarne il valore al termine dell’usufrutto secondo la stima convenuta (in mancanza di stima, è a sua scelta pagarne il valore al tempo della fine dell’usufrutto o restituirne altre in eguale qualità e quantità) 24. L’usufruttuario può cedere ad altri il suo diritto per un certo tempo o per tutta la sua durata, purché ciò non sia vietato dal titolo costitutivo (cessione dell’usufrutto: art. 980). L’usufrutto cessa comunque anche in capo al cessionario in caso di morte dell’originario usufruttuario cedente. L’usufruttuario, inoltre, può ipotecare il suo diritto (art. 28101, n. 2). Non è suscettibile di cessione, peraltro, l’usufrutto legale che compete ai ge22 In tal caso, l’usufruttuario deve sostituire gli animali periti, onde conservare, almeno tendenzialmente, l’universalità di fatto nella sua consistenza originaria (art. 994). 23 In relazione a taluni beni, il codice detta norme di estremo dettaglio: così relativamente, ad es., a miniere (art. 987), boschi (art. 989), alberi (artt. 990 e 991), semenzai (art. 993). 24 Per le sue caratteristiche, si tende a ritenere che il quasi usufrutto abbia una natura giuridica diversa rispetto all’usufrutto, con conseguente applicabilità delle relative norme solo in quanto compatibili.

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nitori sui beni dei figli minori. Il contratto di cessione dell’usufrutto su beni immobili deve avere la forma scritta (art. 1350, n. 2) ed è assoggettato alla formalità pubblicitaria della trascrizione (art. 2643, n. 2). L’usufruttuario, il quale prende le cose (acquistandone il possesso) nello stato in cui si trovano, ha l’obbligo di restituire le cose oggetto del suo diritto al termine di esso e nel loro godimento deve usare la diligenza del buon padre di famiglia (art. 1001). È tenuto a fare a sue spese l’inventario dei beni (10022) e, se non ne è dispensato, deve prestare anche idonea garanzia (art. 10023: alla prestazione della garanzia non sono tenuti i genitori per l’usufrutto legale sui beni dei figli). Deve effettuare le spese per la custodia, l’amministrazione e la manutenzione ordinaria (art. 1004), mentre le spese per la manutenzione straordinaria sono a carico del proprietario, che, però, ha diritto a ricevere i relativi interessi finché dura l’usufrutto (art. 1005) 25. È tenuto al pagamento dei carichi annuali (art. 1008: imposte, canoni, rendite fondiarie), nonché a denunciare al proprietario, per non incorrere in responsabilità nei suoi confronti, le eventuali usurpazioni sul fondo commesse da terzi (art. 1012). A tutela del suo diritto, l’usufruttuario può esercitare l’azione confessoria (VI, 3.1), competendogli, anche, in quanto possessore, l’esercizio delle azioni possessorie. Ha, inoltre, il diritto di ritenzione sui beni fino al rimborso delle somme a lui dovute dal proprietario per anticipazioni effettuate in sua vece (art. 1011). Il proprietario può, ovviamente, cedere e ipotecare il suo diritto (nuda proprietà) e fa propri il tesoro (art. 988) e gli alberi di alto fusto (art. 990). Ha diritto agli interessi sulle somme pagate, in particolare, per le riparazioni straordinarie (art. 10053) e per i carichi imposti sulla proprietà (art. 10091). Egli può, inoltre, agire nei confronti dell’usufruttuario, nel caso in cui costui abusi del suo diritto (art. 1015). L’estinzione dell’usufrutto si verifica: per scadenza del termine eventualmente apposto ad esso (nonché per morte dell’usufruttuario) 26; per prescrizione per non uso ventennale; per riunione dell’usufrutto e della proprietà nella stessa persona; per perimento totale della cosa (art. 1014). In tale ultimo caso, come in caso di requisizione o di espropriazione (art. 1020), l’usufrutto si trasferisce sull’indennità eventualmente dovuta (artt. 1017 e 1019). L’usufrutto può anche cessare ove l’usufruttuario abusi del suo diritto, alienando i beni o deteriorandoli o lasciandoli perire per mancanza di ordinarie riparazioni (art. 10151) 27. La cessazione avviene a seguito di un provvedimento giudiziale. Il giudice dispone di ampi poteri, dato che, in luogo di pronunciare la cessazione dell’usufrutto, può imporre garanzie all’usufruttuario, porre sotto amministrazione di terzi i beni o, addirittura, darli in possesso al proprietario, con l’obbligo di pagare all’usufruttuario una rendita annua determinata (art. 10152).

5. Uso e abitazione. – L’uso e l’abitazione sono diritti reali di godimento su cosa altrui affini all’usufrutto. L’art. 1026, di conseguenza, dichiara applicabili ad essi le stes25 Tale disposizione contiene una elencazione delle spese per riparazioni straordinarie a carico del proprietario (reputata non tassativa: Cass. 12-9-2019, n. 22797). 26 In caso di usufrutto acquistato dai coniugi in comunione legale, “ove la cessazione della comunione legale avvenga per decesso di uno dei coniugi, la quota di usufrutto spettante a quest’ultimo si estingue … salvo che il titolo non abbia previsto il suo accrescimento a favore del coniuge più longevo” (Cass. 28-12-2018, n. 33546). 27 Si ritiene che l’abuso debba essere di notevole gravità e che possa consistere anche nel mutamento arbitrario della destinazione economica.

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se disposizioni dettate in tema di usufrutto, in quanto compatibili 28. Caratteristica fondamentale dei diritti in questione è il loro carattere strettamente personale, dato che non possono essere ceduti o dati in locazione (art. 1024) 29. Essi sono intrinsecamente temporanei, in quanto comunque limitati alla vita del soggetto. Possono essere costituiti per contratto (in forma scritta e soggetto a trascrizione per quanto concerne l’abitazione e l’uso su beni immobili) e testamento, essendone ammissibile anche l’usucapione. I titolari godono della normale tutela dei diritti reali, con l’azione confessoria e, in quanto possessori, possono esperire le azioni possessorie. Il titolare del diritto d’uso può servirsi della cosa (di cui gli compete il possesso) e, se essa è fruttifera, può fare suoi i frutti, nei limiti di quanto occorra per soddisfare i bisogni suoi e della sua famiglia (art. 10211) 30. Tali bisogni devono essere valutati tenendo presente la condizione sociale del titolare (art. 10212). In considerazione del carattere limitato del godimento dell’usuario, rispetto a quello più ampio spettante all’usufruttuario, si parla tradizionalmente di una modica perceptio da parte sua. È da tenere presente che la facoltà di servirsi della cosa non incontra i limiti posti per il godimento dei frutti. Quanto a questi ultimi, limitati comunque a quelli naturali, secondo taluni l’usuario potrebbe, addirittura (ma tale interpretazione appare eccessivamente restrittiva), far suoi solo i frutti destinati al consumo materiale e diretto (con esclusione, cioè, della possibilità di alienare i frutti, destinando ai propri bisogni il relativo ricavato). Il diritto di abitazione è un peculiare diritto d’uso, il quale conferisce al titolare la possibilità di abitare la casa che ne costituisce oggetto (esclusivamente, quindi, utilizzandola in modo diretto), pure in tal caso limitatamente ai bisogni suoi e della sua famiglia (art. 1022). Per il suo carattere reale, il diritto in questione si distingue dalla situazione derivante dalla locazione (con conseguente inapplicabilità della relativa specifica disciplina). La famiglia, i cui bisogni sono presi in considerazione, comprende espressamente (art. 1023) i figli (anche se nati successivamente all’inizio del diritto d’uso o abitazione), compresi i figli adottivi e riconosciuti (pure se l’adozione o il riconoscimento siano successivi al sorgere del diritto), nonché i collaboratori familiari conviventi. Si ritiene senz’altro compreso nel novero dei soggetti da considerare anche il coniuge e si tende ad allargare la cerchia dei soggetti al convivente more uxorio e ad altri stretti parenti (ascendenti, fratelli) ed affini (in linea retta), in quanto conviventi. Con la riforma del diritto di famiglia del 1975, sono stati riservati al coniuge superstite (e pure all’unito civilmente: art. 121 L. 20.5.2016, n. 76) 31, anche quando concorra con altri chiamati, i diritti di abitazione sulla casa familiare e di uso sui mobili che la corredano, se di proprietà del defunto o comuni (art. 5402: XII, 3.2). Attraverso tale formulazione, si ritiene che il legislatore abbia voluto alludere, proprio in senso tecnico, alle figure di diritti qui in esame, alla cui disciplina ci si dovrà, dunque, riferire anche nel caso 28 Senz’altro compatibile è stata ritenuta, così, la disposizione (art. 9791) per cui “la durata dell’usufrutto non può eccedere la vita dell’usufruttuario” (Cass. 12-10-2012, n. 17491). 29 Peraltro, Cass. 27-4-2015, n. 8507, ritiene tale divieto derogabile, “non avendo natura pubblicistica e attenendo a diritti patrimoniali disponibili”. 30 Cass. 26-2-2008, n. 5034, ha ammesso la costituzione del diritto di uso a favore di persona giuridica, “non trovando essa ostacolo nel carattere personale del relativo diritto”. 31 L’art. 142-43 L. 76/2016 prevede un diritto abitativo del convivente superstite in caso di morte del proprietario della casa di comune abitazione (V, 1.4).

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accennato. È pure da ricordare come, in conseguenza del venir meno della convivenza familiare, con una disposizione collocata nel quadro delle relative conseguenze riguardo ai figli (art. 337 sexies), il godimento della casa familiare venga “attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli” (V, 4.11). Prevale, peraltro, la configurazione di tale diritto come diritto di carattere personale, anche se la questione sembra avere perso di peso, avendone il legislatore assicurato la opponibilità ai terzi. Circa la ricostruzione della relativa disciplina sembra, comunque, acquistare rilievo decisivo la considerazione da riservare alla peculiare natura degli interessi (in particolare quelli dei figli) che il legislatore ha inteso energicamente tutelare.

6. Servitù prediali. Caratteri e tipologia. – Le servitù hanno mantenuto, nel codice civile vigente, la loro storica qualificazione come prediali, in quanto la relativa titolarità si ricollega (e non può che ricollegarsi) alla proprietà su un fondo (praedium). Una simile caratteristica risuona con chiarezza proprio nella definizione che ne offre l’art. 1027, secondo cui la servitù prediale “consiste nel peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario”. Il rapporto appare, quindi, enunciato quasi come intercorrente tra due fondi (quello dominante destinato a godere della utilità e quello servente gravato dal relativo peso), invece che, come sarebbe stato sicuramente più corretto dal punto di vista tecnico-giuridico, tenendo presenti le posizioni dei soggetti che dei due fondi sono proprietari (e solo ai quali possono essere imputate situazioni giuridiche) 32. Si tratta di un vero e proprio diritto reale di godimento su cosa altrui, in quanto al titolare (proprietario del fondo dominante) è riconosciuto sul fondo di proprietà altrui (il fondo servente) l’esercizio, in via diretta, di facoltà di godimento, per trarne una determinata utilità: posizione di vantaggio che tutti sono tenuti a rispettare (assolutezza), indipendentemente dalle vicende che possano interessare – e dai rapporti che altri soggetti vengano ad avere con – il fondo servente. Insito nel concetto stesso di servitù (e nella definizione che ne offre l’art. 1027) è che essa non possa essere costituita (o continuare a sussistere) tra fondi appartenenti al medesimo proprietario (nemini res sua servit) 33. Il codice vigente ha inteso estendere, rispetto al passato, l’ambito delle servitù, prevedendo non solo che l’utilità possa consistere pure nella maggiore comodità o amenità del fondo dominante, ma anche che essa possa essere inerente alla destinazione industriale del fondo (c.d. servitù industriali) (art. 1028). L’utilità deve essere obiettiva: consistere, cioè, in un vantaggio che il fondo dominante trae dal fondo servente, riconducibile alla sua destinazione economica. L’esistenza della servitù deve valere a conferire ai fondi una vera e propria qualità (positiva per il fondo dominante, negativa per quello servente), inerendo l’utilità da essa offerta, insomma, al fondo di cui viene ad accrescere il valore. Ecco perché si sottolinea che, nel caso di servitù industriale, la figura della servitù ricorrerà solo ove l’industria sia inscindibilmente legata al fondo ed alla sua destinazione economica (per 32 La Relaz. cod. civ., n. 488, riconosce trattarsi “di un’immagine, la quale raffigura l’aspetto economico del rapporto, più che di una definizione rispondente al rigore del tecnicismo giuridico”, valendo la parola peso ad esprimere “con maggiore immediatezza il carattere reale della servitù” e soprattutto a porre “in risalto il distacco delle vere e proprie servitù prediali dalle limitazioni della proprietà”. 33 Diversamente, peraltro, nel caso in cui il proprietario di un fondo sia (solo) comproprietario dell’altro Cass. 6-8-2019, n. 21020.

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cui la servitù risulta strumentale ad una più proficua utilizzazione del fondo) 34. Lo stesso criterio deve essere utilizzato, in particolare quando l’utilità in gioco consista nella maggiore comodità o amenità, per distinguere la ricorrenza di una servitù prediale da un rapporto di natura esclusivamente personale tra le parti, di carattere, quindi, obbligatorio e non reale (si parla, al riguardo, invero alquanto impropriamente ed equivocamente, di servitù personali o irregolari). Il proprietario di un fondo può pattuire col proprietario del fondo vicino il diritto di passeggiare o cavalcare nel suo bosco, ma si tratterà di un diritto di natura pur sempre personale, salvo che simili utilità non siano da considerare oggettivamente ricollegate (quali utilità fondiarie) alla particolare destinazione economica del fondo, realizzabili a carico dell’altro fondo asservitovi (divenendo, così, relative qualità, rispettivamente positive o negative), come nel caso di esercizio sul fondo (dominante) di un’attività di tipo turistico-alberghiero (sicuramente avvantaggiata da una simile opportunità offerta agli ospiti) 35. L’art. 10291 consente che la servitù sia costituita per assicurare al fondo un vantaggio futuro. La destinazione economica cui l’utilità deve inerire può, quindi, essere anche non attuale, ma potenziale, dovendo rientrare, comunque, nella normalità. È ammessa anche la costituzione di servitù a vantaggio e a carico di un edificio da costruire o di un fondo da acquistare: in tal caso l’effetto costitutivo (mancando ancora il fondo dominante) si verificherà solo dal giorno della costruzione dell’edificio o dell’acquisto del fondo (art. 10292) 36. È da sottolineare come i fondi, perché possa realizzarsi (a vantaggio e, reciprocamente, a carico) l’utilità che caratterizza la servitù, debbano essere sufficientemente vicini, anche se non necessariamente contigui (si pensi a una via verso una strada pubblica a servizio di un fondo, che attraversa in successione più fondi). Proprio in quanto deve trattarsi di utilità che assurge a vera qualità del fondo, l’utilità stessa deve avere, inoltre, un carattere, anche se non necessariamente perpetuo (si parlava, un tempo, di perpetua causa), almeno durevole nel tempo. Si ammette che l’utilità per i fondi possa essere anche reciproca: simili servitù reciproche – che restano pur sempre diritti reali su cosa altrui di ca34 Ne deriva l’esclusione dal novero delle servitù delle c.d. servitù aziendali, in cui il vantaggio concerne un’attività economica svolta sul fondo, ma non inscindibilmente legata al fondo ed alla sua destinazione economica (ad es., l’appoggio dell’insegna di un ristorante vicino). 35 Peraltro, Cass. 27-9-2012, n. 16427, sembra considerare anche una ipotesi del tipo di quella da ultimo considerata come riconducibile al concetto di servitù aziendale (v. nota precedente), in quanto semplicemente funzionale “all’offerta di maggiori servizi (consistenti, nella specie, nel servizio di balneazione marittima)”. In ordine al controverso tema dell’ammissibilità di una servitù di parcheggio, Cass. 18-3-2019, n. 7561 (confermando l’impostazione di Cass. 6-7-2017, n. 16698), ha “escluso un’assoluta preclusione alla configurabilità” di essa (in quanto – secondo la contestata ricostruzione di Cass. 7-3-2013, n. 5769 e 6-11-2014, n. 23708 – servitù irregolare), reputando, nell’ottica “di strumentalità e di servizio tra gli immobili” che caratterizza la servitù, potere “esser legittimamente prevista dal titolo a diretto vantaggio del fondo dominante (per la sua migliore utilizzazione), piuttosto che delle persone che concretamente ne beneficino” (risultando, quindi, “mera quaestio facti stabilire, in base all’esame del titolo, se le parti abbiano inteso costituire una servitù o un diritto meramente obbligatorio”). 36 Cass. 29-8-1997, n. 8227, ritiene che, in tale ultimo caso, “il patto costitutivo della servitù ha efficacia meramente obbligatoria, in quanto la servitù sorge con la realizzazione della costruzione e non si trasferisce quindi con il puro e semplice trasferimento del suolo ancora inedificato”. Dato che la servitù si costituisce “soltanto al momento in cui l’edificio è costruito”, “solo da questo momento inizia a decorrere il termine di prescrizione per non uso del diritto di servitù” (Cass. 3-5-2018, n. 10486).

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rattere autonomo – sono frequenti nel caso di lottizzazioni di aree edificabili 37. Quale qualità del fondo (inerente ad esso), la servitù non può essere trasmessa separatamente: con l’alienazione del fondo si trasferiscono automaticamente le servitù attive e passive ad esso, appunto, inerenti (inscindibilità della servitù) 38. Altro carattere della servitù è prevalentemente ravvisato nella indivisibilità, in quanto considerata inerente, sempre nella sua interezza, all’intero fondo. Da ciò si deduce (non senza contrasti) che la servitù non possa costituire oggetto di comunione (anche se più siano i comproprietari del fondo dominante o servente), sussistendo per intero a favore o a carico di ciascun proprietario. L’art. 1071 prevede espressamente che, se il fondo dominante viene diviso, la servitù spetti ad ogni porzione per l’intero (a condizione, però, che ciò non renda troppo gravosa la condizione del fondo servente) 39. La stessa regola vale per il fondo servente (in caso di sua divisione, cioè, la servitù spetta per l’intero su ciascuna porzione), salvo che si tratti di servitù localizzata su una parte del fondo servente, dato che, in tal caso, le altre parti sono liberate. Gli interessati hanno la possibilità di dar vita a servitù conformemente alle proprie esigenze. Il principio di tipicità dei diritti reali è qui da intendere nel senso che ci si dovrà sempre muovere entro lo schema proposto dagli artt. 1027 ss. (in cui vengono delineati, insomma, i caratteri essenziali della servitù come tipo di diritto reale), con particolare riferimento alla necessaria ricorrenza di una utilità, così come dianzi tratteggiata. In proposito, è da sottolineare il carattere fondamentale del principio per cui la servitù non si può mai risolvere nell’imposizione di un comportamento positivo al proprietario del fondo servente (servitus in faciendo consistere nequit), il quale, insomma, può essere tenuto solo ad un comportamento negativo, consistente nel sopportare (pati) o nel non fare (non facere). Risulta consentita, peraltro, l’imposizione di prestazioni positive, ma solo ove abbiano un carattere accessorio. In tal senso depone l’art. 1030 (intitolato, appunto, prestazioni accessorie), secondo cui “il proprietario del fondo servente non è tenuto a compiere alcun atto per rendere possibile l’esercizio della servitù da parte del titolare, salvo che la legge o il titolo disponga diversamente” 40. È significativo che a costui sia comunque sempre consentito liberarsi dagli obblighi impostigli dal titolo o dalla legge (per l’uso 37 Le reciproche limitazioni (ed i corrispondenti vantaggi) convenzionalmente previsti in ordine alla utilizzabilità dei lotti vengono ad inerire agli stessi come relative qualità, “ossia con caratteristiche di realità inquadrabili nello schema delle servitù” (Cass. 24-5-1996, n. 4770; 10-4-2018, n. 8817, secondo cui “affinché tali limitazioni siano efficaci, è sufficiente che nei singoli atti di acquisto venga richiamato il piano di lottizzazione e di sviluppo con i diritti e gli obblighi in esso previsti”). 38 Si ammette generalmente che “per il principio della c.d. ambulatorietà”, la servitù “si trasferisca assieme alla titolarità del fondo dominante anche in assenza di una sua espressa menzione nell’atto di trasferimento” (Cass. 5-11-2012, n. 18909; 14-5-2019, n. 12798). 39 Precisa Cass. 3-7-2019, n. 17884, che, “poiché un simile effetto si determina ex lege, non occorre alcuna espressa menzione, a tale riguardo, negli atti traslativi attraverso cui si determina la divisione del fondo dominante”. 40 Si pensi, al riguardo, agli obblighi imposti al concedente dell’acqua di una fonte o di un canale (art. 1091). Cass. 13-6-1995, n. 6683, sottolinea come l’obbligo di un facere possa essere imposto al proprietario del fondo servente, purché esso costituisca “solo una obbligazione accessoria che non esaurisce l’intero contenuto della servitù, essendo volto solo a consentirne il concreto esercizio” (nella specie, con una servitù di non impedire con alberi la veduta è stato ritenuto compatibile l’obbligo di rimuovere o potare quelli esistenti). Si ritiene che le obbligazioni accessorie in questione abbiano natura di obbligazioni reali (o propter rem) (VI, 3.10 e VII, 1.5). Cass. 24-4-2018, n. 10046, precisa che la “prestazione accessoria imposta al proprietario del fondo servente dalla legge o dal titolo … costituisce oggetto di una obbligazione propter rem autonoma, ancorché ad essa accessoria”.

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o per la conservazione della servitù), rinunziando alla proprietà del fondo servente a favore del proprietario del fondo dominante, anche solo limitatamente alla parte del fondo interessata dall’esercizio della servitù (abbandono del fondo servente: art. 1070). Il titolare della servitù è tutelato con l’azione confessoria, disciplinata dell’art. 1079 (VI, 3.1). Egli può farne riconoscere in giudizio l’esistenza contro chi ne contesti l’esercizio (erga omnes, contro chiunque, quindi, contesti la legittimità dell’esercizio della servitù) e può far cessare eventuali impedimenti e turbative. Oltre il risarcimento degli eventuali danni, egli può chiedere la rimessione delle cose in pristino. In quanto possessore, al titolare della servitù spetta anche l’esercizio delle azioni possessorie. Con riferimento ai diversi aspetti della relativa disciplina (in particolare, costituzione ed estinzione) (VI, 3.7-8), risulta possibile (ed è considerato correntemente opportuno) operare talune distinzioni di fondo tra le servitù. a) È espressamente prevista dall’art. 10612 (ed è rilevante in ordine ai modi di acquisto) la distinzione tra servitù apparenti e non apparenti, fondata sulla esistenza o meno di opere visibili e permanenti destinate all’esercizio della servitù. L’opera (da intendere non necessariamente come artificiale) deve consistere in segni materiali obiettivamente denotanti l’esistenza della servitù, dovendone risultare inequivoca, dato lo stato dei luoghi, la funzionalità per il relativo esercizio 41. Si pensi ad una strada, a condutture, ad un ponte, ad un balcone. Non apparenti sono, invece, servitù come quelle di pascolo, di passaggio (se non vi sia un tracciato specificamente a ciò destinato) 42, di non edificare o di non sopraelevare. Le opere visibili devono essere tali dal fondo servente, ma non trovarsi necessariamente su di esso, potendo essere la parte visibile dell’opera sul solo fondo dominante (sbocco di un canale sotterraneo) 43. b) In vista dell’operatività della prescrizione, si distingue tra servitù continue e discontinue: per l’esercizio delle prime non è necessario il fatto dell’uomo (ossia il compimento di un apposito atto di godimento da parte del titolare) (art. 10732). Continue sono servitù apparenti, come quella di acquedotto, o non apparenti, come quella di non sopraelevare. Discontinue sono servitù apparenti, come quella di via, o non apparenti, come quella di pascolo. c) Allo stesso fine, si distingue anche tra servitù positive (o affermative) e negati41 Circa l’essenzialità della “destinazione all’esercizio” della servitù dell’opera, cfr. Cass. 11-7-2007, n. 10861. Cass. 22-9-2009, n. 20409, ricorda che “il requisito dell’apparenza … deve dipendere dalle oggettive caratteristiche dell’opera e non dal modo in cui questa è utilizzata” (negando la configurabilità e la usucapibilità di una servitù di parcheggio per il semplice fatto del “parcheggio di autovetture su di un’area”). 42 Secondo Cass. 29-8-1998, n. 8633, “il requisito dell’apparenza può legittimamente dirsi esistente nel caso in cui destinato all’esercizio di una servitus viae risulti un sentiero campestre formatosi, nel tempo, per effetto del continuo calpestio degli utenti, a condizione che esso si articoli secondo un tracciato tale da denotare, senza incertezze o ambiguità di sorta, la sua visibile e permanente destinazione all’esercizio della servitù” (e v. per chiarimenti Cass. 27-4-2004, n. 8039). 43 Per Cass. 16-1-1998, n. 321 (e Cass. 26-11-2004, n. 22290), è “apparente quella servitù al cui esercizio risultino obiettivamente destinate opere non soltanto permanenti, ma anche visibili dal fondo servente, sì da rendere presumibile la conoscenza delle medesime da parte del proprietario del fondo”. Si è ulteriormente precisato non solo che le opere visibili e permanenti possono ricadere “esclusivamente sul fondo dominante” (Cass. 27-1-2014, n. 1616), se inequivocabilmente funzionali all’esercizio della servitù, ma pure che la relativa visibilità “può far capo ad un punto di osservazione non necessariamente coincidente col fondo servente, purché il proprietario di questo possa accedervi liberamente, come nel caso in cui le opere siano visibili da una vicina via pubblica” (Cass. 17-11-2014, n. 24401).

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ve. Nelle prime, il fondo servente deve sopportare un’attività positiva di ingerenza sul fondo del proprietario del fondo dominante (via, passaggio, pascolo, presa d’acqua). Le seconde, non apparenti, precludono al proprietario del fondo servente l’esercizio di facoltà inerenti al suo diritto di proprietà (ad es., non edificare o sopraelevare). d) Fondamentale è la distinzione, a seconda che abbiano o meno la loro fonte nella legge, tra servitù coattive e volontarie (art. 1031). La disciplina delle prime è peculiare, come si vedrà, sotto il profilo tanto della costituzione, quanto della estinzione.

7. Servitù coattive (o legali). – Sono denominate servitù coattive o legali quelle che possono essere imposte al proprietario di un fondo, a prescindere dal suo consenso. Ciò si verifica in dipendenza di una previsione legislativa, ricollegata alla valutazione delle peculiari esigenze di un altro fondo, tali da renderne necessaria la costituzione a suo vantaggio (anche in considerazione dell’interesse generale allo sviluppo delle attività economiche). Secondo l’art. 1032, quando, in forza di legge, il proprietario di un fondo ha diritto di ottenere la costituzione di una servitù a carico di un altro fondo, ove il proprietario di questo non vi consenta (con la stipulazione di un contratto), la servitù è costituita con una sentenza. Nei casi previsti dalla legge, la costituzione può avvenire anche con un atto amministrativo. Ove la costituzione avvenga con sentenza, questa stabilisce le modalità della servitù 44 e determina l’indennità dovuta al proprietario del fondo servente, quale compenso per la perdita di valore che il fondo stesso subisce, in conseguenza delle utilità a suo carico riconosciute all’altro fondo (e ugualmente in caso di costituzione che avvenga con atto amministrativo). Al proprietario del fondo servente è attribuito il potere di opporsi all’esercizio della servitù prima del pagamento di tale indennità 45. Sono espressamente contemplate – con evidente favore per lo svolgimento e l’incremento delle attività produttive – le servitù di acquedotto e di scarico coattivo, di appoggio e infissione di chiuse, di somministrazione coattiva di acqua, di passaggio coattivo, di elettrodotto e di passaggio coattivo di linee teleferiche. La servitù di elettrodotto, in particolare, è regolata da leggi speciali, che ne prevedono la costituzione mediante provvedimento amministrativo. Altre ipotesi di servitù coattive, con uguale modalità di costituzione, sono previste e disciplinate da leggi speciali (ad es., l’appoggio ed il passaggio di linee telefoniche). 44 Il giudice deve curare “l’equo contemperamento dell’utilità del fondo dominante e dell’aggravio del fondo servente”, ogni dubbio – come, del resto, anche in materia di modalità di esercizio di servitù convenzionale – andando “risolto alla stregua della legge economica del minimo mezzo” (Cass. 27-8-2020, n. 17940). In ordine alla determinazione della “indennità dovuta dal proprietario del fondo a cui favore è stata costituita la servitù” (nel caso di specie, di passaggio coattivo), Cass. 11-3-2022, n. 7972 ha precisato che essa “costituisce un indennizzo dovuto da ragguagliare al danno cagionato al fondo servente” (non dovendosi avere “riguardo esclusivamente al valore della superficie di terreno assoggettata alla servitù”, ma anche ad “ogni altro pregiudizio subito dal fondo servente in relazione alla sua destinazione a causa del transito di persone e di veicoli”). 45 Le servitù coattive, pur potendo essere considerate annoverabili tra i limiti legali della proprietà fondiaria (con conseguente diffusa tendenza a considerare eccezionali le relative fattispecie), sono comunque differenti dai limiti legali di vicinato, dato che esse non presentano i caratteri tipici di questi ultimi, rappresentati dalla reciprocità, gratuità, automaticità (VI, 1.7).

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La legge costituisce fonte della servitù coattiva, ma non nel senso che questa venga ad esistenza ope legis. In presenza delle condizioni previste dalla legge, sorge, infatti, il diritto potestativo di chiedere la costituzione della servitù, che verrà ad esistenza solo in conseguenza di un contratto tra i proprietari dei fondi (in forma scritta e soggetto a trascrizione: artt. 1350, n. 4, e 2643, n. 4), ovvero di una sentenza (di carattere costitutivo) pronunciata su domanda dell’interessato (contratto o sentenza, quindi, rappresentano il titolo della servitù). È da ritenere – anche se il punto risulta controverso – che la natura coattiva della servitù resti tale (con conseguente applicazione, in particolare, della peculiare disciplina relativa all’estinzione) anche ove la costituzione della servitù avvenga contrattualmente 46. Oltre che dal punto di vista della costituzione, la disciplina delle servitù coattive si presenta peculiare per quanto concerne la relativa estinzione. Se il diritto alla loro costituzione si ricollega ad una valutazione di necessità, legata alla particolare situazione del fondo, risulta coerentemente stabilito che il venir meno delle condizioni di legge ne consente la soppressione su istanza della parte interessata. Tale soppressione, che non impedisce una nuova costituzione coattiva nel caso in cui le condizioni di legge si ripresentino, avviene, in mancanza di accordo, con sentenza (di carattere costitutivo). Una simile modalità estintiva è prevista per la somministrazione di acqua (art. 10494) e per il passaggio coattivo (art. 1055), ma è da ritenere generalizzabile in materia di servitù coattive. L’art. 1055 prevede anche che il proprietario del fondo servente debba restituire il compenso ricevuto (eventualmente ridotto in considerazione della pregressa durata della servitù e del danno sofferto dal fondo servente) e, per il caso di indennità convenuta in annualità, che essa cessi dall’anno successivo. Ciò chiarisce anche il senso dell’attribuzione ad entrambe le parti del diritto alla soppressione della servitù. Almeno un accenno – anche quale esemplificazione della categoria – merita la servitù di passaggio coattivo. Essa è prevista nel caso in cui un fondo sia circondato da fondi altrui (intercluso) e non abbia accesso alla via pubblica (o non possa procurarselo se non con eccessivo dispendio) (art. 10511). Il passaggio deve essere stabilito nella parte in cui la distanza sia minore e in modo tale da minimizzare il danno per il fondo servente (art. 10512). Sono esenti dal passaggio coattivo le case, i cortili, le aie e i giardini ad esse adiacenti (art. 10514). La servitù può essere costituita anche per consentire l’ampliamento del passaggio già esistente sul fondo altrui, onde permettere il transito ad ogni specie di veicoli (art. 10513), nonché per concedere un passaggio diverso dall’accesso alla via pubblica di cui il proprietario del fondo già disponga, ove esso sia insufficiente o inadatto per le esigenze dell’agricoltura o dell’industria – cioè dell’attività produttiva considerata quale valore prioritario dal legislatore nel codice – e non 46 In tal senso, anche di recente, Cass. 23-9-2015, n. 18770. Circa la discussa possibilità di costituire una servitù coattiva per usucapione, Cass. 29-5-1991, n. 6063 (e v. anche Cass. 16-5-2019, n. 13223), ritiene che “la servitù di passaggio sul fondo confinante acquistata per usucapione, ancorché tale acquisto sia avvenuto in presenza delle condizioni che avrebbero legittimato il proprietario del fondo intercluso ad ottenere la costituzione della servitù coattiva, ha natura di servitù volontaria, che non si estingue con la cessazione dello stato d’interclusione, non essendo applicabile la norma dell’art. 1055 c.c. dettata per la servitù coattiva di passaggio, il cui acquisto, come quello delle altre servitù coattive specificamente indicate dalla legge, non può avvenire per usucapione”.

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possa essere ampliato (art. 10521) 47. In conformità a quanto accennato, è sempre dovuta una indennità proporzionata al danno (art. 1053) 48.

8. Servitù volontarie. – Quanto alle servitù volontarie, la loro costituzione può avvenire, a titolo derivativo, per contratto o per testamento (art. 1058) 49. Il contratto dovrà avere forma scritta (art. 1350, n. 4) 50 ed è soggetto a trascrizione (art. 2643, n. 4). Per costituire una servitù su un fondo in comunione, occorre il consenso di tutti i comproprietari (art. 10591). L’acquisto può, inoltre, avvenire, limitatamente alle servitù apparenti, per usucapione e destinazione del padre di famiglia. L’usucapione è espressamente prevista quale modo di acquisto (a titolo originario) delle servitù apparenti (artt. 1031 e 10611, che esclude l’usucapibilità delle servitù non apparenti) e opera secondo le regole generali dell’istituto 51. La destinazione del padre di famiglia rappresenta un modo di acquisto – di cui è vivacemente dibattuto il carattere derivativo o originario – peculiare delle servitù, anch’esso limitatamente a quelle apparenti. La costituzione per destinazione del padre di famiglia (la cui denominazione risponde a una antica tradizione) ha luogo tra due fondi attualmente appartenenti a proprietari diversi, ma originariamente dello stesso proprietario, quando la situazione dei luoghi posta in essere (o lasciata sussistere) da tale soggetto prima della divisione dei fondi corrisponda al contenuto di una servitù (art. 10621). In tal caso, la servitù nasce automaticamente, senza, cioè, necessità di un apposito atto di volontà (o di un provvedimento giudiziale), in conseguenza della situazione obiettiva di assoggettamento di un fondo nei confronti dell’altro e della cessazione di appartenenza 47 Corte cost. 10-5-1999, n. 167, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 10522, secondo cui il passaggio può essere concesso solo per esigenze concernenti l’agricoltura e l’industria, per la mancata previsione della possibilità di concedere il passaggio coattivo anche in considerazione di “esigenze di accessibilità – di cui alla legislazione relativa ai portatori di handicap – degli edifici destinati ad uso abitativo”: una simile “omessa previsione dell’esigenza di accessibilità della casa di abitazione, accanto a quelle, produttivistiche, dell’agricoltura e dell’industria, rende la norma in contrasto sia con l’art. 3 sia con l’art. 2 Cost., ledendo più in generale il principio personalista che ispira la Carta costituzionale”. Nella stessa prospettiva, Cass. 16-4-2008, n. 10045, ha ammesso, in via generale, “la costituzione di una servitù di passaggio in favore di un fondo non intercluso … ai fini di consentire una piena accessibilità alla casa di abitazione” (in particolare, “anche con mezzi meccanici”). Alla “tutela di esigenze abitative, da chiunque invocabili”, allude Cass. 10-4-2018, n. 8817, che si richiama, peraltro, alla necessità di operare una “equilibrata applicazione dell’istituto”, attraverso una “accorta ponderazione degli interessi”. 48 Peraltro, se l’interclusione dipende da alienazione a titolo oneroso, il proprietario ha diritto di ottenere dall’altro contraente il passaggio senza alcuna indennità (la stessa regola si applica in caso di divisione) (art. 1054). Il carattere “risarcitorio” dell’indennità in questione (con conseguente necessità di non limitarsi “al valore della superficie di terreno assoggettata alla servitù”, ma di “tenere altresì conto di ogni altro pregiudizio subito dal fondo servente in relazione alla sua destinazione”) è sottolineato da Cass. 18-5-2016, n. 10269 e 9-10-2020, n. 21866. 49 Cass. 2-5-2012, n. 10238, dato che “i modi di costituzione delle servitù prediali sono tipici”, reputa “irrilevante … il riconoscimento da parte di un proprietario di un fondo della fondatezza dell’altrui pretesa circa la sussistenza di una servitù mai costituita” (non essendo “l’atto ricognitivo unilaterale di servitù, previsto con efficacia costitutiva dall’art. 634 c.c. abrogato, contemplato dal codice civile vigente”). Nega che “l’atto proveniente da uno solo dei comproprietari di un fondo indiviso” sia “idoneo a costituire una servitù passiva”, Cass. 12-2-2016, n. 2853). 50 La conseguente inidoneità di un “consenso espresso verbalmente dal proprietario di un fondo … alla costituzione di un vincolo reale” è sottolineata da Cass. 22-8-2018, n. 20958. 51 Cass. 26-10-2018, n. 27254, ha precisato che l’acquisto per usucapione può operare anche se il possesso sia esercitato da uno solo dei comproprietari del fondo dominante.

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al medesimo proprietario 52. Essenziale, insomma, è l’originaria comune appartenenza allo stesso proprietario (risulta indifferente che si tratti di fondi distinti o di parti dello stesso fondo), il quale abbia destinato un fondo al servizio dell’altro, ponendo in essere (o lasciando sussistere) uno stato di fatto dei luoghi corrispondente al contenuto di una servitù (attestato dalla presenza di opere visibili e permanenti in modo inequivoco strumentali al relativo esercizio) 53. Così, nell’ipotesi in cui sia stato costruito dal proprietario un acquedotto per assicurare acqua ad un suo fondo attraverso un altro suo fondo, in caso di vendita separata sorgerà a favore del primo e a carico del secondo una corrispondente servitù. Un simile effetto si produrrà automaticamente, salvo che all’atto della cessazione dell’appartenenza allo stesso proprietario vi sia stata una disposizione relativa alla servitù (art. 10622) (sia stata manifestata, cioè, una volontà nel senso di una sua esclusione – anche solo implicita – o di un suo riconoscimento, dato che, in tale ultima ipotesi, la servitù sorgerà in base a tale titolo, da cui sarà pure regolata) 54. Circa l’esercizio della servitù, le norme dettate dal codice hanno carattere suppletivo, dato che sono destinate ad operare solo in mancanza della relativa regolamentazione da parte del titolo costitutivo (art. 1063). Con la servitù si acquistano anche le facoltà accessorie necessarie per il suo esercizio (c.d. adminicula servitutis), senza le quali non potrebbe realizzarsi l’utilità che costituisce il fondamento della servitù (art. 10641) 55. L’esercizio deve essere conforme al titolo o al possesso (al modo, insomma, in cui la servitù è di fatto esercitata, così risultando eventualmente da risolvere i dubbi suscitati dalla formulazione del titolo). Nel dubbio circa l’estensione e le modalità di esercizio della servitù, vale il principio del contemperamento degli interessi delle parti interessate: la servitù si intende costituita in modo tale da soddisfare il bisogno del fondo dominante col minore aggravio possibile del fondo servente (art. 1065). La servitù non può essere unilateralmente modificata: il proprietario del fondo dominante non può fare innovazioni che aggravino la situazione del fondo servente 56 e il proprietario di quest’ultimo non può operare per diminuirne l’esercizio (art. 1067). Sussiste solo una limitata possibilità di trasferimento della servitù ad iniziativa unilaterale dei 52 La “effettiva situazione di asservimento di un fondo all’altro … deve essere accertata attraverso la ricostruzione dello stato dei luoghi esistente al momento” della divisione del fondo (Cass. 22-5-2015, n. 10662). La costituzione della servitù non si verifica “quando la separazione dei due fondi sia operata da chi è proprietario esclusivo di uno di essi e comproprietario dell’altro fondo” (Cass. 12-2-2016, n. 2853). 53 Alla idoneità anche di opere “non in tutto rifinite” allude Cass. 10-4-2020, n. 7783. Tale atto di destinazione è di natura controversa. All’opinione (che tende a prevalere) per cui l’effetto della costituzione della servitù si ricollegherebbe ad un fatto giuridico in senso stretto, si contrappone quella secondo la quale si tratterebbe pur sempre di un atto, anche se non negoziale (atto giuridico in senso stretto), data la rilevanza che si ritiene doversi comunque attribuire alla volontà di porre o di lasciare le cose nello stato di fatto da cui risulta la servitù. 54 La “disposizione” in questione “non è desumibile da facta concludentia”, dovendo consistere o in una “clausola in cui si conviene espressamente di volere escludere il sorgere della servitù, o in qualsiasi patto il cui contenuto sia incompatibile con la volontà di lasciare integra e immutata la situazione di fatto che determinerebbe il sorgere della corrispondente servitù” (Cass. 10662/2015; 1-3-2018, n. 4872). 55 Così, “la servitù di presa d’acqua comprende la facoltà di accedere al fondo servente al fine di esercitare il diritto di attingimento” (Cass. 27-11-2011, n. 14178). 56 Ad es., si è ritenuto che non risulti un simile aggravamento a seguito della “copertura della terrazza da cui si esercita la servitù di veduta” (Cass. 30-6-2016, n. 13444), ovvero della realizzazione, con riferimento a servitù di passaggio pedonale, di “opere volte all’abbattimento delle barriere architettoniche” (Cass. 10-10-2018, n. 25056).

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proprietari dei fondi interessati, sempre a condizione che risulti assicurato un equo bilanciamento tra gli interessi in gioco (art. 1068). Il criterio del minore aggravio possibile è imposto anche per la realizzazione di eventuali opere da parte del proprietario del fondo dominante sul fondo servente (art. 1069). Dianzi (VI, 3.6) sono state esaminate la possibilità di abbandono del fondo servente da parte del relativo proprietario, nel caso in cui sia tenuto a sopportare, ai sensi dell’art. 1030, spese per l’esercizio dell’altrui servitù (art. 1070: ne consegue, ovviamente, la estinzione della servitù), nonché la disciplina prevista in caso di divisione del fondo dominante o di quello servente (art. 1071). La estinzione della servitù può verificarsi, come per ogni diritto reale su cosa altrui, per confusione, quando, cioè, in una sola persona si riunisce la qualità di proprietario del fondo dominante e di quello servente (art. 1072). Le servitù si estinguono, poi, sempre in applicazione dei principi generali, per rinunzia del titolare (proprietario del fondo dominante) 57. Si estinguono anche per prescrizione e per impossibilità di uso e mancanza di utilità per un ventennio. L’art. 1073 disciplina l’operatività, in materia, a seconda dei diversi tipi di servitù (VI, 3.6), della prescrizione per non uso ventennale (trattandosi di diritto reale di godimento su cosa altrui). Se si tratta di servitù negativa o di servitù continua (per il cui esercizio non è necessario il fatto dell’uomo), il termine decorre dal giorno in cui si è verificato un fatto (naturale o umano) che ne abbia impedito l’esercizio (ad es., in relazione ad una servitù di non sopraelevare, dal giorno in cui l’opera è stata posta in essere; in relazione ad una servitù di acquedotto, dal giorno in cui le condutture sono andate distrutte per uno smottamento del terreno o sono state rimosse da qualcuno). Se si tratta di servitù discontinua (quella il cui esercizio è collegato a comportamenti del titolare), il termine decorre dall’ultimo atto di esercizio (per una servitù di passaggio, ad es., dal momento dell’ultimo transito). Ove la servitù sia intermittente (da esercitare, cioè, a intervalli), il termine decorre dal giorno in cui la servitù si sarebbe potuta esercitare e non ne fu ripreso l’esercizio (ad es., per una servitù di pascolo, tipicamente stagionale, il termine non decorre dall’ultimo giorno in cui si è pascolato il gregge, a fine stagione, ma dall’inizio della stagione successiva, in cui il pascolo si sarebbe potuto riprendere). Quanto alla impossibilità di uso e mancanza di utilità, l’art. 1074 stabilisce che la impossibilità di fatto di usare della servitù e il venir meno dell’utilità della medesima non determinano l’estinzione della servitù, se non per decorso del termine ventennale di prescrizione. Se, cioè, l’impossibilità cessi e l’utilità si ripresenti prima del compimento del ventennio, lo stato di quiescenza della servitù viene meno e il decorso del termine di prescrizione viene ad interrompersi. Fin quando il ripristino dell’esercizio del diritto si presenta possibile, il diritto di servitù, insomma, continua ad esistere (fino al compimento della prescrizione). Si pensi, al riguardo, alla distruzione del ponte che permette il passaggio (per eventi naturali od opera dell’uomo), che potrà essere ripristinato, ovvero al perimento dell’edificio a cui favore esisteva la servitù di non sopraelevazione, che potrà essere ricostruito. Non solo non determina l’estinzione, ma neppure una modificazione in senso riduttivo della servitù, l’eventuale suo esercizio in modo tale da trarne una utilità minore di 57 La “rinuncia del titolare deve risultare da atto scritto, ai sensi dell’art. 1350, nn. 4 e 5, e non può essere desunta indirettamente da comportamenti concludenti” (Cass. 10662/2015).

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PARTE VI – PROPRIETÀ E DIRITTI REALI

quella indicata nel titolo: la servitù si conserva per intero, indipendentemente dal motivo di tale minore utilizzazione (art. 1075). L’esercizio della servitù in tempo diverso da quello determinato dal titolo o dal possesso, invece, non ne impedisce l’estinzione per prescrizione (art. 1076): in tal caso, infatti, si ritiene che il soggetto non eserciti la stessa servitù di cui è titolare, anche se, eventualmente, il comportamento concretamente tenuto gli fornisca una utilità sostanzialmente corrispondente.

9. Usi civici e proprietà collettive. – Ai diritti reali di godimento su cosa altrui possono essere accostati, pur con le peculiarità che ne caratterizzano la natura, gli usi civici. Essi consistono in diritti 58 spettanti su proprietà altrui agli appartenenti a determinate collettività di persone. Le (limitate) facoltà di godimento su proprietà private o pubbliche (prevalentemente comunali) sono riconosciute al singolo soggetto in quanto membro di una comunità (uti civis) legata ad un territorio. Si tratta di facoltà di godimento che si ricollegano a una organizzazione della società e della economia in larga misura non più attuale: si pensi al diritto degli appartenenti a una frazione comunale di raccogliere legna corta in boschi o di pascolare greggi in appezzamenti determinati. Pur se di contenuto economicamente poco rilevante 59, tali diritti, di origine il più delle volte remota, rappresentano una persistente limitazione gravante su taluni fondi, soprattutto in alcune zone del paese. Ciò anche perché, per la loro origine legata a diritti di cittadinanza, alla natura pubblicistica che li contraddistingue si ricollegano i caratteri di inalienabilità e imprescrittibilità 60. Di qui la tendenza ad eliminarli, consentendo la liberazione dei fondi da essi gravati mediante il pagamento di somme di danaro da destinare a beneficio delle comunità che ne risultano ancora titolari. Il riordino e la conseguente liquidazione degli usi civici risultano perseguiti dalla L. 16.6.1927, n. 1766, con il R.D. 26.2.1928, n. 332, nonché dalla L. 10.7.1930, n. 1078, attraverso l’istituzione di appositi organi (Commissari agli usi civici), cui sono stati attribuiti ampi poteri in materia, anche di carattere giurisdizionale in relazione al relativo (abbastanza esteso) contenzioso 61. Il trasferimento delle funzioni amministrative concernenti la liquidazione degli usi civici alle regioni (D.P.R. 24.7.1977, n. 616) ha dato luogo a interferenze di competenze, inevitabile causa di ulteriori ritardi, in merito alle quali sono ripetutamente intervenute la Cassazione e la Corte costituzionale. 58 Ribadisce Corte cost. 2-12-2021, n. 228, che “alla situazione giuridica soggettiva attribuita dall’ordinamento per tutelare l’interesse dei singoli membri della collettività all’uso promiscuo dei beni collettivi … deve riconoscersi la natura di diritto soggettivo dominicale, presentando le caratteristiche tipiche del diritto di proprietà” (in particolare, “realità”, “assolutezza” e “inerenza”), con “i caratteri della proprietà comune, sia pure senza quote, su un bene indiviso” (con conseguente tutelabilità, trattandosi di “diritto reale”, “con azione petitoria”). Di conseguenza, la relativa disciplina, in quanto rientrante “nella materia ‘ordinamento civile’”, deve considerarsi rientrare nella relativa “potestà legislativa esclusiva dello Stato” (ai sensi dell’art. 1172, lett. l, Cost.). 59 Cass. 21-5-2020, n. 9373 ha precisato che, “alla stregua delle regole civilistiche in tema di accessione e di quelle della normativa di uso civico, le opere e gli impianti realizzati senza titolo su di un suolo assoggettato a vincolo demaniale civico ne seguono le sorti”. 60 Cass. 28-11-2011, n. 19792, ha concluso, quindi, che “un bene aggravato da uso civico non può essere oggetto di espropriazione forzata, per il particolare regime della sua titolarità e della sua circolazione, che lo assimila ad un bene appartenente al demanio”. 61 Si chiarisce, comunque, che spettano alla giurisdizione del giudice ordinario “le controversie che abbiano ad oggetto l’appartenenza di un terreno al demanio comunale non destinato all’uso civico (come il demanio stradale)” (Cass., sez. un., 20-5-2020, n. 9280).

CAP. 3 – DIRITTI REALI DI GODIMENTO SU COSA ALTRUI

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Dagli usi civici, assimilabili ai diritti reali di godimento su cosa altrui, si distinguono (anche se non sempre chiaramente) forme di antiche proprietà collettive (su terreni, quindi, che non sono di proprietà altrui, ma della stessa collettività dei beneficiari) 62. Anche in tale ipotesi, il godimento spetta sulla base dell’appartenenza a determinate comunità (usualmente ristrette) o gruppi di famiglie ed è organizzato, in genere, turnariamente (come nel caso di pascoli alpini o terreni attribuiti a rotazione agli aventi diritto) 63. Pure in relazione a tali forme di appartenenza e di godimento di fondi, delicati problemi sono posti dalle trasformazioni cui sono andate incontro, nel tempo, l’organizzazione sociale e l’economia delle zone interessate 64. Al fine di un riordinamento della materia, è intervenuta, da ultimo, la L. 20.11.2017, n. 168 (“Norme in materia di domini collettivi”). La perseguita finalità 65 è quella (con il riconoscimento dei domini collettivi, “comunque denominati, come ordinamento giuridico primario delle comunità originarie”) di una tutela e valorizzazione dei beni di collettivo godimento, anche nella prospettiva della tutela ambientale, con ampia attribuzione – facendo comunque salvo quanto riconosciuto ai sensi del diritto anteriore alle “comunioni familiari vigenti nei territori montani” (art. 22) – di poteri gestionali agli “enti esponenziali delle collettività titolari dei diritti di uso civico e della proprietà collettiva”, cui viene riconosciuta “personalità giuridica di diritto privato e autonomia statutaria” (artt. 12 e 24). L’elemento decisivo per l’applicazione della nuova disciplina è rappresentato dall’avere “il diritto sulle terre di collettivo godimento” ad oggetto “utilità del fondo” normalmente riservate “ai componenti della comunità” (art. 23). L’elencazione dei beni collettivi è assai comprensiva, abbracciando le tradizionali forme di proprietà collettiva (“comunque denominate”), quali risultanti anche a seguito della liquidazione dei diritti di uso civico (e assimilati) su terre di soggetti pubblici e privati (o dello scioglimento di promiscuità), i corpi idrici sui quali i residenti esercitano usi civici, oltre alle terre (di proprietà pubblica o privata) gravate da “usi civici non ancora liquidati” (categoria, quest’ultima, comunque destinata a restare estranea al “demanio civico” dell’ente collettivo: art. 31-2,5). Viene chiarito che il regime di tutti i beni in questione “resta quello dell’inalienabilità, dell’indivisibilità, dell’inusucapibilità e della perpetua destinazione agro-silvopastorale” (33) 66.

10. Oneri reali. – A risalenti modi di organizzazione dello sfruttamento dei beni immobili si ricollega anche il concetto di onere reale. Esso consiste in un vincolo gravante su un bene (immobile), in virtù del quale chi si trova nel relativo godimento è tenuto ad eseguire una prestazione periodica a favore di un altro soggetto. Proprio in ciò è da ravvi62 In relazione alla distinzione tra usi civici e forme di appartenenza collettiva, rilevante per escludere l’operatività della disciplina di cui alla L. 1766/1927, v., di recente, Cass. 20-11-2014, n. 24714. 63 Si ricordino, ad es., le regole di alcune zone montane della provincia di Belluno, le partecipanze agrarie di alcune zone dell’Emilia, le consorterie della Valle d’Aosta. 64 Si pensi alla sopravvenuta utilizzazione di pascoli alpini a scopi turistici (ad es., per piste di sci). 65 In dichiarata attuazione dei principi di cui agli artt. 2, 9, 422 e 43 Cost. (art. 11). 66 L’art. 34 fa salvo, comunque, quanto previsto dalla precedente legislazione in materia di territori montani (anche con particolare riferimento alla disciplina dell’eventuale destinazione turistica dei beni). Secondo Corte cost. 31-5-2018, n. 113, essendo stati ribaditi “i capisaldi della tutela dei beni civici”, “non è stato modificato il procedimento di sclassificazione e mutamento di destinazione” quale precedentemente previsto.

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PARTE VI – PROPRIETÀ E DIRITTI REALI

sare la distinzione rispetto alle servitù, nelle quali, come si è visto (VI, 3.6), l’obbligo di effettuare una prestazione (da parte del proprietario del fondo servente) ha, al più, carattere accessorio. Alla figura dell’onere reale si ricollegano i livelli, quali residui (talvolta ancora esistenti) del riconoscimento di antichi domini (usualmente di carattere pubblicistico) sui fondi 67. Anche la loro affrancazione è disciplinata, come in genere quella di canoni, censi e ogni altra prestazione perpetua, dalla legislazione speciale (a partire dalla L. 11.6.1925, n. 998). L’onere reale, come istituto giuridico autonomo, non risulta recepito nel nostro ordinamento (a differenza che in quello tedesco: Reallast). Alla nozione di onere reale sono usualmente ricondotti i contributi consorziali (artt. 860 e 864) e il canone enfiteutico, del quale, peraltro, non si manca di contestare una simile qualificazione, non riscontrandosi alcun corrispondente particolare potere del creditore sul fondo. Caratteristica dell’onere reale – in quanto, appunto, diritto di natura reale – è, infatti, reputata l’immediatezza (oltre all’assolutezza), quale potere del titolare di soddisfarsi sulla cosa, indipendentemente dalle vicende relative ai diritti che la concernono, con conseguente possibile esercizio, a tal fine, di un’azione reale (che qui si atteggia come possibilità di ricavare quanto spettante attraverso l’esecuzione forzata sul bene). Il carattere reale del vincolo viene ricollegato anche al peculiare modo di presentarsi della responsabilità di chi si trovi a godere del bene che ne è gravato: costui risponde pure delle prestazioni maturate precedentemente all’instaurazione del suo rapporto col bene stesso (per il canone enfiteutico, si veda l’art. 9671). Si ritiene, poi, che egli risponda limitatamente al valore del bene, in ciò ravvisandosi una significativa differenza rispetto alle obbligazioni reali (o propter rem) (VII, 1.5), in relazione alle quali opera, invece, il principio generale della responsabilità patrimoniale del debitore (art. 2740). Vale per gli oneri reali il principio di tipicità (e del numerus clausus), per cui non è consentito agli interessati costituirne al di fuori delle ipotesi legislativamente previste. È da sottolineare, comunque, come un analogo principio si ritenga diffusamente valere (come anche quello della possibile estinzione a seguito di abbandono del bene) pure per le obbligazioni reali 68, in cui la titolarità di un diritto (proprietà o altro diritto reale) su di un bene rappresenta il mezzo di individuazione del soggetto tenuto ad una prestazione (come nel caso delle prestazioni accessorie dovute dal proprietario del fondo servente, ai sensi dell’art. 1030, nonché delle spese di comunione, art. 1104, e condominiali, art. 1123; a tale categoria si ascrive, da parte di taluni, considerandosi ormai inattuale la categoria dell’onere reale, anche il canone enfiteutico).

67 Al passato appartengono anche le decime, prestazioni dovute in proporzione alla produzione del fondo all’originario titolare di diritti dominicali sul bene (decime dominicali o signorili; si ricordino pure le antiche decime ecclesiastiche). 68 Così, da ultimo, ad es., Cass. 24-10-2018, n. 26987 (ma, diversamente e isolatamente, Cass. 6-3-2003, n. 3341, nel senso della estraneità del “principio di tipicità” alle obbligazioni propter rem), nonché, nel contesto di una convinta e ampiamente motivata riconferma del principio in questione, Cass., sez. un., 17-12-2020, n. 28972.

CAPITOLO 4

COMUNIONE E CONDOMINIO Sommario: 1. Comunione. – 2. Condominio negli edifici. – 3. Multiproprietà.

1. Comunione. – La comunione è la situazione che si determina quando la proprietà o altro diritto reale spetta in comune a più persone (art. 1100). Se, come accennato (VI, 1.2), si ritiene inammissibile la coesistenza di più diritti di proprietà sullo stesso bene, è consentita, invece, la contitolarità dello stesso diritto sul bene da parte di una pluralità di soggetti (a quella del diritto di proprietà si allude con la terminologia di comproprietà o, ancora più specificamente, di condominio) 1. Il fenomeno che ne risulta è molto diffuso e si presenta di ardua disciplina: la difficoltà è quella di conciliare la concorrenza, in relazione al bene, di una pluralità di interessi individuali della stessa natura, assicurando, al contempo, che l’esercizio delle facoltà di godimento e dei poteri di disposizione inerenti alla proprietà (o ad altro diritto reale) non ne risulti – anche nell’interesse collettivo dei contitolari e di quello generale della economia – pregiudicato 2. È facilmente comprensibile, allora, che il fenomeno in questione dia spazio ad accese discussioni circa la sua natura, a seconda che se ne accentui il profilo individuale (con la valorizzazione del diritto del singolo partecipante sulla cosa nella sua interezza, sia pure limitato dal concorrente diritto degli altri partecipanti), ovvero quello collettivo (con una preminente attenzione alla organizzazione della collettività dei partecipanti, alla quale sola spetterebbe il diritto). L’origine (fonte) della situazione di comunione può essere diversa. Si usa parlare, al riguardo, di comunione volontaria (quando sorge per volontà delle parti, come nel caso di acquisto insieme di una cosa), incidentale (quando sorge indipendentemente dalla volontà delle parti, per effetto di previsione legislativa, come nel caso della comunione ereditaria), ovvero forzosa (quando è imposta dalla legge e non ne è ammesso lo scioglimen1 Dalla definizione dell’art. 1100 emerge come il codice sembri avere inteso limitare la sfera dei diritti possibile oggetto di comunione alla proprietà e ai diritti reali, escludendone, invece, i diritti di credito. Discussa (e tradizionalmente negata) è, dunque, la configurabilità di una comunione relativa a crediti, ritenendosi che la problematica della pluralità dei creditori nel rapporto obbligatorio sia da affrontare nel quadro del fenomeno della complessità soggettiva dell’obbligazione (artt. 1292 ss.) (VII, 1.12-13). 2 La Relaz. cod. civ., n. 517, avverte, infatti, proprio in relazione ai pericoli di inefficiente gestione dei beni oggetto di comunione (per la difficoltosa coesistenza degli accennati interessi), che la disciplina introdotta “è assai più compiuta che nel codice del 1865 e meglio ordinata al fine di impedire che la situazione d’indivisione dei beni contraddica alle ragioni del progresso civile e della pubblica economia”.

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PARTE VI – PROPRIETÀ E DIRITTI REALI

to, come nel caso delle parti comuni dell’edificio condominiale, art. 1117, o della comunione del muro sul confine, art. 874) 3. Per regolamentare la partecipazione di ciascuno alla contitolarità del diritto, l’ordinamento ricorre al concetto di quota. Il diritto di ogni partecipante – almeno secondo la prospettiva più diffusa e aderente alla disciplina del fenomeno nel nostro ordinamento – ha ad oggetto la cosa nel suo insieme e non una sua parte specifica (la comunione è pro indiviso), ma esso viene limitato dal concorso del diritto (di natura omogenea) spettante a ciascuno degli altri contitolari. Il concorso dei partecipanti, ai quali insieme spetta la proprietà (o altro diritto reale) sulla cosa, tanto nei vantaggi, quanto nei pesi della comunione, è determinato, appunto, in proporzione delle rispettive quote (art. 11012) 4. Tale situazione viene correntemente definita, per ciascun partecipante, come diritto a una quota ideale della cosa, intendendosi con ciò sottolineare che non si tratta di diritto su una parte della cosa in senso fisico: il diritto alla quota (come frazione, cioè, solo astratta e matematica) si traduce in esso esclusivamente in seguito allo scioglimento della comunione ed alla conseguente divisione. La quota, insomma, indica la misura della partecipazione di ciascun contitolare al (medesimo) diritto sul bene: per ovvi motivi di opportunità, è stabilito che le quote dei partecipanti alla comunione si presumono eguali (art. 11011). Ciascun partecipante può disporre del suo diritto e cedere ad altri – ovviamente nei limiti della quota che gli spetta – il godimento della cosa (art. 11031), nonché costituire ipoteca sulla propria quota (art. 11032), con il particolare regime dell’art. 2825. Quanto alla utilizzazione della cosa comune, ogni partecipante può utilizzarla individualmente (c.d. uso collettivo o promiscuo), rispettando l’analogo diritto di godimento che compete agli altri partecipanti. Non può, però, alterare la destinazione economica della cosa 5. In tali limiti può anche apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per migliorare il godimento della cosa (art. 11021). L’art. 11022 si riferisce all’eventuale estensione del diritto del partecipante sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti: a tal fine è richiesto il compimento di atti idonei a mutare il titolo del suo possesso. 3 La disciplina dettata dal codice è riferita al fenomeno generale della comunione che, per distinguerla da ipotesi particolari di comunione, viene correntemente definita ordinaria. Una disciplina specifica è prevista per la comunione legale tra i coniugi (artt. 159 e 177 ss.) (V, 2.12), per il condominio negli edifici (artt. 1117 ss.) (VI, 4.2), nonché – quanto alle regole divisorie (a loro volta richiamate dall’art. 1116) – per la comunione ereditaria (artt. 713 ss.) (XII, 4.1). La normativa dettata dal codice è espressamente considerata di carattere suppletivo (applicabile, cioè, solo in mancanza di una diversa disciplina da parte della volontà dei costituenti – risultante dal titolo – o della legge, per i tipi di comunione regolati in tutto o in parte specificamente) (art. 1100). Peraltro, alcune disposizioni, come in particolare quella dell’art. 11112, si presentano come inderogabili dalla volontà delle parti. 4 Al modello di comunione cui si riferisce il nostro codice, di tradizione romana, si contrappone quello della comunione a mani riunite, di tradizione germanica. Quest’ultima (almeno quale modello generale ormai abbandonata, peraltro, anche dal codice civile tedesco a favore della comunione per quote: §§ 741 ss. BGB) si caratterizza per la mancanza del riferimento alla quota come criterio di misura della partecipazione di ciascuno al diritto (suscettibile di disposizione): il diritto, cioè, appartiene collettivamente al gruppo in quanto tale, ciascun membro potendo goderne solo in tale sua qualità. 5 Comunque, a condizione che “non venga alterata la destinazione del bene o compromesso il diritto al pari uso da parte di questi ultimi” (da intendere, però, nel senso di “uso potenziale), “ciascun comproprietario ha diritto di trarre dal bene comune una utilità maggiore o più intensa di quella degli altri comproprietari” (Cass. 16-4-2018, n. 9278).

CAP. 4 – COMUNIONE E CONDOMINIO

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Occorre, per trasformare, ai fini dell’usucapione, il compossesso 6 in possesso esclusivo, un comportamento che denoti inequivocabilmente (in quanto incompatibile con il possesso degli altri partecipanti) l’intenzione di possedere il bene in maniera esclusiva 7. Ciascun contitolare è tenuto a partecipare alle spese necessarie per la conservazione e il godimento della cosa comune in proporzione della propria quota 8. Si può liberare di tale obbligo solo rinunziando al suo diritto (art. 11041). È ammessa, dunque, la rinunzia – che deve essere inequivoca – al proprio diritto da parte del partecipante: la sua quota si accresce automaticamente, nei vantaggi come negli svantaggi, agli altri partecipanti 9. L’amministrazione della cosa comune spetta collettivamente a tutti i partecipanti, secondo il principio maggioritario. Per gli atti di ordinaria amministrazione è sufficiente che le deliberazioni provengano dalla maggioranza dei partecipanti, calcolata secondo il valore delle rispettive quote, purché tutti siano stati informati preventivamente del relativo oggetto. All’autorità giudiziaria si potrà rivolgere ciascun partecipante nel caso in cui non vengano presi (o eseguiti) i provvedimenti necessari per l’amministrazione della cosa comune (art. 1105). A maggioranza potrà essere adottato un regolamento per l’ordinaria amministrazione e per il migliore godimento della cosa comune, nonché nominato un amministratore (anche estraneo al gruppo dei partecipanti) (art. 1106) 10. Il regolamento può essere impugnato davanti all’autorità giudiziaria dai partecipanti dissenzienti (art. 1107). Solo con una maggioranza qualificata (due terzi del valore complessivo della cosa comune) si possono disporre innovazioni dirette a migliorare la cosa ed il suo godimento, purché non importino una spesa troppo gravosa, nonché compiere gli atti ec6

Tale intendendosi l’esercizio del possesso sulla cosa, allo stesso titolo, da parte di una pluralità di sog-

getti. 7

Per Cass. 29-9-2000, n. 12961 (e v. pure Cass. 23-7-2008, n. 20287), perché un partecipante possa estendere il suo diritto attraverso l’usucapione, occorre “un comportamento materiale che esteriorizzi sin dall’inizio in maniera non equivoca l’intento di possedere il bene in maniera esclusiva”. La previsione si inquadra nella prospettiva problematica della interversione del possesso (VI, 5.2 e 5.7), anche se, al fine indicato, è stata esclusa la “necessità di compiere atti di interversio possessionis alla stregua dell’art. 1164”, bastando “atti integranti un comportamento durevole tali da evidenziare un possesso esclusivo ed animo domini della cosa, incompatibili con il permanere del compossesso altrui” (Cass. 11-8-2005, n. 16841; 2-4-2018, n. 9100 e 19-2-2019, n. 4844, che allude all’alterazione “senza il consenso e in pregiudizio degli altri partecipanti” dello stato di fatto e della destinazione del bene: comunque, “non sono al riguardo sufficienti atti soltanto di gestione … o anche atti familiarmente tollerati dagli altri”). Ad atti e comportamenti “il cui compimento da parte di uno dei comproprietari realizzi l’impossibilità assoluta per gli altri partecipanti di proseguire un rapporto materiale con il bene”, allude Cass. 9-6-2015, n. 11903). Tali principi vengono applicati, in particolare, nei rapporti tra coeredi (Cass. 18-4-2018, n. 9556 e 22-1-2019, n. 1642) (XII, 4.4). 8 Il carattere di obbligazione reale (VII, 1.5) di quella del partecipante per le spese emerge dall’art. 11043, per cui il cessionario del partecipante è tenuto in solido col cedente al pagamento dei contributi da costui dovuti ma non corrisposti. 9 Ribadisce Cass. 9-11-2009, n. 23691, che “con la rinuncia, negozio di natura abdicativa” (v. anche Cass. 25-2-2015, n. 3819), si viene ad operare ipso iure, “in forza del principio di elasticità della proprietà, l’accrescimento della quota rinunciata” a favore degli altri compartecipi. Per l’applicabilità del principio anche nel contesto del sistema tavolare, v. Trib. Trieste 27-2-2017. 10 Peraltro, la “eventuale nomina di un amministratore non investe il medesimo di tutti i poteri di gestione e dei poteri di rappresentanza dei partecipanti”, come nel condominio degli edifici ai sensi degli artt. 1130 e 1131: “solo con espresso conferimento del relativo potere, l’amministratore può avere la rappresentanza dei partecipanti alla comunione” (Cass. 27-6-2007, n. 14826).

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PARTE VI – PROPRIETÀ E DIRITTI REALI

cedenti l’ordinaria amministrazione. È necessaria l’unanimità per gli atti di disposizione relativi alla cosa comune (alienazione, costituzione di diritti reali e locazione ultranovennale) (art. 1108). Contro le deliberazioni, ciascun componente della minoranza dissenziente può proporre impugnazione davanti all’autorità giudiziaria (art. 1109). Il partecipante ha il diritto (correntemente qualificato come potestativo) di chiedere in ogni momento lo scioglimento della comunione e la conseguente divisione. L’autorità giudiziaria, chiamata ad intervenire in mancanza di accordo, può stabilire una congrua dilazione, comunque non superiore a cinque anni (art. 11111). Le parti possono, peraltro, obbligarsi a rimanere in comunione per un tempo non superiore a dieci anni; se tale patto di indivisibilità è stato stipulato per una durata maggiore, questa si riduce a dieci anni (art. 11112). L’autorità giudiziaria, comunque, può anche ordinare lo scioglimento anticipato della comunione (art. 11113). Lo scioglimento della comunione non può essere chiesto solo se si tratti di cose che, ove divise, cesserebbero di servire all’uso cui sono destinate (art. 1112) 11. Da tale complessiva disciplina emerge evidente lo sfavore del legislatore per la situazione di comunione, in considerazione dell’intralcio che si teme possa derivarne ad uno sfruttamento ottimale del bene e alla sua libera circolazione. La divisione ha luogo preferibilmente in natura, ove la cosa sia comodamente divisibile in parti corrispondenti alle quote dei partecipanti (art. 1114). Alla divisione delle cose comuni si applicano, in quanto non contrastanti con quelle qui specificamente dettate, le norme sulla divisione ereditaria (art. 1116). Risulta, quindi, applicabile, ove non sia possibile la divisione in natura, il regime divisorio previsto dall’art. 720 (vendita del bene o relativa assegnazione ad un partecipante, rispettivamente con ripartizione della somma ricavata o imputazione alla quota dell’assegnatario e distribuzione del conguaglio tra gli altri partecipanti) 12.

2. Condominio negli edifici. – Il codice civile ha dettato una disciplina dettagliata per il condominio negli edifici, in considerazione della diffusione e della rilevanza sociale del fenomeno della proprietà degli edifici divisa per piani 13. Si tratta, in effetti, di un peculiare modo di atteggiarsi della proprietà, con una coesistenza di quella individuale e di quella comune, che si realizza tipicamente negli edifici: ciascuno ha la proprietà individuale di un piano o porzione di piano ed è, allo stesso tempo, contitolare della proprietà delle parti comuni dell’edificio. 11 Non ci si riferisce, quindi, semplicemente alle cose indivisibili, in relazione alle quali è pur sempre ipotizzabile lo scioglimento della comunione, sia pure senza una divisione in natura. Si fa l’esempio di cosa atta a fornire utilità (di carattere strettamente personale) ai soli partecipanti alla comunione, come un diario familiare. 12 Cass. 10-3-1976, n. 831, ha ritenuto applicabile il regime dell’art. 720, relativo agli immobili non divisibili, “in via d’interpretazione estensiva”, anche alla “ipotesi dello scioglimento della comunione in ordine a beni mobili di non comoda divisibilità”. 13 Si evidenzia, appunto, nella Relaz. cod. civ., n. 525, che “lo sviluppo assunto dal condominio negli edifici nei tempi più recenti non poteva non consigliare che la relativa disciplina, conseguitasi attraverso provvedimenti speciali, trovasse la sua sede nel codice civile”. A seguito di numerose iniziative di revisione legislativa dell’istituto, finalizzate ad adeguarne la regolamentazione alle nuove esigenze, una riforma di ampio respiro è stata attuata con la L. 11.12.2012, n. 220, la quale ha modificato diverse disposizioni del codice civile in materia, introducendone anche di nuove. Alcune delle disposizioni appena introdotte, peraltro, in considerazione della relativa problematicità, sono state già modificate dal D.L. 23.12.2013, n. 145.

CAP. 4 – COMUNIONE E CONDOMINIO

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Con l’introduzione dell’art. 1117 bis, risulta ora recepita anche la figura del c.d. supercondominio, dichiarandosi applicabili, “in quanto compatibili”, le disposizioni in materia di condominio, “in tutti i casi in cui più unità immobiliari o più edifici ovvero più condominii di unità immobiliari o di edifici abbiano parti comuni ai sensi dell’art. 1117” 14. Sono oggetto di proprietà comune (“se non risulta il contrario dal titolo”) 15 il suolo, le fondamenta, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni d’ingresso, i vestiboli, gli anditi, i porticati, i cortili, le facciate, nonché le aree destinate a parcheggio, i locali per i servizi in comune, come la portineria e l’alloggio del portiere, la lavanderia, gli stenditoi e sottotetti; sono tali, inoltre, le opere, le istallazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all’uso comune 16 (art. 14 Alla figura del s u p e r c o n d o m i n i o (o condominio complesso o orizzontale) si riferiva già correntemente la giurisprudenza, con riguardo alla situazione di più edifici (anche se a loro volta di carattere condominiale) aventi in comune spazi (portineria, reti viarie, parcheggi), servizi (portierato, pulizia) o impianti (idraulici, di riscaldamento). Si ritenevano, così, applicabili a “dette cose, impianti e servizi … in rapporto di accessorietà con i fabbricati … le norme sul condominio negli edifici, e non quelle sulla comunione in generale” (Cass. 7-7-2000, n. 9096). Sembra restare, quindi, attuale l’orientamento secondo cui, ferma pure in caso di supercondominio l’applicabilità delle “norme relative al condominio in relazione alle parti comuni di cui all’art. 1117 c.c.” (e v., ad es., di recente, Cass. 4-2-2021, n. 2623), “restano soggette alla disciplina della comunione ordinaria le altre eventuali strutture, che sono dotate di una propria autonomia, come per esempio le attrezzature sportive, gli spazi di intrattenimento, i locali di centri commerciali inclusi nel comprensorio comune” (Cass. 18-4-2005, n. 8066). Peraltro, si è evidenziato che “ai fini della configurabilità di un supercondominio, non è indispensabile l’esistenza di beni comuni a più edifici”, risultando sufficiente “la presenza di servizi comuni agli stessi” (quali illuminazione, rimozione dei rifiuti e portineria: Cass. 19-9-2014, n. 19799). Per Cass. 26-8-2013, n. 19558, “è nullo il regolamento contrattuale condominiale che determini, quali partecipanti all’assemblea del supercondominio, il collegio degli amministratori dei singoli edifici in luogo di tutti i condomini”. Al supercondominio viene considerata applicabile la norma dell’art. 11291, concernente la necessaria nomina di un amministratore quando i partecipanti siano più di otto (Cass. 12-6-2018, n. 15262, secondo cui “laddove esiste un supercondominio, devono esistere due tabelle millesimali: la prima riguarda i millesimi supercondominiali … la seconda è quella normale interna ad ogni edificio”). 15 Potrà essere prevista, così, al momento della vendita frazionata dell’edificio, la proprietà esclusiva del lastrico solare o dei locali destinati ad alloggio del portiere. In relazione alla possibilità di costituire un diritto di uso esclusivo di parti comuni a favore di uno dei condomini, a fronte di opinioni differenziate, Cass., sez. un., 17-12-2020, n. 28972, ha negato – ad esito di un’approfondita esegesi dell’art. 1102, rubricato “uso della cosa comune”, dettato per la comunione, ma applicabile al condominio per il tramite dell’art. 1139 – che “la creazione di un atipico ‘diritto reale di uso esclusivo’, tale da svuotare di contenuto il diritto di comproprietà, possa essere il prodotto dell’autonomia negoziale”, ostandovi” il principio, o i principi, sovente in dottrina tenuti distinti, sebbene in gran parte sovrapponibili, del numerus clausus dei diritti reali e della tipicità di essi” (su cui v. supra, VI, 3.1). Resta salva, ricorrendone i presupposti, la possibile conversione ex art. 1424 “del contratto volto alla creazione del diritto reale di uso esclusivo in contratto avente ad oggetto la concessione di un uso esclusivo e perpetuo (perpetuo inter partes, ovviamente) di natura obbligatoria”. L’elencazione di cui all’art. 1117 si ritiene “non tassativa ma meramente esemplificativa” (Cass. 9-6-2000, n. 7889). Ciò sembra ora emergere anche dalla utilizzazione, nell’art. 1117, n. 1, di un riferimento generale a “tutte le parti dell’edificio necessarie all’uso comune” e dal risultare introdotta la conseguente estesa elencazione da “come” (similmente l’art. 1117, n. 3, per “le opere, le istallazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all’uso comune”). Di conseguenza non pare condivisibile l’esclusione, da parte di Trib. Genova 28-1-2016, della ricorrenza di un supercondominio (per carenza di “parti comuni ai sensi dell’art. 1117”), nel caso in cui siano comuni (solo) strade private. 16 Si allude ad ascensori, pozzi, cisterne, impianti idrici e fognari, sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, per l’energia elettrica, per il riscaldamento ed il condizionamento dell’aria, per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro flusso informativo, anche da satellite o via cavo.

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1117) 17. Proprio per questo carattere funzionale, si tratta di una comunione forzosa. Ciascun condomino, come in ogni altro caso di comunione, può servirsi di tali parti comuni compatibilmente con il pari diritto di servirsene degli altri, ma non ne può chiedere la divisione (salvo che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa agli altri condomini e, comunque, con il consenso di tutti i partecipanti: art. 1119). Il diritto di ciascun condomino su tali cose è proporzionato (sempre salvo che diversamente risulti dal titolo) al valore del piano o della porzione di piano che gli appartiene (art. 11181). Egli non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni e sottrarsi al contributo per le spese della relativa conservazione (art. 11182-3) 18. Il peculiare atteggiarsi della proprietà negli edifici condominiali comporta, per definizione, problematiche complesse. Di conseguenza, è prevista come normale la presenza di un amministratore (le cui numerose attribuzioni sono indicate nell’art. 1130) 19, almeno quando i condomini siano più di otto: la relativa nomina può essere effettuata, in mancanza di accordo in sede assembleare, dall’autorità giudiziaria su ricorso di uno o più condomini (art. 11291) 20. All’amministratore compete la rappresentanza dei partecipanti e può agire in giudizio sia contro i condomini sia contro i terzi (art. 1131, il quale prevede anche che possa essere convenuto in giudizio per le azioni relative alle parti comuni dell’edificio). La disciplina del condominio si discosta, in effetti, da quella ordinaria della comunione (come mera contitolarità di diritti), avvicinando la relativa figura, per taluni aspetti, a quella degli enti: non a caso, ne viene prospettata diffusamente una certa (anche se sui generis) soggettività giuridica (in particolare, proprio sulla base della regolamentazione della sua rappresentanza) 21. 17

Viene previsto che l’assemblea (con una maggioranza particolarmente elevata, con notevoli cautele circa la sua convocazione e con limitazioni sostanzialmente corrispondenti a quelle previste dall’art. 11214 per le innovazioni), per soddisfare esigenze di interesse condominiale, possa modificare la destinazione d’uso di parti comuni (1117 ter). Un meccanismo efficiente di tutela della destinazione d’uso prevede l’art. 1117 quater. 18 Con l’art. 11184 è stata disciplinata, in particolare, la materia (fonte di ricorrenti controversie) della rinuncia all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento. 19 La figura (persona fisica o società) dell’amministratore – nominato dall’assemblea che lo può in ogni tempo revocare – si presenta indiscutibilmente valorizzata dalla L. 220/2012 (che ne prevede anche specifici requisiti di competenza professionale, salvo che non si tratti di un condomino: art. 71 bis disp. att.). A lui, in particolare, compete la redazione del rendiconto condominiale annuale (disciplinato minuziosamente dall’art. 1130 bis), nonché la tenuta, in aggiunta ad altri registri, del registro di anagrafe condominiale (contenente notizie essenziali – oltre che riguardo alle condizioni di sicurezza delle parti comuni dell’edificio – circa le diverse unità immobiliari ed i soggetti titolari di diritti reali e personali di godimento su di esse: art. 11306-7). L’art. 1129 disciplina dettagliatamente nomina, durata in carica e revoca dell’amministratore, prevedendo espressamente quali siano le “gravi irregolarità” eventualmente addebitabili la sua gestione (e rinviando, “per quanto non disciplinato”, all’applicazione delle disposizioni in tema di mandato). 20 Con riferimento a quello composto da due partecipanti (c.d. condominio minimo), Cass., sez. un., 31-1-2006, n. 2046, ha concluso che “il rimborso delle spese per la conservazione delle cose comuni anticipate da uno dei condomini è disciplinato non già dall’art. 1110”, dettato in tema di comunione, “ma dall’art. 1134, in base al quale il diritto al rimborso è riconosciuto solo per le spese urgenti” (v. anche Cass. 16-4-2018, n. 9280). 21 Secondo un accreditato indirizzo, comunque, “il condominio non è un soggetto giuridico dotato di propria personalità distinta da quella di coloro che ne fanno parte, bensì un semplice ente di gestione, il quale opera in rappresentanza e nell’interesse comune dei partecipanti, limitatamente all’amministrazione e al buon uso della cosa comune, senza interferire nei diritti autonomi di ciascun condomino” (Cass. 9-6-2000, n. 7891; ancora di recente, Cass. 30-9-2014, n. 20557, nonché Cass. 28-2-2018, n. 4573). Peraltro, nel senso della “in-

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È in una simile prospettiva, del resto, che deve essere valutata la obbligatorietà, se i condomini sono più di dieci, della formazione di un regolamento condominiale (quale sorta di statuto del condominio), che contempli le norme per l’uso della cosa comune e per la ripartizione delle spese (pure a ciò provvedendo, in mancanza di accordo, l’autorità giudiziaria, su iniziativa di ciascuno dei condomini) (art. 11381-3) 22. Al regolamento condominiale è demandata, in particolare, la determinazione del valore rispettivo delle proprietà individuali (in proporzione al valore dell’intero edificio), ai fini del concorso nell’amministrazione e nella sopportazione delle varie spese condominiali, quantificandolo in millesimi (in apposita tabella: art. 68 disp. att.) 23. Le norme del regolamento di condominio, comunque, non possono menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultanti dagli atti di acquisto e dalle convenzioni. Inderogabili sono, poi, espressamente dichiarate numerose disposizioni, evidentemente considerate imprescindibili ai fini del buon funzionamento dell’organismo condominiale, nel rispetto dei diritti di tutti i condomini (art. 11384). Si è specificato che il regolamento non può vietare di possedere o detenere animali domestici (11385). L’organo collegiale del condominio, cui sono riconosciuti ampi poteri (approvazione del regolamento condominiale, nomina e conferma dell’amministratore, approvazione del preventivo delle spese e del relativo rendiconto annuale, approvazione delle opere di manutenzione straordinaria e delle innovazioni, deliberazioni concernenti le liti), è rappresentato dall’assemblea dei condomini (art. 1135). Per la sua costituzione e per le sue deliberazioni il codice detta una disciplina articolata (più di quella prevista per le associazioni), consistenza” pure del “ripetuto e acritico riferimento dell’ente di gestione al condominio degli edifici”, v. Cass., sez. un., 8-4-2008, n. 9148. Col problema della soggettività del condominio, pur non affrontato esplicitamente dalla riforma (diversamente che in talune proposte), pare interferire ora la previsione per cui, nel disciplinare la nota di trascrizione anche per i condominii, si stabilisce che, in relazione ad essi, “devono essere indicati l’eventuale denominazione, l’ubicazione e il codice fiscale” (art. 2659, n. 1). Comunque, Cass., sez. un., 10-4-2019, n. 10934 (ridimensionando la portata delle aperture in senso contrario di Cass., sez. un., 18-9-2014, n. 19663, secondo cui sarebbe rilevabile una “progressiva configurabilità in capo al condominio di una sia pure attenuata personalità giuridica”), ha confermato l’orientamento tradizionale, per avere respinto il legislatore, in sede di riforma, “la prospettiva di dare al condominio personalità giuridica con conseguenti diritti sui beni comuni” (avallando, di conseguenza, il prevalente orientamento, nel senso che i singoli condomini hanno “la facoltà di affiancarsi o surrogarsi all’amministratore nella difesa in giudizio dei diritti vantati sui beni comuni”, dato il “carattere autonomo del potere del condomino di agire a tutela dei suoi diritti di comproprietario pro quota”). Al condominio, in ogni caso, tende ad essere applicata, nelle contrattazioni in cui è interessato, “la disciplina di tutela del consumatore” (Cass. 22-5-2015, n. 10679 e 16-5-2017, n. 12164). 22 A fronte di una diffusa prassi in tal senso, si è stabilito che “è nullo per indeterminatezza dell’oggetto … il mandato contenuto nell’atto di cessione delle singole unità immobiliari condominiali con il quale si consente al costruttore di redigere in futuro il regolamento condominiale senza individuare alcun criterio per la redazione dello stesso” (Cass. 11-4-2014, n. 8606). È stata prospettata l’esigenza di una interpretazione restrittiva delle clausole del regolamento condominiale (contrattuale) tendenti ad imporre “divieti e limiti alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva”, Cass. 20-10-2016, n. 21307. La previsione di tali “limiti alla destinazione delle proprietà esclusive” viene (da Cass. 18-10-2016, n. 21024) “ricondotta alla categoria delle servitù atipiche”. 23 Contro la tradizionale affermazione della necessità, ai fini dell’approvazione o della revisione delle tabelle millesimali, del consenso di tutti i condomini, Cass., sez. un., 9-8-2010, n. 18477, aveva concluso che esse “non devono essere approvate con il consenso unanime dei condomini, essendo sufficiente la maggioranza qualificata di cui all’art. 1136, comma 2” (la stessa, cioè, richiesta dall’art. 11383 per l’approvazione del regolamento condominiale da parte dell’assemblea). L’art. 69 disp. att. dispone ora che i valori espressi nella tabella millesimale – salvo ipotesi specifiche (come in caso di “mutate condizioni di una parte dell’edificio”), in cui viene considerata sufficiente la maggioranza dell’art. 11362 – “possono essere rettificati o modificati all’unanimità”.

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fondata sulla concorrente rilevanza di due criteri: il valore complessivo dell’edificio e il numero dei partecipanti al condominio (art. 1136). Tutti i condomini devono essere invitati alla riunione 24, è richiesto un quorum (numero minimo di condomini partecipanti all’assemblea) e le maggioranze (in applicazione proporzionale dei due criteri indicati) sono diverse, a seconda del tipo di deliberazione da adottare. In sostanza, la distinzione è tra atti di ordinaria amministrazione, atti di straordinaria amministrazione e innovazioni 25. Le deliberazioni dell’assemblea sono obbligatorie per tutti i condomini, ma ne è prevista la possibile impugnazione, con ricorso all’autorità giudiziaria, da parte dei condomini dissenzienti o assenti, entro il termine di trenta giorni (art. 1137). Le deliberazioni che incidono sui diritti individuali dei condomini sono, invece, impugnabili in ogni tempo 26. Particolarmente dettagliato è il regime delle innovazioni (art. 1120, ove si distingue, ai fini delle maggioranze assembleari necessarie, tra i diversi tipi di innovazioni, vietandone senz’altro talune) 27, agli oneri relativi alle quali, se gravose o voluttuarie, neppure la maggioranza qualificata prevista dall’art. 11365 può costringere i condomini che dissentano dalla loro effettuazione (art. 1121). 24

Le modalità di convocazione e di partecipazione (anche a mezzo di rappresentante) dei condomini sono puntualmente disciplinate negli artt. 66 e 67 disp. att. (pure con specifico riferimento al supercondominio). 25 Talune leggi, in materie specifiche, hanno disposto deroghe alle maggioranze qualificate previste in generale per le innovazioni (ad es., per eliminare le barriere architettoniche o istituire parcheggi). 26 Al riguardo, si ci si riferisce correntemente alla distinzione tra le deliberazioni la cui impugnazione è assoggettata al termine di trenta giorni (definite annullabili) e quelle contro cui il condomino può agire senza essere assoggettato a termini (definite nulle). Riordinando tale discussa problematica, Cass., sez. un., 7-3-2005, n. 4806, ha precisato che “debbono qualificarsi nulle le delibere dell’assemblea condominiale prive degli elementi essenziali, le delibere con oggetto impossibile o illecito (contrario all’ordine pubblico, alla morale o al buon costume), le delibere con oggetto che non rientra nella competenza assembleare, le delibere che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, le delibere comunque invalide in relazione all’oggetto; debbono, invece, qualificarsi annullabili le delibere con vizi relativi alla regolare costituzione dell’assemblea, quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell’assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione, quelle che violano norme richiedenti qualificate maggioranze in relazione all’oggetto” (annullabile è considerata, di conseguenza, la delibera per “mancata comunicazione, a taluno dei condomini, dell’avviso di convocazione dell’assemblea condominiale”). Sul tema è tornata Cass., sez. un., 14-4-2021, n. 9839, la quale ha inteso ribadire, ma con precisazioni, i principi già affermati da Cass. 4806/2005, rilevando, in particolare, che “proprio considerando il fatto che la categoria della annullabilità è stata elevata dal legislatore a ‘regola generale’ delle deliberazioni assembleari viziate, è possibile cogliere l’inadeguatezza del criterio distintivo tra nullità e annullabilità fondato sulla contrapposizione tra ‘vizi di sostanza’ e ‘vizi di forma’” (quale individuato nella precedente pronuncia). Così, “del tutto residuale rispetto alla generale categoria dell’annullabilità” risultando quella della nullità (“attenendo a quei vizi talmente radicali da privare la deliberazione di cittadinanza nel mondo giuridico”), essa deve reputarsi limitata ai casi di: “mancanza originaria degli elementi costitutivi essenziali” (volontà della maggioranza, oggetto, causa, forma); “impossibilità dell’oggetto, in senso materiale o in senso giuridico” (la prima da valutarsi “con riferimento alla concreta possibilità di dare attuazione a quanto deliberato”, la seconda da valutarsi “in relazione alle ‘attribuzioni’ proprie dell’assemblea”, ricorrendo in caso di “difetto assoluto di attribuzioni”); “illiceità” (quando “il decisum risulta contrario a ‘norme imperative’, all’‘ordine pubblico’ o al ‘buon costume’”). In una simile prospettiva, pur essendo le deliberazioni concernenti la ripartizione delle spese tra condomini “affette da un vizio di ‘sostanza’”, esse devono, in linea di principio, considerarsi annullabili, la nullità risultando applicabile (“per ‘impossibilità giuridica’ dell’oggetto”) alle (sole) deliberazioni “con le quali, a maggioranza, siano stabiliti o modificati i generali criteri di ripartizione delle spese previsti dalla legge o dalla convenzione, da valersi in futuro”. 27 Di particolare interesse risulta l’inclusione tra le innovazioni vietate “l’assegnazione, in via esclusiva e per un tempo indefinito, di posti auto solo in favore di taluni condomini” (Cass. 27-5-2016, n. 11034).

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Le spese sono ripartite tra i condomini in proporzione al valore della proprietà di ciascuno (salvo diversa convenzione), con un diverso criterio nel caso di cose destinate a servire i condomini in misura differente e per le opere destinate a servire solo ad un gruppo di condomini (ad es., le diverse scale o lastrici solari) (art. 1123) 28. Regole specifiche sono previste per la ripartizione delle spese relative alle scale (art. 1124), ai soffitti, volte e solai (art. 1125) ed ai lastrici solari di uso esclusivo (art. 1126). Il diritto di sopraelevare l’edificio (salvo che diversamente risulti dal titolo) è riservato al proprietario dell’ultimo piano o a chi risulti proprietario esclusivo del lastrico solare, previo indennizzo agli altri condomini (art. 1127) 29.

3. Multiproprietà. – L’espressione multiproprietà si è affermata nella pratica degli affari immobiliari senza un preciso significato tecnico-giuridico. Con essa si è inteso semplicemente individuare la sostanza del fenomeno consistente nell’attribuzione ad un soggetto del godimento ciclico, per un certo periodo ogni anno, di locali idonei ad una utilizzazione turistica. La problematica del godimento turnario di una unità immobiliare, abitualmente parte di un vasto complesso, ha interessato, in effetti, essenzialmente il mercato delle c.d. seconde case, in località a vocazione turistica, nel tentativo di stimolare il mercato in tale settore. Il perseguimento dell’indicata finalità ha indotto a seguire vie diverse sotto il profilo degli strumenti giuridici utilizzati, venendosi nella pratica commerciale a delineare differenti modelli (genericamente indicati, appunto, in termini di multiproprietà), spesso di incerta configurazione, tanto da spingere, a tutela dei soggetti coinvolti (nella prospettiva della tutela del contraente debole nei confronti del professionista), la Comunità europea ad intervenire con una direttiva (94/47/CE), attuata col D.Lgs. 9.11.1998, n. 427, confluito negli artt. 69 ss. D.Lgs. 6.9.2005, n. 206 (codice del consumo), da ultimo novellati col 28 Cass., sez. un., 8-4-2008, n. 9148, riferite (secondo l’opinione corrente) le spese condominiali alla figura delle obbligazioni propter rem (VI, 3.10; VII, 1.5), aveva ritenuto – sotto il vigore della precedente disciplina e con una soluzione diffusamente considerata discutibile – “le obbligazioni e la relativa responsabilità dei condomini … governate dal criterio della parziarietà” (la responsabilità di ciascun condomino per le spese condominiali, cioè, come limitata esclusivamente alla propria quota di spese). Si è ora stabilito che l’amministratore sia tenuto a comunicare i dati dei condomini morosi ai creditori insoddisfatti che lo interpellino (evidentemente per consentire loro di agire nei relativi confronti) (art. 631 disp. att.). Prevedendo anche che i creditori non possono agire nei confronti dei condomini obbligati in regola con i pagamenti, “se non dopo l’escussione degli altri condomini” (insomma, di quelli inadempienti) (art. 632 disp. att.), sembra essersi così sancita, in materia di spese condominiali, una responsabilità solidale, sia pure sussidiaria (VII, 1.13), dei condomini adempienti (in proposito, Cass. 9-1-2017, n. 199, esclude che “l’obbligo di contribuzione alle spese si connoti verso il terzo creditore come rapporto unico con più debitori, ovvero come obbligazione solidale per l’intero in senso proprio”). Chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato solidalmente con lui al pagamento dei contributi relativi all’anno in corso e a quello precedente, mentre colui che cede diritti su unità immobiliari resta obbligato solidalmente con l’avente causa per i contributi maturati fino al momento in cui è trasmessa all’amministratore copia autentica del titolo che determina il trasferimento del diritto (art. 634-5 disp. att.). 29 Per Cass., sez. un., 30-7-2007, n. 16794, l’indennizzo è dovuto pure “a prescindere dal fatto che si siano realizzati nuovi piani o nuove fabbriche”, ove si siano create “nuove unità abitative sostitutive delle precedenti soffitte esistenti”. L’indennizzo in questione (qualificato come “debito per responsabilità da atto lecito”: Cass. 15-11-2016, n. 23256) è stato ritenuto “oggetto di un debito di valore” (Cass. 7-4-2014, n. 8096). In relazione alla frequente concessione dei lastrici solari a terzi per l’installazione di ripetitori di segnale, Cass., sez. un., 30-4-2020, n. 8434, ha concluso nel senso che il relativo contratto può essere ricondotto, ad un “contratto costitutivo di un diritto di superficie”, ovvero ad un “contratto atipico di concessione ad aedificandum, di natura personale”, rappresentando la riconduzione del contratto concluso (e dedotto in giudizio), “una questione di interpretazione contrattuale, che rientra nei poteri del giudice di merito”.

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D.Lgs. 23.5.2011, n. 79 (che ora, nella intitolazione del relativo capo, si riferisce esplicitamente ai “contratti di multiproprietà”, sia pure in una con i “contratti relativi ai prodotti per le vacanze di lungo termine” ed ai “contratti di rivendita e di scambio”). L’intento di tutelare l’acquirente ha indotto ad offrire una definizione estremamente elastica della figura (alludendosi ai contratti “di durata superiore a un anno”, con i quali, “un consumatore acquisisce a titolo oneroso il diritto di godimento su uno o più alloggi per il pernottamento per più di un periodo di occupazione”: art. 691, lett. a). Si impone, inoltre, di fornire puntuali informazioni precontrattuali, attraverso formulari informativi rigidamente predefiniti: art. 71. Il modello cui meglio si attaglia la qualifica di multiproprietà è, tradizionalmente, quello della c.d. multiproprietà immobiliare (o reale) la cui natura giuridica è stata (e resta) molto discussa. Le diverse tesi prospettate hanno fatto riferimento: alla comunione (tra i comproprietari dell’unità abitativa); alla costituzione di un diritto reale atipico; alla delineazione di un nuovo tipo di proprietà (quale proprietà su di un bene individuato non solo dal punto di vista spaziale, ma anche da quello temporale). La ricostruzione più diffusa è quella che accosta il fenomeno alla comunione 30, specificamente caratterizzata dalla indivisibilità e dalla preventiva predeterminazione della modalità temporale del godimento di ciascuno dei comproprietari. Tale ricostruzione deve fare i conti, però, oltre che col carattere meramente obbligatorio della determinazione delle modalità temporali di godimento, con quello di naturale temporaneità della comunione, in vista del quale è inderogabilmente limitata la portata temporale del patto di indivisibilità (art. 1111: VI, 4.1), qui superabile solo con una (forse troppo ardita) dilatazione del concetto di indivisibilità (art. 1112). La ricostruzione quale diritto reale atipico presuppone, ovviamente, l’accantonamento del principio di tipicità dei diritti reali (VI, 3.1) 31, lasciando aperto, comunque, il problema dell’individuazione del soggetto cui riferire la proprietà del bene. La tesi della proprietà spazio-temporale, poi, anche se si propone – col prospettare il superamento (almeno nella relativa esclusività) del profilo della materialità nell’individuazione del bene oggetto del diritto – di consentire l’opponibilità (attraverso la relativa trascrizione) della regolamentazione temporale del diritto, data la peculiarità della situazione rende scarsamente utile lo stesso riferimento all’idea di proprietà esclusiva del bene considerato (in ogni caso finendo col presentarsi, infatti, i problemi tipici della contitolarità sul bene) 32. Fonte di problemi ricostruttivi è anche la c.d. multiproprietà azionaria, caratterizzata 30 Una simile ricostruzione – per cui v. già Trib. Napoli 21-3-1989 – si presenta data quasi per scontata da Cass. 16-3-2010, n. 6352, che ritiene, di conseguenza, essenziale, ai fini della validità del relativo contratto (anche preliminare), la “individuazione della quota come concreta ed effettiva entità della partecipazione di ciascun comproprietario al godimento dell’alloggio oggetto di comproprietà” (“della quota nella sua effettiva misura … non risultando sufficiente l’indicazione del solo periodo di godimento dell’immobile”, precisa Cass. 19-3-2018, n. 6750). Peraltro, Trib. Trento 13-12-2018, evidenzia il carattere di “comunione sui generis” della multiproprietà, per dedurne l’inammissibilità di una rinuncia alla relativa quota (almeno “senza il consenso degli altri cointeressati”), dato che “il partecipante ha un diritto del quale può godere in forza di un regolamento di godimento turnario” (con una conseguente connotazione sinallagmatica del vincolo esistente tra i multiproprietari). In sostanzialmente analoga prospettiva, v. anche Trib. Lecce 11-9-2019. 31 Reputando superabile un simile principio (diffusamente contestato: VI, 3.1), per la ricostruzione del fenomeno in termini di diritto reale atipico, con conseguente possibilità di un ricorso solo in via analogica alle disposizioni disciplinanti la comunione e il condominio, si è orientata App. Genova 29-9-2000. 32 Tale tesi risulta favorevolmente prospettata da App. Torino 20-12-2007.

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dall’essere il godimento turnario del multiproprietario collegato alla titolarità di azioni di una società, cui compete la proprietà dell’immobile. Alle difficoltà derivanti dalla compatibilità di tale modello con la disciplina societaria, si è cercato di porre rimedio, considerandolo contraddistinto dal collegamento di due rapporti: quello che lega il soggetto, in quanto titolare della posizione di socio, alla società, la quale conserva la proprietà dell’immobile (ma deve contestualmente perseguire uno scopo di lucro) e quello derivante dalla convenzione tra società e azionista, da cui deriva a quest’ultimo il diritto personale al godimento dell’unità immobiliare per il periodo stabilito 33. Si parla anche di multiproprietà alberghiera con riferimento all’ipotesi in cui il godimento periodico del bene sia assicurato nel contesto, appunto, di una struttura di tipo alberghiero. Con le peculiarità che derivano da una simile destinazione dell’immobile e dal godimento di servizi alberghieri, si tratta, in sostanza, di una variante dei due modelli precedenti. Non va confusa con essa l’acquisto di un diritto personale di godimento (anche di lunga durata), relativamente ad un alloggio e con diritto alla fruizione dei servizi alberghieri, da una società turistico-alberghiera (parlandosi più correttamente, al riguardo, di multilocazione alberghiera, pure alla quale, peraltro, si indirizza la ricordata disciplina ora contenuta nel codice del consumo) 34. Di fronte ad un quadro tanto incerto, non a torto il legislatore, nel contesto della normativa (di origine comunitaria) a tutela del contraente debole, ha inteso garantire la posizione dell’acquirente, nei confronti di un venditore che sia professionalmente tale, disciplinando i contratti con cui si realizzano le finalità tipiche della figura 35. Sono stati, così, puntualmente regolati (inserendo corrispondenti previsioni nel codice del consumo): le informazioni da offrire in sede di pubblicità (art. 70); il contenuto del formulario informativo che deve essere consegnato all’aspirante acquirente (art. 71); la forma (necessariamente scritta sotto pena di nullità) del contratto ed il suo contenuto (art. 72); il diritto di recesso dell’acquirente, da esercitare entro quattordici giorni dalla conclusione del contratto (art. 73), con modalità ed effetti rigorosamente predefiniti; l’obbligo del venditore di prestare idonea garanzia (art. 72 bis). Sono state previste, altresì, rilevanti sanzioni amministrative a carico dei venditori che non si adeguino alla disposta regolamentazione (art. 81).

33 Cass. 10-5-1997, n. 4088, ritiene possibile, così, aggirare le diffuse perplessità circa la possibilità di far derivare i diritti del multiproprietario azionista direttamente dalla situazione di socio. Trib. Pisa-Pontedera 27-4-2010 allude ad una ipotesi di “contratto di multiproprietà associativa”, caratterizzato dalla cessione, da parte del trustee agli associati/beneficiari, di “un certificato associazione”, comportante “il diritto di godere il bene incluso nel fondo in trust in quote temporali predeterminate”. 34 Con D.L. 12.9.2014, n. 133, conv. dalla L. 11.11.2014, n. 164, nonché col successivo D.P.C.M. 22.1.2018, n. 13, è stata disciplinata, come figura peculiare rispetto a quella della multiproprietà, il Condhotel (IX, 1.14), concernente gli “esercizi alberghieri aperti al pubblico, a gestione unitaria, composti da una o più unità immobiliari ubicate nello stesso comune o parti di esse, che forniscono alloggio, servizi accessori ed eventualmente vitto, in camere destinate alla ricettività e, in forma integrata e complementare, in unità abitative a destinazione residenziale, dotate di servizio autonomo di cucina, la cui superficie non può superare il quaranta per cento della superficie complessiva dei compendi immobiliari interessati”. Potendo tali ultime unità abitative “essere oggetto di diritti, anche reali, di soggetti diversi dall’impresa alberghiera”, ne risulta una “natura ibrida e complessa della nuova figura giuridica”, tale, quindi, da richiedere “che siano regolamentati anche importanti aspetti contrattuali e condominiali” (Corte cost. 14-1-2016, n. 1). 35 Reputata, non a caso, tendenzialmente caratterizzata dalla “prevalenza funzionale” della prestazione di servizi, “rispetto all’acquisto del diritto sul bene immobile” (Trib. Bari 28-3-2000).

CAPITOLO 5

POSSESSO Sommario: 1. Nozione e fondamento. – 2. Possesso e detenzione. – 3. Oggetto e vicende. – 4. Possesso di buona fede. – 5. Effetti del possesso. Diritti e obblighi del possessore nella restituzione della cosa. – 6. Possesso di buona fede di beni mobili (art. 1153). – 7. Usucapione. – 8. Azioni a tutela del possesso.

1. Nozione e fondamento. – Il codice civile definisce il possesso come “il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale” (art. 11401). Da tale enunciato si deduce che l’ordinamento offre la sua tutela al soggetto non solo in quanto titolare di una situazione soggettiva qualificabile come diritto, ma anche per il semplice fatto di esercitare un potere sulla cosa, tenendo un comportamento corrispondente a quello che gli sarebbe consentito dalla titolarità della proprietà (o di altro diritto reale). Viene considerata, cioè, situazione giuridicamente rilevante, di per se stessa, la instaurazione (e la successiva conservazione) di un rapporto immediato con la cosa, al fine di esercitare (e concretamente esercitando) su di essa le facoltà ed i poteri che costituiscono il contenuto del diritto di proprietà (o di altri diritti reali). Una certa tutela, insomma, è accordata al soggetto – in quanto eserciti il potere di fatto sulla cosa 1 – indipendentemente dalla circostanza che egli sia o meno titolare di un diritto che legittimerebbe l’esercizio del potere: potrà esserlo o meno, ciò non rileva ai fini del riconoscimento della tutela possessoria (in relazione alla quale, quindi, risultano posti sullo stesso piano il proprietario della cosa che ne sia stato spogliato e chi si sia impossessato illecitamente della cosa stessa). Si tratta, ovviamente, di una tutela di carattere provvisorio, tendente essenzialmente ad assicurare che non venga modificata l’esistente situazione di fatto rispetto alla cosa, salvo a consentirne la eventuale modificazione (ma solo in un secondo tempo), in conseguenza del ricorso agli strumenti che l’ordinamento pone a disposizione del titolare del diritto – di proprietà o di altro diritto reale – per fare riconoscere le proprie prerogative. Prerogative, tra cui rientra, in primo luogo, proprio il 1 Per descrivere la situazione cui si riferisce, l’art. 11401 adopera l’espressione “potere sulla cosa”. Un tale potere viene correntemente (e secondo la tradizione) qualificato di fatto, per evidenziare come l’ordinamento, ai fini del riconoscimento di conseguenze giuridiche alla situazione che ne deriva, si limiti a considerare il comportamento, in quanto tale, del soggetto. Di “potere di fatto” parla senz’altro, comunque, la Relaz. cod. civ., n. 533, pur non risultando, poi, adottata tale espressione nel testo del codice civile, probabilmente per essere considerata scontata una simile qualificazione del “potere sulla cosa” (al “potere di fatto che alcuno ha sopra una cosa” alludeva, invece, l’art. 522 del progetto della Commissione Reale). Peraltro, all’esercizio di un “potere di fatto” si riferisce espressamente l’art. 11411.

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diritto di conseguire (nonché mantenere e, se del caso, recuperare) 2 il possesso della cosa, come indispensabile condizione per l’esercizio, direttamente sulla cosa medesima, delle facoltà e dei poteri che costituiscono il contenuto del suo diritto (si ricordi che la immediatezza rappresenta una caratteristica essenziale dei diritti reali: II, 3.5 e VI, 3.1). Si allude, in proposito, allo ius possidendi, quale facoltà del proprietario e del titolare degli altri diritti reali (ad es., l’usufrutto, art. 982). Con riferimento alla posizione giuridicamente rilevante – in quanto tutelata dall’ordinamento, il quale ad essa ricollega effetti – che deriva al soggetto dal potere di fatto sulla cosa, si parla abitualmente, invece, di ius possessionis, come peculiare situazione giuridica accostabile ad un vero e proprio diritto (in considerazione delle facoltà che ne costituiscono il contenuto e sia pure con l’accennato carattere di provvisorietà della sua tutela) 3. Ove si trovi nel possesso del bene, il proprietario (o il titolare di altro diritto reale) gode di tale ius possessionis, potendosi, allora, avvalere anche della tutela apprestata all’esercizio del potere di fatto sulla cosa, essenzialmente consistente nella salvaguardia della relativa continuità contro le ingerenze altrui. Ma di esso gode pure chi il potere sulla cosa eserciti senza poter invocare alla sua base il diritto di esercitarlo (non sia, cioè, titolare dello ius possidendi), eventualmente ricevendo tutela (con gli effetti ed entro i limiti che si avrà modo di vedere più oltre), così, anche nei confronti di chi sia titolare del diritto di proprietà (o di altro diritto reale) sulla cosa, ma non eserciti, allo stato, il potere di fatto su di essa. Controversa è la giustificazione della concessione da parte dell’ordinamento di una tutela non sulla base della titolarità di un diritto (a favore, cioè, di un soggetto portatore di un interesse la cui realizzazione è stata ritenuta meritevole di essere garantita), ma del compimento (in quanto tale), rispetto alla cosa, di un’attività corrispondente all’esercizio di un diritto. Al riguardo, ci si è tradizionalmente riferiti, in primo luogo, all’esigenza, di carattere generale, di assicurare una pacifica convivenza sociale: attraverso il riconoscimento della tutela possessoria, si evita che il soggetto che afferma un diritto sulla cosa (considerando, quindi, illegittimo l’altrui esercizio del potere su di essa) si possa fare giustizia da sé, sottraendo, a sua volta, la cosa alla disponibilità di chi attualmente, appunto, la possiede (legittimamente o illegittimamente). Chi si pretende titolare del diritto, ove non possa far valere, per il tempo ormai trascorso dalla perdita del suo possesso, una propria tutela possessoria, dovrà azionare gli strumenti che l’ordinamento predispone per ripristinare (recuperando il possesso della cosa) la possibilità di esercitare facoltà e poteri costituenti il contenuto del suo diritto. Sotto un diverso profilo, si è accentuata, piuttosto, una esigenza di carattere privato, interna, come tale, alla stessa logica che costituisce il fondamento della protezione, da par2 Proprio al recupero del possesso sulla cosa è specificamente finalizzato l’esercizio, da parte del proprietario, dell’azione di rivendicazione (art. 948: VI, 2.6). 3 Costituisce materia di un risalente e vivace dibattito se il possesso, in quanto giuridicamente tutelato, dia luogo al sorgere o meno di un diritto. Vi allude, indubbiamente, la ricordata espressione ius possessionis, con la quale vengono tradizionalmente indicati e sintetizzati gli effetti che l’ordinamento ricollega all’esercizio del potere di fatto sulla cosa. Le particolari caratteristiche della tutela apprestata a favore del possessore tendono, comunque, a far evidenziare la peculiarità della situazione giuridica in questione e la sua difficile riconducibilità alle correnti categorie in cui vengono inquadrate le situazioni giuridiche soggettive.

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te dell’ordinamento, degli interessi reputati meritevoli di tutela attraverso il riconoscimento dei diritti. In tale ottica, la tutela possessoria costituisce un ulteriore strumento di tutela della proprietà (e degli altri diritti reali). Il titolare del diritto, infatti, in quanto abitualmente anche nel possesso della cosa, trova nella tutela possessoria mezzi più efficienti per una più pronta tutela dei suoi interessi, senza dover sottostare alle lungaggini inevitabilmente connesse alla dimostrazione del proprio diritto. La tutela possessoria finisce, così, col presentarsi come una sorta di frontiera avanzata della tutela della proprietà (e degli altri diritti reali) 4. Inoltre, pare il caso di sottolineare come la protezione della situazione di fatto (e la garanzia della sua conservazione) contro intromissioni altrui, almeno ove queste non si fondino sulla dimostrazione di un diritto rispetto al quale la situazione stessa risulti incompatibile, si presenti preordinata anche alla conversione ed al consolidamento della situazione di fatto nella corrispondente situazione di diritto. Ciò si iscrive in una tendenza dell’ordinamento all’adeguamento del quadro delle situazioni di diritto alla realtà fattuale, secondo quella prospettiva di valorizzazione dell’attività a scapito dell’inerzia, la quale trova espressione nella previsione della prescrizione come generalizzato modo di estinzione dei diritti (art. 2934) (II, 4.9) 5. Si è ripetutamente ricordato che l’art. 11401 accosta, nella proposta nozione di possesso, al potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà, quello che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio di altro diritto reale. La situazione in questione viene definita correntemente come possesso di diritti o possesso minore (quasi possessio). Il soggetto si comporta rispetto al bene, cioè, come se fosse titolare di un diritto reale su cosa altrui e tale posizione (di fatto) viene corrispondentemente tutelata. La qualificazione del possesso quale possesso riferito ad un diritto reale diverso dalla proprietà si presenta notevolmente rilevante dal punto di vista dei relativi effetti. In particolare, la natura del diritto che il soggetto acquista a seguito del possesso protratto per il tempo stabilito ai fini della usucapione dipende, appunto, da tale qualificazione 6. 4 Come si è sottolineato dai sostenitori di una simile giustificazione, se è vero che, in tal modo, può essere tutelato, nei confronti di chi abbia effettivamente un diritto sulla cosa, chi ne è privo, questo viene considerato un costo necessario, al fine di assicurare ai titolari della proprietà (o di altri diritti reali) nel loro complesso una tutela più efficiente. È da tenere presente, del resto, che la tutela possessoria si caratterizza per la sua rapidità, ma anche per la sua provvisorietà, essendo comunque destinata a cedere di fronte alla (sia pure più lunga) dimostrazione della titolarità del diritto. 5 Non a caso, la usucapione (VI, 5.7), quale essenziale effetto del possesso e della sua persistenza nel tempo in ordine all’acquisto del diritto, si caratterizza storicamente come altra faccia della medaglia della prescrizione (quale modo generale di estinzione del diritto in dipendenza del trascorrere del tempo nell’inerzia del relativo titolare), alludendosi ad essa in termini di prescrizione acquisitiva. 6 Alla luce dell’allargamento della nozione di possesso al possesso di diritti (diversi dalla proprietà), risulta chiaro come la medesima cosa possa essere contemporaneamente oggetto di possesso a diverso titolo da parte di diversi soggetti. Si tende a parlare, invece, di c o m p o s s e s s o quando una pluralità di soggetti eserciti il possesso sulla cosa allo stesso titolo. In tale ipotesi, per determinare la misura della partecipazione di ciascuno al possesso ci si riferisce al concetto di quota, come ai fini della individuazione della partecipazione di ciascuno in caso di comunione della proprietà o di altro diritto reale. Quale possessore, il soggetto vede tutelata la propria situazione di fatto anche nei confronti degli altri compossessori: coerentemente, quindi, il fenomeno del compossesso è disciplinato a proposito della comunione, con riguardo all’uso della cosa comune (art. 1102) (VI, 4.1).

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Secondo l’opinione più tradizionale, ai fini della ora accennata distinzione delle possibili situazioni possessorie rispetto alla cosa (e relativa qualificazione), risulta decisivo l’elemento intenzionale (animus), il quale si ritiene rappresentare, in via generale, uno dei due elementi costitutivi del possesso (l’altro è individuato nel corpus, nel potere di fatto sulla cosa – cioè nella relazione materiale con essa – che ne consente al soggetto la concreta disponibilità). In tale prospettiva, insomma, è dalla intenzione del soggetto (di tenere la cosa come proprietario o come titolare di un diverso diritto reale) che dipende la qualificazione del possesso (ed i conseguenti effetti), fermo restando il relativo elemento materiale. Pare opportuno avvertire, peraltro, come si tratti di una impostazione esasperatamente soggettivistica del fenomeno possessorio, da tempo diffusamente contestata, soprattutto con riguardo alla rilevanza che si pretende attribuire all’elemento soggettivo ed intenzionale del possesso ai fini della distinzione tra possesso e detenzione (su cui si veda il paragrafo successivo). Anche in ordine alla qualificazione della situazione possessoria sotto il profilo della relativa corrispondenza alla proprietà o ad altro diritto reale, allora, si tende a porre in evidenza come non si tratti tanto di una questione di volontà e di intenzione del soggetto, bensì della rilevanza del suo comportamento, da valutare oggettivamente secondo il corrente apprezzamento sociale, in quanto conforme al modello di comportamento tipicamente tenuto a seconda che si sia titolari della proprietà o di un diverso diritto reale sulla cosa 7.

2. Possesso e detenzione. – Sull’elemento intenzionale (animus), come accennato, si ritiene tradizionalmente fondata la essenziale distinzione tra possesso e detenzione, alla quale si riferisce l’art. 11402, secondo cui “si può possedere direttamente o per mezzo di altra persona, che ha la detenzione della cosa”. L’ordinamento ammette, così, che il possessore resti tale anche se altri sia nella immediata disponibilità di fatto della cosa (possesso indiretto), quasi che il soggetto che ha tale disponibilità materiale (detentore) operi quale strumento del possessore. Ciò si verifica in quanto, alla base della detenzione, vi è un rapporto col possessore, il quale trasmette ad altri la detenzione come espressione del suo potere sulla cosa, con conseguente riconoscimento, da parte del detentore, della preminenza dell’altrui posizione rispetto alla cosa stessa e, quindi, del carattere dipendente della propria posizione. 7 La Relaz. cod. civ., n. 533, critica l’art. 522 del progetto della Commissione Reale, il quale alludeva espressamente al carattere decisivo della volontà del soggetto, ai fini della qualificazione del possesso (definito “il potere di fatto che alcuno ha sopra una cosa, con la volontà di avere per sé tale potere in modo corrispondente alla proprietà o ad altro diritto reale”). Viene sottolineato – a giustificazione della scelta di non riferirsi all’elemento della volontà nell’art. 11401 – che “l’elemento volitivo in tanto diviene rilevante per l’ordinamento giuridico in quanto si concreta e si manifesta in un comportamento esterno del possessore, il quale appunto vale a differenziare le diverse specie di possesso (il possesso come proprietario dal possesso come usufruttuario, enfiteuta, ecc.)”. È vero che, nella Relazione stessa, si dichiara di voler mantenere ferma la tradizionale distinzione tra “l’elemento subiettivo e l’elemento obiettivo del possesso”: non si può fare a meno di sottolineare, però, come si riconosca pure che, con la formula adottata dal codice, si sia conferito rilievo alla “intenzione di esercitare un diritto reale sulla cosa”, quale elemento soggettivo del possesso, solo nei limiti in cui, “attuandosi il potere sulla cosa, l’intenzione si rende esternamente palese” nel comportamento del soggetto. Peso decisivo, quindi, finisce con l’assumere non l’intenzione del soggetto come tale, quanto il suo comportamento, dato che l’intenzione è destinata ad assumere rilevanza solo nei limiti in cui risulti resa oggettivamente rilevabile, appunto sulla base del comportamento concretamente tenuto e della sua valutazione sociale.

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La distinzione, secondo l’impostazione teorica ancora largamente seguita, si fonda sulla diversità dell’elemento costituito dall’intenzione di chi ha la disponibilità materiale della cosa. In tale prospettiva, il possesso risulta caratterizzato dall’intenzione di tenere per sé la cosa (come proprietario o titolare di altro diritto reale: animus possidendi o animus rem sibi habendi), senza riconoscere la preminenza di altri su di essa 8. Nella detenzione l’intenzione è quella di tenere la cosa per conto di altri, rispettandone la posizione preminente (animus detinendi). Secondo una diversa impostazione, invece, l’intenzione – come accennato anche nel paragrafo precedente – non potrebbe essere isolata dal comportamento complessivamente tenuto dal soggetto che ha la disponibilità materiale della cosa. La qualificazione della situazione in termini di possesso o di detenzione, di conseguenza, dipenderebbe solo dalle modalità del suo comportamento e dalla relativa corrispondenza con le modalità tipicamente caratterizzanti i diversi rapporti nella realtà sociale. Alla indubbia difficoltà di qualificare in un senso o nell’altro la situazione, ovvia, in larga misura, comunque, l’art. 11411, il quale prevede che l’esercizio del potere di fatto fa presumere il possesso in chi lo eserciti, quando non si possa provare (da parte di chi abbia a ciò interesse) che costui abbia cominciato ad esercitarlo semplicemente come detenzione. La prova riguarda il momento iniziale 9: la situazione proseguirà come iniziata, dato che la detenzione può tramutarsi in possesso solo alle condizioni previste dall’art. 11412. Si parla correntemente, al riguardo, di interversione del possesso (anche se il codice riserva tale espressione alla fattispecie sostanzialmente affine – su cui VI, 5.7 – regolata dall’art. 1164, discorrendo qui di “mutamento della detenzione in possesso”). E proprio quanto disposto da tale norma conferma l’impossibilità, ai fini della qualificazione della situazione, di conferire un peso determinante all’elemento intenzionale, almeno di per se stesso, dato che, per modificare la situazione stessa (quale inizialmente qualificata), non basta un mutamento meramente psichico, ma necessita un evento modificativo esteriore. Una volta, infatti, che la situazione sia iniziata come detenzione (e la prova concernerà il titolo – locazione, comodato, deposito, ecc. – in base al quale il soggetto abbia conseguito la disponibilità materiale della cosa), il possesso potrà essere acquistato solo ove il relativo titolo venga mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione contro il possessore (ed i suoi effetti decorreranno da tale momento). Sotto il primo profilo, è da considerare, in particolare, l’atto col quale l’attuale possessore conferisca il possesso al detentore (come nel caso in cui il proprietario venda al conduttore la cosa locata) 10. Quanto all’interversione per iniziativa del detentore, si potrà trattare di compor8 Ovviamente nei limiti del potere che si esercita (e si intende esercitare) sulla cosa, dato che esso può corrispondere, come si è visto nel paragrafo precedente, alla proprietà o ad altro diritto reale. In sostanza, l’intenzione rilevante, perché si abbia possesso, risulta quella di escludere posizioni (e corrispondenti pretese) altrui incompatibili con la propria. 9 Al riguardo, in particolare, si è precisata in termini di detenzione (qualificata) la situazione conseguente alla consegna di un bene immobile in esecuzione di una compravendita nulla per difetto della necessaria forma scritta (Cass. 27-8-2019, n. 21726, nella prospettiva già delineata da Cass., sez. un., 27-3-2008, n. 7930, con riguardo, in caso di contratto preliminare di vendita immobiliare, alla situazione conseguente alla consegna del bene prima della stipula del contratto definitivo). 10 Secondo Cass. 5-12-1990, n. 11691 (e v. anche Cass. 11-4-2019, n. 10186), per causa proveniente da un terzo si deve “intendere qualsiasi atto di trasferimento del diritto idoneo a legittimare il possesso, indipendentemente dalla perfezione, validità, efficacia dell’atto medesimo, compresa l’ipotesi di acquisto dal titolare solo apparente”.

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tamenti della più diversa natura (giudiziale, extragiudiziale o anche materiale), purché inequivocamente denotanti, nei confronti del possessore (cioè di colui per conto del quale la cosa era detenuta), il mutamento della posizione assunta del soggetto rispetto alla cosa, con conseguente esercizio esclusivamente per conto proprio del potere su di essa 11. La distinzione tra possesso e detenzione è basilare, poiché diversi ne sono gli effetti. Così, solo il possesso è preso in considerazione ai fini dell’acquisto della proprietà per usucapione (o ai sensi dell’art. 1153). Inoltre, l’esercizio delle azioni possessorie compete al possessore, mentre al detentore spetta solo quella di reintegrazione e sempre che si tratti di detenzione qualificata. Tale è la detenzione quando il soggetto, pur riconoscendo la dipendenza della propria posizione da quella altrui, detiene nell’interesse proprio (come il conduttore ed il comodatario). Nell’interesse altrui (detenzione non qualificata) viene considerata la detenzione per ragioni di servizio (domestico, autista, commesso) o di ospitalità (amico cui sia affidata la cosa durante la propria assenza, ospite nel breve periodo di permanenza) (art. 11682) 12.

3. Oggetto e vicende. – Sono suscettibili di possesso tutte le cose aventi una realtà oggettivamente percepibile. Al di là delle cose intuitivamente tali, sono considerate possibile oggetto di possesso, ad es., le sorgenti, le energie naturali e le onde elettromagnetiche 13. In simili ipotesi, peraltro, il relativo possesso sembra essenzialmente costituire il riflesso di quello degli impianti necessari per sfruttarne le potenzialità. Sono suscettibili di possesso, nella loro complessità, le universalità di mobili, ma si dubita diffusamente che possano esserlo i beni immateriali (la cui tutela è assicurata con strumenti specifici). È considerato senza effetto il possesso delle cose di cui non può acquistarsi la proprietà (cose fuori commercio: art. 11451). Peraltro, la disponibilità di fatto anche di beni demaniali (II, 2.10) è rilevante, in quanto, nei rapporti tra privati è concessa, in relazione ad essi, l’azione di spoglio (art. 11452) e, se si tratta di facoltà che possono formare oggetto di concessione amministrativa, anche l’azione di manutenzione (art. 11453). 11 Che l’interversione del possesso “non può aver luogo mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore” (“rivolta specificamente contro il possessore, in maniera che questi possa rendersi conto dell’avvenuto mutamento”), avente i caratteri accennati, risulta ribadito da Cass., sez. un., 27-3-2008, n. 7930, nonché, ad es., da Cass. 29-5-2013, n. 13417, 3-7-2018, n. 17376 e 10186/2019. Così, ad es., la “chiusura del cancello di accesso al fondo mediante apposizione di un lucchetto da parte del detentore, se non accompagnata dalla consegna di copia delle chiavi al possessore, si qualifica come inequivoco atto d’interversione” (Cass. 30-6-2014, n. 14819). 12 È da tenere presente come la distinzione tra detenzione qualificata e non qualificata sia da taluni considerata non del tutto corrispondente a quella tra detenzione autonoma e non autonoma, rilevante ai fini del riconoscimento dell’azione di reintegrazione, ai sensi dell’art. 11682. Vi sarebbero, cioè, detentori non qualificati (in quanto operanti nell’interesse altrui), ma considerati, ciononostante, autonomi e, dunque, ammessi all’esercizio dell’azione di reintegrazione, ma solo nei confronti di terzi (e non, quindi, del soggetto nel cui interesse detengono). Tale sarebbe, ad es., il mandatario. 13 Si è accennato (VI, 2.2), come il possesso (con la relativa tutela, in quanto situazione “suscettibile di spoglio e molestia”) sia stato dalla Cassazione ritenuto configurabile, in particolare, per le bande di trasmissione, non “quale entità astratta”, ma “con riguardo alle onde elettromagnetiche di cui si avvalgono le emittenti radio-televisive (unitariamente con il possesso dei relativi impianti), costituendo dette onde una forma di energia materiale, e, quindi, un bene mobile” (Cass. 8-10-1987, n. 7440). Al riguardo, Cass. 6-6-2000, n. 7553, richiede, comunque, per la tutelabilità del possesso, una “apprezzabile estrinsecazione” dell’attività di utilizzazione della frequenza elettromagnetica.

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L’acquisto del possesso può avvenire originariamente, con l’impossessamento, ovvero derivativamente, a seguito, cioè, di trasmissione da parte di altri. L’impossessamento, quale modo di acquisto originario del possesso, si realizza mediante l’apprensione materiale della cosa (adprehensio), che, alle condizioni di cui all’art. 923, determina addirittura l’immediato acquisto della proprietà sulla cosa (per occupazione: VI, 2.2). L’apprensione della cosa, per determinare gli effetti che gli sono propri richiede, secondo l’opinione dominante (anche in giurisprudenza), un profilo di consapevolezza e intenzionalità (animus). Si ritiene trattarsi, quindi, di un atto giuridico in senso stretto che necessita della capacità d’intendere e di volere (c.d. capacità naturale) del soggetto 14. L’acquisto del possesso è escluso se la disponibilità di fatto della cosa consegue ad atti di tolleranza altrui (art. 1144). In questo caso, infatti, tale disponibilità si fonda sullo spirito di cortesia e condiscendenza, risultando riconducibile ad un permesso (permissio): un atto autorizzativo, cioè, espresso o tacito, per sua natura sempre comunque revocabile, spesso collegato ai rapporti di buon vicinato 15. La tolleranza, peraltro, è da tenere distinta dall’inerzia del titolare del diritto: sarà su chi, di fronte all’altrui disponibilità di fatto della cosa, ne affermi la dipendenza dalla propria tolleranza a gravare l’onere della relativa prova (deve, infatti, essere superata la presunzione di possesso legata all’esercizio del potere di fatto sulla cosa). L’acquisto del possesso, il più delle volte, avviene in modo derivativo, attraverso la relativa trasmissione con la consegna (traditio) 16, in cui si ravvisa, secondo l’opinione prevalente, un atto giuridico in senso stretto. La consegna costituisce correntemente adempimento della relativa obbligazione nascente da un contratto (nella vendita, in particolare, rappresenta una delle obbligazioni principali del venditore “quella di consegnare la cosa al compratore”: art. 1476, n. 1) 17. Perché si abbia acquisto del possesso, occorre che la cosa sia posta nella effettiva disponibilità di fatto del soggetto. Ciò potrà avvenire materialmente, con una consegna reale (effettiva). La consegna può essere anche meramente simbolica (come tipicamente accade, in caso di immobili, con la consegna delle chiavi, non bastando, invece, a tal fine, la mera dichiarazione, contenuta in un contratto, di immissione nel possesso). La consegna può avere, inoltre, carattere consensuale. Si parla, al 14 La questione è stata già affrontata in relazione alle problematiche connesse con l’occupazione, quale modo di acquisto della proprietà che si fonda, appunto, sulla materiale apprensione della cosa (VI, 2.2). 15 Per Cass. 22-5-1990, n. 4631, gli atti di tolleranza (che non determinano l’insorgere di una situazione possessoria) “sono quelli che, implicando un elemento di transitorietà e saltuarietà, comportano un godimento di modesta portata, incidente molto debolmente sull’esercizio del diritto da parte dell’effettivo titolare o possessore”; essi “soprattutto traggono la loro origine da rapporti di amicizia o familiarità (o da rapporti di buon vicinato sanzionati dalla consuetudine)”: Cass. 8-6-2008, n. 13443. Nella valutazione delle circostanze, “la lunga durata dell’attività può integrare un elemento presuntivo, nel senso dell’esclusione di detta situazione di tolleranza”, “qualora si verta in tema di rapporti non di parentela, ma di mera amicizia o buon vicinato” (in quanto notoriamente più soggetti a mutare nel tempo) (Cass. 3-7-2019, n. 17880 e 29-5-2015, n. 11277). Cass. 13-9-2004, n. 18360, sottolinea che “il vincolo di stretta parentela intercorrente tra i soggetti consente di configurare la sussistenza della tolleranza anche in mancanza delle suindicate caratteristiche della breve durata e della limitata incidenza del godimento assentito”. 16 In relazione al fenomeno dell’acquisto derivativo del possesso, è da tenere presente anche la successione nel possesso, che sarà più oltre esaminata. 17 La consegna richiede un’accettazione da parte del creditore, la quale si ritiene condividerne la natura di atto giuridico in senso stretto. La fattispecie che determina quale effetto il possesso del nuovo possessore è, quindi, un’operazione complessa, che si articola in due atti: la messa a disposizione e la presa in consegna.

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riguardo, di costituto possessorio (constitutum possessorium), quando il possessore trasferisce ad un altro soggetto il possesso, conservando la detenzione della cosa (come nel caso in cui il proprietario-possessore venda un immobile, conservandone la detenzione quale locatario, a seguito di un contratto di locazione contestualmente stipulato con l’acquirente). Si parla, invece, di traditio brevi manu per il caso inverso, quando, cioè, il possessore trasferisce il possesso a chi già detiene la cosa (come nell’ipotesi di vendita di un immobile all’attuale locatario, il quale, così, muta – essendo avvenuto un atto idoneo a determinare l’interversione del possesso: art. 11412 – la propria situazione da detenzione in possesso). La perdita del possesso può avvenire, oltre che per il perimento della cosa, perché il possessore ne viene privato da altri (spoglio), per abbandono (derelictio) della cosa stessa o per la sua restituzione 18. Dato che l’effetto forse più rilevante del possesso – l’acquisto del diritto per usucapione (VI, 5.7) – è legato alla sua persistenza nel tempo, risultano fondamentali le regole previste con riferimento, appunto, alla relativa dinamica temporale. Innanzitutto, il possessore attuale, che abbia posseduto in tempo più remoto, si presume avere posseduto anche nel tempo intermedio (presunzione di possesso intermedio) (art. 1142). L’attuale possessore, per vedersi riconosciuta la continuità del possesso, non dovrà fornire la (invero impretendibile) prova di avere posseduto in ogni momento, potendosi limitare a provare il suo possesso in un momento anteriore: l’art. 1142 vale a determinare una simile continuità (dovendo essere, quindi, chi afferma il contrario a dimostrare il venir meno del possesso). È previsto, poi, che il possesso attuale non faccia presumere il possesso anteriore (art. 1143). Per essere considerato tale anche in precedenza, l’attuale possessore dovrà, allora, provare il possesso anteriore (determinando l’operatività della regola dell’art. 1142). L’art. 1143 consente, peraltro, che il possessore possa invocare un titolo (ad es., un contratto di vendita a suo favore o la sua qualità di erede) a fondamento del proprio possesso: in tal caso (possesso legittimo o titolato), si presume che egli, a partire dalla data del titolo, abbia posseduto pure nel periodo intermedio (art. 1143). L’art. 11461 prevede che il possesso continua nell’erede con effetto dall’apertura della successione (successione nel possesso). In caso di successione mortis causa, se a titolo universale (XII, 1.1), viene automaticamente a crearsi, così, una continuità tra il possesso del defunto e quello dell’erede, quasi che il secondo ne continui la persona. Ciò avviene anche a prescindere dal compimento di un qualsiasi atto di apprensione materiale delle cose. Il possesso, in tale ipotesi, continua nell’erede con i medesimi caratteri che contraddistinguevano il possesso del defunto: esso sarà considerato, cioè, di buona o mala fede, a seconda che tale fosse in capo a quest’ultimo, indipendentemente, quindi, dallo stato psicologico del successore. In caso di successione a titolo particolare (sia tra vivi, come in caso di vendita, sia mortis causa, come in caso di legato), il successore, per creare la continuità del suo possesso con quello del dante causa, può unire al proprio possesso il possesso del suo autore, per goderne, appunto, gli effetti (accessione del possesso: art. 11462). Non si trat18 È da sottolineare come dalla domanda giudiziale finalizzata alla restituzione della cosa, se riconosciuta fondata, anche il possessore di buona fede veda mutata la propria posizione in ordine alla produzione dei frutti (VI, 5.5).

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ta, dunque, a differenza che nell’ipotesi precedente, di un effetto automatico, occorrendo l’esercizio, da parte del soggetto, della facoltà che gli è conferita dall’ordinamento 19. Trattandosi di unire al suo possesso quello del precedente possessore, per invocarne la continuità in conseguenza dell’accessione del possesso, il soggetto dovrà avere conseguito effettivamente il possesso stesso, ottenendo la consegna della cosa dal dante causa (in caso di contratto) o dall’erede (in caso di legato). Qui il possesso non continua automaticamente, con le stesse caratteristiche che aveva in capo al dante causa, trattandosi, in realtà di due possessi diversi, di cui è consentita al nuovo possessore la congiunzione. Se il nuovo possessore è in buona fede al momento dell’acquisto del possesso, tale sarà considerato, quindi, anche se il possesso del suo dante causa fosse stato di mala fede. È per questo che la congiunzione del possesso è rimessa alla volontà del nuovo possessore di avvalersene, dato che egli potrebbe non avervi interesse, ove abbia acquistato in buona fede il possesso da un dante causa che, invece, possedeva in mala fede (essendo differenti, come si vedrà, gli effetti del possesso a seconda che si tratti di possesso in buona o in mala fede). Comunque, se il nuovo possessore acquista il possesso in mala fede, egli non potrà invocare la eventuale qualificazione di buona fede del possesso del suo dante causa. È da sottolineare come il cumulo dei periodi di possesso, al di là delle vicende che ne comportano la trasmissione, assuma fondamentale rilievo sotto diversi profili, rendendo molto importanti le regole disposte dall’art. 1146. La durata del possesso è presa in considerazione, infatti, ai fini dell’acquisto del corrispondente diritto per usucapione, nonché per poter godere della tutela dell’azione di manutenzione. E proprio la possibilità di un simile cumulo, ai fini del completamento del tempo necessario per l’usucapione, si presenta essenziale per agevolare la prova della proprietà con l’azione di rivendicazione, potendosi, così, invocare il necessario acquisto a titolo originario (VI, 2.6).

4. Possesso di buona fede. – In ordine agli effetti che l’ordinamento ricollega alla situazione possessoria, assume una rilevanza essenziale la relativa qualificazione sotto il profilo della buona fede o mala fede del possessore. È considerato possessore di buona fede chi possiede ignorando di ledere l’altrui diritto (art. 11471) 20. Perché il possesso sia tale non è richiesta l’esistenza di un titolo alla base del possesso stesso (che il possesso, cioè, sia legittimo o titolato): l’eventuale esistenza di 19 Per la giurisprudenza, affinché “operi il trapasso del possesso dall’uno all’altro dei successivi possessori e il successore a titolo particolare possa unire al proprio il possesso del dante causa è necessario che il trasferimento trovi la propria giustificazione in un titolo astrattamente idoneo a trasferire la proprietà o altro diritto reale sul bene; ne consegue, stante la tipicità dei negozi traslativi reali, che l’oggetto del trasferimento non può essere costituito dal trasferimento del mero potere di fatto sulla cosa” (Cass. 13-8-2018, n. 20715 e 22-4-2005, n. 8502). La prospettiva decisamente contraria alla “possibilità d’una trasmissione contrattuale del possesso” (in quanto tale considerato) risulta approfonditamente confermata da Cass., sez. un., 27-3-2008, n. 7930). 20 Pare opportuno ricordare come si distingua correntemente (II, 7.4, 7.5) – tanto da parte della dottrina, quanto della giurisprudenza – tra il concetto di buona fede, cui fa riferimento l’art. 1147, intesa in senso soggettivo (buona fede soggettiva), quale stato psicologico del soggetto che vale a qualificare la sua situazione, e quello di buona fede in senso oggettivo (buona fede oggettiva), come fondamentale regola di condotta cui devono ispirarsi i soggetti nella vita dei traffici, al quale si riferiscono numerose norme in materia di contratto (in particolare, gli artt. 1337, 1358, 1366, 1375) e lo stesso art. 1175, quando allude al dovere di correttezza cui debitore e creditore devono improntare il proprio comportamento.

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un titolo costituisce, piuttosto, nella sistematica adottata dal codice civile, come si vedrà, un elemento ulteriore richiesto per la produzione di determinati effetti giuridici 21. Pare il caso di sottolineare come la nozione di buona fede soggettiva, qui con chiarezza e sinteticità delineata dal legislatore (pure con quanto precisato nei commi successivi della medesima disposizione), venga considerata di portata tendenzialmente generale, onde qualificare la posizione del soggetto anche con riferimento a situazioni diverse da quelle del possesso. Il possessore non può invocare la propria buona fede ove l’ignoranza della lesione dell’altrui diritto dipenda da colpa grave (art. 11472). La colpa si ritiene grave quando l’errore che il soggetto ha commesso nell’accertamento della situazione (come compatibile o meno, cioè, con l’altrui diritto) non è scusabile. Al soggetto, insomma, per essere giustificato (e potere, così, invocare la buona fede del proprio possesso), è richiesto un comportamento improntato a quel minimo di diligenza che lo renda socialmente accettabile. Sotto tale profilo, si sottolinea come alla nozione psicologica di errore si sia inteso, per tale via, conferire una colorazione di eticità. È da tenere presente che il dubbio, almeno se ragionevolmente serio, determinando una incertezza soggettiva, risulta incompatibile con la buona fede 22. L’art. 11473, con una regola che può apparire forse discutibile, ma che certamente semplifica la qualificazione delle situazioni, pone una presunzione legale di buona fede: il possesso si presume, quindi, essere di buona fede fino a prova contraria (che potrà venire data con ogni mezzo) da parte di chi ciò contesta 23. Inoltre, è ritenuto sufficiente che la buona fede sussista al momento dell’acquisto. Resta irrilevante, cioè, che il possessore abbia successivamente acquisito consapevolezza della illegittimità del proprio possesso, il quale resta, così, qualificato dalla sua condizione psicologica iniziale (principio, questo, espresso nella nota e tradizionale formula, secondo cui mala fides superveniens non nocet).

5. Effetti del possesso. Diritti e obblighi del possessore nella restituzione della cosa. – Gli effetti del possesso – in relazione ai quali acquista, appunto, essenziale rilevanza la relativa qualificazione in termini di buona o mala fede – sono raggruppati in tre nuclei problematici: diritti e obblighi del possessore nella restituzione della cosa, possesso di buona fede dei beni mobili, usucapione. Circa il primo profilo, l’art. 1148, innanzitutto, dispone che il possessore di buona fede fa suoi i frutti prodotti dal bene (naturali separati e civili maturati) fino al giorno della domanda giudiziale di restituzione. Da tale momento, egli, fino alla restituzione della cosa fruttifera, risponde nei confronti del soggetto che abbia esercitato l’azione di rivendica21

Diversamente nel codice civile del 1865 (art. 701). La Relaz. cod. civ., n. 539, sottolinea, appunto, che il “titolo, soppresso come elemento qualificativo del possesso di buona fede, è richiesto perché il possesso stesso sia suscettivo di produrre taluni effetti”. 22 Per Cass. 24-12-1991, n. 13920, “la presunzione di buona fede non è vinta dal mero sospetto di una situazione illegittima, essendo invece necessario che l’esistenza del dubbio promani da circostanze serie, concrete e non meramente ipotetiche, la cui prova deve essere fornita da colui che intenda contrastare la suddetta presunzione legale” (“non potendo un qualsiasi dubbio identificarsi senz’altro con la mala fede”: Cass. 21-5-2003, n. 7966). 23 Su colui che intende contrastare la presunzione grava “l’onere di fornire elementi idonei alla formulazione non del mero sospetto di una situazione illegittima di possesso, ma di un dubbio derivante da circostanze serie, concrete e non ipotetiche”: Cass. 16-12-2009, n. 26400.

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zione nei suoi riguardi (per ottenere, appunto, la restituzione della cosa: VI, 2.6) non solo dei frutti effettivamente percepiti, ma anche di quelli che avrebbe dovuto percepire usando l’ordinaria diligenza (quella, cioè, che il codice indica come “la diligenza di un buon padre di famiglia”: VII, 3.3). Il possessore di mala fede, quindi, non è ritenuto meritevole di tutela e deve, di conseguenza, restituire i frutti percepiti. Si ritiene, per antica tradizione e sulla base di quanto disposto per il possessore di buona fede successivamente alla domanda giudiziale, che egli debba rispondere, corrispondendone il valore, anche dei frutti che avrebbe potuto percepire usando l’ordinaria diligenza. Il possessore che è tenuto a restituire i frutti indebitamente percepiti ha diritto al rimborso delle spese, secondo la regola dell’art. 8212 (per cui chi fa propri i frutti deve rimborsare, nei limiti del loro valore, colui che abbia fatto spese per la produzione e il raccolto) (art. 1149). A tale rimborso, dunque, avrà diritto tanto il possessore di buona fede (per i frutti successivi alla domanda giudiziale), quanto quello di mala fede (per tutti i frutti). La regola risulta ispirata ad una prospettiva produttivistica, che sembra governare – in conformità, del resto, con l’atteggiamento di fondo del vigente codice – l’intera materia dei rapporti tra possessore ed avente diritto alla restituzione. In effetti, il potere contare, in ogni caso, sul rimborso di quanto erogato per la produzione dei frutti (così come il previsto ristoro per riparazioni, miglioramenti e addizioni relativamente alle cose possedute) rappresenta, indubbiamente, uno stimolo, pure per chi dubiti di poterli trattenere, a svolgere l’attività produttiva (e, più in generale, a gestire i beni) in modo economicamente corretto e tale, quindi, da contribuire, nell’interesse generale, ad un efficiente sfruttamento delle cose produttive. Nella stessa ottica, al possessore, pure se di mala fede, è assicurato il rimborso delle spese fatte per le riparazioni straordinarie (art. 11501). Inoltre, se è tenuto alla restituzione dei frutti, per il periodo in relazione al quale tale restituzione è dovuta, egli ha anche diritto al rimborso delle spese fatte per le riparazioni ordinarie (art. 11504). Il possessore ha sempre diritto ad essere indennizzato per i miglioramenti, purché sussistenti al momento della restituzione (art. 11502). La qualificazione del possesso acquista qui rilevanza, dato che l’indennità spettante al possessore di buona fede corrisponde senz’altro all’aumento di valore conseguito dalla cosa per effetto dei miglioramenti, mentre quella spettante al possessore di mala fede corrisponde alla minore somma tra l’aumento di valore e l’importo della spesa (art. 11503). È chiaro, insomma, che anche il possessore di mala fede non è esposto a perdite per quanto investito per migliorare il bene. Per le addizioni, infine, è richiamato lo stesso regime previsto, in caso di operatività dell’accessione, per le opere fatte da un terzo con suoi materiali (art. 936), aggiungendosi che, ove esse costituiscano miglioramenti, il possessore di buona fede ha diritto ad una indennità pari all’aumento di valore della cosa (art. 11505). L’ammontare delle indennità previste può essere rateizzato, con le opportune garanzie, dall’autorità giudiziaria (art. 1151). La posizione del possessore di buona fede è vista con maggior favore anche da un diverso punto di vista. Egli, infatti, può ritenere la cosa finché non gli siano corrisposte le indennità dovute, purché richieste nel corso del giudizio di rivendicazione e sia stata fornita una prova, sia pure generica, della sussistenza delle riparazioni e dei miglioramenti (godendo dello stesso diritto finché non siano state prestate le garanzie disposte dall’autorità giudiziaria in caso di rateizzazione) (art. 1152). Con il diritto di ritenzione così riconosciuto al possessore, il proprietario avente diritto alla restituzione e corrispondente-

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mente gravato di obblighi di rimborso nei suoi confronti viene fortemente stimolato a far fronte ai propri impegni nei confronti del primo. Si tratta di una forma di autotutela eccezionalmente consentita dall’ordinamento a garanzia del creditore (VII, 5.13).

6. Possesso di buona fede di beni mobili (art. 1153). – Tra gli effetti del possesso, si colloca in primo piano, trattandosi di regola basilare nel sistema della circolazione dei beni mobili (non registrati e non considerati come componenti di universalità di fatto: art. 1156), il principio enunciato dall’art. 11531, secondo cui “colui al quale sono alienati beni mobili da parte di chi non è proprietario, ne acquista la proprietà mediante il possesso, purché sia in buona fede al momento della consegna e sussista un titolo idoneo al trasferimento della proprietà”. Trova qui espressione, sia pure con opportune precisazioni e adattamenti, il principio tradizionalmente enunciato con la massima “il possesso vale titolo” (passato dall’art. 2279 code civil – “en fait de meubles, la possession vaut titre” – all’art. 707 cod. civ. del 1865) 24. Si tratta di un principio fondamentale nella vita dei traffici, essenziale soprattutto negli ordinamenti moderni che tendono, in considerazione dell’evoluzione delle dinamiche economiche, alla mobilizzazione della ricchezza. La sua giustificazione è da ricercare nell’esigenza di assicurare, nella circolazione dei beni mobili, la certezza delle situazioni giuridiche soggettive e la rapidità delle contrattazioni. Questa esigenza è fatta decisamente prevalere sulle ragioni della proprietà: la regola in esame si risolve, appunto, nella prevalenza sul proprietario accordata a chi abbia conseguito il possesso della cosa mobile, a condizione che il possesso stesso sia acquistato in buona fede e sulla base di un titolo idoneo al trasferimento della proprietà. Di fronte al conseguimento del possesso, corroborato dai requisiti ricordati, passa in secondo piano, ai fini della realizzazione della vicenda circolatoria, la circostanza che l’alienante (colui, cioè, da cui il bene viene acquistato) non sia proprietario del bene alienato e l’acquisto viene considerato meritevole di tutela da parte dell’ordinamento, anche se si tratta di un acquisto a non domino. All’esigenza accennata di agevolazione della circolazione, poi, la disciplina in esame risponde anche (e, forse, soprattutto) regolando il conflitto tra i successivi aventi causa dallo stesso dante causa: se taluno con successivi contratti aliena a più persone lo stesso bene mobile, preferito è colui che abbia in buona fede conseguito il possesso, anche se il suo acquisto sia posteriore (art. 1155). Il possesso, dunque, è chiamato a svolgere, in materia di circolazione dei beni mobili, una essenziale funzione di pubblicità (c.d. pubblicità di fatto), risolvendo a favore di chi possa vantare il possesso della cosa il problema delle conseguenze della doppia alienazione (VIII, 6.16 e XIV, 2.5). Chi acquista il possesso, a condizione di essere in buona fede, può essere certo, così, di non potersi vedere mai opposto il precedente acquisto di altri (come pure è certo di non potersi vedere opposta dal vero proprietario la mancanza, in colui che gli abbia alienato il bene, del potere di disporne efficacemente). L’avvenuto sicuro acquisto, da parte di chi possa vantare a proprio favore l’operatività della fattispecie di cui all’art. 11531, rappresenta, poi, un punto fermo, anche ai fini delle successive vicende circolatorie del bene. 24 L’art. 707 cod. civ. del 1865 prevedeva che “riguardo ai beni mobili per loro natura ed ai titoli al portatore, il possesso produce a favore dei terzi di buona fede l’effetto stesso del titolo”.

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PARTE VI – PROPRIETÀ E DIRITTI REALI

Non essendo l’alienante (in quanto non proprietario) legittimato a trasferire la proprietà, l’acquisto del diritto non può essere considerato dipendente dalla precedente titolarità del diritto stesso da parte di altri: si tratta, allora, di acquisto a titolo originario (manca qui quella trasmissione del diritto, caratterizzante l’acquisto a titolo derivativo) (c.d. acquisto a non domino) (VI, 2.1) 25. Col carattere originario dell’acquisto risulta coerente la regola per cui la proprietà si acquista libera da diritti altrui sulla cosa, essendo solo imposto il rispetto dei diritti risultanti dal titolo o comunque noti a chi abbia così acquistato la proprietà (art. 11532). Temperamento, questo, collegato alla rilevanza che, pure nella fattispecie posta alla base di un acquisto a titolo originario, viene accordata alla esistenza di un titolo e alla buona fede del soggetto. Centro di gravità della fattispecie acquisitiva di cui all’art. 1153 è il conseguimento del possesso della cosa. Il codice allude, in proposito, alla relativa consegna, da intendere quale trasmissione della concreta disponibilità della cosa stessa dall’alienante all’acquirente: tale non si ritiene una consegna meramente simbolica, né una consegna consensuale, ove l’acquirente non consegua la materiale disponibilità della cosa (come accade nel caso di costituto possessorio) (VI, 5.3) 26. L’acquisto presuppone che il conseguimento del possesso sia avvenuto in buona fede, nell’ignoranza, quindi, circa la mancanza, nell’alienante, della proprietà della cosa. La buona fede, secondo la regola dell’art. 11473, si presume ma non può essere invocata in caso di colpa grave (art. 11472), come in caso di acquisto, nonostante ragionevoli dubbi circa la legittima provenienza del bene 27. Al soggetto, ove abbia acquistato conoscendo l’originaria illegittima provenienza della cosa (ad es., perché gli risulti in passato rubata), non giova credere erroneamente che il suo dante causa o un precedente possessore ne sia divenuto proprietario (proprio sulla base del principio dell’art. 1153) (art. 1154). La consapevolezza dell’originaria illegittima provenienza del bene si ritiene, insomma, escludere la buona fede 28 (ovviamente, se vi è stato effettivamente un acquisto da parte del suo dante causa o di uno dei precedenti possessori, il problema non si pone, trattandosi di acquisto a domino). 25 È da sottolineare come proprio l’operatività della regola dell’art. 11531, col carattere originario dell’acquisto che ne consegue (per il quale v., ad es., Cass. 27-9-2012, n. 16435), valga ad agevolare fortemente la dimostrazione della proprietà relativamente ai beni mobili, con riguardo all’esercizio dell’azione di rivendicazione (VI, 2.6): al rivendicante risulta sufficiente, infatti, provare, a tal fine, di avere precedentemente acquistato in buona fede e in base a titolo idoneo il possesso della cosa che intende recuperare nella propria materiale disponibilità. 26 Peraltro, non occorre “un contatto fisico e diretto dell’acquirente con il bene”, bastando che costui “sia posto in grado di esercitare su di esso i poteri di controllo e vigilanza che costituiscono il contenuto proprio del possesso” (Cass. 29-1-2018, n. 2100). 27 Cass. 14-9-1999, n. 9872, precisa che la “presunzione di sussistenza può essere vinta in concreto anche tramite presunzioni semplici, le quali siano gravi, precise e concordanti e forniscano, in via indiretta (come è naturale, trattandosi di accertare l’esistenza o meno di uno stato psicologico), il convincimento della esistenza in capo all’acquirente del ragionevole sospetto di una situazione di illegittima provenienza del bene” (non è stata riconosciuta, così, la buona fede dell’acquirente di un quadro di De Chirico, di provenienza furtiva, ad un’asta, trattandosi di gallerista esperto d’arte, come tale ritenuto nelle condizioni di accertare se il quadro acquistato fosse tra quelli attualmente oggetto di indagini penali per furto). 28 La Relaz. cod. civ., n. 544, sottolinea, appunto, che la disposizione “è giustificata dal rilievo che la conoscenza, da parte dell’acquirente, dell’illegittima provenienza della cosa è tale da imporgli le più rigorose cautele al fine di accertare la reale situazione giuridica dell’alienante”.

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Deve sussistere un titolo idoneo al trasferimento della proprietà. Si usa precisare, a chiarimento della formula legislativa, che il titolo deve essere astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà. Con ciò si intende chiarire che è necessario trattarsi di un titolo che, se proveniente dal proprietario (in quanto legittimato a disporre del bene), avrebbe determinato il regolare trasferimento della proprietà sulla cosa. L’unica carenza del titolo posto a base dell’acquisto (che è, infatti, a non domino) deve riguardare, dunque, la mancanza di legittimazione a disporre del diritto da parte dell’alienante. Non risulta, allora, astrattamente idoneo un titolo che non abbia i requisiti richiesti e sia, di conseguenza, invalido 29: l’acquisto del possesso in buona fede non vale a sanare i vizi dell’atto che lo rendano invalido, ma solo il difetto della legittimazione dell’alienante. Titolo astrattamente idoneo – purché dunque valido – può essere un qualsiasi atto di alienazione, a titolo oneroso, ma anche gratuito (vendita, donazione, ecc.). È opportuno ricordare, come si è accennato, che la disciplina qui in esame non si applica ai beni mobili registrati e alle universalità di mobili (art. 1156) 30. L’art. 11533 estende, piuttosto, l’operatività dell’acquisto, quale effetto del possesso in buona fede (in base a titolo idoneo al trasferimento), anche ai diritti di usufrutto, uso e pegno. Per gli effetti del possesso di buona fede dei titoli di credito, l’art. 1157 rinvia alla disciplina al riguardo specificamente dettata dal codice stesso (art. 1994).

7. Usucapione. – Nel quadro degli effetti del possesso, il codice disciplina l’usucapione, che l’art. 922 menziona tra i modi di acquisto della proprietà. Essa, in realtà, quale fondamentale modo di acquisto a titolo originario, riguarda non solo la proprietà, ma anche gli altri diritti reali di godimento su cosa altrui. L’acquisto della proprietà per usucapione, in conseguenza del “possesso continuato” per un lungo tempo, si fonda, in sostanza, sulle stesse ragioni che giustificano l’operare della prescrizione quale generale modo di estinzione dei diritti (art. 2934) (II, 4.9). Nel caso della prescrizione, il diritto viene perso in conseguenza del suo durevole mancato esercizio. Nel caso della usucapione, all’inverso, il diritto viene acquistato in conseguenza del suo persistente concreto esercizio. Tradizionalmente, i due fenomeni erano esaminati e disciplinati unitariamente, parlandosi, rispettivamente, di prescrizione estintiva e di prescrizione acquisitiva. In tale unitaria prospettiva li considerava il codice civile del 1865 (art. 2105: “la prescrizione è un mezzo con cui, col decorso del tempo e sotto condizioni determinate, taluno acquista un diritto od è liberato da un’obbligazione”), mentre il codice vigente ha ritenuto opportuno separarli, con ciò intendendo evidentemente valorizzare, in relazione all’usucapione, la rilevanza dell’esercizio del potere di fatto sulla cosa 31. Il collegamento, comunque, resta ancora esplicito, dato che l’art. 1165 estende all’usucapione, almeno “in quanto applicabili”, l’operatività delle regole fondamentali governanti l’operatività della prescrizione. 29 Sicuramente escluso è l’acquisto in caso di titolo nullo, mentre si tende a ritenere ammissibile nella ipotesi di titolo annullabile, in quanto, almeno fin quando non sia annullato, esso sussiste ed è efficace (in tal caso, però, il diritto dell’acquirente è soggetto a venir meno nel caso sopravvenga la pronuncia di annullamento). 30 Peraltro, “ai beni mobili soggetti ad iscrizione nei pubblici registri, ma di fatto non iscritti o non validamente iscritti, non si applica la norma di cui all’art. 1156 c.c.”, operando il regime dell’art. 1153 (Cass. 23-5-2018, n. 12860). 31 La Relaz. cod. civ., n. 547, precisa che si è inteso attuare “una più organica e razionale sistemazione della materia col trasferire sotto il titolo del possesso le norme particolari all’usucapione”.

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PARTE VI – PROPRIETÀ E DIRITTI REALI

L’esigenza considerata dall’ordinamento è essenzialmente quella di assicurare la certezza delle situazioni giuridiche e la loro corrispondenza alle situazioni quali si presentano nella realtà 32. Come nella prescrizione determinante risulta l’inerzia del titolare del diritto, così nell’usucapione decisiva è reputata l’attività del soggetto. L’ordinamento si muove, insomma, nel senso di adeguare la titolarità giuridica dei rapporti economici alla loro effettività, in una prospettiva di incentivazione, anche nell’interesse generale, dell’effettivo esercizio sui beni di quelle attività di utilizzazione e di sfruttamento, in vista della cui meritevolezza riconosce i corrispondenti diritti. Chiare ne sono le implicazioni: se è vero che la proprietà risulta imprescrittibile, è pure vero che la stessa norma la quale vale a sancire tale sua caratteristica – prevedendo la imprescrittibilità dell’azione di rivendicazione – fa salvi proprio gli effetti dell’acquisto della proprietà da parte di altri per effetto della usucapione (art. 9483). Perché si possa avere usucapione, il possesso deve avere taluni requisiti. Essi si deducono dalle disposizioni che disciplinano l’istituto, oltre ad essere indicati quali requisiti del possesso tutelabile mediante l’azione di manutenzione (art. 11702) 33. a) Il possesso, per essere ad usucapionem, deve essere pacifico e pubblico. Non deve essere stato acquistato, insomma, in modo violento o clandestino. Di conseguenza, il possesso giova ai fini dell’usucapione solo dal momento della cessazione della relativa violenza e della clandestinità (vizi del possesso: art. 1163). Taluni ritengono, in proposito, che occorra una vera e propria violenza fisica o morale nei confronti del precedente possessore, mentre la giurisprudenza sembra orientata (con riferimento ai caratteri dello spoglio, ai sensi dell’art. 11681) nel senso della sufficienza di una contrarietà alla sua volontà. Circa la non clandestinità del possesso, poi, si ritiene che essa sussista anche a prescindere dalla consapevolezza dell’altrui impossessamento da parte del precedente possessore: rilevante è solo che l’attività di chi possiede sia socialmente apprezzabile come tale 34. b) L’esercizio del potere di fatto non può essere mai abbandonato dal possessore. Il possesso, cioè, deve essere continuo per tutto il periodo prescritto (art. 1158). Ai fini di tale necessaria continuità acquista rilevanza la presunzione di possesso intermedio, di cui all’art. 1142 (VI, 5.3). c) Il possesso deve risultare non interrotto. L’interruzione del possesso può essere naturale (di fatto) o civile. La interruzione naturale si verifica ove il possessore, per una intromissione altrui (ma si ritiene anche per eventi naturali), venga posto nella impossibilità di esercitare il potere di fatto sulla cosa. In tal caso, l’usucapione si reputa interrotta solo se la privazione del possesso si protrae per almeno un anno (art. 11671). Trascorso un anno dall’avvenuto spoglio, infatti, il soggetto non può più esercitare l’azione di rein32 Significativamente il legislatore ha previsto la trascrizione delle sentenze da cui risulti l’acquisto per usucapione di diritti per i quali tale forma di pubblicità è prevista (art. 2651), nonché, a seguito del D.L. 21.6.2013, n. 69, conv. nella L. 9.8.2013, n. 98, degli accordi di mediazione che accertano l’usucapione (art. 2643, n. 12 bis). 33 L’usucapione resta esclusa per i beni del demanio e del patrimonio indisponibile dello Stato e degli enti pubblici territoriali. 34 Ai sensi dell’art. 1260 L. 27.12.2006, n. 296, ai fini della usucapione di beni immobili acquistati dallo Stato, in quanto vacanti (art. 827) o derivanti da eredità giacenti (per successione legittima: art. 586), il “terzo esercente attività corrispondente al diritto di proprietà o ad altro diritto reale”, onde evitare l’impedimento della clandestinità (di cui all’art. 1163), deve notificare “all’agenzia del demanio di essere in possesso del bene”.

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tegrazione (art. 11681). Per evitare l’effetto interruttivo del proprio possesso basta che il soggetto proponga (appunto entro l’anno dal sofferto spoglio) l’azione di reintegrazione, recuperando, a seguito del relativo esercizio, il possesso (art. 11672). Quanto alla interruzione civile, gli atti di diffida e messa in mora, a differenza che per la prescrizione (art. 29434), non valgono ad interrompere l’usucapione, non trattandosi di diritti di credito. Occorre, quindi, la proposizione di una domanda giudiziale, in particolare di rivendicazione. Le disposizioni relative all’interruzione della prescrizione (nonché alla sua sospensione e quelle generali) sono, in effetti, considerate, come accennato all’inizio, da osservare anche in materia di usucapione, ma solo “in quanto applicabili” (art. 1165). Ne consegue che anche con riferimento all’efficacia interruttiva del riconoscimento del diritto reale altrui da parte del possessore, la giurisprudenza dimostra notevole cautela 35. L’usucapione è modo di acquisto a titolo originario non solo della proprietà, ma anche degli altri diritti reali di godimento (artt. 1158 e 1161). La natura del diritto che si usucapirà viene a dipendere, ovviamente, dal tipo di possesso esercitato (se, cioè, comportandosi come proprietario del bene o come titolare di altro diritto reale su di esso). Nella stessa prospettiva della disciplina del mutamento della detenzione in possesso (art. 11412: VI, 5.2) si pone, al riguardo, la regola concernente l’interversione del possesso (con conseguente possibile richiamo di quanto in proposito osservato) (art. 1164). Chi ha il possesso corrispondente all’esercizio di un diritto reale su cosa altrui non può usucapire la proprietà della cosa stessa, se il titolo del suo possesso non è mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il diritto del proprietario. In tal caso, il tempo necessario per l’usucapione decorre dalla data in cui il titolo del possesso è stato mutato. È controverso se l’usucapione valga a liberare il bene dagli altri diritti reali eventualmente esistenti su di esso. Si tratta, in effetti, di un principio tradizionale (c.d. usucapio libertatis), il quale, però, non trova espresso riscontro nel codice, a differenza che in materia di effetti del possesso in buona fede di beni mobili (art. 11532). Al riguardo, pare da concludere, allora, che ad estinguersi saranno esclusivamente i diritti reali altrui incompatibili con il possesso, quale sia stato effettivamente esercitato (e cui sia conseguita l’usucapione). L’usucapione (fermi i requisiti dianzi esaminati del possesso) produce l’acquisto con modalità temporali molto diverse, a seconda del tipo di bene 36. 35 Cass. 25-3-1997, n. 2590, ritiene che “ai fini dell’interruzione del termine per usucapire è necessario che il possessore manifesti la volontà di attribuire al suo titolare il diritto reale da lui esercitato come proprio, non essendo sufficiente la consapevolezza della spettanza ad altri di tale diritto”, pur eventualmente evidenziata in un qualche atto (e v. anche Cass. 23-6-2006, n. 14654). Alla “c.d. volontà ‘attributiva’ del diritto”, quale “requisito normativo del riconoscimento”, allude Cass. 26-10-2018, n. 27170 (normalmente desumibile, ad es., “dall’essere state intavolate trattative con i titolari del diritto di proprietà ai fini dell’acquisto in via derivativa”). 36 L’effetto acquisitivo dell’usucapione opera indipendentemente dall’eventuale provvedimento giudiziale che lo accerti (di natura, quindi, dichiarativa), la cui trascrizione ai sensi dell’art. 2651, del resto, è reputata “priva di effetti sostanziali” (Cass. 26-11-1999, n. 13184). In merito alla c.d. v e n d i t a d e l p o s s e s s o , la giurisprudenza più recente, pur ribadendo la propria contrarietà – peraltro avversata in dottrina – alla “possibilità che oggetto di una vendita possa essere il solo possesso, in quanto tale, di un immobile” (e v. anche VI, 5.3), ha concluso nel senso della validità della “compravendita con cui viene trasferito il diritto di proprietà di un immobile sul quale il venditore abbia esercitato il possesso per un tempo sufficiente al compimento dell’usucapione, ancorché l’acquisto della proprietà da parte sua non sia stato giudizialmente accertato in con-

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a) Per i beni immobili, ai fini dell’acquisto della proprietà (e degli altri diritti reali di godimento), è necessario, in generale, il possesso protratto per venti anni (usucapione ordinaria). È prevista anche una usucapione decennale (c.d. usucapione abbreviata), nel caso in cui il possesso sia stato acquistato in buona fede da chi non sia il proprietario, in forza di un titolo idoneo al trasferimento della proprietà e che sia stato debitamente trascritto (il termine decennale decorre dalla data della trascrizione) (art. 1159). Come si è visto nel paragrafo precedente a proposito dell’art. 1153, la formula legislativa va intesa nel senso della necessaria sussistenza, per l’usucapione decennale, di un titolo astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà, in quanto non affetto da vizi tali da determinarne la invalidità, ma solo carente sotto il profilo della legittimazione del soggetto da cui proviene (si tratta anche qui di un acquisto a non domino). Pure in questo caso, l’acquisto avviene a titolo originario 37. Regole particolari sono dettate dall’art. 1159 bis (aggiunto dalla L. 10.5.1976, n. 346) in tema di usucapione speciale per la piccola proprietà rurale (ordinaria e abbreviata, per cui sono richiesti, rispettivamente, quindici e cinque anni). b) Con riferimento alle universalità di mobili, la proprietà e gli altri diritti reali di godimento si acquistano, in generale, mediante possesso ventennale. In caso di acquisto in buona fede del possesso da chi non è proprietario, in forza di titolo (astrattamente) idoneo, l’usucapione si compie con il decorso di dieci anni (art. 1160). c) Quanto ai beni mobili, il termine ordinario di usucapione è di venti anni. Esso si applica solo se il possessore è in mala fede. Se, infatti, costui acquista il possesso in buona fede, in mancanza di un titolo idoneo, il tempo necessario per l’usucapione è di dieci anni (art. 1161). Ciò perché, come si è visto, se con la buona fede del possessore concorre anche il titolo (astrattamente) idoneo, l’acquisto della proprietà (o di altro diritto reale di godimento) si produrrà immediatamente (a non domino), operando la fattispecie acquisitiva dell’art. 1153. d) Per i beni mobili registrati, la usucapione ordinaria si compie in dieci anni e quella abbreviata (col concorso della buona fede del possessore e del titolo astrattamente idoneo debitamente trascritto) in soli tre anni. Tali termini particolarmente brevi sono dettati in considerazione della peculiare natura dei beni in questione 38.

traddittorio con il precedente proprietario” (Cass. 5-2-2007, n. 2485, ove si evidenzia come, in caso contrario, “si verificherebbe la strana situazione per cui chi ha usucapito sarebbe proprietario, ma non potrebbe disporre validamente del bene fino a quando il suo acquisto non fosse accertato giudizialmente”). In relazione alla rinuncia a far valere l’acquisto per usucapione ormai maturatosi, Cass. 28-7-2021, n. 21612 ha escluso la necessità della relativa forma scritta a pena di nullità (ai sensi dell’art. 1350, n. 5), non trattandosi di “rinuncia a un diritto di proprietà già acquisito, bensì solo ad avvalersi della tutela giuridica apprestata dall’ordinamento per garantire la stabilità dei rapporti giuridici”. 37 Solo in caso di usucapione ventennale degli immobili non operano contro il terzo possessore (conferendo maggiore sicurezza al suo acquisto) né l’impedimento derivante da condizione o termine, né le cause di sospensione previste dall’art. 2942 per la condizione di colui contro cui si usucapisce (incapace, militare in tempo di guerra) (art. 11661). Terzo possessore si ritiene essere colui che possiede senza titolo o sulla base di un titolo a non domino e, pertanto, sia estraneo al rapporto sottoposto a condizione o a termine, ovvero con il soggetto per il quale operi la causa di sospensione della prescrizione. 38 Come evidenzia la Relaz. cod. civ., n. 548, “il termine di tre anni potrà apparire troppo breve, ma esso è stabilito in considerazione della brevità della vita (si pensi soprattutto agli aeromobili) che normalmente hanno alcuni di questi beni”. Ciò vale pure a giustificare il termine solo decennale di prescrizione ordinaria.

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8. Azioni a tutela del possesso. – Si è sottolineato come il significato del riconoscimento giuridico accordato all’esercizio del potere di fatto sulla cosa si colga soprattutto sotto il profilo della possibilità, conferita al possessore, di avvalersi di apposite azioni (le azioni possessorie), rapide ed efficaci, a pronta tutela della sua situazione 39. Il possessore (al limite, il ladro) è tutelato indipendentemente dalla propria buona o mala fede e pure contro lo stesso proprietario, il quale non si trovi più nel possesso del bene da un tempo tale da precludergli l’esercizio, a sua volta, delle azioni possessorie. Il proprietario potrà, in tal caso, reagire solo con l’esercizio dell’azione di rivendicazione (con i relativi tempi, legati anche al necessario assolvimento dei gravosi oneri probatori: VI, 2.6, ovvero, ricorrendone le condizioni, con quello dell’azione negatoria). L’esecuzione dei provvedimenti adottati dal giudice a difesa del possesso è assistita, inoltre, da tutela penale (art. 388 c.p., concernente la “mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice”). Le azioni a tutela del possesso sono due: l’azione di reintegrazione e l’azione di manutenzione. Al possessore, così come al proprietario e al titolare di altro diritto reale di godimento, competono pure le esaminate azioni di nunciazione (VI, 2.8). a) L’azione di reintegrazione (o azione di spoglio) compete a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso (di qualsiasi bene), al fine di ottenere la reintegrazione del possesso medesimo. L’azione deve essere esercitata entro un anno dal sofferto spoglio (art. 11681). Se lo spoglio è clandestino, il termine decorre dal giorno della scoperta dello spoglio (art. 11683). In applicazione dei principi generali, si ritiene che, ove lo spoglio sia violento, il termine decorra dalla cessazione della violenza. Il termine annuale in questione viene considerato correntemente di decadenza. L’azione, oltre che al possessore, compete anche al detentore, tranne il caso che la cosa sia detenuta per ragioni di ospitalità o servizio (art. 11682). Si parla correntemente, al riguardo, di detenzione qualificata (VI, 5.2) 40. Lo spoglio consiste in qualsiasi comportamento che valga ad impedire durevolmente l’esercizio del potere di fatto sulla cosa. Il carattere violento dello spoglio è inteso in senso lato dalla giurisprudenza 41. Tradizionalmente si reputa necessario che lo spossessamento avvenga con una corrispondente intenzione e la giurisprudenza richiede, al ri39

La tutela possessoria, con i suoi caratteri di rapidità ed efficacia (di “rimedi notevolmente più snelli, in contrapposizione ad altri tipi di azioni, come quelle petitorie, esperibili a tutela dei diritti reali”, parla Cass. 4-4-2018, n. 8394), può essere considerata, in effetti, quale contropartita offerta dall’ordinamento, in vista della pacifica convivenza sociale, per la drastica limitazione della liceità dell’autodifesa. Solo mentre l’aggressione altrui al proprio diritto è in atto, al relativo titolare è consentito – senza incorrere nel reato di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni” (artt. 392 e 393 c.p.) – agire per difenderlo (vim vi repellere licet), in applicazione del principio della legittima difesa (e solo nei rigorosi limiti in cui questa risulta ammessa: 2044 e 52 c.p.) (X, 1.5). 40 Per esercitare l’azione, basta che costui dimostri “l’esistenza del titolo posto a base dell’allegata detenzione, senza che il giudice debba accertare la validità e l’efficacia di siffatto titolo” (Cass. 17-2-2014, n. 3627). Si tenga presente che l’azione “può essere esercitata anche da chi possegga la cosa per mezzo di altra persona nei confronti dello stesso detentore che abbia mutato la propria detenzione in possesso” (Cass. 29-5-2013, n. 13417). 41 Per Cass. 23-11-1978, n. 5498 (e v., ad es., pure Cass. 7-12-2012, n. 22174), “lo spoglio violento si attua non soltanto con la violenza materiale, ma anche mediante qualsiasi azione con la quale taluno si impossessi dell’altrui cosa, alterando lo stato di fatto in cui si trova il possessore, in contrasto con la volontà espressa, o anche presunta, del medesimo”. Al riguardo, Cass. 13-2-1999, n. 1204, nega che il semplice silenzio valga “senz’altro come manifestazione di consenso o di acquiescenza”.

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guardo, la ricorrenza di un tale animus spoliandi 42. Essendo considerato lo spoglio un atto illecito (ai sensi dell’art. 2043 e, come tale, fonte pure dell’obbligo di risarcire i danni ingiustamente così provocati), si tende (non senza contrasti) a ritenere che l’attore debba provarne il carattere colposo o doloso 43. Se lo spoglio non è stato violento o clandestino (c.d. spoglio semplice), il possessore potrà comunque chiedere di essere reintegrato nel possesso, ove ricorrano le condizioni dell’azione di manutenzione (art. 11703). L’azione può essere diretta anche nei confronti di chi sia nel possesso della cosa in virtù di un acquisto a titolo particolare (da chi abbia operato lo spoglio), fatto con la consapevolezza dell’avvenuto spoglio (quindi in mala fede) (art. 1169). La reintegrazione è ordinata dal giudice sulla base della semplice notorietà del fatto (cioè alla luce di una istruttoria sommaria e del mero riscontro del c.d. fumus boni iuris della pretesa dell’attore), senza dilazione (art. 11684). Caratteristica del giudizio possessorio è quella di svolgersi in due fasi distinte, delle quali la prima è quella di urgenza, cui allude l’art. 11684, concludendosi essa, appunto, con l’ordine di reintegrazione (di ripristino, cioè, della situazione di fatto su cui è intervenuto lo spoglio), di carattere provvisorio e cautelare (assistito, come accennato, anche da una tutela di carattere penale). È proprio alla rapidità di tale fase che è affidata la realizzazione dell’esigenza di assicurare una tutela adeguata della situazione di fatto esistente relativamente ai beni (e, quindi, in sostanza, la stessa funzione economico-giuridica del possesso). La seconda fase è quella di merito, che si conclude con la sentenza definitiva (sempre, si badi, in ordine alla situazione possessoria) 44. b) L’azione di manutenzione è concessa al solo possessore (quindi non al detentore) e limitatamente alla proprietà o ad altri diritti reali su beni immobili o su universalità di mobili. Essa è diretta ad ottenere, da parte di chi sia stato molestato nel suo possesso, la cessazione delle turbative arrecategli, entro un anno da quando queste si siano verificate (art. 11701). Il possesso deve essere caratterizzato dagli stessi requisiti richiesti ai fini dell’usucapione (c.d. possesso ad usucapionem: pacifico, pubblico, continuo, non interrotto) e 42 Si afferma che “l’elemento soggettivo che completa i presupposti dell’azione di spoglio risiede nella coscienza e volontà dell’autore di compiere l’atto materiale nel quale si sostanzia lo spoglio” (Cass. 31-1-2011, n. 2316). Alla necessaria “consapevolezza di contrastare e di violare la posizione soggettiva del terzo”, allude Cass. 4-11-2013, n. 24673. 43 La giurisprudenza, in effetti, correntemente ritiene che, costituendo “lo spoglio … atto illecito”, “la relativa condotta materiale deve essere sorretta da dolo o colpa, la cui prova incombe, secondo i principi generali di ripartizione dell’onere probatorio, su chi propone la domanda di reintegrazione” (Cass. 31-8-2018, n. 21475; 18-2-2008, n. 3955). Si precisa che, ove il soggetto che invoca la tutela possessoria “intenda ottenere la condanna dell’autore dello spoglio o della turbativa anche al risarcimento dei danni”, la relativa pretesa possa “essere esaminata solo nel giudizio di cognizione piena” (Cass. 30-9-2014, n. 20635). 44 Il procedimento è disciplinato dall’art. 703 c.p.c., la cui modifica con la L. 26.11.1990, n. 353, ha dato luogo ad accesi contrasti circa i caratteri della relativa struttura “bifasica”, composti da Cass., sez. un., 24-2-1998, n. 1984 (secondo cui il procedimento “resta strutturato su due fasi entrambe rette dal ricorso introduttivo, l’una a cognizione sommaria destinata a concludersi con ordinanza reclamabile che deve contenere anche la fissazione dell’udienza ex art. 183 c.p.c., l’altra a cognizione piena destinata a concludersi con sentenza soggetta ai normali mezzi di impugnazione”; e v. anche, sempre con riferimento al regime di cui alla L. 353/1990, Cass. 21-2-2019, n. 5154). Successivamente, il legislatore è nuovamente intervenuto, con la L. 14.5.2005, n. 80, per definire più compiutamente la disciplina del procedimento (così, nel nuovo contesto normativo, alla luce degli introdotti co. 3 e 4 dell’art. 703 c.p.c., Cass., sez. un., 20-11-2013, n. 26037, ha ritenuto che “il carattere bifasico del procedimento possessorio è, ormai, solo eventuale”).

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durare da oltre un anno. Qualora il possesso sia stato acquistato violentemente o clandestinamente, l’azione può esercitarsi trascorso un anno dal giorno in cui la violenza o la clandestinità sono cessate (art. 11702) 45. Anche in questo caso il termine annuale (che decorre dall’inizio della relativa condotta) entro cui deve essere proposta l’azione è considerato di decadenza. La molestia (o turbativa) si distingue dallo spoglio in quanto, nella prima ipotesi, la cosa permane nella disponibilità del possessore 46. Le molestie possono essere di fatto o di diritto. Nel primo caso, si tratta di un’attività materiale che incide sullo stato di fatto esistente (passaggio sul fondo, immissioni moleste). Nel secondo caso, si tratta del compimento di atti giuridici (stragiudiziali e, secondo taluni, anche giudiziali) volti ad impedire od ostacolare l’esercizio del possesso (atti di ingiunzione o atti di opposizione all’esercizio del possesso altrui, accompagnati da un comportamento del dichiarante che denoti la ferma volontà di tradurre in atto il suo proposito) 47. Risulta tradizionalmente richiesta la ricorrenza di un elemento intenzionale (animus turbandi), il quale, comunque, viene identificato nella mera volontarietà del comportamento tenuto a detrimento dell’altrui possesso. Come accennato, se ricorrono le condizioni per la proposizione dell’azione di manutenzione, anche colui che abbia subito uno spoglio non violento o clandestino (c.d. spoglio semplice) può chiedere di essere rimesso nel possesso (art. 11703). Tale tipo di tutela si ritiene da taluni ammissibile anche relativamente ai beni mobili, nonostante la sua previsione nell’art. 1170. Per far cessare la molestia, il giudice può adottare i provvedimenti che ritenga più opportuni, anche per impedire le molestie future. Può, così, essere ordinata la demolizione di opere o il ripristino di quelle manomesse per turbare l’altrui possesso. Delicato è il rapporto tra azioni possessorie e petitorie (le azioni, cioè, spettanti al proprietario o al titolare di altro diritto reale, esaminate dianzi: VI, 2.6-7 e 3.1) 48. Il le45 L’azione di manutenzione, insomma, è concessa quando il precedente possessore, essendo trascorso un anno dal suo spossessamento, non può più esercitare l’azione di reintegrazione. 46 Circa tale distinzione, Cass. 28-7-1986, n. 4835, ha precisato che “nella nozione di spoglio rientrano gli atti del terzo che privano il possessore o il detentore della disponibilità o del godimento dell’intera cosa o di una sua parte, mentre nella nozione di molestia vanno compresi gli atti che non incidono sulla consistenza materiale della cosa, ma hanno lo scopo di impedire l’esercizio del potere di fatto su di essa o di rendere l’esercizio stesso più difficoltoso o meno comodo” (è stato ritenuto spoglio, così, relativamente ad una servitù di passaggio, la infissione di paletti di cemento sulla sede stradale destinata al transito, essendosi in tal modo determinata una sottrazione, sia pure parziale, della superficie destinata al passaggio; Cass. 30-9-2016, n. 19586, ha ricondotto, invece, alla nozione di molestia “l’apposizione, lungo una strada, di una catena manualmente amovibile”, in quanto atta solo ad incidere “sulla modalità di fruizione, resa meno agevole e comoda”; alla “istallazione di una porta sul muro comune”, si riferisce, in proposito, Cass. 23-10-2018, n. 26787). Peraltro, Cass. 22-1-2013, n. 1494, riconduce al concetto di spoglio, quale “privazione anche solo parziale del possesso”, l’“atto che restringa o riduca le facoltà inerenti il potere esercitato sull’intera cosa, oppure diminuisca o renda meno comodo l’esercizio del possesso medesimo”. 47 In tal senso, nell’evidenziare che la “molestia possessoria può realizzarsi anche senza tradursi in attività materiali”, ad es., Cass. 10-10-2011, n. 20800. 48 Cass. 13-11-2009, n. 24133, ha precisato che “data la diversa natura e la piena autonomia delle due azioni, il giudicato possessorio non può assumere nel successivo giudizio petitorio gli effetti di cosa giudicata sostanziale rispetto allo ius possidendi, anche se i titoli siano stati presi in considerazione ad colorandam possessionem, giacché tali effetti sono limitati all’accertamento della situazione di fatto, corrispondente all’eserci-

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gislatore, in proposito, ha inteso evitare che dal relativo eventuale concorso possa risultare frustrata la peculiare efficacia della tutela possessoria, attuata attraverso il pronto ripristino della situazione di fatto turbata dall’intromissione di altri, anche se si tratti dello stesso proprietario della cosa (il quale deve utilizzare, per far valere il suo diritto, l’azione di rivendicazione o l’azione negatoria). Un intervento della Corte costituzionale è venuto, però, ad incidere sulla tradizionale disciplina della materia (caratterizzata dalla, per così dire, “impermeabilità” del giudizio possessorio rispetto alle questioni – proprie del giudizio petitorio – concernenti la titolarità dei corrispondenti diritti). L’art. 7041 c.p.c. consente che, per fatti verificatisi durante la pendenza del giudizio petitorio, vengano proposte domande relative al possesso (in linea di principio davanti allo stesso giudice investito del giudizio petitorio). L’art. 7051 c.p.c., invece, preclude a chi sia convenuto in un giudizio possessorio di difendersi facendo valere la propria situazione di diritto, finché il giudizio possessorio non sia terminato e la relativa decisione non sia stata eseguita (sia stata, cioè, ripristinata la situazione di fatto anteriore) 49. A seguito dell’intervento della Corte costituzionale, il rigore di tale regola è stato notevolmente attenuato, facendosi salva l’ipotesi in cui dalla osservanza del divieto in questione possa derivarne un pregiudizio irreparabile al convenuto (come si verifica, tipicamente, nel caso in cui l’esecuzione della decisione in tema di possesso comporti la distruzione di ciò che si sia realizzato in contrasto con l’altrui situazione possessoria, ma nell’affermato esercizio del proprio diritto) 50.

zio di un diritto reale” (“restando impregiudicata ogni questione sulla conformità a diritto della situazione di fatto oggetto di tutela”: Cass. 5-2-2016, n. 2300). Evidenzia Cass. 2-12-2020, n. 27513, che “il giudicato formatosi sulla domanda possessoria è privo di efficacia nel giudizio petitorio, avente ad oggetto l’acquisto del diritto di proprietà o di un altro diritto reale per usucapione, in quanto il possesso utile ad usucapire ha requisiti che non vengono in rilievo nel giudizio possessorio”. 49 Si sottolinea che il divieto in questione “riguarda solo il solo convenuto nel giudizio possessorio”, per cui “l’attore in possessorio, diversamente dal convenuto, può, anche in pendenza del medesimo giudizio, proporre autonoma azione petitoria” (Cass. 25-6-2012, n. 10588). 50 Corte cost. 3-2-1992, n. 25, ha dichiarato, appunto, illegittimo (per violazione, in particolare, del diritto di difesa, tutelato dall’art. 24 Cost.) l’art. 7051, “nella parte in cui subordina la proposizione del giudizio petitorio alla definizione della controversia possessoria e all’esecuzione della decisione nel caso che ne derivi o possa derivarne un pregiudizio irreparabile al convenuto”. La giurisprudenza ha successivamente precisato che “il convenuto in giudizio possessorio può opporre le sue ragioni petitorie quando dalla esecuzione della decisione possessoria potrebbe derivargli un danno irreparabile, purché l’eccezione sia finalizzata solo al rigetto della domanda possessoria (e non anche ad una pronuncia sul diritto con efficacia di giudicato)” (Cass. 30-10-1998, n. 10862; 18-6-2018, n. 16000).

PARTE VII

OBBLIGAZIONI

CAPITOLO 1

RAPPORTO OBBLIGATORIO (Caratteri e tipologie)

Sommario: 1. Rilevanza sociale e evoluzione storica della fisionomia. – 2. Sistemazione del codice civile e nuovi radicamenti dei rapporti obbligatori. – 3. Fonti dell’obbligazione (vicende costitutive). – A) CARATTERI DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO. – 4. Struttura del rapporto e nozione integrale dell’obbligazione. – 5. Soggetti (l’ambulatorietà). – 6. Contenuto. La pretesa. – 7. Segue. La prestazione. – 8. Oggetto. – 9. Dovere di correttezza (lealtà, protezione e esigibilità). – 10. Obbligazioni naturali. – B) ALCUNE SPECIE DI OBBLIGAZIONI TIPICHE. – 11. Le tipologie. Generalità. – 12. Obbligazioni plurisoggettive. Le obbligazioni parziarie. – 13. Segue. Le obbligazioni solidali. – 14. Obbligazioni alternative e facoltative. – 15. Obbligazioni divisibili e indivisibili. – 16. Obbligazioni pecuniarie (debiti di valuta e debiti di valore). – 17. Il regime degli interessi. – 18. Segue. L’anatocismo. – 19. Obbligazioni con funzioni tipizzate.

1. Rilevanza sociale e evoluzione storica della fisionomia. – In termini generali il rapporto obbligatorio è un rapporto tra due soggetti, per cui un soggetto (creditore) ha diritto di soddisfare un proprio interesse tramite l’attività (prestazione) di altro soggetto (debitore) che vi è tenuto. È fondamentale la valutazione sociale della relazionalità, per verificare se la stessa si atteggi come mero legame umano (ad es. di amicizia, di cortesia), in quanto come tale è sentito dalla comunità ovvero come tale è voluto dai soggetti della relazione, oppure coinvolga una doverosità giuridica, come tale avvertita dalla collettività, che implica il comportamento giuridicamente obbligatorio di un soggetto verso un altro soggetto (ad es., come si vedrà, si distingue tra trasporto di cortesia e trasporto gratuito: IX, 2.11). Una valutazione funzionale del fatto varrà a fare emergere i criteri di configurazione del rapporto nella specifica realtà storica (es. la natura professionale del rapporto, il dispendio economico dell’attività svolta, ecc.); meno rilevante è la natura dell’interesse realizzato, perché (come si vedrà) l’obbligazione può essere anche rivolta alla soddisfazione di un interesse non patrimoniale del creditore (art. 1174).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

Si fa ricorso al rapporto obbligatorio quando si ha necessità di realizzare un interesse di rilevanza economica che non si è in grado di soddisfare personalmente e autonomamente, sicché c’è l’esigenza di avvalersi della collaborazione di altro soggetto (ad es., si ha necessità di danaro, che si ottiene attraverso un prestito; si ha bisogno della disponibilità di un’abitazione o di un locale commerciale, che si prende in locazione da altri; si cerca mano d’opera, che si assume con contratto di lavoro). Il codice civile non contiene una espressa nozione di obbligazione, sicché ancora oggi si è soliti fare riferimento alle definizioni che provengono dal diritto romano, valorizzandosi il vincolo giuridico corrente tra due soggetti 1. L’obbligazione si configura come una classe qualificata all’interno dell’ampia categoria dei doveri giuridici e specificamente degli obblighi giuridici 2. La emersione storica dell’obbligazione risente delle strutture economiche, dei modelli relazionali e dei criteri valoriali che storicamente hanno accompagnato l’organizzazione sociale. a) In diritto romano l’obbligazione indicava la posizione di un soggetto materialmente legato e vincolato (asservito) (obligatus) ad un altro soggetto 3. Il vincolo giuridico (vinculum iuris) che legava i due soggetti era, originariamente, concepito come un vincolo materiale (nexum), per sciogliersi dal quale era necessario che lo stesso obligatus o altro soggetto per lui recidesse tale vincolo con la c.d. solutio (dal verbo solvere: sciogliere), che significa appunto scioglimento, liberazione dal vincolo, che viene eliminato (nexi liberatio) 4. 1 La definizione che notoriamente ha attraversato i secoli per attestarsi, ancora oggi, come formula identificativa delle obbligazioni si trova nelle Istituzioni di Giustiniano: “Obligatio est iuris vinculum, quo necessitate adstringimur alicuius solvendae rei secundum nostrae civitatis iura”. 2 Il linguaggio giuridico non è sempre univoco, parlandosi talvolta di “doveri”, talaltra di “obblighi”, talaltra ancora di “essere tenuti”, senza attribuzione di un significato costante; invece non si impiega la parola “obbligazioni” pure in presenza di doveri individuali di carattere patrimoniale verso diretti destinatari beneficiari (ad es. gli assegni di mantenimento per il coniuge ex art. 156). In generale sono m e r i d o v e r i g i u r i d i c i quelli che sono imposti, non a tutela di soggetti determinati, ma a vantaggio della generalità dei consociati (si pensi ai molti doveri e divieti di comportamento della vita quotidiana, al dovere di astensione nei confronti del proprietario e degli altri titolari di diritti assoluti. Gli o b b l i g o s p e c i f i c i integrano un comportamento specifico dovuto da un soggetto passivo verso un determinato soggetto attivo, in ragione di un rapporto relativo e personale corrente tra gli stessi: talvolta l’obbligo è di carattere personale (es. obblighi reciproci dei coniugi ex art. 143 e obblighi dei genitori verso i figli ex art. 147); talaltra l’obbligo è di carattere patrimoniale, integrando l’obbligazione, la quale dunque si caratterizza tra gli obblighi giuridici per la natura patrimoniale dell’obbligo assunto verso uno specifico soggetto (es. obbligazione del compratore di pagare il prezzo al venditore ex art. 1498) (II, 3.5). 3 Il termine “obbligazione” deriva dal latino obligare, composto di ligare (legare) e del prefisso ob (per). Il termine “credito” deriva dal latino creditum propriamente “cosa affidata” che implica la fiducia accordata. Nel diritto arcaico erano ammesse pene corporali del debitore fino alla uccisione; un controverso versetto delle XII Tavole “al terzo giorno di mercato vengano divise le parti”, è interpretato da molti commentatori nel senso che i creditori avessero diritto di uccidere il debitore insolvente e di spartirsene il cadavere in parti proporzionali all’ammontare del credito di ciascuno. Nel tempo tali atrocità vennero meno. 4 Il ricorso al credito si sviluppò quando, per la crisi economica che si manifestò a Roma nel sec. V a.C. e per il diffondersi dei traffici, la tradizionale economia familiare (chiusa ed autosufficiente) ebbe necessità di aprirsi ai rapporti esterni. Emergeva la necessità di impiego della tecnica del credito e cioè di conseguire beni che sarebbero stati restituiti in seguito, e di impegnarsi ad un dare o fare che sarebbe stato successivamente eseguito. Se l’obbligazione non era adempiuta, l’obbligato rimaneva soggetto con la propria persona e con il proprio patrimonio al potere del creditore, a questi assegnato dal magistrato (manus iniectio). Il vincolo materiale si idealizzò e il debitore non fu più nel potere giuridico del creditore: lungi da una elaborazione concettuale, emergeva una fenomenologia di obbligazioni in ragione del tipo di prestazione. La frammentarietà tipologica dei vincoli obbligatori si svilupperà per tutto il diritto intermedio, dando vita ad una pluralità di regi-

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b) Con il giusnaturalismo e la successiva elaborazione teorica tedesca (scuola storica e pandettistica) l’obbligazione assume l’immagine moderna di categoria generale del diritto patrimoniale (II, 3.5), emergendo una “teoria generale dell’obbligazione” che analizza l’obbligazione che analizza l’obbligazione, anzitutto scissa da una costrizione fisica, che permarrà per un ulteriore periodo solo in alcuni casi 5; la scelta definitiva di rispondere il debitore solo con il proprio patrimonio avverrà con la L. 6.12.1877, n. 4166, principio fatto proprio dal cod. civ. del 1942 con la previsione della esclusiva responsabilità patrimoniale del debitore inadempiente (art. 2740). Inoltre l’obbligazione è valutata nel suo svolgersi, in modo astratto dalle fonti della stessa e dai contesti che ne hanno determinato o propiziato la nascita: emergono e rilevano le categorie soggettive, di carattere neutro, di “debitore” e “creditore”. Sul piano dei rapporti economici, una società a base agraria, contraddistinta dalla proprietà immobiliare e dunque da un’economia delle cose, assegnava al potere sulle cose una forte rilevanza sociale e giuridica. Ancora nel cod. nap. e nel cod. civ. del 1865 oggetto del contratto erano le cose (art. 1116). Il regime dell’obbligazione finiva col rispecchiare le soluzioni dei conflitti suscitati dalla circolazione della proprietà (tra proprietari e aspiranti tali) sulle cose, con funzione strumentale rispetto al conseguimento di beni finali (cose). La disciplina dell’obbligazione era contenuta nel Libro III “Dei modi di acquistare e di trasmettere la proprietà e gli altri diritti sulle cose”, sotto il Titolo IV “Delle obbligazioni e dei contratti in genere”. Lo sviluppo industriale, mentre sposta l’essenza della ricchezza dalla proprietà all’impresa, fa emergere una nuova dimensione delle obbligazioni e dei contratti, quali mezzi elettivi di esplicazione dell’attività economica. La vita dell’impresa, dall’approvvigionamento dei fattori della produzione (materie prime, mano d’opera, capitali, macchinari, ecc.) alla distribuzione (commerciale e fisica), fino alla collocazione dei prodotti sul mercato, è resa possibile attraverso le obbligazioni e i contratti. Già nel cod. comm. 1882 la disciplina delle “obbligazioni commerciali” rifletteva le soluzioni offerte ai contrasti tra commercianti e destinatari dei prodotti: erano frequenti divari di disciplina tra codice civile e codice di commercio, con la tutela privilegiata in quest’ultimo dei “commercianti”, anche attraverso la valorizzazione degli usi. Nella società industriale, il debito è diventato leva di accumulazione di ricchezza, quale mezzo necessario non solo per l’attività di impresa ma anche individualmente per l’acquisto di beni mobili e immobili. L’evoluzione delle tecnologie ha sviluppato poi una economia dei servizi, in grado di supportare le attività produttive e di appagare variegati bisogni. Con la c.d. mobilizzami, in uno con la pluralità delle fonti. L’apporto di prassi consuetudinarie arricchirà la varietà dei fenomeni obbligatori (I, 3.2). 5 Per l’art. 2093 c.c. abr. l’arresto personale può essere ordinato sull’istanza della parte interessata, nei casi e nelle forme determinate dalla legge. Si ricorderà l’infanzia misera e infelice di C. DICKENS che, a 12 anni, fu costretto a lavorare in una fabbrica per guadagnarsi da vivere, essendo stato il padre arrestato per debiti e rinchiuso nella prigione di Marshalsea, come evocato dallo stesso autore nel romanzo parzialmente autobiografico Davide Copperfield (1850). Significativo rimane anche il lavoro teatrale ironico di H. DE BALZAC, Mercadet l’affarista (1840), dove è evidenziata l’importanza riservata al credito nell’economia, così da giustificare l’arresto del debitore. Il codice civile del 1865 ancora prevedeva l’arresto personale per inadempimento, sia pure ristretto a certi casi (artt. 2093 ss.). Eppure già nella Grecia classica SOLONE, nel 594-593 a.C., aveva abolito la servitù per debiti.

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zione della ricchezza, la formazione di questa è intimamente connessa alla leva del credito. È in atto un processo di c.d. smaterializzazione della ricchezza, per cui fattori immateriali (informazioni, invenzioni, know how, brevetti, diritti d’autore, ecc.) operano attraverso il credito (con contratti di cessione e licenza). Si delinea una realtà economico-sociale variegata e complessa in cui la realizzazione degli interessi è sempre meno sorretta dal dominio sulle cose e, invece, sempre maggiormente assicurata dall’attività dei soggetti, mediante il ricorso alle obbligazioni. Il credito diventa componente essenziale del patrimonio dei soggetti, sul quale eccitare anche l’affidamento dei terzi; la cessione del credito in cambio di danaro liquido diventa essenziale strumento di finanziamento delle imprese. Divenuto il credito un essenziale fattore della economia di mercato, la rilevanza economica dello stesso (del resto secondo l’origine semantica del termine) è legata alla fiducia nella sua realizzazione. Ne sono indici significativi il tasso di interesse pagato per il danaro preso a prestito e il prezzo della cessione del credito (che sono commisurati alla fiducia che si ha nella realizzabilità del credito). Anche rispetto al debito pubblico, il rischio dei c.d. debiti sovrani sta proprio nella caduta di fiducia dei cittadini nella restituzione, che costringe lo Stato ad aumentare i tassi di interessi per allettare il prestito (II, 7.6). c) L’affermazione della persona umana e del solidarismo valorizza il fatto giuridico della relazionalità quale fonte di obblighi reciproci. Sono obblighi giuridici, di vario contenuto, complementari a un rapporto sociale instaurato, che può essere di differente carattere (patrimoniale o non) e di diverso titolo (obbligatorio o non): dal rapporto sociale sottostante tali obblighi mutuano volta a volta lo specifico contenuto. Non conseguono a un atto formale di assunzione, ma ineriscono al fatto materiale di relazionalità giuridicamente rilevante, cui l’ordinamento fa conseguire effetti giuridici di reciproca protezione, secondo il fondamentale principio di solidarietà (art. 2 Cost.) (II, 7.3). Afferendo a rapporti di carattere patrimoniale, è possibile ricollegarli alla previsione dell’art. 1173 sotto la generale dizione di “ogni altro atto o fatto” idoneo a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico (v. par. 3). Si tende a parlare di obbligazioni senza prestazione; come si vedrà, la prestazione è scheletrica del rapporto obbligatorio per rappresentarne l’essenziale contenuto (VII, 1.7): vi è solo una specificità della prestazione dovuta, che si atteggia come comportamento solidale di protezione altrui nel limite di un ragionevole sacrificio proprio. La violazione degli obblighi di protezione integra responsabilità da inadempimento, per cui l’inadempiente è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l’inadempimento è connesso a causa non imputabile (VII, 4.2). Si vedrà come è diffusa una responsabilità da contatto sociale qualificato (VII, 4.3). All’esito di tale evoluzione la figura dell’obbligazione, mentre conserva l’originario nucleo di vincolo, risulta accresciuta nella funzione svolta, per coprire tutte le ragioni, patrimoniali e non patrimoniali, di relazionalità sociale. Il rapporto obbligatorio opera oggi come uno schema essenziale di rapporto giuridico collaborativo, delineando un nucleo scheletrico di normativa applicabile. Le fonti e le connotazioni della relazionalità instaurata, come gli interessi particolari realizzati, i contesti di emersione delle relazioni orientano le specifiche discipline dei vari rapporti e dei relativi contenuti.

2. Sistemazione del codice civile e nuovi radicamenti dei rapporti obbligatori. – Il codice civile, unificando la disciplina di obbligazioni e contratti del codice civile e del

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codice di commercio, detta una sistemazione unitaria delle obbligazioni secondo un unitario impianto teorico. a) La disciplina delle obbligazioni è collocata in un libro autonomo (Libro IV): il titolo primo riguarda le “obbligazioni in generale” (oggetto di esame nella presente parte); i restanti titoli sono riferiti alle singole fonti di obbligazioni, quali contratto, fatto illecito e altri atti e fatti idonei a produrre obbligazioni (oggetto di esame nelle parti successive) 6. La trattazione delle “obbligazioni in generale” è, a sua volta, articolata in una parte generale (artt. 1173-1276), che disciplina la fisionomia e le vicende del rapporto obbligatorio, ed una parte speciale (artt. 1277-1320), dedicata ad “alcune specie di obbligazioni” (peraltro tale parte speciale non esaurisce le specie di obbligazioni né la disciplina ad esse relativa, limitandosi a dettare delle norme particolari per alcuni tipi di obbligazioni). Dal medesimo Libro IV, nella parte relativa al contratto, deriva una disciplina di rafforzamento dell’obbligazione attraverso clausola penale e caparra (artt. 1382-1386). Il Libro VI contiene la disciplina “della responsabilità patrimoniale del debitore, delle cause di prelazione e della conservazione della garanzia patrimoniale” (artt. 2740-2906), nella prospettiva della tutela dei diritti; è una normativa correlata all’obbligazione, per disciplinare le garanzie del credito e i connessi modi di soddisfacimento del creditore per non attuazione del rapporto obbligatorio. La normativa si presenta come un insieme di schemi logici, tendenzialmente neutrali rispetto alla varietà dei titoli giuridici da cui le obbligazioni derivano (contratti, fatti illeciti, ecc.), e dunque indifferenti rispetto all’atteggiarsi concreto dei fenomeni socio-economici che vi fanno da sfondo. In realtà le c.d. regole generali sulle obbligazioni, stabilite dal legislatore del 1942, già non erano tutte neutre rispetto alla realtà socio-economica dell’epoca della codificazione: il codice utilizzò essenzialmente le scelte operate dal codice di commercio del 1882, molte delle quali provenivano dagli usi in essere nelle relazioni economiche intrattenute dalle imprese e perciò significativamente in contrasto con le previsioni del codice civile del 1865; veniva così delineandosi una disciplina delle obbligazioni sinergica all’esplicazione dell’attività economica, quale strumento di favore della stessa, anche attraverso una accentuata tutela del credito (I, 2.5). Si pensi, ad es., alla regola della normale fecondità del danaro (art. 12821) e alla regola della presunzione di solidarietà passiva (art. 1294), che erano previste dal codice di commercio del 1882 e non dal cod. civ. del 1865. Il cod. civ. del 1942, seguendo il metodo dell’economia, faceva coincidere la realtà giuridica alla realtà economica in atto. E così considera oggetto del contratto le prestazioni (artt. 1346 ss.) (che tipicamente connotano la vita economica) e non più le cose (come aveva fatto il cod. civ. 1865). Il credito può formare oggetto anche di pegno (artt. 2800 ss.) e di usufrutto (l’art. 1000 prevede la riscossione di capitali gravati di usufrutto), ed è assoggettato a pignoramento (art. 2910). Opera un principio antiperpetualistico delle obbligazioni, onde evitare che vincoli obbligatori per una durata indeterminata possano compromettere l’autonomia dei soggetti e così ostacolare il fluire della vita economica, 6

Sul modello del BGB di un generale libro II “Diritto dei rapporti obbligatori” (subito dopo il Libro I dedicato alla Parte generale), veniva delineato un autonomo libro contenente concetti e vicende delle obbligazioni; secondo il sistema tedesco, non mancano, come per altre parti (es. proprietà, successioni, contratto), disposizioni generali preliminari.

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come emerge ad es. dalla disciplina sulla rendita perpetua (ex art. 1864 c.c.). Si vedrà peraltro come, nel codice, sussistano anche regole specifiche in ragione della natura del singolo rapporto obbligatorio e dunque dei diversi interessi coinvolti (es. crediti alimentari, crediti di lavoro). In consonanza con un trend normativo che accompagna la storia recente di tutti gli istituti fondamentali del diritto privato (contratto, proprietà, fatto illecito), anche relativamente alle obbligazioni sta prendendo vita una normativa che risente della tipologia degli interessi coinvolti e della specificità dei contesti di emersione dei vincoli obbligatori. A fronte di una generale costruzione delle figure astratte di creditore e debitore, emergono specifici statuti delle posizioni soggettive che hanno riguardo alla fonte (c.d. titolo) da cui l’obbligazione deriva, alle circostanze in cui il rapporto obbligatorio matura, alle appartenenze e collocazioni socio-economiche dei soggetti del rapporto, assumendo rilevanza il fondamento dell’obbligo del debitore e la ragione del corrispondente diritto del creditore. Rilevano plurimi regimi di rapporti, talvolta collocati nel codice civile più spesso in altre normative, che l’interprete deve valutare e applicare facendoli interagire con il sistema attraverso l’applicazione dei principi e valori ordinamentali (si pensi solo ai rapporti di lavoro, ai rapporti di consumo e ai rapporti di investimento finanziario). Si vedrà inoltre come la funzione assunta dal credito nella moderna vita economica stia facendo emergere una osservazione, non più solo del singolo rapporto obbligatorio, ma della debitoria dei soggetti per i riflessi sul complesso delle relazioni economiche e sociali coinvolte: si pensi al salvataggio delle imprese in crisi e alle procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento (VII, 8). Si è anticipato come, in una prospettiva di tutela dei diritti umani e di valorizzazione della relazionalità solidale, sta emergendo un nuovo filone di rapporti obbligatori, incentrati sugli obblighi di protezione che i consociati sono tenuti a rispettare nei rapporti intersoggettivi (es. obblighi di buona fede e correttezza, collaborazione) (par. 1).

3. Fonti dell’obbligazione (vicende costitutive). – Per l’art. 1173 le obbligazioni derivano “da contratto, da fatto illecito o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico” 7. Per “fonti dell’obbligazione” si intendono i fatti giuridici da cui le obbligazioni derivano, e cioè i fatti concreti cui l’ordinamento ricollega gli effetti giuridici di vicende costitutive di rapporti obbligatori. Tali fatti rappresentano i titoli (cioè le basi causali), che sorreggono e identificano i rapporti obbligatori. Si è visto come una causalità complessa sia determinativa di effetti giuridici (VII, 4.2). Il sistema delle fonti dell’obbligazione è organizzato intorno a tre classi. Le prime due classi sono il contratto (artt. 1321 ss.) e il fatto illecito (artt. 2043 ss.) (cui saranno, rispettivamente, dedicate le parti VIII e IX e la parte X): il primo fondato sulla volontà delle parti e il secondo sulla prescrizione della legge. La terza classe è riferita a ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico (cui sarà dedicata la parte XI): è una classe residuale rispetto alle prime due, avendo riguardo a tutti gli altri atti o fatti non riconducibili al contratto e al fatto illecito. Sono obbligazioni ex lege, che 7 La formulazione riproduce sostanzialmente l’antica classificazione di Gaio: “Obligationes aut ex contractu nascuntur aut ex maleficio aut proprio quodam iure ex variis causarum figuris”.

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non è possibile esaurire in fonti specificamente predeterminate da singole norme, sia per l’ampia previsione di “ogni altro atto o fatto”, sia per il generale riferimento alla produzione in “conformità dell’ordinamento giuridico”, che non si esaurisce nel richiamo ad ipotesi previste dal codice civile o da specifiche leggi, ma coinvolge il funzionamento dei principi generali dell’ordinamento, specie in funzione dei valori fondamentali di provenienza costituzionale e europea. Le fonti legali indicate dal codice civile rappresentano solo alcune specie tipiche di fonti di obbligazioni ex lege. Si distingue tra fonti volontarie e fonti legali, a seconda che le obbligazioni traggano origine dalla volontà degli interessati o siano imposte direttamente dalla legge. È bene chiarire che ogni fatto consegue rilevanza giuridica per mezzo dell’ordinamento che vi connette i relativi effetti: anche la fonte volontaria riceve forza e giuridicità dall’ordinamento che, valutandola positivamente, la riconosce e dunque la garantisce. È anche possibile che, a un medesimo fatto, si connettano più obbligazioni (ad es. un contratto produce obbligazioni in capo ad entrambe le parti). La dicotomia indicata ha riguardo alla natura del fatto determinativo del vincolo obbligatorio, a seconda che sia di provenienza volontario o di derivazione legale. Le fonti volontarie sono riferite all’esplicazione dell’autonomia privata, vuoi attraverso negozi unilaterali (promesse unilaterali), vuoi (e specialmente) mediante contratti, in quanto la volontà dei soggetti è rivolta alla costituzione di un rapporto obbligatorio (riconosciuto dall’ordinamento). Le fonti legali sono riferite alla legge, nel senso che l’obbligazione è ricollegata direttamente alla legge, quand’anche sia connessa ad un fatto dei soggetti (c.d. debiti involontari): ad es., chi ha ricevuto indebitamente un pagamento non dovuto è obbligato a restituirlo (artt. 2033 ss.); chi, senza giusta causa, si è arricchito a danno di una persona, è tenuto, nei limiti dell’arricchimento, ad indennizzarla della correlativa diminuzione patrimoniale (art. 2041); in ragione di una specifica relazione (es. coniugio o filiazione) è imposto l’obbligo di prestare alimenti (art. 433); vi è poi il nutrito filone di obblighi di protezione che permea le relazioni sociali e le obbligazioni derivanti da qualificato contatto sociale, in conformità del principio fondamentale di solidarietà. Tra le obbligazioni di fonte legale rientrano poi quelle derivanti da fatto illecito (art. 2043), come sanzione dell’ordinamento di risarcimento del danno a carico dell’autore del danno.

A) CARATTERI DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO 4. Struttura del rapporto e nozione integrale dell’obbligazione. – Le disposizioni preliminari al libro delle obbligazioni (artt. 1173, 1174 e 1175), pur regolando solo alcuni profili, consentono di delineare una nozione integrale dell’obbligazione. L’obbligazione consiste in un vincolo giuridico tra due soggetti, in virtù del quale un soggetto (c.d. debitore o soggetto passivo) è tenuto ad un determinato comportamento (prestazione) verso un altro soggetto (c.d. creditore o soggetto attivo), per soddisfare un interesse anche non patrimoniale di quest’ultimo. I tratti fisionomici del rapporto obbligatorio sono soggetti, contenuto e oggetto: i soggetti sono i titolari delle situazioni soggettive di credito e debito; il contenuto indica le situazioni soggettive di credito e debito, con i poteri e doveri e doveri spettanti ai relativi titolari; l’oggetto designa il bene e cioè l’utilità che il creditore persegue e il debitore deve

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procurare. Altro tratto fisionomico, come ampiamente si vedrà, è la patrimonialità della prestazione, nel senso che deve essere economicamente valutabile e corrispondere ad un interesse anche non patrimoniale del creditore (art. 1174). La consuetudine di far cadere l’accento definitorio sulla posizione passiva (obbligatoria) piuttosto che su quella attiva (creditoria) si giustifica per la circostanza che il comportamento del debitore è essenziale per il soddisfacimento del creditore: la realizzazione dell’interesse del creditore avviene tramite il comportamento del debitore; perciò tuttora si tende a parlare di “obbligazione”. La struttura del rapporto obbligatorio designa la correlazione tra le posizioni soggettive di credito e debito, in relazione ad un oggetto. Il debitore è obbligato ad un comportamento (prestazione) in favore del creditore, che ha diritto di pretendere il comportamento (pretesa). La pretesa (credito) e la prestazione (debito) sono correlate in quanto la realizzazione della pretesa del creditore avviene tramite l’esecuzione della prestazione del debitore. L’oggetto di entrambe è un bene, quale fonte di utilità, che, rispettivamente, il creditore vuole conseguire e il debitore deve procurare: ad es., nell’obbligazione di pagare il prezzo derivante da un contratto di vendita, sussiste la pretesa del venditore (creditore) di conseguire il prezzo e l’obbligo di prestazione del compratore (debitore) di pagare il prezzo, dove il prezzo è l’oggetto della obbligazione, che il venditore vuole conseguire e il compratore deve corrispondere. È questa la struttura base del rapporto obbligatorio che caratterizza la c.d. obbligazione semplice, con un solo creditore e un solo debitore e la previsione di un’unica prestazione, cui hanno riguardo le regole generali sull’obbligazione. Si vedrà in seguito come sussistono più varianti rispetto ai soggetti, alla prestazione e al bene, integranti particolari “specie di obbligazioni” (artt. 1277 ss.), con discipline specifiche intrecciate con la disciplina generale (par. 11 ss.). Un ruolo fondamentale assume il titolo dell’obbligazione, cioè la causa ovvero il fondamento della stessa, che vale a fissare la fonte, ma anche a definire il contenuto del rapporto. Un ordito patrimonialistico sotteso al codice civile fa sì che la patrimonialità della prestazione sia considerata come sintomo generale di meritevolezza del rapporto obbligatorio, salva la valutazione della sua incidenza in concreto. Al fondo c’è anche l’idea che gli interessi di carattere non patrimoniale sono di regola indisponibili dai privati e perciò neppure suscettibili di obbligazioni, per essere solo fonti di obblighi (ad es. gli obblighi di fedeltà e collaborazione nel matrimonio, gli obblighi di istruire, educare e mantenere i figli): sono obblighi in senso stretto, la cui costituzione ed efficacia, oltre che la relativa violazione, sono fissate dalla legge. Talvolta singoli rapporti, benché di carattere patrimoniale, sono considerati solo nella dimensione morale e sociale, benché non ripetibili se eseguiti (c.d. obbligazioni naturali (VII, 1.10). La funzione del rapporto obbligatorio è nel procurare utilità ad un soggetto mediante la correlazione di situazioni soggettive di credito e debito. In assenza di adempimento del debitore, il creditore ha diritto di soddisfare la pretesa anche con il conseguimento coattivo del bene sperato in assenza di adempimento del debitore (esecuzione forzata), e correlativamente il debitore ha diritto di liberarsi dal vincolo con la messa a disposizione del bene dovuto anche contro la volontà del creditore (mora del creditore). Si è visto come sia un valore da tempo acquisito che non è possibile una costrizione fisica del debitore (nemo cogi potest ad factum), con il corollario che, in ipotesi di inadempimento, il creditore può solo soddisfarsi sul patrimonio del debitore: a fianco della posizione

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passiva di debito, opera la responsabilità patrimoniale per l’inadempimento (art. 2740), con possibile aggressione del patrimonio del debitore; si vedrà come il soddisfacimento del credito può provenire anche da un terzo 8. Intorno a tali evenienze si svolge da tempo il divario ricostruttivo dell’obbligazione tra “debito” e “responsabilità”, a seconda che sia valorizzata la struttura del rapporto obbligatorio o la funzione dallo stesso assolta 9. Bisogna accedere ad una nozione integrale dell’obbligazione, atteggiandosi struttura e funzione del rapporto quali due componenti essenziali della medesima realtà sostanziale: la costituzione del rapporto obbligatorio è rivolta alla realizzazione dell’interesse del creditore tramite la cooperazione del debitore; la responsabilità patrimoniale del debitore è complementare alla struttura del rapporto obbligatorio, consentendo, in diverso modo, l’attuazione dell’interesse perseguito dal creditore rimasto insoddisfatto. Nella nozione integrale dell’obbligazione si appuntano quegli obblighi giuridici di comportamento, non suscettibili immediatamente di valutazione economica, ma complementari alla struttura del rapporto e che gravano sia sul debitore che sul creditore (art. 1175) in quanto esplicazioni del generale dovere di solidarietà (art. 2 Cost.) (par. 9; anche II, 7.3; VII, 4.3). Si è visto come i diritti di credito rientrano tra i diritti soggettivi (II, 3.2): specificamente sono diritti relativi, qualificati da una pretesa verso il debitore ad una determinata prestazione; e ciò sia quando il credito è rivolto al conseguimento di una cosa (es. pagamento del prezzo o consegna di una cosa) o di un servizio (es. trasporto), sia quando è indirizzato all’utilizzazione di una cosa di proprietà altrui (es. locazione di un immobile), perché in ogni caso l’utilità ottenuta da un soggetto (creditore) avviene tramite la cooperazione di altro soggetto (debitore). Anche i c.d. diritti personali di godimento (es. posizione del locatario, del comodatario) si articolano in un rapporto relativo: la peculiarità è che il diritto di credito è realizzato direttamente dal creditore su un bene di proprietà del debitore, il quale è però obbligato a far godere tale bene (esplicita menzione negli artt. 180, 320 e 380) 10. Diversamente dai diritti reali che sono caratterizzati da immediatezza e assolutezza, nel senso che sono realizzabili sulla cosa autonomamente dal titolare e possono essere fatti valere verso tutti (difesi da una azione reale esperibile verso chiunque) (II, 3.5), i diritti di credito sono caratterizzati da mediatezza e relatività, in quanto il credito è realizzabile solo tramite la cooperazione di altro soggetto e può essere fatto valere solo nei confronti del debitore (difesi da una azione personale esperibile verso il debitore). 8 Tradizionalmente si sono fronteggiate dottrine personalistiche dell’obbligazione che hanno valorizzato il comportamento dovuto dal debitore e dottrine patrimonialistiche dell’obbligazione che hanno privilegiato il bene dovuto dal debitore. Una nozione integrale dell’obbligazione tende a superare il divario e la separatezza delle due prospettive reintegrando la struttura del rapporto (dimensione personale) nella funzione dallo stesso realizzata (dimensione patrimoniale). 9 Una tradizionale dottrina tedesca tesse la composizione nell’affermazione che non può esservi responsabilità (Schuld) senza debito, né debito senza responsabilità (Haftung), configurando la rilevanza bifronte dell’obbligazione, come insieme di un profilo soggettivo personale (debito) e di un profilo oggettivo patrimoniale (responsabilità), operando il secondo profilo per l’inattuazione del primo. 10 I diritti personali di godimento su cosa altrui si distinguono dai diritti di uso che sono diritti reali (VI, 3.5). Il diritto reale d’uso è caratterizzato da fissità, in conformità al canone della tipicità dei diritti reali; il diritto personale di godimento ha una multiforme possibilità di atteggiarsi in ragione del suo carattere obbligatorio (Cass. 26-2-2008, n. 5034).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

Diverso profilo è quello della tutela esterna del credito, essendo i terzi tenuti al rispetto del vincolo obbligatorio. I terzi che ostacolano l’adempimento o inducono all’inadempimento o comunque determinano la mancata attuazione del rapporto obbligatorio, ricorrendone i presupposti, rispondono per fatto illecito ex art. 2043 e sono tenuti a risarcire il danno per avere reso irrealizzabile la posizione creditoria (c.d. lesione del credito da parte del terzo) (se ne parlerà nella responsabilità civile: X, 1.4). Sono di seguito analizzati i soggetti, il contenuto e l’oggetto, nella generale ricostruzione, rinviandosi al seguito l’esame di specifici statuti di obbligazioni (par. 11 ss.).

5. Soggetti (l’ambulatorietà). – Per soggetti del rapporto obbligatorio si intendono i titolari delle situazioni soggettive (correlate) di credito e debito. Titolare della situazione attiva è il creditore; titolare della situazione passiva è il debitore: creditore e debitore indicano i termini tra i quali corre il rapporto obbligatorio. Creditore e debitore, talvolta, sono anche autori del titolo da cui deriva l’obbligazione, come è tipicamente per le obbligazioni che derivano da fonti volontari (es. le obbligazioni derivanti da contratto); talaltra, sono solo titolari delle situazioni soggettive correlate ma non autori del titolo, per derivare l’obbligazione dalla legge (es. l’obbligazione di risarcimento di danni derivante da fatto illecito). Alla morte del debitore, il debito passa agli eredi, ed i coeredi sono tenuti in proporzione della quota ereditaria, salvo che il testatore abbia altrimenti disposto (art. 752) 11. I soggetti, quali titolari delle posizioni correlate, esprimono due distinti centri di interessi. Più spesso la titolarità della situazione, attiva o passiva, è formata da una sola persona; sono però frequenti le ipotesi di una titolarità di situazione (attiva o passiva) composta da più persone, le quali assumono la veste di contitolari della medesima posizione creditoria o debitoria: nella prima direzione, si pensi ai comproprietari di un immobile che danno in locazione l’immobile stesso, così divenendo concreditori del pagamento del canone; nella seconda direzione, si pensi ai coniugi che prendono in locazione l’immobile destinato ad abitazione familiare, così divenendo condebitori del pagamento del canone. Sono le obbligazioni plurisoggettive, del cui funzionamento si parlerà in seguito (VII, 1.12). Nell’ipotesi in cui creditore o debitore sia un ente formato da una pluralità di soggetti (es. associazione o società), nei rapporti esterni l’ente integra un solo centro di interessi (c.d. parte) e quindi un titolare unico della situazione soggettiva. Quando le qualità di creditore e debitore si riuniscono nello stesso soggetto, di regola e naturalmente, l’obbligazione si estingue per confusione (art. 1253) (VII, 3.11). Sono eccezionali le ipotesi in cui entrambe le situazioni (attiva e passiva) continuano a rilevare giuridicamente in capo allo stesso soggetto. È la discussa figura del c.d. rapporto giuridico unisoggettivo, come referente di entrambe le posizioni soggettive che conservano autonomo rilievo. Sono meccanismi tecnici ai quali ricorre l’ordinamento in specifiche ipotesi, per realizzare la tutela di esigenze economiche considerate rilevanti 12. 11

Quando ad un erede è attribuito un immobile ipotecato, lo stesso è tenuto ipotecariamente per l’intero, ma può ripetere dagli altri coeredi la parte per cui essi devono contribuire ex art. 752, quantunque si sia fatto surrogare nei diritti dei creditori (art. 754). 12 Ad es., l’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, che conserva, in modo distinto, in capo all’erede tutti i diritti e gli obblighi che aveva verso il defunto, tranne quelli che si sono estinti per effetto della

CAP. 1 – RAPPORTO OBBLIGATORIO

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Proprio in quanto l’assunzione dell’obbligazione è funzionale al conseguimento di una utilità da parte del creditore, i soggetti del rapporto devono essere determinati o determinabili. Se i soggetti non sono indicati, devono almeno risultare nel titolo i criteri di determinazione degli stessi. Si pensi alla promessa al pubblico, in cui un soggetto (debitore) promette una prestazione in favore di chi si trovi in una determinata situazione o compia una determinata azione: il debitore è vincolato dalla promessa resa pubblica, anche se il creditore sarà noto solo successivamente (art. 1989) (per il funzionamento della stessa: XI, 1.3). Rispetto alle obbligazioni a soggetto determinabile una fisionomia peculiare assume l’obbligazione ambulatoria, per essere la posizione creditoria o debitoria mutabile e rilevare solo all’atto dell’adempimento dell’obbligazione. Con riguardo alla posizione attiva (creditoria), rileva tipicamente la circolazione dei titoli di credito per potere mutare la posizione del soggetto creditore con il trasferimento del titolo (artt. 1994, 2003, 2008, 2021). Con riguardo alla posizione passiva (debitoria), rilevano tipicamente le c.d. obbligazioni reali o propter rem, per determinarsi la individuazione del debitore con la titolarità di un diritto reale. L’acquisto del diritto reale comporta l’assunzione di obbligazioni accessorie che rendono possibile e/o agevolano l’esercizio del diritto reale. La rinunzia al diritto reale è il mezzo per liberarsi dalla obbligazione, limitatamente alle prestazioni non ancora maturate (c.d. abbandono liberatorio): ad es. ciascun partecipante alla comunione deve contribuire alle spese necessarie per la conservazione e per il godimento della cosa comune, salva la facoltà di liberarsene con la rinunzia al suo diritto (art. 1104); la legge o il titolo possono imporre al proprietario del fondo servente prestazioni accessorie per l’uso o la conservazione della servitù da parte del titolare del fondo dominante (art. 1030), con la possibilità di liberarsene rinunziando alla proprietà del fondo servente a favore del proprietario del fondo dominante (art. 1070); il comproprietario di un muro comune può esimersi dall’obbligo di contribuire nelle spese di riparazione e ricostruzione, rinunziando al diritto di comunione, purché il muro comune non sostenga un edificio di sua spettanza (art. 8822). La obbligazione reale è un rapporto personale ed obbligatorio. Il collegamento con il diritto reale è solo il mezzo di individuazione del soggetto debitore. Pertanto il debitore risponde con l’intero suo patrimonio per l’inadempimento delle obbligazioni maturate con la titolarità del diritto reale. Per i caratteri di permanenza e di correlazione con i diritti reali, si è pensato ad una tipicità delle obbligazioni reali 13; si tende però a superare tale principio di tassatività 14. morte (art. 490, n. 1) (XII, 1.7); il sistema di preservare l’autonomia del patrimonio ereditario giova, sia all’attività degli eredi per evitare la responsabilità ultravires, sia al credito, ricevendo i creditori del defunto la preferenza sul patrimonio ereditario. Altra ipotesi è il contratto con se stesso, consentendosi, in alcune ipotesi, al rappresentante di concludere un contratto in proprio e per conto di altra persona (art. 1395) (VIII, 8.5): il meccanismo favorisce operazioni economiche a beneficio del rappresentante e del rappresentato. 13 Ancora Cass. 15-10-2018, n. 25673: Le obbligazioni “propter rem”, al pari dei diritti reali dei quali sono estrinsecazione, sono caratterizzate dal requisito della tipicità, con la conseguenza che possono sorgere per contratto solo nei casi e col contenuto espressamente previsti dalla legge. 14 Per Cass. 6-3-2003, n. 3341, al principio di tipicità risultano vincolati i soli diritti reali, e non anche le c.d. obbligazioni “propter rem”.

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

Diversamente operano gli oneri reali, per i quali le prestazioni dovute dal soggetto che utilizza il bene integrano il contenuto del diritto reale di altro soggetto 15. Il comportamento del soggetto obbligato realizza e dunque esaurisce il diritto reale; perciò il soggetto che utilizza il bene risponde verso il proprietario anche per le prestazioni dovute dai soggetti che hanno in precedenza utilizzato il bene, nel limite del valore della cosa (VI, 3.10).

6. Contenuto. La pretesa. – Il contenuto del rapporto obbligatorio coinvolge entrambe le posizioni soggettive e va dunque delineato con riguardo ad ognuna delle due (attiva e passiva). Contenuto della posizione soggettiva attiva (creditoria) è la pretesa alla prestazione di un bene, cui si connette il corrispondente obbligo del debitore di procurarlo 16. L’art. 1174 richiede che la prestazione deve “corrispondere a un interesse anche non patrimoniale del creditore”. È dunque fondamentale che la pretesa sia sorretta da un interesse del creditore, anche di carattere non economico: il ricorso di un interesse giuridicamente meritevole di tutela giustifica la pretesa del creditore e ad un tempo il vincolo di comportamento assunto dal debitore. Si è progressivamente accresciuta l’area delle obbligazioni che mirano a realizzare interessi non patrimoniali del creditore, coerentemente con l’ampliarsi della rilevanza giuridica delle dimensioni esistenziali della persona umana: si pensi all’interesse ad ascoltare un concerto, a visitare un museo, ad assistere ad un evento sportivo; in tali ipotesi l’interesse che persegue il creditore è certamente di natura non patrimoniale (di carattere culturale, artistico, sportivo), mentre la prestazione dovuta dal debitore che organizza la specifica manifestazione ha una rilevanza economica, per implicare dei costi per il debitore, remunerati con il prezzo di ingresso. Di regola l’interesse del creditore e dunque la pretesa sono soddisfatti attraverso l’attuazione del contenuto dell’obbligo da parte del debitore (c.d. adempimento); però sono frequenti i casi in cui l’interesse del creditore è soddisfatto in modi diversi (es. con l’adempimento del terzo o mediante la procedura esecutiva). Si vedrà in seguito come, a fronte del comportamento del creditore che non si riceve la prestazione (perché non più interessato o per altre ragioni), può sussistere un interesse del debitore ad eseguire la prestazione e non solo ad essere liberato dal vincolo obbligatorio: c’è dunque da verificare la rilevanza giuridica e la tutela di un tale interesse del debitore (VII, 3.7). 7. Segue. La prestazione. – Contenuto della posizione soggettiva passiva (debitoria) è la prestazione di un bene al creditore. La prestazione è il comportamento dovuto dal debitore per procurare al creditore una determinata utilità: la sua esatta esecuzione importa adempimento dell’obbligazione in quanto realizza l’interesse del creditore, facendogli conseguire il bene perseguito, anche ricorrendo all’ausilio di terzi (art. 1228). 15 Rilevanti in passato erano ad es. decime e livelli; ma oggi, per il principio di tassatività dei diritti reali, non è consentito ai privati costituire oneri reali, pertanto l’istituto è caduto in disuso (VI, 3.10). Un esempio recente di onere reale di fonte legale è quello previsto dall’art. 253 D.Lgs. 3.4.2006, n. 152 (cod. ambiente) costituito, unitamente al privilegio speciale, sui siti contaminati. 16 Per il § 241 BGB, in forza del rapporto obbligatorio, “il creditore è legittimato ad esigere una prestazione dal debitore”; la prestazione può anche consistere in una omissione. Ma evidentemente l’esazione è riferita alla prestazione in funzione del risultato che la stessa procura al creditore.

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A fronte dell’obbligo di prestare del debitore si svolge l’actio in personam del creditore, diretta nei confronti del soggetto passivo del rapporto obbligatorio per conseguire il bene dovuto dal debitore. Si distingue dall’actio in rem esperibile dal titolare del diritto reale erga omnes, ossia contro chiunque la possieda o detenga 17. Di seguito sono fissati i requisiti della prestazione e sono delineate le tipologie di obbligazioni in ragione dell’attività dovuta dal debitore e della modalità di esecuzione della stessa. a) Requisiti. Per l’art. 1174 la prestazione deve essere “suscettibile di valutazione economica” e deve corrispondere a “un interesse anche non patrimoniale del creditore”. 1) La suscettibilità di valutazione economica ha portato a delineare il “carattere patrimoniale della prestazione”, come testualmente indica la rubrica dell’art. 1174. In tal senso la patrimonialità della prestazione vale a caratterizzare l’obbligazione all’interno della generale categoria degli obblighi giuridici. La patrimonialità è stata tradizionalmente valutata in due accezioni: una di carattere oggettivo, che ha riguardo alla essenza della prestazione in sé considerata; una di carattere soggettivo, che è riferita alla valutazione compiuta dai soggetti coinvolti 18. È da ritenere che siano utilizzabili entrambe le accezioni: la patrimonialità può derivare, sia dalla rilevanza in sé della prestazione nel contesto sociale in cui l’obbligazione è assunta 19 (es., consegna di una merce) sia dalla considerazione che ne fanno i soggetti del singolo rapporto obbligatorio (es. consegna di una foto di famiglia); anche una prestazione oggettivamente non patrimoniale è suscettibile di valutazione economica quando è previsto dalle parti un prezzo per l’esecuzione della stessa o è stabilita una penale per il suo inadempimento, sempre che non siano coinvolti interessi indisponibili 20. 17 L’azione personale di restituzione è destinata a ottenere l’adempimento dell’obbligazione di restituzione di un bene in precedenza trasmesso dall’attore al convenuto in forza di negozi giuridici (tipicamente locazione, comodato e deposito) che non presuppongono nel tradens la qualità di proprietario; diversa è l’azione reale di rivendicazione, con la quale il proprietario chiede la condanna di chi dispone del bene al rilascio o alla consegna nell’assenza di ogni titolo, per il cui accoglimento è necessaria la probatio diabolica della titolarità del diritto di chi agisce (Cass. 6-12-2021, n. 38642). 18 Le due accezioni hanno tradizionalmente integrato due distinti indirizzi: uno oggettivo, che riconduce la patrimonialità al fatto che, in un determinato ambiente giuridico-sociale, i consociati sono disposti ad un sacrificio economico per godere i vantaggi di una determinata prestazione; uno soggettivo, che riferisce il valore economico al libero apprezzamento delle parti. Secondo la Relaz. cod. civ., n. 557, la suscettibilità di valutazione economica può derivare anche di riflesso dalla natura della controprestazione ovvero da una valutazione fatta dalle parti, come nel caso in cui si conviene una clausola penale; la patrimonialità è richiesta perché altrimenti non si potrebbe attuare la coazione giuridica in caso di inadempimento. 19 Il problema si è posto, ad es., in tema di sponsorizzazione. Con tale contratto un soggetto, detto sponsorizzato, si obbliga dietro corrispettivo a consentire ad altro soggetto, detto sponsor, l’uso della propria immagine pubblica e del proprio nome per promuovere un marchio o un prodotto specificamente marcato: si è ritenuto che l’oggetto dell’obbligazione assunta dallo sponsorizzato ha carattere patrimoniale perché nel costume sociale si è affermato il fenomeno della commercializzazione del nome e dell’immagine personale (Cass. 29-5-2006, n. 12801; Cass. 11-10-1997, n. 9880). 20 Si è ad es. stabilito che, nel caso in cui la messa in suffragio dell’anima di un defunto sia celebrata dal parroco in ora diversa da quella richiesta dal fedele, il richiedente, ottenuta la restituzione della somma offerta per il rito e non provato un danno patrimoniale ulteriore, non ha diritto al risarcimento del danno non patrimoniale (Cass. 27-3-2007, n. 7449). Non è dunque posto in dubbio il carattere obbligatorio del vincolo assunto: è però dubbio che una pratica di culto possa integrare un interesse disponibile e mercificabile, dovendosi piuttosto considerare la somma corrisposta dal fedele come una offerta e non come una controprestazione.

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

L’obbligazione può essere assunta anche a titolo gratuito, cioè senza un compenso o una qualunque controprestazione, purché la prestazione dovuta abbia i requisiti previsti dall’art. 1174. In tal caso, proprio per l’assenza di una remunerazione per l’attività svolta, la responsabilità del debitore è di regola valutata con “minore rigore”: ad es., in materia di mandato (art. 17101). Diversa natura hanno i doveri morali o sociali (c.d. obbligazioni naturali), che non sono coercibili giuridicamente, ma che non sono ripetibili se spontaneamente adempiuti (art. 2034) (vedi par. 10). I c.d. obblighi giuridici di protezione, quando afferiscono a rapporti contrattuali (tipicamente di carattere patrimoniale), mutuano da tali rapporti la propria connotazione: incidendo su posizioni contrattuali di carattere patrimoniale, si atteggiano come obbligazioni ex art. 1173 (VII, 1.1). 2) La corrispondenza a un interesse anche non patrimoniale del creditore implica che la prestazione deve essere sorretta da un interesse del creditore. Se ne è parlato trattando della pretesa (par. 6). 3) Un ulteriore requisito emerge dal sistema. Come si è anticipato, deriva dall’ordinamento un carattere di temporaneità del vincolo obbligatorio e dunque della prestazione, non potendosi considerare un soggetto indefinitamente obbligato. Tanto si ricava specialmente dalla disciplina della rendita perpetua che prevede comunque la redimibilità (e cioè il riscatto) della rendita a volontà del debitore, nonostante ogni convenzione contraria (art. 1865) (IX, 5.1). 4) La connessione della prestazione con la fonte da cui più diffusamente deriva, cioè il contratto, induce a mutuare dai requisiti dell’oggetto del contratto (art. 1346) ulteriori requisiti della prestazione, che, pertanto, deve essere possibile, lecita, determinata o determinabile, secondo i requisiti propri dell’oggetto del contratto (VIII, 3.3). b) Attività. Delinea il comportamento dovuto dal debitore. La prestazione può essere semplice o complessa a seconda che si svolga con un unico comportamento del debitore oppure implichi una pluralità di comportamenti, tenuti tutti personalmente dal debitore o dei quali egli è centro di imputazione e responsabile (es. la responsabilità dell’organizzatore di pacchetti turistici o di trasporti combinati). Si delineano tipicamente tre tipi di prestazione (dare, consegnare e fare) 21, cui si aggiunge quella di prestare garanzia. 1) La prestazione di dare, in senso stretto, consiste nel trasferimento di un diritto: tale è ad es. l’attività del mandatario che ha acquistato un bene immobile per conto del compratore ed è obbligato a ritrasferirlo al mandante (art. 17062) 22. Tale prestazione propone il problema della raffigurazione dell’adempimento traslativo (VII, 3.2). 2) La prestazione di consegnare consiste nel procurare al creditore la disponibilità materiale della cosa (possesso o detenzione) (es. l’obbligazione del venditore di consegnare al compratore il bene venduto: art. 1476, n. 1). Strumentale alla obbligazione di consegnare una cosa determinata è quella di custodirla fino alla consegna (artt. 1177, 1477). Una specificazione dell’obbligazione di consegnare è l’obbligazione di restituire la 21 Fondamentale è la distinzione riportata da Giustiniano dei singoli tipi di obbligazioni: “Obligationum substantia in eo consistit ut alium nobis adstringat ad dandum, vel faciendum, vel prestandum”. 22 Non può considerarsi prestazione di dare ma solo di fare quella del venditore di fare acquistare la proprietà o altro diritto al compratore quando l’acquisto non è effetto immediato del contratto (art. 1476, n. 2): il venditore è solo obbligato a porre in essere un comportamento (es. individuazione nella vendita di genere) perché si produca il trasferimento del diritto in virtù dell’unico consenso traslativo espresso (VIII, 6.6).

CAP. 1 – RAPPORTO OBBLIGATORIO

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cosa consegnata (es. l’obbligazione del depositario di restituire la cosa ricevuta in deposito: art. 1766). 3) La prestazione di fare consiste nel realizzare un fatto quale risultato dell’attività materiale o giuridica dovuta (ad es. l’obbligazione di trasportare del vettore consente al passeggero di trovarsi in luogo diverso da quello di partenza: art. 1678; l’obbligazione di compiere un’opera da parte dell’appaltatore realizza l’opera voluta dal committente: art. 1655). In senso tecnico, nel concetto di fare rientra anche il non fare (c.d. obbligazione negativa), nel senso che il debitore è obbligato a non compiere un determinato comportamento. È un rapporto obbligatorio con contenuto una prestazione ad oggetto omissivo (prestazione negativa): il fatto dell’astensione realizza l’interesse del creditore (ad es., obbligazione di non alienare ex art. 1379; obbligazione di non fare concorrenza ex art. 2596). Il compimento dell’attività vietata comporta inadempimento dell’obbligazione (art. 1222). 4) Una particolare fisionomia assume la obbligazione di garanzia, con la quale il debitore assume la obbligazione di procurare una (certa) sicurezza nella realizzazione del credito. Tendenzialmente è un’obbligazione accessoria a quella relativa al debito garantito: la intensità della sicurezza procurata è in ragione della natura della garanzia assunta e della correlazione con il debito garantito. Quando qualcuno è tenuto a dare una garanzia senza che ne siano determinati il modo e la forma (cioè il contenuto della prestazione di garanzia), il debitore può prestare a sua scelta un’idonea garanzia reale o personale, ovvero altra sufficiente cautela (art. 1179). c) Esecuzione. Delinea lo svolgimento dell’attività. Rinviando al seguito le modalità di adempimento dell’obbligazione (VII, 3.4), rispetto al tempo di svolgimento dell’attività si distinguono una obbligazione istantanea e una obbligazione di durata. È una tipologia destinata ad incrociarsi con quella precedente per riguardare differenti prospettive di osservazione. 1) L’obbligazione istantanea si caratterizza per la unitarietà del comportamento programmato (e dovuto), in funzione della realizzazione di un interesse unitario del creditore (es. vendita di un bene). Anche se la prestazione è frazionata nel tempo, i singoli atti concorrono all’attuazione di un interesse unico ed unitario (es. costruzione di un edificio). 2) L’obbligazione di durata mira a soddisfare un interesse duraturo del creditore. Il protrarsi nel tempo della prestazione mira ad attuare un interesse del creditore che, per sua natura, si svolge e si realizza nel tempo. A sua volta, l’obbligazione di durata può essere ad esecuzione continuata o periodica, a seconda che la prestazione perduri continuativamente nel tempo (ad es. l’obbligazione del locatore di far godere il bene locato), o sia eseguita ad intervalli di tempo (ad es. il canone di locazione da pagare mensilmente dal locatario). Talvolta lo stesso contratto può comportare prestazioni periodiche e/o continuate (es. la somministrazione). Lo sviluppo di una economia dei servizi sta accrescendo le prestazioni di durata, appunto destinate a svolgersi nel tempo. La distinzione tra obbligazione istantanea e di durata rileva, anzitutto, per la verifica dell’adempimento, che è correlata all’attuazione dell’interesse del creditore; di riflesso rileva per la decorrenza del termine di prescrizione del diritto di credito, che nell’obbligazione istantanea decorre dalla data di scadenza dell’obbligazione, nella obbligazione

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

di durata dalla data di cessazione della prestazione o di scadenza delle singole prestazioni dovute. Altri riflessi sono in sede di risoluzione del contratto e di recesso, i cui effetti, nelle prestazioni di durata, non si estendono alle prestazioni già eseguite (artt. 1458 e 1373) (VIII, 7.2). 3) La prestazione può essere immediata o differita a seconda che avvenga immediatamente alla nascita del rapporto ovvero sia differita nel tempo (ad es. il pagamento di un prezzo può avvenire all’atto della stipula del contratto o successivamente).

8. Oggetto. – Il codice civile qualifica come oggetto dell’obbligazione la prestazione (in tal senso espressamente l’art. 1174). Proprio per la derivazione normativa è una indicazione diffusamente impiegata nei rapporti economici. È da ritenere che tale raffigurazione si leghi al tradizionale indirizzo (sopra indicato) che collegava alla persona del debitore il diritto del creditore: dapprima considerandosi lo stesso debitore come oggetto del diritto di credito (il debitore obligatus del diritto romano); successivamente incentrandosi sul comportamento del debitore e perciò sulla prestazione l’oggetto del diritto del creditore. In realtà l’interesse e dunque il diritto del creditore è verso il debitore per conseguire un determinato bene e cioè una specifica utilità (ad es. l’art. 1224 parla senz’altro di obbligazioni che hanno ad oggetto somme di danaro). Del resto anche quella impostazione che, sulla scorta della lettera della legge, considera oggetto dell’obbligazione la prestazione, non manca di chiarire che, a sua volta, il bene è oggetto della prestazione: in tal modo il bene diventa, comunque, riferimento oggettivo della obbligazione. La pretesa alla prestazione è in funzione del conseguimento di una determinata utilità 23, come si evince dalla possibilità di adempimento del terzo e dal fatto che il creditore può realizzare coattivamente il credito per via giudiziaria, con il conseguimento dell’utilità senza la prestazione del debitore. In sostanza oggetto dell’obbligazione è il bene quale fonte utilità, che il debitore deve procurare e il creditore ha diritto di conseguire. Il bene delinea l’entità (cosa, servizio o altra entità) da prestare al creditore per procurare l’utilità perseguita. La portata della utilità, da un lato, non va ristretta alla categoria delle cose, essendo anzi in via di espansione una economia dei servizi che sta progressivamente sovrastando l’economia delle cose (basta pensare ai tanti servizi procurati dalle nuove tecnologie); dall’altro, non va neppure ritagliata sull’interesse patrimoniale del creditore, emergendo anzi una variegata tipologia di interessi esistenziali la cui soddisfazione richiede il comportamento altrui (si è detto dei molteplici versanti in cui oggi si esprime la dimensione esistenziale del soggetto). Le caratteristiche del bene connotano specifiche tipologie di obbligazioni. In tale generale contesto operano vari tipi di obbligazioni in ragione di specifici criteri di osservazione del bene dovuto e dell’utilità da procurare, con ricadute sulla disciplina dell’obbligazione. 23 L’utilità procurata dall’obbligazione si atteggia diversamente dalla utilità realizzata dalla servitù, che può costituirsi anche con l’apposizione di un termine finale (servitù temporanea). Requisito essenziale del diritto di servitù è l’imposizione di un peso su un fondo (servente) per l’utilità, ovvero per la maggiore comodità o amenità, di un altro fondo (dominante) in una relazione di asservimento del primo al secondo che si configura come una “qualitas fundi”; mentre si versa nell’ipotesi dell’obbligo personale quando il diritto attribuito è stato previsto per un vantaggio della persona o delle persone indicate nel relativo atto costitutivo senza alcuna funzione di utilità fondiaria (Cass. 29-8-1998, n. 8611; Cass. 29-8-1991, n. 9232).

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a) Sulla spinta dell’ordinamento europeo, è emersa una fondamentale dicotomia in ragione della destinazione del bene, distinguendosi tra beni di consumo e beni produttivi, a seconda che il bene dovuto dal debitore sia o meno destinato a soddisfare consumi personali o familiari del creditore, oppure sia connesso all’esplicazione della sua attività economica, emergendo le figure qualificate di “consumatore” e “professionista”. Si vedrà come, in ragione di tale distinzione, operano discipline differenziate della sopportazione dei rischi, delle modalità di consegna e della tutela riservata al creditore. b) Una ulteriore dicotomia opera in ragione della determinazione del bene, distinguendosi tra obbligazioni di specie e obbligazioni di genere. È ob b ligazione d i specie quella rivolta a procurare una cosa determinata nella sua individualità (es. lo specifico immobile, il particolare quadro); è obbligazione d i genere (o generica) quella rivolta a procurare una cosa determinata solo per l’appartenenza a un genere (es. un computer, un televisore, ecc.): in tal caso il debitore deve prestare cose di qualità non inferiore alla media (art. 1178). Nella moderna produzione di massa, caratterizzata dal commercio di beni seriali, la fornitura di beni di genere ha acquisito un’importanza economica di gran lunga prevalente rispetto alla fornitura di cose di specie. Con la specificazione (individuazione) la cosa generica diventa di specie. A seconda della specificità o meno del bene dovuto consegue un regime differenziato della vicenda traslativa del diritto e della ripartizione dei rischi per perdita o deterioramento (VIII, 6.7). c) Con riguardo alla natura del bene, si articola la dicotomia tra obbligazione fungibile e infungibile. Si vedrà come la distinzione tra beni fungibili e infungibili ha riguardo alla sostituibilità dei beni (II, 2.3). Si ha obbligazione fungib ile se è indifferente la identità del debitore (es. il pagamento di una somma di denaro, che può essere eseguita da un terzo in ragione della sostituibilità del bene). Si ha obbligazione infungib ile se rileva la identità del debitore (es. prestazione artistica o professionale; è una pratica diffusa nei contratti di scritturazione teatrale inserire i c.d. “artisti d’obbligo” che non possono essere sostituiti. d) Resiste una tradizionale dicotomia in ragione dello scopo da realizzare, distinguendosi tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato. Nelle ob bligazioni di mezzi il debitore si obbliga a prestare la propria attività per il raggiungimento dell’esito desiderato dal creditore, restando il conseguimento dello stesso estraneo all’impegno debitorio (es. il medico si obbliga alla diagnosi e/o alla cura, non alla guarigione; l’avvocato si obbliga alla difesa, non alla vittoria della causa); nelle obbligazioni di risultato il debitore è tenuto a realizzare proprio lo scopo promesso (es. l’appaltatore si obbliga alla costruzione di un edificio). La distinzione, maturata con riguardo alle obbligazioni di fare, per ricostruire la connessione del bene dovuto con l’utilità procurata 24, ha perduto la sua tradizionale incidenza per la considerazione che ogni obbligazione ha un oggetto in quanto è destinata a procurare una utilità al creditore, quale risultato della prestazione   24 La formula “obbligazioni di mezzi”, impiegata per rappresentare alcune obbligazioni di fare (specie di liberi professionisti) nelle quali il debitore sarebbe tenuto a un comportamento e non anche ad un risultato, in realtà (come si vedrà trattando del contratto di opera professionale IX, 2.5) travisa l’oggetto dell’obbligazione, confondendolo con l’aspirazione emozionale del creditore. Quand’anche i risultati sperati dal creditore non si realizzino, il professionista ha comunque diritto al compenso per avere procurato il risultato promesso; la verifica della esattezza della prestazione del professionista tiene conto della diligenza professionale nella esecuzione della prestazione dovuta).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

compiuta; perciò la distinzione tende oggi a incontrare riserve anche nella giurisprudenza 25 ed ha effettivamente acquisito una nuova valenza. La dicotomia richiamata assume il significato convenzionale di indicare due fondamentali criteri di valutazione del comportamento del debitore, indicando lo sforzo richiesto al debitore per l’esecuzione della prestazione dovuta. Nella c.d. obbligazione di mezzi il debitore è tenuto a procurare il risultato dovuto agendo con il grado di diligenza del buon padre di famiglia o professionale a seconda della natura dell’attività svolta (art. 1176). Nella c.d. obbligazione di risultato il debitore è tenuto a procurare il risultato dovuto rimanendo esonerato da responsabilità solo provando il caso fortuito o la forza maggiore: es. l’obbligazione dell’organizzatore di pacchetti turistici ex art. 96 cod. cons., che la stessa giurisprudenza considera quale “obbligazione di risultato” (IX, 2.12). Oltre tali limiti si integra una responsabilità oggettiva rispetto al risultato dovuto, che deve essere espressamente prevista dall’ordinamento in deroga alla norma generale dell’art. 1218, che consente la prova della impossibilità liberatoria oppure essere espressamente pattuita tra le parti, come quando il risultato ovvero l’obiettivo perseguito dal creditore rientri nel regolamento contrattuale 26. Peraltro, anche in tale diversa accezione, interferiscono i singoli criteri di verifica dell’adempimento previsti dalla legge in funzione della specificità degli interessi coinvolti. (VII, 4.3).

9. Dovere di correttezza (lealtà, protezione e esigibilità). – Per l’art. 1175 il debitore e il creditore “devono comportarsi secondo le regole della correttezza”. Per essere il dovere di correttezza previsto in via generale, è indifferente la fonte (negoziale o legale) dell’obbligazione: il dovere di correttezza pervade sia l’esercizio della pretesa che l’attuazione dell’obbligo. La previsione dell’art. 1175 trova significativi riscontri ordinamentali, quali specificamente gli artt. 1206, 1337, 1358, 1366, 1375 (II, 7.4). Si è visto come i doveri di correttezza e buona fede sono ormai ricondotti al generale dovere di solidarietà (art. 2 Cost.) quale clausola generale dell’ordinamento, che, ad un tempo, specifica singole previsioni normative e consente la soluzione di casi concreti non espressamente regolati (II, 7.5). Si è visto anche come, rispetto ad ogni rapporto giuridico, sono connessi obblighi giuridici che si articolano in un comportamento solidale di buona fede relazionale e di protezione reciproca, nel limite di un ragionevole sacrificio proprio, da delineare volta a volta in relazione allo specifico rapporto instaurato (VII, 1.1). Il dovere di correttezza, come clausola generale di buona fede, opera quale limite interno di ogni situazione giuridica e così anche nel rapporto obbligatorio in capo al debitore e al creditore 27. 25 Per Cass. 13-4-2007, n. 8826, va superata la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, perché priva di argomenti sostanziali. Anche le sezioni unite sono ormai in questa direzione, affermando che “un risultato è dovuto in tutte le prestazioni” (Cass., sez. un., 11-1-2008, n. 577). Di “discussa dicotomia” già parlavano Cass. 8-8-1985, n. 4394; Cass. 6-2-1998, n. 1286. 26 Qualora il rapporto contrattuale tra committente e professionista preveda una precisa individuazione di obiettivi da raggiungere, rendendo strumentale l’obbligazione di questi al conseguimento di un determinato risultato, il suo mancato conseguimento costituisce inadempimento (Cass. 22-7-2016, n. 15107). 27 Il “contatto sociale qualificato”, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni, ex art. 1173 c.c., e dal quale derivano, a carico delle parti, non obblighi di prestazione ai sensi dell’art. 1174 c.c., bensì reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, giusta gli artt. 1175 e 1375 c.c., opera anche, nella

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a) Anzitutto grava, sia sul creditore che sul debitore, il dovere di lealtà, con i connessi doveri di informazione e trasparenza. La trasgressione di tale dovere è integrata sia con la rappresentazione di una realtà non veritiera che con la reticenza rispetto a fatti rilevanti conosciuti e non comunicati all’altro soggetto. b) Grava, inoltre, il dovere di protezione reciproca: sia il creditore che il debitore sono tenuti a preservare l’interesse altrui nei limiti in cui non comporti un apprezzabile sacrificio dell’interesse proprio, secondo un criterio di reciprocità; entrambi i soggetti del rapporto obbligatorio sono tenuti ad un dovere di informazione e trasparenza, che è presidio di consapevolezza delle scelte compiute. La clausola generale si specifica, per il debitore, nell’osservanza di obblighi accessori o strumentali alla esecuzione della prestazione dovuta; per il creditore, nell’obbligo di non aggravare la posizione debitoria, consentendo e agevolando l’esecuzione della prestazione, così evitando abuso del diritto (II, 3.4). Alla stregua di tali criteri, la giurisprudenza, ad es., ha considerato un abuso del diritto l’artificioso frazionamento del credito nell’esazione giudiziale dell’adempimento, sia per ammontare 28 che per causali del credito 29. Poiché l’obbligo di solidarietà è imposto per legge, assume la forza giuridica di autonomo obbligo di legge: la sua violazione integra lesione di un autonomo interesse protetto ed è dunque causa di responsabilità da inadempimento, con conseguente obbligo di risarcimento del danno. Si è visto come, rispetto a tutti tali obblighi, è emersa l’elaborazione di una obbligazione senza prestazione, che si caratterizza per l’obbligo di protezione che grava su ciascuno dei soggetti del rapporto giuridico; ciascun soggetto del rapporto è anche obbligato a tenere un comportamento conforme all’affidamento suscitato nell’altro soggetto del rapporto 30. L’obbligo non è liberamente assunto dal debitore ma deriva dalla legge come materia contrattuale, in relazione a quegli aspetti che non attengono alla esecuzione della prestazione principale, ma ad interessi ulteriori, che insorgono, anche al di fuori di uno specifico vincolo contrattuale, tutte le volte in cui le parti instaurino una “relazione qualificata” e cioè agiscano di concerto in vista del conseguimento di uno scopo (Cass. 13-10-2017, n. 24071). 28 Il creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, non può frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto della obbligazione si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare il rapporto tra le parti durante l’esecuzione del contratto e nella eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi in un abuso degli strumenti processuali offerti alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale (Cass., sez. un., 15-11-2007, n. 23726; Cass. 27-1-2010, n. 1706). La violazione del divieto, costituendo una statuizione su una questione processuale, dà luogo ad un giudicato meramente formale e, come tale, ha un’efficacia preclusiva limitatamente al giudizio in cui è pronunciata; è possibile la riproposizione della medesima questione in un successivo giudizio tra le stesse parti e che in quest’ultimo giudizio possa essere diversamente risolta (Cass. 9-9-2021, n. 24371). 29 Il danneggiato, che non dimostri di avervi un interesse oggettivamente valutabile, non può, in presenza di un unitario fatto illecito lesivo di cose e persone, frazionare la tutela giudiziaria, agendo separatamente per il risarcimento dei danni patrimoniali e di quelli non patrimoniali, poiché tale condotta aggrava la posizione del danneggiante-debitore e causa ingiustificato aggravio del sistema giudiziario (Cass. 6-5-2020, n. 8530). 30 Il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto ex artt. 1175 e 1375 legittima l’insorgenza in ciascuna parte dell’affidamento che, anche nell’esecuzione di un contratto a prestazioni corrispettive ed esecuzione continuata, ciascuna parte si comporti nell’esecuzione in buona fede, e dunque rispettando il correlato generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, anche a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere gene-

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connotato della relazionalità instaurata e che perciò grava su entrambe le parti del rapporto obbligatorio (VII, 1.1). Si è visto pure di trattarsi di una prestazione peculiare, contenuto di un obbligo non liberamente assunto dal debitore ma derivante dalla legge come connotato della relazionalità instaurata e che perciò grava su entrambe le parti del rapporto obbligatorio (VII, 1.1). c) È anche configurato un principio di esigibilità del credito, in base al quale è ammesso che l’inadempimento del debitore risulti giuridicamente giustificato se la ragione che lo sottende sia tutelata dall’ordinamento o, addirittura, dalla Costituzione come valore preminente o, comunque, superiore all’interesse del creditore 31 (VIII, 10.11). La giurisprudenza, specie costituzionale, ha superato l’impostazione del cod. civ. 1942 di non ammettere un potere del giudice di dilazionare il tempo di adempimento 32. Il tema trova una qualificata esplicazione con riguardo all’attuazione dei contratti nei tempi di pandemia da Covid-19, per divieti di esercizio di alcune attività o anche per contrazione dei mezzi finanziari che rendono impossibile l’esecuzione della prestazione dovuta (VIII, 7.6 e 10.14). La stessa pandemia orienta alcune soluzioni nella gestione di specifici rapporti familiari e sociali (V, 4.10; IV, 2.1, 5, 9). Possono sussistere altri soggetti, come creditori del creditore, che possono essere interessati all’esazione del credito: quindi l’inesigibilità a favore del debitore 33 va bilanciata con eventuali interessi all’esazione da parte di terzi. Maturata una nuova concezione dei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione, specie a seguito della L. 7.8.1990, n. 241, e delle relative modifiche e integrazioni apportate dalla L. 11.2.2005, n. 15, anche il comportamento della pubblica amministrativa nei rapporti contrattuali va ora valutato secondo i canoni di correttezza e buona fede (II, 7.5).

10. Obbligazioni naturali. – Con la rubrica “obbligazioni naturali” l’art. 2034 prevede una generale categoria di “doveri morali o sociali” che non sono suscettibili di esserale del neminem laedere; in un contratto di locazione di immobile ad uso abitativo l’assoluta inerzia del locatore nell’escutere il conduttore per ottenerne il pagamento del corrispettivo sino ad allora maturato, protrattasi per un periodo di tempo assai considerevole in rapporto alla durata del contratto, e suffragata da elementi circostanziali oggettivamente idonei ad ingenerare nel conduttore un affidamento nella remissione del diritto di credito da parte del locatore per facta concludentia, l’improvvisa richiesta di integrale pagamento costituisce esercizio abusivo del diritto (Cass. 14-6-2021, n. 16743. V. anche Cass. 2-4-2021, n. 9200; Cass. 10-3-2021, n. 6582). 31 In coerenza con i valori costituzionali, sta emergendo una tendenza alla valorizzazione della esigibilità del credito. Secondo Corte cost. 3-2-1994, n. 19, tale principio, coinvolgendo categorie e valori di rilevanza costituzionale e configurandosi come principio generale inerente ai rapporti obbligatori come tali, deve avere applicazione universale nell’ordinamento. 32 L’art. 1165 cod. civ. abr., a fronte della domanda giudiziaria di risoluzione del contratto, accordava al giudice il potere di concedere al convenuto una dilazione secondo le circostanze; norma disattesa dall’art. 42 cod. comm. abr., che testualmente negava tale potere al giudice. Nel codice civile è contenuta la regola dell’abr. cod. comm. e non dell’abr. cod. civ. Per la Relaz. cod. civ. il nuovo sistema nega ogni diritto alla dilazione giudiziaria, in modo che si evita ogni turbamento alla prontezza degli adempimenti, fondamentale in ogni ramo dell’economia e si adegua tutto il sistema delle obbligazioni alla norma dell’art. 42 cod. comm. (n. 661). 33 Ad es. si è stabilito che l’assoluta inerzia del locatore nell’escutere il conduttore per ottenerne il pagamento del corrispettivo sino ad allora maturato, protrattasi per un periodo di tempo assai considerevole, può ingenerare nel conduttore un affidamento nella remissione del diritto di credito da parte del locatore per facta concludentia (Cass. 14-6-2021, n. 16743).

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re oggetto di obbligazione ma che assumono rilevanza giuridica al momento dell’eventuale adempimento. L’ordinamento, pur non riconoscendoli meritevoli di giustificare l’assunzione di un vincolo giuridico, prende in considerazione lo spontaneo adempimento non consentendo il diritto alla restituzione (soluti retentio): è l’unico effetto giuridico che l’ordinamento ricollega all’obbligazione naturale, essendo il creditore sfornito del diritto di agire innanzi al giudice per l’inadempimento. La norma contiene una deroga al generale principio di ripetibilità di quanto è stato indebitamente pagato, come risulta anche dalla collocazione subito dopo la previsione dell’indebito oggettivo (art. 2033); considera il dovere morale o sociale come giusta causa di attribuzione patrimoniale, così da rendere non esperibili, dopo l’adempimento, sia il rimedio dell’indebito oggettivo, che quello dell’ingiustificato arricchimento (XI, 1.7 e 8). Tradizionalmente tali doveri sono stati definiti obbligazioni imperfette, in contrapposizione alle normali obbligazioni giuridiche, dette perfette o anche indicate come obbligazioni civili. a) L’art. 2034 detta la disciplina generale delle obbligazioni naturali con l’ampia previsione che “non è ammessa la ripetizione” di quanto è stato spontaneamente pagato in esecuzione di doveri morali o sociali, salvo che la prestazione sia stata eseguita da un incapace (co. 1); ai doveri morali e sociali è assimilato “ogni altro” dovere per cui la legge non accorda azione ma esclude la ripetizione (co. 2). La norma ha la finalità di escludere che ai doveri morali e sociali – come alle altre obbligazioni imperfette tassativamente previste dalla legge – possano ricollegarsi effetti ulteriori rispetto all’irripetibilità di quanto prestato. Non è fissata la tipologia dei doveri costituenti obbligazioni naturali: la stessa è pertanto destinata ad operare in ragione dei valori storicamente determinati dall’ordinamento e avvertiti dalla società, valutandosi la doverosità morale o sociale alla stregua dei principi generali dell’ordinamento 34. La giurisprudenza fissa un criterio di proporzionalità dell’entità della prestazione eseguita con le condizioni economiche del solvens e del beneficiario 35: a tale principio si è fatto riferimento anche rispetto alle attribuzioni patrimoniali tra conviventi 36. Concretizzandosi l’adempimento del solvens in un’attribuzione patrimoniale non dovuta, deve essere comunque ricostruibile il fondamento dell’attribuzione, non essendo ammessi nel nostro ordinamento atti traslativi astratti (come appresso si vedrà: VIII, 3.7). Perché si verifichi l’effetto della irripetibilità devono ricorrere due presupposti: la prestazione deve essere eseguita spontaneamente; chi adempie deve essere capace 37. 34 Ad es., il pagamento effettuato in esecuzione di una pattuizione contrattuale successivamente dichiarata nulla è ripetibile, perché non può qualificarsi come adempimento di un’obbligazione naturale in quanto non è possibile rinvenire il presupposto della spontaneità né quello dell’esecuzione di un dovere morale o sociale (Cass. 27-6-2017, n. 15954). 35 Si è ritenuto che ricorre una obbligazione naturale quando le prestazioni eseguite risultino adeguate alle circostanze e proporzionate all’entità del patrimonio e alle condizioni sociali del solvens (Cass. 13-3-2003, n. 3713; Cass. 20-1-1989, n. 285). 36 Le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente more uxorio effettuate nel corso del rapporto configurano l’adempimento di un’obbligazione naturale ex art. 2034 c.c., a condizione che siano rispettati i principi di proporzionalità e adeguatezza (Cass. 15-5-2018, n. 11766). È configurabile l’ingiustizia dell’arricchimento di un convivente more uxorio verso l’altro, in presenza di prestazioni che esulano dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza, il cui contenuto va parametrato alle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto, e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza (Cass. 15-2-2019, n. 4659). 37 Con riguardo al debito prescritto, l’art. 2940 non richiede la capacità del solvens. Si tende a giustificare

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La spontaneità dell’adempimento dell’obbligazione naturale segna la più vistosa differenza con l’adempimento dell’obbligazione civile, che è atto dovuto. Se l’esecuzione della prestazione è frutto di coercizione, è ripetibile; d’altra parte l’adempimento della obbligazione naturale, per rispondere all’assolvimento di un dovere morale o sociale, non integra una donazione, che è, per definizione, caratterizzata dallo “spirito di liberalità” (art. 769) 38. L’eventuale errore circa la sussistenza dell’obbligo è ininfluente rispetto all’adempimento di un’obbligazione naturale creduta come obbligazione civile, che non può essere ripetuta 39. La capacità del solvens è dettata a tutela del soggetto incapace. Per la regola generale delle obbligazioni civili il debitore che ha eseguito la prestazione dovuta non può impugnare il pagamento a causa della sua incapacità (art. 1191). Proprio in quanto nella obbligazione naturale la prestazione non è dovuta, il soggetto adempiente deve essere legalmente capace (e neppure affetto da incapacità naturale), trattandosi di un libero atto di disposizione del suo patrimonio. Se l’adempiente è incapace può ripetere la prestazione, la irripetibilità della prestazione non può essere opposta alla persona incapace. È da tempo dibattuta la natura giuridica dell’adempimento dell’obbligazione naturale: farebbe propendere per la natura di atto in senso stretto il fatto che si chieda la spontaneità e non la volontarietà dell’adempimento; farebbe propendere per la natura di negozio giuridico il fatto che l’adempimento non è dovuto. Si è del parere che proprio tale ultima nota sia quella che maggiormente qualifichi l’adempimento dell’obbligazione naturale, per procurarsi al creditore un bene giuridicamente non dovuto, e quindi si propende per la natura di negozio unilaterale dell’adempimento dell’obbligazione naturale (mentre è atto in senso stretto l’adempimento dell’obbligazione civile in quanto procura al creditore il bene dovuto). La irripetibilità prevista per le obbligazioni naturali ha un fondamento di giustizia sostanziale, per comunque sussistere un dovere sociale; diverso fondamento ha la irripetibilità disposta per la prestazione contraria al buon costume (art. 2035) che ha un fondamento di sanzione civile per il comportamento turpe delle parti, vietandosi la possibilità di invocare la giustizia per far valere una ragione turpe (VIII, 3.8). Le obbligazioni naturali sono incoercibili. Non si può agire giudizialmente per l’attuazione di tali obbligazioni; né è sanzionato l’inadempimento delle stesse: il creditore non può invocare l’inadempimento del debitore (art. 1218), né può far valere la sua responsabilità patrimoniale (art. 2740) e aggredirne il patrimonio per la realizzazione del  

la peculiarità con il rilievo che il debito prescritto non è estinto (e dunque giuridicamente inesistente), ma solo inesigibile, dovendo la prescrizione essere eccepita dal soggetto contro il quale si fa valere un diritto. 38 La linea di confine diventa più labile con riferimento alla donazione remuneratoria (art. 770): questa, ancorché non dovuta, è compiuta in ricompensa di servizi resi dal donatario. Nell’adempimento dell’obbligazione naturale, l’attribuzione deve risultare proporzionale, alla stregua di una ricostruzione comparata delle condizioni economiche delle parti, in ragione della natura dell’interesse soddisfatto e delle caratteristiche del caso concreto: oltre tale limite si atteggia quale donazione. La qualificazione dell’attribuzione gratuita come donazione comporta, non solo la forma dell’atto pubblico (art. 782), ma anche la soggezione alla disciplina delle successioni sulla riduzione (artt. 536 ss.) e sulla collazione (artt. 737 ss.), oltre che alla normativa della revocazione delle donazioni (artt. 800 ss.). 39 Risulta dai Lavori Preparatori: “Quell’errore del solvens che in ogni altro debito civile è presupposto indispensabile per ammettersi la condictio indebiti … diventa irrilevante e resta senza influenza quando si tratti di obbligazione naturale” (Rel. Comm. reale, p. 22).

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credito. È il fatto della esecuzione della prestazione che fa assumere alla obbligazione naturale rilevanza giuridica, per l’effetto della irripetibilità della prestazione che la legge vi connette. Per l’art. 2034 non è ammessa la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente prestato (c.d. soluti retentio): il debitore non può chiedere la restituzione delle cose consegnate o del danaro pagato ovvero il controvalore dei servizi resi. Per il medesimo art. 2034 non si producono altri effetti 40. Manca una disciplina delle vicende della obbligazione naturale, ma la stessa è ricostruibile attraverso i criteri generali. Derivando la giuridicità dell’obbligo dall’adempimento, non è possibile sostituire volontariamente un’obbligazione naturale con un’obbligazione civile in quanto l’interesse che anima l’obbligazione naturale non è considerato dall’ordinamento suscettibile di giustificare un vincolo giuridico; né è possibile una novazione dell’obbligazione naturale per non integrare la stessa una obbligazione giuridica. Deve invece ammettersi che possano operare due varianti dell’adempimento, nel soggetto e nell’oggetto. Deve ammettersi l’adempimento del terzo, nulla ostando che l’interesse morale o sociale del creditore resti soddisfatto da un terzo (arg. art. 1180), salvo che non ricorrano le ipotesi di contrasto previste dalla stessa norma (VII, 3.5). Deve parimenti ammettersi la dazione in pagamento (datio in solutum), realizzandosi la sostituzione della prestazione con il consenso del creditore (art. 1197) (VII, 3.6): se il bene oggetto di prestazione è un immobile o mobile registrato sarà necessaria la forma scritta. Non opera la compensazione legale con obbligazioni perfette. Piuttosto l’obbligazione naturale è passibile delle vicende che ineriscono alla normale obbligazione, senza che ciò comporti di per sé mutamento di natura della stessa; salvo che le parti, espressamente, non intendano assumerla come obbligazione perfetta: allora si dà vita ad una nuova obbligazione. b) Sono previste ipotesi specifiche di obbligazioni naturali. Una ipotesi riguarda i debiti di gioco: per l’art. 1933 non compete azione per il pagamento di un debito di giuoco o di scommessa, anche se non proibiti 41, ma il perdente non può ripetere quanto abbia spon40 In passato si tendeva ad assimilare i contratti aventi ad oggetto strumenti finanziari derivati (futures e options) al gioco o alla scommessa, per derivare il valore degli stessi dall’andamento delle quotazioni delle attività finanziarie assunte a parametro di riferimento. Tali dubbi sono stati fugati dall’art. 235 D.Lgs. 24.2.1998, n. 58 (TUF), secondo cui agli strumenti finanziari derivati non si applica l’art. 1933. Si è stabilito che il contratto derivato rientra nella categoria della scommessa legalmente autorizzata, la cui causa, ritenuta meritevole dal legislatore dell’intermediazione finanziaria, risiede nella consapevole e razionale creazione di alee che, nei derivati c.d. simmetrici, sono reciproche e bilaterali; l’art. 1933 c.c. concerne esclusivamente le ipotesi di scommessa c.d. tollerata dal legislatore, mentre non riguarda affatto le scommesse legalmente autorizzate che, come tali, debbono attribuire azione per il pagamento (Cass. 8-5-2014, n. 9996). 41 Perché sussista l’obbligazione naturale del perdente deve trattarsi di gioco o scommessa non proibiti (quale ad es. il gioco d’azzardo: art. 718 c.p.); inoltre il gioco o la scommessa devono avvenire senza frode per il perdente (art. 19332): in tali ipotesi viene meno la stessa doverosità morale del pagamento (IX, 5.3). Sono invece considerate obbligazioni perfette, anche rispetto alle persone che non vi prendono parte, quelle relative a competizioni sportive (giuochi che addestrano al maneggio delle armi, corse di ogni specie e ogni altra competizione); tuttavia il giudice può rigettare o ridurre la domanda quando ritenga la posta eccessiva (art. 1934). Danno anche luogo a obbligazioni perfette (con connessa azione in giudizio) le lotterie legalmente autorizzate (art. 1935). La schedina del totocalcio, la bolletta del lotto, il biglietto della lotteria sono documenti di legittimazione, con la funzione di identificare l’avente diritto alla prestazione. Si è precisato che l’art. 1935 c.c. e in genere le leggi sul gioco del lotto si riferiscono espressamente ai rapporti del giocatore con l’ente che gestisce il gioco autorizzato, così modulando il gioco in vista delle finalità per cui è stato istituito, e contemporaneamente delimitando il rischio corso dal giocatore a quello chiaramente predeterminato; gli accordi privati che ruotano intorno al gioco,

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taneamente pagato; la ripetizione è ammessa in ogni caso se il perdente è un incapace (IX, 5.3). Altra ipotesi è la esecuzione di disposizione fiduciaria (art. 627): a fronte della regola di non ammettere azione per far dichiarare l’apparenza della istituzione ereditaria (co. 1), si prevede che la persona dichiarata nel testamento, se ha spontaneamente eseguito la disposizione fiduciaria trasferendo i beni alla persona voluta dal testatore, non può agire per la restituzione, salvo che sia un incapace (co. 2); per entrambe le ipotesi, sono ripetuti i due requisiti della spontaneità dell’adempimento e della capacità del solvens. Ulteriore ipotesi è il pagamento di debito prescritto (art. 2940). Il diritto di azione continua a restare nella titolarità del creditore e può essere paralizzato solo dall’eccezione di prescrizione del debitore (da proporre a pena di decadenza nella comparsa di risposta ex art. 1672 c.p.c.); il giudice non può rilevare d’ufficio la prescrizione non opposta (art. 2938): in assenza di (rituale) eccezione di prescrizione, il giudice è tenuto a giudicare sulla domanda proposta. Se il debitore adempie, resta irrilevante la motivazione della mancata opposizione della prescrizione (per volere adempiere egualmente il debito prescritto o per non conoscere la maturata prescrizione); anche se non è espressamente prevista la ripetizione per l’adempimento dell’incapace, deve egualmente ammettersi la tutela della persona dell’incapace che ha compiuto un’attribuzione non dovuta, secondo la regola generale dell’art. 20341. Una disciplina particolare è dedicata alla donazione remuneratoria (art. 7701), alla donazione d’uso (art. 7702) e agli atti di liberalità diversi dalla donazione (art. 809) (XIII, 2).

B) ALCUNE SPECIE DI OBBLIGAZIONI TIPICHE 11. Le tipologie. Generalità. – Si è visto come il modello base di rapporto obbligatorio incarna la c.d. obbligazione semplice, caratterizzata dalla presenza di due soggetti (creditore e debitore), con unicità di prestazione e di bene dedotto, il cui generale disegno è contenuto nel Titolo I (Obbligazioni in generale) sotto i Capi da I a VI del Libro IV del codice civile (artt. 1173-1276), di cui in parte si è detto e ancora ampiamente si dirà. L’ultimo capo (Capo VII) è dedicato alla disciplina di “Alcune specie di obbligazioni” (artt. 1277-1320). La normativa raccolta sotto tale capo introduce varianti della obbligazione semplice, con la fissazione di specifici modelli di obbligazione che si caratterizzano per peculiarità del soggetto o della prestazione ovvero dell’oggetto e connesse vicende. La relativa disciplina è, anzitutto, dedicata ad ipotesi di c.d. obbligazione complessa, caratterizzata da una molteplicità di soggetti e/o di prestazioni. Rispetto ai soggetti, si ha obbligazione plurisoggettiva quando l’obbligazione fa capo a più soggetti, vuoi da parte del creditore (pluralità di creditori), vuoi da parte del debitore (pluralità di debitori), vuoi in relazione ad entrambe le parti. Rispetto alla prestazione, si ha obbligazione cumulativa quando sono dedotte in obbliancorché autorizzato, restano al di fuori di ogni regolamentazione, nell’ambito di quei rapporti sociali che la legge considera non meritevoli di tutela (Cass. 7-10-2011, n. 20622). Con riguardo a giochi d’azzardo svolti all’estero, si è stabilito che, sia in ambito nazionale sia in quello comunitario, non è dato ravvisare un generale disfavore nei confronti del giuoco d’azzardo in quanto tale, ma solo nei confronti di quello che sfugge al controllo dello Stato. Pertanto la sentenza straniera avente ad oggetto la condanna per un debito attinente al gioco d’azzardo non produce effetti contrari all’ordine pubblico e, quindi, ai sensi degli artt. 64 e 67 L. 218/1995, può essere riconosciuta in Italia (Cass. 17-1-2013, n. 1163; Cass. 27-9-2012, n. 16511).

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gazione più prestazioni, articolandosi come obbligazione congiuntiva (se sono dovute tutte le prestazioni) o alternativa (quando ne è dovuta una sola). Con riguardo all’oggetto, è introdotta la distinzione tra obbligazioni divisibili e obbligazioni indivisibili in ragione del modo di frazionamento del bene. Una disciplina specifica hanno le obbligazioni pecuniarie, aventi cioè ad oggetto una somma di danaro, per la naturale fecondità del danaro. Disseminate nel codice civile e in altre leggi esistono obbligazioni con funzioni tipizzate che pure ricevono una disciplina specifica. Delle varie obbligazioni si parlerà ampiamente in seguito, secondo l’ordine delineato. Sono obbligazioni tipiche, regolate con normative aggiuntive alla disciplina generale, la quale trova applicazione quando non derogata dalle normative speciali.

12. Obbligazioni plurisoggettive. Le obbligazioni parziarie. – È frequente il fenomeno di obbligazioni caratterizzate dalla presenza di più soggetti, o dal lato attivo o dal lato passivo o da entrambi i lati: sono obbligazioni soggettivamente complesse (anche dette plurisoggettive). C’è pertanto da stabilire l’incidenza della pluralità di soggetti sulla vita dell’obbligazione: rilevano le due figure della obbligazione parziaria (di cui si parla ora) e della obbligazione solidale (trattata di seguito). La obbligazione parziaria presuppone che l’obbligazione sia divisibile e ricorre quando ciascun debitore è tenuto all’adempimento di una sola parte (dell’oggetto) dell’obbligazione, ovvero quando ciascun creditore può pretendere solo la parte (dell’oggetto) dell’obbligazione di sua spettanza. La parziarietà indica la rilevanza della divisibilità dell’obbligazione in presenza di più soggetti (debitori o creditori). Alla obbligazione parziaria non è dedicata un’apposita normativa. La sua rilevanza è dedotta dalla norma riguardante l’obbligazione divisibile: per l’art. 1314, se più sono i debitori o i creditori di una prestazione divisibile e l’obbligazione non è solidale, ciascuno dei creditori può domandare il soddisfacimento del credito per la sua parte e ciascuno dei debitori è tenuto a pagare il debito per la sua parte. Nell’ipotesi di pluralità di debitori, il creditore è tenuto ad esercitare il suo diritto verso tutti i debitori, potendo da ognuno pretendere solo la sua parte: nell’ipotesi in cui qualcuno non adempia, non può rivalersi sugli altri debitori per la parte non riscossa 42; nell’ipotesi di pluralità di creditori, il debitore è tenuto all’adempimento parziario a ciascuno dei creditori 43. 13. Segue. Le obbligazioni solidali. – La obbligazione solidale (o in solido) è tipicamente una obbligazione complessa plurisoggettiva, più spesso dal lato passivo, talvolta da quello attivo o da entrambi i lati. I rapporti obbligatori restano autonomi, ma si instaura tra gli stessi un nesso e cioè un vincolo di solidarietà tra i soggetti che ricoprono 42 Si pensi alla coassicurazione: quando un rischio è coperto da più assicurazioni per quote determinate, ciascun assicuratore è tenuto al pagamento dell’indennità assicurata in proporzione della rispettiva quota, anche se unico è il contratto sottoscritto da tutti gli assicuratori (art. 1911) (IX, 5.4). 43 Si pensi all’ipotesi di pluralità di mediatori: quando un affare è concluso mediante l’intervento di più mediatori, ciascuno di essi ha diritto a una quota della provvigione (art. 1758) (in proporzione all’entità e all’importanza dell’opera prestata), sicché l’obbligato può considerarsi liberato solo quando abbia corrisposto a ciascuno di essi la quota spettante; tranne che non sia espressamente pattuita la solidarietà attiva (IX, 3.7).

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la medesima posizione soggettiva, come si evince dalla previsione che la solidarietà non è esclusa dal fatto che i singoli debitori siano tenuti ciascuno con modalità diverse ovvero il debitore comune sia tenuto con modalità diverse di fronte ai singoli creditori (art. 1293). Le singole obbligazioni possono derivare da titoli diversi e atteggiarsi con modalità differenti 44: i coobbligati sono tenuti per la “medesima prestazione” (art. 1292); cioè la prestazione ha il medesimo contenuto per l’identità funzionale del bene procurato al creditore. La solidarietà è necessitata per le obbligazioni indivisibili, per la non frazionabilità della prestazione (VII, 1.14); è invece voluta (dalla legge o dalle parti) per le obbligazioni divisibili, con il risultato di escluderne la naturale parziarietà (VII, 1.12). La solidarietà ha la funzione di agevolare l’attuazione dell’obbligazione, in presenza di più debitori o/e di più creditori. In ipotesi di pluralità di debitori, tutti sono tenuti per la medesima prestazione, in modo che ciascun debitore può essere costretto all’adempimento per la totalità e l’adempimento da parte di uno libera gli altri debitori (solidarietà passiva). I condebitori sono tenuti automaticamente in solido se dalla legge o dal titolo non risulta diversamente (art. 1294); la solidarietà passiva è dunque presunta dalla legge, secondo la previsione del cod. comm. 1882, differente dal cod. civ. abr. che ne richiedeva la pattuizione. È un meccanismo di tutela privilegiata del credito, coerente ad una economia di mercato. Sono varie le ipotesi in cui è la legge stessa a prevederla: ad es., in materia condominiale, per assicurare la conservazione degli edifici, l’art. 632 disp. att. c.c. prevede che chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato, solidalmente con questi, al pagamento dei contributi relativi all’anno in corso e a quello precedente; in presenza di fatto illecito imputabile a più persone, l’art. 2055 considera tutti gli autori dell’illecito obbligati in solido al risarcimento del danno 45; nella cessione di azienda, l’art. 2560 prescrive la solidarietà di cedente e cessionario per i debiti inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta anteriori al 44 Si dibatte da tempo circa la unitarietà di rapporto o pluralità di rapporti nell’obbligazione solidale. In realtà un ruolo fondamentale assume il titolo (o causa) di derivazione dell’obbligazione: il vincolo di solidarietà può inerire ad un’unica obbligazione (es. più soggetti, nel prendere in locazione un immobile, assumono l’obbligazione di pagare il canone), come può riferirsi a più obbligazioni connesse (es. la obbligazione fideiussoria che un soggetto assume verso il creditore per l’adempimento di un debito altrui ex art. 1936). I titoli da cui conseguono le singole obbligazioni possono essere anche distinti, purché le obbligazioni contemplate siano connesse, nel senso di essere dirette a procurare al creditore la medesima utilità (saranno esaminate in seguito ipotesi di assunzione cumulativa del debito altrui ex artt. 1268 ss.). È anzi previsto che la solidarietà non è esclusa dal fatto che i singoli debitori siano tenuti ciascuno con modalità diverse o il debitore comune sia tenuto con modalità diverse di fronte ai singoli creditori (art. 1293) (c.d. solidarietà diseguale) (es. artt. 12682; 19442). La solidarietà può aversi anche quando i titoli di responsabilità facenti capo ai coobbligati siano di natura diversa, “per essere l’uno di natura contrattuale e l’altro di natura extracontrattuale” (Cass. 16-9-2007, n. 18939). La disciplina della solidarietà ex art. 1292 non determina la nascita di un rapporto unico ed inscindibile e non dà luogo, perciò, a litisconsorzio necessario tra i diversi obbligati o creditori (Cass. 5-7-2019, n. 18069; Cass. 8-3-2019, n. 6727). 45 L’applicazione dell’art. 2055 presuppone la prova dell’esistenza di un rapporto di causalità tra ciascuna delle condotte e l’evento lesivo, mentre non opera laddove, accertato che responsabile del sinistro è uno solo tra più soggetti, non si riesca a individuare chi, in concreto, abbia posto in essere il comportamento produttivo del danno (Cass. 5-3-2012, n. 3424). Non è necessario che tutti abbiano agito col medesimo atteggiamento soggettivo (di dolo o colpa), ma è sufficiente che, anche con condotte indipendenti, tutti abbiano concausato il medesimo fatto dannoso (Cass. 5-4-2022, n. 11043). La graduazione delle colpe tra i soggetti responsabili di un medesimo fatto illecito ha soltanto la funzione di ripartire internamente tra i coobbligati l’obbligazione risarcitoria, senza eliminare la solidarietà (Cass. 10-1-2011, n. 291).

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trasferimento, risultanti dai libri contabili obbligatori (art. 1560) 46. Una ipotesi significativa attiene alla professione di avvocato 47. In ipotesi di pluralità di creditori, ciascuno dei creditori ha diritto di chiedere l’adempimento dell’intera obbligazione, e l’adempimento conseguito da uno di essi libera il debitore verso tutti i creditori (solidarietà attiva) (art. 1292). La solidarietà attiva deve essere espressamente pattuita. Si pensi all’ipotesi di più intestatari di un libretto di deposito bancario a risparmio (art. 1835) o all’ipotesi di pattuizione di solidarietà attiva tra più mediatori intervenuti nella conclusione dell’affare 48. In sostanza, nell’obbligazione solidale, esistono più posizioni soggettive di debito o di credito avvinte dall’unitario nesso di una comunanza di interessi. Quando la solidarietà impegna sia il lato attivo che quello passivo si ha solidarietà congiunta attiva e passiva, con la produzione di effetti in entrambi i lati, per cui ciascuno dei creditori può chiedere a ognuno dei debitori la totalità del credito e l’adempimento conseguito libera il debitore verso tutti i creditori (ad es., nell’ipotesi di conto corrente intestato a più persone, le medesime hanno facoltà di compiere operazioni separatamente, e gli intestatari sono creditori e debitori in solido dei saldi del conto: art. 1854) 49. Regola fondamentale è che i condebitori sono tenuti ad eseguire e i concreditori hanno diritto a ricevere la medesima prestazione per l’intero. Avendo la solidarietà la funzione di agevolare l’attuazione dell’obbligazione, di regola non si riflette nei rapporti successori: salvo patto contrario, l’obbligazione solidale si divide tra i coeredi di uno dei condebitori o di uno dei creditori in solido, in proporzione delle rispettive quote (art. 1295) 50. Solo se l’obbligazione è indivisibile, l’indivisibilità è assorbente e opera nei confronti degli eredi del debitore o di quelli del creditore (art. 1318). Bisogna distintamente verificare il modo di operare dell’obbligazione solidale nei rap46 Nell’ipotesi di cessione di azienda, cedente e cessionario sono obbligati in solido per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento (art. 2112). La “finalità di protezione” della disposizione consente all’interprete di far prevalere il principio generale della responsabilità solidale del cessionario al fine di fornire una tutela effettiva al creditore che deve essere salvaguardato (Cass. 10-12-2019, n. 32134). 47 Per l’art. 68 R.D. 27.11.1933, n. 1578 (ordinamento della professione di avvocato), quando un giudizio è definito con transazione, tutte le parti che hanno transatto sono solidalmente obbligate al pagamento degli onorari e al rimborso delle spese in favore degli avvocati che hanno partecipato al giudizio negli ultimi tre anni e che ne fossero ancora creditori; salvo espressa rinunzia al vincolo di solidarietà. L’art. 68 R.D. 27.11.1933, n. 1578 (ordinamento della professione di avvocato), secondo cui, quando un giudizio è definito con transazione, tutte le parti che hanno transatto sono solidalmente obbligate al pagamento degli onorari e al rimborso delle spese in favore degli avvocati che hanno partecipato al giudizio negli ultimi tre anni e che ne fossero ancora creditori; salvo espressa rinunzia al vincolo di solidarietà. 48 In deroga alla regola della parziarietà ex art. 1755, deve essere espressamente pattuito che ciascuno dei mediatori possa chiedere il pagamento della intera provvigione, con conseguente liberazione del cliente verso gli altri mediatori (Cass. 11-6-2008, n. 15484) (IX, 3.8). 49 Diversa è l’ipotesi in cui più persone ineriscono ad un unitario soggetto giuridico (es. un’associazione o una società): questa è obbligazione con unico debitore o creditore. 50 Il vincolo di solidarietà non opera tra i coeredi in relazione ai debiti ereditari. I coeredi sono tenuti a contribuire al pagamento dei debiti ereditari ciascuno in proporzione della quota ereditaria, salvo che il testatore abbia diversamente disposto (art. 752). Se però un bene assegnato ad un erede è gravato da ipoteca a garanzia di un debito del de cuius, in virtù del principio della indivisibilità delle garanzie reali, il creditore conserva la garanzia per l’intero ammontare sul bene ipotecato: il coerede, proprietario del bene ipotecato, che ha pagato oltre quanto dovuto in relazione alla sua quota, ha diritto di ripetere dagli altri coeredi la parte per cui essi devono contribuire ai sensi dell’art. 752 (art. 754).

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porti esterni (cioè tra il creditore e i condebitori ovvero tra il debitore e i concreditori) e nei rapporti interni (cioè tra i vari condebitori o tra i vari concreditori). a) Rapporti esterni. Il fenomeno opera diversamente nei due modelli. 1) La solidarietà passiva mira a rafforzare il credito, accrescendone la probabilità di realizzazione: la solidarietà attribuisce al creditore la facoltà di chiedere l’adempimento per la totalità a ciascuno dei debitori (l’adempimento da parte di uno libera gli altri debitori). La solidarietà passiva si atteggia in due modi diversi in ragione della causa obligandi, cioè a seconda della esistenza di un interesse comune ai condebitori, ovvero della esistenza di un interesse riferibile ad uno solo dei coobbligati. Intorno a tale distinzione si articola la solidarietà tributaria 51 (XI, 1.9). Proprio in quanto la solidarietà passiva è prevista nell’esclusivo vantaggio del creditore, rafforzando il credito, il creditore può rinunziare alla solidarietà nei confronti di uno dei debitori che adempie l’obbligazione per la sua quota, conservando l’azione in solido contro gli altri (art. 13111); per l’art. 13112 si considera rinunziare alla solidarietà nei confronti di un solo debitore: 1) il creditore che rilascia a uno dei debitori quietanza per la parte di lui, senza alcuna riserva 52; 2) il creditore che ha agito giudizialmente contro uno dei debitori per la parte di lui, se questi ha aderito alla domanda, o se è stata pronunciata una sentenza di condanna (diversa è la remissione a favore di uno dei debitori ex art. 1301, di cui appresso). Nel caso di rinunzia del creditore alla solidarietà verso alcuno dei debitori, se uno degli altri è insolvente, la sua parte di debito è ripartita tra tutti i condebitori, compreso quello liberato dalla solidarietà (art. 1313). Una fisionomia particolare assume la solidarietà passiva quando è caratterizzata dalla sussidiarietà: più debitori, pure essendo obbligati dal vincolo di solidarietà all’adempimento dell’intero, vi sono tenuti secondo un ordine gerarchico (fissato dalle parti o dalla legge). Tale ordine si traduce in un vantaggio per il debitore obbligato in via sussidiaria. Se il creditore ha il solo onere di preventivamente chiedere l’adempimento ad uno specifico debitore, trattasi di un mero beneficio di ordine (es. l’ordine di pagamen51 Come la solidarietà civilistica, anche la solidarietà tributaria assume una duplice veste: come solidarietà paritetica (o paritaria), quando più soggetti sono tenuti al pagamento per il medesimo presupposto impositivo di tributo (es. venditore e compratore rispetto all’imposta di registro per trasferimento immobiliare ex art. 57 D.P.R. 131/1986); come solidarietà dipendente quando un soggetto è tenuto per il presupposto impositivo di tributo (obbligato principale), mente altro soggetto è responsabile per legge al pagamento del tributo per la funzione svolta, al fine di rafforzare il credito dell’ente impositore assicurandone la esazione (es. il notaio rispetto all’imposta di registro dovuta dalle parti del contratto di vendita immobiliare ex art. 57 D.P.R. 131/1986), fenomeno peraltro diffuso nella sostituzione di imposta, per la solidarietà che si determina tra sostituito (obbligato originario) e sostituto d’imposta (art. 64 D.P.R. 600/1973): cfr. Cass. 5-9-2006, n. 19056. Il divario tra i due tipi di solidarietà non opera nei rapporti esterni (non comportando un beneficio di escussione dei debitori), ma solo nei rapporti interni, in quanto il coobbligato paritetico ha diritto al regresso pro quota, mente il coobbligato dipendente ha diritto al regresso per l’intero. 52 Il fatto che il creditore accetti da uno dei debitori il pagamento di una parte del debito complessivo, rilasciandone quietanza e non riservandosi di agire nei confronti dello stesso debitore per il residuo, integra gli estremi della rinuncia alla solidarietà ex art. 13112, n. 1, con conseguente conservazione dell’azione in solido nei confronti degli altri condebitori, non rinvenendosi nella specie gli estremi per l’applicazione della remissione del debito liberatoria per gli altri coobbligati ex art. 13011, giacché l’effetto della rinuncia è solo quello di ridurre l’importo del debito residuo verso quell’obbligato e non di abdicare al diritto di esigere dagli altri coobbligati il pagamento di quanto ancora dovuto; peraltro sia la remissione del debito che la rinunzia alla solidarietà possono essere fatte anche in maniera tacita purché inequivoche (Cass. 27-1-2015, n. 1453).

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to operante nell’assunzione cumulativa del debito altrui: art. 12682); se il creditore ha l’onere aggiuntivo di preventivamente escutere il patrimonio di uno specifico debitore, trattasi di un beneficio di escussione: in tale ipotesi il debitore sussidiario che oppone tale beneficio deve indicare i beni del debitore principale sui quali il creditore può soddisfarsi: es. il beneficio di escussione pattuito con la fideiussione (art. 19442) o operante nella società semplice (art. 2268) o nella società in nome collettivo (art. 2304). 2) La solidarietà attiva tende a favorire la posizione del debitore, attribuendo a ciascuno dei concreditori il diritto di chiedere l’adempimento dell’intera obbligazione, in guisa che l’adempimento conseguito da uno di essi libera il debitore verso tutti i creditori (art. 1292). Il debitore ha il vantaggio riflesso di potere eseguire l’intera prestazione verso uno solo dei creditori: in tal senso la solidarietà attiva agevola l’adempimento. Il debitore ha la scelta di pagare a uno dei creditori in solido, quando non è stato prevenuto da uno di essi con domanda giudiziale (art. 1296). In assenza di previsione (normativa o pattizia) di solidarietà attiva l’obbligazione è parziaria, per cui il debitore che paga per l’intero ad uno dei creditori non è liberato dall’obbligo verso gli altri creditori (ognuno dei quali può chiedere la rispettiva parte del credito). b) Rapporti interni. Nei rapporti interni diventa essenziale la misura dell’interesse di ciascuno dei condebitori o concreditori al vincolo di solidarietà (se, cioè, tale vincolo risponde all’interesse comune dei contitolari o all’interesse esclusivo di alcuno o a un interesse diversificato). Per l’art. 1298, nei rapporti interni, l’obbligazione in solido si divide tra i diversi debitori o tra i diversi creditori, salvo che sia stata contratta nell’interesse esclusivo di alcuno; le parti di ciascuno si presumono uguali, se non risulta diversamente. La prestazione si divide tra i condebitori ovvero tra i concreditori secondo specifici criteri di ripartizione, attraverso il meccanismo del regresso. 1) Nei rapporti tra debitori, il debitore in solido che ha pagato l’intero debito ha diritto di regresso 53 verso gli altri condebitori, ripetendo la parte di ciascuno di essi, per riprendere ad operare nei rapporti interni la parziarietà del debito 54; se uno dei debitori è insolvente, la perdita si ripartisce tra i vari condebitori compreso quello che ha adempiuto (art. 1299). L’adempimento può provenire anche da un terzo in favore di uno dei condebitori, con diritto di regresso verso i condebitori 55. Nell’esercizio del regresso bisogna valutare il regime del rapporto interno per determinare la misura della parte oggetto di regresso. Ad es., nell’obbligazione fideiussoria (tipico esempio di obbligazione solidale ad interesse esclusivo), il fideiussore che ha pagato ha regresso 53 Spesso i termini “regresso” e “rivalsa” vengono impiegati in modo promiscuo. Tecnicamente, pure implicando entrambi l’estinzione satisfattiva del rapporto obbligatorio, si atteggiano diversamente: regresso è la ripetizione verso il condebitore di quanto pagato al comune creditore (essendo i due condebitori legati da un vincolo di solidarietà verso il creditore) (es. artt. 1299 e 2055); rivalsa è la ripetizione verso un terzo di quanto pagato al suo creditore (in assenza di un vincolo di condebito verso il creditore) (es. art. 754). 54 Il condebitore solidale, sia “ex contractu” sia “ex delicto”, che paga al creditore una somma maggiore rispetto alla quota parte dovuta nei rapporti interni, ha diritto di regresso per tale eccedenza anche se non ha corrisposto l’intero, giacché anche in tal caso, come in quello del pagamento dell’intero debito, egli ha subito un depauperamento del proprio patrimonio oltre il dovuto, con corrispondente indebito arricchimento dei condebitori (Cass. 27-8-2018, n. 21197; Cass. 13-2-2018, n. 3404). 55 Colui che, senza esservi tenuto, adempie un’obbligazione solidale nell’interesse di uno dei coobbligati, acquista per effetto del pagamento il diritto di regresso che sarebbe spettato alla persona, nel cui interesse è eseguito il pagamento, nei confronti degli altri condebitori (Cass. 19-9-2017, n. 21686).

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per l’intero verso il debitore principale (art. 1950); per l’obbligazione di risarcimento danni derivante da fatto illecito, chi ha risarcito il danno ha regresso nei confronti degli altri nella misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa e dalla entità delle conseguenze derivate, presumendosi, nel dubbio, la uguaglianza delle singole colpe (art. 2055) 56; in materia familiare, le obbligazioni solidali dei genitori devono ragguagliarsi al principio di contribuzione proporzionale nei rapporti interni (artt. 1432, 147 e 316 bis) 57. E così per altre ipotesi 58. La previsione del regresso non è una norma imperativa, potendo i condebitori escluderlo (si tende a considerare il patto di esclusione del regresso come un sintomo di esistenza di una società di fatto tra i condebitori). Il diritto di regresso è soggetto a prescrizione, nel termine ordinario, con decorrenza dalla data del pagamento 59. Se il titolo di condebito è accertato successivamente, la prescrizione decorre dalla data dell’accertamento del condebito 60, per il fondamentale principio che la prescrizione decorre da quando il diritto può essere fatto valere (art. 2935). Al debitore che agisce in regresso, gli altri debitori solidali possono opporre le eccezioni che avrebbero potuto opporre al creditore 61: risponde ad un generale dovere di   56 In presenza di fatto illecito di cui siano coautori più persone, ove uno dei condebitori solidali agisca in regresso nei confronti degli altri, l’onere di provare le circostanze idonee a superare la presunzione del pari concorso di colpa, prevista per il caso di dubbio dall’art. 20553, grava, rispettivamente, sull’attore che pretenda il rimborso di una somma superiore alla metà, o sul convenuto che contesti una richiesta pari alla metà, opponendo ad essa la propria totale assenza di colpa, ovvero il grado inferiore di questa (Cass. 10-2-2017, n. 3626). È consentita un’azione di regresso in via anticipata, proponibile dal coobbligato solidale contro un altro coobbligato nel corso dell’azione intrapresa dal creditore nei suoi confronti (Cass. 28-5-2010, 13087). 57 L’obbligazione di mantenimento del figlio riconosciuto da entrambi i genitori, per effetto della sentenza dichiarativa della filiazione, collegandosi allo status genitoriale, sorge con decorrenza dalla nascita del figlio, con la conseguenza che il genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere esclusivo del mantenimento del minore anche per la porzione di pertinenza dell’altro genitore, ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dagli artt. 148 e 261 c.c. da interpretarsi secondo le regole sulle obbligazioni solidali stabilite nell’art. 1299 c.c. (Cass. 14-12-2016, n. 25723; Cass. 4-11-2010, n. 22506), così mutandosi una precedente impostazione che raffigurava una gestione di affari (Cass. 16-3-1990, n. 2199). 58 Ad es., nella vendita di un immobile, il venditore e il compratore sono solidalmente tenuti al pagamento dell’imposta di registro verso l’amministrazione finanziaria; se però l’imposta grava sul compratore, quale spesa del contratto di vendita ex art. 1475, il venditore, che ne effettui il pagamento, come coobbligato solidale, agisce nell’esclusivo interesse dell’acquirente e, quindi, è legittimato ad esercitare l’azione di regresso nei confronti del compratore per l’intera somma corrisposta, ai sensi degli artt. 1298 e 1299 c.c. (Cass. 30-12-2016, n. 27506). 59 Nell’obbligazione solidale al risarcimento dei danni, ex art. 2055, la prescrizione dell’azione di regresso di uno dei coobbligati decorre dall’avvenuto pagamento e non già dal giorno dell’evento dannoso, poiché il diritto al regresso, per l’art. 2935, non può esser fatto valere prima dell’evento estintivo dell’obbligazione (Cass. 11-10-2019, n. 25698; Cass. 3-11-2004, n. 21056). 60 Ad es., la prescrizione del diritto del genitore ad ottenere dall’altro genitore il rimborso pro quota delle spese anticipate per il mantenimento del figlio nato fuori dal matrimonio decorre dal riconoscimento del figlio da parte dell’altro genitore o dalla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità (Cass. 7-4-2017, n. 9059; Cass. 28-3-2017, n. 7960). 61 I condebitori nei cui confronti il debitore che ha adempiuto fa valere il suo diritto di regresso, possono opporre i fatti estintivi, impeditivi o eliminativi del debito comune solo se questi fatti, essendo precedenti alla data di adempimento, avrebbero potuto essere opposti al creditore nel momento dell’adempimento, e non anche se si tratta di fatti successivi, dei quali pretendano di avvantaggiarsi ai danni del coobbligato che ha pagato (Cass. 1-3-1994, n. 2011).

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buona fede tenere gli altri debitori informati della richiesta di adempimento da parte del creditore (cfr. art. 19522) 62. Mentre l’adempimento del debitore solidale estingue il rapporto obbligatorio, diversamente opera il pagamento con surrogazione (artt. 1201 ss.) che comporta la vicenda modificativa del soggetto attivo del rapporto obbligatorio (VII, 2.7). Anche se non previsto, è da ritenere che sussista il diritto del debitore che ha pagato (e quindi estinto il debito) alla surrogazione legale nei diritti del creditore verso gli altri debitori (art. 1203, n. 3) 63, con conservazione dunque delle garanzie del credito e del regime di eccezioni dell’originario rapporto. 2) Nei rapporti tra concreditori, il creditore che ha ricevuto il pagamento integrale è tenuto a corrispondere a ciascun creditore la quota di riferimento (si tende perciò a parlare di regresso tra concreditori). c) Vita dell’obbligazione. La solidarietà (sia passiva che attiva) si riflette sulla vita del rapporto obbligatorio. L’attuazione del rapporto obbligatorio è segnata da alcune peculiarità. La costituzione in mora di uno dei debitori in solido non ha effetto riguardo agli altri, salvo il disposto dell’art. 1310; la costituzione in mora del debitore da parte di uno dei creditori in solido giova agli altri (art. 1308). Il riconoscimento del debito fatto da uno dei debitori in solido non ha effetto riguardo agli altri; se è fatto dal debitore nei confronti di uno dei creditori in solido, giova agli altri (art. 1309). Il creditore che riceve, separatamente e senza riserva, la parte dei frutti o degli interessi che è a carico di uno dei debitori perde contro di lui l’azione in solido per i frutti o per gli interessi scaduti, ma la conserva per quelli futuri (art. 1312). Quanto al regime delle eccezioni, uno dei debitori può opporre solo le eccezioni comuni agli altri debitori, per investire il titolo o il rapporto obbligatorio, mentre non può opporre le eccezioni personali agli altri debitori; correlativamente il debitore non può opporre a uno dei creditori in solido le eccezioni personali agli altri creditori (art. 1297). Le vicende della posizione soggettiva di uno dei debitori o creditori in solido rispetto agli altri condebitori o concreditori sono ispirate a due principi generali, che spesso operano in modo sinergico: a) non si comunicano i fatti e gli atti pregiudizievoli e si estendono invece quelli vantaggiosi (Relaz. cod. civ., n. 598) 64; b) non si estendono ai condebitori o ai concreditori i fatti inerenti alla sfera personale del singolo debitore 62 Nell’ipotesi di responsabilità da fatto illecito imputabile a più persone, rispetto al giudicato intervenuto tra uno dei condebitori in solido ed il creditore si applica il principio dell’inapplicabilità del giudicato nel giudizio di regresso (Cass. 13-10-2016, n. 20653). L’accertamento del debito nei riguardi di uno solo dei condebitori non richiede la necessaria partecipazione al giudizio anche dell’altro e non fa stato nei suoi confronti; fermo restando che il convenuto in via di regresso è libero di proporre tutte le eccezioni idonee a paralizzare la pretesa dell’attore, anche in relazione a quanto già accertato nella precedente causa cui egli non ha partecipato (Cass. 19-2-2003, n. 2469). 63 Il coobbligato in solido che paga al creditore ha diritto di surrogarsi nei diritti dell’accipiens, per cui regresso e surrogazione devono ritenersi azioni concorrenti complementari pur se non cumulabili, potendo essere esercitate entrambe le relative azioni nei limiti in cui il regresso sia diretto ad ottenere quanto spettante in eccedenza rispetto al credito oggetto della vicenda successoria della surrogazione (Cass. 5-6-2007, n. 13180). 64 Il coobbligato solidale può anche giovarsi del giudicato favorevole formatosi in un giudizio al quale egli non ha partecipato (Cass. 3-8-2005, n. 16332).

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o creditore (Relaz. cod. civ., n. 599). Regole particolari sono dettate per specifiche vicende estintive del rapporto obbligatorio di uno dei condebitori o concreditori, con modi satisfattivi (compensazione 65 e confusione 66) (VII, 1.9.) o con modi non satisfattivi (novazione 67, remissione 68, impossibilità sopravvenuta 69) (VII, 1.12). La transazione fatta dal creditore con uno dei debitori in solido può riguardare l’intera obbligazione, con facoltà degli altri di aderire e profittarne (art. 13041), ovvero può riguardare la sola quota gravante sul transigente, liberando solo questo (art. 13041). È indirizzo diffuso che l’art. 13141 abbia riguardo alla sola transazione totale (cioè sull’intero debito), perché è la comunanza dell’oggetto della transazione a far sì che di questa possa avvalersi il condebitore in solido, pur non avendo partecipato alla sua stipulazione 70. La dichiarazione di volere profittare è espressione di un diritto potestativo del condebitore di adesione all’accordo raggiunto. La riduzione dell’ammontare della debitoria pattuita in via transattiva con uno solo dei debitori opererà anche per gli altri che dichiarino di volersene avvalere, non diversamente da quel che sarebbe accaduto se anch’essi avessero sottoscritto la medesima transazione 71. Parimenti, se è intervenuta tra uno dei creditori in solido e il debitore, la transazione non ha effetto nei confronti degli altri creditori, se questi non dichiarano di volerne profittare (art. 13042). Dibattuta è la transazione parziale (cioè sulla quota del debitore transigente) raggiunta dal creditore con un singolo debitore, tesa ad escludere il singolo condebitore. Non è possibile agli altri debitori profittarne per l’assenza di comunanza di interesse 72. La tran65 Ciascuno dei debitori in solido può opporre in compensazione il credito di un condebitore fino alla concorrenza della parte di quest’ultimo (art. 13021). A uno dei creditori in solido il debitore può opporre in compensazione ciò che gli è dovuto da un altro dei creditori, ma solo per la parte di questo (art. 13022). 66 Se nella stessa persona si riuniscono le qualità di creditore e di debitore in solido, l’obbligazione degli altri debitori si estingue per la parte di quel condebitore (confusione) (13031). Se nella stessa persona si riuniscono le qualità di debitore e di creditore in solido, l’obbligazione si estingue per la parte di questo (art. 13032). 67 La novazione tra il creditore e uno dei debitori in solido libera di regola gli altri debitori; se però la novazione è limitata a uno solo dei debitori, gli altri sono liberati solo per la parte di quest’ultimo (art. 13001). Se convenuta tra uno dei creditori in solido e il debitore, la novazione ha effetto verso gli altri creditori solo per la parte del primo (art. 13002). 68 La remissione a favore di uno dei debitori in solido libera anche gli altri debitori, salvo che il creditore abbia riservato il suo diritto verso gli altri; nel qual caso il creditore non può esigere il credito da questi, se non detratta la parte del debitore a favore del quale ha consentito la remissione (art. 13011). Se la remissione è fatta da uno dei creditori in solido, libera il debitore verso gli altri creditori per la parte spettante al primo (art. 13012). 69 Se l’adempimento dell’obbligazione è divenuto impossibile per causa imputabile a uno o più condebitori, gli altri condebitori non sono liberati dall’obbligo solidale di corrispondere il valore della prestazione dovuta; il creditore può chiedere il risarcimento del danno ulteriore al condebitore o a ciascuno dei condebitori inadempienti (art. 1307). 70 Cass. 7-10-2015, n. 20107. Il diritto potestativo di aderire alla transazione stipulata da altri deve considerarsi tacitamente rinunciato ove l’interessato opti per la instaurazione o la prosecuzione della lite (Cass. 11-7-2013, n. 17198). 71 Cass., sez. un., 30-12-2011, n. 30174. 72 L’art. 13041, nel consentire che il condebitore in solido, pur non avendo partecipato alla stipulazione della transazione tra creditore e uno dei debitori solidali, se ne possa avvalere, si riferisce esclusivamente all’atto di transazione che abbia ad oggetto l’intero debito, mentre non include la transazione parziale che, in quanto tesa a determinare lo scioglimento della solidarietà passiva, riguarda unicamente il debitore che vi aderisce e non può coinvolgere gli altri condebitori, che non hanno alcun titolo per profittarne (Cass. 10-7-2020, n. 14711; Cass., sez. un., 30174/2011 cit.; Cass. 19541/2015; Cass. 16087/2018).

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sazione “sulla quota” comporta lo scioglimento del vincolo solidale rispetto al debitore transigente; incide sulla debitoria provocando la riduzione dell’intero debito in modo diversificato: in una misura pari all’importo pagato (se coerente con la quota di debito) ovvero in una misura pari alla quota del debitore transigente (se l’importo pagato è inferiore alla quota), rimanendo gli altri condebitori obbligati solidalmente al pagamento del debito residuo ciascuno per la propria quota 73. La prescrizione segue il regime generale, adeguato al vincolo solidale. Gli atti con i quali il creditore interrompe la prescrizione contro uno dei debitori in solido, oppure uno dei creditori in solido interrompe la prescrizione contro il comune debitore, hanno effetto riguardo agli altri debitori o agli altri creditori (art. 13101) 74. La sospensione della prescrizione nei rapporti di uno dei debitori o di uno dei creditori in solido non ha effetto riguardo agli altri; tuttavia il debitore che sia stato costretto a pagare ha regresso contro i condebitori liberati in conseguenza della prescrizione (art. 13102). La rinunzia alla prescrizione fatta da uno dei debitori in solido non ha effetto riguardo agli altri; fatta in confronto di uno dei creditori in solido, giova agli altri. Il condebitore che ha rinunziato alla prescrizione non ha regresso verso gli altri debitori liberati in conseguenza della prescrizione (art. 13103). La sentenza pronunziata tra il creditore e uno dei debitori in solido, o tra il debitore e uno dei creditori in solido, non ha effetto contro gli altri debitori o contro gli altri creditori (art. 13061), e non comporta litisconsorzio necessario 75, anche per l’ipotesi di illecito congiuntivo 76. Però gli altri debitori possono opporre la sentenza al creditore, salvo che sia 73 Qualora la transazione stipulata tra il creditore ed uno dei condebitori solidali abbia avuto ad oggetto solo la quota del condebitore che l’ha stipulata, il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido si riduce in misura corrispondente all’importo pagato dal condebitore che ha transatto solo se costui ha versato una somma pari o superiore alla sua quota ideale di debito; se, invece, il pagamento è stato inferiore alla quota che faceva idealmente capo al condebitore che ha raggiunto l’accordo transattivo, il debito residuo gravante sugli altri coobbligati deve essere ridotto in misura pari alla quota di chi ha transatto (Cass., sez. un., 30174/2011 cit.); conf. Cass. 26113/2016. Sono le ipotesi, frequenti nella pratica della responsabilità medica con obbligazione solidale del medico e della struttura sanitaria (pubblica o privata), in cui la compagnia assicurativa della struttura sanitaria o del medico mette a disposizione il massimale e transige con il creditore il debito della struttura o del medico. 74 In tema di risarcimento del danno derivante da fatto illecito imputabile a più danneggianti in solido tra loro ex art. 2055, la diversità dei titoli della responsabilità ascrivibile ai vari coobbligati non incide sull’interruzione del termine di prescrizione, che resta disciplinata dai principi sulle obbligazioni solidali e, segnatamente, dall’art. 13101 (Cass. 5-9-2019, n. 22164). 75 Quando siano convenuti nel medesimo giudizio tutti i condebitori di una obbligazione solidale, poiché quest’ultima determina la costituzione di tanti rapporti obbligatori, quanti sono i condebitori, si realizza la “coesistenza nel medesimo giudizio di più cause scindibili”, rispetto alle quali, in sede d’impugnazione, i motivi di gravame non si comunicano dall’uno all’altro dei coobbligati; pertanto come, rigettato l’appello di uno dei condebitori, questi non può avvalersi, opponendola al creditore, della riforma della sentenza di primo grado pronunciata in accoglimento di uno o più motivi di gravame dedotti da altro condebitore, egualmente – qualora siano rigettati gli appelli di tutti i condebitori – ciascuno di questi non può dedurre quali motivi di ricorso per Cassazione questioni che abbiano formato oggetto di motivi specifici di appello proposti dagli altri condebitori, poiché, in sede di legittimità, tali questioni sarebbero nuove rispetto a lui e, quindi, inammissibili (Cass., sez. un., 18-6-2010, n. 14700); conf. Cass. 11-7-2013, n. 17198; Cass. 22-3-2011, n. 6486. Comune applicazione è in tema di fideiussione (Cass. 17-11-2016, n. 23422). 76 Il carattere solidale dell’obbligazione risarcitoria, escludendo la configurabilità di un rapporto unico ed inscindibile tra i soggetti che abbiano concorso nella produzione del danno, comporta, sul piano processuale, “l’autonomia delle domande cumulativamente proposte” nei confronti degli stessi, la quale impedisce di ravvi-

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fondata sopra ragioni personali al condebitore, e analogamente gli altri creditori possono farla valere contro il debitore, salve le eccezioni personali che questi può opporre a ciascuno di essi (art. 13062). Opera in particolare il c.d. principio del giudicato riflesso, per cui un coobbligato può avvalersi del giudicato favorevole emesso in un giudizio promosso da altro coobbligato anche se non vi ha partecipato, sebbene con le comuni preclusioni processuali 77. Una normativa particolare vale per il deferimento del giuramento 78.

14. Obbligazioni alternative e facoltative. – La rilevanza della dicotomia inerisce alla prestazione dovuta, in funzione del risultato da procurare al creditore. Quando sono dedotte in obbligazione due o più prestazioni, è importante stabilire se il debitore sia obbligato ad eseguire tutte le prestazioni o una sola di esse. Si è visto come l’obbligazione è cumulativa quando sono dedotte in obbligazione più prestazioni. In tale ipotesi bisogna stabilire la connessione tra le prestazioni: se cioè il debitore è tenuto ad eseguire tutte le prestazioni o una sola di esse e con quali modalità: nella seconda ipotesi rileva la distinzione tra obbligazioni alternative e obbligazioni facoltative. a) Nelle obbligazioni alternative due o più prestazioni sono dedotte in obbligazione in modo disgiuntivo e cioè alternativo. Quando le prestazioni sono due, il debitore si libera eseguendo una delle due prestazioni dedotte; non può però costringere il creditore a ricevere parte dell’una e parte dell’altra (art. 1285). Una figura tipica è il legato alternativo (art. 665). Le stesse regole valgono quando le prestazioni dedotte in obbligazione sono più di due (c.d. obbligazioni con alternativa multipla: art. 1291). Le prestazioni possono avere valori diversi già alla costituzione del rapporto obbligatorio o divenire successivamente tali: rileva pertanto la vita dell’obbligazione. Connotato precipuo è la scelta della prestazione dovuta, che determina la c.d. concentrazione dell’obbligazione: a seguito della scelta, la obbligazione diviene semplice. Il potere di scelta spetta di regola al debitore, se non è attribuito al creditore o a un terzo (art. 12861). La scelta può essere compiuta espressamente o tacitamente con la esesare non solo un litisconsorzio necessario tra gli autori dell’illecito, ma anche un rapporto di dipendenza tra l’affermazione o l’esclusione della responsabilità di alcuni di essi e l’accertamento del contributo fornito dagli altri, a meno che la responsabilità dei primi non debba necessariamente essere ricollegata a quella di questi ultimi, per effetto dell’obiettiva interrelazione esistente, sul piano del diritto sostanziale, tra le rispettive posizioni (Cass. 20-12-2012, n. 23650). 77 L’effetto favorevole riflesso può essere invocato solamente da un soggetto che non sia diretto destinatario di un diverso e contrario giudicato formatosi nel frattempo; la mancata impugnazione da parte di uno dei debitori solidali, in quanto soccombenti in giudizio relativamente ad un rapporto obbligatorio scindibile, quale è quello derivante dalla solidarietà, determina il passaggio in giudicato della sentenza nei suoi confronti, ancorché altri condebitori solidali l’abbiano impugnata (Cass. 14-7-2009, n. 16390; Cass. 26-3-2007, n. 7308). Il meccanismo opera anche rispetto alla solidarietà tributaria: la facoltà per il coobbligato d’imposta di avvalersi del giudicato favorevole emesso in un giudizio promosso da un altro coobbligato, secondo la regola generale dell’art. 2306 c.c., opera, come riflesso dell’unicità dell’accertamento e della citata estensibilità del giudicato, sempre che non si sia già formato un giudicato contrario sul medesimo punto (Cass. 23-3-2016, n. 5725). 78 Il giuramento sul debito e non sul vincolo solidale, deferito da uno dei debitori in solido al creditore o da uno dei creditori in solido al debitore, ovvero dal creditore a uno dei debitori in solido o dal debitore a uno dei creditori in solido, produce gli effetti seguenti: il giuramento ricusato dal creditore o dal debitore, ovvero prestato dal condebitore o dal concreditore in solido, giova agli altri condebitori o concreditori; il giuramento prestato dal creditore o dal debitore, ovvero ricusato dal condebitore o dal concreditore in solido, nuoce solo a chi lo ha deferito o a colui al quale è stato deferito (art. 1305).

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cuzione di una delle prestazioni. La scelta diviene irrevocabile con l’esecuzione di una delle prestazioni ovvero con la comunicazione della scelta all’altra parte, o a entrambe le parti se la scelta è fatta da un terzo (art. 12862). Quando il debitore, condannato alternativamente a due prestazioni, non ne esegue alcuna nel termine assegnatogli dal giudice, la scelta spetta al creditore (art. 12871). Se la scelta spetta al creditore e questi non l’esercita nel termine stabilito o in quello fissatogli dal debitore, la scelta passa a quest’ultimo (art. 12872). Se la scelta deve essere fatta da più persone, il giudice può fissare loro un termine; se la scelta non è fatta nel termine stabilito, essa è fatta dal giudice (art. 12863). Analogamente, se la scelta è rimessa a un terzo e questi non la fa nel termine assegnatogli, essa è fatta dal giudice (art. 12873). Un regime articolato è quello della impossibilità della prestazione. Se una delle due prestazioni non poteva formare oggetto di obbligazione o è divenuta impossibile per causa non imputabile ad alcuna delle parti, l’obbligazione si considera semplice sin dall’inizio (art. 1288). Se la prestazione scelta diventa successivamente impossibile per causa non imputabile al debitore, l’obbligazione si estingue 79. Regole articolate operano per l’ipotesi in cui la sopravvenuta impossibilità di una delle prestazioni sia imputabile ad uno dei soggetti. Quando (come di regola) la scelta spetta al debitore, se una delle due prestazioni diventa impossibile per causa a lui imputabile, l’obbligazione alternativa diviene semplice; se una delle due prestazioni diviene impossibile per colpa del creditore, il debitore è liberato dall’obbligazione, qualora non preferisca eseguire l’altra prestazione e chiedere il risarcimento dei danni (art. 12891). Qualora entrambe le prestazioni diventino impossibili e il debitore debba rispondere riguardo a una di esse, egli deve pagare l’equivalente di quella che è divenuta impossibile per ultima, se la scelta spettava a lui; se la scelta spettava al creditore, questi può domandare l’equivalente dell’una o dell’altra (art. 1290). b) Le obbligazioni facoltative, meglio dette con facoltà alternativa, sono caratterizzate per essere una sola prestazione dedotta in obbligazione: è dunque una obbligazione semplice, essendo la prestazione unica e determinata fin dall’origine 80. Non hanno una disciplina specifica, ma la relativa struttura ne indirizza la regolazione. È accordata al debitore la facoltà di liberarsi eseguendo una prestazione diversa, di regola, preventivamente pattuita; più raramente è accordata al creditore la facoltà di scegliere una diversa prestazione 81. In ogni caso, se perisce o diviene impossibile l’unica prestazione dovuta, per causa non imputabile al debitore, l’obbligazione si estingue. Nelle obbligazioni facoltative le vicende della prestazione dovuta (unica dedotta in obbligazione) non si riflettono sull’altra, per essere questa solo oggetto di facoltà soluto79

Per un’applicazione in tema di legato, v. Cass. 4-5-2012, n. 6772. La concisione del linguaggio romano così caratterizzava la distinzione tra obbligazione alternativa e obbligazione facoltativa: nella obbligazione alternativa, duae res, vel plures, sunt in obligatione; una autem in solutione; nella obbligazione facoltativa, una res est in obligatione, duae autem in facultate solutionis. 81 Nella ipotesi in cui sia attribuita al creditore la facoltà di scegliere la diversa prestazione, il creditore decade dalla scelta dopo che il debitore ha eseguito la prestazione dovuta. La prestazione dedotta come oggetto della obbligazione facoltativa si pone accanto a quella dedotta come oggetto della obbligazione principale ed è dovuta solo in via subordinata e secondaria qualora venga preferita dal creditore stesso e costituisca quindi l’oggetto di una sua specifica ed univoca opzione, che, peraltro, può essere esercitata solo fino al momento in cui non vi sia stato l’adempimento della prestazione principale (Cass. 16-8-2000, n. 10853). 80

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ria del debitore. Una fattispecie di obbligazione facoltativa si trova in materia di obbligazioni pecuniarie: se la somma dovuta dal debitore è determinata in una moneta non avente corso legale nello Stato, il debitore ha facoltà di pagare in moneta legale, al corso del cambio nel giorno della scadenza e nel luogo stabilito per il pagamento (art. 1278).

15. Obbligazioni divisibili e indivisibili. – La peculiarità della dicotomia inerisce all’oggetto dell’obbligazione: la legge regola tali obbligazioni nella essenziale prospettiva delle obbligazioni plurisoggettive, per le necessarie differenziazioni con il regime della solidarietà. a) Le obbligazioni indivisibili sono quelle la cui prestazione ha “ad oggetto una cosa o un fatto che non è suscettibile di divisione per sua natura o per il modo in cui è stato considerato dalle parti contranti” (art. 1316). Consegue che la indivisibilità inerisce sempre all’oggetto (cosa o fatto); dove per fatto non si intende il comportamento e dunque la prestazione ma, secondo la norma, l’oggetto del comportamento e dunque l’utilità dovuta. Come si è rilevato, l’obbligazione è divisibile o indivisibile secondo che l’adempimento di ciascuna delle obbligazioni risultanti dal suo frazionamento procuri o no al creditore, proporzionalmente, la stessa utilità che sarebbe offerta dall’adempimento dell’obbligazione totale 82. La indivisibilità è oggettiva quando l’oggetto è in sé non frazionabile in parti (es. consegna di un cavallo o di un televisore); è soggettiva quando le parti considerano l’oggetto e cioè il risultato della prestazione non frazionabile, ancorché lo sia in natura (es. consegna di un carico di merce necessario per il conseguimento di un obiettivo produttivo). Talvolta è la legge a considerare un debito indivisibile. Quando l’obbligazione è plurisoggettiva, si applicano le norme relative alle obbligazioni solidali, in quanto applicabili (art. 1317). Pertanto tutte le obbligazioni indivisibili sono anche solidali, ma non è vero il contrario, appunto per la diversa funzione della indivisibilità e della solidarietà. Risiedendo il fondamento della indivisibilità nella inidoneità dell’oggetto ad essere frazionato in parti, per l’art. 1318 la indivisibilità opera anche nei confronti degli eredi del debitore o di quelli del creditore (diversamente dalla solidarietà per cui l’obbligazione si divide tra gli eredi di uno dei condebitori o di uno dei concreditori in proporzione delle rispettive quote ex art. 1295). Ciascuno dei creditori può esigere l’esecuzione dell’intera prestazione indivisibile; ma l’erede del creditore, che agisce per il soddisfacimento dell’intero, deve dare cauzione a garanzia dei coeredi (art. 1319) 83. b) Le obbligazioni divisibili, per contrapposto, sono quelle la cui prestazione ha ad oggetto una cosa o un fatto divisibili. La rilevanza di queste si coglie con riguardo alle obbligazioni plurisoggettive (quando sussistono più debitori e/o creditori) e non opera la solidarietà; l’obbligazione divisibile è considerata come obbligazione parziaria (VII, 1.12), per cui ciascuno dei creditori può domandare il soddisfacimento del credito solo 82 Si è specificato che il frazionamento dell’oggetto della prestazione debba avvenire in porzioni uguali e contemporanee: le porzioni devono essere uguali al tutto, come criterio di proporzionalità delle utilità; e devono essere contemporanee, in quanto venendo ad esistenza in tempi diversi potrebbero avere valori diversi. 83 Se uno dei creditori ha fatto remissione del debito o ha consentito a ricevere un’altra prestazione in luogo di quella dovuta (dazione in pagamento), il debitore non è liberato verso gli altri creditori (art. 13201). La stessa regola vale in tema di transazione, novazione, compensazione e confusione (art. 13202).

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per la sua parte e ciascuno dei debitori è tenuto a pagare il debito solo per la sua parte (art. 1314). L’unica regola peculiare è introdotta dall’art. 1315, per cui il beneficio della divisione non può essere opposto da quello tra gli eredi del debitore che è stato incaricato di eseguire la prestazione o che è in possesso della cosa dovuta, se questa è certa e determinata. In ogni caso, anche se l’obbligazione è divisibile, il creditore può sempre rifiutare un adempimento parziale, salvo che la legge o gli usi non dispongano diversamente (art. 1181).

16. Obbligazioni pecuniarie (debiti di valuta e debiti di valore). – La peculiarità di tali obbligazioni inerisce alla natura dell’oggetto dell’obbligazione, rappresentata dal danaro (II, 2.4). Sono le obbligazioni più diffuse e più estesamente regolate dal codice civile e da leggi particolari. La specificità delle stesse deriva dal fatto che il danaro, negli ordinamenti valutari moderni, non ha un valore intrinseco: rileva nella società, non per la sua materialità, ma per la duplice funzione assolta di unità di misura dei valori economici e di mezzo generale di scambio. In sostanza rileva per il suo potere di acquisto ed è perciò termine di valutazione dei beni in economia in più direzioni (ad es. nelle forniture di cose o servizi, nelle prestazioni di lavoro, nella determinazione del risarcimento per equivalente, ecc.). È frequente ragione di contestazione la connessione dell’obbligazione con il trattamento fiscale dell’operazione: per la giurisprudenza è il creditore a dovere provare la non inclusione dell’Iva nella somma dovuta dal debitore 84. Per essere il danaro un bene per sua essenza fungibile, di regola ne è sempre possibile la dazione. Ma, come si vedrà, la stringente crisi economica e finanziaria in atto sta facendo emergere la necessità di valutare anche lo sforzo richiesto al debitore nell’adempimento a fronte dei valori coinvolti dal singolo rapporto (VII, 4.2). Da tempo, in funzione della dilatazione delle piazze economiche e di velocizzazione e sicurezza dei mezzi di pagamento, è in atto un processo di progressiva smaterializzazione del danaro, passandosi dal metallo prezioso a quello vile e poi alla carta, fino alla intermediazione bancaria, come mezzo ormai diffuso di pagamento. È anzi prassi diffusa che i pagamenti di maggiore importo siano eseguiti a mezzo bonifici o assegni circolari o bancari (per questi ultimi “salvo buon fine”), il cui rifiuto ingiustificato è peraltro considerato contrario a buona fede 85. Le esigenze del commercio internazionale hanno evidenziato la essenzialità della intermediazione bancaria nella esecuzione degli scambi tra piazze diverse (artt. 1527 ss.). Nell’esperienza recente si fa anche ricorso alla movimentazione elettronica dei fondi e alle tecniche di c.d. moneta elettronica (direttive 2000/46/CE e 2000/28/CE del 18.9.2000, attuate con L. 1.3.2002, n. 39, come modificata dal D.Lgs. 84 L’imposta Iva, disciplinata dal D.P.R. 633/1972, costituisce una parte del quantum dovuto al creditore, la cui prova, secondo i principi generali, incombe su chi ne chieda il relativo pagamento e non sul debitore che ne contesti la spettanza, potendo le parti raggiungere uno specifico accordo in ragione delle condizioni soggettive o di altri profili negoziali (Cass. 19-1-2022, n. 1612; Cass. 19502/2009). 85 L’adempimento, da parte del debitore, della propria obbligazione pecuniaria con un sistema di pagamento con messa a disposizione del “valore monetario” spettante, che assicuri ugualmente la disponibilità della somma dovuta, non legittima il creditore a rifiutare il pagamento stesso essendo all’uopo necessario che il rifiuto sia sorretto anche da un giustificato motivo, che il creditore deve allegare ed all’occorrenza anche provare (Cass., sez. un., 4-6-2010, n. 13658). Per Cass. 10-6-2013, n. 14531, il rifiuto del creditore di riceversi il pagamento con un sistema diverso dalla moneta avente corso legale nello Stato senza un giustificato motivo è contrario al principio di correttezza e buona fede.

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16.4.2012, n. 45, che hanno inserito gli artt. 114 bis ss. nel TUB). Mentre una divisa digitale, legata a strutture private (Bitcoin) 86, sta evidenziando incerti sviluppi. Può oggi ritenersi che l’oggetto dell’obbligazione pecuniaria risieda nel procurare al creditore (attraverso provviste e modalità diversificate) la disponibilità di una somma di danaro. Per riferirsi tali obbligazioni al danaro emergono delicati problemi inerenti all’uso della moneta oggetto di pagamento e al valore economico della stessa. a) Uso della moneta. Problema primo è quello della identificazione della moneta da utilizzare nell’adempimento di un’obbligazione pecuniaria. Per regola generale i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento (art. 12771). È la c.d. valuta, come unità valutaria di uno specifico ordinamento (nazionale o più vasto), nella quale sono espressi i mezzi di pagamento 87. La moneta unica europea (e quindi la valuta europea) è l’Euro (Reg. C.E. 974/1998 e D.Lgs. 24.6.1998, n. 213 e successive modifiche), che ha iniziato il suo corso legale l’1.1.2002; perciò circola “di diritto” nei paesi dell’Unione europea. Per realizzare gli scambi extraeuropei si stabilisce il rapporto delle varie monete con l’Euro. Crescono le limitazioni all’uso del danaro contante, vuoi per contrastare il c.d. riciclaggio di danaro sporco (proveniente da attività criminose) e l’attività terroristica, vuoi per combattere la evasione e l’elusione fiscale; contestualmente sono attivate misure di tracciamento dei pagamenti anche nella stipula dei contratti, con la richiesta di strumenti bancari ed elettronici di trasferimento di fondi. b) Valore della moneta. È essenziale stabilire il rapporto della moneta con la realtà economica, per verificare l’importo necessario per estinguere l’obbligazione. All’uopo è di fondamentale importanza la distinzione tra due modelli di riferimento: debiti di valuta e debiti di valore 88. 1) Di regola la moneta è dedotta in obbligazione per il suo “valore nominale”, per cui la moneta dovuta assume un valore in sé (c.d. debiti di valuta). Sono all’uopo dettati alcuni principi generali, in quanto non siano in contrasto con ulteriori principi derivanti da leggi speciali, secondo la normativa valutaria vigente (art. 1281). I debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il suo valore nominale (art. 12771). Se la somma dovuta era determinata in una moneta che non ha più corso legale al tempo del pagamento, questo deve farsi in moneta legale ragguagliata per valore alla prima (art. 12772) (è avvenuto con l’introduzione dell’Euro in luogo della Lira). Le obbligazioni pecuniarie sono connotate 86 Il meccanismo si fonda su un database distribuito tra i nodi della rete che tengono traccia delle transazioni e sfruttano la crittografia per implementare le caratteristiche più importanti come il fatto di permettere di spendere bitcoin solo al legittimo proprietario, e di poterlo fare una volta sola. I bitcoin possono essere salvati su di un personal computer sotto forma di “portafoglio” o mantenuti presso terze parti che svolgono funzioni simili ad una banca, e venire trasferiti attraverso Internet a chiunque disponga di un “indirizzo bitcoin”. Il sistema è totalmente basato sulla comunità che lo popola: stanno così emergendo i percorsi perversi di tale moneta virtuale, quali l’evasione e l’elusione fiscale, il riciclaggio di danaro, il finanziamento di attività illecite. 87 Nel lessico bancario, l’espressione “giorno di valuta” indica il giorno esatto in cui viene riconosciuto l’accredito o l’addebito di una somma sul conto di un cliente. 88 Bisogna avere riguardo “all’oggetto diretto e originario della prestazione”, che, nelle obbligazioni di valuta, è una somma di danaro a nulla rilevando la eventuale indeterminatezza originaria della stessa, nelle obbligazioni di valore è una cosa diversa dal danaro (Cass. 18-7-2008, n. 19958).

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da un principio nominalistico, per cui il pagamento deve avvenire con la moneta espressa e nell’ammontare indicato, quale che sia il valore economico e dunque il potere di acquisto nel frattempo assunto dalla moneta. Se la somma dovuta è determinata in una moneta non avente corso legale nello Stato, il debitore ha facoltà di pagare in moneta legale, al corso del cambio nel giorno della scadenza e nel luogo stabilito per il pagamento (art. 1278) (grava sul creditore il rischio della oscillazione del cambio); la disposizione non si applica se la moneta non avente corso legale nello Stato è indicata con la clausola “effettivo” o altra equivalente, salvo che alla scadenza dell’obbligazione non sia possibile procurarsi tale moneta (art. 1279). Il fenomeno era diffuso nei rapporti commerciali prima della introduzione dell’euro, facendosi ad es. obbligo alla impresa debitrice di pagare con dollaro statunitense o marco tedesco, così da neutralizzare gli effetti della svalutazione della lira. Il principio nominalistico ha il vantaggio di offrire certezza alla misura del debito e di contenere l’inflazione; ma ha anche i suoi effetti distorti, facendo risentire al creditore le conseguenze della svalutazione monetaria: sul creditore grava il rischio dell’inflazione. 2) Diversamente avviene quando la moneta è dedotta in obbligazione in funzione di parametro di un diverso bene (debiti di valore). La prestazione, pur consistendo nella corresponsione di una somma di danaro, assume una funzione succedanea di un diverso bene dovuto: l’obbligazione ha ad oggetto una somma di danaro, considerata non in quanto tale fin dall’inizio (cioè determinata con riferimento all’unità valutaria, come nella obbligazione di valuta), bensì come espressiva di un valore reale cui è ragguagliata al momento del pagamento. Tipica è l’obbligazione di risarcimento danno derivante da fatto illecito (contrattuale o extracontrattuale: artt. 1218 e 2043). Il danaro assume la mera funzione di metro di ricostituzione di un valore economico, al fine di reintegrare l’interesse leso: la somma da corrispondere è proporzionale alla natura e alla intensità della lesione, ed è determinata in corrispondenza di un valore economico reale da ricostituire, riferito al momento della reintegrazione (per il danno non patrimoniale, è generalmente determinato in via equitativa, ai sensi degli artt. 2059, 2056 e 1226). Ad es., a seguito di un incidente stradale, il responsabile del sinistro è obbligato, a titolo di risarcimento danni, a corrispondere una somma sufficiente a reintegrare più voci, come la riparazione dell’auto danneggiata, il ristoro del proprietario per la sosta tecnica dell’auto, l’eventuale ulteriore ristoro per lesione alla salute, ecc. Anche l’inadempimento di una obbligazione non pecuniaria, se è impossibile la prestazione in forma specifica, dà luogo ad una obbligazione risarcitoria sostitutiva che ha natura di debito di valore. L’operazione rivolta alla quantificazione della (complessiva) somma dovuta dall’autore del danno per reintegrare i danni prodotti è la “liquidazione del danno”, con la quale è determinato il debito dell’autore dell’illecito per il ristoro dei danni arrecati (determinazione del debito): la somma dovuta per il ristoro della vittima (c.d. debito di valore) si converte in uno specifico importo dovuto, determinato all’attualità della liquidazione, diventando debito di valuta. In sostanza il debito di valore è sottratto al principio nominalistico. Il debito di valore inizia a operare dalla data dell’illecito; con la liquidazione è valutato il danno da risarcire, convertendosi in debito di valuta, con maturazione degli interessi sulla somma rivalutata (come appresso si vedrà).

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c) Rivalutazione. Per ovviare alla rigidità del principio nominalistico, esistono molteplici meccanismi di riequilibrio della svalutazione monetaria, in grado di garantire al creditore il conseguimento di un valore economico (c.d. reale) ragguagliato all’importo fissato al momento della costituzione del rapporto: il danaro è cioè dedotto in obbligazione per il valore economico che lo stesso esprime. Tali meccanismi possono provenire dalla legge o essere concordati tra i privati. Sono crescenti le aree di previsione legale di criteri di rivalutazione: si pensi all’assegno di divorzio, relativamente al quale l’art. 57 L. 1.12.1970, n. 898, prevede che la sentenza che dispone un assegno divorzile deve prevedere un criterio di adeguamento automatico dell’assegno, almeno con riferimento agli indici di svalutazione monetaria, tranne espressa esclusione del tribunale in caso di palese iniquità (criterio applicato anche all’assegno di mantenimento); si pensi anche ai crediti di lavoro, rispetto ai quali l’art. 4293 c.p.c. prevede che la sentenza di condanna al pagamento di somme di danaro per crediti di lavoro deve determinare, oltre gli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito, con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto; analogamente è previsto con riguardo a somme dovute per controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatoria (art. 442 c.p.c.). Tra i criteri di rivalutazione convenzionale, già il codice civile consente ai privati di ancorare il pagamento ad una valuta estera forte. Spesso i privati utilizzano clausole di salvaguardia monetaria con le quali l’importo dovuto è ancorato al corrispondente valore di un metallo (oro, diamante, ecc.) o di un diverso bene (es. petrolio) (la più diffusa per il passato era la c.d. “clausola oro”, con la quale il debitore si impegnava a pagare, alla scadenza, una somma corrispondente al valore di una quantità di oro stabilita all’atto della costituzione del rapporto). Oggi è più frequente il ricorso a clausole di indicizzazione della somma dovuta al costo della vita, quale è accertato dall’Istituto di statistica (c.d. indici Istat): la crescita percentuale del costo della vita comporta l’automatico incremento dell’importo dovuto dal debitore (es. 2 per cento, ecc.).

17. Il regime degli interessi. – È acquisita alla scienza economica la naturale fecondità del danaro. In ragione di ciò l’ordinamento connette alla obbligazione pecuniaria (quale che sia la sua fonte e la sua causa) l’obbligazione accessoria di pagamento degli interessi per il fatto in sé di utilizzare danaro altrui o di essere in ritardo nel pagamento 89. Per il rapporto di accessorietà che lega gli interessi al capitale, la sorte degli interessi segue le vicende del capitale, anche con riferimento al termine di prescrizione 90. a) Funzione degli interessi. È possibile ricondurre le variegate ipotesi di corresponsione di interessi a due fondamentali funzioni: remuneratoria e sanzionatoria. 1) La funzione remuneratoria attiene alla utilizzazione di danaro altrui o destinato ad 89

L’art. 8103 considera frutti civili quelli che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia. Tali sono considerati, tra gli altri, “gli interessi dei capitali”. 90 L’accessorietà del credito di interessi rispetto a quello del capitale determina l’omogeneità del regime della prescrizione; pertanto ove il termine prescrizionale del capitale non possa decorrere, vale lo stesso dies a quo per il decorso di quello degli interessi (Cass. 15-10-2013, n. 23385).

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altri. Rilevano due categorie di interessi con funzione remuneratoria, in ragione del rispettivo fondamento: corrispettivi e compensativi. La qualifica di interessi corrispettivi non è nella legge ma è tradizionalmente impiegata per indicare gli interessi dovuti da un soggetto in via corrispettiva al godimento del danaro da altri prestatogli (c.d. frutti civili): sono dovuti in funzione correlativa del vantaggio che il debitore ritrae dal trattenere presso di sé somme di danaro ricevute in prestito o lasciate in sua disponibilità. Rileva la Relaz. cod. civ. come, negli interessi corrispettivi, la prestazione degli interessi assume il carattere di compenso per l’uso legittimo del danaro, come è nell’essenza della corrispettività (n. 570). Per l’art. 18151 il mutuatario deve corrispondere gli interessi al mutuante, salvo diversa volontà delle parti (per la determinazione degli interessi si osserva l’art. 1284). Per l’art. 12821, “i crediti liquidi ed esigibili di somme di danaro producono interessi di pieno diritto”, salvo che la legge o il titolo non dispongano diversamente 91. Devono ricorrere entrambi i requisiti di liquidità 92 e esigibilità 93: i crediti devono dunque essere liquidi (cioè determinati nel loro ammontare) e esigibili (cioè scaduti), perché solo con riferimento a questi il creditore ha diritto di realizzare il proprio credito 94. La maturazione degli interessi è di diritto e cioè automatica, quale corrispettivo del vantaggio conseguente all’uso del danaro altrui 95. Gli interessi compensativi hanno la funzione equitativa di ristabilire l’equilibrio economico tra i contraenti, tendendo a compensare l’una parte del mancato godimento dei frutti della cosa consegnata all’altra parte prima di ricevere la controprestazione. Tali interessi operano quando i crediti non sono liquidi ed esigibili, e quindi non può operare il criterio corrispettivo generale dell’art. 12821 innanzi delineato, ma intanto il debitore trae vantaggio dalla complessiva operazione. Un riferimento specifico è in materia di vendita: salvo diversa pattuizione, quando la cosa venduta è stata consegnata al compra91 Ad es., salvo patto contrario, i crediti per fitti e pigioni non producono interessi se non dalla costituzione in mora (art. 12822). Se il credito ha per oggetto rimborso di spese fatte per cose da restituire, non decorrono interessi per il periodo di tempo in cui chi ha fatto le spese abbia goduto della cosa senza corrispettivo e senza essere tenuto a render conto del godimento (art. 12823). 92 La liquidità del credito – cioè la determinazione del suo ammontare in una quantità definita, o la sua determinabilità mediante meri calcoli aritmetici in base ad elementi o criteri prestabiliti dal titolo o dalla legge – è una caratteristica oggettiva sulla quale non incide l’eventuale contestazione da parte del debitore, che attiene all’accertamento del credito, non alla sua consistenza (Cass. 29-11-2006, n. 25365). 93 Per le locazioni di immobili urbani adibiti ad attività commerciale, l’obbligazione gravante sul conduttore di rilasciare l’immobile alla scadenza e l’obbligazione gravante sul locatore di corrispondergli l’indennità di avviamento commerciale sono legate da un rapporto di reciproca dipendenza, tanto che ciascuna delle prestazioni non è esigibile in mancanza dell’adempimento, o dell’offerta di adempimento dell’altra; consegue che gli interessi sulla somma dovuta a titolo di indennità di avviamento commerciale non iniziano a decorrere finché non è avvenuto il rilascio dell’immobile (Cass. 25-2-2014, n. 4443). 94 Gli interessi corrispettivi decorrono dalla data in cui il credito è divenuto liquido ed esigibile, cioè da quando l’importo è determinato e il pagamento non è, o non è più, dilazionato da termine o condizione, senza che in contrario rilevi che il debitore fosse impedito a pagare da sequestri o pignoramenti eseguiti sulle somme dovute, in quanto tale temporanea indisponibilità, estrinseca al credito, non fa venir meno il vantaggio che il debitore ritrae dal trattenere le somme (Cass. 22-12-2011, n. 28204). 95 Ad interessi corrispettivi hanno anche riguardo specifiche normative: ad es., per il mutuo, il mutuatario deve di regola corrispondere gli interessi al mutuante per le somme prese a prestito (art. 1815); rispetto al conto corrente, sulle rimesse decorrono gli interessi (art. 1825); per il contratto di locazione, il deposito cauzionale è produttivo di interessi legali, che il locatore deve corrispondere al conduttore alla fine di ogni anno (art. 11 L. 392/1978).

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tore e questa produca frutti o altri proventi, decorrono gli interessi sul prezzo, anche se questo non è ancora esigibile (art. 1499) 96. Altre ipotesi sono di derivazione giurisprudenziale: le più ricorrenti sono in tema di fatti illeciti, relativamente al ritardo nel pagamento della somma dovuta a titolo di risarcimento per equivalente (artt. 1223 e 2056) 97, riconnettendosi alla delineata configurazione di debito di valore dell’obbligazione risarcitoria, con connessa rivalutazione della somma dovuta 98. Altre ipotesi sono in tema di ingiustificato arricchimento, per il ritardo nel pagamento dell’indennizzo (art. 2041) (XI, 1.8); in materia di espropriazione, con riguardo al ritardo nel pagamento della somma dovuta a titolo di “indennità” per espropriazione. 2) La funzione sanzionatoria attiene al ritardo colpevole nell’adempimento dell’obbligazione. Vengono in rilievo i c.d. interessi moratori, cioè gli interessi dovuti a titolo di risarcimento del danno per il ritardo ingiustificato nel pagamento dovuto, attraverso una valutazione presuntiva e forfettaria dell’ordinamento; perciò operano senza necessità di fornire la prova di avere sofferto un danno (art. 12241): per la Relaz. cod. civ., n. 570, a seguito della mora, la prestazione di interessi assume il carattere di compenso per il ritardo 99. È necessaria la preventiva caduta in mora del debitore, previa costituzione in mora o in via automatica (se ne parlerà trattando della mora del debitore: VII, 4.6). Se il creditore dimostra di avere sofferto un “danno maggiore”, gli spetta l’ulteriore risarcimento (art. 12242), cui si connette la problematica della svalutazione monetaria (VII, 4.7). Se il 96 Per Cass. 11-5-2007, n. 10884, gli interessi compensativi sono previsti per una funzione equitativa, “mirando a compensare il creditore del mancato godimento dei frutti della cosa da lui consegnata all’altra parte prima di riceverne la controprestazione”; attesa la loro peculiare finalità, sono dovuti, “a differenza degli interessi moratori, indipendentemente dalla mora e dall’inadempimento”, e, “a differenza dagli interessi corrispettivi, a prescindere dalla liquidità ed esigibilità del credito”, sempre che di questo, tuttavia, siano provate la certezza e la definitività; gli interessi compensativi non maturano quando una cosa è consegnata prima del pagamento del prezzo in esecuzione di specifica clausola contrattuale, perché in tale ipotesi l’anticipata consegna della cosa rispetto al pagamento del prezzo è componente della complessiva regolamentazione degli interessi (Cass. 14-5-2018, n. 11605; Cass. 19-4-2006, n. 9043). 97 Il dies a quo della liquidazione va individuato nelle date di consumazione degli illeciti; il dies ad quem, invece, va individuato nella data di pubblicazione della sentenza che liquida il danno; sull’importo totale, così calcolato, sono dovuti gli interessi legali dalla pubblicazione della decisione fino all’effettivo soddisfo ex art. 12821. A seguito della pubblicazione, difatti, tutte le somme per cui è condanna risarcitoria divengono certe, liquide ed esigibili, determinandosi la conversione del debito di valore in debito di valuta e devono pertanto essere calcolati gli interessi c.d. corrispettivi o di diritto. Gli interessi compensativi sulla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno (contrattuale o extracontrattuale) costituiscono una componente di quest’ultimo e, nascendo dal medesimo fatto generatore della obbligazione risarcitoria, devono ritenersi ricompresi nella domanda di risarcimento e possono essere liquidati d’ufficio (Cass. 15-2-2017, n. 4028). Secondo i criteri seguiti costantemente dalla Cassazione (sez. un., 17-2-1995, n. 1712; 10-3-2006, n. 5234), devono essere corrisposti gli interessi legali sulla somma rivalutata, anno per anno. 98 Secondo i criteri seguiti costantemente dalla Cassazione (sez. un., 17-2-1995, n. 1712; sez. III, 10-3-2006, n. 5234), devono essere corrisposti gli interessi legali sulla somma rivalutata, anno per anno. 99 Nei rapporti bancari, in caso di contratto di mutuo, gli interessi corrispettivi e quelli moratori contrattualmente previsti vengono percepiti ricorrendo presupposti diversi ed antitetici, giacché i primi costituiscono la controprestazione del mutuante e i secondi hanno natura di clausola penale, in quanto costituiscono una determinazione convenzionale preventiva del danno da inadempimento; essi, pertanto, non si possono fra loro cumulare; tuttavia, qualora il contratto preveda che il tasso degli interessi moratori sia determinato sommando al saggio degli interessi corrispettivi previsti dal rapporto un certo numero di punti percentuale, è al valore complessivo risultante da tale somma, e non ai soli punti percentuali aggiuntivi, che occorre aver riguardo al fine di individuare il tasso degli interessi moratori effettivamente applicati (Cass. 17-10-2019, n. 26286; Cass. 28-6-2019, n. 17447).

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creditore di un debito di valuta dimostra di avere sofferto un “danno maggiore” dal ritardo di pagamento per la intervenuta svalutazione monetaria, gli spetta l’ulteriore risarcimento (art. 12242), cui si connette la problematica della rivalutazione monetaria (VII, 4.7). Se il creditore di un debito di valuta dimostra di avere sofferto un “danno maggiore” dal ritardo di pagamento per la intervenuta svalutazione monetaria, gli spetta l’ulteriore risarcimento (art. 12242), cui si connette la problematica della rivalutazione monetaria (VII, 4.7). Possono essere considerati usurari sia gli interessi corrispettivi che quelli moratori (VIII, 9.13). Tutti i tipi di interessi (corrispettivi, compensativi o moratori), benché correlati alla obbligazione pecuniaria principale, devono formare oggetto di domanda 100. b) Fonte e saggio degli interessi. Quanto alla fonte, gli interessi possono derivare dalla legge (interessi legali) oppure essere previsti dagli usi o fissati dalle parti (interessi convenzionali). Coerentemente sono determinati i tassi di interessi. 1) Gli interessi legali sono regolati dalla legge, che stabilisce la maturazione di diritto e cioè automatica degli interessi: si è già detto della generale previsione degli interessi corrispettivi che maturano di diritto (art. 12821). Si pensi anche alla maturazione degli interessi legali in favore del conduttore sulla somma oggetto di deposito cauzionale (art. 11 L. 27.7.1978, n. 392). Si pensi ancora al regime degli interessi moratori nelle transazioni commerciali (D.Lgs. 9.10.2002, n. 231, recante attuazione della direttiva 2000/35/CE, come modificato dal D.Lgs. 9.11.2012, n. 192). Indipendentemente dalla funzione assolta dagli interessi e dalla fonte di derivazione (c.d. titolo), in assenza di diversa indicazione, opera la misura legale degli interessi (c.d. saggio o tasso degli interessi). Il Ministro del tesoro, con proprio decreto pubblicato nella G.U. non oltre il 15 dicembre dell’anno precedente a quello cui il saggio si riferisce, può modificarne annualmente la misura, sulla base del rendimento medio annuo lordo dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi e tenuto conto del tasso di inflazione registrato nell’anno (art. 12841). Gli interessi superiori alla misura legale devono essere determinati per iscritto; altrimenti sono dovuti nella misura legale (art. 12843). Se le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale o è promosso procedimento arbitrale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (art. 12844-5). 2) Gli interessi convenzionali sono pattuiti tra creditore e debitore all’atto della costituzione del rapporto obbligatorio o successivamente, attraverso una specifica indicazione o anche con il solo rinvio a istituzioni e criteri di determinazione. Se la misura fissata è superiore a quella legale, deve essere determinata per iscritto; altrimenti gli interessi sono dovuti nella misura legale (art. 12843). Quando è necessaria la forma scritta ad substantiam, è a tal fine inidonea una ricognizione del debito, che è atto successivo alla nascita del debito. È invece sufficiente che nel documento risulti una indicazione per relationem del tasso di interesse 101. In ogni caso gli interessi convenzionali non possono essere usurari,   100 Gli interessi hanno fondamento autonomo rispetto alla domanda principale alla quale accedono, onde essi possono essere attribuiti solo su espressa domanda della parte in applicazione dei principi degli artt. 99 e 112 c.p.c.; con esclusione dei soli interessi su somma dovuta a titolo di risarcimento del danno, i quali integrano una componente del danno nascente dal medesimo fatto generatore, il cui riconoscimento avviene perciò automaticamente con la liquidazione (Cass. 7-3-2016, n. 4450). 101 Secondo Cass. 22-3-2005, n. 6187, l’obbligo della forma scritta ad substantiam imposto dall’art. 12843 per la pattuizione di interessi convenzionali eccedenti la misura legale è soddisfatto anche quando nel documento le parti indichino criteri certi e oggettivi, che consentano la concreta quantificazione del tasso di interesse.

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integrandosi allora il reato di usura, previsto e punito dall’art. 644 c.p. Con riguardo al mutuo, ma la previsione si considera di generale applicazione, se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi (art. 18152) 102. A fronte di tale generale impianto, stanno emergendo discipline particolari, talvolta di maggior tutela del debitore 103, talaltra di maggiore protezione del creditore 104. Dibattuto è il tasso di interesse praticato dalle banche per l’erogazione di prestiti (costo del danaro) (IX, 4.8).

18. Segue. L’anatocismo. – In mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi nei limiti fissati dalla legge. È il c.d. anatocismo, che matura appunto interessi anatocistici; tecnicamente è la maturazione di interessi su interessi (interessi composti) 105: gli interessi scaduti (cioè maturati) e non pagati diventano capitale (c.d. capitalizzazione degli interessi), sicché sono suscettibili di produrre a loro volta interessi. Il meccanismo è stato tradizionalmente visto con disfavore per l’incremento (spesso incontrollabile) della misura del debito, anche se di recente ha ricevuto una inquietante e discutibile applicazione legislativa nel prestito vitalizio ipotecario (VII, 6.14). L’art. 1283 ammette l’anatocismo, ma lo sottopone a penetranti limiti, che operano come altrettanti presupposti di operatività. L’anatocismo può operare solo con riguardo a interessi scaduti e dovuti almeno per sei mesi. Inoltre, quanto alla fonte, gli interessi anatocistici vanno pattuiti con convenzione posteriore alla scadenza degli interessi semplici, ovvero vanno richiesti con domanda giudiziale, specificamente e ritualmente formulata, con decorrenza dalla domanda 106. L’art. 1283 fa salvi da tali limiti gli “usi contrari”. La previsione è stata alla base della prassi bancaria di imporre la capitalizzazione trimestrale degli interessi, inserita tra “le norme bancarie uniformi” predisposte dall’Abi tradizionalmente considerate integrare specifici usi. La giurisprudenza ha precisato che deve trattarsi di “usi normativi” e non negoziali e non ha ravvisato l’esistenza di usi normativi in tal senso nel vigore del codice civile 107. L’attuale testo dell’art. 1202 D.Lgs. 385/1993 (t.u. bancario), aggiunto dall’art.   102

L’art. 1815 è stato novellato con L. 7.3.1996, n. 108 (per approfondimenti IX, 4.8). Nel settore bancario, il D.Lgs. 1.9.1993, n. 385 (TUB) prescrive che i contratti bancari devono essere redatti per iscritto a pena di nullità e un esemplare va consegnato ai clienti; i contratti devono indicare il tasso d’interesse ed ogni altro prezzo e condizione praticati, considerandosi nulle e come non apposte le clausole contrattuali di rinvio agli usi per tali determinazioni (art. 117); prescrive inoltre che i contratti di credito al consumo devono indicare, a pena di nullità, il “tasso annuo effettivo globale” (Taeg), che è il costo totale del credito a carico del consumatore, comprensivo degli interessi e di tutti gli oneri da sostenere per utilizzare il credito, espresso in percentuale annua del credito concesso (art. 122). 104 Nel settore delle transazioni commerciali tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni, che comportano la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo, è stata particolarmente tutelata la posizione del creditore (D.Lgs. 9.10.2002, n. 231, recante attuazione della direttiva 2000/35/CE, come modificato dal D.Lgs. 9.11.2012, n. 192). 105 Il termine “anatocismo” deriva dal greco anatokismos, composto di ana (di nuovo) e tokismos (usura). 106 La giurisprudenza ha riconosciuto la maturazione di interessi anatocistici anche con riguardo ai crediti dei contribuenti verso l’Amministrazione finanziaria per rimborsi di somme relative a tributi non dovuti, considerandosi ammissibile nel processo tributario (e perciò innanzi alle Commissioni tributarie) la domanda di pagamento di interessi anatocistici con le stesse regole di diritto civile comuni a pubblici e privati operatori (Cass. 8-3-2006, n. 4935; Cass. 1-7-2004, nn. 12043 e 12060). 107 Secondo Cass. 20-2-2003, n. 2593, gli usi normativi contrari, cui espressamente fa riferimento l’art. 1283, sono soltanto quelli formatisi anteriormente all’entrata in vigore del codice civile (né usi contrari avrebbero potuto formarsi in epoca successiva, atteso il carattere imperativo dell’art. 1283). 103

CAP. 1 – RAPPORTO OBBLIGATORIO

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25 D.Lgs. 342/1999 e poi sostituito dalla L. 147/2014 e ancora novellato dalla L. 8.4.2016, n. 49 (di conversione con modificazioni del D.L. 14.2.2016, n. 18), ha fissato i limiti di operatività dell’anatocismo (IX, 4.8).

19. Obbligazioni con funzioni tipizzate. – È in corso un processo di accentuata specializzazione dei rapporti obbligatori in ragione della funzione assolta e della qualità dei soggetti coinvolti. A fianco di una normativa generale del rapporto obbligatorio contenuta nei Capi da 1 a 6 del Libro IV del codice civile, neutra rispetto ai contesti socioeconomici, sussistono discipline particolari di specifici rapporti obbligatori, in funzione della tipologia degli interessi attuati e della rilevanza degli stessi nel tessuto sociale: operano nella dimensione attiva come in quella passiva, ovvero impegnano discipline di composizione delle inadempienze. a) La dimensione dello stato di bisogno è declinata nel codice civile specie nella dimensione esistenziale e delle relazioni familiari, con la previsione della obbligazione di alimenti (artt. 433 ss.). È significativo che la disciplina sia collocata nel Libro I dedicato a persone e famiglia: è una obbligazione di ordine pubblico, così da limitare fortemente l’autonomia dei soggetti circa la determinazione del contenuto e le vicende del rapporto obbligatorio (il credito alimentare non può essere ceduto e il debitore non può opporlo in compensazione: art. 447) (V, 1.7). Nei rapporti familiari l’obbligazione di mantenimento assume particolari presidi, tra i soggetti della coppia e rispetto ai figli. b) Sussistono significative posizioni nel mercato che reclamano sostegno nell’attuazione del credito, come ad es. il credito per prestazione di lavoro. Nella normativa europea stanno imponendosi le qualifiche di “consumatore” e “professionista”, che reagiscono sulla disciplina generale delle obbligazioni e dei contratti 108, sì da segnare statuti diversificati dei rapporti del consumatore con le imprese fornitrici di beni e servizi (VIII, 1.9; IX, 4.9). c) Nei rapporti con il fisco, è emerso uno statuto specifico della obbligazione tributaria, connesso all’assolvimento di interessi pubblici e perciò indisponibile dall’amministrazione tributaria (XI, 1.9). d) Assume crescente rilevanza la debitoria, come declinazione dinamica dei debiti, che non rilevano nella loro specificità ma in funzione del valore complessivo del blocco. In presenza di una esposizione di più debiti verso vari creditori, si tende a gestire e comporre complessivamente la debitoria, vuoi nella collocazione sul mercato attraverso la cartolarizzazione, vuoi per consentire una continuità aziendale nella crisi di impresa, vuoi per fronteggiare disagi e necessità familiari e professionali da sovraindebitamento (VII, 8).

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Il legislatore tedesco ha modificato la normativa del codice civile (BGB) con più interventi organici: con una legge del 2000 sono state introdotte le qualifiche di “professionista” e “consumatore” nel codice (e dunque nella disciplina fondamentale dei rapporti privati) (II, 1.3); con la legge in vigore dal 2002 di modernizzazione del diritto delle obbligazioni (Schuldrecht), è stata riorganizzata la intera materia delle obbligazioni in coerenza con gli interventi comunitari. È da immaginare che tale modello finirà con l’imporsi agli altri Stati europei, per la esigenza di un testo organico della variegata normativa esistente.

CAPITOLO 2

MODIFICAZIONI DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO (Vicende modificative)

Sommario: 1. Generalità. – A) MODIFICAZIONI NEL LATO ATTIVO. – 2. L’acquisizione del credito altrui (e successione nel credito). – 3. Cessione del credito. Titolo e divieto di cessione. – 4. Segue. Efficacia della cessione. – 5. Segue. Cessione di pluralità di crediti. Il factoring. – 6. Segue. Cartolarizzazione dei crediti. – 7. Pagamento con surrogazione. – 8. Delegazione attiva. – B) MODIFICAZIONI NEL LATO PASSIVO. – 9. L’assunzione del debito altrui (e successione nel debito). – 10. Delegazione passiva. – 11. Espromissione. – 12. Accollo. – C) MODIFICAZIONI OGGETTIVE. – 13. Modificazioni non novative. – 14. Surrogazione reale.

1. Generalità. – Durante la vita del rapporto obbligatorio possono determinarsi modificazioni del rapporto, più spesso dei soggetti (vicende modificative soggettive), più di rado dell’oggetto (vicende modificative oggettive). Con riguardo alle vicende modificative soggettive, c’è da prendere atto che il diritto di credito si presenta nella realtà economica come un bene, fonte di utilità per il creditore, e pertanto suscettibile di circolazione come un qualunque altro bene: è un aspetto del generale fenomeno della c.d. mobilizzazione della ricchezza. Può determinarsi un mutamento dei soggetti, così nel lato attivo (cioè con riguardo alla persona del creditore), come nel lato passivo (cioè con riferimento alla persona del debitore). Una prospettiva particolare è quella della successione per causa di morte, per subentrare l’erede nella universalità o in una quota dei rapporti giuridici di carattere patrimoniale facenti capo al defunto (c.d. successione a titolo universale); diversamente opera il legato che fa subentrare il legatario in un singolo rapporto (c.d. successione a titolo particolare) (art. 588) (XII, 1.1). Nel presente capitolo si parla delle vicende modificative soggettive di un singolo rapporto obbligatorio e perciò, rispettivamente, nel lato attivo o nel lato passivo del rapporto (in virtù di un negozio tra vivi o in forza della legge). Si vedrà come, nella vita economica, è diffusa la successione contestuale in plurimi rapporti obbligatori connessi: ad es., la cessione di contratto a prestazioni corrispettive comporta il subentro del cessionario nella posizione contrattuale del cedente, che si compone di debiti e crediti (artt. 1406 ss.) (VIII, 6.13); nella successione per causa di morte l’erede subentra nella universalità o in una quota dei rapporti del defunto (c.d. successione a titolo universale) e i legatari in singoli rapporti (c.d. successione a titolo particolare) (art. 588) (XII, 1.1); con riguardo alla cessione di azienda, il cessionario subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda e perciò nei crediti e nei debiti afferenti l’azienda (art. 2558). In tali ipotesi la

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disciplina delle vicende del singolo rapporto va adattata e resa coerente con le discipline delle vicende di più rapporti connessi. In tali ipotesi la disciplina delle vicende del singolo rapporto va adatta e resa coerente con la successione in più rapporti. Più rare sono le vicende modificative oggettive, con le quali si muta l’oggetto dell’obbligazione, che resta in vita, accordandosi al creditore il diritto di conseguire un bene diverso o parzialmente diverso da quello originariamente oggetto della obbligazione (per accordo delle parti o in virtù della legge) (se ne parla alla fine del capitolo).

A) MODIFICAZIONI NEL LATO ATTIVO 2. L’acquisizione del credito altrui (e successione nel credito). – La modificazione nel lato attivo si realizza con la successione di un terzo nella posizione del creditore. Di regola per il debitore è indifferente se il creditore sia quello originario o muti nel tempo, essendo in ogni caso obbligato a eseguire la prestazione dovuta. Perciò la disposizione del credito e in genere la sua circolazione non è circondata da tutte le limitazioni che, si vedrà, caratterizzano la successione nel debito, risultando solo importante che il debitore conosca verso chi deve adempiere l’obbligazione. Non mancano ipotesi in cui ricorrono ragioni che precludono la modificazione nel lato attivo. Tratto comune è l’acquisizione del credito altrui. Acquisendo il credito si determina la successione del terzo nel credito, con subentro nella titolarità della posizione del creditore: l’acquisto è a titolo derivativo in quanto trae fondamento da un rapporto con il precedente titolare. I modi di acquisizione del credito altrui a titolo particolare, per atto tra vivi, sono: la cessione del credito, il pagamento con surrogazione e la delegazione attiva, di seguito analizzati. L’impianto del codice civile è in funzione della vicenda del singolo credito (cui ha riguardo specifico la cessione del credito). Si vedrà come sempre più di sovente rilevi la dimensione funzionale del credito nella complessità della debitoria, assumendo valore il blocco dei crediti, come si vedrà trattando del factoring (par. 4), della cartolarizzazione (par. 5) e in generale della gestione della debitoria (VII, 8). 3. Cessione del credito. Titolo e divieto di cessione. – Il credito è un normale bene economico e pertanto, come tale, è suscettibile di collocazione sul mercato, consentendo operazioni di finanziamento, spesso inserite in una complessa operazione economica; per i crediti pecuniari, la natura del credito ne agevola la realizzazione e la circolazione. È anche ammessa la cessione del credito risarcitorio 1. Con riguardo alla operazione di cessione, c’è da delineare il titolo della cessione e la efficacia del trasferimento; come c’è da dare conto dei divieti di cessione previsti dalla legge o voluti dalle parti. a) Titolo della cessione. Per l’art. 12601 il creditore può trasferire, a titolo oneroso o gratuito, il proprio credito anche senza il consenso del debitore. Il relativo contratto si perfeziona con il consenso tra creditore (cedente) e terzo (cessionario), senza necessità del1

Il credito di risarcimento del danno da sinistro stradale è suscettibile di cessione ex artt. 1260 ss. e il cessionario può, in base a tale titolo, domandarne anche giudizialmente il pagamento al debitore ceduto, pur se assicuratore per la r.c.a., non sussistendo alcun divieto normativo in ordine alla cedibilità del credito risarcitorio (Cass. 28-8-2019, n. 21765; Cass. 3-10-2013, n. 22601; Cass. 10-1-2012, nn. 51 e 52).

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l’accettazione o anche solo dell’intervento del debitore (ceduto) 2. Il medesimo termine “cessione” vale così ad indicare, sia il titolo della cessione (il contratto che la realizza), sia l’effetto (la vicenda traslativa che ne consegue). In questo paragrafo si parlerà del titolo, nel successivo della efficacia. Non sussiste un’autonoma causa del negozio di cessione del credito. Secondo i generali criteri di raggruppamento dei negozi sul terreno della causa (VIII, 3.18), la cessione del credito può essere a titolo oneroso o a titolo gratuito (art. 12601); è quindi a causa variabile, in ragione del rapporto causale realizzato tra sacrificio subito e vantaggio conseguito: profilo assunto dal codice civile anche a base della differenziata disciplina della garanzia della cessione (art. 1266). Il contratto di cessione del credito integra la causa di un comune contratto traslativo (vendita, permuta, donazione, ecc.). Significativamente l’art. 1376, nel regolare i contratti ad efficacia reale, assimila al trasferimento della proprietà di una cosa determinata “il trasferimento di un altro diritto” (che può essere appunto un diritto di credito); e l’art. 1470, nel definire il contratto di vendita, stabilisce che la vendita ha per oggetto, verso il corrispettivo di un prezzo, il trasferimento della proprietà di una cosa o “il trasferimento di un altro diritto” (che può essere appunto il diritto di credito); anche l’art. 769, nel definire il contratto di donazione, prevede che, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra “disponendo a favore di questa di un suo diritto” (anche dunque un diritto di credito). La cessione del credito si atteggia come un contratto consensuale ad efficacia reale: in virtù del contratto traslativo, il diritto di credito si trasmette e si acquista per effetto del consenso delle parti (cedente e cessionario) legittimamente manifestato (art. 1376). La successione nel credito non comporta una trasformazione della natura del diritto ceduto; pertanto, anche sul piano processuale, permangono gli oneri probatori afferenti al rapporto obbligatorio cui inerisce il credito ceduto 3. Consegue da ciò un duplice corollario: da un lato, la mancanza di causa della cessione o la sua illiceità comporta la nullità del contratto di cessione e quindi la inefficacia dello stesso (quale portato del principio, proprio del nostro ordinamento, per cui i negozi traslativi sono di regola anche causali); dall’altro, che, compiuta la cessione del credito, la eventuale risoluzione del rapporto obbligatorio tra creditore cedente e debitore originario è inopponibile al terzo cessionario. La cessione del credito va tenuta distinta dal mandato alla riscossione del credito, rientrante nella disciplina del mandato (artt. 1703 ss.). Il mandato alla riscossione, proprio in quanto mandato, non comporta trasferimento di titolarità del credito, ma solo incarico di attuazione del diritto di credito; e ciò sia nell’ipotesi in cui il mandato è conferito nell’interesse (esclusivo) del mandante (titolare del credito), sia nell’ipotesi in cui il manda2 Il contratto di cessione di credito ha natura consensuale, di modo che il suo perfezionamento consegue al solo scambio del consenso tra cedente e cessionario, il quale attribuisce a quest’ultimo la veste di creditore esclusivo, unico legittimato a pretendere la prestazione (anche in via esecutiva), pur se sia mancata la notificazione prevista dall’art. 1264 (Cass. 19-2-2019, n. 4713). 3 La cessione di un credito traente titolo da una obbligazione extracontrattuale, una volta notificata al debitore, realizzando un fenomeno di successione nel lato attivo della obbligazione, non determina uno snaturamento della obbligazione da cui trae origine il credito; anche l’accettazione del debitore (pure tacita) della cessione del credito non ha natura di riconoscimento di debito, tale da invertire l’onere probatorio in ordine alla sussistenza o meno del medesimo (Cass. 13-3-2018, n. 6020).

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to è conferito (anche) nell’interesse del mandatario o di un terzo (mandato in rem propriam) (IX, 3.1). La forma dell’atto risente della causa del singolo contratto: ad es. è necessaria la forma dell’atto pubblico per la donazione del credito, a pena di nullità (arg. art. 782). Le vicende di crediti verso la P.A. devono avere una specifica forma: per l’art. 69 R.D. 18.11.1923, n. 2440, le cessioni, le delegazioni, le costituzioni di pegno e gli atti di revoca, rinuncia o modificazione di vincoli devono risultare da atto pubblico o da scrittura privata, autenticata da notaio e il relativo atto deve essere notificato all’amministrazione. Sono oggetto di cessione, non solo il credito di una somma di danaro (es. il credito del venditore al pagamento del prezzo dal compratore, ovvero il credito del locatore al pagamento del canone dal conduttore); ma anche il credito di una qualsiasi prestazione di dare, fare o consegnare. La cessione può riguardare un bene presente o futuro, come il diritto al risarcimento del danno 4, anche non patrimoniale 5; bisogna però valutare la natura e la destinazione dell’oggetto del credito rispetto alla tutela della persona: significativamente è vietata la cessione del credito alimentare (art. 447). Il credito è trasferito al cessionario con i privilegi, le garanzie personali e reali e con gli altri accessori (art. 12631). Il cedente deve consegnare al cessionario i documenti probatori del credito che sono in suo possesso; se è stata ceduta solo una parte del credito, deve consegnare una copia autentica dei documenti (art. 1262). b) Divieto di cessione. L’incedibilità può essere prescritta dalla legge o voluta dalle parti, con differente efficacia. 1) Sono molte le ipotesi di divieto legale di cessione. Anzitutto una incedibilità è disposta come divieto di acquisto da parte di alcuni soggetti per la posizione rivestita, al fine di evitare abusi e conflitti a danno del debitore. Per l’art. 12611 non possono rendersi cessionari gli operatori di giustizia (magistrati, avvocati, notai, ufficiali giudiziari, cancellieri, ecc.), neppure per interposta persona, di diritti “litigiosi” sui quali è sorta contestazione davanti l’autorità giudiziaria di cui fanno parte o nella cui giurisdizione esercitano le loro funzioni, sotto pena di nullità e dei danni 6. Ulteriori divieti speciali di acquisto, pure all’asta pubblica, sia direttamente che per interposta persona, sono fissati dall’art. 1471; sono anche annullabili gli atti con i quali genitori e tutori si rendono acquirenti di beni e diritti di minori e incapaci in genere (artt. 323, 378 e 424). 4 La cessione dei crediti futuri, ivi compresi quelli aventi causa risarcitoria, non ha natura meramente obbligatoria e vi si può procedere – quando nel negozio dispositivo sia individuata la fonte, oppure la stessa sia determinata o determinabile – senza che rilevi la probabilità della venuta in essere del credito ceduto: la venuta in essere del credito futuro integra un requisito di efficacia della cessione, ma non della sua validità (Cass. 10-12-2018, n. 31896). Il credito derivante dal risarcimento di danni patrimoniali da sinistro stradale può costituire oggetto di cessione, non essendo di natura strettamente personale né sussistendo specifico divieto normativo al riguardo; il cessionario è legittimato ad esercitare l’azione prevista dall’art. 149 D.Lgs. 209/2005 nei confronti dell’impresa di assicurazione (Cass. 12-9-2019, n. 22726. V. anche Cass. 31-8-2005, n. 17590). 5 Il diritto di credito relativo al risarcimento del danno non patrimoniale, come risulta trasmissibile “iure hereditatis”, può formare oggetto di cessione per atto “inter vivos”, non presentando carattere strettamente personale (Cass. 14-2-2019, n. 4300; Cass. 3-10-2013, n. 22601; Cass. 13-3-2012, n. 3965). 6 Il dato testuale dell’art. 1261 c.c. (che fa espresso riferimento ad una “sorta controversia” avanti all’autorità giudiziaria), nonché la ratio di detta norma (diretta ad impedire speculazione sulle liti da parte dei soggetti in essa contemplati) comportano che il divieto stesso non trova applicazione riguardo a crediti per i quali non sia ancora sorta una controversia giudiziaria (Cass. 16-7-2003, n. 11144).

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Una incedibilità è anche disposta per il carattere strettamente personale del credito (art. 12601): talvolta la incedibilità è prevista testualmente dalla legge (es. crediti alimentari: art. 4471); talaltra va desunta dal contesto degli interessi coinvolti. 2) È consentito un divieto convenzionale di cessione. Le parti possono escludere la cedibilità del credito, ma il patto non è opponibile al cessionario se non si prova che egli lo conosceva al tempo della cessione (art. 12602). Come ogni vicenda circolatoria, anche il divieto di cessione del credito va valutato nella complessità degli interessi coinvolti: la composita disciplina del codice civile rappresenta un equilibrio tra due contrapposti di interessi: del debitore alla fissità del creditore e del creditore alla alienazione, ovvero tra le esigenze di indisponibilità e quelle di circolazione giuridica: l’interesse del debitore alla incedibilità del credito, di per sé ragionevole in ragione della struttura del rapporto obbligatorio, è sacrificato rispetto alla generale esigenza di garantire la buona fede del terzo cessionario come esponenziale della sicurezza del mercato; l’interesse alla incedibilità è però considerato prevalente rispetto alla mala fede del terzo nel senso di consapevolezza o anche di colposa non conoscenza del divieto: la tutela del cessionario in dispregio di un divieto di cessione del credito è consentita solo compatibilmente alla mancata conoscenza del divieto di cessione 7. L’onere della prova della consapevolezza del terzo è a carico del debitore ceduto. Quando il patto di incedibilità non è opponibile al terzo, il creditore cedente risponde verso il debitore ceduto secondo le comuni regole della responsabilità contrattuale per inadempimento ex art. 1218. È un meccanismo di tutela del mercato secondo criteri di trasparenza e correttezza. Quando il rapporto obbligatorio deriva da contratto, la valutazione di meritevolezza del contratto, quale emerge dal contenuto contrattuale, dal contesto della stipulazione e dal dispiegamento in campo delle forze economiche delle parti, investe anche la meritevolezza del divieto di cessione (si pensi all’ipotesi che l’incedibilità del credito sia imposta dalla impresa dominante al fornitore debole, atteggiandosi la incedibilità quale clausola vessatoria). Rispetto al credito pecuniario, sulla scorta del trend normativo europeo assume importanza il divario tra credito personale e credito di impresa, tendendosi per quest’ultimo a favorirne il reinvestimento come alimento dell’attività economica (VII, 1.19). Sono profili che si legano al più generale tema della disciplina delle limitazioni convenzionali del potere di disposizione, cui si rinvia (VIII, 6.14).

4. Segue. Efficacia della cessione. – Si è visto come il contratto di cessione produce effetti tra cedente e cessionario in virtù del consenso delle parti legittimamente manifestato. Poiché la cessione del credito implica il trasferimento del diritto nei confronti di un diverso soggetto (il debitore), c’è anche da verificare la efficacia della cessione verso tale soggetto. Si presenta inoltre il problema della tutela dei terzi nella ipotesi di pluralità di cessioni del medesimo credito. a) Efficacia tra le parti. Come per ogni contratto traslativo emerge il problema delle 7 Il patto che esclude la cedibilità del credito può essere opposto al cessionario dal debitore ceduto, per il principio dell’affidamento sulla normale cedibilità dei crediti, ex art. 12601 c.c., e dell’efficacia del contratto soltanto tra le parti sancito dall’art. 1372 c.c., solo a condizione che sia dimostrato, ai sensi dell’art. 12602 c.c., che il cessionario abbia avuto effettiva conoscenza del patto al tempo della cessione (Cass. 26-2-2020, n. 5129; Cass. 20-1-2015, n. 825).

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garanzie dovute dal cedente rispetto all’esistenza del diritto ceduto; nella cessione del credito vi è l’ulteriore problema della garanzia rispetto all’attuazione del credito ceduto. La garanzia della cessione dovuta dal creditore muta in ragione della causa onerosa o gratuita della cessione stessa. Se la cessione è a titolo oneroso, il cedente è tenuto a garantire l’esistenza del credito al tempo della cessione; la garanzia può essere esclusa per patto, ma il cedente resta sempre obbligato per il fatto proprio (art. 12661). Se la cessione è a titolo gratuito, la garanzia è dovuta solo nei casi e nei limiti in cui la legge pone a carico del donante la garanzia per l’evizione, operante a carico del donante ai sensi dell’art. 797 (art. 12662). La garanzia di attuazione del credito pone il problema della distribuzione del rischio della insolvenza del debitore. Di regola il rischio della insolvenza resta a carico del cessionario, che nulla può pretendere dal cedente per il mancato adempimento del debitore (cessio pro soluto) (art. 12671). Il tema è di grande rilevanza nella cessione dei debiti deteriorati, che avviene di solito ad un prezzo (di gran lunga) inferiore all’ammontare del credito. Con apposito patto il cedente può assumere la garanzia della solvenza del debitore (cessio pro solvendo). In questo caso il cedente risponde, non solo della esistenza del credito, ma anche della solvenza del debitore nei limiti di quanto ha ricevuto (il cessionario può cioè recuperare il prezzo della cessione non l’oggetto del credito acquistato) 8. Il cedente deve inoltre corrispondere gli interessi maturati sul corrispettivo della cessione, rimborsare le spese della cessione e quelle che il cessionario abbia sopportato per escutere il debitore e risarcire il danno; ogni patto diretto ad aggravare la responsabilità del cedente è senza effetto (art. 12671). Anche quando è stata garantita la solvenza del debitore, la garanzia cessa se la mancata realizzazione del credito per insolvenza del debitore è dipesa da negligenza del cessionario nell’iniziare o proseguire istanze contro il debitore (art. 12672). La cessione del credito può essere assistita da apposita garanzia per la non solvibilità del debitore 9. Per la cessione a titolo solutorio (dazione in pagamento), la regola è che il cedente è tenuto a garantire la solvenza del debitore: come è nell’indole della dazione in pagamento, che è una variante dell’adempimento, l’obbligazione originaria si estingue con la riscossione del credito ceduto, salvo diversa volontà delle parti (art. 1198): la cessione a titolo solutorio è per legge pro solvendo (VII, 3.6). Si vedrà come, per far fronte all’emergenza sanitaria, sia stata consentita la cessione del credito di imposta (art. 28 D.L. 19.5.2020, n. 34, conv. con L. 17.7.2020, n. 77), che opera come forma di dazione in pagamento (VII, 3.6). La cessione del credito può anche avvenire a scopo di garanzia di una diversa presta8 Talvolta è la stessa legge a prevedere la garanzia convenzionale di solvenza del debitore: ad es. il socio che conferisce un credito in una società semplice risponde dell’insolvenza del debitore, nei limiti indicati dall’art. 1267 per il caso di assunzione convenzionale della garanzia (art. 2255). 9 Nella cessione di credito nominalmente assistito da una garanzia reale, qualora quest’ultima risulti nulla, prescritta, estinta o di grado inferiore rispetto a quanto indicato dal cedente, il cessionario può agire nei confronti di quest’ultimo ancor prima di aver escusso il debitore ceduto, chiedendo il risarcimento del danno da inadempimento, senza necessità di domandare la risoluzione della cessione, poiché una diminuzione delle garanzie è in sé causativa di un danno patrimoniale immediato ed attuale, corrispondente alla diminuzione del valore di circolazione del credito (Cass. 15-6-2020, n. 11583).

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zione da compiere dal cedente in favore del cessionario, con il necessario coordinamento della sorte del credito ceduto con quella della prestazione dovuta 10. La cessione può essere anche assistita da una garanzia reale, con il corollario che la difformità della stessa si riflette sulla esattezza della cessione 11. Il credito può anche essere oggetto di confisca, dandosi luogo a sostituzione ex lege del creditore ad opera dello Stato, come ad es. la confisca disposta ed operata in virtù di una misura di prevenzione antimafia (L. 31.5.1965, n. 575 ss.) 12. La singola causa della cessione influenza la disciplina applicabile. Il regime delle eccezioni proponibili dal debitore segue il meccanismo successorio del credito. Di regola il debitore può opporre al cessionario le medesime eccezioni che avrebbe potuto opporre al cedente, sia con riguardo al titolo che aveva dato luogo al rapporto obbligatorio, sia con riferimento all’esecuzione di questo. Ad es., se un venditore cede ad un terzo il credito al prezzo vantato verso il compratore, questi può opporre al cessionario, sia le eccezioni relative alla invalidità del contratto di vendita (ad es. il dolo perpetrato dal venditore ai danni del compratore), sia le eccezioni inerenti all’esecuzione del contratto (ad es. l’intervenuto pagamento e dunque la estinzione del rapporto obbligatorio). Analogamente, se si cede un credito altrui, il debitore può opporre la eccezione di inesistenza del credito vantato dal cessionario. In tutte tali ipotesi, ove la cessione sia avvenuta a titolo oneroso, il cessionario non è tenuto a pagare il prezzo e ha diritto alla restituzione di quello eventualmente pagato 13. Cedendosi un credito derivante da contratto, il cessionario non ha però le azioni di tutela contrattuale, come ad es. il diritto alla risoluzione del contratto, non subentrando nella posizione contrattuale ma   10 Nella cessione del credito a scopo di garanzia di una diversa obbligazione dello stesso cedente, il cessionario è legittimato ad agire sia nei confronti del debitore ceduto che nei confronti dell’originario debitore cedente, senza essere gravato, in quest’ultimo caso, dall’onere di provare l’infruttuosa escussione del debitore ceduto (Cass. 28-5-2020, n. 10092). La cessione del credito, quale negozio a causa variabile, può essere stipulata anche a fine di garanzia e senza che venga meno l’immediato effetto traslativo della titolarità del credito tipico di ogni cessione, in quanto è proprio mediante tale effetto traslativo che si attua la garanzia, pure quando la cessione sia “pro solvendo” e non già “pro soluto”, con mancato trasferimento al cessionario, pertanto, del rischio d’insolvenza del debitore ceduto (Cass. 16-11-2018, n. 29608). Ove si verifichi l’estinzione, totale o parziale, dell’obbligazione garantita, il credito ceduto a scopo di garanzia, nella stessa quantità, si ritrasferisce automaticamente nella sfera giuridica del cedente, con un meccanismo analogo a quello della condizione risolutiva, senza quindi che occorra, da parte del cessionario, un’attività negoziale diretta a tal fine (Cass. 2-4-2001, n. 4796). 11 Qualora la garanzia reale risulti nulla, prescritta, estinta o di grado inferiore rispetto a quello indicato dal cedente, il cessionario può agire nei confronti di quest’ultimo ancor prima di aver escusso il debitore ceduto, chiedendo il risarcimento del danno da inadempimento, poiché una diminuzione delle garanzie è in sé causativa di un danno patrimoniale, corrispondente alla diminuzione del valore di circolazione del credito; la liquidazione del danno deve essere parametrata, con giudizio equitativo, alla prevedibile perdita in caso di insolvenza (Cass. 15-6-2020, n. 11583). 12 La confisca del credito da parte dello Stato, sia preventiva che repressiva, è acquisto a titolo “derivativo” in quanto non si prescinde dalla posizione del precedente titolare relativamente al particolare bene; vi è una modificazione soggettiva attiva dell’originario rapporto obbligatorio, quale sostituzione ex lege della persona del creditore, all’interno di un rapporto di obbligazione, il cui regolamento risente della peculiarità della cessione quale misura ablatoria (si è esclusa la compensazione invocata ex art. 1248 dal debitore allo Stato cessionario per crediti del debitore verso lo Stato) (Cass. 12-5-2016, n. 9768; Cass. 3-7-1997, n. 5988). 13 La legge non distingue tra le varie ipotesi di inesistenza del credito (credito altrui, invalidità del titolo da cui deriva, rescissione, risoluzione, attuazione, ecc.): avendo riguardo all’interesse pratico del cessionario, formula il generale principio che il creditore è tenuto a garantire la esistenza del credito (art. 1266).

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rendendosi cessionario solo della posizione attiva del credito 14. Anche la cessione di crediti verso il Fisco è soggetta al medesimo regime 15; si vedrà in seguito della cessione del credito di imposta (VII, 3.6). b) Efficacia verso il debitore. Il debitore deve essere edotto della intervenuta cessione, affinché possa adempiere al cessionario: diversamente, è liberato quando esegue in buona fede l’adempimento in favore del creditore originario (arg. art. 1189). La cessione ha effetto nei confronti del debitore ceduto quando questi l’ha accettata o quando gli è stata notificata 16 (art. 12641). Anche in assenza di notifica o accettazione, in ogni caso il cessionario può provare che il debitore era a conoscenza dell’avvenuta cessione (art. 12642). L’efficacia della cessione “nei confronti del debitore ceduto” si ricollega in sostanza alla conoscenza legale determinata dalla notifica o dall’accettazione della cessione, ovvero (anche prima della notifica) dalla conoscenza effettiva della cessione. Realizzatasi la conoscenza (legale o effettiva) della cessione, il debitore non può accampare la sua buona fede soggettiva e cioè la mancata conoscenza in fatto della cessione, rimanendo comunque tenuto ad adempiere nei confronti del cessionario, il quale può anche agire esecutivamente 17. Anche prima di tali formalità, il cessionario (proprio in quanto divenuto tale in virtù della cessione) è comunque legittimato a ricevere la prestazione dovuta dal debitore 18. Il regime delle eccezioni opponibili dal debitore al cessionario è legato al tempo della conoscenza della cessione da parte del debitore. Se il debitore ha accettato puramente e semplicemente la cessione del credito, non può opporre al cessionario la compensazione 14 Dei diritti derivanti dal contratto, il cessionario del credito acquista soltanto quelli rivolti alla realizzazione del credito ceduto, e cioè, le garanzie reali e personali, i vari accessori e le azioni dirette all’adempimento della prestazione; non gli sono trasferite le azioni inerenti alla essenza del precedente contratto, fra cui quella di risoluzione per inadempimento, poiché esse afferiscono alla titolarità del negozio, che continua ad appartenere al cedente anche dopo la cessione del credito (Cass. 6-7-2018, n. 17727). 15 La cessione dei crediti ha efficacia derivativa anche ove il debitore ceduto sia il Fisco, il quale, in detta qualità, può pertanto far valere nei confronti del cessionario tutte le eccezioni opponibili al cedente, sia attinenti alla validità del titolo costitutivo del credito, sia relative ai fatti modificativi ed estintivi del rapporto anteriori alla cessione od anche posteriori al trasferimento, ma anteriori all’accettazione della cessione o alla sua notifica o alla sua conoscenza di fatto (Cass. 20-4-2018, n. 9842). 16 Il cessionario di un credito che agisca nei confronti del debitore ceduto è tenuto a dare prova unicamente del negozio di cessione, quale atto produttivo di effetti traslativi, e non anche a dimostrare la causa della cessione stessa; né il debitore ceduto può interferire nei rapporti tra cedente e cessionario, essendo esclusivamente abilitato ad indagare sull’esistenza e sulla validità estrinseca e formale della cessione, in particolare quando questa gli sia stata notificata dal solo cessionario (Cass. 9-7-2018, n. 18016; Cass. 31-7-2012, n. 13691. La notificazione della cessione non deve assumere le forme di quella effettuata secondo l’ordinamento processuale, ma costituisce un atto a forma libera, che può concretarsi in qualsiasi atto idoneo a porre il debitore nella consapevolezza della mutata titolarità attiva del rapporto obbligatorio (Cass. 18-10-2005, n. 20143). 17 Il contratto di cessione attribuisce al cessionario la veste di creditore esclusivo, unico legittimato a pretendere la prestazione (anche in via esecutiva), pur se sia mancata la notificazione prevista dall’art. 1264 (Cass. 19-2-2019, n. 4713). 18 La disciplina in materia è applicabile anche ai conferimenti di crediti in società: la cessione del credito che il socio conferente opera in favore della società ha effetto verso il debitore ceduto solo dopo che questi l’ha accettata o quando gli è stata notificata, salvo che si provi che il debitore ceduto era comunque a conoscenza della cessione: il socio conferente risponde verso la società per l’insolvenza del debitore nei limiti del valore assegnato al suo conferimento; deve inoltre rimborsare le spese di cessione e quelle che la società cessionaria ha sostenuto per l’escussione del debitore, oltre a risarcire il danno (art. 2255, che richiama l’art. 1267).

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che avrebbe potuto opporre al cedente; se la cessione è solo notificata al debitore, è impedita la compensazione dei crediti sorti posteriormente alla notificazione (art. 1248). Una disciplina particolare vale per la cessione del credito verso i consumatori 19. c) Efficacia verso i terzi. Può accadere che il cedente trasferisca il medesimo credito a più persone: tra le varie cessioni prevale quella notificata per prima al debitore o che è stata per prima accettata dal debitore con atto avente data certa (art. 12651). Lo stesso principio vale quando il credito ha formato oggetto di costituzione di usufrutto o di pegno (art. 12652). È un meccanismo per dirimere i conflitti tra più aventi causa dal medesimo alienante, che si ritroverà in tema di trascrizione relativamente alla circolazione degli immobili e dei mobili registrati (artt. 2644 e 2684) (XIV, 2.7). Anche ora deve ammettersi la responsabilità contrattuale del cedente nei confronti del primo cessionario soccombente, per avere compiuto la seconda cessione senza essere più legittimato (ed eventualmente anche la responsabilità extracontrattuale del debitore ceduto se risultato connivente) 20.

5. Segue. Cessione di pluralità di crediti. Il factoring. – Nella esperienza economica la cessione del credito è spesso inserita in una complessa operazione economica, che investe la cessione di più crediti (c.d. cessione in blocco) 21. Di derivazione anglosassone, il factoring rappresenta ormai un diffuso modo di gestione dei crediti e di finanziamento delle imprese. La struttura del factoring si presenta con due varianti: può esaurirsi in una cessione unica e globale di crediti presenti e/o futuri, con efficacia traslativa dei crediti al momento della stipula del contratto di factoring o quando i crediti vengono ad esistenza; può articolarsi in una sequenza contrattuale caratterizzata da una convenzione iniziale programmatica e singole cessioni di credito attuative, con efficacia traslativa dei crediti al momento delle singole cessioni. In entrambe le direzioni, è salvaguardata la posizione dei debitori ceduti 22. Nell’operazione economica più esile una impresa specializzata (factor) assume nei 19

Per l’art. 125 septies L. 385/1993 (TUB), introdotto dal D.Lgs. 13.8.2010, n. 141, in caso di cessione del credito o del contratto di credito, il consumatore può sempre opporre al cessionario tutte le eccezioni che poteva far valere nei confronti del cedente, ivi inclusa la compensazione, anche in deroga al disposto dell’art. 1248 c.c.; il consumatore è informato della cessione del credito, a meno che il cedente, in accordo con il cessionario, continui a gestire il credito nei confronti del consumatore. 20 Il notaio è responsabile dei danni subiti dal cliente, per non aver eseguito una prestazione accessoria a un atto da lui rogato: nella specie, la notificazione al debitore della cessione di un credito, anche se non gli sia stato versato anticipatamente l’importo delle spese e del compenso (Cass. 16-1-2013, n. 904). 21 Per le cessioni in blocco di rapporti giuridici alle banche o specifici intermediari finanziari, i cessionari sono esentati dall’onere di provvedere alla notifica della cessione alle singole controparti dei rapporti acquisiti. Per l’art. 58 D.Lgs. 1.9.1993, n. 385 (TUB), il soggetto cessionario dà notizia dell’avvenuta cessione mediante iscrizione nel registro delle imprese e pubblicazione nella Gazz. Uff.; la Banca d’Italia può stabilire forme integrative di pubblicità. L’acquisto di un credito nell’ambito di una operazione di cessione di crediti in blocco non determina, di per sé, la sussistenza di buona fede in capo al creditore cessionario ai fini della sua tutela nell’ipotesi di sequestro e confisca di prevenzione (Cass. pen., sez. un., 31-5-2018, n. 29847). 22 Non sussiste a carico del debitore, neanche nel caso in cui abbia accettato la cessione, un obbligo di informazione che ne aggravi la posizione; il cessionario può pretendere di essere risarcito dal debitore ove questi, dopo avere garantito allo stesso factor l’esistenza e la validità dei crediti, ne abbia leso l’affidamento, omettendo di avvisarlo “sua sponte” di circostanze sopravvenute ostative alla loro realizzazione (Cass. 11-2-2020, n. 3319).

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confronti di una impresa (cliente) l’obbligo di una complessa attività di gestione dei crediti della stessa verso terzi, dietro pagamento di una commissione variamente determinata in ragione della tipologia dei servizi assunti (es. contabilizzazione, amministrazione, sollecito, incasso, recupero). È questa propriamente la c.d. funzione di gestione dei crediti, che rappresenta l’attività minimale e comune di ogni factor. Più complessa e normalmente richiesta è la funzione di finanziamento, che più spesso giustifica nella pratica il ricorso al factoring. Previa cessione di crediti in massa, verso uno o più clienti (presenti ed eventualmente anche futuri), il factor anticipa all’impresa cedente in tutto o in parte la somma portata dai crediti ceduti prima della scadenza degli stessi o comunque del relativo incasso. In tal caso (ed è la prassi) il factoring si configura come strumento di finanziamento dell’impresa. Al momento dell’incasso il factor restituirà all’impresa cedente gli importi riscossi dai debitori, superiori a quelli alla stessa anticipati, ovviamente dedotti i costi della operazione 23. Di regola la cessione dei crediti è pro solvendo, restando quindi sul cedente il rischio del mancato pagamento dei debitori, con la conseguenza che il cedente dovrà restituire al factor le anticipazioni ricevute. Talvolta si dà vita anche ad una funzione assicurativa, per cui è il factor ad assumere il rischio del mancato pagamento dei debitori (cessione pro soluto), con la conseguenza che le anticipazioni fatte restano a beneficio del cedente. Evidentemente i due modelli sono soggetti a costi di commissione diversi, meno esosi il primo, più esosi il secondo. Con la L. 21.2.1991, n. 52, è stata introdotta una normativa speciale per la cessione dei crediti di impresa, contenente tassative deroghe alla disciplina generale della cessione dei crediti prevista dal codice civile. La normativa è circoscritta alle cessioni di crediti pecuniari verso corrispettivo quando concorrono le seguenti circostanze: il cedente è un imprenditore; i crediti ceduti sorgono da contratti stipulati dal cedente nell’esercizio dell’impresa; il cessionario è una banca o un intermediario finanziario il cui oggetto sociale preveda l’acquisto dei crediti d’impresa. In assenza di tali circostanze si applica il codice civile (art. 1). I crediti (esistenti e/o futuri) possono essere ceduti anche prima che siano stipulati i contratti dai quali derivano, purché, se ceduti in massa, i relativi contratti siano stipulati entro ventiquattro mesi; la cessione di crediti in massa si considera con oggetto determinato (anche con riguardo a crediti futuri) quando sia indicato il debitore ceduto (art. 3). Opera la regola della garanzia di solvibilità: il cedente garantisce, nei limiti del corrispettivo pattuito, la solvenza del debitore, salvo che il cessionario rinunci in tutto o in parte alla garanzia (art. 4) (c.d. funzione assicurativa); ciò in deroga all’art. 1267 che fissa la regola opposta della non rispondenza del cedente per la solvenza del debitore, salvo che 23 In tema di contratto di “factoring”, la cessione dei crediti non produce modificazioni oggettive del rapporto obbligatorio e non può pregiudicare la posizione del debitore ceduto in quanto avviene senza o addirittura contro la sua volontà; ne consegue che il debitore ceduto può opporre al “factor” cessionario le eccezioni concernenti l’esistenza e la validità del negozio da cui deriva il credito trasferito ed anche le eccezioni riguardanti l’esatto adempimento del negozio, mentre quelle che investono fatti estintivi o modificativi del credito ceduto sono opponibili al “factor” cessionario solo se anteriori alla notizia della cessione comunicata al debitore ceduto e non ove successivi, in quanto, una volta acquisita la notizia della cessione, il debitore ceduto non può modificare la propria posizione nei confronti del cessionario mediante negozi giuridici posti in essere con il creditore originario (Cass. 2-12-2016, n. 24657).

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ne abbia assunto la garanzia. Sono anche ampliate le ragioni di efficacia della cessione nei confronti dei terzi, ma solo qualora il cessionario abbia pagato in tutto o in parte il corrispettivo della cessione ed il pagamento abbia data certa (art. 5) 24. Il meccanismo di cessione dei crediti di impresa è strumento comune di autofinanziamento delle imprese, ampiamente utilizzato nel commercio internazionale 25.

6. Segue. Cartolarizzazione dei crediti. – La cartolarizzazione è il meccanismo di smobilitazione di beni (crediti, immobili, ecc.) al fine di conseguire un flusso finanziario che assicuri liquidità. È in particolare una tecnica finanziaria, di origine anglosassone, ormai diffusa anche da noi, alla quale più leggi vi hanno fatto ricorso per consentire ad enti di procurarsi danaro liquido. È anche utilizzata per la collocazione di crediti deteriorati, con risvolti molto rischiosi (VII, 4.12). I singoli crediti perdono la specifica individualità, con il correlato valore singolo, per inerire alla valutazione aggregata del blocco dei debiti e divenire oggetto di gestione della debitoria 26: l’individuazione di un blocco di crediti da cedere determina la necessità di iscrivere la posta in bilancio al valore di presumibile realizzazione (secondo quotazioni di mercato, ove esistenti), essendo il valore di realizzo rappresentato dal probabile prezzo di vendita del pacchetto di crediti (VII, 8.1). Con la L. 30.4.1999, n. 130, è stata regolata la c.d. cartolarizzazione dei crediti. La cartolarizzazione è realizzata mediante cessione a titolo oneroso di crediti pecuniari, sia esistenti sia futuri (individuabili in blocco se si tratta di una pluralità di crediti) in favore di una società specializzata (c.d. società veicolo), la quale provvede a emettere titoli (direttamente o attraverso una diversa società) e a collocarli presso i risparmiatori; il ricavato della collocazione serve a pagare i crediti acquistati dalla società cedente (art. 1). Inoltre la stessa società veicolo provvede alla riscossione dei crediti e alle attività ad essa finalizzate (compiendo anche le azioni giudiziarie necessarie per la riscossione). Specificazioni sono introdotte dall’art. 11088 L. 30.12.2018, n. 145 (Legge di bilancio 2019), nella disciplina del finanziamento mediante società di cartolarizzazione. Il possesso del titolo (emesso dalla società veicolo) attribuisce al risparmiatore il diritto alla riscossione del credito nello stesso menzionato nei confronti della società emitten24 Con l’art. 117 D.Lgs. 12.4.2006, n. 163, le disposizioni di cui alla L. 21.2.1991, n. 52, sono estese ai crediti verso le stazioni appaltanti derivanti da contratti di servizi, forniture e lavori di cui al presente codice, ivi compresi i concorsi di progettazione e gli incarichi di progettazione: ai fini dell’opponibilità alle stazioni appaltanti che sono amministrazioni pubbliche, le cessioni di crediti devono essere stipulate mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata e devono essere notificate alle amministrazioni debitrici; le cessioni di crediti da corrispettivo di appalto, concessione, concorso di progettazione, sono efficaci e opponibili alle stazioni appaltanti che sono amministrazioni pubbliche qualora queste non le rifiutino con comunicazione da notificarsi al cedente e al cessionario entro quindici giorni dalla notifica della cessione; in ogni caso l’amministrazione cui è stata notificata la cessione può opporre al cessionario tutte le eccezioni opponibili al cedente in base al contratto relativo a lavori, servizi, forniture, progettazione, con questo stipulato. 25 Operano due fonti sovranazionali di natura convenzionale: una ad opera dell’Unidroit (la Convenzione sul factoring internazionale di Ottawa del 26.5.1988) e l’altra ad opera dell’Uncitral (la Convenzione ONU sulla cessione dei crediti nel commercio internazionale di New York del 12.12.2001). 26 Per l’art. 71, lett. a, la legge è applicabile alle operazioni di cartolarizzazione dei crediti realizzate mediante l’erogazione di un finanziamento al soggetto cedente da parte della società per la cartolarizzazione dei crediti emittente i titoli, avente per effetto il trasferimento del rischio inerente ai crediti nella misura e alle condizioni concordate.

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te, la quale vi provvederà attraverso la riscossione dai debitori originari ceduti. Per il medesimo art. 1, le somme versate dal debitore o dai debitori ceduti alla società veicolo (società cessionaria) sono da questa destinate, in via esclusiva, al soddisfacimento dei diritti incorporati nei titoli emessi per finanziare l’acquisto dei crediti, nonché al pagamento dei costi dell’operazione. Anzi, per l’art. 32, i crediti relativi a ciascuna operazione, entrati nel patrimonio della società veicolo (cessionaria), costituiscono patrimonio separato a tutti gli effetti da quello della società e da quello relativo alle altre operazioni: su ciascun patrimonio non sono ammesse azioni da parte di creditori diversi dai portatori dei titoli emessi per finanziare l’acquisto dei crediti stessi. In ciò è la garanzia dei risparmiatori di recuperare la somma sborsata con l’acquisto dei titoli. Su tale esperienza, allo scopo di semplificare le modalità di dismissione di beni immobili pubblici, è stata introdotta una procedura di privatizzazione del patrimonio immobiliare pubblico attraverso la cartolarizzazione di singoli immobili, attuata con la costituzione di una società-veicolo per la collocazione sul mercato 27.

7. Pagamento con surrogazione. – La figura è regolata dagli artt. 1201 ss. nel Capo II intitolato “Dell’adempimento delle obbligazioni”. Come emerge già dalla complessa formulazione normativa, la figura si presta ad essere osservata in una duplice prospettiva: in quella dell’attuazione dell’obbligo (cioè dell’adempimento) e in quella della successione nel credito (cioè della surrogazione nella posizione del creditore). Nella prima prospettiva è soggetta alla comune normativa sull’adempimento dell’obbligazione; è però nella seconda prospettiva che rivela la sua specificità ed è ampiamente regolata. È in ragione del peculiare regime della successione nel credito che se ne parla in questa sede per coglierne giustificazione e funzionamento. A seguito dell’avvenuto pagamento (soggetto alla comune disciplina sull’adempimento) si realizza la surrogazione del terzo che ha adempiuto nella posizione giuridica del creditore verso il debitore originario. La differenza con la cessione del credito sta nel fatto che la cessione (come si è visto) interviene tra cedente e cessionario e determina il mutamento del soggetto attivo, senza attuazione del rapporto obbligatorio: il creditore originario non consegue il bene oggetto dell’obbligazione, ma ricava una utilità di segno diverso (prezzo della cessione, soluzione di una diversa obbligazione, garanzia, ecc.). Invece la surrogazione comporta mutamento del soggetto attivo in conseguenza del soddisfacimento del creditore ad opera di un terzo. La peculiarità è che la realizzazione del diritto di credito avviene attraverso l’opera di un terzo (che paga direttamente al creditore o procura i mezzi necessari al pagamento); il soggetto che ha adempiuto o ha reso 27

Con D.L. 25.9.2001, n. 350 (conv. con L. 23.11.2001, n. 409) e con D.L. 25.9.2001, n. 351 (conv. con L. 23.11.2001, n. 410), il Ministero dell’economia e delle finanze è stato autorizzato a costituire o a promuovere la costituzione (anche attraverso soggetti terzi) di una società a responsabilità limitata avente ad oggetto esclusivo la realizzazione di una o più operazioni di cartolarizzazione, rispettivamente, dei crediti d’imposta e contributivi (art. 22 D.L. 350/2001) e dei proventi derivanti dalla dismissione del patrimonio immobiliare dello Stato e degli altri enti pubblici (art. 2 D.L. 351/2001). I crediti oggetto delle operazioni di “cartolarizzazione” eseguite ai sensi della L. 130/1999 costituiscono un patrimonio separato da quello della società di cartolarizzazione, destinato in via esclusiva al soddisfacimento dei diritti incorporati nei titoli emessi per finanziare l’acquisto dei crediti e al pagamento dei costi dell’operazione, sicché non è consentito al debitore ceduto proporre nei confronti del cessionario eccezioni di compensazione o domande giudiziali fondate su crediti vantati verso il cedente nascenti dal rapporto con quest’ultimo intercorso (Cass. 30-8-2019, n. 21843).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

possibile l’adempimento è surrogato nella posizione (diritti e garanzie) del creditore verso il debitore originario, consentendosi al terzo di recuperare quanto versato per l’adempimento 28. Il debitore può, di regola, opporre al nuovo creditore le eccezioni opponibili a quello originario. L’adempimento comporta interruzione della prescrizione, che ricomincia a decorrere, nel termine relativo alla obbligazione originaria. La surrogazione può aversi per tre ragioni, tassativamente previste: per volontà del creditore, per volontà del debitore e per volontà della legge 29. a) Si ha surrogazione per volontà del creditore quando il creditore, ricevendo l’adempimento da un terzo, surroga il terzo stesso nei propri diritti verso il debitore originario. La surroga deve essere fatta in modo espresso e contemporaneamente al pagamento, di regola nella quietanza (art. 1201): perciò è anche detta surrogazione per quietanza. Poiché l’adempimento del terzo, come tale, sarebbe causa di estinzione dell’obbligazione (art. 1180), deve ritenersi che l’atto di surrogazione del creditore abbia natura negoziale in quanto partecipe di un regolamento di interessi tra creditore e terzo, cui inerisce la previsione della surrogazione. b) Si ha surrogazione per volontà del debitore quando il debitore, prendendo a mutuo una somma di danaro o altra cosa fungibile al fine di pagare il debito, surroga il mutuante nei diritti del creditore, anche senza il consenso di questo (art. 12021): perciò è detta surrogazione per imprestito. Anche l’atto di surrogazione per volontà del debitore, contenendo un regolamento di interesse, ha natura negoziale. Perché si realizzi la surrogazione è necessario che concorrano i seguenti presupposti, tali da attestare il collegamento del mutuo con il pagamento del debitore: 1) il mutuo e la quietanza devono risultare da atto avente data certa; 2) l’atto di mutuo deve contenere l’espressa indicazione della destinazione della somma mutuata; 3) la quietanza deve menzionare la dichiarazione del debitore circa la provenienza della somma impiegata nel pagamento: sulla richiesta del debitore, il creditore non può rifiutare di inserire tale dichiarazione (art. 12022) 30. 28 Il credito di chi si surroghi nella posizione del creditore ipotecario, a seguito di cessione annotata a margine della iscrizione ipotecaria, prende lo stesso grado dell’ipoteca iscritta, ma il privilegio ipotecario non si estende alle spese necessarie per l’annotazione, avendo quest’ultima solo funzione di opponibilità ai terzi della modifica soggettiva del credito e non partecipando della funzione di costituzione o di mantenimento della ipoteca (Cass. 29-1-2016, n. 1671). 29 L’adempimento spontaneo di un’obbligazione da parte del terzo, ai sensi dell’art. 1180 c.c., determina l’estinzione dell’obbligazione, anche contro la volontà del creditore, ma non attribuisce automaticamente al terzo un titolo per agire direttamente nei confronti del debitore, non essendo in tal caso configurabili né la surrogazione per volontà del creditore (art. 1201), né quella per volontà del debitore (art. 1202), né quella legale (art. 1203), la quale presuppone che il terzo che adempie sia tenuto con altri o per altri al pagamento del debito; pertanto, il terzo che abbia pagato sapendo di non essere debitore può agire unicamente per ottenere l’indennizzo per l’ingiustificato arricchimento, stante l’indubbio vantaggio economico ricevuto dal debitore (Cass., sez. un., 29-4-2009, n. 9946). 30 Una specifica figura di surrogazione per volontà del debitore è la surroga del mutuo (c.d. portabilità del mutuo), regolata dalla L. 40/2007 e poi confluita nell’art. 120 quater TUB, grazie alla quale il debitore (mutuatario) può trasferire senza spese il proprio mutuo dall’originario istituto bancario ad altro istituto bancario che proponga condizioni migliori, utilizzando l’ipoteca originaria e mantenendo il capitale residuo da rimborsare, senza necessità del consenso della banca che si intende cambiare. Vi è una modificazione del soggetto attivo del rapporto di mutuo: per effetto della surroga la nuova banca subentra nei diritti del primo mutuante e nelle garanzie, personali e reali, accessorie al credito cui la surrogazione si riferisce; anche l’ipoteca iscritta dalla prima

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c) Si ha surrogazione legale quando la surrogazione opera di diritto, e cioè automaticamente nel senso che è la stessa legge che surroga il terzo adempiente nei diritti del creditore verso il debitore. Le ipotesi di surrogazione legale sono tassativamente indicate dalla legge: per l’art. 1203 la surrogazione ha luogo di diritto, nei casi indicati, a vantaggio: 1) di chi, essendo creditore, ancorché chirografario, paga un altro creditore che ha diritto di essergli preferito in ragione dei suoi privilegi, del suo pegno o delle sue ipoteche; 2) dell’acquirente di un immobile che, fino alla concorrenza del prezzo di acquisto, paga uno o più creditori a favore dei quali l’immobile è ipotecato (art. 2866); 3) di chi, essendo tenuto con altri o per altri al pagamento del debito, aveva interesse di soddisfarlo 31; 4) dell’erede con beneficio d’inventario che paga con danaro proprio i debiti ereditari; 5) di specifici soggetti negli altri casi stabiliti dalla legge: ad es. dell’assicuratore che ha pagato l’indennità, fino alla concorrenza dell’ammontare della stessa, nei diritti dell’assicurato verso i terzi responsabili (art. 1916) 32; del fideiussore, che ha pagato il debito, nei diritti che il creditore aveva contro il debitore (art. 1949). La legge si limita ad accordare il diritto alla surrogazione: è rimesso al beneficiato decidere se avvalersene e dunque esercitarla. banca permane, annotandosi a margine dell’originaria iscrizione ipotecaria il subentro nella garanzia ipotecaria del nuovo creditore a cui favore opera. L’operazione può essere trilaterale, con la costituzione in un unico atto della banca originaria, della nuova banca e del debitore (mutuatario), che regola la surrogazione del nuovo mutuo e contiene la quietanza di estinzione dell’originario residuo mutuo rilasciata dalla banca uscente; oppure può essere bilaterale, con l’intervento nell’atto di surrogazione della nuova banca e del debitore (mutuatario), e con successivo atto di rilascio di quietanza della banca uscente: l’atto di surrogazione è però sempre stipulato con atto pubblico o con scrittura privata con sottoscrizione autenticata, per l’annotamento di surrogazione nei registri immobiliari. Perché si realizzi la surrogazione è necessario, non solo che il mutuo contratto con la nuova banca sia esplicitamente finalizzato alla estinzione del precedente mutuo, ma anche che il pagamento del precedente mutuo contenga la dichiarazione che la somma utilizzata rinviene dalla stipula del nuovo mutuo. Non possono essere imposte al mutuatario costi bancari e notarili di alcun genere per l’esecuzione delle formalità connesse alle operazioni di surroga. L’istituto si applica ai soli contratti di finanziamento conclusi da intermediari bancari e finanziari con persone fisiche o microimprese. Diversa è la sostituzione del mutuo, con la estinzione del precedente mutuo e la costituzione di un nuovo mutuo autonomo dal precedente, con connessa costituzione di nuova ipoteca indipendente da quella precedente, che viene cancellata. In tal caso il mutuatario perde il beneficio dell’assenza di costi bancari e notarili per la stipula del nuovo mutuo; ha però il vantaggio di potere ridefinire integralmente il nuovo mutuo, compresi l’importo (che può essere superiore), gli interessi e la durata. Diversa ancora è la rinegoziazione del mutuo, che non integra una modificazione del soggetto attivo del rapporto. Si limita ad una ridefinizione del rapporto con la stessa banca mutuante originaria, in particolare modificandosi il tipo di tasso, la misura e la durata del finanziamento. 31 Ai fini dell’operatività della surrogazione legale di cui all’art. 1203, n. 3, non è necessario né che il surrogante sia tenuto al pagamento del debito in base allo stesso titolo del debitore surrogato, né che egli sia direttamente obbligato nei confronti dell’“accipiens”, richiedendo la norma soltanto che il surrogante abbia “un interesse giuridicamente qualificato alla estinzione dell’obbligazione” (legittimamente il notaio rogante agisce nei confronti dei contraenti per il rimborso di somma che ha pagato per l’estinzione d’ipoteca non dichiarata in rogito) (Cass. 16-12-2013, n. 28061; Cass. 15-11-2017, n. 26957). 32 L’assicuratore contro i danni che abbia indennizzato il proprio assicurato ha diritto di surrogarsi ex art. 1916 c.c., non solo nei confronti del responsabile, ma anche verso l’assicuratore r.c.a. di quello (Cass. 14-10-2016, n. 20740). Il diritto di surrogazione dell’assicuratore sociale è disciplinato dalle norme dello Stato al quale appartiene l’ente surrogante, con il limite per cui tale surrogazione non può eccedere i diritti spettanti alla vittima o ai suoi aventi causa; i diritti che spettano alla vittima, o ai suoi aventi causa, nei confronti dell’autore del danno, nei quali l’ente previdenziale può surrogarsi ed i presupposti dell’azione risarcitoria sono disciplinati dalle norme dello Stato in cui si è verificato il “danno” (Cass., sez. un., 30-6-2016, n. 13372).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

A fronte di adempimento parziale, sia ha surrogazione parziale, essendo limitata alla misura dell’adempimento: il terzo surrogato e il creditore concorrono nei confronti del debitore in proporzione di quanto loro è dovuto, salvo patto contrario (art. 1205). La surrogazione, qualunque sia la fonte, ha effetto anche contro i terzi che hanno prestato garanzia per il debitore 33; se il credito è garantito da pegno, si osserva l’art. 12632 (art. 1204).

8. Delegazione attiva. – È disciplinata la sola delegazione passiva (artt. 1268 ss.), che incide sul lato passivo del rapporto obbligatorio ed è ad iniziativa del debitore 34. Ciò non toglie che i soggetti del rapporto possano dare vita ad una delegazione attiva, con effetto modificativo del lato attivo del rapporto, in virtù dell’autonomia contrattuale riconosciuta ai privati (ex art. 1322). In tal caso l’iniziativa della delega è presa dal creditore: il creditore (delegante) conferisce incarico al debitore (delegato) di assumere il debito verso un terzo (delegatario); nel contempo autorizza il terzo a riceversi l’impegno del debitore di adempiere l’obbligazione esistente nei confronti del creditore delegante. Se l’incarico è di adempiere, con il pagamento si ha estinzione dell’obbligazione (e non modificazione). A differenza della cessione del credito, dove il debitore è solo destinatario della notifica della cessione, nella delegazione attiva il debitore è partecipe dell’operazione perché è lo stesso debitore che si impegna ad assumere verso il terzo l’obbligo di eseguire la prestazione, continuando ad essere tenuto verso il creditore originario (delegazione cumulativa); ma è nell’autonomia delle parti prevedere la liberazione del creditore originario (delegazione liberatoria), con conseguente successione del terzo nel credito. Con tale figura si realizza una disposizione indiretta del credito: il creditore non cede il credito al terzo, ma conferisce incarico al debitore di assumere il debito verso il terzo o senz’altro di pagare al terzo. In tal guisa il terzo consegue (indirettamente) l’oggetto dell’obbligazione originaria pur senza essersi reso cessionario del credito. Ciò di regola avviene perché il creditore è debitore verso il terzo o anche solo perché si vuole compiere una liberalità. Il fenomeno è facilmente riscontrabile lungo la catena distributiva commerciale, dove il grossista, che è creditore verso il dettagliante del prezzo della fornitura della merce ed è ad un tempo debitore verso il produttore per l’approvvigionamento, stipula con il dettagliante un patto con il quale lo stesso assume l’obbligo di pagare al produttore. In considerazione del vincolo obbligatorio originario, il debitore (delegato) promette di pagare al terzo (delegatario): con l’adempimento si estingue il rapporto esistente tra creditore e terzo ed è contestualmente attuato il rapporto obbligatorio originario. 33 In tema di confideiussione ex art. 1946 c.c., al confideiussore che ha pagato l’intero spetta nei confronti degli altri un diritto che è suscettibile di duplice inquadramento: di surroga, ex artt. 1203, n. 3, e 1204 c.c., ma anche di regresso, ex art. 1954 c.c., trattandosi di diritti tra i quali non sussiste alcun rapporto di alternatività o incompatibilità, in quanto chi agisce in regresso fa valere anche il diritto di surrogazione legale, sia pure nei limiti della parte di obbligazione che non deve restare definitivamente a suo carico (Cass. 28-7-2017, n. 18782). 34 Diversamente si configura, nei contratti bancari, la delegazione del cliente a un terzo a compiere operazioni sul conto corrente: tale accordo spiega unicamente l’effetto, per le operazioni e nei limiti di importo stabiliti, di vincolare la banca a considerare alla stessa stregua di quella del delegante la firma del delegato, ma non comporta il conferimento a quest’ultimo di un potere di agire in rappresentanza del delegante per il compimento di atti negoziali riferibile al singolo conto (Cass. 17-1-2020, n. 859).

CAP. 2 – MODIFICAZIONI DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO

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B) MODIFICAZIONI NEL LATO PASSIVO 9. L’assunzione del debito altrui (e successione nel debito). – Si è visto come la modificazione nel lato attivo (e cioè del creditore) è di regola indifferente per il debitore, il quale è comunque tenuto ad eseguire la prestazione dovuta. Diversamente avviene per la modificazione nel lato passivo (e cioè del debitore), potendo il nuovo debitore essere insolvibile, a differenza dell’originario debitore che aveva un consistente patrimonio sul quale soddisfarsi. Per le prestazioni di fare, poi, assumono un ruolo essenziale la capacità professionale e l’organizzazione del debitore (se non addirittura la qualità personale del debitore, come ad es. le prestazioni artistiche); si aggiunga la eventuale volontà del creditore di risultare tale verso un determinato debitore in funzione di un più ampio contesto di interessi. In conseguenza della morte del debitore, il creditore è costretto a subire la modificazione del soggetto passivo con il subingresso degli eredi: trattandosi di successione a titolo universale, agli eredi si trasmette il complessivo patrimonio del defunto. Quando invece il debitore intende sostituire o anche aggiungere un terzo a sé nella posizione passiva per atto tra vivi, si dà luogo ad un’assunzione del debito altrui, nel senso che il terzo fa proprio il debito altrui verso il creditore, con la successione nella posizione debitoria o con l’affiancarsi alla stessa: nella prima ipotesi si determina una vicenda modificativa nel lato passivo del rapporto obbligatorio, con sostituzione del nuovo debitore a quello originario (assunzione liberatoria); nella seconda ipotesi si realizza l’aggiunta del nuovo debitore a quello originario (assunzione cumulativa) 35. Strutturalmente il credito rappresenta un valore economico attivo, mentre il debito esprime un valore economico passivo. Però, nella realtà economica, il debito di restituzione di fondi presi a prestito consente lo svolgimento di utili attività produttive; è perciò sempre maggiormente riguardato in maniera non atomistica ma nella prospettiva di una massa di debiti, che impone l’esigenza di una complessiva gestione della debitoria. È da tempo emersa l’esigenza di sistemazione della debitoria per i molteplici interessi che vi ineriscono, come si vedrà analizzando le procedure di crisi di impresa (VII, 8.2) e di sovraindebitamento (VII, 8. 4). L’impianto del codice sulle vicende dell’obbligazione ha riguardo al singolo rapporto; perciò l’analisi che segue si svolge in tale direzione. Ma gli istituti che incontreremo rappresentano essenziali tecniche giuridiche di sistemazione dei debiti, impiegabili anche nella ristrutturazione dei debiti di massa. I modi di assunzione del debito altrui a titolo particolare, per atto tra vivi, sono: la delegazione passiva, l’espromissione e l’accollo (di seguito analizzate). Le prime due figure si realizzano attraverso un accordo tra il terzo e il creditore; la terza figura in virtù di un accordo del terzo con il debitore, con l’adesione del creditore. Non è richiesta una forma solenne di assunzione del debito altrui, potendo essere compiuta con ogni mezzo e risultare anche da fatti concludenti. Esiste una essenziale disciplina comune delle tre figure, testualmente prevista ovvero ricostruita dalla giurisprudenza, con ulteriori affinità tra delegazione e espromissione rispetto all’accollo. Sono delineati di seguito alcuni generali criteri che valgono per tutte le figure. 35 Derivando dal negozio di assunzione del debito altrui obbligazioni a carico solo del terzo, ricorre la figura del contratto con obbligazioni a carico del solo proponente (ex art. 1333) (VIII, 2.12).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

a) La liberazione del debitore originario non può avvenire indipendentemente dalla volontà del creditore. L’assunzione del debito, in quanto tale, comporta che il terzo si aggiunge al debitore originario (assunzione cumulativa); tranne che non sia espressamente prevista la sostituzione del debitore originario (assunzione liberatoria), che richiede l’assenso del creditore 36. L’assunzione cumulativa instaura una obbligazione complessa con pluralità di debitori, che si tende a ricostruire come obbligazione solidale con i caratteri della sussidiarietà. Si determina il c.d. beneficium ordinis, per cui il creditore non può rivolgersi al debitore originario se prima non ha richiesto l’adempimento al terzo 37. L’assunzione liberatoria determina la successione a titolo particolare nel medesimo rapporto, con il subingresso del terzo nella posizione giuridica del debitore originario (assunzione privativa); sempre che non sia espressamente pattuita la estinzione del precedente rapporto con la costituzione di un nuovo rapporto (assunzione novativa), così determinandosi una novazione soggettiva passiva: l’art. 1235, che menziona la novazione soggettiva, si limita a rinviare alla disciplina di delegazione, espromissione e accollo; ma non è priva di rilievo la natura novativa dell’effetto sostitutivo (VII, 3.13). La distinzione è di tutta evidenza con riguardo alla prescrizione del diritto di credito: se la successione è privativa (successione particolare nel debito), continua a decorrere il termine prescrizionale originario; se l’assunzione è novativa, con la costituzione di una nuova obbligazione inizia a decorrere un nuovo termine prescrizionale. Evidentemente la diversità di struttura delle singole figure fanno atteggiare anche diversamente i modi di determinazione degli effetti indicati. b) Le garanzie annesse al credito si estinguono con la liberazione del debitore originario, se colui che le ha prestate non consente espressamente di mantenerle (art. 1275). Con la liberazione del debitore originario, se l’obbligazione assunta dal nuovo debitore verso il creditore è dichiarata nulla o è annullata, l’obbligazione originaria rivive, ma il creditore non può valersi delle garanzie prestate da terzi (art. 1276). c) L’insolvenza sopravvenuta del terzo (nuovo debitore) non consente al creditore di agire verso il debitore originario liberato, salvo che ne abbia fatto espressa riserva; se il terzo era insolvente al tempo in cui assunse il debito in confronto del creditore, il debitore originario non è liberato (art. 1274): la norma è prevista per la delegazione liberatoria e per l’accollo liberatorio. Non si fa menzione della espromissione per la ragione che in questa manca l’iniziativa del debitore originario, il quale dunque non può essere responsabile del fatto che il creditore accetti un nuovo debitore liberando il precedente (Relaz. cod. civ., n. 56). Differente dalle figure in esame è la fattispecie dell’adempimento del terzo (art. 1180), cui si avrà riguardo in seguito (VII, 3.5): in tale ipotesi il terzo, con l’adempimento, estingue l’obbligazione senza assumere la veste di debitore; può semmai realizzarsi un “pagamento con surrogazione” nei diritti del creditore verso il debitore.

36 L’effetto liberatorio del debitore originario può derivare anche da un contegno concludente del creditore, univocamente diretto a tale risultato (Cass. 19-11-1994, n. 9835). 37 La regola è dettata espressamente per la delegazione (art. 12682), ma la giurisprudenza, come si vedrà, tende ad estenderla anche alla espromissione e all’accollo.

CAP. 2 – MODIFICAZIONI DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO

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10. Delegazione passiva. – Si è visto come, nella delegazione attiva, l’iniziativa della delega è presa dal creditore. Nella delegazione passiva l’iniziativa della delega è presa dal debitore. In particolare il debitore (delegante) conferisce incarico a un terzo (delegato) di adempiere o di promettere di adempiere il proprio debito al creditore (delegatario): si suole parlare di ordine del delegante al delegatario. Se l’incarico è senz’altro di adempiere, si ha delegazione di pagamento: il delegato, pagando al terzo, estingue l’obbligazione. Se l’incarico è di promettere di adempiere, si ha delegazione di debito: il delegato, assumendo il debito altrui, entra nel rapporto obbligatorio (a fianco del precedente debitore o in sostituzione dello stesso). a) Quanto alla funzione, la delegazione si presta a realizzare scopi diversi. Talvolta è rivolta alla mera concentrazione delle prestazioni: ad es., se il debitore Tizio è creditore verso un terzo, è sufficiente che il terzo adempia al creditore di Tizio perché, con un unico adempimento, si raggiunga il risultato finale dell’attuazione di entrambi i rapporti obbligatori (sia quello del terzo verso Tizio, sia quello di Tizio verso il suo creditore). Di regola la delegazione si realizza perché il debitore non è in grado di adempiere e perciò si rivolge a un terzo per l’adempimento del suo debito: più spesso all’incarico al terzo di adempiere si accompagna una anticipazione dei fondi da parte di questo a titolo oneroso, attraverso l’accensione di un mutuo della somma necessaria alla estinzione della debitoria (sulla quale sono di regola conteggiati gli interessi art. 18151); può anche accedersi alla concessione di garanzie (personali o reali) del debitore al terzo per la restituzione delle somme anticipate nel pagamento al creditore. Il terzo può anche eseguire l’ordine di pagamento a titolo gratuito, così realizzando una liberalità in favore del debitore (che si atteggia come una donazione indiretta ex art. 809). L’onerosità o la gratuità del titolo dell’incarico è valutata in relazione alla qualificazione del rapporto del debitore con il terzo (rapporto di provvista). È possibile delineare due rapporti sottostanti al meccanismo della delegazione: di valuta e di provvista. Il rapporto di valuta, corrente tra l’originario debitore (delegante) ed il suo creditore (delegatario), è connesso al titolo del rapporto obbligatorio originario (es. il debito del compratore verso il venditore per il pagamento del prezzo della vendita). Il rapporto di provvista, corrente tra l’originario debitore (delegante) e il terzo (delegato), giustifica la ragione dell’intervento del terzo (es. l’esistenza di un precedente debito del terzo verso il debitore o l’accensione di un mutuo). b) Circa la struttura del fenomeno, rilevano le modalità di inclusione del terzo 38. Alla base della delegazione vi è un mandato delegatorio del debitore (delegante) al terzo (delegato), con il quale il debitore conferisce l’incarico al terzo, che assume il corrispondente obbligo, di pagamento o di assunzione del debito verso il creditore (delegatario). In ragione dell’incarico, sulle parti gravano le obbligazioni derivanti dal man38 Tradizionalmente si sono fronteggiate due teorie: quella unitaria, che considera la delegazione un unico negozio trilaterale; e quella atomistica (maggiormente sostenuta dalla dottrina, di recente accolta dalla giurisprudenza), che ravvisa distinti rapporti e dunque più negozi. Se si ha riguardo al modo di operare del meccanismo delegatorio, si scorge come le due configurazioni siano anche influenzate dalle tecniche di svolgimento dell’operazione. È più raro che i tre soggetti siano partecipi di un unitario regolamento di interessi (ma non è teoricamente escluso). Più spesso il meccanismo delegatorio si svolge in momenti e con negozi diversi, sebbene coordinati.

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

dato e le corrispondenti azioni 39. Con la stipula del mandato il mandante (delegante) può o meno somministrare al mandatario (delegato) i mezzi necessari alla esecuzione del mandato (art. 1719). Il mandato delegatorio è il negozio minimo ed indefettibile del meccanismo delegatorio. A seconda poi dell’oggetto del mandato si delineano due modelli di delegazione (di pagamento e di debito) di cui si è fatto cenno e che bisogna ora approfondire. Non manca peraltro una ricostruzione della delegazione come negozio trilaterale tra debitore (delegante), terzo (delegato) e creditore (delegatario), che può concludersi anche in forma progressiva 40, nelle due forme di pagamento e di debito. Se il debitore (delegante) non dichiara al creditore (delegatario) di assegnargli un nuovo debitore e il terzo non rivela al creditore di agire nella veste di delegato (mandatario), presentandosi come assuntore spontaneo del debito, ricorre la figura dell’espromissione (di cui appresso), salvo il regolamento interno dei rapporti tra delegante e delegato in virtù del mandato delegatorio stipulato. La delegazione passiva si articola in più figure in ragione dell’oggetto della delega e del funzionamento dei titoli. – Rispetto all’oggetto della delega, si distinguono delegazione di pagamento e delegazione di debito. La delegazione di pagamento (delegatio solvendi) è il modello più semplice. Il debitore conferisce l’incarico al terzo di adempiere e dunque di estinguere l’obbligazione originaria. La delegazione realizza una funzione solutoria senza la preventiva assunzione di debito da parte del delegato verso il delegatario e quindi senza successione nel debito 41; però il terzo (delegato) non è tenuto ad accettare l’incarico di pagamento al creditore (delegatario), anche se è debitore del delegante, salvo usi diversi (art. 12692). Si pensi all’assegno bancario, con il quale il cliente ordina alla banca di pagare una determinata somma ad un beneficiario; analogamente per il bonifico bancario e per la domiciliazione delle utenze domestiche presso la banca 42. Non succedendo il terzo nella posizione di debito, neppure si realizza una modificazione soggettiva nel lato passivo del rapporto obbligatorio. La situazione di indebito del delegante verso il terzo, per cui gli ha dato ordine di pagare al delegatario un debito non dovuto verso il terzo (indebito oggettivo ex art. 2033) o 39 Specificamente l’actio mandati directa del debitore delegante (mandante) verso il terzo delegato (mandatario) per l’esecuzione dell’incarico (pagamento o assunzione del debito) (art. 1710), e l’actio mandati contraria del delegato (mandatario) verso il delegante (mandante) per la corresponsione dei mezzi necessari all’esecuzione del mandato e per le spese ed eventuale compenso (artt. 1719 s.). 40 La delegazione è costruita come struttura unitaria, composta di un rapporto unico con tre soggetti e due rapporti sottostanti (Cass. 15-7-2011, n. 15691; Cass. 19-2-2019, n. 4852). 41 In caso di delegazione di pagamento titolata rispetto al rapporto di valuta, il delegato che per errore esegua una seconda volta il pagamento in favore del terzo ha il diritto di ripetere tale ultimo pagamento, costituente un indebito oggettivo (Cass. 13-5-2021, n. 12885). 42 La disposizione dei fondi è connessa al rapporto di provvista che lega il cliente alla banca, molto spesso regolato in conto corrente. Nei confronti del beneficiario l’incarico di effettuare il pagamento ha natura di delegatio solvendi, senza che, pur in assenza di un espresso divieto del delegante, la banca delegata possa assumere un’autonoma obbligazione, ai sensi dell’art. 12691 verso il creditore delegatario al fine di compensare i crediti dalla stessa vantati, ove l’assunzione di tale obbligo si ponga in contrasto con il rapporto di mandato ex art. 1856 (Cass. 22-5-2015, n. 10545).

CAP. 2 – MODIFICAZIONI DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO

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un debito altrui (indebito soggettivo ex art. 2036) va risolta nei rapporti tra delegante e delegatario, con le debite ripetizioni in favore del delegante secondo le comuni regole. Per l’art. 12691, sebbene il debitore abbia delegato il terzo ad eseguire il pagamento, questi può comunque obbligarsi verso il creditore 43, salvo il divieto del debitore e sempre che il creditore l’accetti. Non obbligandosi il terzo verso il creditore, questi non ha titolo per agire nei suoi confronti. La delegazione di debito (delegatio promittendi) ha un meccanismo più complesso, per involgere più negozi. C’è anzitutto l’incarico (contenuto nel mandato delegatorio) del debitore al terzo di promettere il pagamento al creditore, cioè di assumere verso il creditore un proprio vincolo obbligatorio (per l’art. 12681 il debitore assegna al creditore un nuovo debitore, che si obbliga verso il creditore). È inoltre necessario un negozio di assunzione del debito da parte del delegato verso il creditore, che si atteggia come contratto con obbligazioni del solo proponente ai sensi dell’art. 1333; in assenza di dichiarazione di liberazione del debitore originario (assunzione cumulativa), può configurarsi come negozio unilaterale, con diritto del creditore di rifiutare il beneficio. Sarebbe anche richiesto un negozio di assegnazione del nuovo debitore, corrente tra delegante e delegatario: tale atto è però evitabile con l’accettazione da parte del creditore del nuovo debitore che si presenta nella veste di delegato. Esempio tipico di delegazione di debito è la cambiale tratta: il trattario che accetta l’incarico è obbligato al pagamento secondo lo schema della delegazione di debito dell’art. 1268. L’esito della delegazione di debito è l’assunzione del debito da parte del terzo verso il creditore: il debitore originario non è liberato dalla sua obbligazione, salvo che il creditore dichiari espressamente di liberarlo (art. 12681). È cioè presunta l’assunzione cumulativa del debito, per cui (salvo liberazione del debitore originario da parte del creditore) si realizza una obbligazione complessa con pluralità di debitori, che si tende a ricostruire come obbligazione solidale sussidiaria: il creditore che ha accettato l’obbligazione del terzo non può rivolgersi al delegante (debitore originario) se prima non ha richiesto l’adempimento al delegato (nuovo debitore) (art. 12682) (c.d. beneficium ordinis). In presenza di liberazione del debitore originario, si realizza l’assunzione liberatoria del debito altrui che è tipicamente una successione a titolo particolare nel debito, con sostituzione del debitore originario con il terzo nel medesimo rapporto (assunzione privativa); tranne che non sia pattuita un’assunzione novativa del debito, con estinzione del rapporto originario e costituzione di un nuovo rapporto con un diverso debitore (assunzione novativa) 44. In ogni caso il creditore che ha liberato il debitore originario non ha più azione contro di lui se il delegato diviene insolvente, salvo che ne abbia fatto espressa riserva (art. 12741). Tuttavia, se il delegato era insolvente al momento in cui assunse il debito nei confronti del creditore, il debitore originario non è liberato (art. 12742). 43 Per l’assunzione dell’obbligazione da parte del delegato al pagamento ex art. 1268 c.c. non sono richiesti speciali requisiti di forma, potendosene ammettere l’integrazione anche in virtù di facta concludentia ed, in via progressiva, se alla dichiarazione del delegante o del delegato o del delegatario si aggiunge quella delle altre parti in un momento successivo (Cass. 19-2-2019, n. 4852). 44 Nella delegatio promittendi, ex art. 1268 c.c., il delegato è direttamente obbligato verso il delegatario e questi può agire direttamente verso il delegato, mentre nella delegatio solvendi, ex art. 1269 c.c., è esclusa l’azione diretta del delegatario verso il delegato (Cass. 20-4-2020, n. 7945).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

– Rispetto al funzionamento dei titoli, si distinguono delegazione titolata e delegazione pura. La delegazione è titolata (o causale) se, all’atto dell’assunzione del debito da parte del terzo, si fa riferimento a uno dei rapporti di provvista e valuta o a entrambi: il richiamo rafforza la posizione del terzo abilitandolo a sollevare le eccezioni relative ai rapporti sottostanti; il terzo, nell’assumere il debito verso il creditore, può promettere di pagare nei limiti della capienza della provvista; ovvero, può promettere di pagare nella misura dovuta dal debitore (delegante) in virtù del rapporto di valuta 45; se sono richiamati entrambi i rapporti, sono sollevabili entrambi i tipi di eccezioni. In ogni caso, indipendentemente dal richiamo, la nullità di entrambi i rapporti è opponibile al delegatario: in tal caso, osserva la Relaz. cod. civ., n. 586, viene meno sia il fondamento economico che giustifica l’obbligazione del delegato, sia il fondamento che legittima il creditore a ricevere. La delegazione è pura (o astratta) se manca ogni riferimento ai rapporti sottostanti 46: tale tipo di delegazione rafforza la posizione del creditore in quanto, in assenza del richiamo dei rapporti sottostanti, il terzo non può opporre al creditore né le eccezioni che avrebbe potuto opporre al debitore (in virtù del rapporto di provvista), né quelle che avrebbe potuto opporre il debitore originario (in virtù del rapporto di valuta), tranne l’ipotesi di nullità dei due rapporti. Indipendentemente dal richiamo del rapporto di provvista, la delegazione è coperta se sussiste un precedente credito del debitore (delegante) verso il terzo (delegato); è scoperta (o anche detta allo scoperto) se manca ogni precedente credito. Il terzo (delegato) può sempre opporre al creditore (delegatario) le eccezioni relative ai “suoi rapporti con questo” (es. compensazione o vizio del negozio di assunzione del debito) (art. 12711). È presunta la delegazione pura (astratta): il terzo (delegato) non può opporre al creditore (delegatario) le eccezioni relative ai due rapporti sottostanti (di provvista e di valuta), salvo che non vi sia espresso riferimento agli stessi nel negozio di assunzione del debito (art. 12712-3). c) Quanto alla estinzione della delegazione, in entrambi i tipi di delegazione il delegante può revocare la delegazione (e dunque estinguerla) fino a quando il delegato non abbia adempiuto o assunto l’obbligazione verso il delegatario (art. 12701); ma il delegato può adempiere o assumere il debito verso il delegatario anche dopo la morte o la sopravvenuta incapacità del delegante (art. 12702). 45 Per la validità della delegazione titolata è sufficiente l’esistenza dei rapporti sottostanti di provvista e di valuta al momento della scadenza, mentre non è necessario che sussistano all’atto della stipulazione. È consentito configurare la delegazione titolata, oltre che relativamente a preesistenti rapporti di credito, già liquidi ed esigibili, anche riguardo a crediti che, ancorché esistenti, non siano ancora liquidi ed esigibili e riguardo a crediti futuri, che, pur non potendo ancora considerarsi esistenti, risultino tuttavia geneticamente collegati al non ancora avvenuto svolgimento di rapporti in atto tra delegante e delegatario al momento in cui viene compiuta la delegazione; nella delegazione doppiamente titolata, qualora risulti successivamente invalido o inefficace il rapporto di provvista, il delegato è legittimato ad agire nei confronti del delegante per la ripetizione di quanto versato al delegatario (Cass. 19-5-2004, n. 9470). 46 È il meccanismo normale quando si ricorre alla intermediazione bancaria nella regolazione dei rapporti commerciali tra piazze di Paesi diversi: per l’art. 1530, in tema di apertura di credito documentale, la banca che ha confermato il credito al venditore (creditore) può opporgli solo le eccezioni derivanti dall’incompletezza o irregolarità dei documenti e quelle relative al rapporto di conferma del credito: v. Cass. 29-1-2003, n. 1288.

CAP. 2 – MODIFICAZIONI DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO

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Sia nella delegazione di pagamento che nella delegazione di debito, il pagamento del delegato al delegatario realizza, ad un tempo, sia il rapporto di provvista (tra delegante e delegato) che quello di valuta (tra delegante e delegatario). d) Il regime delle eccezioni segna il fulcro del meccanismo delegatorio. Il terzo (delegato) può sempre opporre al creditore (delegatario) le eccezioni relative ai “suoi rapporti con questo” (es. compensazione o vizio del negozio di assunzione del debito) (art. 12711). Più articolato è il regime relativo agli altri rapporti. Rispetto agli altri rapporti, si è visto come sia presunta la delegazione pura (astratta): il terzo (delegato) non può opporre al creditore (delegatario) le eccezioni relative ai due rapporti sottostanti (di provvista e di valuta), salvo che non vi sia espresso riferimento agli stessi nel negozio di assunzione del debito (art. 12712-3). Se è richiamato il rapporto di provvista, può opporre le eccezioni opponibili al delegante, anche relativamente alla misura dell’importo dovuto al delegante; se è richiamato il rapporto di valuta, può opporre le eccezioni opponibili dal delegante al delegatario, anche relativamente alla misura dell’importo dovuto dal delegante; se sono richiamati entrambi i rapporti, sono sollevabili entrambi i tipi di eccezioni; se però è nullo il rapporto di valuta, può opporre le eccezioni relative al rapporto di provvista (art. 1271). In ogni caso, indipendentemente dal richiamo, la nullità di entrambi i rapporti è opponibile al delegatario: in tal caso, osserva la Relaz. cod. civ., n. 586, viene meno sia il fondamento economico che giustifica l’obbligazione del delegato, sia il fondamento che legittima il creditore a ricevere. La nullità di entrambi i rapporti è comunque opponibile al delegatario.

11. Espromissione. – L’espromissione è un contratto tra creditore e terzo, in virtù del quale il terzo (espromittente) assume verso il creditore (espromissario) il debito dell’obbligato originario (espromesso) senza ordine del debitore o, comunque, quand’anche esistente un rapporto sottostante, senza esternarlo al creditore. L’assunzione del debito è spontanea ovvero si rivela tale: pure in presenza di rapporti sottostanti tra debitore e terzo, è essenziale che l’assunzione del debito risulti svincolata da tali rapporti e comunque che il terzo non si presenti come delegato del debitore 47, salvo il rapporto interno col debitore 48. Nell’assunzione del debito altrui è anche normalmente fatta risiedere la causa del contratto di espromissione 49, quale che possa essere lo specifico interesse perseguito dal 47 È essenziale che l’assunzione risulti formalmente svincolata dai rapporti tra espromittente e debitore originario e che dunque il terzo, presentandosi al creditore, non giustifichi il proprio intervento con un preesistente accordo con l’obbligato; il debito resta immutato e pertanto il terzo assuntore può avvalersi di tutte le eccezioni fondate sul contratto tra espromesso ed espromissario e su quello di espromissione (Cass. 1-3-2022, n. 6732). 48 Quando manca un mandato delegatorio, l’espromittente che assume e poi estingue il debito altrui, se non ha agito con animo di liberalità, può rivalersi nei confronti del debitore originario nei limiti della gestione di affari (art. 2028) o dell’arricchimento senza causa (art. 2041). 49 Si è molto dibattuto circa la causa del contratto di espromissione e non è mancato chi ha parlato anche di negozio astratto. Per la giurisprudenza la causa dell’espromissione è costituita dall’assunzione del debito altrui con un’attività del tutto svincolata dai rapporti eventualmente esistenti fra terzo e obbligato, anche se non si richiede l’assoluta estraneità dell’obbligato rispetto al terzo, essendo necessario, invece, che il terzo, presentandosi al creditore, non giustifichi il proprio intervento con un preesistente accordo con l’obbligato (Cass. 7-12-2012, n. 22166; Cass. 16-2-2004, n. 2932; Cass. 13-12-2003, n. 19118).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

terzo (che può essere quello di estinguere un debito pregresso verso il debitore originario o anche di compiere una liberalità in suo favore): si pensi all’iniziativa del genitore che spontaneamente assume verso il creditore il debito contratto dal figlio. Con la conseguenza che, se la precedente obbligazione non esiste o è stata estinta, l’espromissione cade per mancanza di causa. Anche la espromissione, in sé, determina la sola assunzione del vincolo obbligatorio da parte del nuovo debitore che si affianca al debitore originario (assunzione cumulativa), tranne che il creditore non dichiari espressamente di liberare il debitore originario (assunzione liberatoria) (art. 12721). Pure nell’espromissione cumulativa opera la solidarietà con i caratteri della sussidiarietà. L’espromissione liberatoria, a sua volta, si presume privativa, come successione nel debito; tranne che non sia stata espressamente pattuita come novativa. Come la delegazione passiva di debito, anche la espromissione si configura quale contratto “obbligazioni del solo proponente” ai sensi dell’art. 1333; in assenza di dichiarazione di liberazione del debitore originario (assunzione cumulativa), può configurarsi come negozio unilaterale, con diritto del creditore di rifiutare il beneficio. Conseguenziale è il regime delle eccezioni. Il mancato richiamo ad una eventuale delega da parte del debitore originario esclude in radice che il terzo espromittente possa opporre al creditore le eccezioni relative ai suoi rapporti col debitore originario (rapporto di provvista), tranne che non sia convenuto diversamente (art. 12722). Avendo assunto un debito altrui, l’espromittente può invece opporre al creditore le eccezioni che allo stesso avrebbe potuto opporre il debitore originario (rapporto di valuta): così sono opponibili le eccezioni relative alla costituzione e alla estinzione del rapporto obbligatorio, se non sono personali al debitore originario (es. incapacità) e non derivano da fatti successivi all’espromissione. L’espromittente non può opporre al creditore la compensazione che avrebbe potuto opporgli il debitore originario, quand’anche verificatasi prima dell’espromissione (art. 12723).

12. Accollo. – L’accollo è un contratto tra debitore e terzo, con il quale il terzo (accollante) assume nei confronti del debitore (accollato) il debito che questi ha verso il creditore (accollatario). Se le parti aprono la convenzione all’adesione del creditore, questi può aderire alla convenzione rendendo irrevocabile la stipulazione a suo favore (art. 12731). L’accollo del debito altrui può trovare varie giustificazioni: ad es., il terzo (accollante) può decidersi all’assunzione del debito altrui per estinguere un suo debito verso il debitore (accollato) o per compiere in suo favore un’operazione di finanziamento, o anche solo per spirito di liberalità verso lo stesso. Molto spesso l’accollo si inserisce nella causa di un diverso contratto (ad es. vendita con accollo di mutuo, di cui in seguito). La struttura base dell’accollo corre tra debitore e terzo (accollo interno); più spesso però nella realtà economica involge l’adesione del terzo (accollo esterno). a) L’accollo interno (o semplice) non è regolato dal codice civile, ma è di elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. Si svolge fra terzo (accollante) e debitore (accollato) senza produrre alcun effetto giuridico nei confronti del creditore, il quale ne rimane estraneo non acquistando alcun diritto verso l’accollante. Il terzo assume nei confronti del debitore l’obbligo di tenerlo indenne dal peso del debito (apprestando in anticipo al debitore i mezzi occorrenti, ovvero reintegrandolo successivamente del carico dell’adempimento) o

CAP. 2 – MODIFICAZIONI DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO

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anche adempiendo come terzo 50. Si pensi all’ipotesi di separazione consensuale dove uno dei coniugi si accolla per intero il pagamento delle residue rate di mutuo per l’acquisto della casa familiare (specie in presenza di figli). Consegue che accollante e accollato possono risolvere o modificare la convenzione di accollo senza l’intervento del creditore. Nel caso di mancata osservanza dell’obbligo, l’accollante risponde dell’inadempimento nei confronti del solo debitore accollato e non anche verso il creditore (estraneo all’accollo). Per non essere previsto dalla legge, l’accollo interno deve essere espressamente pattuito. Quando è stipulato tra terzo e debitore un accollo a favore del creditore, ove il terzo non aderisca, l’accollo esterno si converte in accollo interno. b) L’accollo esterno è l’unico previsto dalla legge (art. 1273). Rappresenta la figura ordinaria e più complessa di accollo per produrre effetti anche verso il creditore (accollatario). Ad es., nel mercato immobiliare, è prassi che il costruttore si procuri il danaro necessario alla costruzione di un fabbricato prendendo a mutuo dalla banca la somma necessaria alla costruzione, la cui restituzione provvede a frazionare tra i futuri acquirenti in proporzione al valore dei singoli appartamenti realizzati; con la vendita degli appartamenti ciascuno dei compratori si accolla parte del debito del costruttore, verso la banca, di restituzione della somma presa a mutuo proporzionale alla tipologia dell’immobile acquistato (c.d. rate di mutuo): l’accollo del mutuo è partecipe del contenuto del contratto di vendita stipulato tra costruttore e compratore, essendo parte del prezzo pagata mediante accollo del mutuo. Si è propensi a ritenere che, anche in presenza della liberazione del debitore originario, l’accollo si configuri come stipulazione a favore di terzo in quanto è comunque procurato al creditore l’effetto favorevole di un nuovo debitore, che prima non c’era; e d’altra parte la liberazione del debitore originario non può avvenire contro la volontà del creditore. Il negozio di assunzione del debito altrui (corrente tra debitore e terzo) è destinato a produrre effetti verso il creditore (accollatario), il quale, con suo atto unilaterale, può fare adesione al contratto tra debitore e terzo, secondo le regole proprie del contratto a favore di terzi (art. 1411). L’adesione del creditore non è elemento perfezionativo della stipulazione tra debitore e terzo: il creditore acquista il diritto per effetto della stipulazione preordinata a produrre effetti verso lo stesso. L’adesione del creditore integra la dichiarazione di voler profittare dell’effetto a suo favore, così rendendo irrevocabile e immodificabile la stipulazione a suo favore (artt. 13731, 14112). È anche possibile l’accollo di una debitoria che implica l’assunzione dei singoli debiti verso i vari creditori 51. Di regola l’accollo cumulativo, rimanendo il terzo (accollante) ed il debitore (ac50 L’accordo con il quale una parte si obbliga a tenere indenne l’altra da ogni pretesa fiscale (nella specie, relativa ad un immobile assegnato in forza di un accordo divisorio) ha natura di accollo interno, rilevante esclusivamente tra i privati stipulanti e non verso l’Amministrazione finanziaria, non avendo effetto sull’individuazione del soggetto passivo; sul rapporto fra contribuente e P.A. o sul potere impositivo di quest’ultima; esso è, pertanto, valido e la controversia che lo riguarda è devoluta alla giurisdizione ordinaria (Cass. 21-2-2020, n. 4589). 51 La convenzione con la quale l’acquirente, in corrispettivo della cessione di attività mobiliari e immobiliari comprese in un ramo di azienda, si accolli i debiti relativi all’azienda ceduta, configura un accollo ad oggetto determinabile, essendo identificabili, all’atto della stipula, gli eventuali debiti e i rispettivi creditori, e comporta, in caso di preliminare di vendita, che l’effetto traslativo sia collegato all’effettiva assunzione dei debiti nei confronti degli accollatari (Cass. 5-6-2018, n. 14372).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

collato) obbligati solidalmente verso il creditore (art. 12734). La giurisprudenza ha esteso all’accollo la regola della sussidiarietà in tema di delegazione (beneficum ordinis) 52. Si ha accollo liberatorio quando il contratto di accollo cui aderisce il creditore contiene la condizione espressa della liberazione del debitore originario: in tal caso l’adesione alla stipulazione comporta, ad un tempo, anche la liberazione del debitore; in ogni caso il creditore, pure in assenza della condizione di liberazione, può con propria dichiarazione espressa liberare il debitore originario (art. 12732) 53. L’assunzione liberatoria del debito altrui comporta successione nel debito originario (accollo privativo), tranne che non sia stata prevista la novazione del debito originario (accollo novativo). Come per la delegazione passiva, il creditore che ha aderito ad un accollo liberatorio non ha azione contro il debitore originario se l’accollante diviene insolvente, salvo che ne abbia fatto espressa riserva (art. 12741,3). Se però l’accollante era già insolvente al tempo in cui assunse il debito nei confronti del creditore, il debitore originario non è liberato (art. 12742): ciò per non avere verificato preventivamente la insolvenza del terzo o peggio per essere stato connivente. Quando il creditore libera il debitore originario, si estinguono le garanzie annesse al credito, tranne che il datore delle garanzie acconsente a mantenerle (art. 1275). Se l’obbligazione assunta verso il creditore è dichiarata nulla o è annullata, e vi era stata liberazione del debitore originario, l’obbligazione di questo rivive, ma il creditore non può valersi delle garanzie prestate da terzi (art. 1276). Anche quando viene meno il contratto base al quale l’accollo liberatorio afferisce (per invalidità, rescissione, risoluzione, revocatoria), viene meno la pattuizione di accollo, e l’obbligazione originaria rivive. L’accollo liberatorio può essere coperto o scoperto (c.d. allo scoperto) a seconda che sussista o meno un rapporto sottostante di debito del terzo (accollante) verso il debitore originario (accollato): quando è coperto, il pagamento dell’accollante in favore del terzo creditore vale ad estinguere sia l’obbligazione dell’accollante verso il debitore sia quella di quest’ultimo verso il proprio creditore 54. Quanto al regime delle eccezioni, aderendo il creditore ad un contratto stipulato da altri (debitore e terzo), soggiace a tutte le eccezioni che vi ineriscono: il terzo (accollante) è obbligato verso il creditore nei limiti in cui ha assunto il debito, e può opporre al creditore le eccezioni fondate sul contratto di assunzione del debito (art. 12734), cioè relative al rapporto con il debitore originario (es. la misura del debito assunto, la nullità del contratto di accollo, ecc.) (rapporto di provvista). Anche in assenza di espressa previsione deve ritenersi che l’accollante possa far valere nei confronti del creditore le eccezioni relative al rapporto tra debitore originario e creditore (rapporto di valuta) in quanto 52 Nell’accollo cumulativo esterno, non liberatorio per il debitore originario, l’obbligazione dell’accollato, in analogia alla disciplina dettata per la delegazione dall’art. 12682, degrada ad obbligazione sussidiaria, con la conseguenza che il creditore ha l’onere di chiedere preventivamente l’adempimento all’accollante, anche se non è tenuto ad escuterlo preventivamente, e soltanto dopo che la richiesta sia risultata infruttuosa può rivolgersi all’accollato (Cass. 24-2-2010, n. 4482; Cass. 24-5-2004, n. 9982). 53 La mera adesione del creditore alla convenzione di accollo, in mancanza di volontà espressa ed inequivoca di liberazione del debitore, comporta solo l’effetto di degradare l’obbligazione del debitore a sussidiaria ed il conseguente onere di chiedere preventivamente l’adempimento all’accollante (Cass. 8-2-2012, n. 1758). 54 L’accollo non allo scoperto – in cui, cioè, l’accollante è obbligato verso il debitore e il suo pagamento vale ad estinguere, perciò, entrambi i debiti – rientra tra i possibili modi di pagamento del terzo soggetti a revocatoria fallimentare (Cass. 4-5-2012, n. 6795).

CAP. 2 – MODIFICAZIONI DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO

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l’assenza o la estinzione del rapporto obbligatorio originario rende priva di fondamento l’assunzione del terzo e dunque l’adesione del creditore.

C) MODIFICAZIONI OGGETTIVE 13. Modificazioni non novative. – La legge prevede la novazione come fattispecie produttiva di una vicenda estintiva dell’obbligazione: come si vedrà, la novazione produce la estinzione del rapporto obbligatorio, con la costituzione di un nuovo rapporto (artt. 1230 ss.) (VII, 3.13). La modificazione oggettiva non novativa ha riguardo ad una modificazione del contenuto o dell’oggetto della obbligazione, che resta in vita: le modificazioni dell’oggetto dell’obbligazione non importano estinzione dell’obbligazione (modificazioni c.d. semplici). L’art. 1231 prevede che il rilascio di un documento o la sua rinnovazione, l’apposizione o l’eliminazione di un termine e ogni modificazione accessoria dell’obbligazione non producono novazione: la giurisprudenza tende a dilatare la portata dell’art. 1231, applicando tale norma anche a modificazioni che incidono sull’oggetto dell’obbligazione in assenza di un animus novandi e di un aliquid novi (VII, 3.13). 14. Surrogazione reale. – È la forma più significativa di modificazione oggettiva senza effetto novativo. Un fenomeno di surrogazione reale si ha in conseguenza della impossibilità sopravvenuta della prestazione dovuta. Per l’art. 1259 il creditore della prestazione divenuta impossibile subentra nei diritti spettanti al debitore in dipendenza del fatto che ha causato l’impossibilità, e può esigere dal debitore la prestazione di quanto questi abbia conseguito a titolo di risarcimento danni. Si realizza in tal guisa una doppia possibilità per il creditore: di subingresso nei diritti spettanti al debitore verso il terzo per la distruzione della cosa e di esazione della prestazione sostituiva del risarcimento danni, che il debitore è tenuto a procurare al creditore in luogo di quella originaria. Altra figura si ha in tema di deposito, per l’ipotesi di perdita non imputabile della detenzione della cosa (art. 17802): il depositante (creditore della prestazione di restituzione) ha diritto di ricevere ciò che il depositario abbia conseguito in dipendenza del fatto, subentrando nei relativi diritti. Ulteriore figura si ha con riguardo all’assicurazione contro i danni di cose soggette a privilegio, pegno o ipoteca. Se le cose periscono o si deteriorano, le somme dovute dagli assicuratori per indennità della perdita o del deterioramento sono vincolate al pagamento dei crediti privilegiati, pignoratizi o ipotecari secondo il loro grado di preferenza (con surrogazione dunque dell’indennità assicurativa alla cosa) (art. 2742).

CAPITOLO 3

ESTINZIONE DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO (Vicende estintive)

Sommario: 1. Tipologie e modi di estinzione. – A) ADEMPIMENTO. – 2. Attuazione del rapporto obbligatorio. – 3. Esattezza dell’adempimento. Diligenza e correttezza. – 4. Segue. Modalità dell’adempimento e imputazione del pagamento. – 5. Adempimento del terzo. – 6. Dazione in pagamento. La cessione di credito di imposta. – 7. Mora del creditore. La posizione soggettiva del creditore. – 8. Segue. Costituzione in mora e liberazione dall’obbligazione. – B) MODI DI ESTINZIONE DIVERSI DALL’ADEMPIMENTO. – 9. I modi di estinzione indirettamente satisfattivi. – 10. Compensazione. – 11. Confusione. – 12. I modi di estinzione non satisfattivi. – 13. Novazione (oggettiva e soggettiva). – 14. Remissione del debito (e pactum de non petendo). – 15. Impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore.

1. Tipologie e modi di estinzione. – Come si è visto, il rapporto obbligatorio è finalizzato al soddisfacimento dell’interesse di un soggetto (creditore) tramite la cooperazione di altro soggetto (debitore). Il rapporto obbligatorio è dunque destinato ad estinguersi o quando il soddisfacimento è realizzato o quando è sicuro che non può realizzarsi o quando è realizzato un interesse diverso da quello perseguito dal creditore ma che la legge o lo stesso creditore considera idoneo a giustificare la estinzione della obbligazione. In generale esistono più ragioni di estinzione dei diritti: ad es., la prescrizione, per cui ogni diritto disponibile si estingue quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge (art. 2934) (II, 4.9); la morte del titolare di situazioni indisponibili, per cui si estinguono con la morte le obbligazioni soggettivamente infungibili o ritenute tali dalle parti (es. artt. 1674 e 1722). In questo capitolo si ha riguardo alle cause specifiche di estinzione dell’obbligazione. Come per le modificazioni, anche per l’estinzione la normativa del codice è riferita ad un singolo rapporto obbligatorio (corrente tra due soggetti o tra più soggetti). Quando l’obbligazione è connessa ad altre obbligazioni, come ad es. in un contratto a prestazioni corrispettive, la sorte della singola obbligazione si riflette sulla sorte delle altre obbligazioni per il più complesso rapporto instaurato. I modi di estinzione dell’obbligazione sono così delineati dal codice civile: Adempimento (artt. 1176 c.c.), come modo generale e fisiologico di estinzione dell’obbligazione; Modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento (artt. 1230 ss.), come modi alternativi di determinazione dell’estinzione. È possibile raggruppare i vari modi di estinzione dell’obbligazione secondo un criterio funzionale in due grandi categorie, a seconda

CAP. 3 – ESTINZIONE DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO

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che realizzino o meno il soddisfacimento del creditore, e perciò distinguendosi tra modi di estinzione satisfattivi e modi di estinzione non satisfattivi. a) Sono modi di estinzione satisfattivi quelli che determinano la estinzione dell’obbligazione con la realizzazione (in qualche modo) dell’interesse del creditore (vicende estintive satisfattive). Si comprende in tale categoria, anzitutto, l’adempimento che rappresenta il modo fisiologico di estinzione del rapporto obbligatorio, in quanto fa conseguire al creditore il risultato originario perseguito mediante l’esecuzione della prestazione da parte del debitore: si produce cioè il soddisfacimento diretto del creditore. Esistono poi cause satisfattive di estinzione dell’obbligazione che realizzano, sì un interesse del creditore, ma diverso da quello originario perseguito: si produce cioè un soddisfacimento indiretto del creditore. Tali sono la compensazione e la confusione. b) Sono modi di estinzione non satisfattivi quelli che determinano la estinzione dell’obbligazione senza soddisfacimento di un interesse del creditore, né quello originario perseguito né uno di segno diverso (vicende estintive non satisfattive): tali sono la novazione, la remissione del debito e la impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore. Secondo l’impianto del codice civile, parliamo prima dell’adempimento, come mezzo fisiologico di estinzione dell’obbligazione, e poi degli altri mezzi di estinzione.

A) ADEMPIMENTO 2. Attuazione del rapporto obbligatorio. – All’adempimento il codice civile dedica l’intero Capo II (artt. 1176 ss.), quale figura più diffusa e auspicabile di estinzione dell’obbligazione. L’adempimento è l’attuazione dell’obbligo dovuto. È atto dovuto dal debitore per procurare al creditore il bene perseguito; perciò l’adempimento costituisce vicenda estintiva tipicamente satisfattiva. Talvolta la legge utilizza il termine pagamento in luogo di adempimento (es. art. 2033), per essere la prestazione di somma di danaro l’oggetto più diffuso di obbligazione, ma è lessico più corretto riferire il termine pagamento alla corresponsione di una somma di danaro. L’adempimento rappresenta il modo fisiologico di attuazione del rapporto obbligatorio in quanto realizza la pretesa del creditore attraverso l’attuazione dell’obbligo da parte del debitore. Caratterizzandosi come atto dovuto, l’adempimento del debitore non ha natura negoziale. È opinione diffusa che sia un atto in senso stretto (atto meramente esecutivo) per la cui conformità all’ordinamento è sufficiente la materialità del comportamento tenuto dal debitore, essendo irrilevante l’intento che lo sostiene e dunque la volontà solutoria del debitore (c.d. animus solvendi) 1. Il debitore che ha eseguito la prestazione dovuta non può impugnare l’adempimento per incapacità (art. 1191), proprio in quanto il bene procurato al creditore era comunque dovuto; e ciò a differenza dell’esecuzione di obbli1 L’intento solutorio, anche quando sia rilevabile in concreto, non assume alcun rilievo ai fini della qualificazione dell’atto in questione; eventuali riserve manifestate dal debitore al momento del pagamento non fanno venire meno il carattere satisfattorio della prestazione effettuata: anche in presenza di un pagamento con riserva di ripetizione, devono ritenersi realizzate le condizioni per la cancellazione di ipoteca ex art. 2878 e sussistente l’obbligo del creditore soddisfatto di prestare il consenso alla cancellazione (Cass. 27-7-1998, n. 7357).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

gazione naturale, per la quale è richiesta la capacità di agire del solvens (art. 2034) (VII, 1.10). Il tema dell’adempimento è intrecciato con quello dell’inadempimento dell’obbligazione (art. 1218) di cui si parlerà in seguito (VII, 4.1). L’esecuzione della prestazione può essere compiuta dal debitore personalmente o mediante un mandatario (con o senza rappresentanza) o altro soggetto legittimato all’adempimento. Il debitore risponde per fatto degli ausiliari di cui si avvale nell’adempimento dell’obbligazione (art. 1228); esistono soggetti legittimati dalla legge ad adempiere in sostituzione del debitore: es., il rappresentante legale del soggetto incapace, o altri soggetti per specifici debiti (ad es., organi giudiziari, ecc.). Le spese dell’adempimento sono a carico del debitore (art. 1196). È però consentito alle parti derogare a tale previsione, ponendole a carico del creditore; nella legge sono previsti regimi specifici, connessi all’attribuzione della proprietà (es. in tema di vendita ex artt. 1475 e 15102). Vanno comprese tra le spese sia quelle materiali, che quelle giuridiche e specificamente fiscali. È dibattuta la figura del c.d. pagamento traslativo, cioè l’atto con cui il debitore adempie una pregressa obbligazione di dare con trasferimento al creditore della proprietà di un determinato bene. Viene in gioco la possibilità di adempiere una obbligazione di trasferimento della proprietà e in generale di un diritto con atto unilaterale, a fronte sia del numero chiuso dei modi di acquisto della proprietà (art. 922), sia del principio di causalità dei negozi traslativi (art. 1325), sia del principio operante nel sistema del consenso traslativo (art. 1376). All’uopo si è rilevato che il consenso traslativo è lo strumento tipico previsto dall’ordinamento (art. 1376); ma non è un principio di ordine pubblico per non integrare un valore costituzionale. Sussistono ipotesi tipiche di adempimento traslativo, come il ritrasferimento che il mandatario senza rappresentanza compie al mandante dell’immobile o mobile registrato acquistato (art. 17062), o il legato di cosa dell’onerato o di un terzo per cui l’onerato, se risulta che il testatore sapeva che la cosa legata apparteneva ad un terzo, è obbligato ad acquistare la proprietà della cosa dal terzo e a trasferirla al legatario (art. 651). Nulla quindi esclude che l’autonomia privata, ai sensi dell’art. 13222, possa forgiare strumenti alternativi di trasferimento dei diritti purché causali; è stata all’uopo individuata una causalità esterna al singolo atto traslativo, rinvenibile nella programmazione della complessiva operazione economica. È da ritenersi che, emergendo la causa esterna dell’operazione, sia possibile il compimento di un atto unilaterale traslativo, solvendi causa, assoggettato a trascrizione ex art. 2645 quale “altro atto” produttivo dell’effetto traslativo di cui all’art. 2643. È anche dibattuta l’esistenza di un diritto del debitore all’adempimento, per cui la prestazione, oltre che essere oggetto dell’obbligo del debitore, possa anche costituire oggetto di un suo diritto. Non c’è nella legge un generale riconoscimento del diritto del debitore ad adempiere. Come si vedrà, la legge si limita a prevedere un diritto di opposizione del debitore all’adempimento del terzo (art. 11802) (VII, 3.5) e un diritto del debitore alla liberazione dall’obbligazione attraverso la mora del creditore (art. 1206) (VII, 3.7). Si deve però ritenere che, alla stregua del generale dovere di correttezza che grava sul debitore e sul creditore ex art. 1175 nell’attuale significazione di solidarietà (VII, 1.9), vada riconosciuto un interesse del debitore all’adempimento quando lo stesso esprima un interesse giuridicamente protetto; il debitore è tenuto a provare l’esistenza di uno specifico interesse personale ad eseguire la prestazione dovuta ulteriore rispetto alla

CAP. 3 – ESTINZIONE DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO

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trama di interessi coinvolti dal rapporto obbligatorio, che non è soddisfacibile attraverso la liberazione dal vincolo obbligatorio. Tale interesse all’adempimento, come di regola, può essere di varia natura: sia di carattere economico, come ad es. l’esecuzione di un mandato conferito anche nell’interesse del mandatario, per l’utilità che allo stesso consegue dalla esecuzione del mandato (art. 17232); sia di carattere non economico, come ad es. l’interesse del lavoratore dipendente ad eseguire la prestazione dovuta secondo le mansioni affidategli, per la realizzazione della sua personalità (art. 2103) 2; sia con entrambi i caratteri: ad es. l’interesse dell’artista a tenere la rappresentazione teatrale, per la notorietà di immagine che ne deriva e il ritorno economico che ne consegue. Il debitore che ha adempiuto ha diritto ad ottenere la quietanza a proprie spese, che non deve avere forme particolari 3; ha altresì diritto che sia annotato il pagamento sul titolo se questo non viene restituito (19991). Il rilascio di quietanza per il capitale fa presumere il pagamento degli interessi (art. 11992). La quietanza ha natura di atto unilaterale di riconoscimento dell’adempimento 4, con funzione di confessione stragiudiziale ai sensi dell’art. 27351; perciò non può provarsi per testimoni, se verte su un oggetto per il quale la prova testimoniale non è ammessa (art. 27352) e non può essere revocata se non si prova che è stata determinata da errore di fatto o da violenza (art. 2732) 5. Sotto il medesimo Capo II, relativo all’adempimento dell’obbligazione, è collocato il pagamento con surrogazione (artt. 1201 ss.) in quanto presupposto della surrogazione è appunto l’adempimento. Si è preferito trattare della figura innanzi, parlando delle modificazioni del lato attivo del rapporto obbligatorio, in quanto, determinandosi la surrogazione di un terzo nella titolarità del credito, l’obbligazione non si estingue ma continua a vivere con la sostituzione di un nuovo creditore all’originario creditore, con successione nel lato attivo del rapporto obbligatorio.

3. Esattezza dell’adempimento. Diligenza e correttezza. – La prestazione dovuta deve essere eseguita in modo esatto: per la fondamentale regola dell’art. 1218 il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se 2 L’art. 2103 c.c. fonda un diritto del lavoratore all’effettivo svolgimento della propria prestazione di lavoro, atteso che il lavoro non è soltanto un mezzo di sostentamento e di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del lavoratore; la lesione di tale interesse costituisce un inadempimento contrattuale da parte del datore di lavoro e determina, oltre all’obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute, l’obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione professionale (Cass. 9-2-2007, n. 2878). 3 La quietanza può essere contenuta anche nella fattura che il creditore invii al proprio debitore e risultare da qualsiasi non equivoca attestazione dell’adempimento dell’obbligazione, come l’annotazione “pagato” o altra equivalente, apposta sulla fattura, che riveli sia l’ammontare della somma pagata, sia il titolo per il quale il pagamento è avvenuto, sempreché tale annotazione sia sottoscritta dal soggetto da cui essa proviene (Cass. 31-10-2011, n. 22655). 4 Il creditore, il quale rilascia quietanza al debitore, ammette il fatto del ricevuto pagamento e rende confessione stragiudiziale alla parte, con piena efficacia probatoria, ai sensi degli artt. 2733 e 2735 c.c. (Cass. 14-12-2018, n. 32458). Dalla quietanza non può di regola desumersi l’esistenza di una volontà del creditore transattiva o di rinuncia ad altre pretese, salvo che questa non risulti da speciali elementi e dal tenore del documento (Cass. 28-3-2003, n. 4688). 5 L’esistenza del fatto estintivo (pagamento) può essere contestata soltanto mediante la prova degli stessi fatti (errore di fatto o violenza) richiesti dall’art. 2732 c.c. per privare di efficacia la confessione, restando irrilevanti il dolo e la simulazione (Cass. 6-10-2014, n. 20993). Conf. Cass. 20-2-2018, n. 4063.

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. a) Anzitutto il debitore deve procurare il bene dovuto. L’adempimento deve essere integrale, nel senso che il debitore è tenuto ad eseguire la prestazione dovuta procurando per intero il bene promesso (cosa o fatto). Il creditore può rifiutare un adempimento parziale, anche se la prestazione è divisibile, salvo che la legge o gli usi dispongano diversamente (art. 1181): ad es. in materia di cambiale e di assegno (art. 452 R.D. 1669/1933, e art. 372 R.D. 1736/1933) 6. In ogni caso l’adempimento parziale, ricevuto dal creditore, non è causa di estinzione del debito, tranne che non sia espressamente accettato come tale 7. L’adempimento parziale non è di ostacolo alla normale tutela per inadempimento contrattuale se la parte residua non è di scarsa importanza (art. 1455) 8. Se però la prestazione è divenuta parzialmente impossibile, il debitore si libera dall’obbligazione eseguendo la parte che è rimasta possibile (art. 1258). Se l’adempimento ha per oggetto cose, deve essere eseguito con cose di cui il debitore possa disporre; il debitore non può però impugnare l’adempimento eseguito con cose altrui, tranne che non offra di rinnovare l’esecuzione della prestazione con cose proprie. L’adempimento eseguito con cose altrui può invece essere impugnato dal creditore che l’ha ricevuto in buona fede; salvo il diritto al risarcimento del danno (art. 1192). Quando ha ad oggetto cose determinate solo nel genere, il debitore deve prestare cose di “qualità non inferiore alla media” (art. 1178). Norme particolari valgono per l’adempimento delle obbligazioni pecuniarie (VII, 1.16); per importi elevati, si è soliti pagare a mezzo strumenti bancari (assegni o bonifici), con funzione di dazione in pagamento (par. 6). L’obbligazione di consegnare una cosa determinata include quella di custodirla (art. 1177). Ciò implica che il contenuto della obbligazione di consegna è integrato da una prestazione di custodia accessoria e strumentale alla obbligazione principale di consegna. Il principio trova un’applicazione concreta in tema di vendita, dove l’art. 1477 fa obbligo al venditore di consegnare la cosa nello stato in cui si trovava al momento della vendita. Salva diversa volontà delle parti, il debitore può eseguire la prestazione dovuta anche 6 Il creditore non è tenuto ad accettare un adempimento parziale, ma ha la facoltà (in previsione di una sua maggiore pretesa od altro) di accettare o domandare un pagamento parziale (Cass. 15-4-1998, n. 3814). Né l’accettazione del pagamento parziale implica, di per sé, rinunzia al credito residuo. 7 La rinuncia ad un diritto, anche di azione, non può desumersi che da circostanze di fatto concludenti, univoche ed incompatibili con l’intenzione di avvalersi del medesimo diritto; è facoltà del creditore, ex art. 1181, accettare un pagamento parziale, senza necessità di riserva del residuo, né in sé può determinare l’esaurimento del rapporto (Cass. 7-10-2021, n. 27226). 8 L’accettazione, da parte del creditore, dell’adempimento parziale non estingue il debito, ma semplicemente lo riduce, non precludendo al creditore di azionare la risoluzione del contratto ove la parte residuale del credito rimasta scoperta comporti ugualmente la gravità dell’inadempimento; nel contratto di appalto il committente può trattenere la parte di manufatto realizzata e provvedere direttamente al completamento e alla eliminazione degli eventuali difetti riscontrati, chiedendo poi il risarcimento dei danni, con una riduzione del prezzo pattuito, tenuto conto sia del valore dell’opera ineseguita che dell’ammontare delle spese sostenute dal suddetto (Cass. 25-1-2022, n. 2223; Cass. 8-1-1987, n. 20). L’accettazione di una parte dell’opera, considerata quindi soddisfacente, rende più problematica la valutazione se la parte mancate possa considerarsi di rilevante importanza, ai fini della risoluzione.

CAP. 3 – ESTINZIONE DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO

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avvalendosi dell’opera di terzi, rispondendo dei fatti dolosi o colposi di costoro (art. 1228) (sulla responsabilità per l’operato dei sostituti, in seguito). b) L’esecuzione della prestazione deve avvenire nel rispetto di due fondamentali obblighi: la diligenza del comportamento e la correttezza relazionale, quest’ultima imposta anche al creditore. Il dovere di diligenza inerisce alla esecuzione della prestazione dovuta, come contenuto della posizione passiva: perciò è riferito al solo debitore, che, nell’adempiere l’obbligazione, deve usare la necessaria diligenza (art. 1176). La previsione del dovere di “diligenza nell’adempimento” opera come una clausola generale con lo scopo, proprio delle clausole generali, di fare operare un principio generale nella concretezza del caso specifico. In particolare l’art. 1176 ha il significato di determinare il comportamento dovuto dal debitore e cioè lo sforzo (personale, economico, tecnico) che, nel caso concreto, si può chiedere al debitore (e cui egli è tenuto) per soddisfare l’interesse del creditore. In tal modo il dovere di diligenza, in quanto criterio di determinazione della prestazione, si atteggia quale fonte legale di integrazione dell’obbligo del debitore, essendo il debitore tenuto, nell’eseguire la prestazione dovuta, a compiere quanto è necessario all’adempimento, secondo i parametri appresso indicati. Osserva efficacemente la Relaz. cod. civ., n. 559, che la diligenza, come misura del comportamento del debitore, riassume in sé quel complesso di cure e cautele che ogni debitore deve normalmente impiegare nel soddisfare la propria obbligazione, avuto riguardo alla natura del particolare rapporto ed a tutte le circostanze di fatto che concorrono a determinarlo. L’inosservanza della diligenza dovuta comporta inadempimento dell’obbligazione (art. 1218). Sono fissati due parametri di diligenza che operano come altrettanti criteri di valutazione del comportamento dovuto. Un parametro generale impone al debitore di usare “la diligenza del buon padre di famiglia” (art. 11761). È la c.d. diligenza generica: il riferimento è alla espressione tradizionale del bonus pater familias, con la quale, storicamente, si è indicata l’attenzione dell’uomo comune, accorto ed equilibrato nella cura dei propri interessi: il contenuto di tale criterio va determinato in concreto con riferimento alle circostanze dell’adempimento e al titolo dell’obbligazione. Il tema è spesso oggetto di valutazione quando è utilizzato l’ausilio bancario nel pagamento 9. Di regola il titolo gratuito della prestazione comporta una verifica meno rigorosa della responsabilità del debitore e dunque della diligenza impiegata: ad es., se il mandato o il deposito sono gratuiti, è valutata con minor rigore la responsabilità del mandatario (art. 1710) e del depositario (art. 1768). Un parametro specifico opera per le sole obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale: in tali ipotesi la diligenza è valutata secondo la “natura dell’attività esercitata” 9 La spedizione per posta ordinaria di un assegno, ancorché munito di clausola d’intrasferibilità, costituisce, in caso di sottrazione del titolo e riscossione da parte di un soggetto non legittimato, condotta idonea a giustificare l’affermazione del concorso di colpa del mittente, comportando, in relazione alle modalità di trasmissione e consegna previste dalla disciplina del servizio postale, l’esposizione volontaria del mittente ad un rischio superiore a quello consentito dal rispetto delle regole di comune prudenza e del dovere di agire per preservare gli interessi degli altri soggetti coinvolti nella vicenda, e configurandosi dunque come un antecedente necessario dell’evento dannoso, concorrente con il comportamento colposo eventualmente tenuto dalla banca nell’identificazione del presentatore (Cass., sez. un., 26-5-2020, n. 9769, e Cass., sez. un., 28-5-2020, n. 10079).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

(art. 11762). È la c.d. diligenza tecnica o qualificata operante nel mondo delle imprese e delle professioni, che implica conoscenze e perizia tecnica nell’espletamento dell’attività economica professionale 10. L’integrazione del criterio generale a quello specifico relativo alle attività professionali assume il valore di indicare il riferimento alla conoscenza comune e diffusa nell’ambito dell’attività professionale di riferimento; peraltro il grado di conoscenza atteso è differente se la prestazione sia dovuta da un comune operatore o da un soggetto considerato specialista del settore, anche in ragione del regolamento economico della prestazione. Solo quando la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà opera la norma complementare dell’art. 2236 c.c., che delimita la responsabilità professionale al dolo o alla colpa grave (se ne parlerà nel contratto d’opera: IX, 2.5). Il dovere di correttezza inerisce al rapporto sociale instaurato con l’obbligazione, perciò opera a carico di entrambi i soggetti del rapporto obbligatorio, che devono comportarsi “secondo le regole della correttezza” (art. 1175). Il criterio si lega al fondamentale principio di buona fede (oggettiva) che informa la vita dei contratti e delle obbligazioni e che, quale esplicazione del dovere di solidarietà, sempre deve sovrintendere alla relazionalità sociale (II, 7.3). Il principio va articolato nei due essenziali versanti della lealtà e della protezione. Sul versante della lealtà, c’è l’esigenza, non solo di non gabellare l’altro soggetto del rapporto obbligatorio, ma anche di non aggravare la posizione altrui (II, 7.5). Ad es. la giurisprudenza ha considerato in contrasto con il principio di buona fede il comportamento del creditore di artificioso frazionamento del credito in plurime richieste giudiziali di adempimento per lucrare maggiori compensi giudiziali (VII, 1.9). Sul versante della protezione, ciascuno dei soggetti del rapporto deve fare tutto quanto è necessario per preservare e tutelare la posizione dell’altro soggetto senza un apprezzabile sacrificio della propria posizione, specie quando è in gioco la compromissione di un interesse funzionale alla esplicazione della personalità dell’altro soggetto. Inoltre il creditore che ha ricevuto l’adempimento deve consentire la liberazione dei beni dalle garanzie reali date per il credito e da ogni altro vincolo che comunque ne limiti la disponibilità (art. 1200) a spese del debitore (non solo pegno e ipoteca, ma anche sequestro e pignoramento) 11; il mancato consenso alla liberazione è causa di risarcimento danni nei confronti del proprietario del bene dato in garanzia per la difficoltà della circolazione giuridica del bene. In sostanza, mentre il dovere di diligenza è indirizzato a definire l’attività dovuta dal debitore, come strumentale al soddisfacimento del creditore, il dovere di correttezza in10

L’art. 11762 è norma “elastica”, da riempire di contenuto in considerazione dei principi dell’ordinamento, come espressi dalla giurisprudenza di legittimità, e dagli standards valutativi esistenti nella realtà sociale che, concorrendo con detti principi, compongono il diritto vivente (Cass. 19-12-2019, n. 34107). La regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non” si applica, non solo all’accertamento del nesso di causalità fra l’omissione e l’evento di danno, ma anche all’accertamento del nesso tra quest’ultimo, quale elemento costitutivo della fattispecie, e le conseguenze dannose risarcibili (Cass. 21-1-2020, n. 1169). 11 In conformità ai principi di buona fede e correttezza, il creditore che è stato soddisfatto deve anche rinunciare agli atti esecutivi senza necessità di alcuna sollecitazione del debitore ed entro un termine ragionevolmente contenuto, avendo riguardo allo stato della procedura pendente nonché ad eventuali motivi di urgenza allo stesso noti; il ritardo ingiustificato comporta la responsabilità risarcitoria del creditore nei confronti del debitore danneggiato (Cass. 21-11-2017, n. 27545; Cass. 20-6-2013, n. 15435).

CAP. 3 – ESTINZIONE DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO

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veste la correlazione dei comportamenti dei soggetti del rapporto obbligatorio, come funzionale ad una solidale esplicazione del rapporto sociale VII, 1.1).

4. Segue. Modalità dell’adempimento e imputazione del pagamento. – Di regola il debitore è obbligato a eseguire la prestazione dovuta con le modalità convenute (indicate espressamente o ricostruibili in via di interpretazione) ovvero secondo gli usi; in mancanza, secondo le modalità previste dalla legge. Sono dettate norme suppletive che operano come regole integrative del rapporto obbligatorio in assenza di previsione dei soggetti del rapporto. a) Luogo dell’adempimento. Se il luogo di esecuzione della prestazione non è previsto dalla convenzione o dagli usi e non può desumersi dalla natura del contratto o da altre circostanze, valgono le seguenti regole (art. 1182). L’obbligazione di consegnare una cosa certa e determinata va adempiuta nel luogo in cui si trovava la cosa quando l’obbligazione è sorta (art. 11822). L’obbligazione di pagare una somma di danaro (c.d. obbligazione pecuniaria) va adempiuta al domicilio che il creditore ha al tempo della scadenza (c.d. debiti portabili): deve però trattarsi di obbligazioni c.d. “liquide” e cioè determinate o determinabili 12; il danaro è, di regola, trasferito a rischio del debitore, sicché rimangono a suo rischio e carico le operazioni di bonifico bancario o di invio di assegni fino al soddisfacimento del creditore. Se il domicilio del creditore è diverso da quello esistente al momento della nascita dell’obbligazione e l’adempimento si riveli più gravoso, il debitore, previa dichiarazione al creditore, ha diritto di eseguire nel proprio domicilio (art. 11823). In ogni altro caso l’obbligazione va adempiuta al domicilio del debitore al tempo della scadenza (art. 11824) (c.d. debiti chiedibili). La norma trova una parziale applicazione in sede di vendita, con alcune varianti in favore del venditore (art. 1510). b) Tempo dell’adempimento. La prestazione va eseguita nel termine di scadenza del debito, corrispondente alla sua esigibilità. Esiste un divario tra esistenza del debito (connessa alla nascita dell’obbligazione) e sua esigibilità (legata alla scadenza del debito): l’esistenza del debito segna la titolarità del diritto di credito; l’esigibilità consente l’esercizio del diritto. Solo l’esigibilità, dunque, indica il termine di adempimento dell’obbligazione 13. Per il computo del termine si applica l’art. 2963 (art. 1187) (II, 4.8). Si vedrà peraltro come il termine di adempimento differisce dal termine di efficacia del contratto. Quest’ultimo fissa nel tempo l’efficacia del contratto, segnando il momento iniziale e quello finale (e dunque la durata) di produzione degli effetti del contratto (è modalità cronologica dell’efficacia del contratto) (VIII, 3.22). Invece il termine di adempimento indica la scadenza del debito e cioè la sua esigibilità (è modalità cronologica del12 Le obbligazioni pecuniarie da adempiersi al domicilio del creditore, secondo il disposto dell’art. 11823 c.c. sono – agli effetti sia della mora ex re ai sensi dell’art. 12192, n. 3, c.c., sia del forum destinatae solutionis ai sensi dell’art. 20, ultima parte, c.p.c. – esclusivamente quelle liquide, delle quali, cioè, il titolo determini l’ammontare, oppure indichi i criteri per determinarlo senza lasciare alcun margine di scelta discrezionale; i presupposti della liquidità sono accertati dal giudice, ai fini della competenza, allo stato degli atti secondo quanto dispone l’art. 38, ult. comma, c.p.c. (Cass., sez. un., 13-9-2016, n. 17989). 13 L’accettazione senza riserve della prestazione tardiva non comporta automaticamente la rinunzia al risarcimento del danno discendente dal mancato rispetto del termine pattuito, occorrendo, a tal fine, una esplicita manifestazione di volontà (Cass. 14-3-2012, n. 4074).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

la esecuzione del contratto). Ad es. un contratto di locazione ha efficacia quadriennale, con termine di scadenza del pagamento del canone il cinque di ogni mese. Quando non è determinato il termine di esecuzione della prestazione, il creditore può esigerla immediatamente (quod sine die debetur, statim debetur): può cioè esigerla quando vuole (salva l’eccezione di prescrizione). Se però, in virtù degli usi o della natura della prestazione ovvero per il modo o il luogo dell’esecuzione, un termine sia necessario, questo, in mancanza di accordo delle parti, è stabilito dal giudice (art. 11831). Si pensi ad es. all’obbligazione di restituzione di una somma di danaro presa a mutuo: un termine per la restituzione del danaro è connesso alla stessa funzione di prestito del mutuo (art. 1813), per cui, in assenza di fissazione, è stabilito dal giudice (art. 1817) 14. Poiché il termine di adempimento procrastina nel tempo l’esecuzione della prestazione, è importante stabilire se la indicazione del termine sia posta in favore del debitore o del creditore o di entrambi. Regola fondamentale è che, in mancanza di diverso accordo, il termine è presunto a favore del debitore, nel senso che il debitore può eseguire la prestazione anche prima della scadenza (senza che il creditore possa rifiutarla), ma il creditore non può chiedere l’adempimento anticipato (art. 1184), così limitandosi l’esercizio della pretesa del creditore; tuttavia il debitore non può ripetere ciò che ha pagato anticipatamente, se non nei limiti della perdita subita di cui si è arricchito il creditore (art. 1185) (secondo il generale principio in materia di arricchimento senza causa: art. 2041). Se il termine è stabilito a favore del creditore, questi può esigere la prestazione prima della scadenza, ma il debitore non può adempiere anticipatamente contro la volontà del creditore, così limitandosi l’esecuzione della prestazione (si pensi, ad es., alla obbligazione di consegna di merce nell’ipotesi in cui il creditore ha predisposto la liberazione di spazi in magazzino per la data di consegna). In definitiva, se il termine è stabilito in favore di uno dei soggetti del rapporto, il soggetto nel cui favore il termine è stabilito può, rispettivamente, eseguire o esigere la prestazione anche prima della scadenza del termine; se il termine è stabilito in favore di entrambi, il debitore deve eseguire e il creditore può esigere la prestazione nel termine stabilito (salvo diverso accordo). Il debitore decade dal termine a suo favore, e il creditore può esigere immediatamente la prestazione, se il debitore è divenuto insolvente 15 o ha diminuito per fatto proprio le garanzie che aveva date o non ha dato le garanzie promesse (decadenza dal termine) (art. 1186). È una regola importante a tutela della garanzia del credito (v. artt. 1274, 1299, 1313, 1626, 18442, 1850, 1867, 1877, 2743) (VII, 5.2). 14 Mancando il termine di adempimento, anche se il creditore non abbia proposto istanza di fissazione del termine, il giudice può ritenere egualmente l’inadempimento ove il ritardo del debitore sia incompatibile con la natura della prestazione e riveli perciò la volontà di non adempiere (Cass. 23-11-2011, n. 24739). 15 Lo stato di insolvenza, ai fini della decadenza del debitore dal beneficio del termine (art. 1186), è costituito da una situazione di dissesto economico, sia pure temporaneo, in cui il debitore venga a trovarsi, la quale renda verosimile l’impossibilità da parte di quest’ultimo di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni; non deve rivestire i caratteri di gravità e irreversibilità, potendo conseguire anche ad una situazione di difficoltà economica e patrimoniale reversibile, purché idonea ad alterare, in senso peggiorativo, le garanzie patrimoniali offerte dal debitore, e va valutato con riferimento al momento della decisione (Cass. 18-11-2011, n. 24330). Per l’operatività della decadenza dal beneficio del termine, l’interruzione dei pagamenti rateali non integra le condizioni previste dall’art. 1186 c.c., essendo necessario che ricorra l’insolvenza o la diminuzione o il mancato conferimento delle garanzie date dal debitore (Cass. 11-11-2016, n. 23093).

CAP. 3 – ESTINZIONE DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO

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c) Destinatario dell’adempimento. L’adempimento deve essere fatto al creditore o al suo rappresentante ovvero alla persona indicata dal creditore o autorizzata dalla legge o dal giudice a riceverla (art. 11881). La legge, dunque, affianca al creditore (titolare del diritto) e al suo rappresentante altri soggetti come legittimati a ricevere l’adempimento: questi non sono titolari del diritto, e perciò non possono esercitarlo, ma rilevano solo come meri legittimati al ricevimento (indipendentemente dalla ragione sottostante che spinge il creditore ad indicarli ovvero la legge o il giudice ad autorizzarli a ricevere l’adempimento). Con riguardo alle persone indicate dal creditore (indicatari) la indicazione di pagamento è una gestione del credito 16 e si caratterizza per la comunicazione (unilaterale) che il creditore fa al debitore del soggetto indicato a ricevere il pagamento, non rilevando il fondamento della indicazione: opera perciò come mera designazione (astratta) al debitore dei soggetti legittimati a ricevere l’adempimento (ad es. l’ipotesi in cui il creditore indichi quale destinatario del pagamento una determinata banca o uno specifico notaio ovvero quale destinatario della consegna una specifica filiale). In ciò si differenzia dalla legittimazione a ricevere del rappresentante che è sorretta da una procura a ricevere (che per somme di danaro è procura all’incasso) 17. Il debitore è tenuto al pagamento all’indicatario nei limiti del principio di buona fede, non potendo il creditore aggravare la posizione del debitore 18. Relativamente alle persone autorizzate dalla legge o dal giudice (autorizzati), legittimati a ricevere l’adempimento per legge sono, ad es., i rappresentanti legali degli incapaci, i curatori fallimentari (ora della liquidazione giudiziale), gli ufficiali giudiziari quando il debitore vuole evitare il pignoramento (art. 494 c.p.c.); tra i legittimati per provvedimento del giudice, si pensi alla materia della famiglia, dove il giudice può ordinare al terzo, debitore di un coniuge, di versare le somme dovute direttamente all’altro coniuge a titolo di mantenimento (artt. 315 bis e 1566; art. 83 L. 898/1970). L’adempimento in favore di soggetto non legittimato a riceverlo non libera il debitore: il pagamento fatto a persona non legittimata è inefficace nei confronti del creditore ed il debitore rimane obbligato ad eseguire la prestazione anche in via giudiziaria, con la sola possibilità di ripetere il pagamento non dovuto secondo le comuni regole sull’indebito soggettivo ex latere accipientis (art. 2033) (XI, 1.4). Il pagamento fatto a chi non era legittimato a riceverlo libera il debitore se il creditore lo ratifica o ne ha approfittato (art. 11882): incombe sul debitore la prova della ratifica o del fatto che il creditore ne abbia approfittato. 16

L’art. 11882 consente che il creditore possa commettere anche ad altri soggetti di ricevere la prestazione, secondo il principio per cui la titolarità di un diritto non ne implica la necessaria gestione da parte del titolare, il quale ben può affidarla ad altri (Cass. 25-9-2018, n. 22544). 17 La indicazione di pagamento si diversifica anche dalla delegazione attiva: con la prima il creditore autorizza il debitore ad adempiere a un terzo; con la seconda il creditore conferisce mandato al debitore di adempiere al terzo, con la conseguenza che il debitore (mandatario) assume l’obbligo verso il creditore di adempiere al terzo. Nei rapporti commerciali internazionali un ruolo fondamentale svolgono le Norme uniformi relative agli incassi, apprestate dalla Camera di commercio internazionale, che indicano obblighi e responsabilità del cliente, del trassato e delle banche (trasmittente, incaricata dell’incasso, presentatrice) nelle operazioni di incasso. 18 Se la indicazione di un destinatario diverso dal creditore abbia formato oggetto di pattuizione, penetrando nel complessivo assetto di interessi realizzato, il debitore non può esimersi dall’adempiere al destinatario concordato.

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

Parimenti l’adempimento compiuto al creditore incapace non libera il debitore, tranne che ne derivi un vantaggio al creditore (art. 1190): ma incombe sul debitore la prova del vantaggio dell’incapace. È opinione prevalente comprendere nella previsione della norma, non solo l’incapacità legale, ma anche quella naturale. d) Creditore apparente. In un ordine di idee diverso si colloca l’adempimento al creditore apparente (art. 1189). Anzitutto è da rilevare che, contrariamente alla rubrica dell’articolo che parla di “creditore apparente”, il testo del primo comma ha riguardo al debitore che esegue il pagamento “a chi appare legittimato a riceverlo”: è così diffusa la opinione di applicare l’art. 1189 a tutte le ipotesi di pagamento eseguito in favore di soggetto legittimato apparente a riceverlo. Il debitore è liberato quando ricorrono due presupposti: l’apparenza della legittimazione del soggetto che si riceve il pagamento; la buona fede del debitore. In sostanza trova applicazione il generale principio dell’affidamento incolpevole nella forma più forte dell’apparenza giuridica; con i contrappesi della pubblicità, per cui quando una situazione risulta da pubblici registri non può mai invocarsi l’apparenza 19 (II, 7.3). Il debitore è liberato se esegue il pagamento a chi “appare legittimato a riceverlo in base a circostanze univoche”, provando di essere stato in “buona fede” (art. 11891). Come è nell’essenza dell’apparenza, la situazione di fatto generatrice dell’apparenza prevale su quella giuridica in quanto sussista l’incolpevole buona fede del soggetto caduto in errore (buona fede soggettiva): l’apparenza è causa di liberazione del debitore per avere suscitato nello stesso un ragionevole affidamento che il ricevente il pagamento fosse il vero creditore ovvero legittimato a riceverlo. Sulla scorta della lettera dell’art. 1189, per molto tempo si è ritenuto che fosse sufficiente una c.d. apparenza pura (anche detta semplice) basata sulla sola buona fede del debitore, considerandosi indifferente il comportamento avuto dal creditore vero nella determinazione dell’apparenza; più di recente si tende però a valorizzare una c.d. apparenza colposa che cioè involga anche il comportamento colposo del creditore nell’ingenerare l’errore nel debitore 20 (II, 7.3). Contrariamente alla regola dell’art. 11473, la buona fede soggettiva non è presunta, ma deve essere provata. Se chi riceve l’adempimento si presenta come un falsus procurator, si verte in tema di rappresentanza senza potere, con i relativi corollari (VIII, 8.6). Una fattispecie analoga è l’acquisto dall’erede apparente ex art. 5343 (XII, 1.12). L’adempimento estingue l’obbligazione; ma chi ha ricevuto il pagamento è tenuto al19 Ad es., dopo la cancellazione della società dal registro delle imprese e la sua conseguente estinzione, l’atto tributario non può essere legittimamente notificato al suo legale rappresentante in applicazione del principio dell’apparenza ex art. 1189, atteso che l’iscrizione nel registro delle imprese della cancellazione della società, implicando la presunzione di conoscenza della stessa e la sua efficacia verso i terzi ex art. 2193, esclude il legittimo affidamento dell’ente (Cass. 30-10-2019, n. 27795). 20 Il pagamento fatto al rappresentante apparente, al pari di quello fatto al creditore apparente, libera il debitore di buona fede, ai sensi dell’art. 1189 c.c., a condizione che il debitore fornisca la prova, non solo di avere confidato senza colpa nella situazione apparente, ma, altresì, che il proprio erroneo convincimento sia stato determinato da un comportamento colposo del creditore che abbia fatto sorgere nel debitore una ragionevole presunzione sulla rispondenza alla realtà dei poteri rappresentativi dell’accipiens (Cass. 19-4-2018, n. 9758; Cass. 25-1-2018, n. 1869; Cass. 11-9-2013, n. 20847). Incombe sul creditore l’onere di provare che il debitore non ignorava la reale situazione ovvero che l’affidamento di questi era determinato da colpa; è ancora onere del creditore, che controdeduca che il pagamento effettuato al terzo apparentemente legittimato a riceverlo è da imputare ad un diverso rapporto, provare l’esistenza di quest’ultimo (Cass. 30-10-2008, n. 26052).

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la restituzione verso il vero creditore, che ha azione verso il creditore apparente per la restituzione di quanto indebitamente ricevuto, secondo le regole della ripetizione dell’indebito ex artt. 2033 ss. (art. 11892). e) Imputazione del pagamento. Quando un soggetto ha più debiti della medesima specie nei confronti della stessa persona 21 è importante stabilire a quale debito sia riferito il singolo adempimento, al fine di eliminare l’incertezza circa la sorte dei singoli rapporti obbligatori e così permettere che a ciascun adempimento consegua l’effetto estintivo della corrispondente obbligazione. È il problema della imputazione dell’adempimento. La formula del codice “imputazione del pagamento” (artt. 1193 ss.) si giustifica perché il problema della imputazione si pone essenzialmente con riferimento all’adempimento di obbligazioni pecuniarie. Intervenendo un pagamento che non copre l’intera esposizione debitoria verso il creditore, c’è la necessità di stabilire a quale debito si riferisca il pagamento, in quanto i singoli debiti potrebbero essere diversamente regolati, vuoi in ragione della natura del debito (es. a titolo di prezzo o di alimenti), vuoi per il tempo trascorso (potendo essere uno prescritto e un altro no), vuoi anche solo perché uno o più debiti sono contestati (ad es. per difetti della merce consegnata). Inoltre i debiti potrebbero essere diversamente garantiti; la diversità delle date di assunzione comporta una differente maturazione degli interessi. Questioni di imputazioni sono ricorrenti per pagamenti compiuti in contanti o a mezzo assegni (bancari o circolari); meno per pagamenti a mezzo bonifici, in quanto gli stessi normalmente contengono la causale del pagamento. L’assegno estingue l’obbligazione cartolare ma è neutra rispetto alla riconduzione all’obbligazione sottostante, sicché si propone il problema dell’imputazione 22. Regola base è la imputazione del debitore: il debitore che ha più debiti della medesima specie verso lo stesso creditore può dichiarare, quando paga, quale debito intende soddisfare (art. 11931) 23. Ma ciò può fare con due limiti: non può imputare il pagamento al capitale, piuttosto che agli interessi e alle spese, senza il consenso del creditore (art. 11941) 24; il pagamento fatto in conto di capitale e di interessi deve essere imputato prima 21 La questione dell’imputazione del pagamento non è proponibile quando sussiste un unico debito (Cass. 2-10-2013, n. 22639). 22 Quando il convenuto per il pagamento di un debito dimostri di aver corrisposto a mezzo di assegni una somma di denaro in tesi idonea all’estinzione di quello, non spetta al creditore, il quale sostenga che il pagamento sia da imputare all’estinzione di un debito diverso, allegare e provare di quest’ultimo l’esistenza, nonché la sussistenza di tutte le condizioni necessarie per la dedotta diversa imputazione, atteso che, implicando l’emissione di assegni la presunzione di un rapporto fondamentale idoneo a giustificare la nascita di un’obbligazione cartolare, resta a carico del debitore convenuto l’onere di superare tale presunzione, dimostrando in modo puntuale e preciso il collegamento, anche da un punto di vista oggettivo, tra il precedente debito azionato ed il successivo debito cartolare, solo a tanto conseguendo l’estinzione del primo per effetto del pagamento degli assegni (Cass. 5-11-2020, n. 24693). 23 Quando il debitore abbia dimostrato di avere corrisposto somme idonee ad estinguere il debito per il quale sia stato convenuto in giudizio, spetta al creditore-attore, che pretende di imputare il pagamento ad estinzione di altro credito, provare le condizioni necessarie per la dedotta, diversa, imputazione, ai sensi dell’art. 1193 (Cass. 29-5-2020, n. 10322; Cass. 14-1-2020, n. 450). In caso di crediti di natura omogenea, la facoltà del debitore di indicare a quale debito debba imputarsi il pagamento va esercitata e si consuma all’atto del pagamento stesso, sicché una successiva dichiarazione di imputazione, fatta dal debitore senza l’adesione del creditore, è giuridicamente inefficace (Cass. 9-11-2012, n. 19527). 24 Per costante giurisprudenza grava sul debitore provare che il creditore aveva consentito che il pagamento fosse imputato al capitale anziché agli interessi (Cass. 27-10-2006, n. 23143).

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agli interessi (artt. 11942 e 11992), salvo diverso accordo delle parti. In ogni caso deve ricorrere la simultanea esistenza della liquidità e della esigibilità di ambedue i crediti per capitale e per interessi 25. Quando il debitore dà la prova di avere eseguito un esatto adempimento, con efficacia estintiva di un determinato debito, l’onere della prova della diversa imputazione è a carico del creditore 26. In assenza di imputazione del debitore, opera la imputazione del creditore, se è compiuta nella quietanza e questa è accettata dal debitore, tranne che non vi sia stato dolo o sorpresa da parte del creditore 27 (art. 1195). La riconduzione del pagamento ad un credito non ancora esigibile rende tendenzialmente irragionevole l’imputazione del debitore 28. In via ancora più gradata, in assenza di imputazione del debitore e del creditore, opera la imputazione legale, con l’applicazione dei criteri di cui all’art. 11932, secondo la sequenza gerarchica prevista 29: il pagamento va innanzi tutto imputato al debito scaduto; tra più debiti scaduti, a quello meno garantito; tra più debiti ugualmente garantiti, al più oneroso per il debitore; tra più debiti ugualmente onerosi, al più antico; quando nessuno di tali criteri soccorre, l’imputazione è fatta proporzionalmente ai vari debiti (art. 11932) 30. Questioni di imputazioni sono ricorrenti per pagamenti compiuti in contanti o a mezzo assegni (bancari o circolari); meno per pagamenti a mezzo bonifici, in quanto gli stessi normalmente contengono la causale del pagamento. L’assegno estingue l’obbligazione cartolare ma è neutra rispetto alla riconduzione ad una obbligazione fondamentale, sicché si ripropone il meccanismo dell’imputazione sopra delineato 31. 25 Secondo Cass. 15-7-2009, n. 16448, in tema di risarcimento del danno derivante da atto illecito, i versamenti compiuti in favore del creditore prima della liquidazione del danno non sono soggetti alla regola dell’art. 1194 dovendosi considerare il debito pecuniario inesistente fino alla liquidazione. 26 L’onere della prova in capo al creditore in ordine alla diversa imputazione di pagamento sorge soltanto in caso di pagamento avente efficacia estintiva, così da ribaltare nuovamente l’onere probatorio in capo al debitore, là dove esso sia contestato dal creditore (Cass. 20-6-2019, n. 16605; Cass. 26275/2017; Cass. 3194/2016). 27 La dichiarazione di imputazione del creditore deve essere accettata dal debitore e, qualora sia inserita nella quietanza, la ricezione del documento da parte del debitore si riferisce solo alla quietanza in esso contenuta e soddisfa il suo interesse a conservare la prova documentale dell’avvenuto pagamento; perché la ricezione del documento assuma valore di prova dell’accettazione dell’imputazione operata dal creditore è necessario che non venga immediatamente o prontamente contestata dal debitore, così da assumere il valore dell’acquiescenza (Cass. 16-1-2013, n. 917; v. anche Cass. 5-2-2013, n. 2672). 28 L’inversione del potere di imputazione non trova applicazione nel caso in cui il debitore eccepisca l’estinzione del debito per effetto dell’emissione di un assegno bancario negoziato in favore del creditore prenditore in una data significativamente anteriore a quella in cui il credito fatto valere in giudizio sia divenuto esigibile: la diversità di data, facendo venir meno la verosimiglianza del collegamento tra il credito azionato ed il titolo, pone a carico del debitore l’onere di dimostrare la causale dell’emissione dell’assegno e che l’assegno era volto ad estinguere anticipatamente il debito oggetto di causa (Cass. 18-2-2016, n. 3194). 29 I criteri legali ex art. 1193 hanno carattere suppletivo, operano soltanto quando né il debitore né il creditore abbiano effettuato l’imputazione (Cass. 27-10-2021, n. 30190). 30 Poiché per l’art. 1194 il debitore, senza il consenso del creditore, non può imputare il pagamento al capitale piuttosto che agli interessi e alle spese, il fatto che il creditore accetti un pagamento parziale non implica la sua rinunzia all’imputazione del pagamento secondo il criterio legale (Cass. 21-1-2004, n. 975). 31 Quando il convenuto per il pagamento di un debito dimostri di aver corrisposto a mezzo di assegni una somma di denaro in tesi idonea all’estinzione di quello, non spetta al creditore, il quale sostenga che il pagamento sia da imputare all’estinzione di un debito diverso, allegare e provare di quest’ultimo l’esistenza, nonché la sussistenza di tutte le condizioni necessarie per la dedotta diversa imputazione, atteso che, implicando

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5. Adempimento del terzo. – Si è visto come l’adempimento sia il modo fisiologico di attuazione del rapporto obbligatorio, in quanto fa conseguire al creditore il bene perseguito attraverso l’esecuzione della prestazione da parte del debitore. Rispetto a tale meccanismo possono delinearsi due varianti: una riguardante il soggetto che esegue la prestazione dovuta, che può essere diverso dal debitore (adempimento del terzo); un’altra relativa all’oggetto procurato al creditore, che può essere differente da quello dedotto nella obbligazione (dazione in pagamento). In entrambi i casi il soddisfacimento del creditore rende inutile la permanenza del rapporto obbligatorio, che perciò si estingue. Con l’adempimento del terzo (art. 1180), l’esecuzione della prestazione proviene da un soggetto diverso dal debitore: non può trattarsi dunque di un rappresentante o ausiliario del debitore perché l’adempimento sarebbe ricollegato al debitore. Con l’adempimento del terzo c’è realizzazione del diritto di credito senza attuazione dell’obbligo, in quanto il creditore è soddisfatto, non dal debitore, ma da un terzo. È indifferente che il terzo abbia o meno un interesse proprio all’adempimento (ad es., si pensi al genitore che paga un debito contratto dal figlio). L’adempimento dell’obbligazione altrui può essere compiuto direttamente o indirettamente mediante mandato ad adempiere 32. Il terzo non è obbligato verso il creditore ad adempiere. È perciò necessario che l’adempimento sia sorretto da un intento solutorio di un debito altrui. Se tale intento non ricorre si cade nell’ipotesi dell’indebito soggettivo 33 (art. 2036), in cui un soggetto paga un debito altrui credendosi erroneamente debitore (XI, 1.7). Per la necessità di tale intento l’adempimento del terzo si configura come negozio unilaterale. Può essere a titolo gratuito o giustificato da un rapporto sottostante con il debitore. L’adempimento del terzo, producendo la realizzazione del diritto del creditore, comporta di regola la estinzione del debito venendo meno la sua funzione. Talvolta, pur intervenendo il soddisfacimento del creditore, il debito non si estingue: ciò avviene nel pagamento con surrogazione (artt. 1201 ss.), per subentrare il terzo che adempie nella posizione giuridica del creditore; perciò si è parlato di tale figura tra le modificazioni del soggetto attivo del rapporto obbligatorio (VII, 2.7). Per tale funzione di estinzione del debito, l’adempimento del terzo si differenzia anche dalla espromissione, che implica solo l’assunzione di un debito altrui che permane (VII, 2.11). Di regola l’interesse del creditore è rivolto al conseguimento del bene dedotto nella obbligazione, restando indifferente la persona che lo procura; e d’altra parte l’interesse del debitore è essenzialmente orientato alla propria liberazione dal vincolo obbligatorio, anche se tale effetto è prodotto da un terzo. Perciò la legge prevede un potere di rifiuto del creditore limitato, ammesso solo in due ipotesi: quando provi di avere un interesse specil’emissione di assegni la presunzione di un rapporto fondamentale idoneo a giustificare la nascita di un’obbligazione cartolare, resta a carico del debitore convenuto l’onere di superare tale presunzione, dimostrando in modo puntuale e preciso il collegamento, anche da un punto di vista oggettivo, tra il precedente debito azionato ed il successivo debito cartolare, solo a tanto conseguendo l’estinzione del primo per effetto del pagamento degli assegni (Cass. 5-11-2020, n. 24693). 32 In ipotesi di adempimento del debito altrui tramite mandatario, i requisiti richiesti dall’art. 1180 vanno accertati con riferimento alla persona del mandante (Cass. 23-4-2020, n. 8102). 33 Quando l’adempimento del debito altrui avviene tramite un mandatario, i requisiti richiesti dall’art. 1180 c.c. (esistenza del debito altrui, volontà di estinguerlo, spontaneità del pagamento) vanno accertati con riferimento al mandante; il mandatario che esegua un pagamento ad un terzo per conto del mandante non è assimilabile al terzo che adempie per il debitore (Cass. 23-4-2020, n. 8101).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

fico a che la prestazione sia eseguita personalmente dal debitore (art. 11801); quando il debitore si oppone all’adempimento del terzo (art. 11802): in tal caso il creditore può rifiutare l’adempimento, quindi non deve rifiutare. Un campo nel quale rileva tipicamente l’interesse del creditore alla esecuzione personale della prestazione da parte del debitore è quello delle attività professionali, dove la scelta del professionista è di regola operata intuitu personae (v. art. 2232): è frequente nei contratti di scritturazione teatrale, nei quali si è soliti stabilire gli artisti che la compagnia non può sostituire (c.d. artisti d’obbligo). Il problema è speculare al diritto del debitore all’adempimento, di cui si è parlato (par. 2).

6. Dazione in pagamento. La cessione di credito di imposta. – Di segno diverso è la prestazione in luogo dell’adempimento (anche detta dazione in pagamento dall’espressione latina datio in solutum). Per l’art. 11971 il debitore non può liberarsi dall’obbligazione eseguendo una prestazione diversa da quella dovuta, anche se di valore uguale o maggiore, salvo che il creditore vi consenta. Con la dazione in pagamento si realizza una variante del rapporto obbligatorio relativamente alla prestazione, procurandosi un bene differente da quello oggetto della obbligazione 34: si realizza il soddisfacimento di un interesse del creditore diverso da quello originario; perciò è richiesto l’apprezzamento e dunque il consenso del creditore 35. La essenzialità dell’accettazione del creditore configura la dazione di pagamento come contratto con funzione solutoria: la prestazione diversa è offerta in luogo dell’adempimento, con funzione solutoria della obbligazione. Per l’art. 11971 “l’obbligazione si estingue quando la diversa prestazione è eseguita”. Ciò significa che la dazione in pagamento produce l’effetto estintivo dell’obbligazione solo con l’esecuzione della prestazione diversa da quella dovuta, perciò con il soddisfacimento del creditore. Per economia dei mezzi giuridici, può anche pensarsi ad un negozio unilaterale con diritto di rifiuto del creditore, secondo la tecnica dell’art. 1333. La dazione in pagamento si differenzia dalla novazione oggettiva, per realizzare questa la estinzione del rapporto obbligatorio con sostituzione dell’obbligazione originaria con altra obbligazione, senza il soddisfacimento del creditore 36. In ragione della indicata funzione solutoria la dottrina tradizionale è solita configurare la dazione in pagamento come contratto reale, richiedendosi la consegna del bene per la formazione della fattispecie della dazione, automaticamente attuativa della estinzione dell’obbligazione originaria (trattandosi di cosa di genere, la consegna vale anche come individuazione). Quando il pagamento avviene con strumenti bancari, l’adempimento è subordinato al “buon fine” dell’operazione; avvenendo i pagamenti nella quotidiana vita economica proprio attraverso strumenti bancari (es. assegno bancario o circolare ovvero bonifico 34 Le due varianti (adempimento del terzo e prestazione in luogo di adempimento) possono sovrapporsi, nel senso che l’estinzione sia determinata dall’adempimento di un terzo mediante una dazione in pagamento: in tal caso è sempre necessaria l’accettazione del creditore per la sostituzione del bene. 35 In presenza di una datio in solutum, ove non risulti che l’effetto estintivo sia stato limitato dal creditore tramite una espressa riserva contestuale all’esecuzione della prestazione sostitutiva, si deve ritenere che il debitore sia integralmente liberato (Cass. 17-1-2017, n. 922). 36 Per la Relaz. cod. civ., n. 565, dove si creano solo effetti obbligatori, si ha piuttosto l’indice di una volontà diretta a novare non ad adempiere.

CAP. 3 – ESTINZIONE DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO

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bancario), il creditore non può rifiutarne il ricevimento senza giustificato motivo 37. Il creditore deve anche attivarsi alla corretta attuazione della operazione bancaria, come espressione del dovere di cooperazione (ex art. 1175) 38. Se la dazione consiste nel trasferimento della proprietà o di altro diritto reale, il debitore è tenuto alla garanzia per evizione e per vizi secondo le norme della vendita (artt. 1483 ss., 128 ss. cod. cons.), salvo che il creditore preferisca esigere la prestazione originaria e il risarcimento del danno (art. 11972). Se la dazione consiste nella cessione del credito, l’obbligazione si estingue con la riscossione del credito ceduto (cessio pro solvendo), salva diversa volontà delle parti (art. 11981). Il cedente deve garantire la solvenza del debitore nei limiti fissati dall’art. 12672: la garanzia cessa e l’obbligazione si estingue se la mancata realizzazione del credito per insolvenza del debitore è dipesa da negligenza del cessionario nell’iniziare o proseguire le istanze contro il debitore stesso (artt. 11982, 12672). La legislazione emergenziale per il Covid 19 ha previsto la cessione del credito di imposta per conduttori di immobili commerciali (art. 65 D.L. 17.3.2020, n. 18, conv. con L. 24.4.2020, n. 27) esteso poi a tutti gli esercenti attività di impresa, arte e professione al disotto di un determinato reddito (art. 28 D.L. 19.5.2020, n. 34, conv. con L. 17.7.2020, n. 77), utilizzabile per il pagamento di debiti per fitto dei locali o altri debiti: per l’art. 285 bis, in caso di locazione, il conduttore può cedere il credito d’imposta al locatore, previa sua accettazione, in luogo del pagamento della corrispondente parte del canone. In sostanza è consentito al contribuente di rinunciare all’utilizzo diretto della detrazione fiscale nella dichiarazione dei redditi e cedere il relativo credito di imposta di pari ammontare; prevedendosi la “facoltà di successiva cessione ad altri soggetti, compresi gli istituti di credito e gli altri intermediari finanziari”, con il vantaggio di essere un credito verso lo Stato e quindi garantito; sono fatti salvi specifici divieti di cessione. Il Fisco, quale debitore ceduto, può opporre le eccezioni previste dalla disciplina sulla cessione del credito (VII, 2.4). La nuova prestazione può anche consistere in un facere: pure ora l’obbligazione originaria si estingue quando la diversa prestazione è eseguita. Quando la dazione in pagamento non ha prodotto l’effetto sperato, è possibile far valere il diritto di credito originario con le garanzie prestate dal debitore. Non rivivono in37 Si tende a ritenere che anche il pagamento con assegno, in luogo del danaro, integri una dazione in pagamento. Si è peraltro stabilito che il creditore di una somma di denaro può rifiutare il pagamento con assegno circolare, in alternativa al denaro contante, solo per giustificato motivo da valutare secondo le regole della correttezza e della buona fede oggettiva; comunque l’effetto liberatorio si verifica soltanto quando il creditore acquista la concreta disponibilità della somma, ricadendo sul debitore il rischio dell’inconvertibilità dell’assegno (Cass., sez. un., 18-12-2007, n. 26617). E ancora: il creditore può rifiutare il pagamento con assegno di traenza solo per giustificato motivo, posto che, analogamente all’assegno circolare, il suo rilascio presuppone la creazione della provvista; comunque l’effetto liberatorio si verifica soltanto quando il creditore acquista la concreta disponibilità della somma (Cass. 10-3-2008, n. 6291). In generale il pagamento con un sistema diverso dalla moneta avente corso legale nello Stato, ma che assicuri al creditore la disponibilità della somma dovuta, può essere rifiutato dal creditore soltanto per un giustificato motivo, dovendosi altrimenti intendere il rifiuto come contrario al principio di correttezza e buona fede (Cass. 10-6-2013, n. 14531). 38 Per l’art. 1175 l’obbligazione si estingue a seguito della mancata tempestiva presentazione all’incasso dell’assegno bancario da parte del creditore, che in tal modo, viene meno al suo dovere di cooperare in modo leale e fattivo all’adempimento del debitore; tale comportamento omissivo dev’essere equiparato a tutti gli effetti di legge all’avvenuta esecuzione della diversa prestazione, con conseguente estinzione dell’obbligazione ex art. 1197 (Cass. 17-12-2019, n. 33248; Cass. 24-5-2007, n. 12079).

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vece le garanzie prestate dai terzi (art. 11973) in quanto, come osserva la Relaz. cod. civ., la posizione dei terzi risulterebbe aggravata se la loro responsabilità dovesse durare quanto quella del debitore (n. 565).

7. Mora del creditore. La posizione soggettiva del creditore. – Di regola il creditore tende a conseguire il bene dedotto nell’obbligazione nel tempo stabilito. Talvolta il creditore ha interesse a procrastinare il ricevimento del bene o addirittura a rifiutarlo per varie ragioni. Ad es., in una vendita di merce tra piazze diverse, il compratore (creditore della obbligazione di consegna), avendo i magazzini pieni, ritarda la presa in consegna della merce messa a sua disposizione dal venditore (facendo trovare i magazzini chiusi, o non attivando il vettore quando il trasporto è a sua cura); si pensi anche al compratore che rifiuta il ricevimento di un bene ritenendolo non conforme al contratto. Per l’art. 1206 il creditore è in mora quando, “senza motivo legittimo”, non riceve il pagamento (rectius l’adempimento) offertogli nei modi stabiliti o non compie quanto è necessario affinché il debitore possa adempiere l’obbligazione. A fronte della tradizionale qualificazione della situazione soggettiva del creditore quale onere di cooperazione per la realizzazione del proprio interesse al conseguimento del bene, è progressivamente emersa una configurazione della sua posizione soggettiva come obbligo, imposto ex lege e attuativo del principio di correttezza ex art. 1175 (e in generale di buona fede ex art. 1375), in quanto rivolto a realizzare l’interesse del debitore all’adempimento 39. La tecnica contrattuale più recente tende, anzi, in molti settori, a predeterminare gli obblighi a carico di entrambe le parti per rendere possibile l’adempimento del debitore, sì da considerare la mancata cooperazione del creditore come causa di risoluzione del contratto 40. In tal senso è la Convenzione di Vienna del 1980 sulla vendita internazionale di beni mobili (L. 765/1985), per i cui artt. 53 ss. il compratore ha l’obbligo di pagare il prezzo e di prendere in consegna i beni alle condizioni previste dal contratto e dalla Convenzione, e il venditore può dichiarare risolto il contratto se il compratore non adempie anche una delle due obbligazioni (art. 64) 41. Tale meccanismo tende a 39 La giurisprudenza ha da tempo qualificato il dovere del creditore di cooperare all’adempimento del debitore (non come vera e propria obbligazione del creditore nei confronti di quest’ultimo, ma) quale dovere strumentale rispetto all’adempimento stesso (Cass. 8-2-1986, n. 809). Ad es., si è stabilito che l’appaltante è tenuto a cooperare all’adempimento dell’appaltatore, ai sensi dell’art. 1206 c.c., qualora tale cooperazione sia necessaria per l’oggetto particolare dei servizi appaltati, in quanto i doveri generali di correttezza e buona fede oggettiva impongono al committente di porre in essere le attività, distinte rispetto a quanto dovuto dall’appaltatore, occorrenti affinché quest’ultimo possa conseguire il risultato cui il rapporto obbligatorio è preordinato (Cass. 22-11-2013, n. 26260). 40 Tale ricostruzione è stata ampiamente utilizzata dalla giurisprudenza in materia di lavoro, ed è spesso impiegata dalla giurisprudenza arbitrale in materia di appalti di opere pubbliche, per sanzionare il comportamento della pubblica amministrazione che non compie quanto è necessario per consentire all’impresa di compiere l’opera (e quindi eseguire la prestazione dovuta). 41 Il meccanismo ha orientato anche la riforma tedesca del diritto delle obbligazioni (Schuldrecht) del 2001, prevedendo il § 433 del BGB che il compratore “è obbligato” a pagare il prezzo e a prendere in consegna la cosa. Ciò in applicazione del generale principio per cui il rapporto obbligatorio può obbligare, secondo il suo contenuto, ciascuna parte al rispetto dei diritti, dei beni giuridici e degli interessi dell’altra parte (§ 2412). Le Regole per l’interpretazione dei termini commerciali (Incoterms), apprestate dalla Camera di commercio internazionale, da sempre sono organizzate intorno a due fasci di obblighi a carico, rispettivamente, del venditore e del compratore nella esecuzione della consegna: l’uno concernente le operazioni dovute dal venditore

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eliminare possibili controversie circa la ripartizione delle varie operazioni a carico delle parti e ripartire tra le stesse oneri e rischi, predeterminando in modo certo i fasci di obblighi a carico di ciascuna delle parti. Le esigenze avvertite relativamente alla vendita operano anche con riguardo ad altri tipi di contratto che comportano la fornitura di un bene (non solo permuta e somministrazione, ma anche contratto d’opera ed appalto). Va così delineandosi un generale principio per cui il comportamento del creditore non è funzionale al conseguimento di un interesse esclusivamente proprio, come è nell’essenza dell’onere, ma è dovuto anche per realizzare un interesse del debitore ad attuare la prestazione dovuta per liberarsi dall’obbligazione. Opera a carico del creditore l’assolvimento dell’obbligo di buona fede, la cui trasgressione consente al debitore di ricorrere ai rimedi che si connettono all’inadempimento.

8. Segue. Costituzione in mora e liberazione dall’obbligazione. – Sotto un’unica sezione intitolata “mora del creditore” (artt. 1206 ss.) sono, in realtà, accorpate due figure, connesse ma diverse, con differenti effetti favorevoli per il debitore: la mora del creditore in senso stretto (c.d. mora credendi o accipiendi) e la liberazione coattiva dall’obbligazione. Le due figure apprestano altrettanti meccanismi di tutela del debitore per la violazione da parte del creditore dell’obbligo di cooperazione derivante dall’art. 1175 (e dall’art. 1375). I due meccanismi integrano due procedimenti connessi, a successione eventuale, nel senso che il procedimento di costituzione in mora può esaurirsi senza sfociare in quello di liberazione; mentre questo non può essere iniziato senza l’esaurimento del primo. a) Costituzione in mora. La costituzione in mora del creditore richiede l’offerta del bene dovuto, che può essere formale o secondo gli usi. 1) L’offerta formale (c.d. solenne), tende a verificare e documentare, ad un tempo, la volontà del debitore di adempiere ed il rifiuto del creditore di riceversi la prestazione. È necessario che sia offerto un adempimento esatto e che l’offerta sia fatta da un ufficiale pubblico a ciò autorizzato (art. 1208). Le modalità dell’offerta variano in ragione della natura del bene dovuto. Se l’obbligazione ha per oggetto danaro, titoli di credito, cose mobili da consegnare al domicilio del creditore, l’offerta deve essere reale, nel senso che il pubblico ufficiale autorizzato (notaio o ufficiale giudiziario, ex art. 73 disp. att.) deve portare la cosa dovuta presso il creditore, perché questi possa farla propria (art. 12091). Se l’obbligazione ha per oggetto cose mobili da consegnare in luogo diverso dal domicilio del creditore, immobili, o anche una prestazione di fare, l’offerta deve essere fatta per intimazione, nel senso che l’ufficiale autorizzato, mediante atto notificato nelle forme dell’atto di citazione, deve intimare al creditore di ricevere le cose mobili (art. 12092), prendere possesso degli immobili (art. 12161), compiere gli atti necessari per rendere possibile l’opera (art. 1217) 42. nella messa a disposizione; l’altro riguardante le operazioni dovute dal compratore nella presa in consegna ovvero nell’accettazione della consegna. Sull’osservanza delle operazioni è strutturato il regime dei rischi. 42 Per Corte cost. 28-2-2019, n. 29, sono infondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1206, 1207 e 1217 c.c., nella parte in cui si assume, in base al diritto vivente per il caso di trasferimento di

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

Di entrambi i tipi di offerta è redatto processo verbale ai sensi degli artt. 74 e 75 disp. att. Peraltro se le cose offerte sono deperibili o di dispendiosa custodia, il debitore, dopo l’offerta reale o l’intimazione di ritirarle, può farsi autorizzare dal tribunale a venderle coattivamente nei modi stabiliti per le cose pignorate e a depositarne il prezzo (art. 1211). Quando il creditore rifiuta illegittimamente l’offerta solenne e l’illegittimo rifiuto è verbalizzato, dalla data dell’offerta si determina la costituzione in mora del creditore. Gli effetti della mora si verificano, bensì dal giorno dell’offerta, sempre però che questa sia successivamente accettata dal creditore o dichiarata valida con sentenza passata in giudicato, che accerti la ritualità dell’offerta e la illegittimità del rifiuto del creditore (art. 12073). Gli effetti della mora sono stabiliti dall’art. 1207. Effetto fondamentale è che il creditore sopporta il rischio della impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore: tale impossibilità che, come tale, estinguerebbe la obbligazione (art. 1256) (VII, 3.15) e quindi libererebbe il creditore dalla controprestazione (art. 1463) (VIII, 10.14), ora non libera il creditore dall’eseguire la prestazione corrispettiva dovuta (ad es., se il compratore non si riceve la merce messagli a disposizione dal venditore, e questa intanto perisce per caso fortuito, il compratore deve egualmente pagare il prezzo pattuito). Ulteriori effetti sono che il debitore non deve corrispondere gli interessi, né i frutti della cosa che non siano stati da lui percepiti; mentre il creditore è tenuto a risarcire i danni derivati dalla mora e a sostenere le spese per la custodia e la conservazione della cosa. 2) L’offerta nelle forme d’uso non è compiuta secondo le forme solenni prescritte dagli artt. 1208 e 1209 (sopra esaminate). Perciò gli effetti della mora si realizzano solo dal giorno in cui è eseguito il deposito, se questo è accettato dal creditore o è dichiarato valido con sentenza passata in giudicato (art. 1214) 43. Comunque sia compiuta l’offerta (formale o secondo gli usi), consegue il dato comune che l’obbligazione non si estingue e quindi il debitore non è liberato: il debitore rimane obbligato ad adempiere perché il vincolo obbligatorio persiste. Dalle dette offerte (formale o secondo gli usi) differisce la offerta non formale (art. 1220), il cui unico effetto, come si vedrà, è quello di escludere la mora del debitore 44 (VII, 4.6). b) Liberazione del debitore. La costituzione in mora del creditore produce determinati effetti ma non libera il debitore dalla obbligazione: la liberazione del debitore è eventuale rispetto alla costituzione in mora del creditore, nel senso che non è automatica alla azienda, che comporti la qualificazione in senso risarcitorio dell’obbligo del datore di lavoro cedente che, dopo l’accertamento della nullità, dell’inefficacia o dell’inopponibilità di detto trasferimento, non ottemperi all’ordine di riammettere il lavoratore ceduto che abbia invano messo a disposizione le proprie energie lavorative, rifiutandosi di pagargli retribuzioni già corrisposte dalla società cessionaria. 43 Il creditore è legittimato ad agire esecutivamente, anche se costituito in mora credendi, non essendo il debitore liberato dall’obbligazione se non con l’esecuzione del deposito accettato dal creditore o dichiarato valido con sentenza passata in giudicato a seguito dell’offerta (Cass. 29-4-2015, n. 8711). 44 L’offerta non formale della prestazione è idonea ad escludere la mora del debitore soltanto se tempestiva, completa e determinante l’effettiva introduzione dell’oggetto integrale della prestazione dovuta nella disponibilità del creditore, con la comunicazione di tale fatto al medesimo; non integra una valida offerta non formale il deposito su un libretto di risparmio bancario, se il libretto sia rimasto nel potere del debitore (Cass. 29-10-2001, n. 13405).

CAP. 3 – ESTINZIONE DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO

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costituzione in mora anche se non può avvenire senza la stessa. Se il debitore è interessato alla definitiva liberazione dalla obbligazione, deve intraprendere una procedura di liberazione coattiva dalla obbligazione le cui modalità di esercizio risentono della natura del bene dovuto. Quanto ai beni mobili, se il creditore non accetta l’offerta reale (art. 12091) o non si presenta per ricevere i beni offertigli per intimazione (art. 12092), il debitore può eseguire il deposito (art. 12101), con i requisiti previsti dall’art. 1212 e nelle forme stabilite dagli artt. 76-78 disp. att.; può ritirare il deposito prima che lo stesso sia accettato dal creditore o sia dichiarato valido con sentenza passata in giudicato (12131). Il debitore è liberato dalla obbligazione se il deposito è accettato o è dichiarato valido con sentenza passata in giudicato (art. 12102). Quanto ai beni immobili, il debitore, dopo l’intimazione (se non v’è giudizio pendente) deve chiedere al presidente del tribunale del luogo ove è l’immobile la nomina di un sequestratario; è liberato dall’obbligazione con la consegna al sequestratario dell’immobile dovuto (art. 1216), nelle forme ex art. 79 disp. att. Dalla data di consegna al sequestratario il debitore è liberato dagli obblighi connessi all’immobile 45. Quanto alle prestazioni di fare, la legge non prevede un meccanismo, successivo all’intimazione, per la liberazione del debitore. È perciò dibattuto se il debitore sia tenuto ad un’ulteriore attività, e quale, per liberarsi dall’obbligazione. Deve ritenersi che, se la prestazione di fare è rivolta a realizzare una cosa o un modo di essere della stessa (es. costruzione di un edificio, custodia, ecc.), trovino applicazione, rispettivamente, le regole relative ai beni mobili e quelle riguardanti i beni immobili. Se invece il fare è rivolto a procurare un servizio (si pensi ai molti servizi telematici), non sussistendo un bene di cui liberarsi, è sufficiente che il debitore compia l’intimazione per liberarsi dalla obbligazione.

B) MODI DI ESTINZIONE DIVERSI DALL’ADEMPIMENTO 9. I modi di estinzione indirettamente satisfattivi. – Si è parlato fin qui del modo fisiologico di estinzione dell’obbligazione, mediante l’attuazione del rapporto obbligatorio: il creditore consegue il proprio soddisfacimento tramite l’adempimento del debitore (o mediante le varianti dell’adempimento del terzo o della dazione in pagamento). Si ha ora riguardo ad ipotesi nelle quali, per economia giuridica, è consentita la estinzione dell’obbligazione attraverso un soddisfacimento indiretto del creditore, in quanto il creditore consegue un risultato diverso da quello originario e non tramite l’attuazione del rapporto obbligatorio. Figure tipiche sono la compensazione e la confusione. Il presupposto comune alle stesse è che il creditore si trova ad essere anche debitore rispetto ad un diverso rapporto obbligatorio con il suo debitore: il soddisfacimento del creditore avviene senza la correlativa attuazione del contenuto dell’obbligo (né da parte del debitore, né da parte di un terzo) ma con la liberazione dal diverso debito. Il creditore realizza un interesse di segno diverso rispetto a quello perseguito con il rapporto obbligatorio; consegue il risultato favore45

Ad es. il debitore è liberato dall’obbligo di corrispondere gli oneri condominiali (Cass. 27-4-2004, n. 7982).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

vole di essere liberato da una propria posizione debitoria relativamente ad un distinto rapporto obbligatorio nel quale riveste la qualifica di debitore: è dunque un vantaggio indiretto. La estinzione della posizione attiva verso il debitore è correlata al venir meno di una distinta posizione passiva in un diverso rapporto obbligatorio.

10. Compensazione. – Due soggetti possono essere obbligati l’uno verso l’altro in due distinti rapporti obbligatori, sicché ciascuno dei due soggetti riveste ad un tempo la qualifica di debitore in un rapporto obbligatorio e di creditore in un diverso rapporto obbligatorio. I due rapporti non devono essere legati da un rapporto di corrispettività, altrimenti vi è solo la valutazione dell’adempimento di ciascuna delle due prestazioni in funzione dell’altra 46. Diversa è la “compensatio lucri cum damno”, connessa ad un fatto illecito 47 (X, 2.2). L’art. 1241 delinea la figura della compensazione con la previsione che, quando due persone sono obbligate l’una verso l’altra, i due debiti si estinguono per le quantità corrispondenti, secondo precise regole. Ciò risponde ad un’elementare esigenza di economia dei mezzi giuridici (oltre che di economia processuale): è inutile che un debitore esegua la prestazione dovuta se poi il creditore è tenuto, a sua volta, ad eseguire verso di lui un’altra (soprattutto se analoga) prestazione. Risulterebbe anche ingiusto che l’un debitore esegua la prestazione dovuta al creditore e questi non faccia altrettanto. È un soddisfacimento indiretto, per conseguire il creditore il vantaggio di non dovere adempiere un proprio debito verso il creditore che è ad un tempo proprio debitore: il singolo creditore trae il vantaggio della liberazione dalla posizione debitoria nel diverso rapporto obbligatorio 48. Quando i due debiti non sono pagabili nello stesso luogo, si devono computare le spese del trasporto al luogo di pagamento (art. 1245). Per aversi compensazione i due debiti devono essere coesistenti e reciproci: devono cioè esistere contemporaneamente ed incrociarsi tra i medesimi soggetti 49 (ad es. 46 Ove la reciproca relazione di debito-credito tragga origine da un unico o unitario rapporto (qual è quello relativo al contratto di appalto), l’istituto civilistico della compensazione non trova applicazione e la valutazione delle reciproche pretese importa un semplice accertamento contabile di dare ed avere, senza che operino i limiti alla compensabilità (Cass. 13-1-2017, n. 780; conf. Cass. 12302/2016, 23539/2011, 6055/2008). Ai fini della configurabilità della compensazione in senso tecnico di cui all’art. 1241 c.c., non rileva la pluralità o unicità dei rapporti posti a base delle reciproche obbligazioni, essendo invece necessario solo che le suddette obbligazioni, quale che sia il rapporto (o i rapporti) da cui esse prendono origine, siano “autonome”, ovvero “non legate da nesso di sinallagmaticità”; posto che, in ogni altro caso, non vi sarebbe motivo per escludere l’applicabilità della disciplina prevista dall’art. 1246 c.c., che tiene conto anche delle caratteristiche dei crediti (specialmente in relazione alla – totale o parziale – impignorabilità dei medesimi) proprio per evitare, tra l’altro, che l’operatività della compensazione si risolva in una perdita di tutela per i creditori (Cass. 9-5-2006, n. 10629; conf. Cass. 260/2006). 47 Il principio della compensatio lucri cum damno trova applicazione quando sia il danno che il vantaggio siano conseguenza immediata e diretta dello stesso fatto, il quale abbia in sé l’idoneità a produrre ambedue detti effetti (Cass. 7-1-2000, n. 81; conf. Cass. 4237/1997; Corte dei conti, sez. riun., 5/1997). 48 Per l’art. 8 D.Lgs. 27.7.2000, n. 212 (Statuto del contribuente), l’obbligazione tributaria può essere estinta per compensazione. Con la compensazione tributaria un credito di imposta può essere compensato con debiti tributari, così da diminuire o eliminare i tributi dovuti. 49 La compensazione, sia legale che giudiziale, presuppone che il controcredito eccepito specificamente deve originarsi da fatto genetico precedente alla notifica del pignoramento presso terzi che determina il vincolo di indisponibilità ex art. 2917 (Cass. 26-5-2020, n. 9704) (III, 1.4).

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non sono opponibili in compensazione i crediti che un soggetto vanta verso la persona del rappresentante dell’altro; o anche i crediti che una società vanta verso uno dei soci dell’altra) 50. La legge indica specifiche ipotesi per le quali, in ragione di particolari motivazioni considerate prevalenti, i debiti vanno necessariamente adempiuti e non possono essere opposti in compensazione. Per l’art. 1246, la compensazione, qualunque sia il titolo dell’uno o dell’altro debito, non si verifica quando ricorre uno dei seguenti casi: credito per la restituzione di cose di cui il proprietario sia stato ingiustamente spogliato (es. art. 1168); 2) credito per la restituzione di cose depositate o date in comodato (es. artt. 1766 ss., 1803 ss.); 3) credito dichiarato impignorabile (art. 545 c.p.c.); 4) rinunzia alla compensazione fatta preventivamente dal debitore; 5) divieto stabilito dalla legge (come ad es. la inammissibilità della compensazione dei debiti per alimenti, neppure quando si tratta di prestazioni arretrate: art. 447). Inoltre la compensazione non opera se uno dei due debiti è un’obbligazione naturale, per l’assenza di un debito giuridico (VII, 1.10). Sono previsti tre tipi di compensazione: legale, giudiziale e convenzionale. Con riguardo ad ognuno di tali tipi devono ricorrere specifici presupposti, che lasciano inferire come la compensazione sia di utilità per entrambi i creditori. a) La compensazione legale opera in virtù della legge, in presenza di tre requisiti dei debiti che operano come altrettanti presupposti della compensazione: i debiti devono essere omogenei, liquidi ed esigibili (art. 12431). Sono omogenei quando hanno per oggetto somme di danaro o quantità di cose fungibili dello stesso genere, sostituibili l’una con l’altra. Solo così i due debiti si rivelano comparabili, in quanto rivolti a procurare un medesimo risultato economico. Sono liquidi in quanto sono certi e determinati nell’ammontare, o determinabili in base a criteri prestabiliti o a un mero calcolo matematico 51. Ciò consente di determinare la misura dei debiti non più dovuti. Sono esigibili quando è scaduto il termine di adempimento. La eventuale dilazione accordata gratuitamente dal creditore non impedisce la compensazione (art. 1244), es50 La giurisprudenza è solita affermare che i due debiti devono essere anche autonomi, nel senso che i due crediti devono risultare da titoli diversi (Cass. 10-2-2003, n. 1955; Cass. 12-4-1999, n. 3564). 51 La compensazione, legale o giudiziale, rimane impedita tutte le volte in cui il credito opposto in compensazione sia stato ritualmente contestato in diverso giudizio non ancora definito, risultando a tal fine irrilevante l’eventuale sentenza di merito o provvedimento di condanna, anche se immediatamente esecutivi, emessi in quel giudizio, perché non consentono di ritenere integrato il requisito della definitività dell’accertamento, e dunque della certezza del controcredito (Cass. 14-2-2019, n. 4313). Vedi però Cass. 17-10-2013, n. 23573: la circostanza che l’accertamento di un credito sia oggetto di altro giudizio pendente non è d’ostacolo alla possibilità che il suo titolare lo eccepisca in compensazione nel giudizio che contro di lui il suo debitore introduca per far valere un proprio credito; ove il giudizio sul controcredito penda davanti allo stesso ufficio giudiziario, il coordinamento fra i due giudizi così connessi ai fini dell’operare della compensazione deve avvenire tramite il meccanismo della riunione dei procedimenti ed all’esito di essa il giudice davanti al quale i processi sono riuniti potrà procedere nei modi indicati dall’art. 12432 c.c.; ove la riunione non sia possibile ed ove il giudizio nel quale è in discussione il credito eccepito in compensazione penda davanti ad altro giudice (e non sia possibile una rimessione ad esso ai sensi dell’art. 40 c.p.c.) oppure penda in grado di impugnazione, il coordinamento dovrà avvenire con la pronuncia sul credito principale di una condanna con riserva all’esito della decisione sul credito eccepito in compensazione e la rimessione sul ruolo della decisione sulla sussistenza delle condizioni della compensazione, con sospensione del giudizio ai sensi dell’art. 295 c.p.c. o 3372 c.p.c. fino alla definizione del giudizio di accertamento del controcredito. La certezza non può essere riconosciuta a un credito contestato nella sua esistenza, salvo che la contestazione non appaia prima facie pretestuosa e priva di fondamento (Cass. 22-11-2004, n. 22035).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

sendo mero atto di tolleranza. Nessuno dei due crediti deve essere contestato e oggetto di accertamento giudiziario; né deve essere soggetto a condizione. Una ipotesi testuale di compensazione legale è prevista con riguardo alle operazioni bancarie in conto corrente: se tra la banca e il correntista esistono più rapporti o più conti, ancorché in monete differenti, i saldi attivi e passivi si compensano reciprocamente, salvo patto contrario (art. 1853) 52. Con la compensazione legale si determina la estinzione dei due rapporti obbligatori in forza di legge e cioè automaticamente dal giorno della coesistenza dei debiti con i tre requisiti indicati (art. 12421) (efficacia ex tunc). Con la estinzione dei debiti viene anche meno la giustificazione delle garanzie personali e reali: il fideiussore, come il terzo datore di ipoteca o di pegno, possono opporre in compensazione il debito che il creditore ha verso il debitore principale (art. 1247). La compensazione non può essere rilevata di ufficio dal giudice, ma deve essere opposta e cioè invocata dalla parte che intende avvalersene (art. 1242): la parte, chiamata in giudizio per l’adempimento di un debito, ha l’onere di eccepire la compensazione legale con altro debito. Ciò ha dato luogo a un articolato dibattito circa la operatività di diritto della compensazione: la prevalente dottrina e la giurisprudenza sono inclini ad ammetterla secondo il dato letterale dell’art. 12421, che connette la estinzione al fatto in sé della coesistenza dei debiti. In realtà la non rilevabilità di ufficio sembra esprimere solo l’idea di rimettere ai privati la scelta di avvalersi o meno di un effetto (estintivo) comunque già determinatosi 53. La eventuale sentenza che accerta l’estinzione ha perciò natura dichiarativa. La problematica è la medesima che si verifica con riferimento alla prescrizione, che estingue il diritto (art. 2934) ma non può essere rilevata di ufficio dal giudice (art. 2938) per rimettersi alla parte interessata la decisione se avvalersene o meno. La prescrizione non impedisce la compensazione, se non era compiuta quando si è verificata la coesistenza dei due debiti (art. 12422). In presenza di più debiti compensabili trovano applicazione le regole sulla imputazione del pagamento di cui all’art. 11932 (art. 1249). Ciò significa che, se proviene imputazione da una delle parti, si verte in tema di compensazione volontaria. b) La compensazione giudiziale ha luogo quando il debito opposto in compensazione, pure essendo omogeneo a quello azionato ed egualmente esigibile, non è liquido (cioè non è certo e determinato o determinabile), ma è di facile e pronta liquidazione (art. 12432). In tal caso è rimessa al giudice la determinazione del debito, al fine di 52 La Suprema Corte ha ritenuto che tale principio operi anche quando i rapporti siano ancora in corso, salvo il dovere di ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, in ossequio al principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto (ad es. con l’avviso da parte della banca al correntista della intervenuta compensazione) (Cass. 28-9-2005, n. 18947). La disposizione dell’art. 1853, dettata allo scopo di garantire la banca contro ogni scoperto non specificamente pattuito che risulti a debito del cliente quale effetto di un qualsiasi rapporto o conto corrente fra le due parti, prevede che la compensazione tra saldi attivi e passivi, anche a favore del correntista, sia attuata mediante annotazioni in conto e, in particolare (alla luce del principio dell’unità dei conti), attraverso l’immissione del saldo di un conto, come posta passiva, in un altro conto ancora aperto (con le modalità proprie di tale tipo di operazione), salva manifestazione di volontà di segno contrario da parte del cliente (Cass. 23-1-2020, n. 1445). 53 La compensazione estingue ope legis i debiti contrapposti in virtù del solo fatto oggettivo della loro contemporanea sussistenza; trattandosi di esercizio di un diritto potestativo, la compensazione non può essere rilevata d’ufficio e deve essere eccepita da chi intende avvalersene (Cass. 11-3-2020, n. 7018).

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stabilire la misura dei debiti compensati 54. La compensazione si determina in virtù del provvedimento giudiziario, che perciò ha natura costitutiva: solo con il provvedimento giudiziario che rende liquido il debito opposto in compensazione si verifica il concorso dei tre requisiti dei debiti innanzi indicati (e può operare quindi la compensazione stessa) (efficacia ex nunc). Il giudice può anche sospendere la condanna per il credito liquido fino all’accertamento del credito illiquido opposto in compensazione (art. 12432). Può darsi luogo a compensazione giudiziale anche quando entrambi i debiti non siano liquidi ma di pronta e facile liquidazione. Anche la compensazione giudiziale non è rilevabile di ufficio dal giudice, ma va eccepita. c) La compensazione volontaria non è subordinata ai presupposti innanzi indicati per la compensazione legale e giudiziale. Le parti, con contratto, possono sempre compensare (in tutto o in parte) i propri debiti, così estinguendo i reciproci rapporti obbligatori (art. 12521). Essendo espressione di autonomia privata, l’estinzione si realizza nei modi concordati dalle parti e per effetto del consenso delle parti. Le parti possono anche stabilire le condizioni di una successiva compensazione (c.d. patto di compensazione futura) (art. 12522): in tal caso la compensazione si verificherà automaticamente al momento del verificarsi delle previste condizioni. d) La giurisprudenza ammette una compensazione atecnica (o impropria) allorché i due crediti non siano autonomi ma abbiano origine da uno stesso rapporto. La raffigurazione ha i suoi riflessi in sede processuale, non onerando chi invoca la compensazione a proporre domanda riconvenzionale o a formulare apposita eccezione di compensazione 55. In ogni caso, determinando la compensazione la estinzione dei debiti reciproci, si pone il problema della tutela dei terzi eventualmente danneggiati dalla compensazione. Anzitutto, se il debitore ha accettato puramente e semplicemente la cessione del credito a un terzo, non può opporre al cessionario la compensazione che avrebbe potuto opporre al cedente: la cessione notificata al debitore, senza sua accettazione, impedisce la compensazione dei crediti sorti posteriormente alla notificazione (art. 1248). La compensazione non si verifica in pregiudizio dei terzi che hanno acquistato diritti di usufrutto o di pegno su uno dei crediti (art. 1250). Ed ancora, chi ha pagato un debito mentre poteva invocare la compensazione non può più valersi, in pregiudizio dei terzi, dei privilegi e delle garanzie a favore del suo credito, salvo che abbia ignorato l’esistenza di questo per giusti motivi (art. 1251).

54 Se i titoli sono diversi, i due crediti vanno resi omogenei con riferimento al momento della sentenza; nella compensazione di debiti reciproci aventi natura diversa, per essere uno di valore (in quanto a titolo di risarcimento danni) e l’altro di valuta, ai fini della determinazione del primo si deve tenere conto dell’incidenza della svalutazione monetaria, mentre la parte che fa valere il secondo può richiedere, ai sensi dell’art. 12242, l’ulteriore risarcimento del “danno maggiore” da essa eventualmente subìto, rispetto a quello forfettariamente determinato dal primo comma dello stesso articolo nella misura degli interessi legali (Cass. 11-12-2019, n. 32438). 55 È ammessa la compensazione impropria, in presenza di reciproche obbligazioni derivanti da un unico rapporto giuridico: l’accertamento contabile del saldo finale delle contrapposte partite, con elisione automatica dei rispettivi crediti fino alla reciproca concorrenza, può essere compiuto dal giudice di ufficio, senza che siano necessarie l’eccezione di parte o la domanda riconvenzionale; diversamente nel caso di compensazione propria, che invece, per poter operare, postula l’autonomia dei rapporti e l’eccezione di parte (Cass. 27-2-2020, n. 3856; Cass. 19-2-2019, n. 4825; Cass. 7474//2017).

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11. Confusione. – Ha luogo la confusione quando le qualità di creditore e di debitore di uno stesso rapporto si riuniscono nella medesima persona. Ad es. un soggetto, che è creditore verso altro soggetto, diventa suo erede; oppure un imprenditore, che è creditore verso altro imprenditore, acquista la sua azienda: in entrambe le ipotesi, sullo stesso soggetto, si riassumono le qualifiche di creditore e debitore relativamente al medesimo rapporto (negli esempi fatti l’erede o il cessionario dell’azienda diventa creditore di se stesso). Sono eccezionali le ipotesi di conservazione delle qualifiche, delineandosi un rapporto unisoggettivo (di cui si è detto: VII, 1.5): sono meccanismi tecnici tesi a tutelare specifici interessi considerati prevalenti. La riunione nella stessa persona delle qualità di creditore e di debitore determina di regola la estinzione dell’obbligazione (art. 12531) 56. Come per la compensazione, il soddisfacimento del creditore è solo indiretto in quanto conseguente al mero fatto della estinzione di una posizione di debito nel proprio patrimonio. Non è richiesta la opposizione della confusione, come per la compensazione, in quanto non c’è una valutazione di interessi da compiere per riassumere un unico soggetto entrambe le posizioni. La estinzione dell’obbligazione comporta anche la estinzione delle garanzie, con liberazione dei terzi che le hanno prestate (art. 1253). Ma la confusione non opera in pregiudizio dei terzi che hanno acquistato diritti di usufrutto o di pegno sul credito (art. 1254). 12. I modi di estinzione non satisfattivi. – In un’ottica diversa si collocano i modi di estinzione dell’obbligazione senza soddisfacimento del creditore. Il tratto comune a tali ipotesi di estinzione è l’assenza di ogni soddisfacimento del creditore: né diretto, in quanto non c’è adempimento (neppure nelle varianti dell’adempimento del terzo o della dazione in pagamento); né indiretto, in quanto il creditore neppure trae il vantaggio riflesso della estinzione di una posizione debitoria. Modi di estinzione non satisfattivi sono: la novazione, la rimessione del debito e la impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore. In tutte le tre ipotesi si produce, in modi diversi, la estinzione non satisfattiva del rapporto obbligatorio. 13. Novazione (oggettiva e soggettiva). – Con la novazione il rapporto obbligatorio originario è estinto e sostituito con un nuovo rapporto, con un nuovo oggetto o titolo (c.d. novazione oggettiva) (art. 1230), o con un nuovo soggetto (c.d. novazione soggettiva) (art. 1235). a) La novazione oggettiva è l’unico tipo di novazione regolato dalla legge: perciò il termine novazione senza aggettivazione è riferito alla novazione oggettiva. Con la novazione oggettiva le parti sostituiscono all’obbligazione originaria una nuova obbligazione con oggetto o titolo diverso (art. 1230). La novazione si atteggia come contratto consensuale con funzione novativa: è consensuale perché l’efficacia si produce in virtù del solo consenso e al momento dello stesso; è con funzione novativa in quanto il contratto novativo produce, ad un tempo, la vicenda estintiva del rapporto obbligatorio 56 Se, però, nella medesima persona si riuniscono le qualità di fideiussore e di debitore principale, la fideiussione resta in vita, purché il creditore vi abbia interesse (art. 1255).

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originario e la vicenda costitutiva di un nuovo rapporto che al primo si sostituisce. In ciò sta il divario con la dazione in pagamento, che pure estingue l’obbligazione: la dazione in pagamento (anche se procura un bene diverso) produce il soddisfacimento del creditore (funzione solutoria) (par. 6), invece la novazione non realizza il soddisfacimento del creditore, sostituendo il precedente rapporto con un nuovo rapporto. Si vanno così delineando i tre presupposti della novazione oggettiva. Anzitutto l’obbligazione da novare. Se l’obbligazione originaria “non esisteva” la novazione è senza effetto (art. 12341): e ciò per l’evidente ragione che non si può sostituire ciò che non esiste. La formula della legge di inesistenza dell’obbligazione è essenzialmente riferita alla obbligazione derivante da titolo nullo (così Relaz. cod. civ., n. 573); anche perché è espressamente prevista l’ipotesi di titolo annullabile. Se l’obbligazione originaria derivi da un titolo annullabile, la novazione è valida solo se il debitore conosceva la causa di invalidità (art. 12342) (e sempre che abbia assunto validamente la nuova obbligazione) 57. In assenza di una specifica disciplina in materia, si è del parere che il trattamento dell’annullamento, per riferirsi ad un titolo viziato ma efficace, valga per tutte le altre anomalie del rapporto obbligatorio antecedenti alla novazione, egualmente riferite ad un titolo viziato efficace (revocabilità o risolubilità per cause già verificatesi). La previsione di inefficacia della novazione se l’obbligazione è inesistente o nulla evita di ripulire il rapporto originario inefficace. Se il rapporto originario è efficace ma viziato, risponde ad un fondamentale criterio di correttezza che il debitore abbia assunto il nuovo debito conoscendo il vizio del rapporto originario (però il contratto rescindibile non è convalidabile: art. 1451). Inoltre l’intento novativo (c.d. animus novandi): per l’art. 12302 la volontà di estinguere l’obbligazione precedente deve risultare “in modo non equivoco”. Non è richiesta una particolare forma: la volontà può essere manifestata anche tacitamente, purché chiaramente rivolta alla novazione 58. Il rilascio di un documento o la sua rinnovazione, l’apposizione o l’eliminazione di un termine e in genere le modificazioni accessorie dell’obbligazione non producono novazione (art. 1231). Infine il mutamento dell’oggetto o del titolo (c.d. aliquid novi) (art. 12301). La novità può innanzi tutto riguardare l’oggetto dell’obbligazione e cioè il bene dovuto: ad es. la prestazione di pagare una somma di danaro è sostituita con quella di consegnare una partita di merce 59. Il mutamento può anche riguardare solo il titolo dell’obbligazione e 57

Non è possibile la novazione di un’obbligazione naturale per l’essenza propria di questa (VII, 1.10). Secondo la giurisprudenza l’animus novandi deve essere comune ai contraenti (Cass. 9-4-2003, n. 5576) e non può essere presunto dovendo essere provato in concreto (Cass. 27-7-2000, n. 9867). È però sufficiente anche un comportamento concludente, ravvisabile nelle ipotesi di incompatibilità oggettiva (Cass. 2-6-1998, n. 5399). L’accordo delle parti può essere espresso o “per facta concludentia”, purché inteso ad estinguere l’originaria obbligazione con una nuova per oggetto o titolo; pertanto l’impegno del venditore (ma vale anche per l’appaltatore) di eliminare i vizi che rendono il bene inidoneo all’uso cui è destinato ovvero che ne diminuiscono in modo apprezzabile il valore economico, di per sé, non dà vita ad una nuova obbligazione estintiva-sostitutiva dell’originaria obbligazione di garanzia, ma consente al compratore di non soggiacere ai termini di decadenza ed alle condizioni di cui all’art. 1495 c.c., ai fini dell’esercizio delle azioni (risoluzione del contratto o riduzione del prezzo) previste in suo favore, sostanziandosi tale impegno in un riconoscimento del debito, interruttivo della prescrizione (Cass. 25-6-2013, n. 15992). 59 La modifica dell’oggetto integra novazione quando la nuova obbligazione è incompatibile con il persistere della obbligazione originaria (Cass. 16-6-2005, n. 12962; Cass. 22-1-2004, n. 1019). 58

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

cioè il fondamento causale della stessa: ad es., non pagando il compratore il (residuo) prezzo dovuto, le parti possono convenire di lasciare tale somma nella disponibilità del compratore a titolo di mutuo (con l’eventuale conteggio degli interessi relativi), sicché il compratore dovrà pagare tale somma a titolo di restituzione per il mutuo ricevuto, secondo la disciplina propria del mutuo. Si è visto come possano intervenire modificazioni dell’oggetto dell’obbligazione senza novazione dell’obbligazione quando manchi un animus novandi e un aliquid novi (c.d. modificazioni semplici o non novative: art. 1231) 60: ad es., con riguardo al contratto di locazione, la riduzione del canone dovuto o la dilazione del termine di pagamento non implicano come tali la novazione del contratto di locazione (VII, 2.13). Analogamente, l’assunzione da parte del venditore o dell’appaltatore dell’obbligazione di eliminare i vizi della cosa, di per sé, si affianca alla originaria obbligazione di garanzia senza estinguerla 61. La novazione ha una rilevante incidenza in tema di prescrizione, in quanto, intervenuta la novazione, inizia a decorrere un nuovo termine di prescrizione del credito. L’estinzione dell’obbligazione originaria comporta che anche le garanzie del credito che vi inerivano si estinguano, se le parti non convengano espressamente di mantenerle per il nuovo credito (art. 1232): la norma si riferisce solo a privilegi, pegno e ipoteca; ma non c’è ragione per non estendere il principio anche alle garanzie personali. Se la garanzia proviene da un terzo è richiesto il suo consenso per il mantenimento della garanzia rispetto alla nuova obbligazione. Problemi particolari emergono con riguardo alla connessione del rapporto estinto con quello costituito. Di regola gli stessi sono autonomi, sempre che il primo rapporto (come si è visto) sia efficace. L’inefficacia del contratto di novazione (per nullità o per altra causa) comporta la rimozione della disposizione novativa e quindi il ripristino dello stato precedente e cioè della obbligazione originaria. In assenza di disciplina, si ammette la rilevabilità di ufficio della novazione 62. Un regime specifico opera per la transazione novativa, con la quale le parti intendono definire un rapporto controverso con la costituzione di un rapporto giuridico 60 Le sole variazioni di misura del canone e del termine di scadenza non sono considerate, come tali, indici di novazione di un rapporto di locazione, trattandosi di modificazioni accessorie della correlativa obbligazione (Cass. 13-6-2017, n. 14620; Cass. 9-3-2010, n. 5673; Cass. 25-11-2003, n. 17913). È necessario verificare l’incidenza che la singola determinazione assume sul complessivo assetto di interessi. L’atto di modificazione quantitativa di una precedente obbligazione con differimento della scadenza per il suo adempimento non costituisce una novazione e non comporta, dunque, l’estinzione dell’obbligazione originaria, restando assoggettato, per la sua natura contrattuale, alle ordinarie regole sulla validità (Cass. 26-6-2013, n. 16050). 61 Qualora il venditore si impegni ad eliminare i vizi e l’impegno sia accettato dal compratore, sorge un’autonoma obbligazione di facere, che, ove non estingua per novazione la garanzia originaria, a questa si affianca, rimanendo ad essa esterna e, quindi, non alterandone la disciplina; ne consegue che, in tale ipotesi, anche considerato il divieto dei patti modificativi della prescrizione sancito dall’art. 2936 c.c., l’originario diritto del compratore alla riduzione del prezzo e alla risoluzione del contratto resta soggetto alla prescrizione annuale, di cui all’art. 1495, mentre l’ulteriore suo diritto all’eliminazione dei vizi ricade nella prescrizione ordinaria decennale (Cass., sez. un., 13-11-2012, n. 19702). Analogamente si è deciso in materia di appalto, relativamente alla prescrizione ex art. 1667 (Cass. 18-12-2015, n. 25541). 62 La novazione non forma oggetto di un’eccezione in senso proprio, come si deduce dalla nozione e dalla disciplina quali delineate negli artt. 1230-1235 c.c., poste a raffronto con l’espressa previsione della non rilevabilità d’ufficio della compensazione (art. 1242 c.c.), e quindi il giudice può rilevare d’ufficio il fatto corrispondente, ove ritualmente introdotto nel processo (Cass. 8-4-2009, n. 8527).

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complessivamente incompatibile e nuovo rispetto a quello originario, sicché le obbligazioni assunte dalle parti devono ritenersi oggettivamente diverse da quelle preesistenti 63. Non può chiedersi la risoluzione della transazione per inadempimento se il rapporto preesistente è stato estinto per novazione, salvo che sia stato espressamente stipulato il diritto alla risoluzione (art. 1976) 64; vengono meno le originarie garanzie 65. Una disciplina articolata opera per la transazione su un “titolo nullo” (art. 1972) 66 (IX, 6.1). b) La novazione soggettiva è solo menzionata dalla legge (art. 1235), con la previsione che, quando un nuovo debitore è sostituito a quello originario, che viene liberato, si osservano le norme relative a delegazione, espromissione e accollo (artt. 1268 ss.); con ciò sembrando assimilare la novazione soggettiva a tali figure per l’unitario dato della sostituzione del debitore originario 67. In realtà, con la mera sostituzione del soggetto passivo, si realizza il subentro del terzo nella posizione passiva del medesimo rapporto; viceversa, con la novazione soggettiva passiva, si produce la estinzione del rapporto originario con la costituzione di un nuovo rapporto con un diverso soggetto 63 Sono elementi essenziali della transazione novativa l’aliquid novi, inteso come mutamento sostanziale dell’oggetto della prestazione ovvero del titolo del rapporto, e l’animus novandi come inequivoca, comune intenzione di entrambe le parti di estinguere l’originaria obbligazione, sostituendola con una nuova (cfr. Cass. 26-5-2020, n. 9690; Cass. 13-3-2019, n. 7194). In assenza di un’espressa manifestazione di volontà delle parti, bisogna accertare se le parti, nel comporre l’originario rapporto litigioso, abbiano inteso o meno addivenire alla conclusione di un nuovo rapporto, costitutivo di autonome obbligazioni, ovvero se esse si siano limitate ad apportare modifiche alle obbligazioni preesistenti senza elidere il collegamento con il precedente contratto, il quale si pone come causa dell’accordo transattivo che, di regola, non è volto a trasformare il rapporto controverso (Cass. 9-11-2021, n. 32655; Cass. 14-7-2011, n. 15444). L’efficacia novativa della transazione presuppone una situazione di oggettiva incompatibilità tra il rapporto instaurato e quello transatto; le parti, nella composizione del rapporto litigioso, danno vita a un nuovo rapporto fonte di nuove e autonome situazioni destinate a sostituirsi a quelle precedenti (Cass. 20-4-2020, n. 7963). 64 Nell’ipotesi in cui un rapporto venga fatto oggetto di una transazione e questa non abbia carattere novativo, la mancata estinzione del rapporto originario significa non già che la posizione delle parti sia regolata contemporaneamente dall’accordo originario e da quello transattivo, bensì soltanto che l’eventuale venir meno di quest’ultimo fa rivivere l’accordo originario; al contrario di quanto, invece, accade qualora le parti espressamente od oggettivamente abbiano stipulato un accordo transattivo novativo, nel qual caso l’art. 1976 sancisce l’irrisolubilità della transazione (Cass. 16-11-2006, n. 24377). 65 La transazione novativa di un’obbligazione garantita ha effetto estintivo delle garanzie reali originariamente prestate, salvo che i contraenti non abbiano convenuto di conservarle anche in relazione al nuovo contratto, ma, in tale caso, il patto opera esclusivamente “inter partes”, occorrendo, ai fini della conservazione di garanzie prestate da terzi, il necessario consenso del garante; si determina anche l’estinzione delle garanzie personali, ove non espressamente mantenute, sia “accessorie”, in considerazione del nesso di dipendenza che lega la obbligazione di garanzia a quella principale, sia “autonome” in considerazione del nesso indissolubile che lega la causa concreta di garanzia autonoma alla esistenza del rapporto garantito (Cass. 13-6-2017, n. 14620). 66 La transazione novativa che interviene su un titolo nullo è sanzionata con la nullità (co. 1) soltanto se relativa a un contratto illecito (per illiceità della causa o del motivo comune a entrambe le parti) ed è invece annullabile negli altri casi, ma il vizio del negozio può essere fatto valere soltanto dalla parte che ha ignorato la causa di invalidità (co. 2); la transazione conservativa, riguardante l’esecuzione o gli effetti di un negozio nullo, è sempre affetta da nullità, ancorché le parti ne abbiano trattato, perché essa regola il rapporto congiuntamente al titolo contrattuale invalido e non in sostituzione di questo (Cass. 20-4-2020, n. 7963). 67 Secondo la Relaz. cod. civ., n. 584, una esigenza pratica di evitare problematiche circa la interpretazione dell’intento pratico delle parti, se orientato verso una novazione soggettiva o una successione nel debito, ha suggerito di accomunare le due ipotesi sotto una medesima disciplina: così è avvenuto con riguardo alle eccezioni opponibili dal terzo al creditore e alla sorte delle garanzie del debito originario.

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

(VII, 2.9). E non è privo di effetti il ricorso della estinzione o meno dell’obbligazione originaria: si pensi alla prescrizione del diritto di credito, che riprende a decorrere dalla costituzione del nuovo rapporto (peraltro secondo il termine ordinario, indipendente dal termine di prescrizione del diritto novato); si pensi anche al calcolo degli interessi, che inizia a decorrere dal nuovo rapporto, tranne patto diverso. La legge neppure prevede la novazione soggettiva attiva. Ma, pure nel silenzio della legge, deve egualmente considerarsi meritevole di tutela (ex art. 13222) il patto con il quale debitore e creditore sostituiscano il soggetto attivo con effetto novativo del rapporto obbligatorio, purché la volontà di estinguere l’obbligazione originaria risulti in modo non equivoco, secondo una interpretazione estensiva dell’art. 12302.

14. Remissione del debito (e pactum de non petendo). – Ognuno può rinunziare ad un proprio diritto disponibile. La rinunzia del credito, per la essenziale connessione con il debito, ha la peculiarità di influenzare la sfera giuridica del debitore, che potrebbe non volere essere beneficiato. Perciò la liberazione del debitore non può avvenire contro la volontà dello stesso. a) La remissione del debito è disciplinata dall’art. 1236, secondo cui “la dichiarazione del creditore di rimettere il debito estingue l’obbligazione quando è comunicata al debitore, salvo che questi dichiari, in un congruo termine, di non volerne profittare”. La remissione può riguardare l’intero credito (remissione totale) o una sola parte (remissione parziale). Si ritiene che possano essere rinunciati anche crediti futuri ai sensi dell’art. 1348. In ogni caso la dichiarazione di remissione produce effetto solo se comunicata al debitore 68. La risalente opinione di considerare la remissione come un contratto, sul presupposto che il mancato rifiuto del debitore comporta accettazione tacita, è dissolta dal chiaro dettato del codice. La remissione si atteggia come negozio unilaterale recettizio che produce effetti nel momento in cui perviene a conoscenza del destinatario (arg. artt. 1236 e 1334) 69. La dichiarazione del creditore produce l’effetto remissorio, estintivo del rapporto obbligatorio, con la eliminazione di entrambe le situazioni correlate, di credito (con la connessa pretesa di comportamento) e di debito (con il connesso obbligo di comportamento) (VII, 1.4), da cui consegue la liberazione del debitore e di tutti coloro che avevano garantito l’adempimento. Il diritto del debitore di opporsi alla remissione non è peculiare alla remissione ma è espressione del generale principio della tendenziale indipendenza delle sfere giuridiche, per cui è consentito incidere sulla sfera giuridica altrui, purché con effetti favorevoli e sempre con salvezza del diritto di rifiuto del titolare (artt. 13332, 14112) (II, 5.1). In tal guisa il potere dispositivo del creditore e la salvaguardia della sfera giuridica del debitore trovano il giusto equilibrio: da un lato, è riconosciuto al creditore il potere dispositivo di 68 La rinuncia ad un diritto, se pure non può essere presunta, può tuttavia desumersi da un comportamento concludente, che manifesti, in quanto incompatibile con l’intenzione di avvalersi del diritto, la volontà di rinunciare (Cass. 14-6-2019, n. 16061). Il debitore che vuole avvalersi della remissione ha l’onere di allegare il fatto estintivo dell’obbligazione e quindi la comunicazione di remissione o che comunque la stessa sia stata resa al debitore (Cass. 14-1-2022, n. 1057; Cass. 18-5-2006, n. 11749). 69 Gli effetti della rimessione non possono essere disconosciuti dal creditore, una volta che abbia manifestato l’intento abdicativo al debitore (Cass. 21-3-2019, n. 8012).

CAP. 3 – ESTINZIONE DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO

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estinguere l’obbligazione con la dichiarazione di remissione comunicata al debitore; dall’altro, è accordato al debitore il potere di reazione contro la incisione della propria sfera giuridica. Il rifiuto produce l’effetto estintivo della remissione, facendo rivivere l’obbligazione originaria. L’adesione del debitore, da un lato, non gli consente più di dichiarare di non volerne profittare; dall’altro, impedisce al creditore la revoca della remissione (arg. ex art. 14112). Atteggiandosi la remissione quale atto di disposizione del credito, è richiesta l’ordinaria capacità di disporre del creditore; inoltre il credito deve essere determinato o determinabile. La remissione si configura come atto a titolo gratuito; se però rappresenta una delle poste di una sistemazione patrimoniale, si connota a titolo oneroso. La remissione non ha bisogno di una particolare forma: la rinunzia può dunque essere anche tacita purché inequivoca 70. La legge, attraverso una valutazione legale tipica di determinati comportamenti, deduce due presunzioni di remissione dalla restituzione del titolo: in particolare, la restituzione volontaria dell’originale del titolo del credito, fatta dal creditore al debitore 71, costituisce prova della liberazione anche rispetto ai condebitori in solido (art. 12371) (presunzione assoluta); la consegna volontaria della copia esecutiva del titolo del credito in forma pubblica fa presumere la liberazione, salva prova contraria (art. 12372) (presunzione relativa). La rinunzia alle garanzie non fa presumere la remissione (art. 1238). La remissione accordata al debitore principale libera i fideiussori (art. 12391): ed è da ritenere che faccia venire meno tutte le garanzie, ormai prive di causa 72. Si può ammettere una rinunzia al credito, quale dismissione abdicativa del diritto, senza estinzione dell’obbligazione: la fattispecie va provata, valendo diversamente la regola in tema di obbligazioni che la rinunzia al credito comporta remissione. Per la remissione, operano i limiti alla prova testimoniale previsti in tema di contratto (artt. 2721 ss.), che l’art. 2726 estende al pagamento e alla remissione del debito. b) Il c.d. pactum de non petendo non è disciplinato e va dunque ricostruito. Con tale patto il creditore si obbliga a non chiedere al debitore l’adempimento di quanto dovuto per un determinato periodo di tempo, o anche a tempo indeterminato, ovvero in presenza di determinate circostanze o fino all’esito di un determinato avvenimento. Un esem70 La volontà di remissione presuppone la consapevolezza dell’esistenza del debito da parte del creditore, non potendo configurarsi la remissione di un debito che lo stesso remittente reputasse, a torto o a ragione, inesistente; la remissione, pur non potendosi presumere, può tuttavia ricavarsi da una manifestazione tacita di volontà abdicativa, risultante da una serie di circostanze concludenti e non equivoche, assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi del diritto di credito (Cass. 4-10-2000, n. 13169). 71 Il possesso da parte del debitore del titolo originale del credito costituisce fonte di una presunzione legale “juris tantum” di pagamento, superabile con la prova contraria di cui deve onerarsi il creditore che sia interessato a dimostrare che il pagamento non è avvenuto e che il possesso del titolo è dovuto ad altra causa (Cass. 8-2-2018, n. 3130). La restituzione volontaria del titolo originale del credito vale come liberazione dalla obbligazione (art. 12371) a condizione che il debitore provi la volontarietà della restituzione da parte del creditore o da persona ad esso riferibile (Cass. 27-1-2015, n. 1455). 72 In presenza di più fideiussori, la remissione accordata ad uno dei fideiussori libera gli altri per la sola parte del fideiussore liberato; se gli altri fideiussori hanno consentito alla liberazione rimangono obbligati per l’intero (art. 12392). Il creditore che ha rinunziato, verso corrispettivo, alla garanzia prestata da un terzo deve imputare al debito principale quanto ha ricevuto, a beneficio del debitore e di coloro che hanno prestato garanzia per l’adempimento dell’obbligazione (art. 1240).

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pio è nel contratto di conto corrente, nel quale le parti si obbligano ad annotare in un conto i crediti derivanti da reciproche rimesse, considerandoli inesigibili e indisponibili fino alla chiusura del conto (art. 1823). L’autonomia privata può variamente atteggiare il contenuto del patto purché diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela (art. 13222). Si è a lungo discusso circa la natura della figura e la correlazione con la remissione del debito. Intanto è da chiarire che l’obbligazione di non chiedere l’adempimento può essere assunta con una dichiarazione unilaterale (negozio unilaterale) ovvero formare oggetto di un patto tra creditore e debitore (contratto), anche collegato ad un più vasto regolamento di interessi, come posta del complessivo regolamento. Dal patto deriva una obbligazione (negativa) di non fare, cioè di non chiedere l’adempimento, che si atteggia come autolimitazione della propria autonomia: il rapporto obbligatorio resta in piedi solo che la pretesa di comportamento (che connota il credito) non è azionabile e l’obbligo di comportamento (che connota il debito) non è coercibile; il creditore conserva le garanzie patrimoniali. Si determina inattuabilità del rapporto obbligatorio per non esigibilità del diritto credito, che correlativamente non è neppure eseguibile: ogni azione giudiziaria di adempimento è paralizzata dall’eccezione di inesigibilità del credito. È un debito inesigibile ma pagabile, per cui il debitore conserva il diritto all’adempimento; se paga non può però ripetere quanto ha pagato (ex art. 2033) appunto per l’esistenza del debito. Quando l’obbligazione di non richiedere l’adempimento è assunta con dichiarazione unilaterale, comunicata al debitore, è da ritenere ammessa la dichiarazione del debitore in un congruo termine di non volerne profittare (come per la remissione) secondo il principio invito beneficum non datur. Anche tale dichiarazione unilaterale di non chiedere l’adempimento si distingue dalla remissione in quanto non produce l’estinzione del debito e si articola secondo le peculiarità dell’atto di autonomia (rispetto al tempo previsto e/o alle circostanze fissate) 73. Si è visto come, nelle obbligazioni solidali, la remissione a favore di uno dei debitori in solido libera anche gli altri debitori (salvo che il creditore si sia riservato il diritto nei confronti degli altri condebitori, nei cui confronti non può però pretendere la quota che faceva carico al debitore al quale ha rimesso il debito) (art. 13011); invece la dichiarazione di non chiedere l’adempimento a uno dei debitori in solido non si estende agli altri debitori proprio in quanto l’obbligazione rimane in vita: il debitore che paga l’intero può agire in regresso verso il debitore che ha stipulato il patto. Per essere il credito inesigibile ma esistente, sono azionabili i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale, per quando il credito ritornerà esigibile.

15. Impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore. – Si è visto come la correlazione della prestazione alla fonte più comune di obbligazione, quale è il contratto, rende la possibilità della prestazione un requisito essenziale della stessa (VII, 1.7): la impossibilità originaria della prestazione comporta la nullità del contratto per assenza di un requisito dell’oggetto del contratto (artt. 1346, 14182) (VIII, 3.3). Quando la impossibilità sopravviene alla costituzione del rapporto obbligatorio, la prestazione (ori73

Il “ripianamento” di un debito a mezzo di nuovo “credito”, che la banca già creditrice metta in opera con il proprio cliente al fine di conseguire un’ipoteca contestuale, con riposizionamento della scadenza del debito pregresso, configura un pactum de non petendo ad tempus, senza alcuna novazione dell’originaria obbligazione del correntista (Cass. 5-8-2019, n. 20896).

CAP. 3 – ESTINZIONE DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO

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ginariamente possibile) diventa non più possibile e perciò inesigibile, determinandosi una impossibilità sopravvenuta della prestazione: in tal caso è importante stabilire se la sopravvenuta impossibilità sia o meno imputabile al debitore. Come si vedrà, l’impossibilità della prestazione imputabile al debitore è causa di inadempimento della obbligazione, con conseguente responsabilità del debitore per i danni derivanti: l’obbligazione originaria è sostituita dall’obbligazione succedanea di risarcimento del danno (art. 1218). Solo l’impossibilità della prestazione non imputabile al debitore dà luogo alla estinzione della obbligazione (art. 1256), ipotesi cui si tende ad assimilare la non utilizzabilità della prestazione da parte del creditore 74: con l’estinzione dell’obbligazione il debitore è liberato e non residua una sua obbligazione succedanea di risarcimento del danno (c.d. impossibilità liberatoria). Consegue che l’ambito di applicazione dell’art. 1256 (impossibilità sopravenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore) è correlato con quello dell’art. 1218 (inadempimento della obbligazione): dove c’è l’una non c’è l’atro e viceversa; la sopravvenuta impossibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore (art. 1256) evita che il debitore risponda per inadempimento (art. 1218) (VII, 4.1). Dall’art. 1256 deriva un principio generale per cui il rischio della impossibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore grava sul creditore (res perit creditori): il rapporto si estingue senza che il creditore possa nulla chiedere per il mancato soddisfacimento. Il profilo si comprende bene se viene calato nel contesto dei contratti a prestazioni corrispettive per incidere la impossibilità della prestazione sulla sorte della controprestazione, per cui la parte liberata per sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione e deve restituire quella che abbia già ricevuta (art. 1463) (ampiamente VIII, 10.14). La impossibilità può essere fisica o giuridica, a seconda che inerisca alla persona del debitore o alla materialità del bene oppure derivi dall’ordinamento: nel primo caso, si pensi alla malattia invalidante di un professionista o di un artista ovvero al perimento del bene dovuto rispetto ad una prestazione personale; nel secondo caso, si pensi al ritiro del bene dal commercio per ordine della pubblica autorità (ad es., perché considerato nocivo alla salute) 75. Per l’art. 12561 requisiti della impossibilità che estingue l’obbligazione sono: la sopravvenienza, la non imputabilità al debitore, la definitività. a) Quanto alla sopravvenienza, la impossibilità deve sopravvenire alla nascita del rapporto obbligatorio. Se la prestazione era già impossibile all’atto della costituzione del rapporto obbligatorio, quantunque sconosciuta, c’è assenza di un requisito essenziale per la valida costituzione del rapporto. 74 L’impossibilità sopravvenuta della prestazione si ha non solo nel caso in cui sia divenuta impossibile l’esecuzione della prestazione del debitore, ma anche nel caso in cui sia divenuta impossibile l’utilizzazione della prestazione della controparte, quando tale impossibilità sia comunque non imputabile al creditore e il suo interesse a riceverla sia venuto meno, verificandosi in tal caso la sopravvenuta inutilizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto e la conseguente estinzione dell’obbligazione (Cass. 29-3-2019, n. 8766). 75 La nozione di factum principis rientra nella più ampia categoria di fatto sopravvenuto, non prevedibile ed evitabile con l’ordinaria diligenza, idoneo ad integrare una causa sopravvenuta di impossibilità della prestazione ex art. 1256 (Cons. Stato 18-1-2018, n. 294).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

b) Quanto alla non imputabilità al debitore, tradizionalmente si sono fronteggiate due impostazioni. Secondo una impostazione, per ricorrere la non imputabilità del debitore, la impossibilità deve essere assoluta (cioè sussistere per tutti, sicché nessuno sarebbe in grado di eseguire la prestazione) e oggettiva (cioè riguardare la prestazione in sé, senza riferimento alla persona del debitore). È una configurazione favorevole al creditore, risultando maggiormente tutelato il diritto di conseguire il bene perseguito. La prova della impossibilità e della specifica causa che l’ha prodotta incombe sul debitore, che così risponde anche per le cause c.d. ignote (che cioè non è in grado di identificare) ed anche se si è comportato diligentemente. Una diversa impostazione considera sufficiente una impossibilità relativa, connettendo la impossibilità al comportamento dovuto dal debitore nel particolare rapporto. La norma viene correlata alla diligenza dovuta (ordinaria o qualificata) nell’adempiere l’obbligazione (art. 1176), ricollegando la impossibilità della prestazione per causa non imputabile all’assenza di colpa, e quindi correlando la responsabilità per inadempimento allo stato soggettivo del debitore (VII, 4.2). È una configurazione più favorevole al debitore in quanto richiede un giudizio soggettivo ed individualizzato dell’obbligo del debitore, imperniato sul principio della colpevolezza (non c’è responsabilità per inadempimento se il debitore è stato diligente). Il nostro ordinamento adotta un sistema composito, che attinge ora all’una ora all’altra impostazione, secondo una varietà di criteri di imputabilità al debitore della impossibilità sopravvenuta in dipendenza delle qualità personali del debitore, della natura della prestazione e del titolo dell’obbligazione. La giurisprudenza dominante è orientata a valorizzare il parametro della diligenza ex art. 1176 (ordinaria o professionale) in ragione della natura del singolo rapporto. Il grado di difficoltà sopportabile dal debitore è determinato in relazione allo sforzo che può richiedersi al debitore nel concreto rapporto, in funzione dell’economia dello stesso e del dovere generale di solidarietà: il debitore è, dunque, tenuto a provare di avere profuso lo sforzo adeguato allo specifico rapporto al fine di vincere la presunzione di colpa 76. La “non imputabilità” si traduce nella imprevedibilità e inevitabilità secondo lo sforzo che può chiedersi al debitore nel concreto rapporto 77. c) Quanto alla definitività, la impossibilità è definitiva quando è irreversibile o è ignoto se la impossibilità verrà meno. Se la prestazione ha per oggetto una cosa determi76 È giurisprudenza consolidata che, a norma degli artt. 1218 e 1256, la colpa del contraente inadempiente si presume e, pertanto, al fine di vincere la presunzione di colpa, quest’ultimo deve fornire gli elementi di prova e di giudizio idonei a dimostrare, oltre il dato obiettivo della sopravvenuta impossibilità della prestazione, l’assenza di colpa, ossia di avere fatto tutto il possibile per adempiere l’obbligazione (Cass. 26-8-2002, n. 12477; Cass. 17-11-1999, n. 12760). Emergono però caratteri di oggettività della impossibilità: ad es., si è stabilito che l’impossibilità sopravvenuta della prestazione presuppone l’addebitabilità “a fatto imputabile all’altro contraente o a ragioni obiettive” (Cass. 16-2-2006, n. 3440). 77 Nella prestazione di opera che comporti la presa in consegna di un bene e, quindi, il sorgere della correlata obbligazione di custodia, la rapina non costituisce ipotesi di caso fortuito che esonera il custode da responsabilità, salvo che questi non provi che tale evento era imprevedibile ed inevitabile, nonostante l’avvenuta adozione delle cautele più idonee a garantire la puntuale esecuzione del contratto, in osservanza della diligenza qualificata ex art. 11762 (Cass. 15-5-2020, n. 8978). C’è responsabilità del notaio qualora non sia in grado di dimostrare che, nemmeno con l’uso della diligenza professionale, avrebbe potuto conoscere l’esistenza della sentenza dichiarativa di fallimento dell’alienante (Cass. 29-10-2019, n. 27614).

CAP. 3 – ESTINZIONE DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO

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nata, all’impossibilità è equiparato lo smarrimento quando non possa esserne provato il perimento; in caso di successivo ritrovamento si applica la disciplina della impossibilità temporanea (art. 1257). Una disciplina particolare vale per la impossibilità temporanea e per quella parziale. L’impossibilità è temporanea quando è transitoria: non estingue l’obbligazione, ma il debitore, finché l’impossibilità perdura, non è responsabile dell’inadempimento (art. 12562). Il debitore non risponde per il ritardo nell’adempimento in quanto la sospensione della prestazione è giustificata (es. sciopero); perciò rimane liberato dalla mora. L’obbligazione si estingue se l’impossibilità perdura fino a quando, in relazione al titolo dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato ad eseguire la prestazione ovvero il creditore non può più essere considerato interessato a conseguirla (art. 12562): nella prima ipotesi rileva il limite dello sforzo dovuto dal debitore; nella seconda ipotesi opera il limite dell’interesse del creditore. È un bilanciamento tra due componenti della vita economica: l’attività svolta e l’utilità conseguita. Vi è un generale coordinamento della prestazione dovuta (contenuto dell’obbligazione) con l’utilità realizzata (oggetto della obbligazione), costruendosi l’impossibilità della prestazione nell’equilibrio dello sforzo dovuto con l’utilità conseguita e potendosi delineare la impossibilità della prestazione per assenza di utilità prodotta (inutilità della prestazione). Si ha impossibilità parziale quando solo parzialmente risulta realizzabile l’interesse del creditore. In presenza di impossibilità parziale si ha estinzione dell’obbligazione per la sola parte di prestazione divenuta impossibile: il debitore si libera dall’obbligazione eseguendo la prestazione per la parte che è rimasta possibile (art. 12581) 78. Non essendo la impossibilità imputabile al debitore, il creditore non può rifiutare l’adempimento parziale (in contrasto con la regola generale dell’art. 1181): il debitore è liberato dall’obbligazione eseguendo la prestazione per la parte che è rimasta possibile (art. 12582). Quando la prestazione è correlata con una controprestazione, come nei contratti a prestazioni corrispettive, divenuta parzialmente impossibile la prestazione di una parte, l’altra parte ha diritto a una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta, e può anche recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale (art. 1464). Nell’ipotesi di impossibilità (totale o parziale) di cosa determinata, può realizzarsi il subingresso del creditore nei diritti del debitore: il creditore subentra nei diritti spettanti al debitore in dipendenza del fatto che ha causato l’impossibilità (es. subentro nel diritto al risarcimento o indennizzo verso il terzo) (art. 1259), realizzandosi una surrogazione reale, con modificazione oggettiva del rapporto obbligatorio (VII, 2.14).

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Nel caso di parziale impossibilità sopravvenuta della prestazione dei promittenti alienanti, il promissario acquirente può esperire l’azione di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto definitivo, a norma dell’art. 2932, chiedendo, contestualmente e cumulativamente, la riduzione del prezzo (Cass. 27-2-2017, n. 4939).

CAPITOLO 4

INADEMPIMENTO E MORA (Responsabilità e risarcimento)

Sommario: 1. Configurazione dell’inadempimento. – 2. La responsabilità per inadempimento (responsabilità contrattuale). – 3. La responsabilità da contatto sociale qualificato. – 4. L’adempimento coattivo. – 5. Il risarcimento del danno. – 6. Mora del debitore. – 7. Segue. Effetti della mora. – 8. La liquidazione del danno. – 9. Concorso del fatto colposo del creditore (autoresponsabilità). – 10. I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. – 11. Il trattamento dei crediti deteriorati.

1. Configurazione dell’inadempimento. – Per tutte le obbligazioni, quale che ne sia la fonte (art. 1173), vale la fondamentale dicotomia sopra delineata tra impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore (c.d. impossibilità liberatoria) (art. 1256) e inadempimento dell’obbligazione (art. 1218), per cui quando opera la prima non ricorre il secondo (VII, 3.15). Per delineare l’inadempimento del debitore bisogna dunque verificare se la mancata o inesatta esecuzione della prestazione dovuta sia imputabile al debitore o sia dovuta alla impossibilità della prestazione per causa a lui non imputabile. Il regime della responsabilità per inadempimento attinge anche al titolo da cui l’obbligazione deriva. In astratto ogni prestazione potrebbe essere eseguita: il problema è a quali costi e con quale impegno, perché il comportamento dovuto risulti proporzionale alla economia del rapporto. Si faccia il caso della vendita di merce tra imprese operanti in località vicine, comunicanti attraverso un ponte: se il ponte crolla, in astratto il venditore potrebbe ancora raggiungere la piazza dell’acquirente, attraverso un lungo periplo o mediante trasferimento in elicottero; ma tale ulteriore attività, per essere fortemente dispendiosa, non è più correlata all’assetto di interessi contrattualmente divisato tra le parti (il costo del trasporto potrebbe superare di gran lunga il costo della merce): bisogna perciò valutare in concreto se il venditore debba essere considerato ancora tenuto alla prestazione promessa o invece possa essere ritenuto liberato per essersi accentuato lo sforzo economico richiesto per la consegna della merce (anche in ragione del prezzo di vendita pattuito). C’è dunque da verificare quale sforzo possa essere richiesto al debitore per procurare al creditore la utilità perseguita, perché la prestazione risulti adeguata al titolo dell’obbligazione. Valgono le osservazioni innanzi svolte rispetto ai caratteri della impossibilità sopravventa (VII, 3.15), e viene sempre in rilievo la raffigurazione sopra compiuta di una nozione integrale dell’obbligazione che implica l’attuazione del rapporto in una relazionalità solidale (VII, 1.4).

CAP. 4 – INADEMPIMENTO E MORA

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I caratteri dell’inadempimento sono fissati in materia di risoluzione del contratto (artt. 1453 ss.); da tali regole è possibile delineare uno statuto comune dell’inadempimento, che rileva giuridicamente quando ricorrono due presupposti: la prestazione inadempiuta sia esigibile (VII, 1.9); l’inadempimento sia imputabile al debitore ed importante (VIII, 10.9), dove l’importanza dell’inadempimento va verificata alla stregua dell’interesse del creditore (ex art. 1455). In definitiva l’area dell’inadempimento è intrecciata con la portata della impossibilità liberatoria secondo un criterio di proporzionalità: il comportamento tenuto dal debitore deve essere adeguato al raggiungimento del risultato perseguito dal creditore; l’inesatta esecuzione della prestazione dovuta rileva come inadempimento quando è imputabile al debitore ed è importante. E ciò anche in presenza di una obbligazione negativa (art. 1222), rispetto al compimento del fatto vietato.

2. La responsabilità per inadempimento (responsabilità contrattuale). – Caratteristica dell’illecito civile è la contrarietà del fatto ad una norma di diritto materiale di tutela di interessi individuali: dato comune e costante sta nella lesione di un interesse giuridicamente protetto. Esistono due modelli di illecito civile: illecito da inadempimento e illecito extracontrattuale a seconda che tra l’autore del danno e il soggetto danneggiato sussista o meno un rapporto giuridico di cui l’atto compiuto costituisce lesione. L’illecito da inadempimento consiste nella lesione di un rapporto giuridico corrente tra l’autore dell’illecito e il soggetto danneggiato. L’inadempimento del rapporto obbligatorio integra un fatto illecito per tenere il debitore un comportamento contra legem lesivo del diritto del creditore. Tale responsabilità è propriamente responsabilità da inadempimento; e del resto la legge la definisce appunto come “responsabilità del debitore” (art. 1218). Si è soliti indicarla (più spesso) come responsabilità contrattuale per essere il contratto la più diffusa fonte di obbligazioni, sicché l’inadempimento dell’obbligazione comporta anche l’inadempimento del contratto; poiché l’inadempimento dell’obbligazione integra comunque la inattuazione di un rapporto obbligatorio tra i soggetti, si parla indifferentemente di illecito da inadempimento o di illecito contrattuale. L’illecito contrattuale presuppone dunque l’esistenza di una obbligazione (primaria): a seguito dell’inadempimento sorge a carico del debitore inadempiente la “responsabilità del debitore” di risarcimento del danno (art. 1218), quale obbligazione succedanea a quella rimasta inadempiuta; il regime della responsabilità si svolge nella prospettiva del rapporto obbligatorio inadempiuto. È principio acquisito che l’obbligazione di risarcimento del danno da inadempimento costituisce un debito di valore, non di valuta, sicché va riconosciuto il cumulo della rivalutazione monetaria e degli interessi compensativi 1. Ricorre l’illecito extracontrattuale (un tempo indicato come delitto civile) quando manca un pregresso rapporto tra l’autore del danno e il soggetto danneggiato ovvero si prescinda dallo stesso: si è in presenza della lesione di una situazione giuridica o in generale di un interesse giuridicamente protetto, cui corrisponde il dovere generale di tutti i consociati di rispettare e non ledere (alterum non laedere) (art. 2043). La norma integra una clausola generale di responsabilità con funzione ristoratrice della sfera giuridica lesa: significativamente il punto di incidenza della norma è il “danno ingiusto”, che può assu1 Cfr. Cass. 19-1-2022, n. 1627, che precisa: gli interessi compensativi sono da liquidare applicando al capitale rivalutato anno per anno un saggio individuato in via equitativa.

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

mere qualunque natura, purché nutrito di un interesse meritevole di tutela. In conseguenza dell’atto lesivo sorge a carico del soggetto responsabile l’obbligazione di risarcire il danno (X, 1.3). Da entrambi gli illeciti consegue dunque la responsabilità civile per i danni prodotti, con l’obbligo di risarcimento del danno per il soggetto responsabile, come tipica sanzione civilistica. Il problema di qualificazione della responsabilità (contrattuale o extracontrattuale) non è meramente teorico, ma, come si vedrà, ha anche riflessi concreti, per operare discipline in parte differenti con riguardo ai criteri di responsabilità, all’onere della prova, alla tipologia di danni risarcibili e alla prescrizione del diritto al risarcimento (X, 2.3). Non mancano casi in cui, ad uno stesso fatto si ricolleghino entrambe le responsabilità: ad es., stipulato un contratto di trasporto di persone, il viaggiatore colpito da sinistro può far valere sia la responsabilità contrattuale del vettore (ex art. 1681), sia la responsabilità extracontrattuale del conducente il veicolo (art. 20541) ed eventualmente quella solidale del proprietario (art. 20543) (IX, 2.11). Può anche avvenire che la responsabilità si ricolleghi a più soggetti per comportamenti diversi ma concorrenti nella lesione, con obbligazione solidale di risarcimento (art. 2055) 2. Di seguito è trattato il regime della responsabilità da inadempimento (o contrattuale), rinviando ad altra parte la trattazione della responsabilità extracontrattuale (o da fatto illecito) (X). a) Imputabilità dell’inadempimento. Il debitore è responsabile dell’inadempimento se non prova la sopravvenuta impossibilità della prestazione per causa a lui non imputabile (c.d. impossibilità liberatoria) (art. 1218). Vi è la chiara correlazione con l’art. 2056 relativo alla impossibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore come causa di estinzione dell’obbligazione, operando l’art. 1218 quando non funziona l’art. 1256. La disciplina dell’art. 1218 (come quella dell’art. 1256) pone il problema del collegamento con l’art. 1176, relativo alla diligenza dovuta (ordinaria o qualificata) nell’adempiere l’obbligazione (VII, 3.3). Trattando della impossibilità sopravvenuta si è visto come sia da tempo dibattuto il ruolo della diligenza nella configurazione della impossibilità sopravvenuta (VII, 3.15): secondo la ricostruzione sopra compiuta, anche rispetto all’inadempimento può attingersi al criterio composito adottato dalla giurisprudenza di valorizzare il parametro della diligenza ex art. 1176 (ordinaria o professionale) in ragione della natura del singolo rapporto; la diligenza va valutata nel caso concreto, attribuendosi rilevanza allo sforzo (personale, economico, tecnico) che, nella singola situazione, si può chiedere al debitore per soddisfare l’interesse del creditore 3. 2

Quando un medesimo danno è provocato da più soggetti, per inadempimenti di contratti diversi, intercorsi rispettivamente tra ciascuno di essi e il danneggiato, tali soggetti debbono essere considerati corresponsabili in solido, non tanto sulla base dell’estensione alla responsabilità contrattuale della norma dell’art. 2055 c.c., dettata per la responsabilità extracontrattuale, quanto perché, sia in tema di responsabilità contrattuale che di responsabilità extracontrattuale, se un unico evento dannoso è imputabile a più persone, è sufficiente, in base ai principi che regolano il nesso di causalità ed il concorso di più cause efficienti nella produzione dell’evento (dei quali l’art. 2055 costituisce un’esplicitazione), che le azioni od omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrlo (Cass. 30-3-2010, n. 7618). 3 Nel contratto di appalto, il comportamento del direttore dei lavori deve essere valutato alla stregua della “diligentia quam in concreto”; rientrano, pertanto, nelle obbligazioni del direttore dei lavori l’accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione dell’opera al progetto, sia delle modalità dell’esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica, nonché l’adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti

CAP. 4 – INADEMPIMENTO E MORA

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Va comunque valorizzata la fascia di obblighi di correttezza (art. 1175) gravanti su debitore e creditore in ragione della relazionalità solidale imposta dal rapporto obbligatorio (VII, 1.4), da cui emerge la correlazione dei comportamenti delle parti. E si è visto come il rispetto del dovere di correttezza abbia portato a delineare un c.d. principio di inesigibilità della prestazione quando sono coinvolti interessi di rilevanza costituzionale (VII, 1.9). Il tema assume particolare rilevanza rispetto alle obbligazioni pecuniarie: secondo l’antico principio genus numquam perit, pertanto il danaro, che è bene fungibile per sua essenza, è sempre suscettibile di corresponsione; ma la crisi economica e finanziaria in atto rende molto spesso l’adempimento dell’obbligazione pecuniaria tra le prestazioni più difficili da eseguire, così da imporre una verifica di sostenibilità dello sforzo richiesto al debitore rispetto ai valori coinvolti dal singolo rapporto (in ragione della pandemia, il D.L. 17.3.2020, n. 18, conv. con L. 24.4.2020, n. 27, ha stabilito che “il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore” (art. 91). Quanto alla diligenza qualificata ex art. 11762, emerge il problema della c.d. responsabilità professionale, sia per le attività di impresa che per le prestazioni di opera anche intellettuali (vedi IX, 2), per le quali la condotta del debitore è valutata “con riguardo alla natura dell’attività esercitata” (art. 11762). Per le relative condotte dovute dal debitore è valorizzata la perizia richiesta nel caso concreto, alla stregua delle normative di riferimento e delle evoluzioni scientifiche intervenute; inoltre va verificato il nesso eziologico tra la condotta del debitore e il danno derivato al creditore (committente o cliente), in ragione delle singole attività e professioni, secondo un giudizio prognostico 4. Per le professioni intellettuali (le tradizionali arti liberali), opera il regime di favore della norma complementare dell’art. 2236, per cui, se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave: si vedrà come anche tale criterio è rapportato alla diligenza tecnica che la specifica qualifica professionale richiede nel caso concreto (IX, 2.5). b) Criteri di responsabilità. Esistono nel codice civile più criteri di collegamento della responsabilità da inadempimento, in ragione della natura della prestazione 5 e del titolo dela garantire la realizzazione dell’opera senza difetti costruttivi (Cass. 17-2-2020, n. 385). L’azione di responsabilità sociale promossa contro amministratori e sindaci di società di capitali ha natura contrattuale, dovendo di conseguenza l’attore provare la sussistenza delle violazioni contestate e il nesso di causalità tra queste e il danno verificatosi, mentre sul convenuto incombe l’onere di dimostrare la non imputabilità del fatto dannoso alla sua condotta, fornendo la prova positiva dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi imposti (Cass. 7-2-2020, n. 2975). Sussiste la responsabilità del notaio qualora non sia in grado di dimostrare che, nemmeno con l’uso della diligenza professionale, avrebbe potuto conoscere l’esistenza della sentenza dichiarativa di fallimento del soggetto alienante del bene (Cass. 29-10-2019, n. 27614). 4 La responsabilità del prestatore d’opera intellettuale implica una valutazione prognostica positiva, non necessariamente la certezza, circa il probabile esito favorevole del risultato della sua attività se la stessa fosse stata correttamente e diligentemente svolta (Cass. 1-4-2011, n. 7553). 5 Per le obbligazioni di dare o consegnare cose di specie, la responsabilità per i danni prodotti dalla cosa consegnata è collegata al criterio della colpa, per cui il debitore è tenuto al risarcimento dei danni provocati dai vizi della cosa, se non prova di averli ignorati senza colpa: es. in tema di vendita (art. 1494), locazione (art. 15782), mutuo (art. 18211). Per le obbligazioni di dare o consegnare cose di genere, tra cui quelle pecuniarie, vale il tradizionale principio genus numquamperit. La mancata esecuzione della prestazione è connessa alla non corretta organizzazione

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

l’obbligazione 6; altri criteri emergono nelle leggi complementari, specie in funzione della qualità delle parti 7. Talvolta, con riguardo ad una medesima attività, concorrono criteri diversi di valutazione dei singoli atti 8. 1) Più spesso rileva la colpevolezza nell’inadempimento (criterio di maggior favore per il debitore): non c’è responsabilità senza colpevolezza, che si atteggia nelle due fondamentali forme del dolo e della colpa. Si ha dolo quando l’inadempimento è cosciente e volontario (anche senza assumere i caratteri del dolo contrattuale di artifici e raggiri): in tal caso la responsabilità è più grave, rispondendo il debitore dei danni prevedibili e imprevedibili (art. 1225); criterio che si tende ad applicare anche alla colpa grave 9. Si ha colpa (in senso stretto) quando l’inadempimento è frutto di negligenza, imprudenza o imperizia: in tal caso il debitore risponde solo dei danni prevedibili nel tempo in cui è sorta l’obbligazione 10. Talvolta è richiesta la colpa grave perché ricorra inadempimento dell’obbligazione (il trattamento è meno rigido); talaltra è considerata sufficiente la colpa lieve (il trattamento è più rigido). In definitiva, il debitore risponde per i soli danni prevedibili al tempo in cui è sorta l’obbligazione, tranne che l’inadempimento o il ritardo non dipendano da dolo del debitore, nel qual caso il debitore risponde anche per i danni imprevedibili. È una differenza del debitore, che può liberarsi da responsabilità solo provando una impossibilità assoluta e oggettiva (es. ritiro dal commercio del bene alienato). Per le obbligazioni di fare, opera il criterio della colpa: ad es., la responsabilità del mandatario (art. 1710), dell’appaltatore (art. 1668), del vettore di persone (art. 1681), del depositario (art. 1768). Per le obbligazioni di custodia sussiste una responsabilità aggravata, dalla quale il debitore è liberato solo individuando e provando le specifiche cause della impossibilità (c.d. responsabilità ex recepto): es. la responsabilità del vettore nel trasporto di cose (art. 1693), dell’albergatore (art. 1785), dei magazzini generali (art. 1787). 6 Ad es., il mandatario è tenuto ad eseguire il mandato con la diligenza del buon padre di famiglia; ma se il mandato è gratuito la responsabilità per colpa è valutata con minor rigore (art. 1710). Analogamente, il depositario deve custodire la cosa con la diligenza del buon padre di famiglia; ma se il deposito è gratuito la responsabilità per colpa è valutata con minor rigore (art. 1768). 7 Si pensi alla responsabilità aggravata posta a carico dei fornitori di beni di consumo nei confronti di consumatori (art. 129 cod. cons.) o alla responsabilità aggravata posta a carico dei soggetti abilitati nella collocazione dei servizi di investimento nei riguardi di risparmiatori (art. 23 cod. cons.). 8 In tema di responsabilità degli amministratori di società, mentre per gli obblighi definiti attraverso il ricorso a clausole generali, quali l’obbligo di amministrare con diligenza e quello di amministrare senza conflitto di interessi, la responsabilità dell’amministratore deve essere collegata alla violazione del generico obbligo di diligenza nelle scelte di gestione, per gli obblighi aventi un contenuto specifico e già determinato dalla legge o dall’atto costitutivo, la responsabilità può essere esclusa solo se l’inadempimento sia dipeso da causa che non poteva essere evitata né superata con la diligenza richiesta al debitore (Cass. 23-3-2004, n. 5718). 9 Il dolo del debitore che, ai sensi dell’art. 1225 c.c. comporta la risarcibilità anche dei danni imprevedibili al momento in cui è sorta l’obbligazione, non consiste nella coscienza e volontà di provocare tali danni, ma nella mera consapevolezza e volontarietà dell’inadempimento (Cass. 17-5-2012, n. 7759). In tema di inadempimento contrattuale, poiché nel nostro ordinamento vige il principio secondo cui le conseguenze giuridiche della colpa grave sono trattate allo stesso modo di quelle proprie della condotta dolosa, l’imputabilità va estesa anche ai danni imprevedibili (Cass. 8-10-2019, n. 25168). 10 La verifica va riferita alla prevedibilità astratta inerente a una determinata categoria di rapporti, sulla scorta delle regole ordinarie di comportamento dei soggetti economici e, cioè, secondo un criterio di normalità in presenza delle circostanze di fatto conosciute dal soggetto inadempiente (Cass. 14-11-2019, n. 29566; Cass. 8-7-2019, n. 18282; Cass. 19-10-2015, n. 21117).

CAP. 4 – INADEMPIMENTO E MORA

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rilevante con la responsabilità extracontrattuale, nella quale l’autore del danno risponde anche dei danni imprevedibili nel momento dell’atto illecito (X, 2.3). Per accertare la colpevolezza, si sono tradizionalmente fronteggiati due indirizzi: l’uno che ha riguardo al debitore specifico, secondo un giudizio individualizzato; l’altro che si apre al debitore medio, secondo un giudizio tipizzato. In tal guisa apprestandosi criteri, nella prima ipotesi, di maggior favore per il debitore, nella seconda di maggior favore per il creditore. Il riferimento deve essere a un criterio soggettivo tipizzato, avendosi cioè riguardo ad un soggetto medio, con le medesime qualità e caratteristiche del debitore specifico nel caso concreto. Si vanno delineando criteri giurisprudenziali di valutazione del comportamento del debitore per singole attività e professioni, che finiscono con il rappresentare altrettanti modelli di diritto vivente di responsabilità civile (così la responsabilità di medici, avvocati, notai, banche, ecc.), peraltro in costante evoluzione e perciò anche con incertezza applicativa (IX, 2.5). 2) Si ha responsabilità aggravata quando si prescinde dalla colpevolezza, ed il debitore è liberato dall’obbligazione solo per impossibilità della prestazione derivante da caso fortuito (es. distruzione o perimento) o da forza maggiore cui non è possibile sottrarsi (es. divieto della pubblica autorità di commercio di un determinato bene). È il debitore a dovere individuare e provare entrambi. 3) Si ha responsabilità oggettiva quando si prescinde dalla valutazione della impossibilità della prestazione; il debitore risponde per il fatto in sé della mancata o inesatta esecuzione della prestazione dovuta, indipendentemente dalla diligenza adoperata e dal ricorrere del caso fortuito o della forza maggiore. Figura significativa di responsabilità oggettiva è la responsabilità per fatto degli ausiliari. Quale che sia il criterio di responsabilità operante per la singola fattispecie, salvo patto contrario, il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si vale dell’opera di terzi risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro (art. 1228) (lavoratori dipendenti, autonomi, esterni): dell’inadempimento risponde, non l’autore materiale del comportamento dannoso, ma un soggetto diverso (c.d. preponente). Il preponente risponde, non per avere causato direttamente il danno, ma per la cattiva organizzazione e controllo delle risorse umane e materiali impiegate nell’esplicazione dell’attività economica. Il criterio caratterizza la responsabilità di impresa ed è utilizzato anche dal codice della navigazione 11. Analogo criterio è utilizzato con riguardo alla responsabilità extracontrattuale ex art. 2049, per cui i padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici o commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti (X, 1.8). È necessario che ricorra il c.d. rapporto di preposizione: la giurisprudenza ha escluso la responsabilità quando l’impossibilità non inerisce alla organizzazione dell’impresa 12. 11 Anche l’armatore e l’esercente l’aeromobile sono responsabili dei fatti dell’equipaggio e delle obbligazioni contratte dal comandante della nave o dell’aeromobile, tranne che per l’adempimento degli obblighi di natura pubblicistica che la legge impone a carico del comandante della nave o dell’aereo come capo della spedizione (artt. 274 e 874 cod. nav.). 12 Il soggetto che, nell’espletamento della propria attività, si avvale dell’opera di terzi, ancorché non alle proprie dipendenze, assume il rischio connaturato alla loro utilizzazione e, pertanto, risponde direttamente di tutte le ingerenze dannose, dolose o colpose, che a costoro, sulla base di un nesso di occasionalità necessaria, siano state rese possibili in virtù della posizione conferita nell’adempimento dell’obbligazione e che integrano

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

Della responsabilità per fatto degli ausiliari c’è un’applicazione in campi sempre più vasti, come ad es. in materia sanitaria 13, bancaria 14, degli appalti (IX, 2.1), della intermediazione finanziaria 15. E ciò anche quando il debitore, con autonomo contratto, affidi a terzi l’esecuzione di un’opera o il compimento di atti giuridici. Una figura di provenienza europea è la responsabilità per danno da prodotti difettosi (artt. 114 ss. cod. cons.). Il produttore è responsabile del danno cagionato da difetti del suo prodotto (art. 114); alla stessa responsabilità è sottoposto il fornitore che abbia distribuito il prodotto se abbia omesso di comunicare al danneggiato nei tre mesi dalla richiesta l’identità e il domicilio del produttore (art. 116) 16. Quando la responsabilità dell’evento dannoso è imputabile a più soggetti, anche in ragione dell’inadempimento di diversi contratti collegati, tutti sono tenuti solidalmente al risarcimento del danno, attraverso un’applicazione analogica dell’art. 2055 dettato in tema di responsabilità extracontrattuale 17. c) Onere della prova. Per l’art. 1218 il debitore è responsabile se non prova che l’inadempimento o l’inesatto adempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. Non è quindi il creditore a dovere provare l’imputabilità dell’inadempimento al debitore, ma è il debitore a dovere provare la non imputabilità dell’inadempimento. In tal modo il creditore che agisce per l’inadempimento o per l’inesatto adempimento della prestazione ha solo l’onere di provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto di credito e il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione dell’inadempimento della controparte: è il debitore convenuto ad essere gravato dell’onere della prova del fatto estintivo del credito, per l’avvenuto esatto adempimento ovvero per l’impossibilità della prestazione allo stesso non imputabile (prova della impossibilità liberatoria) 18: più spesso, è sufficiente la dimostrazione il “rischio specifico” assunto dal debitore, fondando tale responsabilità sul principio cuius commoda eius et incommoda (Cass. 14-2-2019, n. 4298; Cass. 17-5-2001, n. 6756). 13 Per l’art. 7 L. 8.3.2017, n. 24, la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c., delle loro condotte dolose o colpose (co. 1). 14 La responsabilità della banca per il fatto illecito di un proprio dipendente richiede l’accertamento del nesso di “occasionalità necessaria” tra l’esercizio dell’attività lavorativa e il danno, ed è riscontrabile ogni qual volta il fatto lesivo sia stato prodotto, o quanto meno agevolato, da un comportamento riconducibile allo svolgimento dell’attività lavorativa, anche se il dipendente abbia operato oltrepassando i limiti delle proprie mansioni o abbia agito all’insaputa del datore di lavoro (Cass. 6-3-2008, n. 6033). 15 Ad es., la società di gestione di fondi di investimento risponde nei confronti dei terzi di buona fede per i danni loro arrecati dall’illecito comportamento della società mandataria a cui sia affidata la distribuzione delle quote del fondo, nonché degli ausiliari e dei dipendenti (Cass. 5-6-2009, n. 12994). 16 Si è precisato che il difetto è riconducibile al difetto di fabbricazione ovvero all’assenza o carenza di istruzioni ed è strettamente connesso al concetto di sicurezza; incombe sul soggetto danneggiato la prova specifica del collegamento causale tra difetto e danno (Cass. 19-2-2016, n. 3258). 17 Sia in tema di responsabilità contrattuale che di responsabilità extracontrattuale, se un unico evento dannoso è imputabile a più persone, al fine di ritenere la responsabilità di tutte nell’obbligo risarcitorio, è sufficiente, in base ai principi che regolano il nesso di causalità ed il concorso di più cause efficienti nella produzione dell’evento (dei quali l’art. 2055 costituisce un’esplicitazione), che le azioni od omissioni di ciascuno abbiano “concorso in modo efficiente a produrlo” (Cass. 9-11-2006, n. 23918). 18 Per costante indirizzo, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo

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della condotta diligente, secondo il criterio soggettivo tipizzato, sopra indicato; talvolta, è richiesta la positiva identificazione dell’evento che ha prodotto l’impossibilità (es. responsabilità ex recepto); non è sufficiente il rilascio di fattura commerciale 19. Anche in materia di lavoro, nel quadro di tutela delle condizioni di lavoro ex art. 2077, si fa applicazione dell’art. 1218, con le connotazioni indicate 20. Il medesimo criterio, a parti invertite, opera nell’ipotesi in cui, in un contratto a prestazioni corrispettive, il debitore sollevi l’eccezione di inadempimento ex art. 1460, in quanto in tal caso sono invertiti i ruoli delle parti in lite ed è il creditore agente a dovere provare di avere adempiuto la sua obbligazione corrispettiva o la impossibilità liberatoria 21. Diversamente avviene nella responsabilità extracontrattuale, dove il soggetto danneggiato (creditore) deve provare la colpevolezza dell’autore del fatto illecito, assumendo rilevanza giuridica il “fatto doloso o colposo” che cagiona ad altri un danno ingiusto (art. 2043); anche se vanno emergendo criteri di razionalizzazione che tendono a facilitare l’onere della prova. Nella ricostruzione del nesso di causalità si va delineando un indirizzo generale, riferito sia alla responsabilità contrattuale che a quella extracontrattuale, di applicazione del principio probatorio della “preponderanza dell’evidenza” ovvero del “più probabile che non”, attraverso un “giudizio controfattuale”, in grado di verificare se la esecuzione della condotta mancata (ovvero la mancata esecuzione della condotta tenuta) avesse potuto, più probabilmente che non, evitare o lenire l’evento lesivo 22. Il termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento; anche se è dedotto l’inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento; tali principi trovano un limite nell’ipotesi di inadempimento delle obbligazioni negative, nel qual caso la prova dell’inadempimento è a carico del creditore, anche nel caso in cui agisca per l’adempimento e non per la risoluzione o il risarcimento (Cass., sez. un., 30-10-2001, n. 13533). Conf. Cass. 4-1-2022, n. 127; Cass. 16-11-2020, n. 25872; Cass. 2-9-2020, n. 18200. 19 La fattura commerciale si inquadra tra gli atti giuridici a contenuto partecipativo, consistendo nella dichiarazione unilaterale, indirizzata all’altra parte, di fatti concernenti un rapporto già costituito; sicché quando tale rapporto sia contestato non può costituire valido elemento (Cass. 127/2022 cit.). 20 L’art. 2087 non configura una responsabilità oggettiva, sicché incombe al lavoratore che lamenti di avere subito un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente o delle condizioni di lavoro ed il nesso tra l’uno e l’altro; a fronte della prova di tali circostanze, per il superamento della presunzione ex art. 1218, sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la eventuale malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi (Cass. 8-2-2022, n. 3976). 21 Formulata l’eccezione di inadempimento ex art. 1460, il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l’altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento o la non ancora intervenuta scadenza dell’obbligazione (Cass. 8-10-2021, n. 27419; Cass. 25872/2020; Cass. 18200/2020). 22 Il c.d. giudizio controfattuale deve essere compiuto sulla scorta del criterio del più probabile che non, conformandosi a uno standard di certezza probabilistica, che, in materia civile, non può essere ancorato alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi, c.d. probabilità quantitativa o pascaliana, la quale potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma e, nel contempo, di esclusione di altri possibili alternativi, disponibili nel caso concreto, c.d. probabilità logica o baconiana (Cass. 14-3-2022, n. 8114; v. anche Cass. 14-2-2012, n. 2085; Cass. 16-10-2007, n. 21619).

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criterio è maturato in campo medico per valutare le condotte omissive o inadeguate tenute (c.d. prognosi postuma), per l’accertamento della responsabilità della struttura sanitaria e dell’esercente la professione 23 e ormai di diffuso utilizzo 24. Si stanno delineando forme standardizzate di prova in entrambi i campi; ad es. vi è la valorizzazione della c.d. vicinitas della prova, incombendo l’onere della prova sul soggetto maggiormente in grado di articolarla. d) Prescrizione. Il termine di prescrizione dell’azione di responsabilità è, di regola, quello ordinario di dieci anni (ex art. 2946), decorrente dal giorno di esigibilità del credito (II, 4.9). È l’ulteriore divario rispetto alla responsabilità extracontrattuale, per la quale il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito è di cinque anni, salvo termini più brevi (art. 2947). Vi è una tendenza europea a uniformare i termini di prescrizione del diritto al risarcimento per responsabilità contrattuale e extracontrattuale 25. e) Clausole di esonero da responsabilità. Sono nulle le clausole di esonero o limitazione della responsabilità del debitore per dolo o colpa grave (art. 12291), così ammettendosi implicitamente la validità delle clausole di esonero da responsabilità per colpa ordinaria 26; sono considerate nulle le clausole di aggiramento 27. Sono anche nulle le clausole 23 È un crinale molto pericoloso, dai risvolti inquietanti. Il criterio della quantistica statistica o anche solo della probabilità logica potrebbe avallare una colpevole inerzia o omissione fino alla brutalità, evitando scientemente ogni cura a chi ha una bassa soglia di sopravvivenza. Pur nella logica del giudizio controfattuale, il diritto alla salute e alla assistenza sanitaria (art. 32 Cost.), quale essenziale diritto della personalità, impone l’adempimento dei doveri di solidarietà (art. 2 Cost.), con il connesso dovere di prestazione sanitaria quando la scienza medica annetta comunque una potenzialità di vita, indipendentemente dalla soglia statistica di sopravvivenza, potendosi tener conto della percentuale di vita solo nella liquidazione del danno risarcibile. La giurisprudenza sembra aprire una breccia, chiarendo che il giudizio controfattuale deve essere condotto valutando, in base alle effettive circostanze fattuali, se l’evento lesivo, in presenza della condotta alternativa corretta, si sarebbe ugualmente verificato con elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica, a nulla rilevando la medio bassa probabilità di salvezza indicata dalle leggi statistiche (Cass. pen. 20-11-2013, n. 8073). Dà luogo a danno risarcibile l’errata esecuzione di un intervento chirurgico praticabile per rallentare l’esito certamente infausto di una malattia, che abbia comportato la perdita per il paziente della “chance” di vivere per un periodo di tempo più lungo rispetto a quello poi effettivamente vissuto; in tale eventualità, le possibilità di sopravvivenza, misurate in astratto secondo criteri percentuali, rilevano ai fini della liquidazione equitativa del danno, che dovrà altresì tenere conto dello scarto temporale tra la durata della sopravvivenza effettiva e quella della sopravvivenza possibile in caso di intervento chirurgico corretto (Cass. 27-3-2014, n. 7195). 24 Nel valutare il nesso causale rispetto ad un’azione di risarcimento del danno a titolo contrattuale non possono operare a favore della parte inadempiente, dal punto di vista probatorio, evenienze che scaturiscono dal suo stesso inadempimento, dovendosi apprezzare tale nesso, secondo un giudizio prognostico ex ante, sulla base di quanto sarebbe accaduto e della complessiva situazione dedotta in giudizio, ove l’inadempimento non vi fosse stato (Cass. 24-6-2020, n. 12490). 25 In Germania è stato unificato in cinque anni il termine di prescrizione delle azioni di responsabilità civile, con la riforma del diritto delle obbligazioni del 2001 (Schuldrecht); analogamente si sta muovendo la Francia con la riforma del 2008. 26 È considerato nullo ex art. 1229 il patto di esclusione del diritto alla risoluzione del contratto per inadempimento, per tradursi in una previsione di irresponsabilità del debitore circa gli effetti dell’inadempimento imputabile (Cass. 9-5-2012, n. 7054). 27 La irrisorietà del risarcimento del danno pattuito sotto forma di clausola penale è elemento sintomatico dell’aggiramento del divieto di limitazione di responsabilità ex art. 12291 (cfr. Cass. 3-9-2019, n. 21981; Cass. 12-7-2018, n. 18338).

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di esonero da responsabilità per fatti del debitore o dei suoi ausiliari che integrano violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico (art. 12292). Le clausole di limitazione di responsabilità sono spesso adottate dalle imprese in moduli e formulari, anche solo fissandosi la misura del risarcimento dovuto. L’art. 362, lett. b, cod. cons., dichiara nulle le clausole che, quantunque oggetto di trattativa, abbiano per oggetto od effetto di escludere o limitare le azioni del consumatore nei confronti del professionista o di un’altra parte in caso di inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista. Per l’art. 13412 non hanno effetto se non sono specificamente approvate per iscritto le condizioni generali di contratto che stabiliscono, a favore del predisponente, limitazioni di responsabilità; è da ritenere sempre nulle, nonostante la seconda sottoscrizione, le clausole che escludono o limitano la responsabilità del debitore per dolo o colpa grave ovvero allorché il fatto del debitore costituisca violazione di norme di ordine pubblico.

3. La responsabilità da contatto sociale qualificato. – Da tempo è maturata una osservazione della rilevanza giuridica del contatto sociale, pure in assenza di un formale vincolo giuridico tra i soggetti del contatto. Sono rapporti di fatto, rispetto ai quali si fanno derivare specifici obblighi reciproci tra i soggetti del rapporto. La elaborazione della responsabilità da contatto sociale, maturata in ambiente tedesco, si è diffusa in Europa ed è stata ampiamente utilizzata dalla nostra giurisprudenza. Il fondamento di tali obblighi è stato molto dibattuto. Dapprima è stato ricondotto ad un accordo tacito: il fatto in sé di tenere comportamenti idonei alla costituzione e alimentazione di rapporti equivale a volerli ed accettarli. In seguito è stata valorizzata la significazione sociale del comportamento: sono rapporti di fatto “qualificati” ai quali l’ordinamento connette doveri di collaborazione e protezione. Si è visto come sia stata delineata una categoria di “obbligazioni senza prestazione”, per derivare in capo alle parti, non obblighi di prestazione ai sensi dell’art. 1174, ma obblighi di comportamento di varia natura, ai sensi degli artt. 1175 e 1375, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o sono esposti a pericolo in ragione del contatto stesso 28. Si è chiarito, in generale, come trattasi di un ambito di tutela delle posizioni soggettive nella esplicazione della relazionalità sociale, che comportano un dovere di rispetto dell’altrui posizione, secondo un fondamentale dovere inderogabile di solidarietà economica e sociale previsto dall’art. 2 Cost. In particolare, i rapporti sociali di fatto sono spesso sorretti da strutture organizzative, che, per le circostanze di instaurazione, le modalità di svolgimento, le qualifiche professionali ricoperte dai soggetti, instaurano relazioni sociali, che reclamano tutela degli autori delle relazioni, sia per ingenerare l’affidamento della rilevanza giuridica della relazione, sia per il dovuto rispetto dell’altrui posizione: quando, come più spesso avviene, tali obblighi sono complementari a rapporti suscettibili di valutazione economica, trovano la fonte tecnica di 28 Il “contatto sociale qualificato”, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni, ex art. 1173 c.c., e dal quale derivano, a carico delle parti, non obblighi di prestazione ai sensi dell’art. 1174 c.c., bensì reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, giusta gli artt. 1175 e 1375 c.c., opera anche nella materia contrattuale, in relazione a quegli aspetti che non attengono alla esecuzione della prestazione principale, ma ad interessi ulteriori, che insorgono, anche al di fuori di uno specifico vincolo contrattuale, tutte le volte in cui le parti instaurino una “relazione qualificata” e cioè agiscano di concerto in vista del conseguimento di uno scopo (Cass. 13-10-2017, n. 24071; Cass. 12-7-2016, n. 14188).

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produzione nell’art. 1173 sotto la generale dizione di “ogni altro atto o fatto” idoneo a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico” VII, 1.1). La violazione di tali obblighi è assimilata all’inadempimento contrattuale, con applicazione del regime della responsabilità da inadempimento e la connessa responsabilità contrattuale (ex art. 1218 ss.). La responsabilità da contatto sociale qualificato ha assunto rilevanza in varie aree. a) Responsabilità dei sanitari. Il terreno dove più diffusamente si è sviluppato il fenomeno è quello sanitario con riguardo agli obblighi di collaborazione e protezione gravanti sui sanitari dipendenti delle strutture sanitarie pubbliche e private. È emerso nel diritto vivente un duplice modello di responsabilità: una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, propria e autonoma, per inadempimento del contratto di spedalità stipulato con il paziente per la non corretta organizzazione e gestione dell’attività sanitaria, cui è ricollegabile la inesatta prestazione sanitaria 29; una responsabilità del sanitario (medico o infermiere) da contatto sociale qualificato in virtù della relazione instauratasi con il paziente, assimilabile alla responsabilità contrattuale, per inesatto comportamento tenuto dal sanitario nella cura e protezione del paziente, quantunque non legato a questo da un preventivo rapporto obbligatorio 30. Con la conseguenza che, in entrambe le prospettive, è fatta applicazione della disciplina (più favorevole al paziente) della responsabilità contrattuale, con diritto di prescrizione decennale (art. 2934) e inversione dell’onere della prova del fatto dannoso (art. 1218), potendo il pazientecreditore limitarsi ad allegare il contratto o il contatto sociale e il danno subito dall’intervento sanitario e ricadendo sulla struttura sanitaria e sul sanitario la prova della impossibilità liberatoria di evitare il danno prodottosi 31. 29 La struttura sanitaria privata conclude necessariamente col paziente che ad essa si rivolga un contratto atipico (c.d. “contratto di spedalità” o “di assistenza sanitaria”), in virtù del quale la prima si obbliga a fornire al secondo una adeguata prestazione di contenuto sanitario; ne consegue che la clinica è direttamente responsabile nei confronti del paziente che abbia patito un danno in conseguenza di un deficit organizzativo della struttura sanitaria, come per un errore del personale medico o paramedico, a nulla rilevando che l’autore materiale del danno sia o meno dipendente della clinica né che la prestazione sia stata resa o meno in regime di convenzionamento col S.s.n. (Cass., sez. un., 11-1-2008, n. 577). 30 Per un lungo periodo si era ritenuto che la responsabilità del sanitario verso il paziente per il danno cagionato da un suo errore diagnostico o terapeutico fosse soltanto extracontrattuale, costruita come una fattispecie complessa che si perfeziona quando sono realizzati tutti i fatti ed eventi che la compongono (Cass. 24-3-1979, n. 1716). Il nuovo indirizzo giurisprudenziale veniva inaugurato da Cass. 22-1-1999, n. 589, secondo cui l’obbligazione del medico dipendente dal S.s.n. per responsabilità professionale nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto ma sul “c o n t a t t o s o c i a l e ” , ha natura contrattuale, ricollegandosi in capo al medico “obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso”. V. anche Cass. 19-4-2006, n. 9085. Si è anche configurata una responsabilità da contatto sociale per violazione dell’obbligo di informazione del paziente, rivestendo il c.d. c o n s e n s o i n f o r m a t o natura di principio fondamentale in materia di salute in virtù della sua funzione di sintesi dei due diritti fondamentali della persona all’autodeterminazione e alla salute (artt. 2, 13 e 32 Cost.) (Corte cost. 30-7-2009, n. 253; Corte cost. 23-12-2008, n. 438); l’articolazione di tale diritto è regolato dalla L. 22.12.2017, recante norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento (dat). Quando ad un intervento di chirurgia estetica segua un inestetismo più grave di quello che si mirava ad eliminare o attenuare, la responsabilità del medico per il danno derivatone è conseguente all’accertamento che il paziente non sia stato adeguatamente informato di tale possibile esito, ancorché l’intervento risulti correttamente eseguito (Cass. 6-6-2014, n. 12830). 31 Si è chiarito che, da un lato, il paziente deve dedurre l’esistenza di una inadempienza c.d. vestita, cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno; dall’altro, la struttura sanitaria e/o il medico devono pro-

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Su tale complesso impianto di diritto vivente, irrompono, prima, il D.L. 13.9.2012, n. 158, conv. con L. 8.11.2012, n. 189 (c.d. legge Balduzzi), e successivamente la L. 8.3.2017, n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco), in vigore l’1.4.2017, che ridisegnano l’impianto della responsabilità con un ritorno all’antica ricostruzione. La struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura, risponde, ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c., delle loro condotte dolose o colpose (responsabilità contrattuale) (art. 71 L. 24/2017). L’esercente la professione sanitaria risponde del proprio operato ai sensi dell’art. 2043 c.c., salvo che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente (responsabilità extracontrattuale) (art. 73 L. 24/2017) (X, 2.3). Si è così rinfocolato il dibattito circa la natura della responsabilità del medico operante in una struttura sanitaria (pubblica o privata), avendo la L. 24/2017 squarciato la ricostruzione di diritto vivente come responsabilità contrattuale per riposizionarla come responsabilità extracontrattuale. In realtà, poiché la dilatazione della responsabilità medica ha comportato la crescita della spesa sanitaria, vuoi per l’aumento di costi della c.d. medicina difensiva, vuoi per la proliferazione delle voci di danno, vuoi ancora per l’accresciuta esosità delle coperture assicurative, la nuova normativa tende ad una razionalizzazione socio-economica della responsabilità medica attraverso un equilibrio tra protezione dei diritti e sostenibilità economica 32. È però una storia ancora in via di sviluppo, essendo in gioco la tutela della salute quale bene di rilevanza costituzionale 33, e perciò bisognerà verificare l’impatto della riforma nel diritto vivente. È possibile immaginare che, in funzione della tutela della salute, il nesso di causalità andrà ad omogeneizzarsi alla stregua della professionalità sanitaria 34, oltre la strutturazione del titolo di intervento. Il trend è di una omogeneizzazione della responsabilità alla stregua della professionalità sanitaria 35, oltre il titolo di intervento. vare che l’inadempimento o inesatto adempimento non è stato causa eziologica di produzione del danno (cfr. Cass., sez. un., 1-1-2008, n. 577). 32 I primi approcci della Suprema Corte al decreto Balduzzi erano stati nel senso di ininfluenza della norma rispetto all’orientamento consolidato di responsabilità da contatto sociale (Cass. 17-4-2014, n. 8940). 33 Se l’attuazione del diritto sociale alla salute è sostenuta da un dovere di solidarietà sociale, è la società nel suo complesso che deve farsi carico del ristoro di quei danni non imputabili a soggetti terzi. Bisogna evitare due perniciose diaspore: che la protezione dei diritti produca una enfatizzazione di ristori non sostenibile e che la responsabilità civile e penale stimoli una medicina difensiva (commissiva o omissiva) dannosa alla stessa richiesta di sanità. 34 Si è stabilito che, in tema di responsabilità sanitaria, il danno evento consta della lesione, non dell’interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l’obbligazione, ma del diritto alla salute (interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato); sicché, ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l’inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica, o l’insorgenza di nuove patologie, e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile l’esatta esecuzione della prestazione (Cass. 11-11-2019, nn. 28991 e 18992). V. anche Cass. 26-2-2020, n. 5128. 35 Si è stabilito che, in tema di responsabilità sanitaria, il danno evento consta della lesione, non dell’interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l’obbligazione, ma del diritto alla salute (interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato); sicché, ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sa-

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b) Responsabilità dei dipendenti pubblici. A seguito della novellazione della L. 241/1990, si tende a ricostruire nella sequenza di atti destinati a sfociare nel provvedimento amministrativo “un contatto amministrativo o procedimentale” con il cittadino interessato al procedimento, che importa non solo tutela demolitoria ma anche risarcitoria per lesione dell’interesse alla correttezza procedimentale amministrativa. Il tema è venuto spesso in rilievo rispetto all’annullamento di aggiudicazioni di appalto 36. L’art. 2 bis ha enucleato l’obbligo di risarcimento del danno ingiusto anche per inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, a prescindere dalla spettanza o meno dell’interesse fatto valere 37. Per i danni arrecati da funzionari e dipendenti nei confronti di cittadini c’è di regola responsabilità extracontrattuale degli stessi; e tale è anche la responsabilità della P.A. coinvolta, aggiuntiva a quella personale 38. Quando è assunto un vincolo contrattuale della P.A., nitario per l’inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica, o l’insorgenza di nuove patologie, e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile l’esatta esecuzione della prestazione (Cass. 11-11-2019, nn. 28991 e 18992). V. anche Cass. 26-2-2020, n. 5128. 36 Nell’ipotesi di un contratto di appalto pubblico divenuto inefficace per effetto dell’annullamento dell’aggiudicazione da parte dell’organo di controllo, la P.A. è tenuta al risarcimento del danno per le perdite e i mancati guadagni subiti dal privato aggiudicatario, qualificandosi tale responsabilità come “da contatto qualificato” tra le parti, assimilabile anche se non coincidente con quella di tipo contrattuale, in quanto derivante dalla violazione da parte dell’amministrazione del dovere di buona fede, di protezione e di informazione che ha comportato la lesione dell’affidamento incolpevole del privato sulla regolarità e legittimità dell’aggiudicazione; ne consegue l’applicabilità del termine decennale di prescrizione ex art. 2946 c.c., che decorre dalla data dell’illecito e che è da considerarsi interrotto a seguito dell’impugnazione da parte del privato dell’atto amministrativo ritenuto illegittimo, purché la P.A., chiamata a risarcire il danno sia stata parte del processo amministrativo (Cass. 13-12-2018, n. 32314; Cass. 27-10-2017, n. 25644). Spetta alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria la controversia relativa ad una pretesa risarcitoria fondata sulla lesione dell’affidamento del privato nell’emanazione di un provvedimento amministrativo a causa di una condotta della P.A. che si assume difforme dai canoni di correttezza e buona fede, atteso che la responsabilità della P.A. per il danno prodotto al privato quale conseguenza della violazione dell’affidamento dal medesimo riposto nella correttezza dell’azione amministrativa sorge da un rapporto tra soggetti (pubblica amministrazione e privato con questa entrato in relazione) inquadrabile nello schema della responsabilità relazionale o da “contatto sociale qualificato”, come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c., non solo nel caso in cui il danno derivi dalla emanazione e dal successivo annullamento di un atto ampliativo illegittimo, ma anche nel caso in cui nessun provvedimento amministrativo sia stato emanato, cosicché il privato abbia riposto il proprio affidamento in un mero comportamento dell’amministrazione (Cass., sez. un., 28-4-2020, n. 8236). 37 L’omesso o ritardato esercizio del potere autoritativo e discrezionale configura, nelle sue conseguenze dannose, la lesione dello stesso interesse legittimo che il soggetto coinvolto vanta rispetto all’emanazione di un provvedimento favorevole: non si tratta della “mera aspettativa di un provvedimento” ma dello specifico interesse pretensivo a ottenerlo in osservanza delle regole procedimentali che disciplinano l’esercizio del potere che a esso fa capo (Cons. Stato 12-1-2009, n. 65). Applicazioni anche agli appalti pubblici: nell’ipotesi di un contratto di appalto pubblico divenuto inefficace per effetto dell’annullamento dell’aggiudicazione da parte dell’organo di controllo, la P.A. è tenuta al risarcimento del danno per le perdite e i mancati guadagni subiti dal privato aggiudicatario, qualificandosi tale responsabilità come “da contatto qualificato” tra le parti, assimilabile anche se non coincidente con quella di tipo contrattuale, in quanto derivante dalla violazione da parte dell’amministrazione del dovere di buona fede, di protezione e di informazione che comporta la lesione dell’affidamento incolpevole del privato sulla regolarità e legittimità dell’aggiudicazione. 38 I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti; la responsabilità civile si estende allo

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come spesso avviene nell’erogazione di servizi pubblici, indipendentemente se a titolo oneroso o gratuito, dell’inadempimento del contratto risponde direttamente la P.A. come controparte del rapporto; se lo svolgimento del rapporto comporta un contatto sociale con chi è investito della funzione di tenere il comportamento dovuto dalla P.A., anche il dipendente o funzionario risponde dei danni arrecati per responsabilità da contatto sociale. Una disciplina particolare è prevista per la responsabilità civile dei magistrati dalla L. 13.4.1988, n. 117, modificata dalla L. 27.2.2015, n. 18. Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali (art. 2) 39; se il danno è conseguenza di un fatto costituente reato commesso dal magistrato nell’esercizio delle sue funzioni è ammessa azione diretta anche nei confronti del magistrato (art. 131). È da ritenere che la responsabilità dello Stato e quella del magistrato vadano ricostruite quali responsabilità per contatto sociale, con il regime della responsabilità contrattuale. b) Responsabilità per altri contatti sociali. Il modello di responsabilità da contatto sociale si è sviluppato anche in altri settori. Nel campo dell’istruzione scolastica, è stata coinvolta la responsabilità degli insegnanti per danni causati dall’alunno a se stesso 40 e in generale dell’istituto scolastico per danni causati all’alunno 41 (diversa è l’ipotesi di danni occorsi agli alunni o cagionati dagli alunni a estranei, regolata dall’art. 20482) (X, 1.8). Nel campo bancario, si è affermata la responsabilità della banca che paga (negozia) un assegno non trasferibile a favore di persona non legittimata 42. Nei rapporti contrattuali, Stato e agli enti pubblici (art. 28 Cost.). La responsabilità civile di funzionari e dipendenti opera sempre, in via immediata e diretta, nei confronti dei cittadini per i danni agli stessi arrecati nell’esercizio delle proprie funzioni (oltre che evidentemente quando agiscono come semplici privati). La responsabilità della P.A. è invece eccezionale e solo aggiuntiva, limitata alle ipotesi in cui sussista un nesso di occasionalità necessaria tra la condotta causativa del danno e le funzioni esercitate dal dipendente (Cass. 10-10-2014, n. 21408; Cass. 29-12-2011, n. 29727; Cass. 12-4-2011, n. 8306). 39 Costituisce colpa grave la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea, il travisamento del fatto o delle prove, ovvero l’affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento, ovvero l’emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione (art. 23). 40 Secondo l’indirizzo di Cass., sez. un., 27-6-2002, n. 9346, nel caso di danno cagionato dall’alunno a se stesso, la responsabilità dell’istituto scolastico e dell’insegnante non ha natura extracontrattuale, bensì contrattuale, atteso che, tra insegnante e allievo, si instaura, per contatto sociale, un rapporto giuridico, nell’ambito del quale l’insegnante assume, nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e vigilanza, onde evitare che l’allievo si procuri da solo un danno alla persona; ne deriva che, nelle controversie instaurate per il risarcimento del danno da autolesione, è applicabile il regime probatorio desumibile dall’art. 1218 c.c., sicché, mentre l’attore deve provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, sull’altra parte incombe l’onere di dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato da causa non imputabile né alla scuola né all’insegnante (Cass. 3-3-2010, n. 5067; Cass. 25-2-2016, n. 3695). 41 In caso di danni all’alunno sussiste la responsabilità “da contatto sociale qualificato” dell’Istituto scolastico affidatario, sul quale gravano i doveri di protezione, enucleati dagli artt. 1175 e 1375 c.c. che impongono il controllo e la vigilanza del minore o dell’incapace fino a quando non intervenga un altro soggetto ugualmente responsabile (Cass. 26-7-2019, n. 20285). 42 Per Cass., sez. un., 26-6-2007, n. 14712, il banchiere giratario per l’incasso che paga un assegno di traen-

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è stata delineata la responsabilità verso la banca del notaio scelto dalla parte mutuataria 43. Anche rispetto alla mediazione, in assenza di un vincolo contrattuale del mediatore con una delle parti, è stata configurata una responsabilità per la condotta tenuta 44 (IX, 3.7). Il criterio sta estendendosi anche alla responsabilità precontrattuale (VIII, 2.25).

4. L’adempimento coattivo. – La previsione dell’art. 1218 del solo risarcimento del danno per inesatta esecuzione della prestazione dovuta sembrerebbe indicare che la legge connetta all’inadempimento dell’obbligazione la sola conseguenza dell’obbligo di risarcimento del danno, che dunque si atteggerebbe come l’unico strumento di tutela del creditore. Come si è detto innanzi (par. 2), l’obbligo del risarcimento del danno prescritto dall’art. 1218 rappresenta la sanzione civilistica a carico dell’autore dell’illecito al fine di ristorare il danno subito dal soggetto danneggiato dall’inadempimento. Ma la tutela complessiva del credito va rapportata al titolo dell’obbligazione. Per le obbligazioni derivanti da contratto, relativamente ai contratti a prestazioni corrispettive (che è la categoria più diffusa di contratti), “quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può, a sua scelta, chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno” (art. 1453). Il risarcimento del danno si atteggia dunque come rimedio ulteriore e generale di tutela rispetto ai due principali dell’adempimento e della risoluzione. Anzi, nelle relazioni economiche, si tende a valorizzare lo strumento dell’adempimento coattivo per conservare l’operazione economica realizzata: ad es., la Convenzione ONU di Vienna del 1980, recante la normativa di diritto uniforme sulla vendita internazionale di cose mobili (L. 11.12.1985, n. 765), prevede la tutela preferenziale dello strumento dell’adempimento (VIII, 10.7); e analogamente fa il codice del consumo (D.Lgs. 6.9.2005, n. 206). Della risoluzione del contratto per inadempimento si parlerà trattando del contratto, dove si analizzerà l’incidenza dell’inadempimento dell’una prestazione sulla sorte dell’altra, giustificando la risoluzione del contratto (VIII, 10.8-9); bisogna ora riflettere sull’adempimento coattivo riferito al singolo rapporto obbligatorio, per atteggiarsi come strumento generale di soddisfacimento del creditore per l’inadempimento dell’obbligazione. Lo strumento primario di tutela del creditore è proprio l’adempimento coattivo in quanto volto a soddisfare coattivamente l’interesse perseguito con il rapporto obbligatoza non trasferibile a persona diversa dal beneficiario del titolo “incorre in una responsabilità che ha natura contrattuale … in virtù del contatto sociale che caratterizza l’operato della banca negoziatrice” ex art. 43 R.D. 21.12.1933, n. 1736. Nel caso in cui una cambiale sia pagata, nonostante la scadenza, in tempo utile, la banca del portatore del pagherò cambiario ha l’obbligo di attivarsi, nei confronti del notaio, per impedire l’illegittima levata del protesto; se la banca non si attiva in tal senso, ne consegue una propria responsabilità c.d. da contatto sociale per non aver fornito tempestivamente un’informazione idonea ad evitare il prodursi di un danno (Cass. 13-5-2009, n. 11130). 43 Il notaio che abbia negligentemente compiuto le visure ipocatastali, richiestegli dall’aspirante alla concessione di un finanziamento ipotecario, è responsabile dei danni conseguentemente subiti dall’istituto di credito mutuante, anche se quest’ultimo non gli aveva conferito l’incarico, potendosi ravvisare un contratto a favore di terzo o una responsabilità da contatto sociale (Cass. 9-5-2016, n. 9320). 44 In virtù del “contatto sociale” che si crea tra il mediatore professionale e le parti, nella controversia tra essi pendente trovano applicazione le norme sui contratti, con la conseguenza che il mediatore, per andare esente da responsabilità, deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile nell’adempimento degli obblighi di correttezza ed informazione a suo carico, ai sensi dell’art. 11762 (Cass. 14-7-2009, n. 16382).

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rio, permettendo di conseguire attraverso gli apparati giudiziari il bene dedotto in obbligazione non procurato dal debitore. La domanda di adempimento tende a conseguire, per via giudiziaria, il risultato che il creditore non ha ottenuto dal debitore. Per realizzare tale risultato opera lo strumento della esecuzione forzata nelle due specie della esecuzione in forma specifica e della esecuzione per espropriazione (mediante procedure giudiziarie esecutive), di cui si parlerà in seguito (artt. 2910 ss.). Altre ipotesi emergono in normative più recenti, come ad es. i diritti del consumatore al ripristino della conformità al contratto del bene di consumo, mediante la sostituzione o la riparazione (artt. 130 ss. cod. cons.): in tali ipotesi il carattere seriale del bene dedotto in obbligazione fa conseguire al creditore il medesimo risultato conseguibile con l’adempimento. In ogni caso il fatto che il debitore si sia reso inadempiente, costringendo il creditore ad un’azione giudiziaria per il soddisfacimento del suo interesse, consegua o meno il medesimo bene dedotto in obbligazione, integra un illecito civile da inadempimento che obbliga il debitore al risarcimento del danno (art. 1218). Non mancano ipotesi nelle quali è attribuito al creditore il potere di conseguire l’adempimento coattivo in via di autotutela, limitandosi l’autorità giudiziaria all’accertamento del legittimo esercizio di tale potere. Si pensi alle due ipotesi, in tema di vendita di cose mobili, della esecuzione coattiva per inadempimento del compratore (c.d. vendita in danno: art. 1515) e della esecuzione coattiva per inadempimento del venditore (c.d. acquisto in danno: art. 1516), di cui si parlerà in sede di attuazione coattiva del contratto (VIII, 10.5).

5. Il risarcimento del danno. – Per l’art. 1218, l’inadempimento o l’inesatto adempimento dell’obbligazione comporta la conseguenza dell’obbligo di risarcimento del danno, quale tipica sanzione civilistica dell’illecito; strumento, ad un tempo, di deterrenza per il debitore e di ristoro del creditore. La prescrizione non è in correlazione con la previsione dell’art. 1455 sull’importanza dell’inadempimento, in quanto la condanna del debitore inadempiente al risarcimento del danno può essere pronunziata anche quando, per la scarsa importanza dell’inadempimento, non possa farsi luogo alla risoluzione del contratto 45. A carico del debitore inadempiente si determina una obbligazione succedanea (di risarcimento del danno) rivolta a reintegrare il patrimonio del creditore per il mancato conseguimento del bene dovuto dal debitore. È un generale modo di tutela del creditore per inattuazione dell’obbligazione da parte del debitore. Anche la obbligazione (succedanea) di risarcimento del danno rimane soggetta al comune regime delle obbligazioni e dunque ai normali rimedi per l’inadempimento dell’obbligazione. Deve esistere un nesso di causalità tra il fatto dell’inadempimento o del ritardo e la conseguenza dannosa. Per l’art. 1223 sono risarcibili i danni che sono “conseguenza immediata e diretta” dell’inadempimento ovvero del ritardo. Il diritto al risarcimento del danno è dunque legato, non solo alla sussistenza del danno, ma anche alla derivazione del danno dall’inadempimento del debitore, entrambi i profili da provare dal creditore. Tale ricerca implica la verifica della catena causale degli eventi che si susseguono, attraverso una ricostruzione del nesso eziologico degli stessi, a partire dal danno (e cioè dall’evento dannoso), per risalire fino a quale causa e dunque fino a quale evento e a quale 45

Cfr. Cass. 25-1-2022, n. 2223; Cass. 15-1-2001, n. 506.

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soggetto è possibile ricondurre la determinazione del danno, secondo un criterio oggettivo di esperienza generalizzata: si è soliti parlare di causalità adeguata (o causalità ordinaria), secondo un meccanismo di preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non” 46 (rilevano in tale sequenza sia i fatti commissivi che quelli omissivi). Ad es., se un venditore (debitore) non consegna la merce venduta, è obbligato a risarcire al compratore (creditore) i danni prodotti; se però, nella ricerca della merce sostitutiva, il compratore (creditore) ha un incidente stradale riportando danni alla persona e alla vettura, tali danni non sono risarcibili in quanto non sono collegati causalmente all’inadempimento del debitore ma alla inesperienza nella guida del creditore o di un diverso automobilista. I danni da responsabilità contrattuale si atteggiano sempre come danni-conseguenza dell’inadempimento (per i danni da illecito extracontrattuale, X, 1.2). Quanto alla determinazione del danno, operano più criteri. a) Ristoro integrale del danno. L’entità del danno è differente a seconda che il risarcimento del danno si affianchi all’adempimento coattivo o ne tenga luogo: nella prima ipotesi, il risarcimento è aggiuntivo all’adempimento coattivo e tende solo a ristorare le conseguenze del mancato adempimento nei tempi prestabiliti; nella seconda ipotesi, il risarcimento è sostitutivo dell’adempimento e quindi deve, anzitutto, reintegrare il creditore del mancato conseguimento del bene dovuto, e poi ristorarlo degli ulteriori danni subiti per non avere potuto conseguire il risultato prefissosi. È ormai acquisita una “bipolarità” del risarcimento del danno, che comprende sia il danno patrimoniale per il pregiudizio economico subito che il danno non patrimoniale per la lesione personale sofferta. Il danno patrimoniale tende al ristoro del pregiudizio economico subito dal creditore, con il soddisfacimento dell’interesse positivo all’adempimento: interesse che va dunque rapportato al risultato perseguito dal creditore con la costituzione del rapporto obbligatorio. Per l’art. 1223 il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la “perdita subita” dal creditore (c.d. danno emergente) come il “mancato guadagno” (c.d. lucro cessante), in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta 47. Nell’esempio fatto di perdita della merce venduta durante il trasporto, il venditore deve risarcire al compratore, sia la perdita subita per il mancato conseguimento della 46 Il “nesso di causalità” è considerato esistente, non solo quando il danno sia conseguenza inevitabile della condotta, ma anche quando ne sia conseguenza “altamente probabile e verosimile”, non però una mera possibilità astratta (Cass. 30-10-2009, n. 23059). La diminuzione patrimoniale deve apparire come il naturale sviluppo di fatti concretamente accertati ed inequivocamente sintomatici di quella probabilità, secondo un criterio di normalità e di regolarità dello sviluppo causale, fondato sulle circostanze del caso concreto (Cass. 27-4-2010, n. 10072). Il danno patrimoniale derivante da indebita segnalazione alla Centrale Rischi della Banca d’Italia può essere provato dal danneggiato anche per presunzioni, potendo consistere, se imprenditore, nel peggioramento dell’affidabilità commerciale, essenziale per l’ottenimento e la conservazione dei finanziamenti (Cass. 10-2-2020, n. 3133). In tema di responsabilità professionale dell’avvocato, la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, si applica non solo all’accertamento del nesso di causalità fra l’omissione e l’evento di danno, ma anche all’accertamento del nesso tra quest’ultimo, quale elemento costitutivo della fattispecie, e le conseguenze dannose risarcibili (Cass. 21-1-2020, n. 1169). 47 È anche possibile un danno di deprezzamento della cosa che rimane nella disponibilità del danneggiato, costituendo il deterioramento della consistenza fisica o giuridica del bene un danno emergente (Cass. 20-6-2019, n. 16585). Il danno risarcibile al locatore per la ritardata consegna dell’immobile locato alla cessazione del contratto è stabilito in via presuntiva dall’art. 1591 nella misura del canone dovuto, salvo il maggior danno che deve essere provato dal locatore ex art. 1223 (Cass. 6-10-2016, n. 19981).

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merce (perciò gli eventuali esborsi aggiuntivi per procurarsi una diversa partita di merce, oltre le spese affrontate), sia il mancato guadagno (cioè i profitti che il compratore si prefiggeva di conseguire dall’arrivo della merce a destino, utilizzandola o rivendendola a terzi: l’una e l’atra componente di danno vanno adeguatamente provate dal creditore. Il tutto secondo un rapporto di causalità adeguata (di cui si è detto) che vale anche per il ristoro del danno sofferto dall’inadempimento, che deve essere ragionevolmente imputato al debitore 48. È dibattuta la risarcibilità del danno non patrimoniale, per la ragione che la relativa previsione è contenuta nella disciplina dell’illecito extracontrattuale (art. 2059). Tradizionalmente è stata negata la risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale per regolare il contratto un “rapporto giuridico patrimoniale” (art. 1321). Una progressiva interpretazione costituzionalmente orientata della responsabilità contrattuale ha condotto alla tutela anche dei danni conseguenti alla personalità del soggetto danneggiato dall’inadempimento dell’obbligazione; e ciò in linea con una evoluzione dello stesso fondamento della responsabilità civile dal piano sanzionatorio a quello riparatorio dell’interesse leso. Anche il limite fissato dall’art. 2059 di prevedere il risarcimento del danno non patrimoniale “solo nei casi determinati dalla legge” (art. 185 c.p.), è stato neutralizzato dall’affermazione di ristoro di ogni lesione di un interesse costituzionalmente protetto, in quanto previsto dalla Carta costituzionale come legge fondamentale dell’ordinamento, e sempre che derivi un danno 49. Si è così delineata una generale risarcibilità del danno non patrimoniale, derivante sia da illecito extracontrattuale che da inadempimento contrattuale ed anche da inadempimento di obbligazione di fonte non contrattuale, facendosi rientrare nel danno non patrimoniale i danni biologico, morale e esistenziale, purché siano conseguenza immediata e diretta dell’illecito. Un indice testuale di rilevanza degli interessi non patrimoniali nell’ambito delle obbligazioni è stato ravvisato nell’art. 1174 secondo cui la prestazione deve, sì essere suscettibile di valutazione economia, ma può corrispondere a un interesse anche non patrimoniale del creditore (sono sempre più diffusi contratti precipuamente finalizzati a soddisfare bisogni della persona, come dimensioni esistenziali, culturali o di svago). Esistono ormai anche normative testuali di previsione di tale figura di danno (ad es. l’art. 47 cod. tur. che regola il danno da vacanza rovinata) 50. In generale poi la figura del danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale sta emergendo in significativi testi pro48 Cfr. Cass. 26-1-2022, n. 2348: In tema di responsabilità professionale, ai fini della verifica dell’esistenza di un danno risarcibile, nel caso in cui l’avvocato abbia omesso di trascrivere la domanda giudiziale ex art. 2901, con conseguente impossibilità per il creditore di opporre gli effetti della sentenza al terzo che, in corso di causa, abbia acquistato un cespite del compendio oggetto dell’esperita azione revocatoria, l’esistenza di un’iscrizione ipotecaria su quello stesso bene non è, di per sé, ostativa alla possibilità di riconoscere l’esistenza di detto danno, occorrendo, invece, una verifica della residua consistenza del credito garantito da ipoteca. 49 Si è precisato che la lesione di un diritto inviolabile, anche quando integri gli estremi di un fatto illecito, non determina la sussistenza di un danno patrimoniale in re ipsa, essendo comunque necessario che la vittima abbia effettivamente patito un pregiudizio, che va allegato e provato anche attraverso presunzioni semplici (Cass. 5-5-2021, n. 11779). 50 Il tour operator è tenuto al risarcimento del danno da vacanza rovinata quando la realtà dei fatti non rispecchia quanto pubblicizzato, assumendo l’organizzatore o il venditore di pacchetti turistici specifici obblighi, soprattutto di tipo qualitativo, riguardo rappresentazione dei luoghi, modalità di viaggio, sistemazione alberghiera, livello dei servizi, ecc., che vanno “esattamente” adempiuti, tranne non sia fornita adeguata prova di un inadempimento ad essi non imputabile (Cass. 4-3-2010, n. 5189).

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tesi alla formazione di un diritto privato europeo (es. Principi Unidroit). Un deciso sviluppo nell’affermazione del danno non patrimoniale da inadempimento è derivato dalla responsabilità contrattuale delle strutture sanitarie e degli esercenti la professione sanitaria 51 (anche se la responsabilità di questi ultimi è stata poi qualificata come extracontrattuale dalla L. 24/2017) (sopra, par. 3). Possono trovare applicazione le conclusioni cui si perviene in tema di danno non patrimoniale con riferimento alla responsabilità da illecito extracontrattuale (X, 2.4). È anche emerso un danno da perdita di chance, come lucro cessante, sostanziandosi nel sacrificio della possibilità di un risultato migliore 52. Tale criterio, sebbene emerso in ambito di inadempimento di obbligazioni di fare professionale, è suscettibile di applicazione generale 53. b) Modelli di risarcimento. Criterio generale è quello “per equivalente”, ma non c’è ragione per non farsi applicazione del risarcimento in “forma specifica” previsto per il risarcimento da fatto illecito. 1) Il risarcimento per equivalente rappresenta il modo generale e tipico di risarcimento del danno da inadempimento. Il risarcimento mira a riparare il danno sofferto dal creditore con l’attribuzione allo stesso di una somma di danaro commisurata al pregiudizio subito (arg. art. 1223) (quando è sostitutivo del bene dovuto, il danaro procura una utilità diversa ma considerata economicamente equivalente). Come per l’illecito extracontrattuale, anche il risarcimento del danno per inadempimento si configura come una obbligazione di valore: tende cioè a ristorare il creditore dei danni sofferti per l’inadempimento o inesatto adempimento del debitore. Il risarcimento mira alla completa reintegrazione dell’interesse leso e perciò va rapportato al momento in cui avviene la liquidazione e non a quello in cui si realizza l’inadempimento 54 (VII, 1.16). Come si è visto, l’art. 1223 fissa precisi criteri per la determinazione del danno risarcibile. 2) Come per il danno non patrimoniale, è dibattuto se possa applicarsi alla responsabilità per inadempimento il rimedio del risarcimento in forma specifica, per essere questo previsto solo in tema di responsabilità da atto illecito extracontrattuale (art. 2058) 51 Essenziale è stato l’intervento delle sezioni unite nelle note sentenze dell’11.11.2008 (perciò dette di San Martino), affermandosi che, in materia di inadempimento contrattuale, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale è ammessa quando abbia luogo la lesione di un diritto inviolabile della persona che risulti compreso nell’area del contratto sulla base della causa concreta del negozio ovvero sulla base di una previsione di legge; costituisce danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato (sent. 26972/2008). Il risarcimento è regolato secondo le norme dettate in materia di responsabilità contrattuale (sent. 26973/2008). 52 La chance è considerata come concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene: non è dunque una mera aspettativa di fatto ma “un’entità patrimoniale a sé stante, suscettibile di autonoma valutazione giuridica ed economica”, sicché è onere del preteso creditore dimostrare il danno conseguente alla lesione di tale chance, tramite il ricorso ad un calcolo delle probabilità che evidenzi la concreta sussistenza della possibilità di raggiungere il risultato sperato (Cass. 27-6-2007, n. 14820; Cass. 18-3-2003, n. 3999; Cass. 12-2-2015, n. 2737) (ampiamente X, 1.4). 53 Cfr. Cass. 24-3-2022, n. 9565. 54 L’obbligazione di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale costituisce un debito, non di valuta, ma di valore, sicché va riconosciuto il cumulo della rivalutazione monetaria e degli interessi compensativi, questi ultimi da liquidare applicando al capitale rivalutato anno per anno un saggio individuato in via equitativa (Cass. 19-1-2022, n. 1627).

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(X, 2.2). La trasposizione del risarcimento in forma specifica alla materia contrattuale è stata osteggiata in quanto l’impianto del codice civile riconduce il risarcimento alle conseguenze patrimoniali dell’inadempimento. Ma non c’è ragione per non ammetterlo, se non si compie uno snaturamento del risarcimento, che, invece, rappresenta una tutela rimediale che assicura effettività di ristoro. La giurisprudenza è nel senso di identificare l’oggetto del risarcimento in forma specifica nello stesso bene dedotto in obbligazione (l’eadem res dovuta) 55. Ma in tal modo il risarcimento in forma specifica non si diversificherebbe dall’adempimento coattivo (di cui si è detto sopra) con il quale finirebbe con l’identificarsi. Come è nell’indole propria del risarcimento, bisogna ritenere che anche quello in forma specifica debba considerarsi rivolto alla eliminazione delle conseguenze del fatto lesivo. A seguito dell’inadempimento il creditore ha diritto, non solo all’attuazione dell’interesse originario perseguito con l’obbligazione, ma anche al ristoro degli interessi lesi dall’inadempimento. Il risarcimento in forma specifica tende appunto al ripristino degli interessi, diversi da quello originario, pregiudicati dall’inadempimento e perciò alla eliminazione in forma specifica degli effetti dannosi conseguenti all’inadempimento. Un campo di emersione di tale forma di risarcimento può ravvisarsi nella normativa sulla responsabilità per danni da prodotti difettosi (artt. 114 ss. cod. cons.), facendo la legge obbligo al produttore e in subordine al fornitore di risarcire il danno cagionato da difetti del prodotto, che ha procurato la distruzione o il deterioramento di una cosa diversa dal prodotto difettoso fornito (artt. 114 e 123): può bene ammettersi un risarcimento in forma specifica con la eliminazione delle conseguenze dannose del difetto del prodotto attraverso la sostituzione o riparazione del bene rimasto danneggiato dalla difettosità del prodotto consegnato. Si pensi alla ipotesi di acquisto, presso una casa costruttrice di impianti industriali, di un macchinario da inserire in una catena di montaggio: se il macchinario difettoso danneggia l’intera catena di montaggio, c’è la necessità di risarcire i complessivi danni conseguenti all’inesatto adempimento dell’obbligazione; in tal caso, il creditore ha diritto, non solo all’adempimento coattivo, con la sostituzione del macchinario acquistato rivelatosi difettoso, ma anche al risarcimento in forma specifica delle conseguenze dannose dell’inadempimento, con la eliminazione dei danni arrecati alla catena di montaggio (mediante riparazione o sostituzione delle parti danneggiate). Si pensi ancora all’ipotesi di inadempimento della obbligazione negativa: il risarcimento in forma specifica tende a distruggere tutto ciò che è stato realizzato in violazione dell’obbligo di non fare. Altre ipotesi sono prospettate dalla giurisprudenza, ad es. con riferimento alla rimozione di pregiudizi giuridici determinati dall’attività negoziale 56. In ogni caso, pure in presenza di domanda di risarcimento in forma specifica, il giu55 Il risarcimento in forma specifica, essendo diretto al conseguimento dell’eadem res dovuta, tende a realizzare una forma più ampia e, di regola, più onerosa per il debitore, di ristoro del pregiudizio dallo stesso arrecato, dato che l’oggetto della pretesa azionata non è costituito da una somma di danaro, ma dal conseguimento, da parte del creditore danneggiato, di una prestazione del tutto analoga, nella sua specificità ed integrità, a quella cui il debitore era tenuto in base al vincolo contrattuale (Cass. 18-9-2013, n. 21337). 56 È stata confermata la sentenza della corte di merito che aveva condannato, ex art. 2058 c.c., la venditrice ed il notaio rogante, in solido tra loro, a provvedere a propria cura e spese alla cancellazione di due iscrizioni ipotecarie sull’immobile venduto, non rilevate in sede di stipula di un contratto di compravendita (Cass. 2-7-2010, n. 15726. V. anche Cass. 27-6-2006, n. 14813).

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dice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore (con applicazione analogica dell’art. 20582) 57. c) Il problema dei danni punitivi. La figura dei danni punitivi proviene dall’esperienza dei paesi di common law e segnatamente degli Stati uniti d’America ove, con l’espressione punitive (o exemplary) damage, è indicata la comminatoria di risarcimento danni con funzione sanzionatoria del danneggiante. La figura dei danni punitivi non trova un generale riscontro nel nostro ordinamento, attestato sulla funzione ristoratrice del risarcimento danni (c.d. monofunzionalità riparatoria del danno), elevata ad ordine pubblico come peraltro più volte affermato dalla giurisprudenza 58. Il dibattito è emerso con riguardo alla responsabilità da fatti illeciti, ma si sta estendendo alla responsabilità da inadempimento, prospettandosi di addossare all’autore dell’illecito un risarcimento ulteriore rispetto a quello necessario per ristorare il danno arrecato (compensatory damages), se si prova che il danneggiante ha agito con malice (dolo) o gross negligence (colpa grave), in una configurazione di polivalenza della responsabilità civile. Nella determinazione del danno, come è nell’indole degli ordinamenti di common law, è rilasciato ampio potere al giudice di valutazione del caso concreto, apprestando un rimedio in ragione del particolare contesto di interessi, bilanciando tra la gravità del comportamento dell’autore del danno e la natura e l’entità degli interessi lesi. In tal guisa, alla funzione riparatrice del danno, si connette una ulteriore funzione genericamente di punizione, che è tipica della responsabilità penale: e ciò, sia al fine di punire l’autore del danno, così da svolgere anche un ruolo di deterrenza, sia con lo scopo di più ampiamente ristorare la vittima del danno e stimolare la tutela dei diritti quale fattore di coesione sociale. Non mancano, anche nel nostro ordinamento, singole figure di riparazione che travalicano la funzione propria di ristoro dei danni e che, in qualche modo, si avvicinano all’area dei danni punitivi anche se ascritte sotto diversificate nomenclature 59. Anche la giurisprudenza tende ormai a considerare la statuizione di danni punitivi non in contrasto con 57 Per costante giurisprudenza, il risarcimento per equivalente costituisce un minus rispetto al risarcimento in forma specifica; pertanto, qualora il danneggiato abbia domandato solo il risarcimento in forma specifica ai sensi dell’art. 20582, disposizione che è applicabile anche in caso di responsabilità contrattuale, il giudice può condannare d’ufficio al risarcimento per equivalente senza incorrere nella violazione dell’art. 112 c.p.c. (Cass. 8-3-2006, n. 4925; Cass. 15-7-2005, n. 15021). 58 Un’emblematica ricostruzione del problema è nella sent. di Cass. 19-1-2007, n. 1183, secondo cui “rimane estranea al sistema l’idea della punizione e della sanzione del responsabile civile ed è indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta; è quindi incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto dei danni punitivi che, per altro verso, non è neanche riferibile alla risarcibilità dei danni non patrimoniali o morali, che è sempre condizionata all’accertamento della sofferenza o della lesione determinata dall’illecito e non può considerarsi provata in re ipsa. Così anche le sentenze gemelle di Cass., sez. un., 26972 e 26975/2008. 59 Meno recente è l’ipotesi dell’art. 12 L. 8.2.1948, n. 47, recante disposizioni sulla stampa, che attribuisce alla persona offesa, oltre il risarcimento dei danni, una riparazione pecuniaria per la diffamazione subita, che la giurisprudenza ricostruisce come “pena pecuniaria privata prevista per legge, che si aggiunge al risarcimento del danno autonomamente liquidato in favore del danneggiato” (Cass. 26-6-2007, n. 14761). Più di recente si pensi alle c o m m i n a t o r i e introdotte con l’art. 614 bis c.p.c., che operano come rimedio di c.d. esecuzione indiretta a carattere pecuniario per violazione di obblighi di fare infungibile o di non fare. Si pensi anche alla previsione dell’art. 709 ter c.p.c. che, in relazione alle controversie insorte tra i genitori in relazione all’esercizio della responsabilità genitoriale o delle modalità dell’affidamento. Si pensi anche alla responsabilità aggravata per lite temeraria, che consente al giudice, anche d’ufficio, di condannare la parte soccombente al pagamento a favore della controparte di una somma equitativamente determinata (art. 96 c.p.c.).

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l’ordine pubblico 60. È una tematica che da tempo si agita nella qualificazione della responsabilità contabile erariale, tra responsabilità “risarcitoria” tradizionale e responsabilità “sanzionatoria” amministrativa, quale sta emergendo nella giurisprudenza della Corte dei conti 61.

6. Mora del debitore. – Sia la mora del creditore che la mora del debitore sono legate ad un ritardo ingiustificato, nel riceversi l’adempimento (mora del creditore) o nell’adempiere (mora del debitore). A fronte di questa base comune, le due more rilevano diversamente e producono differenti effetti per la diversa posizione assunta dal creditore e dal debitore nella struttura del rapporto obbligatorio. Per aversi mora del debitore, anzitutto deve ricorre un ritardo ingiustificato nell’adempimento 62, in quanto è imputabile al debitore (art. 1218). Con la scadenza del termine di adempimento, il debito diventa esigibile e dunque il debitore è tenuto ad eseguire la prestazione dovuta; il ritardo nell’adempimento comporta inesatta esecuzione della prestazione dovuta (inesattezza temporale) 63. È inoltre necessaria la costituzione in mora, che avviene, di regola, mediante intimazione o richiesta di adempimento fatta per iscritto dal creditore 64 (c.d. mora ex persona) (art. 12191). Si presume che la mancata richiesta di adempimento sia da attribuirsi ad una tolleranza del creditore: il debitore non subisce gli effetti della mora fino a quando il creditore non mostri, con un positivo atto di costituzione in mora, di avere interesse attuale all’adempimento 65, tranne che la legge stessa non consideri, per la natura della obbligazione o le circostanze in cui è maturato il ritardo, non meritevole di tutela il debitore (quindi non necessaria la costituzione in mora). L’atto di costituzione in mora è atto giuridico in senso stretto e non atto negoziale, in quanto gli effetti della mora sono interamente previsti e disposti dall’ordinamento, sicché è irrilevante l’intento del creditore di realizzare gli effetti della mora. Inoltre è atto recettizio ai sensi dell’art. 1334, producendo effetto dal momento in cui perviene a conoscenza del destinatario (salvo l’art. 1335). 60

Non è ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi; il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve però corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell’ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell’atto straniero e alla loro compatibilità con l’ordine pubblico (Cass., sez. un., 5-7-2017, n. 16601). 61 Corte dei conti, sez. riun., giurisd., questione di massima, 24/2020 e 26/2020. 62 La parte che si avvale legittimamente della eccezione di inadempimento (art. 1460) non può essere considerata in mora e, pertanto, non è tenuta al pagamento degli interessi moratori e degli eventuali maggiori danni subiti dall’altra parte per il mancato adempimento, nei termini previsti dal contratto, di quanto a lei dovuto (Cass. 26-1-2006, n. 1701). 63 Se il termine di adempimento è previsto in un contratto come “essenziale”, la sua violazione comporta senz’altro inadempimento (VIII, 10.9). 64 Non è richiesto l’uso di formule solenni, né la osservanza di particolari requisiti, essendo sufficiente che con un qualsiasi atto scritto portato a conoscenza del debitore il creditore manifesti la volontà di conseguire il soddisfacimento del proprio credito (Cass. 8-7-2005, n. 14373). 65 L’emissione e l’invio della fattura commerciale, inquadrandosi questa tra gli atti giuridici a contenuto partecipativo, non sono come tali sufficienti alla costituzione in mora, essendo necessario a questo scopo un elemento ulteriore, costituito da una espressa richiesta di pagamento (Cass. 18-7-2002, n. 10434).

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Per l’art. 12192 la costituzione in mora non è necessaria, e perciò la caduta in mora è automatica (mora ex re), nelle seguenti tre ipotesi. 1) Quando il debito deriva da fatto illecito. Il soggetto danneggiato va risarcito dei danni subiti fin dalla data dell’intervenuta lesione (art. 2043). 2) Quando il debitore ha dichiarato per iscritto di non volere adempiere l’obbligazione. In tal caso la costituzione in mora si rivela inutile. 3) Quando è scaduto il termine di adempimento di una obbligazione la cui prestazione deve essere eseguita al domicilio del creditore. Sono i c.d. debiti portabili, per dovere essere il bene portato presso il creditore: il ritardo nell’adempimento è senz’altro ricollegabile al debitore; tra i debiti portabili assumono particolare rilevanza i debiti pecuniari, che devono essere adempiuti al domicilio che il creditore ha al tempo della scadenza (art. 11823) 66 (VII, 3.4). Diverso discorso vale per i c.d. debiti chiedibili, quelli cioè il cui adempimento deve avvenire presso il domicilio del debitore e che dunque il creditore deve richiedere: il ritardo nell’adempimento è ricollegato alla mancata iniziativa del creditore 67. Stanno crescendo le previsioni legislative di mora automatica: sono specifici conflitti di interessi risolti dall’ordinamento a vantaggio del creditore, affinché goda degli effetti della mora fin dall’inizio del ritardo (par. 10). Così la regola della necessaria costituzione in mora sta progressivamente riducendo il campo di azione, rivelandosi sempre meno generale. Per evitare la caduta in mora il debitore deve offrire la prestazione dovuta nel termine di adempimento (art. 1220). Diversamente dalla mora del creditore, per la quale l’offerta del debitore deve essere formale (in alcune ipotesi offerta reale o offerta per intimazione) o secondo gli usi (artt. 1208 ss.) (VII, 3.8), per evitare di cadere nella mora del debitore è sufficiente che il debitore compia una offerta non formale della prestazione, purché sia seria, tempestiva e completa 68, a meno che il creditore l’abbia rifiutata per un motivo legittimo. In sostanza l’offerta non formale del debitore non è idonea a realizzare la mora del creditore ma consente di non cadere nella mora del debitore, evitando il prodursi degli effetti della mora, specie l’obbligazione di risarcimento del danno per il ritardo. Anche dopo la scadenza del termine, fino a quando la prestazione non diventi definitivamente impossibile, il debitore ha ancora l’obbligo di adempiere, benché in ritardo; e il creditore ha, non solo il diritto di pretenderla, ma anche il dovere di riceverla con il risarcimento aggiuntivo per la mora. Intervenuto l’inadempimento, il risarcimento per ritardo rimane ricompreso ed assorbito in quello per inadempimento. Non è configurabile la mora del debitore nelle c.d. obbligazioni negative, nelle quali cioè il debitore è obbligato a un non fare: non può delinearsi un ritardo nell’adempimen66

Le obbligazioni pecuniarie da adempiere al domicilio del creditore ex art. 11823 sono – agli effetti della mora ex re e del forum destinatae solutionis – esclusivamente quelle liquide, delle quali cioè il titolo determini l’ammontare o indichi criteri determinativi non discrezionali (Cass. 20-3-2019, n. 7722). 67 Il termine deve scadere quando il debitore è ancora in vita. Se il termine scade dopo la morte del debitore, è necessaria la costituzione in mora degli eredi, che avviene decorsi otto giorni dall’intimazione o dalla richiesta di adempimento (art. 1219, n. 3). 68 La offerta non formale, quale atto del processo di adempimento, deve essere fatta con il rispetto delle norme che disciplinano questo: deve essere seria, tempestiva e completa, consistente nella effettiva introduzione dell’oggetto della prestazione dovuta nella sfera di disponibilità del creditore, e compiuta nei luoghi indicati dall’art. 1182 c.c.; la mancanza anche di una sola di tali caratteristiche impedisce che l’offerta non formale possa produrre i suoi effetti (Cass. 17-10-2019, n. 26298; Cass. 25155/2010).

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to in quanto il fatto compiuto, e cioè l’atto positivo che contravviene al non fare, comporta senz’altro inadempimento dell’obbligazione (art. 1222).

7. Segue. Effetti della mora. – Dalla caduta in mora derivano più effetti sfavorevoli per il debitore. a) Effetto generale è l’obbligo del risarcimento del danno conseguente al ritardo, salvo che il debitore non provi che il ritardo è derivato da impossibilità temporanea della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (art. 1218). Tale risarcimento si aggiunge alla prestazione originaria, che continua ad essere dovuta. Per i debiti di valore il risarcimento decorre dalla data dell’illecito 69. Una disciplina particolare opera per le obbligazioni pecuniarie (che hanno cioè ad oggetto somme di danaro). Si è visto come tali obbligazioni sono di regola connotate da un principio nominalistico, per cui il pagamento deve avvenire con la moneta espressa e nell’ammontare indicato (c.d. debito di valuta) (VII, 1.16); il ritardo dell’adempimento comporta un danno che va ristorato. Per la naturale fecondità del danaro (essendo comune apprezzamento che il danaro è produttivo di reddito) il creditore è esentato dalla prova del danno (VII, 1.16): per l’art. 12241, nelle obbligazioni che hanno per oggetto somme di danaro, sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali, anche se non erano dovuti precedentemente e anche se il creditore non prova di avere sofferto un danno (c.d. interessi moratori). Se peraltro, prima della mora, erano stati pattuiti interessi convenzionali in misura superiore al tasso legale 70 o se comunque erano dovuti interessi superiori al tasso legale, gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura (art. 12241), tranne che non si tratti di interessi convenzionali usurari 71. Il debito deve essere liquido cioè determinato o di facile determinazione 72. È da ritenere applicabile agli interessi moratori la disciplina generale relativa al saggio di interessi prevista nell’art. 1284. Anzitutto gli interessi superiori alla misura legale devono essere determinati per iscritto; altrimenti sono dovuti nella misura legale (co. 3). Se le parti non hanno determinato la misura degli interessi moratori, introducendosi un 69

Poiché il debitore d’una obbligazione di valore è in mora ex re dal giorno dell’illecito, è tenuto a pagare al creditore il lucro cessante finanziario, ovvero i frutti che il denaro dovuto a titolo di risarcimento avrebbe prodotto sin dal giorno del sinistro, in caso di tempestivo pagamento; la liquidazione di questo danno può avvenire solo in via equitativa ex art. 1226 c.c., ed in molti modi: a forfait, in percentuale o in misura fissa (Cass. 12-6-2019, n. 1585). 70 Il requisito della forma scritta per la determinazione degli interessi extralegali (art. 12843) non postula che la corrispondente convenzione contenga una indicazione in cifre del tasso pattuito, ben potendo detta indicazione essere soddisfatta attraverso il richiamo, per iscritto, anche per relationem, a criteri prestabiliti e ad elementi estrinseci al documento negoziale, purché obiettivamente individuabili, funzionali alla concreta determinazione del relativo saggio (Cass. 29-9-2020, n. 20555). 71 Qualora gli interessi moratori siano usurari, non sono dovuti gli interessi moratori pattuiti, ma restano dovuti gli interessi nella misura dei corrispettivi lecitamente convenuti (Cass., sez. un., 18-9-2020, n. 19597). Gli interessi convenzionali corrispettivi sottostanno alla regola generale per cui, se pattuiti ad un tasso eccedente quello stabilito dall’art. 24 L. 7.3.1996, n. 108 (tasso soglia), vanno qualificati ipso iure come usurari con nullità della clausola di previsione, non dovendosi interessi (art. 18152). 72 Difettando il necessario presupposto della liquidità, non sono dovuti gli interessi corrispettivi ex art. 1282, e, trattandosi di obbligazioni chiedibili, la mora del debitore si determina non ai sensi dell’art. 12192, n. 3 (mora ex re), bensì, ai sensi dell’art. 12191, mediante richiesta formulata per intimazione o atto scritto, solo da tale momento pertanto decorrendo gli interessi moratori (Cass. 13-5-2004, n. 9092; Cass. 26-7-2001, n. 10226).

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contenzioso giudiziario o arbitrale dove si controverta sul pagamento di interessi moratori, promosso dal creditore o dal debitore, dal momento della introduzione del giudizio 73 il saggio degli interessi legali è quello previsto dalla legislazione speciale sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (co. 4 e 5). Il debito di danaro, essendo un debito di valuta, come tale, non è suscettibile di automatica rivalutazione in conseguenza del processo inflattivo della moneta (diversamente per il debito di valore). Il creditore è però ammesso a provare di avere sofferto un danno maggiore rispetto a quello ristorato dalla corresponsione degli interessi moratori, con diritto all’ulteriore risarcimento (es. il creditore può provare che, se avesse conseguito il danaro nel termine dovuto, avrebbe potuto destinarlo ad un’operazione economica o finanziaria in grado di procurare un utile maggiore di quello conseguito dagli interessi legali); il risarcimento del maggior danno non è dovuto se è stata convenuta la misura degli interessi moratori (art. 12242). È possibile in tal modo conseguire la rivalutazione monetaria del credito mediante la prova del maggiore danno derivato dalla mancata disponibilità della somma durante il periodo di mora e non compensato dagli interessi moratori 74: non è sufficiente allegare il tasso ufficiale di svalutazione, richiedendo la legge la prova del maggior danno sofferto, che la giurisprudenza tende a standardizzare 75. b) Un effetto specifico è l’allocazione del rischio che opera relativamente alle obbligazioni che hanno ad oggetto cose. Il debitore che è in mora non è liberato per la sopravvenuta impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (art. 1221) (c.d. perpetuatio obligationis). In tal guisa, la impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore, che per regola generale determinerebbe l’estinzione dell’obbligazione (art. 1256), non vale a liberare il debitore dalla responsabilità per inadempimento. In deroga al principio che pone a carico del creditore il rischio della impossibilità sopravvenuta della prestazione (res perit creditori), il rischio della impossibilità della prestazione rimane a carico del debitore (res perit debitori) (ad es., per caso fortuito, è perito il bene da consegnare o si è incendiato lo stabilimento che avrebbe 73 Il riferimento legislativo alla proposizione della domanda deve ritenersi volto a privilegiare il momento della formulazione della richiesta al giudice e non quello della partecipazione della stessa al debitore (Cass. 14-5-2021, n. 13145). 74 Il creditore non può limitarsi a chiedere la condanna del debitore al pagamento di capitale e rivalutazione, non essendo questa conseguenza automatica del ritardato pagamento delle obbligazioni di valuta, deve domandare il risarcimento da maggior danno ex art. 1224 (Cass. 23-2-2022, n. 5965). 75 Nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all’art. 12242, può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali, quale che ne sia la qualità soggettiva o l’attività svolta (e quindi tanto nel caso di imprenditore, quanto nel caso di pensionato, impiegato, ecc.); se il creditore domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore ha l’onere di provare l’esistenza e l’ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva; ove il creditore abbia la qualità di imprenditore, avrà l’onere di dimostrare o di avere fatto ricorso al credito bancario sostenendone i relativi interessi passivi; ovvero – attraverso la produzione dei bilanci – quale fosse la produttività della propria impresa, per le somme in essa investite; il debitore, dal canto suo, avrà invece l’onere di dimostrare, anche attraverso presunzioni semplici, che il creditore, in caso di tempestivo adempimento, non avrebbe potuto impiegare il denaro dovutogli in forme di investimento che gli avrebbero garantito un rendimento superiore al saggio legale. (Cass., sez. un., 16-7-2008, n. 19499 e 3954/2015; Cass. 5-3-2020, n. 6200; Cass. 15-12-2020, n. 28651).

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dovuto realizzare il bene: se il debitore è in mora, risponde comunque per l’inadempimento dell’obbligazione). La regola si giustifica con la ragione che se l’obbligazione fosse stata adempiuta nel termine stabilito il creditore avrebbe conseguito l’oggetto dell’obbligazione prima della sopravvenuta impossibilità. Coerente con tale prospettiva è l’ulteriore regola per cui il debitore può liberarsi da responsabilità provando che l’oggetto della prestazione sarebbe egualmente perito presso il creditore (art. 12211). Tale prova liberatoria è negata quando la cosa è stata illecitamente sottratta: in qualunque modo sia perita o smarrita la cosa, chi l’ha sottratta è comunque obbligato a restituirne il valore (art. 12212). L’illiceità della condotta del debitore nella sottrazione della cosa non giustifica il premio della liberazione per successivo perimento della cosa: è la tradizionale regola che nessuno può invocare la propria immoralità per conseguire un vantaggio. c) Altro effetto, collegato alla mora ex persona, è la interruzione della prescrizione del diritto di credito: per l’art. 29434 la prescrizione è interrotta da ogni atto che valga a costituire in mora il debitore 76. d) È ammessa la c.d. purgazione della mora, e cioè il venir meno dello stato di mora con i conseguenti effetti, in presenza di determinati presupposti. È innanzi tutto nel potere del creditore rimuovere lo stato di mora, con la rinunzia espressa ad avvalersi della stessa: si cancellano così gli effetti della mora già verificatisi (c.d. cancellazione della mora). Al debitore è consentito l’adempimento tardivo; ma perché si produca la purgazione della mora, con la liberazione dagli effetti risarcitori, è necessario l’assenso del creditore. Il mero adempimento tardivo lascia fermi gli effetti della mora già verificatisi e ha il solo risultato di liberare il debitore per i danni che potranno derivare dalla protrazione dello stato di mora o dall’inadempimento definitivo. Sono tassative le ipotesi in cui è consentita la purgazione della mora per volontà del solo debitore 77.

8. La liquidazione del danno. – Accertata la responsabilità contrattuale per inadempimento, si pone il problema della determinazione del danno risarcibile. Il creditore ha l’onere di provare l’esistenza e l’ammontare del danno sofferto in conseguenza dell’inadempimento: deve provare entrambe le componenti del danno (lucro cessante e danno emergente) se vuole conseguire l’integrale riparazione del danno patito, allegando specificamente le varie voci di danno. Per le obbligazioni pecuniarie, maturano automaticamente i c.d. danni-interessi dal giorno della caduta in mora, an76

Al fine di produrre effetti interruttivi della prescrizione, un atto deve contenere, oltre alla indicazione del soggetto obbligato (elemento soggettivo), l’esplicitazione di una pretesa e l’intimazione o la richiesta scritta di adempimento, idonea a manifestare l’inequivocabile volontà del titolare del credito di fare valere il proprio diritto, con l’effetto sostanziale di costituire in mora il soggetto indicato (elemento oggettivo) (Cass. 31-5-2021, n. 15140). 77 Ad es., nelle locazioni di immobili urbani, la morosità del conduttore nel pagamento dei canoni e degli oneri accessori può di regola essere sanata in sede giudiziale per non più di tre volte nel corso di un quadriennio se il conduttore alla prima udienza versa l’importo dovuto per i canoni scaduti e gli oneri accessori maturati sino a tale data, maggiorato degli interessi legali e delle spese processuali liquidate in tale sede dal giudice (art. 55 L. 27.7.1978, n. 392). Negli affitti di fondi rustici, a fronte della contestazione da parte del locatore dell’inadempimento dell’affittuario, questi può sanare l’inadempienza entro tre mesi dal ricevimento della comunicazione (art. 55 L. 3.5.1982, n. 203).

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che se non erano dovuti precedentemente. Sugli interessi moratori possono maturare ulteriori interessi, quando ricorrono i presupposti previsti dall’art. 1283 (anatocismo) (VII, 1.18). La liquidazione consiste nella determinazione del risarcimento e perciò nella quantificazione dell’ammontare dell’importo dovuto dal debitore al creditore per ristorarlo del pregiudizio subito per danni patrimoniali e non patrimoniali. Tale importo è l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria, la cui misura (come si è visto) varia in ragione del conseguimento o meno di adempimento coattivo, e ancora in ragione del fatto se trattasi di inadempimento assoluto o di ritardo nell’adempimento. Successivamente alla liquidazione del danno, l’obbligazione risarcitoria, che si è visto integrare un debito di valore, si atteggia quale debito di valuta, come tale soggetto al principio nominalistico. Se l’inadempimento o il ritardo non dipendono da dolo del debitore, il risarcimento è limitato al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui è sorta l’obbligazione (art. 1225). Ciò implica che, nella liquidazione del danno, bisogna compiere una cernita dei danni provati dal creditore, dovendosi ammettere a risarcimento solo quelli prevedibili dal debitore, tranne che l’inadempimento non sia doloso; a differenza della responsabilità extracontrattuale, per la quale il danneggiante è tenuto a risarcire anche i danni imprevedibili (X, 2.3). Se il danno non può essere provato nel suo “preciso ammontare”, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa (art. 1226), sempre che il soggetto danneggiato abbia provato la sussistenza e la derivazione del danno 78: la liquidazione equitativa può dunque coprire il quantum del danno, non l’an. La liquidazione equitativa del danno è diretta a determinare la compensazione economica socialmente adeguata del pregiudizio, cioè quella compensazione che l’ambiente sociale accetta come equa nel particolare momento storico rispetto alle circostanze del caso concreto; il risarcimento equitativo non esenta il giudice dall’indicare in motivazione i criteri assunti a base del procedimento valutativo e il processo logico di utilizzazione degli stessi. È anche valutato il vantaggio che il creditore possa conseguire da un inesatto adempimento della prestazione (ad es., nella vendita di un bene, l’utilizzo per un certo tempo del bene consegnato benché non conforme al contratto) (compensatio lucri cum damno) 79. Con riguardo all’inadempimento contrattuale, come si vedrà, la liquidazione del 78 L’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, ex artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del generale potere ex art. 115 c.p.c., dà luogo non già a un giudizio di equità, ma a un giudizio di diritto caratterizzato dalla c.d. equità giudiziale correttiva o integrativa: pertanto, da un lato, è subordinato alla condizione che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile per la parte interessata provare il danno nel suo preciso ammontare; dall’altro, non ricomprende anche l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo già assolto l’onere della parte di dimostrare la sussistenza e l’entità materiale del danno, né esonera la parte stessa dal fornire gli elementi probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, affinché l’apprezzamento equitativo sia, per quanto possibile, ricondotto alla sua funzione di colmare solo le lacune insuperabili nell’iter della determinazione dell’equivalente pecuniario del danno (Cass. 22-2-2018, n. 4310; Cass. 13-9-2016, n. 17953; Cons. Stato 10-2-2020, n. 1000). Il giudice può fare ricorso al criterio della liquidazione equitativa del danno ex art. 226, ove ne sussistano le condizioni, anche senza domanda di parte, trattandosi di criterio rimesso al suo prudente apprezzamento e quindi esercitabile d’ufficio anche in appello (Cass. 24-1-2020, n. 1636). 79 È pero necessario che il vantaggio e il danno siano “entrambi conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento”, quali suoi effetti contrapposti, e non quando il fatto generatore del pregiudizio patrimoniale sia diverso da quello che abbia procurato un vantaggio (Cass., sez. un., 5-3-2009, n. 5287).

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danno può essere forfetariamente predeterminata dalle parti attraverso la preventiva stipulazione di una clausola penale (VIII, 7.4).

9. Concorso del fatto colposo del creditore (autoresponsabilità). – Lo svolgimento dei rapporti sociali comporta che ogni soggetto subisca gli effetti del proprio comportamento (commissivo o omissivo) (autoresponsabilità). Un campo significativo di applicazione di tale generale principio è quello del comportamento avuto dal soggetto danneggiato in occasione di un fatto illecito. Nella responsabilità da inadempimento e nella determinazione del danno da risarcire riveste importanza il comportamento tenuto dal creditore nel fenomeno dell’inadempimento, gravando sullo stesso un dovere di cooperazione rispetto all’adempimento del debitore: tale dovere, oltre che rispondere ad un dovere morale, integra anche un obbligo giuridico ai sensi dell’art. 1175, che fa obbligo al debitore e al creditore di “comportarsi secondo le regole della correttezza” (è il generale dovere di buona fede che si tende a ricondurre al principio di solidarietà: II, 7.6) 80. Secondo l’art. 1227 il fatto colposo del creditore assume rilevanza giuridica in due situazioni: come partecipazione causale nel cagionare l’evento dannoso; come inerzia nell’evitare il danno 81. Sono regole che trovano applicazione anche in tema di illecito extracontrattuale, rispetto al fatto illecito e ai danni conseguenti, in virtù del richiamo dell’art. 2056 all’art. 1227 (X, 2.2). a) La partecipazione nel cagionare il danno integra un concorso eziologico del danneggiato (creditore) nella produzione dell’evento, e dunque nel compimento dell’illecito (inadempimento), così da svolgere un’efficienza causale nel verificarsi del danno. Per l’art. 12271, se il “fatto colposo” del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate 82. Spetterà al giudice determinare, nel caso concreto, la proporzione del concorso del creditore nella produzione del danno: nella misura corrispondente ridurrà il risarcimento dovuto dal debitore. b) L’inerzia nell’evitare il danno integra un concorso di colpa del creditore successivo all’evento, per non avere evitato i danni che potevano essere evitati con l’ordinaria diligenza. Per l’art. 12272, il risarcimento non è dovuto per i danni che “il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza”. Il creditore, anche se non ha contribuito alla 80 Ad es. si è stabilito, con riguardo alla regola generale dell’art. 12271 e alla specifica responsabilità civile per danni da cose in custodia (art. 2051), sussistere sul soggetto danneggiato un dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà ex art. 2 Cost. (Cass. 21-9-2020, n. 19716). 81 Quanto più la situazione di danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento si connoti per l’esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro (Cass. 5-5-2020, n. 8478; Cass. 18-2-2020, n. 4129). 82 L’espressione “fatto colposo” dell’art. 1227 non va intesa come riferita all’elemento psicologico della colpa, che ha rilevanza esclusivamente ai fini di una affermazione di responsabilità, la quale presuppone l’imputabilità, ma deve intendersi come sinonimo di comportamento oggettivamente in contrasto con una regola di condotta, stabilita da norme positive e/o dettata dalla comune prudenza, in grado di incidere sul nesso causale, ascrivibile anche ad un minore o in generale incapace (Cass. 19-2-2020, n. 4178; Cass. 13-2-2020, n. 3557).

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causazione dell’evento, avrebbe potuto evitare un aggravamento del danno 83: sono irrisarcibili i danni evitabili con l’ordinaria diligenza 84. È da tempo dibattuto se il riferimento dell’art. 1227 a criteri soggettivi, come il “fatto colposo del creditore” nel cagionare il danno ovvero il non uso di “ordinaria diligenza” nell’evitare il danno siano ancorati ad una valutazione soggettiva del singolo creditore o riferiti a comportamenti tipizzati. La dottrina prevalente è per una valutazione del comportamento del creditore secondo criteri soggettivi, non così la giurisprudenza che valorizza criteri oggettivi 85: come nella valutazione del comportamento del debitore ex art. 1218, così nella valutazione della condotta del creditore ex art. 1227 bisogna avere riguardo allo specifico soggetto secondo un criterio tipizzato di condotta nelle particolari circostanze. È un criterio di equilibrio tra due azioni concorrenti, del debitore e del creditore, che assumono rilevanza secondo criteri omogenei.

10. I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. – Nei rapporti commerciali i ritardi nei pagamenti influenzano la liquidità e la gestione finanziaria delle imprese, compromettendo la redditività e la competitività delle stesse. Il creditore è costretto a ricorrere al credito esterno, che nel tempo attuale di crisi risulta anche difficile ottenere e comunque finanziariamente pesante. Il D.Lgs. 9.10.2002, n. 231 (recante attuazione della direttiva 2000/35/CE), come modificato dal D.Lgs. 9.11.2012, n. 192 (in recepimento della direttiva 2011/7/UE), regola il ritardo dei pagamenti nelle “transazioni commerciali”, considerandosi per tali i contratti, comunque denominati, tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni 86, che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la pre83 La diversa natura delle due ipotesi previste dall’art. 1227 comporta che, mentre nell’ipotesi del co. 1, il giudice deve proporsi d’ufficio l’indagine in ordine al concorso di colpa del danneggiato – sempre che risultino prospettati gli elementi di fatto dai quali sia ricavabile la colpa concorrente, sul piano causale, dello stesso –, nell’ipotesi del co. 2 il comportamento del creditore costituisce oggetto di una eccezione in senso stretto, in quanto il dedotto comportamento del creditore costituisce un autonomo dovere giuridico, posto a suo carico dalla legge quale espressione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede (Cass. 25-5-2010, n. 12714; Cass. 10-11-2009, n. 23734). 84 È richiesta una condotta attiva, espressione dell’obbligo generale di buona fede, diretta a limitare le conseguenze dell’altrui comportamento dannoso, intendendosi comprese nell’ambito dell’ordinaria diligenza, a tal fine richiesta, soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici (Cass. 5-8-2021, n. 22352). 85 L’accertamento è di tipo oggettivo e prescinde dall’imputabilità della condotta colposa sul piano soggettivo; la condotta della vittima, anche se incapace, deve essere valutata alla stregua dello standard ordinario di comportamento diligente dell’uomo medio; tale valutazione assorbe anche ogni rilievo della condotta del soggetto tenuto alla sorveglianza dell’incapace (Cass. 13-2-2020, n. 3557). Quando la vittima di un fatto illecito abbia concorso, con la propria condotta, alla produzione del danno, l’obbligo del responsabile di risarcire quest’ultimo si riduce proporzionalmente anche nel caso in cui la vittima fosse incapace di intendere e di volere, in quanto l’espressione “fatto colposo” che compare nell’art. 1227 deve intendersi come sinonimo di comportamento oggettivamente in contrasto con una regola di condotta, e non quale sinonimo di comportamento colposo (Cass. 13-2-2013, n. 3542; Cass. 22-6-2009, n. 14548). Anche il fatto del minore danneggiato che ha concorso a produrre il danno è valutabile dal giudice al fine alla riduzione del danno da risarcire (Cass. 2-3-2012, n. 3242). 86 Per l’art. 2 L. 22.5.2017, n. 81, le disposizioni del D.Lgs. 9.2.2002, n. 231, si applicano, in quanto compatibili, anche alle transazioni commerciali tra lavoratori autonomi e imprese, tra lavoratori autonomi e amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 D.Lgs. 30.3.2001, n. 165, e successive modificazioni, o tra lavoratori

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stazione di servizi contro il pagamento di un prezzo”. Il termine “transazioni” è utilizzato non già nel significato tecnico previsto dall’art. 1965, di reciproche concessioni per porre fine a una lite, ma nella generale accezione di operazione economica tra i soggetti indicati. La formula “contratti comunque denominati” fa comprendere che non è introdotto un nuovo tipo contrattuale ma solo indicato l’ambito di applicazione della particolare disciplina del ritardo di pagamento, applicabile a tutti i contratti, tipici o atipici, implicanti obbligazioni pecuniarie correnti tra i soggetti indicati. È prevista la decorrenza automatica di interessi moratori sull’importo dovuto dal giorno successivo alla scadenza dei termini di pagamento (previsti dall’art. 3) (art. 4) 87. Il creditore ha diritto alla corresponsione degli interessi moratori sull’importo dovuto, salvo che il debitore dimostri che il ritardo nel pagamento del prezzo è stato determinato dall’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (art. 3). Si considerano “interessi moratori” gli interessi legali di mora ovvero gli interessi ad un tasso concordato tra imprese; per “interessi legali di mora”, si intendono gli interessi semplici di mora su base giornaliera ad un tasso che è pari al “tasso di riferimento” cioè il tasso di interesse applicato dalla Banca centrale europea alle sue più recenti operazioni di rifinanziamento principali, maggiorato di otto punti percentuali (art. 2) (tasso Bce maggiorato dell’8 per cento) 88. È valorizzata la categoria della nullità, con una norma in certo senso di chiusura del sistema. Per l’art. 7 “Le clausole relative al termine di pagamento, al saggio degli interessi moratori o al risarcimento per i costi di recupero, a qualunque titolo previste o introdotte nel contratto, sono nulle quando risultano gravemente inique in danno del creditore. Si applicano gli artt. 1339 e 14192 c.c.”. La nullità, come è nella sua indole, è rilevabile di ufficio dal giudice, che valuta la iniquità in danno del creditore alla stregua di tutte le circostanze del caso, tra cui il grave scostamento dalla prassi commerciale in contrasto con il principio di buona fede e correttezza, la natura della merce o del servizio oggetto del contratto, l’esistenza di motivi oggettivi per derogare al saggio degli interessi legali di mora, ai termini di pagamento o all’importo forfettario dovuto a titolo di risarcimento per i costi di recupero. È considerata comunque iniqua la clausola che esclude l’applicazione di interessi di mora, né è ammessa prova contraria 89. Si presume che sia gravemenautonomi, fatta salva l’applicazione di disposizioni più favorevoli. Il tasso maggiore di interessi previsto dall’art. 2 D.Lgs. 231/2012 va applicato anche alle indennità di fine rapporto dovute dalla compagnia di assicurazione all’agente, quale imprenditore che ha collocato sul mercato beni (le polizze), offrendo in tal modo un servizio alla società preponente (Cass. 31-3-2022, n. 10528). 87 Nel caso di ritardo nell’adempimento di obbligazioni pecuniarie di transazioni commerciali, il creditore ha diritto alla corresponsione degli interessi moratori ex artt. 4 e 5 D.Lgs. 231/2002 con decorrenza automatica dal giorno successivo alla scadenza del termine per il pagamento, senza che vi sia bisogno di una formale costituzione in mora e senza che nella domanda giudiziale il creditore debba specificare la natura e la misura degli interessi richiesti (Cass. 31-5-2019, n. 14911). 88 Per “interessi legali di mora”, si intendono gli interessi semplici di mora su base giornaliera ad un tasso che è pari al “tasso di riferimento” cioè il tasso di interesse applicato dalla Banca centrale europea alle sue più recenti operazioni di rifinanziamento principali, maggiorato di otto punti percentuali (art. 2) (tasso Bce maggiorato dell’8 per cento). Il Ministero dell’economia e delle finanze dà notizia del tasso di riferimento, con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana nel quinto giorno lavorativo di ciascun semestre solare. Le società sono tenute a dare evidenza nel bilancio sociale dei “tempi medi di pagamento” e delle politiche di contrasto ai ritardi (art. 7 ter). 89 Nelle transazioni commerciali in cui il creditore sia una PMI, si presume che sia gravemente iniqua la

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te iniqua la clausola che esclude il risarcimento per i costi di recupero. Quando debitore è una P.A. è nulla la clausola avente ad oggetto la predeterminazione o la modifica della data di ricevimento della fattura, nullità rilevabile di ufficio dal giudice. Per i rapporti economici di massa, è eccitata una tutela degli interessi collettivi (III, 3.7).

11. Il trattamento dei crediti deteriorati. – Il credito e specificamente il prestito è linfa vitale dell’economia di mercato, così per gli acquisti delle famiglie che per l’attività delle imprese. Quando il prestito, come di regola avviene, proviene dalle banche, l’inadempimento dell’obbligazione di restituzione incrina l’andamento bancario e con esso il sistema economico in quanto il mancato rientro dei prestiti non consente alle banche di restituire ai risparmiatori le somme affidate alle banche a titolo di investimento. È il problema dei c.d. “crediti deteriorati” (non performing loans – NPL) per i mutui non riscossi (II, 6.6), sviluppatosi in America 90 e poi diffusosi, sia come prestiti subprime 91 che maggiormente come prestiti ninja 92, che ha impegnato fortemente sia le banche erogatrici che hanno perduto risorse sia le famiglie che hanno trovato difficoltà ad accedere a prestiti. L’inadempimento delle obbligazioni di restituzione, per la complessità dei danni prodotti coinvolgenti vari interessi oltre quello del creditore, impegna peculiari strumenti di tutela. La banca procede al trattamento dei crediti deteriorati attraverso una stringente sequenza 93, risultando in discussione la stessa sopravvivenza della banca 94. Spesso si ricorre ad un mercato dei crediti deteriorati con la costituzione di cartolarizzazioni per la collocazione degli stessi (VII, 2.6).

clausola che prevede termini di pagamento superiori a sessanta giorni; tale comma non si applica quando tutte le parti del contratto sono PMI (art. 74 bis). 90 La diffusione di non performing loans è legata alla crisi finanziaria che ha colpito gli Stati Uniti a partire dal 2007 per il sovraccarico di crediti deteriorati in portafoglio delle banche, fino a determinare il fallimento di molte di esse tra cui il fallimento più clamoroso della banca Lehman Brothers. 91 Sono i prestiti subprime cioè al di sotto di quelli ottimali. Sono i crediti (sviluppatisi in America) attribuiti a soggetti non affidabili per avere una storia creditizia non buona e quindi di dubbia realizzazione. A fronte di tali rischi i tassi di interessi sono elevati così creando un circolo vizioso di inesigibilità. 92 È l’acronimo No Income, No Job, no Assets (“Nessun reddito, Nessun lavoro, Nessuna garanzia”). 93 Nel lessico bancario, quando il cliente non rientra dell’esposizione debitoria entro il termine negoziato il credito è considerato “incagliato” (posizione ad incaglio), per trovarsi in una situazione temporanea di difficoltà sia economica che finanziaria, suscettibile di risoluzione in tempi alquanto brevi. Se la situazione si protrae nel tempo divenendo il credito inesigibile, l’incaglio evolve in “sofferenza” (posizione in sofferenza) per trovarsi il cliente in uno stato di insolvenza o similare; si ha in tal caso specificamente un credito deteriorato (credit crunch): la banca richiede la restituzione del debito e procede coattivamente al recupero, all’esito del quale segnala la posizione alla Centrale Rischi e passa il credito a “perdita” nel bilancio. L’accumulo di sofferenze caratterizza oggi buona parte dell’assetto bancario, che, anche per questo, ha ridotto l’erogazione del credito. 94 La Banca centrale europea, nel marzo 2017, ha dettato Linee guida per le banche sui crediti deteriorati (NPL), per essere ampiamente riconosciuto che livelli elevati di NPL finiscono per generare un impatto negativo sul credito bancario all’economia, per effetto dei vincoli di bilancio, di redditività e di capitale a cui sono soggetti gli enti creditizi che li detengono.

CAPITOLO 5

GARANZIE DEL CREDITO E RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE (La garanzia generale)

Sommario: 1. La realizzazione coattiva del credito. – A) RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE DEL DEBITORE. – 2. Responsabilità patrimoniale e concorso dei creditori. – 3. Segue. Il patto commissorio e il patto marciano. – 4. L’espropriazione. – B) MEZZI DI CONSERVAZIONE DELLA GARANZIA PATRIMONIALE. – 5. Generalità. – 6. Azione surrogatoria. – 7. Azione revocatoria. Presupposti. – 8. Segue. Effetti della revocatoria. – 9. Sequestro conservativo. – C) MECCANISMI INDIRETTI DI GARANZIA. – 10. Generalità. – 11. Cessione dei beni ai creditori. – 12. Anticresi. – 13. Rimedi di autotutela. – 14. Esecuzione su beni oggetto di atti dispositivi a titolo gratuito.

1. La realizzazione coattiva del credito. – Parlando dei caratteri dell’obbligazione si è visto che requisito della prestazione è la patrimonialità, nel senso della sua necessaria suscettibilità di valutazione economica (anche se può corrispondere a un interesse non patrimoniale del creditore) (art. 1174). Quando il risultato perseguito dal creditore non è realizzato con l’adempimento del debitore (o di un terzo), è conseguibile attraverso gli strumenti coattivi dell’apparato giudiziario e il debitore è obbligato a risarcire i danni sofferti dal creditore in conseguenza dell’inadempimento (art. 1218) (VII, 4.5). L’apparato di garanzie del credito è complementare al diritto di credito in quanto ne consente l’attuazione quando non è soddisfatto. La realizzazione coattiva del credito si lega alla disciplina della responsabilità per inadempimento dell’obbligazione (artt. 1218 ss.), costituendone il naturale sviluppo. Il codice civile colloca tale normativa nel Libro VI, per organizzare una previsione complessiva e integrale della “tutela dei diritti”. La specifica normativa (artt. 2740 ss.) contiene la tutela del diritto di credito rimasto insoddisfatto: il creditore consegue il bene oggetto dell’obbligazione o altro sostitutivo, non tramite il debitore (che è inadempiente) o un terzo, ma mediante la forza dell’ordinamento. Attraverso un’attività giurisdizionale con funzione di cognizione, si accerta l’inadempimento del debitore e il conseguente danno sofferto dal creditore, con condanna del debitore di eseguire la prestazione dovuta o in subordine di pagare una somma di danaro sostitutiva; oltre la condanna al risarcimento dei danni sofferti dal creditore (la sentenza di condanna costituisce il “titolo esecutivo”) (III, 1.3). In virtù del formato titolo esecutivo, si dà poi luogo ad un’attività giurisdizionale con funzione di esecuzione, che,

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come si è visto, può assumere due direzioni: in forma specifica ovvero per espropriazione, in ogni caso preceduta dal precetto che annunzia l’esecuzione (III, 1.4). Con l’esecuzione forzata in forma specifica (artt. 2930 ss.) il creditore realizza coattivamente il suo diritto, conseguendo l’oggetto originario dell’obbligazione: vi è una riparazione in forma specifica del credito violato. Il codice civile fissa le tipologie di esecuzione (artt. 2930 ss.) 1, mentre il codice di procedura civile regola i modi di svolgimento delle singole tipologie (artt. 605 ss. c.p.c.). Con l’esecuzione forzata per espropriazione (artt. 2910 ss.), indicata dal c.p.c. senz’altro come “espropriazione forzata”, la tutela è indirizzata verso il patrimonio del debitore, per convertirlo in una somma di danaro satisfattiva dell’interesse del creditore (se ne parlerà specificamente appresso). In tutti i versanti di svolgimento, sempre l’azione esecutiva deve essere correlata al rispetto del principio di buona fede in una duplice direzione: perché non si dia luogo all’escussione della garanzia quando non vi sia certezza dell’inadempimento, e perché il soddisfacimento del creditore avvenga con il minor danno per il debitore; anche nell’ipotesi di garanzia data da un terzo, il garante è assoggettato al medesimo principio, sollevando le eccezioni circa l’attualità del credito per circostanze a lui note ovvero rispetto alle modalità di escussione della garanzia.

A) RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE DEL DEBITORE 2. Responsabilità patrimoniale e concorso dei creditori. – Il patrimonio del debitore, quale insieme dei beni e più specificamente delle situazioni giuridiche di rilevanza economica (II, 2.9), rappresenta il punto di riferimento delle aspettative del creditore per l’ipotesi di inadempimento dell’obbligazione o di mora. E ciò sia quando il creditore, conseguendo l’adempimento coattivo, si limiti a richiedere un risarcimento del danno aggiuntivo, sia quando, non conseguendo l’adempimento, agisca per ottenere un bene sostitutivo di quello originario oltre i danni sofferti. Sotto la rubrica “Responsabilità patrimoniale” l’art. 2740 detta la regola fondamentale secondo cui “il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri”. In tal guisa la correlazione tra pretesa del creditore e obbligo del debitore, che presiede la nascita del rapporto obbligatorio, evolve nella correlazione tra garanzia del creditore di realizzazione coattiva del credito e responsabilità patrimoniale del debitore di attuazione coattiva del debito, secondo quella nozione integrale dell’ob1

Sono previste quattro tipologie di esecuzione in forma specifica: a) esecuzione forzata per consegna o rilascio (art. 2930): se non è adempiuto l’obbligo di consegnare una cosa determinata, mobile o immobile, l’avente diritto può ottenere la consegna o il rilascio forzosi (es. inadempimento del locatario dell’obbligazione di restituzione dell’immobile dopo la fine del contratto di locazione; b) esecuzione forzata degli obblighi di fare (art. 2931): se non è adempiuto un obbligo di fare fungibile, l’avente diritto può ottenere che esso sia eseguito da altri a spese dell’obbligato; c) esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto (art. 2932): se chi è obbligato a concludere un contratto non adempie, l’altra parte può ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso (es., inadempimento di stipula del contratto definitivo da chi ha stipulato un contratto preliminare); d) esecuzione forzata degli obblighi di non fare (art. 2933): se non è adempiuto un obbligo di non fare, l’avente diritto può ottenere, a spese dell’obbligato, che sia distrutto quanto eseguito in violazione dell’obbligo di non fare.

CAP. 5 – GARANZIE DEL CREDITO E RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE

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bligazione sopra delineata (VI, 1.4). In sostanza la “responsabilità patrimoniale” del debitore vale a rendere concreta la situazione attiva di credito e correlativamente gravosa la situazione passiva di debito, consentendo al creditore l’aggressione del patrimonio del debitore quando il credito è rimasto deluso per mancanza dell’adempimento. La responsabilità patrimoniale del debitore è dunque correlata alla garanzia del credito in quanto permette il soddisfacimento coattivo del credito (mediante azione esecutiva) senza l’attuazione dell’obbligo 2. L’adeguatezza della garanzia rispetto alla entità del credito è, nella vita degli affari, l’effettivo presidio di vitalità del credito; ed è noto come, in una economia di mercato, il ricorso al credito è fondamentale leva di sviluppo economico. Quando il patrimonio del debitore è esiguo rispetto all’importo del credito e quindi non in grado di garantire la realizzazione coattiva del credito, si ricorre all’intervento di terzi che garantiscono nei confronti del creditore l’adempimento del debitore, così estendendosi la responsabilità patrimoniale su cui il creditore può contare. La soddisfazione del credito diventa più complessa quando concorrono più creditori, e a maggior ragione quando sussistono titoli di preferenza di alcuni creditori. La responsabilità patrimoniale è regolata da due fondamentali principi, ognuno dei quali con relative eccezioni. a) Principio base è la responsabilità patrimoniale illimitata, salve le eccezioni previste dalla legge. Per l’art. 27401 “il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri” 3. Sul piano lessicale è da precisare che il debitore risponde per l’inadempimento e non per l’adempimento. Quanto al tenore della previsione, è da chiarire che il termine “beni” non è riferito alle sole cose come parti della materia, ma ha più generalmente riguardo a tutti i diritti afferenti al debitore su cose materiali o immateriali o altre entità ovvero relativamente a prestazioni (es. diritti di credito), in grado di procurare una specifica utilità al debitore. La formula ha un correlato nell’art. 320 circa la rappresentanza dei genitori nell’amministrazione dei “beni” dei figli minori. È in sostanza affermata la soggezione del patrimonio presente e futuro del debitore a garanzia del credito: è la garanzia generale del credito. Si vedrà di seguito dei mezzi apprestati dall’ordinamento per la conservazione della garanzia patrimoniale generale (artt. 2900 ss.). Sono ammesse limitazioni di responsabilità nei soli casi stabiliti dalla legge (art. 27402). Le limitazioni sono dunque eccezionali e tassative: è vietato all’autonomia privata introdurre nuove ipotesi di limitazioni di responsabilità. È possibile delineare due categorie di limitazioni di responsabilità con differente significazione. Una prima categoria comprende le limitazioni di responsabilità riferite a singoli beni o parti di patrimonio gravati da un vincolo di destinazione (II, 2.9). Ad es., pur con le finalità e i caratteri propri di ciascuna figura, il fondo patrimoniale (art. 170); l’usufrutto 2 Di garanzia si parla in un significato diverso rispetto all’alienazione di diritti, come obbligo di procurare il risultato traslativo e/o il godimento del bene: es. garanzia per evizione e per vizi (art. 1476); garanzia legale di conformità e garanzie commerciali per i beni di consumo (artt. 128 ss. cod. cons.). 3 La norma ha il correlato nell’art. 2910 c.p.c. (oggetto dell’espropriazione), secondo cui il creditore, per conseguire quanto gli è dovuto, può fare espropriare i beni del debitore. Possono essere espropriati i beni di un terzo quando sono vincolati a garanzia del credito o quando sono oggetto di un atto che è stato revocato perché compiuto in pregiudizio del creditore (artt. 2901 ss.).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

legale (art. 325); i fondi speciali per la previdenza e l’assistenza (art. 2117); i patrimoni destinati dalle s.p.a. ad uno specifico affare (artt. 2447 quinquies) 4; i patrimoni utilizzati nelle cartolarizzazioni di crediti (VII, 2.6); i beni oggetto di atti di destinazione ex art. 2645 ter, ai quali si è soliti ricondurre anche il trust. Di regola, i beni destinati rispondono per i soli debiti assunti per scopi inerenti alla destinazione; un regime articolato ha l’esecuzione sui beni del fondo patrimoniale (art. 170) 5. Stanno peraltro emergendo aggiramenti del sistema, con la costituzione di vincoli per derogare alla regola della responsabilità illimitata, stimolando azioni revocatorie (ordinaria e fallimentare) di molti atti di destinazione (XIV, 2.11). Un regime particolare regola la pignorabilità dei beni appartenenti alla P.A. in ragione della natura e della finalità degli stessi 6. Una seconda categoria riguarda normalmente le persone giuridiche: il contenimento della responsabilità patrimoniale al solo patrimonio dell’ente è in funzione dell’attività svolta, favorita dall’ordinamento per lo scopo ideale perseguito o l’efficienza produttiva attivata. Ad es., nelle società di capitali, per le obbligazioni sociali, “risponde soltanto la società con il suo patrimonio” (artt. 23251 e 2462) e quindi nei limiti del patrimonio della società 7; però con responsabilità degli amministratori verso i creditori per inosservanza degli obblighi di conservazione dell’integrità del patrimonio sociale (artt. 2394, 24765). In entrambe le prospettive emerge l’esigenza di tutela dei creditori per il pregiudizio subito dalla responsabilità limitata, con il diritto di fare emergere la finalità fraudolenta del debitore sia rispetto alla costituzione di vincoli di destinazione che con riguardo alla 4 Il risultato della “separazione patrimoniale” può essere conseguito attraverso due distinti modalità: a) costituzione di uno o più patrimoni dedicati, per cui i relativi beni sono destinati in via esclusiva ad uno specifico affare; b) previsione di finanziamenti finalizzati, per cui nel contratto di finanziamento è previsto che i proventi derivanti dal finanziamento siano finalizzati al rimborso delle stesse (art. 2447 bis). Per la prima ipotesi, la società può anche ricorrere ad apporti di terzi e alla emissione di strumenti finanziari di partecipazione all’affare con l’indicazione dei diritti attribuiti (lett. d e e). 5 Per intanto la norma ha riguardo alla esecuzione per “debiti contratti”, e quindi non trova applicazione per debiti derivanti da fatto illecito o da altre ragioni, per i quali quindi opera la regola della responsabilità individuale illimitata (significativo art. 2447 quinquies3, che, per i patrimoni societari destinati, fa salva la responsabilità illimitata della società per le obbligazioni derivanti da fatto illecito). Quanto ai debiti derivanti da contratto, l’esecuzione sui beni e sui frutti del fondo patrimoniale è consentita per debiti contratti per fare fronte ad esigenze della famiglia (non circoscritte all’indispensabilità ma riferite allo sviluppo della vita familiare); quando il debito assunto non è inerente ai bisogni della famiglia, è consentita l’esecuzione se il creditore non era a conoscenza della estraneità del debito ai bisogni della famiglia (cfr. Cass. 25-2-2020, n. 5017). In sostanza vi è un sistema di esecuzione differenziata, con un bilanciamento della realizzazione dello scopo del findo con la protezione del mercato. 6 Sono espropriabili solo i beni disponibili e non quelli destinati per legge a finalità pubblicistiche (II, 2.10). Si è peraltro ritenuto che non sono pignorabili presso le banche delegate alla riscossione dei tributi i crediti della P.A. (anche se, con il versamento, è estinto il rapporto tributario) in ragione della indisponibilità del credito al tributo (Cass. 5-5-2009, n. 10284). 7 Per le società di capitali, con la cancellazione della società dal registro delle imprese e relativa estinzione, i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi; la domanda, se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l’ultima sede della società (art. 2495). Nella navigazione marittima, per le obbligazioni contratte in occasione e per i bisogni di un viaggio o sorte da fatti o atti compiuti durante il viaggio, ad eccezione di quelle derivanti da proprio dolo o colpa grave, l’armatore può limitare il debito complessivo ad una somma pari al valore della nave e all’ammontare del nolo e di ogni altro provento del viaggio (art. 275 cod. nav.), a seguito di sentenza che dichiara aperto il procedimento di limitazione (artt. 620 ss.).

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erezione di schermi societari. La tutela del creditore varia a seconda che l’obbligazione derivi da contratto o da fatto illecito (es. art. 2447 quinquies3). b) In presenza di concorso di creditori opera il principio di parità di trattamento dei creditori, salve le cause legittime di prelazione. Per l’art. 27411 “I creditori hanno eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore, salve le cause legittime di prelazione”. In presenza di più creditori, il concorso dei creditori è regolato da due fondamentali criteri. Regola generale è dunque il soddisfacimento paritario dei creditori (creditori chirografari): per l’intero, se il patrimonio ha capienza per soddisfare tutti; in modo proporzionale, se non c’è capienza per tutti. Si faccia l’esempio che, su un patrimonio di 100, fanno valere i propri diritti un creditore per 50 e un creditore per 150: se il patrimonio fosse diviso in parti uguali tra i due creditori (50 ad ognuno), il creditore di 50 resterebbe soddisfatto per l’intero, mentre il creditore di 150 resterebbe soddisfatto per 1/3; invece la par condicio dei creditori impone il soddisfacimento proporzionale di entrambi i creditori con la medesima percentuale: pertanto, essendo il patrimonio di 100, al creditore di 50 andrà 25 e al creditore di 150 andrà 75, così rimanendo entrambi soddisfatti in modo paritario nella misura percentuale di 1/2. Sono fatte salve le cause legittime prelazione, come altrettanti titoli di preferenza riservati ad alcuni creditori (creditori privilegiati) per la causa del credito, per la qualità delle parti o senz’altro per volontà delle parti. Ai sensi dell’art. 27412 “sono cause legittime di prelazione i privilegi, il pegno e le ipoteche”. Le cause legittime di prelazione sono tassative ed integrano altrettante garanzie speciali, che si appuntano su specifici beni o specifiche categorie di beni, con attribuzioni privilegiate sul ricavato della vendita dei beni escussi (se ne parlerà specificamente nel prossimo cap. 6). In definitiva tutti i creditori sono assistiti dalla garanzia generale; mentre solo alcuni creditori sono anche titolari di garanzie speciali. Le garanzie del credito (anche se date da terzi) sono considerate accessori del credito (art. 1263), nel senso che, tendenzialmente, seguono le sorti del credito. Così, per effetto della cessione, il credito si trasferisce al cessionario con i privilegi, con le garanzie personali e reali e con gli altri accessori (art. 12631). Al creditore è però vietato trasferire al cessionario il possesso della cosa ricevuta in pegno senza il consenso del costituente; in caso di dissenso rimane custode del pegno (art. 12632).

3. Segue. Il patto commissorio e il patto marciano. – Per garantirsi l’attuazione del credito, da tempo i creditori hanno fatto ricorso a strumenti extragiudiziari di pressione sul debitore, con il pericolo di essere il debitore coinvolto economicamente oltre il valore del debito. Sono emersi due criteri di presidio del debitore: il divieto del patto commissorio e la validità del patto marciano. a) Patto commissorio. Con tale patto si stabilisce tra le parti che, in caso di inadempimento, il bene ipotecato o dato in pegno si trasferisce automaticamente al creditore senza l’intervento giudiziario. L’art. 2744 prescrive il divieto del patto commissorio, sanzionando con la nullità il patto eventualmente stipulato; e il patto è nullo anche se posteriore alla costituzione dell’ipoteca o del pegno. Il divieto del patto commissorio è in funzione di tutela del debitore perché il creditore non possa acquisire la proprietà del bene oggetto di garanzia senza la procedura giudi-

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ziaria di espropriazione del bene: questa assicura che il bene sia realizzato al miglior prezzo possibile, senza approfittamento del creditore, il quale altrimenti potrebbe acquisire un bene ipotecato o dato in pegno di valore superiore rispetto all’ammontare del credito. Peraltro quanto residua dopo il soddisfacimento giudiziario del creditore garantito spetta al debitore o potrebbe soddisfare altri creditori. Un’applicazione del divieto del patto commissorio è operata dalla legge in tema di anticresi (art. 1963) (VII, 5.12). Dalla previsione dell’art. 2744, riferita alla sorte delle garanzie reali, la giurisprudenza ha tratto un principio generale di presidio della responsabilità patrimoniale del debitore, estendendo il divieto del patto commissorio a qualsiasi negozio che venga impiegato per conseguire il risultato della illecita coercizione del debitore a sottostare alla volontà del creditore, accettando preventivamente il trasferimento della proprietà di un suo bene quale conseguenza della mancata estinzione del debito 8. Sono varie le ipotesi in cui si tende ad aggirare il divieto del patto commissorio con la stipula di negozi in frode alla legge, utilizzandosi schemi contrattuali tipici (es. vendita con patto di riscatto 9, mutuo 10, contratto preliminare 11, lease back 12), ovvero con l’impiego del meccanismo della condi8 Il divieto del patto commissorio e la conseguente sanzione di nullità radicale sono stati estesi a qualsiasi negozio, tipico o atipico, quale che ne sia il contenuto, che sia in concreto impiegato per conseguire il fine, riprovato dall’ordinamento, dell’illecita coercizione del debitore; pertanto in ogni ipotesi in cui quest’ultimo sia costretto ad accettare il trasferimento di un bene immobile a scopo di garanzia, nell’ipotesi di mancato adempimento di una obbligazione assunta per causa indipendente dalla predetta cessione, è ravvisabile un aggiramento del divieto di cui agli artt. 1963 e 2744 (Cass. 8-10-2021, n. 27362). L’art. 2744 costituisce una norma materiale, che esprime un divieto di risultato, mirando a difendere il debitore da illecite coercizioni del creditore, assicurando nel contempo la garanzia della “par condicio creditorum” (Cass. 3-2-2012, n. 1675). 9 Al fine di verificare la sussistenza di un patto commissorio, si impone un’indagine volta ad accertare se la vendita, seppure a effetti immediati, sia diretta a realizzare uno scopo di garanzia; tale scopo ricorre quando il versamento del denaro, da parte del compratore, non costituisce pagamento del prezzo ma esecuzione di un mutuo, sicché La vendita con patto di riscatto o di retrovendita, anche quando sia previsto il trasferimento effettivo del bene, è nulla se stipulata per una causa di garanzia (piuttosto che per una causa di scambio) nell’ambito della quale il versamento del danaro, da parte del compratore, non costituisca pagamento del prezzo ma esecuzione di un mutuo ed il trasferimento del bene serva solo per costituire una posizione di garanzia provvisoria capace di evolversi a seconda che il debitore adempia o non l’obbligo di restituire le somme ricevute: pur non integrando direttamente un patto commissorio vietato dall’art. 2744, costituisce un mezzo per eludere tale norma imperativa ed esprime, perciò, una causa illecita che rende applicabile, all’intero contratto, la sanzione dell’art. 1344 (Cass. 3-6-2019, n. 15112; Cass. 26-2-2018, n. 4514). Lo scopo di garanzia non costituisce mero motivo, ma assurge a causa del contratto (Cass. 21-12-2021, n. 41124). 10 Con il patto commissorio è istituito un nesso teologico o strumentale tra il trasferimento del bene e il mutuo, in vista del perseguimento del risultato finale consistente nel trasferimento della proprietà del bene al creditore-acquirente nel caso di mancato adempimento dell’obbligazione di restituzione del debitore-venditore (Cass. 9-10-2018, n. 24917; Cass. 30-9-2013, n. 22314). La procura a vendere un immobile, conferita dal mutuatario al mutuante contestualmente alla stipulazione del mutuo, è idonea a integrare la violazione della norma suddetta, qualora si accerti che tra il mutuo e la procura sussista un nesso funzionale (Cass. 26-9-2018, n. 22903; Cass. 3-2-2012, n. 1675). La sanzione della nullità ex art. 2744 riguarda il solo patto commissorio stipulato a latere dell’obbligazione restitutoria (con conseguente inefficacia del trasferimento del bene oggetto della stipulazione), non anche l’obbligazione restitutoria, che resta valida indipendentemente dalle sorti del patto accessorio vietato (Cass. 25-5-2000, n. 6864). 11 Anche un preliminare di compravendita può violare il divieto del patto commissorio ove emerga l’intento primario dei contraenti di costituire con il bene promesso in vendita una garanzia reale in funzione dell’adempimento delle obbligazioni contratte dal promittente venditore con altro negozio collegato, così da stabilire un collegamento negoziale e strumentale tra i due negozi (Cass. 21-5-2013, n. 12462). 12 Il negozio di sale e lease back viola la ratio del divieto del patto commissorio tutte le volte in cui il debi-

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zione 13 o piegandosi negozi collegati 14: la giurisprudenza ne ha dichiarato la nullità per illiceità della causa concreta ex art. 1344 (in relazione all’art. 14182) 15; non considera però il divieto in contrasto con l’ordine pubblico internazionale 16. È invece possibile che, successivamente al verificatosi inadempimento, le parti concordino una dazione in pagamento di un immobile al creditore. Il patto è valido perché manca l’automaticità del trasferimento al creditore per il successivo inadempimento. b) Patto marciano. È così detto per il nome del giurista romano Marciano che lo delineò. Come il patto commissorio, anche il patto marciano si lega alla prassi di dazioni di beni in funzione di garanzia del credito: però, con il patto marciano, al termine del rapporto obbligatorio, si procede alla stima del bene dato in garanzia, ed il creditore, per acquisire il bene, è tenuto al pagamento dell’importo eccedente l’entità del credito 17, tore, allo scopo di garantire al creditore l’adempimento dell’obbligazione, trasferisca a garanzia del creditore stesso un proprio bene riservandosi la possibilità di riacquistarne il diritto dominicale all’esito dell’adempimento dell’obbligazione, senza, peraltro, prevedere alcuna facoltà, in caso di inadempimento, di recuperare l’eventuale eccedenza di valore del bene rispetto all’ammontare del credito (Cass. 12-7-2019, n. 18791; Cass. 23-4-2020, n. 8100; Cass. 22-2-2021, n. 4664). Al c.d. leasing traslativo si applica la disciplina dell’art. 1526 c.c., in tema di vendita con riserva della proprietà, disciplina di carattere inderogabile e non sussidiaria della volontà delle parti, comportando essa, in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, la restituzione dei canoni già corrisposti, salvo il riconoscimento di un equo compenso in ragione dell’utilizzo dei beni (Cass. 28-1-2015, n. 1625). 13 Cfr. Cass. 21-5-2013, n. 12462. 14 Va ravvisata la nullità del patto commissorio e quindi del contratto, anche rispetto a negozi collegati, qualora dagli stessi scaturisca un assetto di interessi attraverso il quale deve compiersi il trasferimento di un bene al creditore non tanto per una funzione di scambio, quanto per uno scopo di garanzia, a prescindere dalla natura traslativa o obbligatoria del contratto e dal momento temporale dell’effetto traslativo: è un mezzo per eludere la norma imperativa dell’art. 2744, rendendo applicabile la sanzione dell’art. 1344 come contratto in frode alla legge (Cass. 11-7-2019, n. 18680; Cass. 27-10-2020, n. 23553). 15 Non è possibile in astratto identificare una categoria di negozi soggetti a nullità per violazione del divieto del patto commissorio, occorrendo invece riconoscere che qualsiasi negozio può integrare tale violazione nell’ipotesi in cui venga impiegato per conseguire il risultato concreto, vietato dall’ordinamento giuridico, di far ottenere al creditore la proprietà del bene dell’altra parte nel caso in cui questa non adempia la propria obbligazione (Cass. 20-2-2013, n. 4262; Cass. 21-5-2013, n. 12462). Quando la sproporzione manchi – come nel pegno irregolare, nel riporto finanziario e nel c.d. patto marciano (ove al termine del rapporto si procede alla stima del bene e il creditore, per acquisirlo, è tenuto al pagamento dell’importo eccedente l’entità del credito) – l’illiceità della causa è esclusa (Cass. 9-5-2013, n. 10986). V. anche Trib. Milano, sez. spec. impr., 21-2-2020: affinché possa attribuirsi carattere commissorio all’attribuzione al creditore di un bene a garanzia dell’adempimento è necessario che sussista un’evidente sproporzione tra l’entità del debito e il valore dato in garanzia, in quanto il legislatore, nel formulare un giudizio di disvalore nei riguardi del patto commissorio, ha presunto, alla stregua dell’id quod plerumque accidit, che in siffatta convenzione il creditore pretenda una garanzia eccedente il credito, sicché, ove questa sproporzione manchi, l’illiceità della causa è esclusa. 16 La norma di legge straniera (nella specie, inglese), che ammetta l’acquisto di un bene in conseguenza di un patto commissorio, non è contraria all’ordine pubblico internazionale, ai sensi dell’art. 16 L. 31.5.1995, n. 218, in quanto il relativo divieto non rientra fra i relativi principi fondanti l’ordine pubblico internazionale, come risulta dalla circostanza che il patto commissorio non è conosciuto, né vietato in una parte rilevante dell’Unione europea; né l’art. 2744 c.c. costituisce norma di applicazione necessaria, tali essendo quelle spazialmente condizionate e funzionalmente autolimitate – e, perciò solo, destinate ad applicarsi, nonostante il richiamo alla legge straniera – quali, tra le altre, le leggi fiscali, valutarie, giuslavoristiche, ambientali (Cass., sez. un., 5-7-2011, n. 14650). 17 Il divieto del patto commissorio non opera quando nell’operazione negoziale (nella specie, una vendita immobiliare con funzione di garanzia) sia inserito un patto marciano (in forza del quale, nell’eventualità di inadempimento del debitore, il creditore vende il bene, previa stima, versando al debitore l’eccedenza del prezzo

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impedendosi dunque l’approfittamento a danno del debitore che il patto commissorio comporta per l’automaticità del trasferimento del diritto dal debitore al creditore. Perciò il patto marciano è valido. Fuori del codice civile stanno emergendo più normative che ammettono il trasferimento al creditore della proprietà data in garanzia dal debitore nell’ipotesi di suo inadempimento, previa stima del bene al momento del trasferimento della proprietà. Tra le finalità più significative: favorire finanziamenti alle imprese (VII, 6.13), facilitare prestiti vitalizi (VII, 6.14), agevolare mutui per acquisti di immobili residenziali ai consumatori (VII, 6.15), consentire leasing immobiliare abitativo (IX, 4.5). Con un’applicazione analogica di tali norme, nulla esclude che ulteriori interessi, isolatamente esplicati o immessi in una più ampia operazione economia, possano condurre le parti a egualmente considerare utile la previsione del trasferimento con scopo di garanzia (ad es. un debitore proprietario di più immobili che ha necessità di un finanziamento); la stipulazione del patto marciano, con previsione di stima del bene al momento dell’inadempimento, vale a evitare la nullità del trasferimento con scopo di garanzia ex art. 2644, vuoi che materialmente il creditore corrisponda la differenza di valore al debitore, vuoi che la differenza di valore sia conseguita dal debitore dalla rinegoziazione di un contratto collegato, che arrechi analogo vantaggio. Lo svolgimento della procedura di attuazione del patto marciano avviene normalmente con una realizzazione coattiva del credito da parte del creditore senza il ricorso alla esecuzione giudiziaria, ma con stima del bene: rappresenta una esecuzione stragiudiziale del credito che si svolge in forma di autotutela. È uno strumento che incentiva la concessione del credito e quindi il mercato, in quanto il creditore insoddisfatto attua direttamente una riallocazione del credito senza affrontare la macchinosità e la lentezza oltre che i costi della esecuzione giudiziaria; l’indebolimento della posizione del debitore è bilanciato dalla necessità della successiva stima del bene per accertarne il valore.

4. L’espropriazione. – Di regola, con unica sentenza di condanna, è accertato l’inadempimento ed emessa condanna del debitore al pagamento di una somma di danaro al creditore, in sostituzione dell’obbligazione originaria inadempiuta, con l’aggiunta dell’importo dovuto a titolo di danni. In tal modo la sentenza di condanna diviene titolo esecutivo che consente al creditore l’attuazione coattiva del credito con la promozione della esecuzione forzata, che si articola nelle procedure di espropriazione e di esecuzione in forma specifica (III, 1.4). L’espropriazione si indirizza alla esecuzione forzata sul patrimonio del debitore, al fine della conversione dei beni in danaro. La procedura è regolata dagli artt. 483 ss. c.p.c., con alcune peculiarità in ragione della natura del bene espropriato. Si fissano qui i soli aspetti di diritto sostanziale della procedura. L’azione esecutiva, annunziata dal precetto, ha inizio con il pignoramento, con il quarispetto al credito), trattandosi di clausola lecita, che persegue lo stesso scopo del pegno irregolare ex art. 1851 c.c. ed è ispirata alla medesima “ratio” di evitare approfittamenti del creditore in danno del debitore, purché le parti abbiano previsto, al momento della sua stipulazione, che, nel caso ed all’epoca dell’inadempimento, sia compiuta una stima della cosa, entro tempi certi e modalità definite, che assicuri una valutazione imparziale, ancorata a parametri oggettivi ed automatici oppure affidata ad una persona indipendente ed esperta, la quale a tali parametri debba fare riferimento (Cass. 17-1-2020, n. 844; Cass. 28-1-2015, n. 1625).

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le sono individuati e destinati all’esecuzione determinati beni del debitore (art. 29101), compresi gli accessori, le pertinenze e i frutti dei beni pignorati (art. 29121). Possono essere espropriati anche i beni di un terzo quando sono vincolati a garanzia del credito o quando sono oggetto di un atto che è stato revocato ex artt. 2901 ss. (art. 29102). Se oggetto del pignoramento è un credito, l’estinzione di esso per cause successive al pignoramento non ha effetto in pregiudizio del creditore pignorante (art. 2917) (anche la eccezione di compensazione deve essere riferita a un credito precedente: VIII, 3.10). Il creditore che ha pegno o ipoteca o privilegio speciale su determinati beni non può però pignorare altri beni se non sottopone a pignoramento i beni gravati da pegno o ipoteca o privilegio speciale (art. 2911) 18. Effetto fondamentale del pignoramento è che gli atti di alienazione del bene pignorato non hanno effetto in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori che intervengono nell’esecuzione (c.d. inefficacia relativa) (art. 2913). Se pertanto l’esecuzione non perviene ad esaurimento (perché ad es. il debitore provvede spontaneamente al pagamento) gli atti di alienazione dei beni pignorati rimangono efficaci pure nei confronti dei terzi. In ogni caso sono salvi gli effetti del possesso di buona fede da parte del terzo per i mobili non registrati; mentre per gli immobili e mobili registrati è decisiva la trascrizione del pignoramento (art. 555 c.p.c.). L’atto di pignoramento sugli immobili va trascritto nei registri immobiliari per la produzione degli effetti sopra indicati (art. 2693), e la trascrizione conserva effetto per venti anni dalla sua data; l’effetto cessa ipso jure se la trascrizione non è rinnovata prima che scada il detto termine (artt. 2668 bis e 2668 ter). Con il pagamento viene meno il fondamento del pignoramento che va cancellato 19. La vendita forzata trasferisce all’acquirente i diritti che sulla cosa spettavano a colui che ha subìto l’espropriazione, salvi gli effetti del possesso di buona fede (art. 2919) 20. Su richiesta del creditore pignorante, il procedimento esecutivo può anche chiudersi (più raramente) con l’assegnazione allo stesso del bene oggetto di esecuzione. La somma ricavata a titolo di prezzo della vendita forzata (o di conguaglio delle cose assegnate), è destinata all’attribuzione al creditore, in pagamento di quanto spettante per capitale, interessi e spese. In presenza di concorso dei creditori, ognuno dei creditori può assumere l’iniziativa del processo esecutivo di espropriazione forzata, consentendosi agli altri di esercitare un 18

Non sono soggetti a pignoramento i beni destinati al culto e quelli inerenti alla dimensione esistenziale della persona, quali ad es. arredi essenziali dell’abitazione e strumenti indispensabili professionali (art. 514 c.p.c.). Su istanza del debitore o anche d’ufficio, quando il valore dei beni pignorati è superiore all’importo delle spese e dei crediti per i quali si procede, il giudice può disporre la riduzione del pignoramento (art. 496 c.p.c.). 19 In ossequio ai principi di correttezza e buona fede, il creditore che è stato soddisfatto deve rinunciare agli atti esecutivi, senza necessità di sollecitazione del debitore, entro un termine ragionevolmente contenuto, avuto riguardo allo stato della procedura pendente e ad eventuali motivi di urgenza a lui noti, sempre che l’esecutato non esiga espressamente un immediato deposito dell’atto di rinunzia (Cass. 21-11-2017, n. 27545). Per l’art. 2929 la nullità degli atti esecutivi che hanno preceduto la vendita o l’assegnazione non ha effetto riguardo all’acquirente o all’assegnatario, salvo il caso di collusione con il creditore procedente. In tema Cass. 20-10-2021, n. 29018; Cass. 10-12-2021, n. 39243. 20 Per le espropriazioni immobiliari una recente normativa, per velocizzare la procedura, incrementare la lista degli acquirenti e sbloccare le sofferenze bancarie, ha agevolato l’esecuzione con la delega a professionisti (notai, avvocati, commercialisti) delle operazioni di vendita (pubblicità, realizzazione della vendita e formalità di registrazione, trascrizione e voltura catastale) (art. 591 bis c.p.c.).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

intervento nel processo, sì da realizzare il principio (innanzi delineato) della parità di trattamento dei creditori. La somma ricavata dalla espropriazione è distribuita tra i creditori secondo i criteri previsti dalla legge, previa redazione di un piano di riparto: prima sono soddisfatti i creditori privilegiati (assistiti da cause legittime di prelazione, quali privilegio, pegno e ipoteca), secondo i criteri stabiliti dagli artt. 2745 ss. (fondamentale è all’uopo l’ordine dei privilegi: artt. 2777 ss.); sul residuo sono soddisfatti i creditori chirografari, secondo la regola della par condicio creditorum, con un criterio di proporzionalità (es. 1/3, 1/5, ecc.), per cui tutti i creditori chirografari sopportano la stessa riduzione proporzionale di soddisfacimento. Per favorire il soddisfacimento dei vari creditori è imposto al debitore esecutante l’obbligo di “avviso ai creditori iscritti” 21, avendo ogni creditore il diritto di “intervento” nella procedura e quindi di partecipare alla distribuzione 22. L’esigenza di efficienza della procedura esecutiva, comporta che l’intervento debba essere tempestivo e cioè compiuto secondo le scadenze legali, sicché l’intervento tardivo è di regola penalizzato sulla entità della distribuzione 23. Importante è che la procedura esecutiva sia sempre supportata da un titolo esecutivo, del creditore procedente o di uno dei creditori intervenuti 24. In presenza di cospicue debitorie si ricorre a procedure concorsuali, con il coinvolgimento di strutture pubbliche, con la finalità primaria di gestire e risanare la debitoria, prefigurando in subordine la liquidazione del patrimonio. Tipicamente sono le procedure di crisi di impresa operanti per le imprese commerciali, con il fine di salvataggio dell’impresa (D.Lgs. 14/2019) e le procedure per sovraindebitamento riferite non solo ai consumatori ma a vari soggetti economici di piccole dimensioni (L. 27.1.2012, n. 3). Di entrambe si parlerà in seguito (VII, 8).

B) MEZZI DI CONSERVAZIONE DELLA GARANZIA PATRIMONIALE 5. Generalità. – Affinché la responsabilità patrimoniale del debitore sia fruttuosa, come garanzia generale del credito, è necessario che il patrimonio del debitore non diminuisca lungo la vita del rapporto obbligatorio. Sono perciò apprestati specifici rimedi tendenti a conservare la consistenza del patrimonio del debitore nella misura necessaria 21 Per l’art. 498 c.p.c. debbono essere avvertiti dell’espropriazione i creditori che sui beni pignorati hanno un diritto di prelazione risultante da pubblici registri; a tale fine è notificato a ciascuno di essi, a cura del creditore pignorante ed entro cinque giorni dal pignoramento, un avviso contenente l’indicazione del creditore pignorante, del credito per il quale si procede, del titolo e delle cose pignorate; in mancanza della prova di tale notificazione, il giudice non può provvedere sull’istanza di assegnazione o di vendita. 22 Per l’art. 499 c.p.c. possono intervenire nell’esecuzione i creditori che nei confronti del debitore hanno un credito fondato su titolo esecutivo, nonché i creditori che, al momento del pignoramento, avevano eseguito un sequestro sui beni pignorati ovvero avevano un diritto di pegno o un diritto di prelazione risultante da pubblici registri ovvero erano titolari di un credito di denaro risultante dalle scritture contabili di cui all’art. 2214. 23 È intervento tardivo quello compiuto oltre l’udienza fissata per la vendita o l’assegnazione. I creditori tempestivi sono soddisfatti in ragione percentuale del credito vantato; mentre i creditori tardivi sono soddisfatti sull’eventuale residuo, dopo che i creditori tempestivi sono stati soddisfatti in toto. Tale regola procedurale è resa compatibile alla regola sostanziale dell’art. 2741 di favore per i creditori privilegiati. 24 La regola secondo cui il titolo esecutivo deve esistere dall’inizio alla fine della procedura va intesa nel senso della costante presenza di almeno un valido titolo esecutivo (sia pure dell’interventore) che giustifichi la perdurante efficacia dell’originario pignoramento (Cass., sez. un., 7-1-2014, n. 61).

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a soddisfare il creditore. Sono fissati tre “mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale”: azione surrogatoria, azione revocatoria e sequestro conservativo (artt. 2900 ss.), di seguito analizzati, esperibili quando ricorrono i presupposti previsti dalla legge; sono rivolti all’unico fine di apprestare al creditore una tutela preventiva, in vista della successiva esecuzione forzata. Sono rimedi strumentali alla realizzazione del credito: quando la garanzia del credito non è in pericolo non sono dunque esperibili. I mezzi in parola non hanno l’effetto di produrre un soddisfacimento immediato del creditore; l’esperimento degli stessi comporta il vantaggio mediato per il creditore della conservazione (salvaguardia o ricostituzione) del patrimonio del debitore, sul quale il creditore può successivamente soddisfarsi mediante l’azione esecutiva. Tutti i creditori hanno diritto di avvalersi di tali mezzi; ma in fatto sono essenzialmente i creditori chirografari (non assistiti da garanzie speciali) a essere interessati alla conservazione della garanzia, potendo i creditori assistiti da garanzie speciali far valere di regola il proprio diritto verso i terzi aventi causa. Per tale ragione (pratica funzionale) si svolge la trattazione dei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale dopo la responsabilità patrimoniale generica (artt. 2740 ss.), non seguendo il codice civile che la colloca dopo la disciplina delle cause legittime di prelazione (artt. 2745 ss).

6. Azione surrogatoria. – L’azione si appunta contro l’inerzia del debitore che non cura il proprio patrimonio. Il debitore oberato di debiti potrebbe non trovare più interesse oltre che stimoli a curare i propri diritti contro i terzi, essendo consapevole che gli eventuali risultati utili (di conservazione o di accrescimento del suo patrimonio) si risolverebbero solo in un incremento della garanzia dei creditori. Perciò è portato a trascurare di esercitare i propri diritti, così da far deperire il patrimonio o non facendo quanto è necessario perché si incrementi. L’ordinamento accorda al creditore la possibilità di sostituirsi al debitore nell’esercizio dei suoi diritti, con l’attribuzione appunto dell’azione surrogatoria, che tende a sopperire al mancato esercizio degli stessi, da cui derivi un pregiudizio del creditore. Per l’art. 29001 il creditore, per assicurarsi che siano soddisfatte o conservate le sue ragioni, “può esercitare i diritti e le azioni che spettano verso i terzi al proprio debitore e che questi trascura di esercitare, purché i diritti e le azioni abbiano contenuto patrimoniale” quando ricorrono determinati presupposti. a) Presupposto generale è la sussistenza di un pregiudizio della garanzia patrimoniale, quale presupposto comune a tutti i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale. b) Deve ricorrere l’inerzia del debitore nella cura dei propri interessi, indipendentemente dalle cause che possano determinarla (imputabili o meno al debitore). Non è sufficiente un simulacro di iniziativa (simbolico) per paralizzare l’azione surrogatoria: è necessario che il debitore curi diligentemente i suoi diritti 25. 25

Il mancato esercizio da parte del debitore di diritti ed azioni a lui spettanti non deve essere necessariamente ascrivibile a sua colpa (Cass. 23-6-1995, n. 7145). Il creditore non può però pretendere di sindacare le modalità di gestione della propria situazione giuridica nell’ambito del rapporto né contestare le scelte e l’idoneità delle manifestazioni di volontà poste in essere a produrre gli effetti riconosciuti dall’ordinamento, soccorrendo all’uopo altri strumenti di tutela, e, cioè, nel concorso dei relativi requisiti, l’azione revocatoria ovvero l’opposizione di terzo (Cass. 18-2-2000, n. 1867; Cass. 4-8-1997, n. 7187).

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c) Deve trattarsi di diritti ed azioni con contenuto patrimoniale in quanto solo diritti ed azioni a contenuto patrimoniale sono esercitabili da un soggetto diverso dal titolare 26. Non può il creditore surrogarsi in diritti ed azioni inerenti alla sfera personale del debitore o connessi ad una qualità personale dello stesso, quand’anche possa derivarne un vantaggio di carattere economico. Ad es., deve considerarsi personale la domanda di dichiarazione giudiziale della paternità o maternità, quand’anche dalla stessa consegua per il figlio la successione ereditaria verso il genitore (art. 269) 27. L’azione tende alla sostituzione del debitore in singoli atti non esercitati, non nell’esplicazione di un’attività che si connette ad una posizione complessa (es., l’esercizio di un’impresa o l’amministrazione di una società). d) Deve sussistere un pregiudizio della gar anzia patrimoniale , quale presupposto generale di tutti i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale 28. Il creditore può agire in surrogatoria del debitore sia in via stragiudiziale che attraverso la via giudiziale. Nel primo caso, si pensi ad es. alla richiesta di pagamento verso un debitore al fine di interrompere la prescrizione del diritto di credito; nel secondo caso, si pensi ad un’azione di risoluzione contrattuale per conseguire la restituzione del prezzo in assenza della consegna della cosa venduta. Comunque il creditore esercita in nome proprio un diritto o un’azione che appartiene ad altri 29. In assenza di previsione, è da ritenere che, del risultato dell’azione surrogatoria, si avvantaggino tutti i creditori e non solo quello o quelli che abbiano agito.

7. Azione revocatoria. Presupposti. – L’azione revocatoria (anche detta pauliana, dal nome del giureconsulto romano Paolo che la teorizzò) si appunta contro l’intervenuto depauperamento del patrimonio. È pratica diffusa che il debitore tenda a sottrarre beni dal patrimonio al fine di evitare che gli stessi siano aggrediti dai creditori. E ciò in genere fa ricorrendo a due strumenti: talvolta, simula un’alienazione a compiacenti acquirenti (si vedrà come il contratto simulato non produce effetto tra le parti, avendo effetto il contratto realmente voluto: art.   26

È ammissibile l’esercizio in via diretta dell’azione surrogatoria nella proposizione della domanda di riduzione delle disposizioni testamentarie lesive della quota di legittima, da parte dei creditori dei legittimari totalmente pretermessi che siano rimasti del tutto inerti (Cass. 20-6-2019, n. 16623). 27 Il diritto all’equa riparazione del danno non patrimoniale da irragionevole durata di un processo non può essere fatto valere in via surrogatoria, giacché l’esistenza di detto danno non può essere predicata in difetto di allegazione del danneggiato (Cass. 2-10-2017, n. 22975). La legge, poi, relativamente all’espropriazione mobiliare presso il debitore, considera molti beni assolutamente impignorabili (art. 514 c.p.c.) o relativamente impignorabili (art. 515 c.p.c.) ovvero pignorabili in particolari circostanze di tempo (art. 516 c.p.c.): ciò si traduce in altrettanti limiti all’esercizio dell’azione surrogatoria. 28 Il creditore che agisce in surroga del debitore, ex art. 2900, esercita il medesimo diritto che sarebbe spettato a quest’ultimo; pertanto, ove si tratti di diritto di fonte contrattuale, ed il debitore surrogato abbia pattuito con la controparte una deroga alla competenza per territorio dell’autorità giudiziaria, l’azione surrogatoria dovrà essere proposta dinanzi a tale foro convenzionale, anche nelle ipotesi di litisconsorzio necessario (Cass. 9-4-2008, n. 9314). 29 Quando agisce in giudizio, ricorre un’ipotesi di sostituzione processuale (art. 81 c.p.c.): il creditore deve citare in giudizio anche il debitore al quale intende surrogarsi (art. 29002). Inoltre, proprio in quanto sostituto processuale, si viene a trovare nella stessa posizione, processuale e sostanziale, del debitore surrogato, con la conseguenza che sono a lui applicabili tutti i limiti probatori inerenti la posizione del debitore sostituito (Cass. 23-1-2007, n. 1389; Cass. 26-3-2013, n. 7648).

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1414) (VIII, 3.13); talaltra, effettivamente aliena a terzi singoli beni, pur di ricavarne qualcosa: ed è questa l’ipotesi cui ha riguardo l’azione revocatoria. L’esperimento dell’azione revocatoria si svolge contro l’iniziativa di un debitore attivo: anzi il debitore è troppo attivo ovvero lo è in modo perverso, in quanto mira a ridurre la consistenza del patrimonio onde evitare l’espropriazione dei creditori. È questa l’azione revocatoria ordinaria: per l’art. 29011, “il creditore, anche se il credito è soggetto a condizione o a termine, può domandare che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione del patrimonio con i quali il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni”. Per intraprendere l’azione revocatoria 30 è sufficiente una ragione di credito. Non è necessario che il credito sia attuale e liquido 31, né è necessario che sia esigibile 32: è sufficiente che sia esistente, sebbene sottoposto a termine o condizione (art. 29011). Neppure è essenziale la certezza del diritto di credito, essendo sufficiente che possa essere eventuale, ivi comprendendovi anche quello litigioso 33; però la sentenza di revocatoria non è eseguibile verso il debitore fino a quando non si formi il titolo sulla esistenza del credito litigioso 34. Per il medesimo art. 2901 devono ricorrere specifiche “condizioni”, che si articolano in presupposti oggettivi e requisiti soggettivi del debitore ed eventualmente del creditore. a) Presupposti oggettivi. Rileva la consistenza del patrimonio del debitore. Anzitutto deve esistere un atto di disposizione del debitore depauperativo del suo patrimonio, quale un negozio traslativo (ad es. vendita, donazione, ecc.) o anche solo la costituzione di un diritto reale di godimento a favore di un terzo (es. costituzione di un 30 Il valore della causa relativa ad azione revocatoria si determina in base al credito vantato dall’attore, a tutela del quale viene proposta l’azione stessa (Cass. 13-2-2020, n. 3697). 31 Il fatto che il credito sia “liquido”, ossia determinato nel suo ammontare o facilmente liquidabile, non rileva neppure ai fini della sussistenza del “pregiudizio delle ragioni creditorie”, non richiedendosi un effettivo e attuale depauperamento del patrimonio del debitore, essendo sufficiente il pericolo che l’azione esecutiva possa rivelarsi infruttuosa (Cass. 2-4-2004, n. 6511). 32 Ad es., prestata fideiussione in relazione alle future obbligazioni del debitore principale connesse ad un’apertura di credito, l’insorgenza del credito va apprezzata con riferimento al momento dell’accreditamento e non a quello, eventualmente successivo, dell’effettivo prelievo da parte del debitore principale della somma messa a sua disposizione (Cass. 9-4-2009, n. 8680). 33 Il giudizio promosso con azione revocatoria non è soggetto a sospensione necessaria a norma dell’art. 295 c.p.c. per il caso di pendenza di controversia avente ad oggetto l’accertamento del credito, in quanto la definizione del giudizio sull’accertamento del credito non costituisce l’indispensabile antecedente logicogiuridico della pronuncia sulla domanda revocatoria, essendo da escludere la eventualità di un conflitto di giudicati (Cass., sez. un., 4-12-2004, n. 9440). Rileva una nozione lata di credito, comprensiva della ragione o aspettativa, con la conseguenza che anche il credito eventuale, in veste di credito litigioso, è idoneo a determinare l’insorgere della qualità di creditore abilitato all’esperimento dell’azione revocatoria (Cass. 19-2-2020, n. 4212; Cass. 19-2-2020, n. 3375; Cass. 13-9-2019, n. 22859; Cass. 5-3-2009, n. 5359). 34 Ai fini dell’esperibilità dell’azione revocatoria ordinaria non è necessario che il creditore sia titolare di un credito certo, liquido ed esigibile, bastando una semplice aspettativa che non si riveli prima facie pretestuosa e che possa valutarsi come probabile, anche se non definitivamente accertata; la sentenza dichiarativa dell’inefficacia dell’atto dispositivo nei confronti del creditore, a seguito dell’accoglimento della domanda di revocatoria, non costituisce titolo sufficiente per procedere a esecuzione nei confronti del terzo acquirente, essendo a tal fine necessario che il creditore disponga anche di un titolo sull’esistenza del credito, che può procurarsi soltanto nella causa relativa al credito e non anche in quella concernente esclusivamente la domanda revocatoria, nella quale la cognizione del giudice sul credito è meramente incidentale (Cass. 15-5-2018, n. 11755).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

diritto di usufrutto o di servitù) ovvero la costituzione di una garanzia (es. costituzione di pegno o ipoteca). È considerato pregiudizievole pure ogni atto di utilizzazione del patrimonio che comporti una riduzione del valore economico dello stesso: ad es., la locazione di un immobile a terzi, la costituzione di un trust 35 o anche di un fondo patrimoniale o di un vincolo di destinazione ex art. 2645 ter su propri beni (come appresso si vedrà). È ammessa la revocatoria anche dell’atto dispositivo del fideiussore 36 e in generale dell’obbligato solidale 37, come dell’atto di scissione societaria 38. Un problema si pone rispetto all’atto dispositivo preceduto da contratto preliminare circa la individuazione dell’oggetto della revocatoria: la giurisprudenza è orientata a considerare oggetto di revocatoria il contratto definitivo 39. Non è soggetto a revocatoria l’adempimento di un debito scaduto (art. 29013), in quanto tale passività è nel patrimonio del debitore e il relativo adempimento è un atto dovuto 40. Ulteriore presupposto, connesso a quello precedente, è il pregiudizio che l’atto dispositivo reca alle ragioni del creditore (c.d. eventus damni), quale condizione comune a tutti i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale 41: è sufficiente il pericolo di 35 L’inefficacia dell’atto istitutivo del trust, come prodotta dall’esito vittorioso di un’azione revocatoria, reca con sé pure l’inefficacia dell’atto dispositivo di attribuzione e cioè l’intestazione al trustee del bene conferito in trust (Cass. 15-10-2019, n. 25926; Cass. 29-5-2018, n. 13388; Cass. 3-8-2017, n. 19376). 36 Gli atti dispositivi del fideiussore successivi all’apertura di credito e alla prestazione della fideiussione sono soggetti all’azione revocatoria ex art. 2901, n. 1, in base alla mera consapevolezza del fideiussore (e, in caso di atto a titolo oneroso, del terzo) di arrecare pregiudizio alle ragioni del creditore (scientia damni), e al solo fattore oggettivo dell’avvenuto accreditamento, non rilevando l’effettivo prelievo da parte del debitore principale della somma messa a sua disposizione (Cass. 1-4-2022, n. 10594). 37 Qualora uno solo tra più coobbligati solidali compia atti di disposizione del proprio patrimonio, è facoltà del creditore promuovere l’azione revocatoria nei suoi confronti ex art. 2901, ricorrendone i presupposti, a nulla rilevando che i patrimoni degli altri coobbligati siano singolarmente sufficienti a garantire l’adempimento (nella specie vi era costituzione di fondo patrimoniale) (App. Torino 18-11-2020, n. 1132). 38 La revocatoria ordinaria dell’atto di scissione societaria deve ritenersi sempre esperibile, in quanto mira ad ottenere l’inefficacia relativa dell’atto, che lo rende inopponibile al solo creditore pregiudicato, al contrario di ciò che si verifica nell’opposizione dei creditori sociali prevista dall’art. 2503 c.c., finalizzata, viceversa, a farne valere l’invalidità (Cass. 6-5-2021, n. 12047). 39 La giurisprudenza esclude che il contratto preliminare possa essere oggetto di revocatoria, in quanto, essendo privo di effetti traslativi, non rientra nella tassonomia degli atti di disposizione oggetto dell’azione di cui all’art. 2901 c.c., ma ammette che la revocatoria investa il contratto definitivo, anche se atto compiuto in adempimento di un obbligo preesistente, a condizione che al momento della stipulazione del contratto preliminare ricorressero gli stati soggettivi a tal fine rilevanti, poiché è in quel momento che si forma la volontà di disporre, sebbene l’effetto non sia ancora prodotto (Cass. 18-2-2020, n. 4010; Cass. 26-6-2019, n. 17067). V. anche Cass. 27-6-2018, n. 16869; Cass. 12-6-2018, n. 15215. 40 La irrevocabilità si estende agli atti coi quali il debitore abbia disposto di propri beni per procacciarsi la liquidità necessaria all’adempimento di un proprio debito, a nulla rilevando che il ricavato della vendita ecceda l’importo del debito scaduto, quando sia dimostrato che l’alienazione costituiva l’unico mezzo al quale il debitore, privo di altre risorse, poteva far ricorso per procurarsi il denaro (Cass. 13-5-2009, n. 11051). Tale disposizione non si applica nel caso di concessione di ipoteca per debito già scaduto, atteso che si tratta di un negozio di disposizione patrimoniale che, essendo fondato sulla libera determinazione del debitore, è aggredibile con azione revocatoria ex artt. 1901 e 1902 (Cass. 22-1-2020, n. 1414). 41 Al fine della revocatoria è sufficiente il pregiudizio del creditore di soddisfarsi sui beni dello stesso, non esigendosi anche l’impossibilità o la difficoltà di conseguire aliunde la prestazione, anche ricorrendo in ipotesi di solidarietà passiva (Cass. 31-5-2007, n. 12770).

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compromissione della garanzia patrimoniale. Per la giurisprudenza il debitore deve mantenere l’originario stato di fruttuosità e agevolezza dell’azione esecutiva sul patrimonio 42. Non ogni atto dispositivo è dunque soggetto a revocatoria, ma solo quello che riduce la consistenza o la qualità del patrimonio in una misura da compromettere il soddisfacimento del creditore, così da rendere più gravoso e difficile la realizzazione coattiva del credito (ad es., se il credito è di 100 e il patrimonio del debitore vale 1000, non può essere revocato l’atto di disposizione di un bene che vale 100, risultando la capienza di 900 per il soddisfacimento del creditore). Se del resto non fosse così ogni debitore resterebbe privato del potere di disposizione del suo patrimonio. Il debitore conserva il normale potere di disposizione dei suoi diritti, incontrando il suo esercizio il limite della salvaguardia della garanzia del credito: il creditore ha l’onere di provare la compromissione della garanzia patrimoniale; il debitore è tenuto a provare la sufficienza del patrimonio residuo a soddisfare le ragioni del creditore 43. b) Requisiti soggettivi. Rileva lo stato soggettivo sia del debitore che del terzo. Quanto al debitore, tratto minimo ed essenziale è la consapevolezza del pregiudizio che l’atto dispositivo arreca alle ragioni del creditore, diminuendo la garanzia patrimoniale del credito (c.d. scientia damni) 44: tale dato è sufficiente quando l’atto dispositivo (come normalmente accade) è successivo alla nascita del debito, tendendo ad evitare l’escussione del bene. Se invece l’atto dispositivo è precedente al sorgere del credito, è richiesta la dolosa preordinazione dell’atto dispositivo al fine di pregiudicare il soddisfacimento del successivo creditore (c.d. consilium fraudis). Quanto al terzo, risulta determinante la natura dell’atto dispositivo. Per gli atti a titolo oneroso, è sufficiente che il terzo conoscesse il pregiudizio che l’atto dispositivo arrecava alle ragioni del creditore: avesse cioè consapevolezza del pregiudizio (c.d. scientia damni) 45. Se però l’atto dispositivo è anteriore al sorgere del credito, il terzo deve essere partecipe della dolosa preordinazione (c.d. participatio fraudis). Lo stato soggettivo del terzo può ricavarsi anche da presunzioni semplici come ad es. i rapporti di parentela 46. Per le organizzazioni collettive si ha riguardo allo stato soggettivo delle persone fisiche che le rappresentano, secondo il principio dell’art. 1391 (applicabile anche 42 Il presupposto oggettivo dell’azione revocatoria ordinaria ricorre anche quando l’atto dispositivo determini una variazione quantitativa o anche soltanto qualitativa del patrimonio che comporti una maggiore incertezza o difficoltà nel soddisfacimento del credito (ad es. con la conversione del patrimonio in beni facilmente occultabili o in una prestazione di facere infungibile, come nel caso di cessione di beni immobili per la costituzione di un vitalizio) (Cass. 9-11-2021, n. 32835; Cass. 18-6-2019, n. 16221). 43 È principio consolidato: Cass. 25-9-2019, n. 23907; Cass. 9-2-2012, n. 1896. In presenza di più negozi collegati compiuti dal debitore, il creditore può rivolgere la propria impugnativa contro quello più significativo economicamente o che meglio rilevi gli elementi della frode (Cass. 25-7-2013, n. 18034). 44 Qualora l’alienante sia una società, il requisito della scientia damni va accertato avendo riguardo all’atteggiamento psichico della (o delle) persone fisiche che la rappresentano, ai sensi del principio stabilito dall’art. 1391, applicabile all’attività delle persone giuridiche (Cass. 9-4-2009, n. 8735). 45 La posizione del terzo, sotto il profilo soggettivo, va equiparata a quella del debitore (Cass. 12-2-2020, n. 3375). Sia con riferimento all’elemento soggettivo del debitore che a quello del terzo negli atti a titolo oneroso, alla consapevolezza è equiparata l’agevole conoscibilità (Cass. 19-5-2006, n. 11763). 46 La prova della participatio fraudis del terzo può essere ricavata anche da presunzioni semplici, compreso un vincolo parentale tra il debitore e il terzo, quando renda estremamente inverosimile che il terzo non conoscesse della situazione debitoria gravante sul disponente (Cass. 6-6-2014, n. 12836).

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alle persone giuridiche) 47. Un atteggiamento articolato opera per i trasferimenti a società 48 e i conferimenti in natura alla stessa 49. Per gli atti a titolo gratuito è irrilevante lo stato soggettivo del terzo 50. Non sempre riesce nitida la distinzione tra onerosità e gratuità. Si pensi agli atti dispositivi compiuti da un coniuge all’altro nella regolamentazione dei rapporti in occasione della crisi familiare: la coerenza o meno dell’atto dispositivo al contesto familiare rileva al fine della determinazione della natura del titolo, qualificandosi onerosa l’attribuzione funzionale all’assolvimento del dovere di mantenimento e alla perequazione delle pozioni dei partner, e gratuita l’attribuzione che ne esorbita atteggiandosi come mera liberalità 51. Vi è invece gratuità nella costituzione del fondo patrimoniale 52 e nella costituzione di vincolo di destinazione ex art. 2645 ter 53. 47 La consapevolezza dell’amministratore o comunque del rappresentante di una società circa il pregiudizio dell’acquisto ai creditori del venditore si comunica alla società, esponendo l’atto di acquisto a revoca da parte del creditore (Cass. 4-7-2006, n. 15265). In ipotesi di conferimento di beni, l’elemento psicologico della fattispecie revocatoria deve essere accertato con riguardo ai soci quando, nella fase costitutiva della società, la stessa ancora non abbia acquisito la soggettività giuridica, né sia dotata di un rappresentante legale, mentre, laddove l’organo gestorio sia contestualmente nominato, ne è, invece, sufficiente la ravvisabilità in capo a quest’ultimo ex art. 1391 (Cass. 22-10-2013, n. 23891). 48 È indirizzo consolidato che l’unico necessario e legittimo contraddittore della domanda volta a rendere inefficace un atto di trasferimento in favore di una società, sia di persone che di capitali, è la medesima società, e non i singoli soci, salvo l’interesse di questi ultimi all’intervento adesivo ex art. 1052 c.p.c., ferma restando la necessità di accertare l’elemento psicologico della scientia damni o del consilium fraudis in capo al legale rappresentante o ai soci (Cass. 7-9-2020, n. 18597; Cass. 6-11-2014, n. 23685). 49 In ipotesi di azione ex art. 2901 avente ad oggetto un negozio di conferimento (artt. 2254 e 2342), l’elemento psicologico della fattispecie revocatoria deve essere accertato con riguardo ai soci quando, nella fase costitutiva della società, la stessa ancora non abbia acquisito la soggettività giuridica, né sia dotata di un rappresentante legale, mentre, laddove l’organo gestorio sia contestualmente nominato, ne è, invece, sufficiente la ravvisabilità in capo a quest’ultimo ex art. 1391 (Cass. 22-10-2013, n. 23891). 50 È ammessa l’impugnazione della rinuncia ereditaria ex art. 524: ove dimostrata da parte del creditore impugnante l’idoneità della rinuncia a recare pregiudizio alle sue ragioni, grava sul debitore provare che, nonostante la rinuncia, il suo residuo patrimonio è in grado di soddisfare il credito dell’attore (Cass. 4-3-2020, n. 5994). 51 La qualificazione dell’atto come oneroso o gratuito discende dalla verifica, in concreto, se lo stesso si inserisca, o meno, nell’ambito di una più ampia sistemazione “solutorio-compensativa” di tutti i rapporti aventi riflessi patrimoniali, maturati nel corso della quotidiana convivenza matrimoniale (Cass. 15-4-2019, n. 10443; Cass. 4-7-2019, n. 17908). La valutazione di sussistenza dei requisiti della revoca va compiuta “con riferimento sia ai preliminari accordi di separazione, sia al contratto definitivo di trasferimento immobiliare”, venendo nella specie in considerazione “non già la sussistenza dell’obbligo di mantenimento in sé, di fonte legale, ma la concreta modalità del suo assolvimento” (Cass. 13-5-2008, n. 11914; Cass. 12-4-2006, n. 8516). 52 La costituzione di fondo patrimoniale successiva all’assunzione del debito integra un atto a titolo gratuito per non comportare una corrispettiva attribuzione a favore dei costituenti (Cass. 3-8.2017, n. 19376; Cass. 3-8-2017, n. 19330). È sufficiente la semplice consapevolezza del debitore di arrecare pregiudizio agli interessi del creditore (c.d. scientia damni) ovvero la previsione di un mero danno potenziale (Cass. 29-11-2019, n. 31227). Nel giudizio di revocatoria la legittimazione passiva è di entrambi i coniugi, anche se l’atto costitutivo è stipulato da uno solo di essi (Cass. 22-2-2022, n. 5768). 53 L’atto di destinazione di un bene ex art. 2645 ter c.c., costituisce, di regola, un negozio unilaterale e a titolo gratuito, in quanto di per sé determina un sacrificio patrimoniale da parte del disponente, che non trova contropartita in una attribuzione in suo favore; esso resta tale anche se, nel contesto di un atto pubblico dal contenuto più ampio, ciascuno dei beneficiari del vincolo abbia a sua volta destinato propri beni in favore delle esigenze di tutti gli altri – risultando in tal caso i diversi negozi di destinazione solo occasionalmente contenuti nel medesimo atto pubblico notarile –, salvo che risulti diversamente, sulla base di una puntuale ricostruzione del contenuto effettivo della volontà delle parti e della causa concreta del complessivo negozio dalle stesse posto in essere (Cass. 13-2-2020, n. 3697).

CAP. 5 – GARANZIE DEL CREDITO E RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE

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Le prestazioni di garanzia, anche per debiti altrui, sono considerate atti a titolo oneroso quando sono contestuali al credito garantito (art. 29012); con ciò intendendosi che le garanzie costituite successivamente alla nascita del credito devono considerarsi a titolo gratuito. Potrebbe anche avvenire che una garanzia sia prestata successivamente alla costituzione del rapporto obbligatorio per conseguire una dilazione del termine di pagamento: la legge, per evitare facili aggiramenti della garanzia del credito, ha considerato a titolo oneroso solo le garanzie costituite contestualmente alla nascita del credito. La diversificata rilevanza dello stato soggettivo del terzo ha una tradizionale giustificazione. Se l’atto è a titolo gratuito, nel conflitto tra il creditore che cerca di evitare il pregiudizio (qui certat de damno vitando) e il terzo che cerca di conseguire un vantaggio (qui certat de lucro captando), è preferito il creditore che cerca di evitare un danno: l’atto dispositivo è senz’altro revocabile anche se il terzo non conosceva il pregiudizio che l’atto avrebbe arrecato al creditore. Se l’atto è a titolo oneroso, sia il creditore che il terzo tendono ad evitare un danno: il creditore mira a conservare la garanzia del credito, il terzo mira a salvare l’operazione economica e dunque la controprestazione versata; il creditore è protetto (e quindi l’atto è revocabile) solo se il terzo era a conoscenza del pregiudizio: il terzo è cioè tutelato se ha acquistato a titolo oneroso e in buona fede. In realtà, con riguardo agli atti a titolo oneroso, la tutela del creditore e la tutela del terzo esprimono interessi omogenei in quanto entrambi connessi all’esplicazione della economia di mercato. La soluzione del conflitto tra creditore e terzo diviene comprensibile se riguardata nella prospettiva dei fasci di interessi coinvolti. La tutela preferenziale della buona fede del terzo che ha compiuto una operazione economica senza conoscere il pregiudizio del creditore si giustifica con l’esigenza di proteggere la circolazione giuridica dei beni, quale meccanismo essenziale di un’economia di mercato: in tal senso esprime un’esigenza generale dell’attività economica cui è connaturata la stessa leva del credito. La tutela del terzo, riguardata nella generale prospettiva della salvaguardia dell’attività economica, protegge un interesse omogeneo a quello di cui è portatore il creditore: la garanzia del credito postula sicurezza del traffico giuridico. Profilo delicato dell’azione revocatoria è il regime della prova dei requisiti soggettivi. Poiché è principio generale dell’ordinamento che la buona fede è presunta, salvo prova contraria (es. art. 1147), incombe sul creditore che agisce in revocatoria l’onere di provare, non solo i presupposti oggettivi della revocatoria, ma anche lo stato soggettivo del debitore e del terzo (che è opera non agevole). La giurisprudenza tende a mitigare la difficoltà della prova ammettendo il ricorso a presunzioni 54. L’esigenza di certezza del traffico giuridico è anche a fondamento della disciplina della prescrizione: l’azione revocatoria è soggetta al termine di prescrizione breve di cinque anni dalla data dell’atto dispositivo (art. 2903), in deroga alla regola generale della prescrizione decennale. Per il fondamentale principio che la prescrizione decorre dal 54 È principio consolidato che la prova dello stato soggettivo possa essere fornita anche mediante presunzioni semplici (cfr. Cass. 22-11-2018, n. 30188). Tra le più ricorrenti ammesse, la qualità delle parti del negozio fraudolento, il grado di parentela delle stesse, la tempistica degli atti, le modalità della vendita, la modicità del prezzo e la non contestualità del pagamento, la capacità economica dell’acquirente (derivante anche dalle dichiarazioni dei redditi), l’alienazione contestuale di una pluralità di beni, l’immediatezza della trascrizione dell’atto dispositivo, la permanenza dell’alienante nel godimento del cespite alienato (tra le tante (Cass. 9-4-2009, n. 8735; Cass. 5-3-2009, n. 5359; Cass. 6-4-2005, n. 7104).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

giorno in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935) (II, 4.9), il termine decorre dalla data di conoscenza (tipicamente pubblicità) dell’atto dispositivo 55.

8. Segue. Effetti della revocatoria. – L’anomalia dell’atto soggetto a revocatoria non attiene alla sua struttura ma ad una circostanza estranea all’atto: il medesimo atto dispositivo è revocabile o meno a seconda della consistenza del patrimonio del debitore e dunque del pregiudizio o meno della garanzia del credito. Ne consegue che l’atto dispositivo soggetto a revocatoria è valido (quando è validamente formato): la revocatoria non è un’azione di invalidità (nullità o annullabilità), ma solo di impugnazione dell’atto per una circostanza estranea alla sua formazione. L’azione revocatoria non travolge l’atto di disposizione del debitore, con l’inefficacia assoluta dello stesso: l’esperimento vittorioso dell’azione determina semplicemente la inefficacia dell’atto dispositivo nei confronti del creditore che agisce in revocatoria (c.d. inefficacia relativa), al fine di consentirgli di esercitare sul bene oggetto dell’atto dispositivo la tutela coattiva del credito. L’atto dispositivo non è opponibile al creditore, il quale, ottenuta la revoca dell’atto, può promuovere nei confronti del terzo acquirente le azioni esecutive sui beni oggetto dell’atto impugnato (art. 29021) 56 e soddisfarsi sul ricavato. Eseguita la espropriazione con la conversione in danaro dei beni alienati, dopo la soddisfazione del creditore sul ricavato, tutto quanto residua resta nel patrimonio del terzo, che ha validamente acquistato il bene oggetto di revocatoria. Il terzo che ha ragioni di credito verso il debitore in dipendenza dell’azione revocatoria subita (e della realizzazione coattiva del credito), non può peraltro concorrere sul ricavato dei beni oggetto dell’atto revocato se non dopo che il creditore è stato soddisfatto (art. 29022). Il terzo ha azione di danni nei confronti del debitore alienante per quanto non è riuscito a soddisfarsi sul residuo dell’espropriazione, rimasto a suo favore. Ad evitare facili elusioni a danno del creditore è accordata allo stesso tutela anche verso i subacquirenti dal terzo, secondo i medesimi criteri che presiedono l’esercizio dell’azione revocatoria. Per l’art. 29014 la revoca dell’atto dispositivo (cioè l’inefficacia relativa dell’atto) “non pregiudica i diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di revocazione”. Anche ora dunque la sentenza che accoglie la domanda di revocatoria è sempre opponibile al terzo (subacquirente) avente causa a titolo gratuito; mentre è opponibile al terzo (subacquirente) avente causa a titolo oneroso solo se risulti essere a conoscenza del pregiudizio arrecato dall’atto dispositivo alle ragioni del creditore. Con riguardo agli atti dispositivi di beni immobili (e mobili registrati), strumento essenziale di soluzione dei conflitti tra il creditore e i terzi è la pubblicità. La sentenza che accoglie la domanda di revoca non pregiudica i diritti acquistati a titolo oneroso dai 55 La prescrizione decorre dal giorno in cui dell’atto è stata data pubblicità ai terzi, essendo solo da questo momento, infatti, che il diritto può essere fatto valere e la inerzia del titolare protratta nel tempo assume effetto estintivo (Cass. 15-5-2018, n. 11758; Cass. 23-9-2021, n. 25855). 56 È la sentenza di revocazione la fonte della inefficacia relativa dell’atto dispositivo e che dunque legittima il creditore al successivo esperimento dell’azioni esecutiva nei confronti del terzo acquirente, con riguardo al bene oggetto dell’atto revocato (Cass. 27-5-2011, n. 11858; Cass. 13972/2007).

CAP. 5 – GARANZIE DEL CREDITO E RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE

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terzi di buona fede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda di revoca (art. 26521, n. 5) 57. L’art. 2904 fa salve le disposizioni sull’azione revocatoria in materia fallimentare (ora liquidazione giudiziale) e in materia penale (artt. 192 ss. c.p.), per essere la prima esperita dal curatore, nella procedura concorsuale, a tutela della massa dei creditori (VIII, 8.3), ed essere la seconda esperita con finalità sanzionatorie 58.

9. Sequestro conservativo. – Il rimedio si appunta contro il pericolo di depauperamento del patrimonio. Il bersaglio del rimedio non è un comportamento del debitore (l’inerzia che giustifica la surrogatoria o il depauperamento che consente la revocatoria), ma il dato oggettivo del pericolo in sé di perdere la garanzia patrimoniale. Ad evitare che il debitore possa disfarsi del suo patrimonio, così frustando la garanzia del credito, “il creditore può chiedere il sequestro conservativo dei beni del debitore secondo le regole del cod. proc. civ.” (art. 29051); “il sequestro può essere chiesto anche nei confronti del terzo acquirente dei beni del debitore, qualora sia stata proposta l’azione per far dichiarare l’inefficacia dell’alienazione” (art. 29052). Per l’art. 671 c.p.c. “il giudice, su istanza del creditore che ha fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito, può autorizzare il sequestro conservativo dei beni mobili o immobili del debitore o delle somme e cose a lui dovute, nei limiti in cui la legge ne permette il pignoramento” 59. Trattasi dunque di un rimedio con funzione cautelare, finalizzato alla conservazione della garanzia patrimoniale prima della sua compromissione: più specificamente è una misura cautelare rispetto all’espletamento del giudizio di merito, allorché lo stesso si concluda con una sentenza di condanna del debitore (sì da consentire di esercitare l’azione esecutiva sui beni dello stesso). Devono ricorrere due presupposti. Anzitutto la ragionevole fondatezza del diritto vantato dal creditore (c.d. fumus boni iuris) 60. Ciò al fine di evitare facili abusi e la ingiustificata indisponibilità del patrimonio del debitore, anche se l’accertamento definitivo del credito conseguirà all’esito del giudizio di merito. 57 Nel caso di successive alienazioni dello stesso immobile, la prescrizione della seconda azione è interrotta dalla prescrizione della prima quando la domanda originaria sia stata trascritta anteriormente alla seconda vendita (Cass. 4-8-2016, n. 16293). L’interesse del creditore ad agire in revocatoria non viene meno per il fatto che il bene oggetto dell’atto dispositivo sia rientrato nel patrimonio del debitore, perché altrimenti potrebbe essere pregiudicata l’efficacia di prenotazione costituita dalla trascrizione della domanda giudiziale di revoca, ai sensi dell’art. 2652, n. 5 (Cass. 16-11-2020, n. 25862). 58 Le disposizioni della revocatoria penale sono inquadrate tra le sanzioni civili sotto gli artt. 185 ss. c.p. In particolare gli atti a titolo gratuito, compiuti dal colpevole dopo il reato, non hanno efficacia rispetto ai crediti indicati nell’art. 189 (art. 192 c.p.): si è anzi ammessa la revocatoria penale ex art. 192 c.p. del fondo patrimoniale di fronte al giudice civile anche se la pena è patteggiata (Cass. 31-10-2014, n. 23158). Gli atti a titolo oneroso, eccedenti la semplice amministrazione ovvero la gestione dell’ordinario commercio, compiuti dal colpevole dopo il reato, si presumono fatti in frode rispetto ai crediti indicati nell’art. 189, in presenza della prova della mala fede dell’altro contraente (art. 193 c.p.). 59 Il D.Lgs. 26.10.2020, n. 152 fissa l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del Reg. UE/655/2015 che istituisce una procedura per l’ordinanza europea di sequestro conservativo sui conti bancari al fine di facilitare il recupero transfrontaliero dei crediti civili e commerciali. 60 È sufficiente che il credito sia attuale, anche se non esigibile (Cass. 28-1-1994, n. 864).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

Inoltre il fondato timore di perdere la garanzia patrimoniale per il tempo necessario all’espletamento del giudizio di merito, che (come è noto) può durare anche più anni (c.d. periculum in mora) 61. Rilevano a tal fine, sia la consistenza patrimoniale del debitore in rapporto all’entità del credito, sia il comportamento del debitore che lascia fondatamente temere atti di depauperamento del suo patrimonio sottraendolo all’esecuzione forzata. Possono formare oggetto del sequestro sia le cose (mobili o immobili) di proprietà del debitore che le cose e le somme di danaro oggetto di un suo diritto di credito; come possono formare oggetto di sequestro le partecipazioni sociali 62. Per i beni (immobili e mobili registrati) per i quali operano registri di pubblicità, il sequestro va formalizzato in tali registri 63. È possibile chiedere il sequestro prima del giudizio di merito (art. 669 ter c.p.c.) o nel corso dello stesso (art. 669 quater c.p.c.). Il sequestro conservativo si converte in pignoramento nel momento in cui il creditore sequestrante ottiene sentenza di condanna esecutiva (art. 686 c.p.c.) 64. Con il sequestro si realizza un vincolo di indisponibilità dei beni sequestrati, secondo le regole stabilite per il pignoramento (artt. 2913 ss.): effetto fondamentale del sequestro è che non hanno effetto relativamente al creditore sequestrante le alienazioni e gli altri atti che hanno per oggetto la cosa sequestrata (art. 29061) (c.d. inefficacia relativa). Gli atti di alienazione compiuti dal debitore sono validi, ma inopponibili al creditore, il quale ha diritto di sottoporre ad esecuzione i beni alienati e soddisfarsi coattivamente delle proprie ragioni. Ulteriore conseguenza è che il creditore ha il diritto di opporsi al pagamento del debitore ad un terzo: quando l’opposizione è stata proposta nei casi e con le forme stabilite dalla legge, il pagamento eseguito dal debitore non ha effetto in pregiudizio del creditore opponente (art. 29062). Il creditore conserva il diritto all’azione revocatoria 65. 61 È rilevante il rapporto di proporzione, quantitativo e qualitativo, tra patrimonio del debitore e presunto ammontare del credito da tutelare. In tale valutazione è necessario verificare che tale garanzia permanga fino al momento in cui potrebbero realizzarsi le condizioni per il soddisfacimento coattivo del credito stesso (Cass. 29-10-2001, n. 13400). 62 Anche le quote di partecipazione di una società di persone che per disposizione dell’atto costitutivo siano trasferibili con il (solo) consenso del cedente e del cessionario, salvo il diritto di prelazione degli altri soci, possono essere sottoposte a sequestro conservativo ed essere espropriate a beneficio dei creditori particolari del socio anche prima dello scioglimento della società (Cass. 7-11-2002, n. 15605). 63 Il sequestro conservativo sui mobili e sui crediti si esegue nelle forme del pignoramento presso il debitore o presso il terzo (art. 678); il debitore è privato della disponibilità materiale delle cose mobili, che sono affidate ad un custode (tale può essere lo stesso debitore, con le relative responsabilità) (artt. 520 e 559 c.p.c.). Il sequestro sugli immobili si esegue con la trascrizione del provvedimento presso l’ufficio del conservatore dei registri immobiliari del luogo in cui i beni sono situati (art. 6791 c.p.c.); la trascrizione conserva il suo effetto per venti anni dalla sua data e cessa ipso jure se la trascrizione non è rinnovata prima che scada il detto termine (artt. 2668 bis e 2668 ter). Analogamente, per i beni mobili registrati, è richiesta la trascrizione del provvedimento di sequestro negli specifici registri (art. 2693). 64 Il pignoramento derivante dalla conversione di sequestro conservativo (art. 686 c.p.c.) non retroagisce, quanto ai suoi effetti, al momento della concessione della misura cautelare (Cass. 7-1-2016, n. 54). 65 L’azione revocatoria consente di ottenere una tutela non equivalente e tendenzialmente più ampia rispetto a quella assicurata dal sequestro, in quanto ha ad oggetto l’intero immobile, senza soffrire dei limiti derivanti dall’importo fino a concorrenza del quale sia stata autorizzata la misura cautelare, esclude il concorso con gli altri creditori (che si realizza, invece, per effetto della conversione del sequestro in pignoramento), e non è condizionata dagli esiti del giudizio di merito sulla sussistenza del diritto cautelato (Cass. 29-9-2017, n. 22835).

CAP. 5 – GARANZIE DEL CREDITO E RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE

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Figure diverse sono il sequestro giudiziario e il sequestro convenzionale, entrambe correlate alla presenza di una controversia tra le parti 66.

C) MECCANISMI INDIRETTI DI GARANZIA 10. Generalità. – Il sistema di tutela del credito, attraverso i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale e la successiva esecuzione coattiva, è di lunga durata, oltre che essere dispendioso (il creditore è tenuto ad anticipare le somme necessarie all’esecuzione, anche se le spese della procedura gravano sui beni). Si tende dunque a preservare il soddisfacimento del credito attraverso meccanismi alternativi correlati allo svolgimento del rapporto obbligatorio, in grado di conservare la garanzia patrimoniale con minori spese e più agevolmente. Sono meccanismi indiretti di presidio della responsabilità patrimoniale del debitore su base non giudiziaria, in quanto assunti concordemente tra creditore e debitore o rimessi alla iniziativa del creditore. Nella prima direzione, si collocano la cessione dei beni ai creditori e l’anticresi; nella seconda, i singoli rimedi di autotutela. 11. Cessione dei beni ai creditori. – Per l’art. 1977 la cessione dei beni ai creditori (c.d. cessio bonorum) è “il contratto col quale il debitore incarica i suoi creditori o alcuni di essi di liquidare tutte o alcune sue attività e di ripartirne tra loro il ricavato in soddisfacimento dei loro crediti” 67. Con tale contratto dunque i creditori vengono incaricati dal debitore di alienare i beni oggetto della cessione, soddisfacendosi sul ricavato. Il contratto richiede la forma scritta a pena di nullità (art. 1978) ed è soggetto a trascrizione se comprende beni immobili (art. 2649) (XIV, 2.7). Nonostante il termine “cessione” impiegato, non è trasferita ai creditori la proprietà o la titolarità di altre attività, che rimangono in capo al debitore. Secondo una tradizionale opinione, trattasi di c.d. “cessioni liquidative”, cioè di mandato a liquidare i beni, conferito nell’interesse anche dei creditori cessionari (in rem propriam), riconducibile allo schema del mandato nell’interesse altrui (art. 17232). I creditori cessionari sono autorizzati a liquidare i beni ceduti, convertendoli in danaro in grado di soddisfare i crediti vantati: ai creditori cessionari, nel quadro della liquidazione, spetta l’amministrazione dei beni ceduti, la tutela giudiziaria relativamente a tali beni, il potere di alienazione degli stessi nel loro interesse, il riparto del ricavato dall’alienazione (art. 1979). In sostanza i cessionari amministrano e dispongono dei beni nell’interesse del 66 Il s e q u e s t r o g i u d i z i a r i o è disposto con provvedimento del giudice e ha una funzione di conservazione rispetto all’espletamento di un giudizio. Ha ad oggetto: 1) beni mobili o immobili, aziende o altre universalità di beni, quando ne è controversa la proprietà o il possesso, ed è opportuno provvedere alla loro custodia o alla loro gestione temporanea; 2) libri, registri, documenti, modelli, campioni e di ogni altra cosa da cui si pretende desumere elementi di prova, quando è controverso il diritto alla esibizione o alla comunicazione, ed è opportuno provvedere alla loro custodia temporanea (art. 670 c.p.c.). Il s e q u e s t r o c o n v e n z i o n a l e è il contratto con il quale due o più soggetti affidano ad un terzo un bene rispetto al quale sia nata controversia, perché lo custodisca e lo restituisca a colui al quale spetterà dopo la definizione della controversia (art. 1798). 67 Secondo Cass. 24-10-2003, n. 16013, è legittimamente apponibile un termine finale di efficacia alla cessione, essendo regola generale che le parti possono sempre limitare nel tempo l’efficacia del contratto.

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

debitore; con la liquidazione dei beni la titolarità dei diritti si trasferisce direttamente dal debitore ai terzi acquirenti 68. La figura è caratterizzata dalla costituzione di un vincolo di indisponibilità sui beni ceduti: “il debitore non può disporre dei beni ceduti” (art. 19801) 69. È proprio l’instaurazione di tale divieto di alienazione a giustificare la previsione di trascrizione del contratto di cessione quando ha per oggetto beni immobili, al fine di tutelare i terzi che possano avere acquistato diritti sul bene prima del contratto di cessione 70. Il vincolo non è opponibile ai creditori anteriori alla cessione che ad essa non hanno partecipato, i quali possono agire esecutivamente anche sui beni ceduti (art. 19802). Il debitore ha il diritto di controllare la gestione compiuta dai creditori e di averne il rendiconto alla fine della liquidazione o alla fine di ogni anno se la gestione dura più di un anno (art. 1983). Inoltre può sempre recedere dal contratto offrendo il pagamento del capitale e degli interessi ai cessionari e agli aderenti e rimborsando le spese della gestione, con effetto dal giorno del pagamento (art. 1985). I cessionari hanno diritto di chiedere l’annullamento del contratto se il debitore, dichiarando di cedere tutti i suoi beni, ha dissimulato parte notevole degli stessi, ovvero ha occultato passività o ha simulato passività inesistenti (art. 19861). La cessione può essere risoluta per inadempimento, secondo le regole generali (art. 19862). Nel riparto delle somme ricavate dalla liquidazione i creditori sono soddisfatti in proporzione dei rispettivi crediti, salve le cause di prelazione (art. 1982). Non avendo il debitore perduto la titolarità dei diritti ceduti, dopo il soddisfacimento dei creditori cessionari e di quelli che hanno aderito alla cessione, il residuo spetta al debitore. Salvo patto contrario, il debitore è liberato verso i creditori dal giorno in cui essi ricevono la parte loro spettante sul ricavato della liquidazione, e nei limiti di quanto hanno ricevuto (art. 1984). Applicazioni sono in sede di concordato preventivo e provengono dalle recenti procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento, con la procedura di liquidazione del patrimonio (VII, 8.4).

12. Anticresi. – Per l’art. 1960 l’anticresi è “il contratto col quale il debitore o un terzo si obbliga a consegnare un immobile al creditore a garanzia del credito, affinché il creditore ne percepisca i frutti, imputandoli agli interessi, se dovuti, e quindi al capitale” 71. È un contratto legato ad una economia agraria (c.d. contratto godi/godi), tendendo a procurare il soddisfacimento del creditore attraverso la consegna di un immobile al credi68 Se la cessione ha avuto ad oggetto solo alcune attività del debitore, i cessionari non possono agire esecutivamente sulle altre attività prima di aver liquidato quelle cedute (art. 19803). Se cessionari sono solo alcuni creditori, i creditori anteriori alla cessione, che non vi hanno partecipato, possono agire esecutivamente anche su tali beni (art. 19802); possono comunque aderire alla cessione, partecipando alle spese della liquidazione (art. 1981). Consegue che i creditori posteriori alla cessione vedono ridotta la garanzia del credito, potendo soddisfarsi solo sul residuo dopo il riparto tra i cessionari e i creditori aderenti. 69 Per la Relaz. cod. civ., n. 1072, il vincolo è assoluto e incide, non solo sulle alienazioni volontarie, ma anche ad es. sulle ipoteche legali e giudiziali iscritte dopo la trascrizione della cessione. 70 L’eventuale atto dispositivo compiuto dal debitore in violazione del divieto non comporta però la nullità dell’atto dispositivo, ma solo la inefficacia di questo nei confronti dei creditori cessionari, come emerge dalla previsione dell’art. 2649, secondo cui “non hanno effetto rispetto ai creditori le trascrizioni o iscrizioni di diritti acquistati verso il debitore se eseguite dopo la trascrizione della cessione”. 71 Il termine “anticresi” deriva dal greco antichresis (contro-uso).

CAP. 5 – GARANZIE DEL CREDITO E RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE

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tore che ne gode i frutti curando la fruttificazione del bene ricevuto in godimento: oggi è di rara applicazione. Il creditore anticretico ha l’obbligo di conservare, amministrare e coltivare il fondo da buon padre di famiglia (art. 19612). L’anticresi dura finché il creditore sia stato interamente soddisfatto del suo credito; in ogni caso l’anticresi non può avere una durata superiore a dieci anni (art. 1962). Se il bene costituito in anticresi è espropriato da altri creditori, il creditore anticretico non è preferito ad essi, ma concorre con gli stessi secondo la par condicio. Il contratto deve essere fatto in forma scritta sotto pena di nullità (art. 1350, n. 7) ed è soggetto a trascrizione (art. 2643, n. 12). Compiendosi la consegna dell’immobile al creditore, l’art. 1963 espressamente prevede il divieto del patto commissorio (art. 2744), prescrivendo la nullità di qualunque patto, anche posteriore al contratto, con cui si conviene che la proprietà dell’immobile passi al creditore nel caso di mancato pagamento del debito. L’ipotesi normale di anticresi, contemplata dall’art. 1960, è c.d. estintiva, in quanto rivolta all’estinzione del debito, con il pagamento prima degli interessi e poi del capitale. È però anche consentito alle parti stipulare una anticresi c.d. compensativa con la imputazione dei frutti ai soli interessi, sicché i frutti si compensano con gli interessi: in tal caso il debitore può, in ogni tempo, estinguere il debito e rientrare nel possesso dell’immobile (art. 1964).

13. Rimedi di autotutela. – Si è parlato innanzi della essenza dell’autotutela (III, 3.4). Al fine di agevolare la realizzazione del credito, la legge appresta specifici rimedi di autotutela spettanti al creditore, salva la successiva verifica giudiziaria del corretto esercizio degli stessi. Sono rimedi che, orientando lo svolgimento del rapporto obbligatorio, permettono indirettamente la garanzia del credito, attraverso un’iniziativa del creditore che evita o riduce il danno conseguente all’inadempimento. a) Incisivo rimedio è l’opposizione al pagamento del debitore ad un terzo, in determinate ipotesi. Quando l’opposizione è stata proposta nei casi e nelle forme stabiliti dalla legge, il pagamento eseguito dal debitore non ha effetto in pregiudizio del creditore opponente (v. artt. 498, 1113, 27422, 28255, 29062). b) Altro rimedio è la decadenza del debitore dal termine. Anche se per legge il termine è presunto a favore del debitore (art. 1184), per l’art. 1186 il creditore può esigere immediatamente la prestazione se il debitore è divenuto insolvente o ha diminuito, per fatto proprio, le garanzie che aveva dato o non ha dato le garanzie che aveva promesso (v. artt. 1274, 1299, 1313, 1626, 18442, 1850, 1867, 1877, 2743). c) Quando l’obbligazione è connessa ad altra obbligazione, sono previsti particolari rimedi di autotutela dell’equilibrio delle contrapposte posizioni (VIII, 10.4). Anzitutto il diritto di ritenzione. In alcune ipotesi è accordato al creditore il diritto di non consegnare la cosa dovuta al proprietario o altro avente diritto finché questi non esegua la prestazione dovuta. Il creditore non realizza il diritto di credito ma induce il debitore ad adempiere al fine di conseguire la disponibilità della cosa trattenuta dal creditore: ad es., il possessore di buona fede può ritenere la cosa finché non gli siano corrisposte le indennità dovute (art. 1152); l’usufruttuario ha diritto di ritenere l’immobile riparato a garanzia del rimborso, da parte del proprietario, delle spese sostenute (art. 1006); in materia di locazione di immobili destinati ad uso diverso dall’abitazione, il conduttore può

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evitare l’esecuzione del provvedimento di rilascio dell’immobile fino alla corresponsione dell’indennità di avviamento (art. 343 L. 27.7.1978, n. 392) 72. Talvolta il diritto di ritenzione è connesso ad un privilegio speciale sulla cosa: ad es., i creditori per prestazioni e spese di conservazione e miglioramento di beni mobili, nonché il vettore, il mandatario, il depositario e il sequestratario hanno il diritto di ritenzione sulle cose oggetto di privilegio a loro favore finché non sono soddisfatti del proprio credito (artt. 27563 e 27614). d) Rimedio generale è la sospensione dell’adempimento nei contratti a prestazioni corrispettive, per preservare la corrispettività delle prestazioni, nella duplice formulazione: di eccezione di inadempimento se l’altra parte non offre il proprio adempimento (art. 1460); di sospensione dell’adempimento per mutamento delle condizioni patrimoniali dell’altra parte (art. 1461) (VIII, 10.4).

14. Esecuzione su beni oggetto di atti dispositivi a titolo gratuito. – La lunghezza di svolgimento dell’azione revocatoria per rendere inefficaci gli atti dispositivi ha consigliato di ammettere un rimedio di più agevole soddisfacimento per il creditore. Per l’art. 2929 bis (Introdotto dal D.L. 83/2015, conv. con L. 132/2015, modif. dal D.L. 59/2016, conv. con L. 119/2016) il creditore che sia pregiudicato da un atto del debitore, di costituzione di vincolo di indisponibilità o di alienazione, che ha per oggetto beni immobili o mobili iscritti in pubblici registri, compiuto a titolo gratuito successivamente al sorgere del credito, può procedere, munito di titolo esecutivo, a esecuzione forzata, “ancorché non abbia preventivamente ottenuto sentenza dichiarativa di inefficacia”, se trascrive il pignoramento nel termine di un anno dalla data in cui l’atto è stato trascritto; a ciò è ammesso anche il creditore anteriore che, entro un anno dalla trascrizione dell’atto pregiudizievole, interviene nell’esecuzione da altri promossa (co. 1). L’azione non può esercitarsi in pregiudizio dei diritti acquistati a titolo oneroso dall’avente causa del contraente immediato, salvi gli effetti della trascrizione del pignoramento 73; è quindi esperibile verso il subacquirente a titolo gratuito (co. 2). Il debitore, il terzo assoggettato a espropriazione e ogni altro interessato alla conservazione del vincolo possono proporre le opposizioni all’esecuzione quando contestano la sussistenza dei presupposti dell’esecuzione ovvero che l’atto abbia arrecato pregiudizio alle ragioni del creditore o che il debitore abbia avuto conoscenza del pregiudizio arrecato.

72 Fino a quando la corresponsione dell’indennità di avviamento non avvenga, anche solo nella forma dell’offerta reale non accettata, la ritenzione dell’immobile da parte del conduttore avviene de iure come causa di giustificazione impeditiva dell’adempimento alla scadenza, dell’obbligo di consegna, con la conseguenza che non insorgono la mora nella riconsegna ed il conseguente obbligo di risarcimento ai sensi dell’art. 1591 c.c. (Cass. 16-10-2017, n. 24285). 73 L’azione esecutiva è promossa nelle forme dell’espropriazione contro il terzo proprietario ed è preferito ai creditori personali di costui nella distribuzione del ricavato. Il debitore, il terzo assoggettato a espropriazione e ogni altro interessato alla conservazione del vincolo possono proporre le opposizioni all’esecuzione di cui al titolo V del libro terzo c.p.c. quando contestano la sussistenza dei presupposti di cui al co. 1 o che l’atto abbia arrecato pregiudizio alle ragioni del creditore (eventus damni) o che il debitore abbia avuto conoscenza del pregiudizio arrecato (scientia damni) (co. 2).

CAPITOLO 6

CAUSE LEGITTIME DI PRELAZIONE (Le garanzie speciali)

Sommario: 1. Principi generali. – A) PRIVILEGI. – 2. Fondamento. – 3. Tipologia ed efficacia. Concorso di garanzie. – B) PEGNO E IPOTECA (GARANZIE REALI). – 4. I caratteri comuni. – 5. Pegno. – 6. Figure speciali di pegno. – 7. Ipoteca. – 8. Titolo dell’ipoteca. – 9. Pubblicità ipotecaria e formalità. – C) GARANZIE REALI CON ESECUZIONE STRAGIUDIZIALE. – 10. Il sostegno finanziario alle imprese e ai consumatori. – 11. Contratti di garanzia finanziaria. – 12. Pegno mobiliare non possessorio. – 13. Credito alle imprese con trasferimento di immobile condizionato all’inadempimento. – 14. Prestito vitalizio ipotecario. – 15. Credito ipotecario ai consumatori per acquisto di immobile residenziale.

1. Principi generali. – Si è visto come il concorso dei creditori è regolato dal principio generale di parità di trattamento (par condicio creditorum) nel soddisfarsi sui beni del debitore, salve le cause legittime di prelazione (art. 2741) (VII, 5.2). Le cause di prelazione si atteggiano come speciali garanzie su singoli beni o singole categorie di beni, per cui i creditori titolari di tali garanzie sono soddisfatti in modo preferenziale rispetto agli altri creditori (creditori privilegiati). La ricorrenza di cause di prelazione assume rilevanza quando il patrimonio del debitore non è capiente per soddisfare tutti i creditori; allora i creditori che vantano cause legittime di prelazione su taluni beni o categorie di beni sono soddisfatti, secondo l’ordine di preferenza previsto dalla legge, prima degli altri creditori (c.d. creditori chirografari): ad es., se sussistono un creditore chirografario per 100 e un creditore privilegiato per 50 e il ricavato dalla vendita del patrimonio del debitore è di 60, il creditore privilegiato è soddisfatto per l’intero conseguendo il valore di 50, mentre il creditore chirografario è soddisfatto parzialmente conseguendo solo il valore di 10. Si comprende come le garanzie speciali rafforzano la realizzabilità della pretesa creditoria 1. Quando i beni su cui si appuntano le cause legittime di prelazione non si rivelano sufficienti a realizzare il completo soddisfacimento dei creditori privilegiati, questi possono soddisfarsi per il residuo credito sul restante patrimonio assieme con i creditori chirografari, secondo la regola 1

Privilegio, pegno e ipoteca rappresentano cause generali di prelazione. Si vedrà come, per ragioni particolari, siano fissate cause specifiche di prelazione per alcuni creditori: ad es., in favore dei creditori separatisti, nella separazione dei beni del defunto da quelli dell’erede (art. 512); in favore dei creditori del defunto e dei legatari, nella eredità con beneficio d’inventario (art. 490, n. 3).

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generale del concorso paritario (proporzionale). Operano in materia due fondamentali principi: tipicità delle cause di prelazione e surrogazione dell’indennità alla cosa. a) Tipicità delle cause di prelazione. Poiché le cause di prelazione derogano al principio generale di parità di trattamento dei creditori, che è regola fondamentale di affidabilità dell’economia di mercato, la legge richiede che le cause di prelazione siano “legittime” e cioè previste dall’ordinamento. Sono cause legittime di prelazione i privilegi, il pegno e le ipoteche (art. 27412): pegno e ipoteca sono garanzie reali, per inerire ad uno specifico bene (perciò un nucleo di regime unitario accomuna entrambe le garanzie, come appresso si vedrà); diversamente operano i privilegi che, inerendo alla causa del credito, si atteggiano variamente (anche se il privilegio speciale, come si vedrà, ha alcune assonanze con le garanzie reali). Non mancano ipotesi per le quali, per specifici conflitti di interessi, sono previsti peculiari regimi di preferenza (ad es., nel soddisfacimento coattivo sui beni della comunione legale, i creditori della comunione sono preferiti ai creditori particolari di uno dei coniugi se chirografari: art. 1892). b) Surrogazione dell’indennità alla cosa. Per l’art. 2742, se le cose soggette a privilegio, pegno o ipoteca sono perite o deteriorate, le somme dovute dagli assicuratori per indennità della perdita o del deterioramento sono vincolate al pagamento dei crediti privilegiati, pignoratizi o ipotecari, secondo il grado di preferenza, eccetto che le medesime vengano impiegate a riparare la perdita o il deterioramento. Si vuole garantire al creditore una posizione di preferenza nei confronti dei creditori chirografari e, prima di tutto, dello stesso debitore al fine di evitare un occultamento della somma 2. Come si è anticipato, la surrogazione reale realizza una vicenda modificativa oggettiva dell’obbligazione (VII, 2.14). Su istanza degli interessati, l’autorità giudiziaria può disporre le opportune cautele per assicurare l’impiego delle somme nel ripristino o nella riparazione della cosa (art. 2742).

A) PRIVILEGI 2. Fondamento. – Il privilegio è la garanzia accordata dalla legge al creditore in considerazione della causa del credito (art. 2745). È legato alla valutazione che l’ordinamento compie del singolo credito, assumendo rilevanza la natura dell’interesse perseguito dal creditore, in ragione del relativo titolo (es. credito per compenso di prestazioni lavorative). Il privilegio accordato al credito si estende alle spese per l’intervento nel processo esecutivo e agli interessi dovuti per l’anno in corso alla data del pignoramento e per quelli dell’anno precedente; gli interessi successivamente maturati hanno privilegio nei limiti della misura legale fino alla data della vendita (art. 2749). I privilegi sono sempre di fonte legale: la legge è l’unica fonte di derivazione dei privilegi e di graduazione dell’ordine degli stessi, in funzione della rilevanza accordata al singolo credito nella scala dei valori dell’ordinamento: il credito nasce privilegiato (salva 2

Nessun indice ermeneutico autorizza a ritenere che la norma preveda anche un subingresso del creditore privilegiato nella titolarità del diritto all’indennizzo, in modo che ne risulti legittimata un’azione diretta dello stesso contro l’assicuratore; i creditori, ai sensi dell’art. 27422, hanno la sola possibilità di mezzi di tutela conservativi del loro diritto (Cass. 14-2-2013, n. 3655).

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la concorrenza delle altre cause legittime di prelazione) 3. Nel concorso tra più crediti privilegiati su medesimi beni, la prevalenza tra gli stessi opera secondo un criterio valutativo legale e cioè in funzione della qualificazione compiuta dall’ordinamento dei singoli crediti. Si comprende come la materia dei privilegi sia perennemente attraversata dalle tensioni sociali e dalle evoluzioni dei rapporti socio-economici: è stato così nel passaggio dal cod. civ. del 1865 all’attuale cod. civ. del 1942, che ha profondamente riformato la precedente disciplina; lo è tuttora con le molte leggi speciali che introducono nuove ragioni di privilegio o ne modificano l’ordine: ad es., L. 29.7.1975, n. 426, ha introdotto nel cod. civ. l’art. 2751 bis che ha valorizzato i crediti da lavoro, subordinato e autonomo. Peraltro il crescente ricorso legislativo alla istituzione di nuovi privilegi ha l’effetto di indebolire il sistema del credito in sé, risultando sempre meno realizzabile il credito non assistito da cause legittime di prelazione. Ai privilegi previsti da leggi speciali si applicano le norme del codice civile se non è diversamente disposto (art. 27502). In ragione della natura degli interessi, talvolta la legge subordina la costituzione del privilegio alla convenzione delle parti (art. 2745) (c.d. privilegi convenzionali): l’accordo delle parti agisce come condizione che rende operante la volontà della legge, cui spetta esclusivamente la nascita e la determinazione dell’estensione dei privilegi. Il privilegio è di regola occulto, cioè non è soggetto a forme di pubblicità per la sua costituzione e opponibilità. La costituzione del privilegio può tuttavia dalla legge essere subordinata a particolari forme di pubblicità (art. 2745) 4. Il creditore che intende avvalersi del privilegio ha l’onere di dimostrare, non solo la natura privilegiata del credito, ma anche i presupposti di esercizio del privilegio, indicando i beni che ne sono colpiti e provando la loro esistenza fra i beni assoggettati all’espropriazione: ciò in quanto il creditore fa comunque valere una causa di prelazione, eccezionale rispetto al principio del concorso paritario dei creditori (art. 2741).

3. Tipologia ed efficacia. Concorso di garanzie. – I privilegi si distinguono in due categorie: generali e speciali. I privilegi sui mobili possono essere generali o speciali; quelli sugli immobili sono solo speciali. a) Privilegi generali. Si esercitano su tutti i beni mobili del debitore. Si appuntano, perciò, non su singoli beni, ma sulla categoria dei beni mobili. Ad es., i crediti per retribuzioni dovute a lavoratori subordinati e ai professionisti (es. avvocato, notaio, ecc.) hanno il privilegio su tutti i beni mobili del debitore 5. 3 Le norme che stabiliscono prelazioni in ragione della natura del credito possono essere oggetto di interpretazione estensiva (Cass., sez. un., 17-5-2010, n. 11930). 4 Ad es. il privilegio del venditore di macchine di valore superiore a euro 15,49 è subordinato alla trascrizione dei documenti dai quali la vendita e il credito risultano nell’apposito registro tenuto presso il tribunale nella cui giurisdizione è collocata la macchina (art. 2762): è questo il registro ove è anche trascritta la riserva di proprietà ai fini dell’opponibilità ai terzi acquirenti (art. 1524). 5 Sono assistiti da privilegio generale sui mobili i crediti per spese funebri, d’infermità, alimenti (art. 2751); i crediti per retribuzioni e provvigioni, i crediti dei coltivatori diretti, delle società od enti cooperativi e delle imprese artigiane (art. 2751 bis); i crediti per tributi diretti dello Stato, per imposta sul valore aggiunto e per tributi degli enti locali (art. 2752); i crediti per contributi di assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti (art. 2753); i crediti per contributi relativi ad altre forme di assicurazione (art. 2753). La Corte cost. 29-1-1998, n. 1 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 2751 bis, n. 2, nella parte in cui riferisce il privilegio ai crediti per sole prestazioni d’opera intellettuali, in quanto la disparità di trattamento che,

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L’esercizio comporta un necessario raccordo con le regole che presiedono alla circolazione dei beni mobili. Non possono esercitarsi in pregiudizio dei diritti spettanti ai terzi sui mobili che ne formano oggetto (art. 27471), vuoi per esserne diventati proprietari, vuoi anche solo per avere acquisito diritti reali di godimento o garanzie reali sugli stessi. Sono cioè fatti salvi i diritti acquisiti dai terzi ai sensi dell’art. 1153: l’unico limite è che gli acquisti dei terzi avvengano prima che il creditore privilegiato inizi l’esecuzione su tali beni, cioè li sottoponga a pignoramento (ex artt. 2913 ss.) (art. 27471). In sostanza il privilegio generale, come tale, non è opponibile al terzo: è il vincolo di indisponibilità conseguente al pignoramento che è opponibile al terzo. b) Privilegi speciali. Si esercitano su determinati beni mobili e sugli immobili (art. 2746). Caratteristica degli stessi è l’inerenza del privilegio a singoli beni (mobili o immobili), per la particolare connessione esistente tra il credito e la cosa. Tra i privilegi speciali su mobili, si pensi, ad es., ai crediti del locatore di immobili per pigioni e fitti degli immobili, che hanno privilegio sui frutti dell’anno e su quelli raccolti anteriormente, nonché sopra tutto ciò che serve a fornire l’immobile o a coltivare il fondo (art. 2764); si pensi anche ai crediti del vettore, dello spedizioniere, del mandatario, del depositario e del sequestratario 6, oltre altri privilegi speciali 7. Il privilegio speciale sui mobili, sempre che sussista la particolare situazione alla quale è subordinato, può esercitarsi anche in pregiudizio dei diritti acquistati dai terzi posteriormente al sorgere di esso (art. 27472). Tra i privilegi speciali su immobili, si pensi, ad es., ai crediti per imposte su redditi immobiliari che sono privilegiati sopra gli immobili del contribuente (art. 2171) 8. Il privilegio speciale, come tale, è opponibile ai terzi, anche se non è ancora iniziata l’esecuzione (e perciò il singolo bene non è stato sottoposto a pignoramento). Il bene relativamente alla garanzia della retribuzione, si viene a determinare tra prestatori d’opera intellettuale e non intellettuale risulta palesemente irragionevole, tenuto conto dell’omogeneità delle categorie di soggetti (e di crediti) messe a confronto e riconducibili allo stesso tipo contrattuale delineato dall’art. 2222 c.c. (contratto d’opera). Con specifico riguardo alla prestazione dell’avvocato espletata in più gradi, si è specificato che il privilegio ex art. 2751 bis, n. 2, può essere riconosciuto solo al credito riguardante i compensi relativi alle prestazioni per gli incarichi specifici conclusi nell’ultimo biennio del rapporto professionale (Cass. 2-3-2022, n. 6884). 6 Per l’art. 2761 (come novell. dall’art. 30 bis D.L. 152/2021, conv. con L. 233/2021) i crediti dipendenti dal contratto di trasporto e di spedizione e quelli per le spese d’imposta anticipate dal vettore o dallo spedizioniere hanno privilegio sulle cose trasportate o spedite finché queste rimangono presso di lui; tale privilegio può essere esercitato anche su beni oggetto di un trasporto o di una spedizione diversi da quelli per cui è sorto il credito purché tali trasporti o spedizioni costituiscano esecuzione di un unico contratto per prestazioni periodiche o continuative. I crediti derivanti dall’esecuzione del mandato hanno privilegio sulle cose del mandante che il mandatario detiene per l’esecuzione del mandato; qualora il mandatario abbia provveduto a pagare i diritti doganali per conto del mandante, il suo credito ha il privilegio di cui all’art. 2752. I crediti derivanti dal deposito o dal sequestro convenzionale a favore del depositario e del sequestratario hanno parimenti privilegio sulle cose che questi detengono per effetto del deposito o del sequestro. Si applicano a questi privilegi le disposizioni del secondo e del terzo comma dell’art. 2756. 7 Ad es., i crediti per spese di giustizia fatte per atti conservativi o per l’espropriazione di beni mobili nell’interesse comune dei creditori hanno privilegio sui beni stessi (art. 2755). 8 Altri privilegi speciali sopra gli immobili sono i crediti per le spese di giustizia fatte per atti conservativi o per l’espropriazione di beni immobili nell’interesse comune dei creditori sul prezzo degli immobili stessi (art. 2770); i crediti per tributi indiretti, sopra gli immobili ai quali il tributo si riferisce (art. 2772); i crediti per concessione di acque, sugli impianti (art. 2774); i contributi per opere di bonifica e miglioramento sugli immobili che vi traggono beneficio (art. 2775); i crediti del promissario acquirente di contratto preliminare trascritto ex art. 2645 bis, sul bene immobile oggetto del contratto preliminare (art. 2775 bis).

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(mobile o immobile) oggetto di privilegio speciale rimane vincolato al soddisfacimento del creditore, sicché circola con il privilegio speciale che vi afferisce. In capo al creditore privilegiato vi è dunque un diritto di seguito (o di sequela), potendo il creditore far valere il privilegio verso ogni acquirente del bene gravato dal privilegio speciale. In tale prospettiva i privilegi speciali si atteggiano come diritti reali di garanzia: a differenza però di pegno ed ipoteca, sono esclusivamente di fonte legale e possono cadere solo su beni del debitore. Come per il pegno e l’ipoteca, il creditore non può pignorare altri beni se non sottopone a pignoramento quelli oggetto di privilegio speciale (art. 29112). Talvolta ai privilegi speciali è connesso un diritto di ritenzione: ad es. quello attribuito ai creditori per prestazioni e spese di conservazione e miglioramento di cose mobili (art. 27563), nonché al vettore, al mandatario, al depositario e al sequestratario, finché le cose si trovano presso di loro (art. 27614) (VII, 5.13). c) Può determinarsi un concorso di più garanzie sullo stesso bene. Operano all’uopo tre regole fondamentali: 1) il privilegio speciale sui mobili soccombe al pegno (per lo spossessamento che questo implica), tranne diversa disposizione di legge (art. 27481); 2) il privilegio su immobili prevale sull’ipoteca, tranne diversa disposizione di legge (art. 27482) 9; 3) tra più privilegi la preferenza è accordata secondo la graduazione stabilita dagli artt. 2777 ss. (c.d. ordine dei privilegi): al primo posto sono sempre le spese di giustizia, che sono preferite ad ogni altro credito, anche pignoratizio o ipotecario (art. 2777); se i crediti sono egualmente privilegiati concorrono in proporzione del rispettivo importo (art. 2782).

B) PEGNO E IPOTECA (GARANZIE REALI) 4. I caratteri comuni. – Si è anticipato che pegno e ipoteche costituiscono garanzie reali: il pegno relativamente a beni mobili e altri diritti, l’ipoteca relativamente a immobili e mobili registrati. Inoltre, a differenza dei privilegi, non sono legati alla causa del credito prevista dalla legge; e anche l’ordine di preferenza non opera in funzione della causa del credito ma in ragione di parametri diversi (spossessamento per il pegno e pubblicità per l’ipoteca). Anche rispetto al privilegio speciale, con il quale sono condivisi alcuni tratti, resta il fondamentale divario che il privilegio speciale è costituito dalla legge, mentre le garanzie reali possono essere costituite dalla volontà privata, addirittura possono essere costituite anche da un terzo, c.d. datore di pegno o ipoteca (v. VII, 7.9). Si analizzano di seguito i caratteri comuni a pegno e ipoteca, per poi esaminare quelli specifici. a) Inerenza a un bene determinato. Ciò conferisce alle due garanzie il carattere della realità (perciò dette garanzie reali), atteggiandosi come diritti reali di garanzia su cosa altrui. Sono dunque assistiti dal diritto di seguito (o di sequela): il diritto di garanzia “segue” il bene e il creditore può far valere la garanzia verso qualunque successivo acquirente 9 Ad es., le spese sostenute per gli interventi di bonifica di siti inquinati effettuati d’ufficio dall’autorità competente sono assistite da privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime, ai sensi e per gli effetti dell’art. 27482, perciò il privilegio prevale sull’ipoteca (art. 253 D.Lgs. 152/2006 (cod. amb.), come modificato dal D.L. 76/2020, conv. con modif. con L. 120/2020). Si è però stabilito che l’ipoteca a garanzia del mutuo al costruttore prevale sul privilegio dei promissari acquirenti (Cass., sez. un., 1-10-2009, n. 21045) (VIII, 2.23).

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del bene 10, in tal senso accomunandosi ai diritti reali di godimento su cosa altrui (II, 3.5). Della natura reale pegno e ipoteca hanno però solo il carattere esterno della assolutezza, non anche quello interno della immediatezza, non potendo il creditore realizzare e dunque escutere autonomamente la garanzia senza l’intervento degli organi giudiziari (anzi gli è addirittura vietato). Pegno e ipoteca attribuiscono dunque al creditore: 1) il diritto di sequela, cioè di seguire il bene anche se disposto a favore di terzi; 2) il diritto di espropriare il bene su cui cade la garanzia (c.d. jus distrahendi); 3) il diritto di prelazione e quindi di essere preferito sul ricavato con preferenza rispetto a tutti gli altri creditori (c.d. jus prelationis). La realità della garanzia assume dunque il limitato contenuto di consentire al creditore di ottenere la realizzazione coattiva del credito contro tutti gli altri creditori e aventi causa dal debitore, soddisfacendosi con preferenza rispetto a questi. Come per il privilegio speciale, il creditore che ha pegno o ipoteca su determinati beni non può pignorare altri beni del debitore se non sottopone a esecuzione anche i beni gravati da pegno o ipoteca (art. 29111). La garanzia reale può concorrere con una garanzia personale (VII, 7.1) rispetto al medesimo credito. Un regime particolare è in tema di fondo patrimoniale 11 (VII, 7.9). La inerenza implica specialità dei beni. Le garanzie devono insistere su beni determinati, specificamente individuati. Nell’oggetto della garanzia rientrano pure i frutti e le pertinenze della cosa 12. b) Accessorietà al credito. Con l’adempimento dell’obbligazione, viene meno la causa giustificativa della garanzia: perciò il bene costituito in pegno va restituito, l’ipoteca deve essere cancellata. Per l’art. 1200 il creditore che ha ricevuto il pagamento deve consentire la liberazione dei beni dalle garanzie reali date per il credito e da ogni altro vincolo che comunque ne limiti la disponibilità. C’è poi il problema della sorte delle garanzie reali a fronte delle sopravvenute misure di prevenzione (sequestro e confisca). Per l’art. 52 D.Lgs. 6.9.2011, n. 159 (testo unico antimafia) la confisca non pregiudica i diritti di credito dei terzi e i diritti reali di garanzia anteriori al sequestro. È da tempo dibattuto un equilibrio tra circolazione del credito ed esigenza di sicurezza, che tuttora persiste 13. 10 Se è venduta una cosa gravata da garanzie reali o altri vincoli non dichiarati dal venditore e ignorati dal compratore, il compratore può sospendere il pagamento del prezzo; può inoltre far fissare al giudice un termine entro il quale il venditore deve liberare la cosa dai vincoli, alla scadenza del quale, se la liberazione non è stata eseguita, il contratto è risolto con obbligo del venditore di risarcire il danno (art. 1482). 11 Rispetto a beni costituiti in fondo patrimoniale, se non è stato espressamente consentito nell’atto di costituzione, non si possono alienare, ipotecare, dare in pegno o comunque vincolare beni del fondo se non con il consenso di entrambi i coniugi e, se vi sono figli minori, con l’autorizzazione del giudice in camera di consiglio nei soli casi di necessità o utilità evidente per i figli (art. 169); mentre l’esecuzione non può avere luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia (art. 170) (VII, 5.2). 12 Non può essere oggetto di pegno o ipoteca (né di alienazione o di esecuzione da parte dei creditori) l’usufrutto legale sui beni dei figli (art. 326). 13 Il cessionario del credito ipotecario, per ottenere il riconoscimento del proprio diritto che evita l’estinzione della garanzia reale, deve allegare elementi idonei a rappresentare, sia la buona fede, come estraneità all’attività illecita in precedenza realizzata dal contraente colpito dal sequestro, sia l’affidamento incolpevole, inteso come positivo adempimento dell’obbligo di informazione imposto dal caso concreto, volto a escludere una rimproverabilità di tipo colposo (Cass. pen. 18-4-2019, n. 38608).

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L’accessorietà comporta determinatezza dei crediti. Entrambe le garanzie operano unicamente in presenza di crediti determinati, comprendendosi in questi sia il debito principale che gli accessori (ad es. gli interessi) 14. c) Indivisibilità della garanzia. La garanzia è unitaria su tutti i beni sui quali è costituita, in ragione di un credito unitariamente garantito, per cui il creditore conserva la garanzia per l’intero ammontare del credito garantito, finché non è integralmente soddisfatto (artt. 2799 e 28092). d) Reintegrabilità della garanzia. Il creditore ha diritto a conservare la correlazione originaria tra garanzia e credito garantito, con diritto alla reintegrazione per l’eventualità di diminuzione della garanzia: per l’art. 2743, se la cosa data in pegno o sottoposta a ipoteca perisce o si deteriora, anche per caso fortuito, in modo da essere insufficiente alla sicurezza del credito, il creditore può chiedere che gli sia prestata idonea garanzia su altri beni e, in mancanza, l’immediato pagamento del suo credito (applicazioni in tema di apertura di credito bancario e di anticipazione bancaria: artt. 18442, 1850). La misura di potere chiedere l’immediato pagamento del credito si riconduce al generale principio della decadenza dal termine (art. 1186) (VII, 3.4).

5. Pegno. – Il pegno è la garanzia reale costituita dal debitore o da un terzo su beni mobili determinati e diritti, a garanzia dell’obbligazione (c.d. accessorietà) (art. 2784), al fine di garantire al creditore il soddisfacimento con prelazione sulla cosa ricevuta in pegno (art. 27871). Ciò importa la esistenza e la determinazione del credito garantito 15. La prelazione ha luogo anche per gli interessi dell’anno in corso alla data del pignoramento e per gli interessi successivamente maturati, nei limiti della misura legale, fino alla vendita (art. 2788). a) Sono oggetto di pegno: i beni mobili, le universalità di mobili, i crediti e gli altri diritti aventi per oggetto beni mobili (art. 2784). È consentito il pegno di titoli di credito (artt. 2014 e 2026). È andato affermandosi l’indirizzo di ammettere anche il pegno di beni futuri, costituendosi il diritto reale di pegno con la venuta a esistenza e lo spossessamento del bene stesso 16. Per i crediti di impresa è sempre più avvertita l’esigenza di pegno su credito. 14

Deve escludersi la possibilità di un’ipoteca per crediti che non siano dipendenti da un rapporto già esistente al momento della costituzione della garanzia, quali quelli derivanti da mutui previsti come una delle forme alternative di una apertura di credito atipica o mista, le cui condizioni economiche e contrattuali siano tuttavia rimesse a successive pattuizioni, con un generico riferimento alle condizioni di mercato e senza alcun vincolo giuridico a contrarre o senza alcuna predeterminazione del relativo contenuto (Cass. 7-3-2017, n. 5630). 15 Il principio di accessorietà desumibile dall’art. 2784 comporta la nullità per difetto di causa dell’atto costitutivo della prelazione stipulato in relazione ad un credito non ancora esistente, ma non esclude, in applicazione analogica dell’art. 2852, l’ammissibilità della costituzione della garanzia a favore di crediti condizionali o che possano eventualmente sorgere in dipendenza di un rapporto già esistente; in quest’ultimo caso è necessaria, ai fini della validità del contratto, la determinazione o la determinabilità del credito, la quale postula l’individuazione non solo dei soggetti del rapporto, ma anche della sua fonte; ferma restando la validità e l’efficacia del contratto inter partes, la mera determinabilità del rapporto comporta l’inopponibilità del pegno agli altri creditori (Cass. 5-12-2016, n. 24790; Cass. 25-3-2009, n. 7214). 16 Il pegno di cosa futura rappresenta una fattispecie a formazione progressiva che trae origine dall’accordo delle parti (accordo in base al quale vanno determinate la certezza della data e la sufficiente specificazione del credito garantito), avente meri effetti obbligatori, e si perfeziona con la venuta ad esistenza della cosa e con la consegna di essa al creditore (Cass. 26-3-2010, n. 7257).

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Il pegno è indivisibile e garantisce il credito finché questo non sia integralmente soddisfatto, anche se il debito o la cosa data in pegno è divisibile (art. 2799). b) La costituzione del pegno avviene, di regola, mediante il c.d. spossessamento: il costituente il pegno deve consegnare al creditore la cosa o il documento che conferisce l’esclusiva disponibilità della cosa o del diritto. È dunque un contratto reale in quanto la convenzione di pegno si perfeziona con la consegna della cosa o del documento, che possono anche essere consegnati a un terzo designato dalle parti o essere posti in custodia di entrambe in modo che il costituente sia nell’impossibilità di disporne senza la cooperazione del creditore (art. 2786). Non operando per i beni mobili non registrati un sistema di pubblicità mediante pubblici registri, lo spossessamento del debitore assicura anche la certezza della circolazione. I terzi che acquistano dal debitore diritti su un bene mobile non registrato non in suo possesso non possono invocare la tutela ex art. 11532. Analogamente gli altri creditori non possono fare affidamento per l’espropriazione su un bene che non è nel possesso del debitore. Per l’universalità di mobili, la costituzione avviene con l’acquisizione della disponibilità possessoria della universalità 17. Nel pegno di crediti la prelazione ha luogo quando il pegno risulta da atto scritto e la costituzione di esso è stata notificata al debitore del credito dato in pegno ovvero è stata da questo accettata con scrittura avente data certa (art. 2800). La giurisprudenza tende a considerare la notifica al debitore come costitutiva del pegno, ma è più corretto pensare a un presupposto di opponibilità, secondo il regime generale della cessione del credito 18; se il credito costituito in pegno risulta da un documento, il costituente è tenuto a consegnarlo al creditore (art. 2801); per restare il credito nella titolarità del concedente, il pegno si distingue dalla cessione del credito in garanzia 19. Il pegno di diritti diversi dai crediti (es. un diritto di usufrutto) si costituisce nella forma propria di trasferimento dei singoli diritti (art. 2806). Per i titoli di credito, il diritto di pegno si attua sul titolo (art. 1997), secondo la legge di circolazione del singolo titolo; è espressamente previsto il pegno di azioni: il diritto di voto, salvo convenzione contraria, spetta al creditore pignoratizio (art. 2352). 17

In assenza di un registro di pubblicità per i mobili non registrati, in ipotesi di costituzione di pegno in favore di più soggetti valgono i principi generali: se si tratta di bene materiale, vale la priorità della consegna; se si tratta di credito, la priorità della notifica o dell’accettazione del debitore, se si tratta di altri diritti, la priorità delle formalità di circolazione. 18 Il mero scambio dei consensi produce gli effetti prodromici disciplinati dagli artt. 2801 e 2802, ma non dà luogo, alla nascita del diritto reale di garanzia sul credito, poiché questo sorge solo con la notificazione del titolo costitutivo al terzo debitore, e cioè col completamento di una fattispecie a formazione successiva la quale assicura al creditore il diritto di prelazione sul credito (Cass. 12-6-2006, n. 13551; Cass. 24-6-1995, n. 7158). La ricostruzione desta perplessità. Già la rubrica dell’art. 2800 usa l’espressione “condizioni della prelazione” e non quella di “costituzione” impiegata dalla rubrica dell’art. 2786; anche il testo dell’art. 2800 prevede che “la prelazione non ha luogo” senza l’osservanza dell’onere, non facendo alcun riferimento alla costituzione. Può dunque pensarsi che operi nella specie il fenomeno proprio della cessione del credito (art. 1264), per cui la sola efficacia del pegno e dunque la relativa prelazione sia subordinata all’assolvimento dell’onere richiesto, mentre già prima dell’assolvimento dell’onere sia costituito il pegno con il diritto del creditore alla riscossione di interessi e di prestazioni periodiche e con l’obbligo di compiere gli atti conservativi del credito ricevuto in pegno (ex art. 2802). 19 La cessione del credito in garanzia dà luogo al trasferimento del credito dal patrimonio del cedente a quello del cessionario; non va confusa con il pegno di credito e assimilata allo stesso, non integrando alcun diritto di prelazione (anche) ai sensi della disciplina fallimentare (Cass. 7-4-2016, n. 6759).

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c) L’effetto della costituzione del pegno è il vincolo di destinazione sul bene pignorato al soddisfacimento del creditore, con prelazione sulla cosa ricevuta in pegno (art. 27871). La prelazione non si può far valere se la cosa data in pegno non è rimasta in possesso del creditore o presso il terzo designato (art. 27872): la ripresa del possesso da parte del debitore paralizza il diritto di prelazione e perciò il diritto di seguito. Quando il credito garantito eccede la somma di euro 2,58 (perciò quasi sempre) “la prelazione non ha luogo” se il pegno non risulta da scrittura con data certa, la quale contenga sufficiente indicazione del credito garantito e della cosa data in pegno (art. 27873). La formalità non inerisce alla costituzione del pegno, ma rileva ai fini della prelazione: vale a rendere opponibile la garanzia agli altri creditori del datore di pegno 20. Il creditore non acquista la proprietà del bene ricevuto in pegno (che rimane al debitore), ma assume una posizione funzionale alla realizzazione della garanzia reale. Ha un dovere di gestione qualificata del bene ricevuto in pegno: il creditore può esercitare i diritti funzionali alla realizzazione della garanzia nell’ipotesi di inadempimento; ma deve assolvere gli obblighi di conservazione del bene in vista della restituzione al debitore a seguito dell’adempimento 21. Se è data in pegno una cosa fruttifera, il creditore, salvo patto contrario, ha la facoltà di fare suoi i frutti, imputandoli prima alle spese e agli interessi e poi al capitale (art. 2791). Se abusa della cosa ricevuta in pegno, il costituente può domandarne il sequestro (art. 2793). Il creditore, senza il consenso del costituente, non può usare la cosa per un fine diverso dalla conservazione; né può darla ad altri in pegno (c.d. suppegno) o concederne il godimento (art. 2792). Il creditore deve restituire la cosa o il documento del credito quando sia stato interamente soddisfatto (art. 2794). Non perdendo il debitore la proprietà del bene, potrebbe anche alienarla a terzi; ma tale vicenda ha un effetto non opponibile al creditore che, per il diritto di seguito, può far vendere il bene anche se è passato in proprietà di un terzo. Il creditore che ha per20 La forma scritta è prevista dall’art. 27873 c.c., ai soli fini della prelazione sulla cosa oggetto della garanzia, mentre per le parti la convenzione costitutiva del pegno si perfeziona, ai sensi dell’art. 2786 c.c., con la consegna della cosa al creditore: ciò basta ad escludere che il trasferimento ai nuovi titoli del vincolo pignoratizio originariamente gravante sui titoli scaduti, previsto dalla convenzione stipulata per iscritto dalle parti, potesse realizzarsi solo a seguito di un ulteriore atto scritto (Cass. 1-10-2012, n. 16666). Il requisito della “sufficiente indicazione della cosa” nella scrittura costitutiva del pegno (richiesta dall’art. 27873) mira essenzialmente ad evitare, a tutela degli interessi degli altri creditori, che la cosa medesima possa essere sostituita con altre di maggior valore (Cass. 23-11-2001, n. 14869; Cass. 7-6-1999, n. 5562). Nei rapporti con enti che professionalmente compiono operazioni di erogazione di credito su pegno, la data della scrittura può essere accertata con ogni mezzo (analogamente con le polizze) (art. 27874). 21 Se ha perduto il possesso della cosa, il creditore può, non solo esercitare le azioni possessorie, ma anche quelle di rivendicazione in sostituzione del proprietario (art. 2789). Inoltre il creditore è tenuto a custodire la cosa e risponde secondo le regole generali per la perdita ed il deterioramento (art. 27901); il costituente il pegno è tenuto al rimborso delle spese occorse per la conservazione della cosa (art. 27902). Se la cosa data in pegno si deteriora o perde valore in modo da compromettere la sicurezza del credito, sia il creditore che il costituente possono chiedere al giudice l’autorizzazione alla vendita anticipata; il costituente può evitarla offrendo altra garanzia reale che il giudice riconosca idonea (art. 2795). Per il pegno di crediti, il creditore è tenuto a riscuotere gli interessi del credito o le altre prestazioni periodiche, imputandone l’ammontare prima alle spese e agli interessi e poi al capitale; è tenuto a compiere gli atti conservativi del credito ricevuto in pegno (art. 2802). Il creditore deve riscuotere, alla scadenza, il credito ricevuto in pegno; se questo ha ad oggetto danaro o altre cose fungibili, a richiesta del debitore, deve effettuarne il deposito nel luogo stabilito d’accordo o altrimenti determinato dall’autorità giudiziaria (art. 2803).

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duto il possesso della cosa ricevuta in pegno ha diritto all’esercizio delle azioni a difesa del possesso e può anche esercitare l’azione di rivendicazione se spettante al costituente (art. 2789). Restando il debitore inadempiente, il creditore può far vendere la cosa ricevuta in pegno, secondo le forme stabilite dall’art. 2797, previa intimazione al debitore (ed eventualmente al terzo costituente) di pagare il debito e gli accessori, con l’avvertimento che in mancanza si procederà alla vendita 22. Come può domandare al giudice che il bene gli venga assegnato in pagamento fino alla concorrenza del debito, secondo la stima da farsi con perizia o secondo il prezzo corrente se la cosa ha un prezzo di mercato (art. 2798). Chi ha costituito il pegno non può esigerne la restituzione se non sono stati interamente pagati il capitale e gli interessi e siano state rimborsate le spese relative al debito e al pegno (art. 27941), conservando il creditore diritto ritenzione sul bene ricevuto in pegno.

6. Figure speciali di pegno. – Nell’esperienza economica operano diffuse pratiche di pegno essenzialmente maturate nell’esperienza dei rapporti bancari. a) Pegno irregolare. Vi è una deroga alla regola del mero spossessamento connesso alla costituzione del pegno. Il debitore consegna al creditore cose fungibili (es. danaro o titoli) che il creditore acquista in proprietà e che è tenuto a restituire nello stesso genere e nella medesima quantità successivamente all’estinzione del rapporto obbligatorio 23. Il pegno irregolare (comportando il trasferimento della proprietà del bene al creditore pignoratizio) rappresenta un’eccezione rispetto alla tipica funzione di garanzia del pegno; perciò, per la giurisprudenza, il trasferimento della proprietà deve essere espressamente previsto dalla legge e ammesso alle condizioni da questa previste: diversamente deve essere qualificato come pegno regolare 24. Nei contratti di anticipazione bancaria si fa spesso ricorso al “pegno irregolare” a garanzia di anticipazione, quando sono vincolati depositi di danaro, merci o titoli che non siano stati individuati o per i quali sia stata conferita alla banca la facoltà di disporre: la banca deve restituire la somma o la parte delle merci o dei titoli che eccedono l’ammontare dei crediti garantiti, in relazione al valore delle merci e dei titoli al tempo della scadenza dei crediti (art. 1851) 25; è la logica che ispira la validità del patto marciano rispet22

Se il debitore non propone opposizione entro cinque giorni o se questa è rigettata, il creditore può far vendere la cosa al pubblico incanto (artt. 534 ss. c.p.c.) ovvero, se la cosa ha un prezzo di mercato, anche al c.d. prezzo corrente (art. 15153) a mezzo di persona autorizzata a tali atti (art. 83 disp. att.). È in facoltà delle parti convenire forme diverse per la vendita (art. 27974). 23 Cfr. Cass. 3-10-2018, n. 24137. 24 Sebbene le parti abbiano il potere di determinarne l’oggetto, la durata ed, eventualmente, la possibilità di sostituzione mediante il meccanismo rotativo, non hanno anche la facoltà di qualificarlo come regolare o irregolare, discendendo tale conseguenza giuridica dalle norme del codice civile in tema di diritti reali di garanzia opponibili a terzi, che hanno carattere indisponibile (Cass. 31-1-2014, n. 2120). Per l’ipotesi di inadempimento del debitore, si è fatto ricorso all’istituto della compensazione di obbligazioni reciproche, benché non corrispettive, tra l’obbligazione originaria del debitore e quella di restituzione del creditore, sicché, nell’ipotesi di inadempimento del debitore, il creditore può fare definitivamente propria la somma ricevuta corrispondente al credito garantito compensandolo con il suo debito di restituzione del tantundem, nel legittimo esercizio del proprio diritto di prelazione (Cass. 1-4-2011, n. 7563). 25 Per la configurabilità del pegno irregolare ex art. 1851 è richiesto che il deposito di danaro vincolato a garanzia del credito non sia stato individuato o che sia stata conferita alla banca la facoltà di disporne: in mancanza di tali condizioni, il deposito di danaro vincolato a garanzia deve essere qualificato come pegno

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to alla nullità del patto commissorio (VII, 5.3). È anche ricorrente la prassi di costituire in pegno a favore della banca depositaria un libretto di deposito, con disponibilità della banca 26. Tale è anche il c.d. deposito cauzionale, versato a garanzia di adempimento di alcuni obblighi (si pensi al deposito cauzionale corrisposto dal conduttore in occasione della stipula del contratto di locazione 27 o in occasione di operazioni di leasing). b) Pegno omnibus. Vi è una deroga alla regola della determinatezza del credito garantito. In forza di apposita clausola di estensione, sono garantiti i crediti che potranno successivamente sorgere tra le parti, costituendosi in una sola volta e con un medesimo atto una garanzia aperta ed idonea ad estendere i propri effetti anche in futuro per i rapporti di credito che dovessero intervenire successivamente. È costituito un diritto di pegno su determinati titoli di credito depositati ed amministrati dalla banca a garanzia di tutti i diritti di credito presenti e futuri derivanti dalle linee di finanziamento concesse o da concedere in favore del soggetto affidatario. Un diffuso orientamento tende a mitigare la portata di tale figura, richiedendosi almeno la determinabilità dei crediti garantiti al momento della costituzione del pegno 28. Inoltre la clausola omnibus, valida tra le parti, è considerata inopponibile ai terzi al fine di evitare possibili collusioni tra creditore e debitore a danno dei terzi. c) Pegno rotativo. Vi è una deroga alla regola della specialità del bene oggetto di garanzia. Nella convenzione costitutiva della garanzia le parti prevedono la possibilità di sostituire i beni originariamente costituiti in garanzia con altri beni: la determinazione del pegno è riferita, non alla materialità di un bene, ma al suo valore economico, nella continuità del rapporto originario, i cui effetti risalgono alla consegna dei beni originariamente dati in pegno. Il cliente della banca (debitore) si impegna a mantenere a disposizione della banca (creditore) una provvista finanziaria costante che il creditore può sottoporre ad esecuzione in ipotesi di inadempimento (e nelle altre ipotesi consentite) 29. regolare (Cass. 12-9-2011, n. 18597; Cass. 10-3-2006, n. 5290). Il pegno di saldo di conto corrente bancario costituito a favore della banca depositaria si configura come pegno irregolare quando sia conferita alla banca la facoltà di disporre della relativa somma, mentre, nel caso in cui difetti il conferimento di tale facoltà, si rientra nella disciplina del pegno regolare (Cass. 8-8-2016, n. 16618). 26 Il pegno di un libretto di deposito bancario costituito a favore della banca depositaria si configura come pegno irregolare quando sia conferita espressamente alla banca la facoltà di disporre del relativo diritto; mentre, nel caso in cui difetti il conferimento di tale facoltà, si rientra nella disciplina del pegno regolare, onde la banca garantita non acquisisce la somma portata dal titolo o dal documento (con obbligo di riversare o scomputare il relativo ammontare), ma è tenuta a restituire il titolo o il documento stesso (Cass. 9-5-2000, n. 5845). 27 Con il rilascio dell’immobile, ove il locatore trattenga la somma in deposito senza proporre domanda giudiziale per l’attribuzione, in tutto o in parte, della stessa a copertura di specifici danni subiti o di importi rimasti impagati, il conduttore può esigerne la restituzione; nel giudizio promosso dal conduttore per la restituzione del deposito cauzionale, l’esistenza di eventuali danni può essere dedotta a fondamento di domanda riconvenzionale risarcitoria, nel rispetto dei termini processuali dettati a pena di decadenza (Cass. 5-7-2019, n. 18069). 28 Perché il credito garantito possa ritenersi sufficientemente indicato, non occorre che esso venga specificato nella scrittura costitutiva del pegno in tutti i suoi elementi oggettivi, bastando che la scrittura medesima contenga elementi idonei a consentirne la identificazione (Cass. 19-3-2004, n. 5561). 29 Il c.d. “patto di rotatività” si connota come fattispecie a formazione progressiva, nascente da quell’accordo e caratterizzata dalla sostituzione, totale o parziale, dell’oggetto della garanzia, senza necessità di ulte-

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d) Pegno gordiano. Vi è una deroga alla certezza del credito. La figura prende il nome dall’imperatore Gordiano III, che l’introdusse nel III sec. d.c., con l’intento di tutelare il creditore per una ulteriore posizione di pegno per un diverso credito verso il debitore. Se dopo la costituzione del pegno sorge un altro debito verso il creditore, scadente prima del pagamento del debito cui inerisce il pegno, il creditore ha diritto di ritenzione a garanzia del nuovo credito (art. 27942). La peculiarità è che una garanzia pignoratizia costituita per una obbligazione, in forza di legge, si converte in un diritto di ritenzione della cosa ricevuta in pegno a garanzia dell’adempimento di una differente obbligazione successivamente costituita. e) Pegno mobiliare non possessorio. È la figura più anomala di pegno, per addirittura assenza di spossessamento. È funzionale al finanziamento di credito alle imprese, che non possono spossessarsi di beni dell’azienda o di scorte o di prodotti. Se ne parlerà trattando delle garanzie reali con esecuzione stragiudiziale (par. 12).

7. Ipoteca. – Sono stati anticipati i caratteri generali dell’ipoteca come garanzia reale, comuni al pegno, così delineati: la inerenza a beni determinati; la specialità dei beni sui quali insiste; la determinatezza dei crediti di riferimento; la indivisibilità della garanzia; (par. 4). L’ipoteca è la garanzia reale costituita dal debitore o da un terzo in favore del creditore su beni immobili e mobili registrati a garanzia dell’obbligazione (c.d. accessorietà) 30; come il pegno, ha la funzione di assicurare al creditore la prelazione sul ricavato della vendita del bene espropriato (art. 2808) (per il terzo datore di ipoteca, VII, 7.9). a) Sono oggetto di ipoteca i beni immobili che sono in commercio con le relative pertinenze 31; essendo previste le ipotesi di ipoteca relativa ai diritti reali di godimento, la previsione dell’art. 28101 riferita a “immobili” è da intendersi alla proprietà (piena o nuda). Per la medesima norma sono pure capaci di ipoteca il diritto di usufrutto di beni immobili (art. 2814), i diritti dell’enfiteuta e del concedente sul fondo enfiteutico (art. 2815), il diritto di superficie (art. 2816). Il diritto di servitù è escluso dal novero dei beni riori stipulazioni, pur nella continuità del rapporto originario, i cui effetti risalgono alla consegna dei beni inizialmente dati in pegno; il trasferimento del vincolo pignoratizio non richiede una nuova e distinta manifestazione di volontà delle parti o che l’indicazione dei diversi beni risulti da un atto scritto avente data certa, rivelandosi sufficiente che la descritta sostituzione sia accompagnata dalla specifica indicazione di quelli sostituiti e dal riferimento all’accordo suddetto, così consentendosi il collegamento con l’originaria pattuizione (Cass. 22-12-2015, n. 25796). Il pegno rotativo non determina effetti novativi sul rapporto iniziale; deve ritenersi legittimo quando ricorrono tre condizioni: il pegno risulti da atto scritto avente data certa (cioè una convenzione che preveda espressamente un siffatto meccanismo di sostituzione dei beni dati in pegno); il bene originariamente oggetto del pegno sia stato consegnato al creditore pignoratizio; il bene offerto in sostituzione abbia un valore non superiore a quello sostituito (Cass. 5-3-2004, n. 4520). Vedi anche Cass. 11-11-2003, n. 16914. Per riferimenti normativi al “patto di rotatività”, v. art. 87 D.Lgs. 58/1998; art. 34 D.Lgs. 213/1998; art. 5 Reg. C.E. 1346/2000. 30 L’accessorietà dell’ipoteca denota la mancanza di autonomia rispetto all’obbligazione garantita: l’ipoteca non può, quindi, essere ceduta con effetti reali senza il credito garantito né trasferita a un chirografo, cui farebbe acquistare una prelazione prima inesistente; consegue altresì l’estinzione dell’ipoteca una volta affermata la simulazione del credito a garanzia del quale era stata concessa e l’inestensibilità della garanzia ipotecaria all’obbligazione collegata al contratto dissimulato, poiché estranea al rapporto per la quale era stata prevista (Cass. 6-11-2006, n. 23669). 31 L’ipoteca iscritta sul terreno sul quale insiste un capannone industriale si estende anche alla costruzione in virtù del principio della normale estensione dell’ipoteca all’intero immobile, nei limiti in cui si estende il diritto di proprietà ex art. 840 c.c. (Cass. 3-9-2019, n. 21993).

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oggetto di ipoteca in quanto non è suscettibile di atto di disposizione (e dunque di espropriazione) separatamente dalla proprietà del fondo per la cui utilità è costituito (c.d. fondo dominante). Sono anche esclusi il diritto di uso e il diritto di abitazione per il riferimento degli stessi ai bisogni del titolare e della sua famiglia (artt. 1021 e 1022). Sono anche oggetto di ipoteca le rendite dello Stato e i beni mobili registrati (navi, aeromobili e autoveicoli), secondo l’elencazione dell’art. 28102, con rinvio alle norme che li riguardano. È consentita la ipoteca sulla quota di comunione (artt. 11032 e 2825). Possono essere garantite con ipoteca anche le obbligazioni risultanti da titoli all’ordine o al portatore (art. 2831). In presenza di pericolo di danno ai beni ipotecati, in quanto il debitore o un terzo compiono atti dai quali possa derivare il perimento o il deterioramento dei beni, il creditore può domandare all’autorità giudiziaria che sia ordinata la cessazione di tali atti o siano disposte le cautele necessarie per evitare il pregiudizio della garanzia (art. 2813); facoltà correlata alla generale previsione di reintegrazione della garanzia patrimoniale ex art. 2743 (quale carattere comune della garanzia patrimoniale). b) La costituzione dell’ipoteca (ad opera del debitore o di un terzo) avviene mediante iscrizione nei registri di pubblicità (art. 2808): trattasi dunque di una pubblicità costitutiva (XIV, 1.2) (ampiamente in seguito). L’ipoteca è assistita dai requisiti di “specialità” e “indivisibilità” (art. 2809). Con il requisito di specialità si intende che l’ipoteca deve essere iscritta su beni specialmente indicati e per una somma determinata in danaro (28091): c’è dunque necessità di esatta identificazione dell’immobile o dei singoli immobili ipotecati 32 e di esatta determinazione dell’ammontare del credito, indicato in una somma di danaro 33. Omissioni o inesattezze nel titolo o nella nota di iscrizione che inducano incertezza sulla persona del creditore o del debitore o sull’ammontare del credito ovvero sulla persona del proprietario del bene gravato (quando l’indicazione è necessaria) o sull’identità dei singoli beni gravati comportano la invalidità dell’iscrizione (art. 2841) 34. L’esigenza di specialità comporta anche che l’ipoteca non può essere riferita ad un rapporto obbligatorio non ancora esistente 35. Con il requisito di indivisibilità si intende che l’ipoteca è indivisibile nel senso che sussiste per intero sopra tutti i beni vincolati, sopra ciascuno di essi e sopra ogni loro parte (art. 28092). Si estende ai miglioramenti, nonché alle costruzioni e alle altre accessioni dell’immobile ipotecato (art. 2811). Se più sono gli immobili gravati da ipoteca, 32 Nell’atto di concessione dell’ipoteca l’immobile deve essere specificamente designato con l’indicazione della sua natura, del comune in cui si trova, nonché dei dati di identificazione catastale; per i fabbricati in corso di costruzione devono essere indicati i dati di identificazione catastale del terreno su cui insistono (art. 2826). 33 Se la somma di danaro non è determinata negli atti in base ai quali è eseguita l’iscrizione o in atto successivo, essa è determinata dal creditore nella nota per l’iscrizione; qualora tra la somma enunciata nell’atto e nella nota vi sia divergenza, l’iscrizione ha efficacia per la somma minore (art. 2838). 34 Ogni omissione, inesattezza o incertezza nei titoli o nelle note di iscrizione ipotecaria, che determini a sua volta incertezza sulla identità degli immobili gravati, determina la nullità della iscrizione ipotecaria (Cass. 2-10-2003, n. 14675). 35 Deve escludersi la possibilità di un’ipoteca per crediti che non siano dipendenti da un rapporto già esistente al momento della costituzione della garanzia, quali quelli derivanti da mutui previsti come una delle forme alternative di una apertura di credito atipica o mista, le cui condizioni economiche e contrattuali siano tuttavia rimesse a successive pattuizioni, senza alcun vincolo giuridico a contrarre o senza alcuna predeterminazione del relativo contenuto (Cass. 7-3-2017, n. 5630).

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non c’è necessità di sottoporre ad escussione tutti i beni, rimanendo nella libertà del creditore scegliere il bene o anche una parte dello stesso sul quale far valere l’ipoteca. E questa rimane per l’intero fino a quando il credito garantito non sia interamente soddisfatto sia per il capitale che per gli interessi e non siano estinti gli altri oneri (art. 2855). L’iscrizione conserva il suo effetto per venti anni dalla sua data; l’effetto cessa se l’iscrizione non è rinnovata prima che scada detto termine (art. 2847). Analogamente nei confronti del terzo acquirente, salve le cause di sospensione ed interruzione (art. 2880). Consegue che, nei mutui ipotecari di durata superiore ai venti anni, l’istituto bancario è tenuto è rinnovare l’iscrizione prima della scadenza dei venti anni. c) Effetto dell’ipoteca, come anche del pegno, è la costituzione di un diritto reale di garanzia sul bene ipotecato. Il bene ipotecato rimane nella proprietà e nel possesso del debitore o del terzo datore; è giuridicamente circolabile e possibile oggetto di alienazione da parte del proprietario, sebbene il vincolo ipotecario, in fatto, lo renda poco appetibile sul mercato (specie se la somma per la quale è stata presa l’iscrizione copra l’intero valore del bene). L’ipoteca attribuisce al creditore il diritto di seguito, per cui il bene può essere espropriato anche in confronto del terzo acquirente e di soddisfarsi con preferenza sul prezzo ricavato dalla vendita (art. 2808). d) Riduzione. Quando la somma per la quale è stata presa l’iscrizione o la consistenza dei beni gravati è eccessiva rispetto all’importo del credito, è consentito ottenere una riduzione dell’ipoteca onde non ostacolare ingiustificatamente la utilizzazione dei beni. La riduzione dell’ipoteca è eseguita riducendo la somma per la quale è stata presa l’iscrizione o restringendo l’iscrizione ad una parte più contenuta dei beni; in quest’ultimo caso, se l’ipoteca ha ad oggetto un solo bene, la restrizione è possibile se il bene abbia parti distinte o tali che si possano comodamente distinguere (art. 2872). Non è ammessa la riduzione se la quantità dei beni o la somma è stata determinata per convenzione o per sentenza, tranne che non siano stati eseguiti pagamenti parziali così da estinguere almeno il quinto del debito originario (art. 2873). In ogni caso la riduzione deve rispettare un duplice limite: l’eccedenza del quinto per ciò che riguarda l’importo del credito; l’eccedenza del terzo per ciò che riguarda il valore dei beni (art. 2876). e) Surrogazione. È il caso del creditore che ha ipoteca su un immobile del debitore sul quale si è soddisfatto un creditore di grado anteriore, la cui ipoteca si estendeva però ad altri beni dello stesso debitore; il creditore insoddisfatto può surrogarsi nell’ipoteca iscritta dal creditore soddisfatto sugli altri beni, al fine di soddisfarsi su questi con preferenza rispetto ai creditori posteriori alla propria iscrizione (c.d. surrogazione del creditore perdente ex art. 2856) (ad es. un creditore iscrive ipoteca nel 2020 sull’immobile A, sul quale un diverso creditore aveva già iscritto ipoteca, estesa all’immobile B; dopo che il creditore di grado precedente si è soddisfatto sull’immobile A, il creditore restato insoddisfatto può surrogarsi nell’ipoteca sull’immobile B del creditore soddisfatto, in precedenza rispetto ad un terzo creditore che ha acceso ipoteca sull’immobile B nel 2022, quindi dopo l’iscrizione del creditore insoddisfatto che era del 2020. Il senso della norma è la tutela dell’aspettativa di essere tutelati secondo l’ordine di iscrizione delle ipoteche 36. 36

La surrogazione è ammessa con un duplice limite: è esercitabile solo sui beni del comune debitore, e

CAP. 6 – CAUSE LEGITTIME DI PRELAZIONE

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La surrogazione (o sostituzione) di ipoteca è anche utilizzata in tema di muto ipotecario. Per la opponibilità della surrogatoria ai creditori posteriori è obbligatoria l’annotazione della surrogazione a margine dell’iscrizione di ipoteca del creditore soddisfatto (art. 28573). f) Successione. Con il subentro di un terzo nel credito ipotecario si determina anche una vicenda modificativa della titolarità dell’ipoteca. Ciò può avvenire con la cessione del credito, in quanto, per effetto della cessione, il credito è trasferito con i privilegi e con le garanzie reali e personali (art. 1263); oppure mediante il pagamento con surrogazione, potendo il creditore surrogare il terzo che ha pagato nei propri diritti (art. 1201) o potendo il debitore che ha preso a mutuo la somma surrogare il mutuante nei diritti del creditore (art. 1202). È una esperienza diffusa nelle ipotesi di collocazione dei mutui ipotecari: gli istituti di credito conseguono un pagamento anticipato (sebbene inferiore), evitando la procedura di espropriazione; il terzo sconta un prezzo inferiore di acquisto del credito, che metterà successivamente ad esecuzione sull’immobile ipotecato eventualmente chiedendone l’assegnazione. g) Estinzione. La vicenda estintiva del diritto di ipoteca è correlata, vuoi alla sorte dell’iscrizione (per essere questa costitutiva), vuoi alla sorte del titolo sul quale la garanzia è fondata. Le cause di estinzione dell’ipoteca sono tassative e sono così indicate dall’art. 2878: 1) la cancellazione dell’iscrizione (che di regola è posteriore al venir meno del titolo); 2) la mancata rinnovazione dell’iscrizione nel termine di venti anni dalla iscrizione (ma si è visto come l’art. 2848 consente la “nuova iscrizione” quando perdura l’efficacia del titolo); 3) l’estinzione dell’obbligazione (è la più ricorrente causa di estinzione, connaturata alla natura accessoria della garanzia, per cui venuta meno l’obbligazione viene meno anche la garanzia); 4) il perimento del bene ipotecato (ma con surrogazione dell’indennità assicurativa alla cosa ex art. 2742); 5) la rinunzia del creditore all’ipoteca (deve essere espressa e risultare da atto scritto a pena di nullità: art. 2879); 6) lo spirare del termine di durata dell’ipoteca o l’avveramento della condizione risolutiva; 7) la pronunzia di provvedimento che trasferisce all’acquirente il diritto espropriato e ordina la cancellazione della ipoteca. Se il bene ipotecato è alienato, l’ipoteca si estingue per prescrizione, indipendentemente dal credito, col decorso di venti anni dalla data della trascrizione del titolo di acquisto, salve le cause di sospensione e d’interruzione (art. 2880).

8. Titolo dell’ipoteca. – Il titolo dell’ipoteca costituisce la fonte che dà diritto alla iscrizione dell’ipoteca e ne consente la costituzione. In ragione della peculiarità del titolo, originano tre tipi di ipoteca: legale, giudiziale e convenzionale; anche se la costituzione avviene sempre con la iscrizione nei registri di pubblicità (par. 7). a) Ipoteca legale. Il titolo dell’ipoteca è nella legge, che prevede in favore di alcuni soggetti il diritto alla iscrizione ipotecaria. Per l’art. 2817 hanno diritto all’iscrizione di ipoteca legale: 1) l’alienante sopra gli immobili alienati per l’adempimento degli obblighi che derivano dall’atto di alienazione, quale è tipicamente il pagamento del prezzo (c.d. non di un terzo; non è esercitabile sui beni alienati dal debitore, quando l’alienazione è trascritta anteriormente all’iscrizione ipotecaria del creditore perdente (art. 28571). Si è detto della surrogazione legale nei diritti del creditore a vantaggio di chi, essendo creditore ancorché chirografario, paga un altro creditore che ha diritto di essergli preferito in ragione dei suoi privilegi, del suo pegno o delle sue ipoteche (art. 1203, n. 1) (surrogazione ipotecaria per pagamento) (VII, 2.7).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

ipoteca dell’alienante); 2) i coeredi, i soci ed altri condividenti per il pagamento dei conguagli sopra gli immobili assegnati ai condividenti ai quali incombe tale obbligo (c.d. ipoteca del condividente); 3) lo Stato sopra i beni dell’imputato e della persona civilmente responsabile (c.d. ipoteca dello Stato). L’ipoteca dell’alienante e quella del condividente sono disciplinate dal codice civile; l’ipoteca dello Stato è regolata dal codice penale e da quello di procedura penale. Il conservatore dei registri immobiliari, afferente all’Agenzia delle entrate (ufficio del territorio), nel trascrivere un atto di alienazione o di divisione, deve iscrivere d’ufficio l’ipoteca legale che spetta all’alienante e al condividente, a meno che vi sia stata rinunzia all’ipoteca legale da parte dell’alienante o del condividente o sia allegato un atto pubblico o una scrittura privata con sottoscrizione autenticata o accertata giudizialmente da cui risulti che gli obblighi sono stati adempiuti (art. 2834). Una ipotesi particolare di ipoteca prevista per legge è quella operante in materia tributaria ad opera del concessionario della riscossione, ai sensi dell’art. 77 D.P.R. 29.9.1973, n. 602, secondo cui, decorso inutilmente il termine di sessanta giorni dalla notificazione della cartella di pagamento, “il ruolo costituisce titolo per iscrivere ipoteca sugli immobili del debitore e dei coobbligati per un importo pari al doppio dell’importo complessivo per cui si procede” 37. La specificità sta nel fatto di fondarsi l’ipoteca su un provvedimento amministrativo 38 (il problema si è posto anche con riferimento alla esecuzione sui beni e frutti del fondo patrimoniale) 39. b) Ipoteca giudiziale. Il titolo dell’ipoteca è in un provvedimento giudiziale. In particolare sono titoli per l’iscrizione dell’ipoteca sui beni del debitore la sentenza di condanna al pagamento di una somma o all’adempimento di altra obbligazione ovvero al risarcimento dei danni anche da liquidarsi successivamente, nonché ogni altro provvedimento giudiziale al quale la legge attribuisce il medesimo effetto (art. 2818). È sufficiente una sentenza di condanna generica al risarcimento dei danni. La legge indica quali titoli utili alla iscrizione dell’ipoteca giudiziale: il lodo arbitrale, quando è reso esecutivo dal tribunale (artt. 2819 e 8252 c.p.c.); il decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo (art. 655 c.p.c.); il verbale di accordo amichevole di conciliazione (art. 12 D.Lgs. 28/2010); l’accordo di composizione della controversia nella negoziazione assistita (art. 5 D.L. 132/2014, conv. con L. 162/2014). Costituisce abuso del diritto la iscrizione per un valore sproporzionato al credito 40. 37 L’agente della riscossione, anche al solo fine di assicurare la tutela del credito da riscuotere, può iscrivere la garanzia ipotecaria di cui al co. 1, purché l’importo complessivo del credito per cui si procede non sia inferiore complessivamente a ventimila euro (co. 1 bis); e deve notificare al proprietario dell’immobile una comunicazione preventiva contenente l’avviso che, in mancanza del pagamento delle somme dovute entro il termine di trenta giorni, sarà iscritta l’ipoteca (co. 2 bis). 38 Al pari del fermo ex art. 86 D.P.R. 602/1973, anche l’ipoteca di cui all’art. 77 cit. è stata considerata un atto preordinato all’espropriazione, dovendo così soggiacere agli stessi limiti per questa stabiliti dal precedente art. 76 (Cass., sez. un., 12-4-2012, n. 5771; Cass., sez. un., 22-2-2010, n. 4077). La stessa ha natura cautelare e non è atto dell’espropriazione (Cass. 12-2-2016, n. 2879). 39 L’iscrizione ipotecaria per debiti tributari, ex art. 77 D.P.R. 602/1973, su beni facenti parte di un fondo patrimoniale è soggetta alle condizioni ex art. 170 c.c., sicché è legittima se l’obbligazione tributaria sia strumentale ai bisogni della famiglia o se il titolare del credito non ne conosceva l’estraneità a tali bisogni, gravando sul debitore opponente l’onere della prova di esclusione dalla esecuzione (Cass. 23-8-2018, n. 20998; Cass. 24-1-2018, n. 1806; Cass. 11-7-2017, n. 17076; Cass. 5-3-2013, n. 5385). 40 Il creditore che, senza adoperare la normale diligenza, iscriva ipoteca su beni per un valore sproporzio-

CAP. 6 – CAUSE LEGITTIME DI PRELAZIONE

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È bene sottolineare che non è il provvedimento giudiziale a costituire l’ipoteca. Il provvedimento giudiziale contiene la condanna al pagamento: su tale fondamento, e dunque in virtù di tale titolo, il creditore ha diritto a iscrivere ipoteca sugli immobili appartenenti al debitore e su quelli che gli pervengono successivamente alla condanna, a misura che egli li acquista (art. 2828) 41. Talvolta è la legge stessa a prevedere che la sentenza costituisce titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale (ad es. la sentenza di separazione o divorzio che impone il pagamento di un assegno a carico di un coniuge: artt. 1565 e. 82 l. div.). Si può anche iscrivere ipoteca in base a sentenze pronunziate da autorità giudiziarie straniere, dopo che ne è stata dichiarata l’efficacia dall’autorità giudiziaria italiana (art. 2820). c) Ipoteca volontaria. Il titolo dell’ipoteca è nella volontà privata. Può essere concessa (dal debitore o dal terzo) per contratto (c.d. ipoteca convenzionale) o per atto unilaterale, ad esclusione del testamento (art. 2821) 42. La esclusione della fonte testamentaria mira ad evitare che il debitore possa alterare la situazione dei suoi creditori per il tempo in cui egli avrà cessato di vivere, così derogando alla regola della par condicio dei creditori del defunto (Relaz. cod. civ., n. 1146). L’iscrizione ipotecaria eseguita in virtù di un titolo annullabile rimane convalidata con la convalida del titolo (art. 2824). La concessione di ipoteca deve farsi con atto solenne (atto pubblico ovvero scrittura privata con sottoscrizione autenticata o accertata giudizialmente), contenente le indicazioni dell’immobile ipotecato, con specificazione della natura dell’immobile, del comune in cui si trova e dei dati di identificazione catastale (art. 2826). Si ripropongono i medesimi conflitti suscitati dai negozi su beni altrui o di beni futuri, con gli adattamenti richiesti dal modo di costituzione dell’ipoteca. In particolare, la concessione di ipoteca su beni altrui è valida, anche se inefficace per l’alienità del bene concesso in ipoteca: l’iscrizione dell’ipoteca può essere validamente presa solo quando il bene è acquistato dal concedente 43 (art. 28221). L’atto di concessione ha efficacia obbligatoria: il concedente assume l’obbligo di procurare al creditore la costituzione di ipoteca (conseguendo il consenso del proprietario alla costituzione dell’ipoteca o acquistando senz’altro la cosa) (v. art. 1476 sulla vendita di cosa altrui). Analogamente, se è concessa ipoteca su beni futuri, l’ipoteca può essere validamente iscritta solo quando la cosa è venuta ad esistenza (art. 2823) (v. art. 1472 sulla vendita di cose future). nato rispetto al credito garantito, secondo i parametri previsti dagli artt. 2875 e 2876 c.c., incorre, qualora sia accertata l’inesistenza del diritto per cui è stata iscritta l’ipoteca giudiziale medesima, nella responsabilità aggravata prevista dall’art. 962 c.p.c., configurandosi un abuso della garanzia patrimoniale in danno del debitore (Cass. 5-4-2016, n. 6533). 41 Il creditore che sia munito di un titolo esecutivo nei confronti di una società di persone può avere interesse a dotarsi di un secondo titolo esecutivo nei confronti dei soci illimitatamente responsabili, al fine di poter iscrivere ipoteca giudiziale sui beni immobili personali di questi ultimi, non potendo a tal fine avvalersi del titolo ottenuto nei confronti della società (Cass. 28-8-2019, n. 21768). 42 L’atto costitutivo d’ipoteca si configura ordinariamente come negozio unilaterale, potendo constare anche della sola volontà del concedente, senza che vi sia bisogno, per la nascita del vincolo, dell’accettazione del creditore, la quale fa invece assumere al negozio struttura contrattuale, come risultante di un accordo bilaterale tra concedente e beneficiario (Cass. 14-10-2005, n. 19963). 43 Se l’ipoteca è concessa da persona che agisce come rappresentante senza averne la qualità, l’iscrizione può essere validamente presa solo quando il proprietario ha ratificato la concessione (art. 28222).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

L’ipoteca costituita sopra la quota di beni indivisi da uno dei partecipanti alla comunione produce effetto rispetto a quei beni o a quella porzione di beni che saranno a lui assegnati nella divisione (art. 2825) 44.

9. Pubblicità ipotecaria e formalità. – Nell’ultima parte del libro si parlerà della pubblicità degli atti dispositivi di immobili e di mobili registrati, individuando l’impianto e l’impostazione dei registri. Si vedrà come la costituzione e la vita dell’ipoteca sono formalizzate nei registri immobiliari (XIV, 2.3), mentre per la costituzione su mobili registrati operano distinti e appositi registri 45. È qui anticipata la trattazione della pubblicità ipotecaria per costituirsi l’ipoteca mediante iscrizione nei registri immobiliari, sicché anche la vita dell’ipoteca va pubblicizzata. L’attenzione è rivolta alla ipoteca su immobili, ma i risultati sono estensibili alla ipoteca mobiliare. a) Iscrizione. La costituzione dell’ipoteca (c.d. accensione dell’ipoteca) avviene mediante iscrizione nell’ufficio dei registri immobiliari del luogo in cui si trova l’immobile, con la presentazione del titolo costitutivo dell’ipoteca insieme con una nota sottoscritta dal richiedente in doppio originale 46, con indicazione dell’ammontare del credito per il quale si iscrive ipoteca 47, secondo le formalità previste dagli artt. 2827 ss. (vedi in generale la pubblicità immobiliare: XIV, 2). Per i mobili registrati, l’iscrizione va presa presso il registro dove è iscritto il bene mobile. Essenziale è il grado dell’ipoteca, che è determinato secondo l’ordine di iscrizione dell’ipoteca nei registri immobiliari. L’ordine di soddisfacimento tra più creditori ipotecari è fissato appunto dall’ordine di iscrizione ipotecaria: chi ha grado precedente è preferito a chi ha grado successivo. Nella eventualità di più iscrizioni ipotecarie (in favore di più creditori), la preferenza tra i creditori è data dalla priorità temporale tra le varie iscrizioni, che si esprime attraverso un ordine cronologico delle iscrizioni medesime, che assegna il grado dell’ipoteca: l’ipoteca prende appunto grado dal momento della sua iscrizione, anche se è iscritta per un credito condizionale (art. 2852). Il numero d’ordine di iscrizione determina il grado dell’ipoteca: il numero più antico individua il 1° grado, quello successivo il 2° grado, e così di seguito. L’ordine delle ipoteche segna l’ordine di pagamento dei vari creditori, cominciandosi a soddisfare il creditore di 1° grado, poi quello di 2° grado, e così di seguito. Se, dopo soddisfatto per intero il creditore di 1° 44 L’ipoteca iscritta su edificio o complesso condominiale, anche da costruire o in corso di costruzione, a garanzia di finanziamento di intervento edilizio ai sensi del D.Lgs. 385/1993, prevale sulla trascrizione anteriore dei contratti preliminari ex art. 2645 bis, limitatamente alla quota di debito derivante dal finanziamento che il promissario acquirente si sia accollata con il contratto preliminare o con altro atto successivo (art. 2825 bis). 45 Per gli autoveicoli, v. R.D.L. 15.3.1927, n. 436: per le navi, v. artt. 565 ss. cod. nav.; per gli aeromobili, v. artt. 1027 ss. cod. nav. 46 L’art. 2839 fissa il contenuto della nota di iscrizione: oltre l’indicazione del creditore, del debitore e dell’eventuale terzo datore di ipoteca, e della specificazione del credito e degli interessi, vanno indicati la natura e la situazione dei beni gravati, con le indicazioni dell’immobile ipotecato prescritte dall’art. 2826. 47 Se la somma di danaro per la quale la iscrizione è eseguita non è determinata nel titolo o in un atto successivo, essa va determinata dal creditore nella nota per la iscrizione; qualora vi sia divergenza, l’iscrizione ha efficacia per la somma minore (art. 2838). Eseguita l’iscrizione, è restituito al richiedente uno degli originali della nota, con la certificazione in calce al medesimo della data e del numero d’ordine dell’iscrizione (art. 2840). Le formalità per l’iscrizione dell’ipoteca sono previste dall’art. 2839. Salvo patto contrario, le relative spese sono a carico del debitore, ma devono essere anticipate dal richiedente.

CAP. 6 – CAUSE LEGITTIME DI PRELAZIONE

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grado, non c’è capienza per i creditori ipotecari con numero successivo e quindi di grado posteriore, questi sono costretti a soddisfarsi sul restante patrimonio in concorso con i creditori chirografari. Si comprende pertanto come, in presenza di un patrimonio non sufficiente a soddisfare l’intera debitoria, l’interesse alla ipoteca è in ragione del grado ipotecario di iscrizione. Se intervengono richieste contemporanee d’iscrizione, in quanto più persone presentano contemporaneamente la nota per ottenere l’iscrizione contro la stessa persona o sugli stessi immobili, le iscrizioni sono eseguite con lo stesso numero, facendosi di ciò menzione nella ricevuta spedita ai singoli richiedenti (art. 2853). L’iscrizione dell’ipoteca fa collocare nello stesso grado le spese dell’atto di costituzione, quelle della iscrizione e rinnovazione e quelle ordinarie occorrenti per l’intervento nel processo di esecuzione. In ogni caso l’iscrizione per un capitale che produce interessi fa collocare nello stesso grado gli interessi dovuti, con diverse modalità a seconda che trattasi o meno di interessi convenzionali (art. 2855). Anche i conflitti tra creditore ipotecario e titolari dei singoli diritti reali incidenti sul bene ipotecato sono risolti attraverso la priorità nella pubblicità. Le servitù, l’usufrutto, l’uso e l’abitazione, trascritti dopo la iscrizione dell’ipoteca, non sono opponibili al creditore ipotecario che può fare subastare la cosa come libera. Con la espropriazione dell’immobile i detti diritti si estinguono e i titolari sono ammessi a far valere le loro ragioni sul ricavato, con preferenza rispetto alle ipoteche iscritte posteriormente alla trascrizione dei diritti medesimi. Quanto al diritto di superficie e al diritto di enfiteusi, trascritti posteriormente all’iscrizione dell’ipoteca, valgono le disposizioni degli artt. 2858 ss. relative agli effetti dell’ipoteca rispetto al terzo acquirente (art. 2812). Specifici diritti sono accordati terzo acquirente 48. b) Postergazione di grado. È possibile lo scambio del grado tra creditori ipotecari, purché non siano lesi i creditori ipotecari di grado successivo. Così due creditori di grado immediatamente successivo possono scambiarsi il grado, con una postergazione in sequenza: la posposizione non nuoce al creditore di grado successivo, che comunque ha davanti a sé entrambi i creditori (ad es. sussistono un credito di 1° grado di 100, un credito di 2° grado di 200 e un credito di 3° grado di 500; se i primi due scambiano il grado, il credito di 3° grado rimane nella medesima posizione di avere innanzi due crediti per un complessivo di 300). Può anche intervenire uno scambio di grado tra creditori con numero di iscrizione non immediatamente successivo, con postergazione per salto, 48 Al terzo acquirente del bene ipotecato, che ha trascritto il titolo di acquisto, sono accordati tre fondamentali diritti: a) diritto di evitare l’espropriazione dei beni ipotecati, attraverso le seguenti facoltà, a sua scelta: 1) pagare integralmente i creditori ipotecari; 2) rilasciare i beni ipotecati ai creditori ipotecari; 3) liberare l’immobile dall’ipoteca (c.d. purgazione dell’ipoteca) (art. 2858); b) diritto di far separare dal prezzo della vendita la parte relativa ai miglioramenti eseguiti dopo la trascrizione dell’acquisto, anche se non può ritenere l’immobile per causa di miglioramenti (art. 28642); c) diritto ad indennità verso il debitore (autore dell’alienazione), anche se si tratta di acquisto a titolo gratuito, se ha pagato i creditori iscritti ovvero ha rilasciato l’immobile o ha sofferto l’espropriazione; in dipendenza di ciò ha pure diritto di subingresso nelle ipoteche dei creditori soddisfatti sugli altri beni del debitore (trattasi in sostanza della surrogazione legale ex art. 1203, n. 2). Se alcuni beni sono stati alienati a terzi, il terzo ha azione solo contro coloro che hanno trascritto il proprio acquisto in data posteriore alla trascrizione del suo acquisto (art. 2866).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

nei limiti però di non ledere il creditore di grado intermedio (nell’esempio fatto, se lo scambio avviene tra il credito di 1° grado di 100 e quello di 3°grado è di 500, il credito di 2° grado di 200 si trova innanzi un credito di 500 e non più di 100; lo scambio tra i due crediti può avvenire solo nei limiti di 100, sicché il creditore di 2° grado mantiene innanzi un credito di 100, cioè della medesima somma). Per entrambe le ipotesi di postergazione non si ha vendita in quanto non c’è scambio di diritto contro prezzo, ma solo scambio di due diritti, sicché può parlarsi di permuta. Di entrambe va fatta annotazione in margine dell’iscrizione (art. 2843). c) Rinnovazione. Si è visto come l’iscrizione conserva il suo effetto per venti anni dalla sua data (art. 2847). È consentito evitare la cessazione dell’effetto dell’iscrizione con la rinnovazione dell’iscrizione prima dello scadere dei venti anni 49. L’ipoteca è rinnovata di altri venti anni, e così di seguito, sempre nel medesimo grado della prima iscrizione. La rinnovazione consente di prolungare indefinitamente l’effetto dell’iscrizione fino alla estinzione del diritto di ipoteca (es. per l’estinzione dell’obbligazione garantita). Se il creditore lascia inutilmente spirare il termine di venti anni senza rinnovare l’iscrizione, l’effetto dell’originaria iscrizione cessa, così venendo meno gli effetti favorevoli della eseguita pubblicità. Il creditore potrà prendere una nuova iscrizione (quando il titolo per l’iscrizione conserva la sua efficacia), ma l’ipoteca prende il grado dalla data della nuova iscrizione(art. 2848), con varie conseguenze negative per il creditore: anzitutto, durante il ventennio, un altro creditore potrebbe aver preso iscrizione, sicché tale ipoteca ha un grado anteriore e perciò con diritto di essere soddisfatto con preferenza; inoltre la nuova iscrizione non può essere fatta valere contro i terzi acquirenti dell’immobile che abbiano trascritto il loro titolo prima della nuova iscrizione (art. 28482). Sicuramente la pubblicità ha funzione di opponibilità ai terzi, mentre è dibattuta la funzione costitutiva 50. d) Annotazione. Si è detto delle varie vicende che possono inerire alla vita dell’ipoteca, sia rispetto alla titolarità, con trasmissione dell’ipoteca in capo ad altro soggetto che ha acquisito la titolarità del diritto di credito, cui inerisce l’ipoteca; sia con riguardo al contenuto, per l’intervenuta riduzione dell’ipoteca per riduzione del credito per il quale è stata presa o per concentrazione su una parte più contenuta dei beni; sia ancora rispetto alla collocazione d’ordine, per disposizione del grado con scambio o surrogazione. Di tali vicende, come di ogni altra vicenda conseguente ad atti dispositivi del credito, va fatta annotazione in margine dell’iscrizione (art. 2843) (in un registro telematico, a seguito dell’iscrizione) (in generale della funzione e della natura della formalità dell’annotazione se ne parlerà con la pubblicità: XIV, 2.3). e) Cancellazione. La cancellazione dell’iscrizione non è automatica alla estinzione del credito, implicando un’attività successiva 51: ad es. il pagamento dell’ultima rata di muto 49 A nulla rileva che il termine ventennale spiri in pendenza del processo di esecuzione, a meno che non sia già stato emesso prima della scadenza del termine il decreto di trasferimento del bene ipotecato (Cass. 14-5-2012, n. 7498). Le formalità per la rinnovazione sono previste dall’art. 2850. 50 Cfr. Cass. 29-1-2016, n. 1671: Il credito di chi si surroghi nella posizione del creditore ipotecario, a seguito di cessione annotata a margine della iscrizione ipotecaria, prende lo stesso grado dell’ipoteca iscritta, ma il privilegio ipotecario non si estende alle spese necessarie per l’annotazione, avendo quest’ultima solo funzione di opponibilità ai terzi della modifica soggettiva del credito e non partecipando della funzione di costituzione o di mantenimento della ipoteca. 51 Le formalità per la cancellazione sono previste dagli artt. 2882 ss.

CAP. 6 – CAUSE LEGITTIME DI PRELAZIONE

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estingue l’obbligazione ma non produce la cancellazione dell’ipoteca, che prosegue fino a venti anni dopo la data di iscrizione della formalità ipotecaria nei pubblici registri immobiliari 52. Può, anzitutto, avvenire per volontà del creditore, manifestata mediante atto pubblico o per scrittura privata con sottoscrizione autenticata o accertata giudizialmente (art. 2882). È necessaria la capacità del creditore per operare la liberazione del debitore; diversamente è richiesto l’intervento dei soggetti di ausilio (ex artt. 320, 374, 394, 424) (art. 2883). Se il creditore iscritto non consente alla cancellazione quando è cessata l’efficacia del titolo, è tenuto al risarcimento dei danni verso il proprietario del bene ipotecato per gli ostacoli conseguenti sulla circolazione del bene (arg. art. 1200), secondo il principio di correttezza (VII, 3.3). La cancellazione può essere ordinata con sentenza passata in giudicato o con altro provvedimento definitivo delle autorità competenti (art. 2884) 53.

C) GARANZIE REALI CON ESECUZIONE STRAGIUDIZIALE 10. Il sostegno finanziario alle imprese e ai consumatori. – Si è visto come il credito sia alimento essenziale della vita dell’impresa e volano dell’economia di mercato; anche il credito al consumo, favorendo l’assorbimento dei prodotti, incentiva la crescita economica. Da tempo è emersa l’esigenza di facilitare il ricorso al credito con il coinvolgimento delle banche, evitando però alle stesse il pericolo del protrarsi di inadempimenti dei clienti, che determinerebbe una diversa anomalia del sistema economico per l’arrestarsi dei flussi di prestito. Sono così maturate figure composite di garanzia che, per un verso, consentono di accedere al credito senza privarsi di risorse e beni utili all’attività economica, e dall’altro permettono alle banche il recupero privilegiato del credito in autotutela attraverso la escussione diretta della garanzia, che è l’essenza del patto marciano (VII, 5.3), senza scontare lentezze e costi della esecuzione giudiziaria (VIII, 10.5). Il sistema di escussione del patrimonio del debitore attraverso la esecuzione giudiziaria è eroso e spesso stravolto in funzione di obiettivi economici di sostegno nell’accesso al credito, potendo le banche contare su procedure stragiudiziali semplificate e celeri per recuperare le somme erogate in caso di inadempimento 54. 52 Con il D.Lgs. 14.12.2010, n. 218, è prevista una cancellazione semplificata delle ipoteche a garanzia di obbligazioni da contratti di mutuo. Per ogni tipo di finanziamento, purché concesso da una banca, da una finanziaria o da ente previdenziale obbligatorio, il TUB consente al mutuatario che abbia adempiuto i suoi obblighi di pagamento, di ottenere la cancellazione dell’ipoteca a cura della banca in tempi relativamente brevi e senza aggravio di ulteriori spese. 53 La cancellazione della iscrizione toglie valore a quest’ultima, non potendosi procedere ad una nuova iscrizione; invece la mancata rinnovazione nel ventennio produce effetti più limitati, perché se il titolo sussiste, nonostante la sopravvenuta inefficacia dell’iscrizione, può procedersi ad una nuova iscrizione (Cass. 16-2-1994, n. 1505). La dichiarazione di nullità, l’annullamento, la risoluzione, la rescissione, la revocazione, l’avveramento della condizione risolutiva relativi all’atto che ha dato luogo alla iscrizione devono annotarsi a margine della iscrizione dell’atto stesso (art. 26551). 54 Con comunicato del Ministero econ. e finanze del 4.5.2016 sono state sottolineate “le ripercussioni positive sull’economia reale del complesso degli interventi normativi in quanto le banche, potendo rientrare più facilmente dei loro crediti, disporranno di spazi maggiori in bilancio per erogare prestiti alle imprese che, nel contempo, potranno più facilmente ottenere finanziamenti dagli istituti di credito”.

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

11. Contratti di garanzia finanziaria. – Con D.Lgs. 21.5.2004, n. 170, come modificato dall’art. 2 D.Lgs. 24.3.2011, n. 48, è stata data attuazione alla direttiva 2002/47/CE in materia di contratti di garanzia finanziaria. Sono tali i contratti di pegno, di cessione del credito, di trasferimento della proprietà di attività finanziarie con funzione di garanzia (compreso il contratto di pronti contro termine) e ogni altro contratto avente ad oggetto attività finanziarie volto a garantire l’adempimento di obbligazioni finanziarie, cioè di obbligazioni (anche condizionali o future) al pagamento di una somma di danaro ovvero alla consegna di strumenti finanziari. È richiesta la forma scritta sia ai fini della prova che per la opponibilità ai terzi. Datore di tale garanzia può essere un soggetto diverso dal debitore; ma i contraenti devono rientrare in una delle categorie indicate dalla legge 55. La normativa introdotta mira a facilitare la realizzazione del credito, con la previsione di validità dei contratti che attribuiscono al creditore pignoratizio poteri di escussione della garanzia in via di autotutela 56, salva la successiva verifica nell’ipotesi di non corretto esercizio dei poteri attribuiti. Il creditore pignoratizio informa immediatamente per iscritto il datore della garanzia stessa o, se del caso, gli organi della procedura di risanamento o di liquidazione in merito alle modalità di escussione adottate e all’importo ricavato e restituisce contestualmente l’eccedenza. Le deviazioni rispetto all’art. 2744 sul divieto del patto commissorio si giustificano con la natura della garanzia offerta: trattandosi di beni con valore di mercato oggettivamente verificabile viene meno il pericolo di abusi a danni del debitore, che è l’essenza del patto marciano (VII, 5.3). La valutazione ordinamentale è solo accantonata, salvo operare per l’ipotesi di irragionevole escussione della garanzia. Una tutela più intensa è accordata al creditore in presenza di una procedura di liquidazione o di risanamento. 12. Pegno mobiliare non possessorio. – Con l’art. 1 D.L. 3.5.2016, n. 59, conv. con modif. con L. 30.6.2016, n. 119, è introdotto il pegno mobiliare non possessorio, caratterizzato dall’assenza di spossessamento del bene, cioè senza consegna al creditore del bene che gli conferisce l’esclusiva disponibilità (in deroga all’art. 2786). a) Relativamente alla costituzione, devono ricorrere più presupposti. Anzitutto vi è una qualificazione delle parti: solo gli imprenditori iscritti nel registro 55 Tali sono: autorità pubbliche, banche centrali, enti finanziari sottoposti a vigilanza prudenziale (inclusi enti creditizi, imprese di investimento, enti finanziari, imprese di assicurazione, organismi di investimento collettivo in valori mobiliari, società di gestione), controparti centrali, agenti di regolamento o stanze di compensazione, persone diverse dalle persone fisiche, incluse imprese e associazioni prive di personalità giuridica, purché la controparte rientri in una delle categorie indicate. 56 Al verificarsi di un evento giustificante l’escussione della garanzia, il creditore pignoratizio ha facoltà, anche in caso di apertura di una procedura di risanamento o di liquidazione, di procedere, osservando le formalità previste nel contratto, alla vendita delle attività finanziarie oggetto del pegno, trattenendo il corrispettivo a soddisfacimento del proprio credito, fino a concorrenza del valore dell’obbligazione finanziaria garantita; ad informare immediatamente per iscritto il datore della garanzia stessa o, se del caso, gli organi della procedura di risanamento o di liquidazione in merito alle modalità di escussione adottate e all’importo ricavato e restituisce contestualmente l’eccedenza (art. 4). I contratti di garanzia finanziaria che prevedono il trasferimento della proprietà con funzione di garanzia, compresi i contratti di pronti contro termine, hanno effetto in conformità ai termini in essi stabiliti, indipendentemente dalla loro qualificazione; a tali contratti non si applica l’art. 2744 c.c. (art. 62).

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delle imprese possono costituire un pegno non possessorio, con previsione dell’importo massimo garantito. Inoltre deve sussistere un requisito dei beni: il pegno non possessorio può essere costituito su beni mobili, anche immateriali, destinati all’esercizio dell’impresa e sui crediti derivanti da o inerenti a tale esercizio, a esclusione dei beni mobili registrati. I beni mobili possono essere esistenti o futuri, determinati o determinabili anche mediante riferimento a una o più categorie merceologiche o a un valore complessivo 57. Il contratto costitutivo, a pena di nullità, deve risultare da atto scritto con indicazione del creditore, del debitore e dell’eventuale terzo concedente il pegno, la descrizione del bene dato in garanzia, del credito garantito e l’indicazione dell’importo massimo garantito. In assenza di spossessamento, la conoscenza legale verso i terzi è assicurata dalla pubblicità. Il pegno non possessorio ha effetto verso i terzi con la iscrizione in un registro informatizzato costituito presso l’Agenzia delle entrate e denominato “registro dei pegni non possessori”; dal momento dell’iscrizione il pegno prende grado ed è opponibile ai terzi e nelle procedure esecutive e concorsuali. L’iscrizione deve indicare il creditore, il debitore e l’eventuale terzo datore del pegno; nonché contenere la descrizione del bene dato in garanzia e del credito garantito, e, per il pegno non possessorio che garantisce il finanziamento per l’acquisto di un bene determinato, la specifica individuazione del medesimo bene. L’iscrizione ha una durata di dieci anni, rinnovabile con una nuova iscrizione nel registro effettuata prima della scadenza del decimo anno. La cancellazione della iscrizione può essere richiesta di comune accordo da creditore pignoratizio e datore del pegno o domandata giudizialmente 58. b) Quanto alla escussione, è assicurato il soddisfacimento privilegiato del creditore pignoratizio in via di autotutela. Il creditore, previa intimazione notificata al debitore e all’eventuale terzo concedente il pegno, e previo avviso scritto agli eventuali titolari di un pegno non possessorio trascritto nonché al debitore del credito oggetto del pegno, procede alla realizzazione coattiva del credito, mediante alienazione, locazione o appropriazione del bene in garanzia, con le modalità prescritte dal co. 7. Se il titolo non dispone diversamente, il datore della garanzia deve consegnare il bene mobile oggetto del pegno al creditore entro quindici giorni dalla notificazione dell’intimazione. Se la consegna non ha luogo nel termine stabilito, il creditore può fare istanza, anche verbale, all’ufficiale giudiziario perché proceda, anche non munito di titolo esecutivo e di precetto, a norma delle disposizioni in materia di esecuzione per consegna o rilascio (artt. 605 ss. c.p.c.), in quanto compatibili. c) Esistono più rimedi a tutela del debitore per l’ipotesi di abuso dell’autotutela da parte del creditore pignoratizio. Il debitore e l’eventuale terzo concedente il pegno hanno diritto di proporre opposi57 Ove non sia diversamente disposto nel contratto, il debitore o il terzo concedente il pegno è autorizzato a trasformare o alienare, nel rispetto della destinazione economica, o comunque a disporre dei beni gravati da pegno, trasferendosi il pegno, rispettivamente, al prodotto risultante dalla trasformazione, al corrispettivo della cessione del bene gravato o al bene sostitutivo acquistato con tale corrispettivo, senza che ciò comporti costituzione di una nuova garanzia. È fatta salva la possibilità per il creditore di promuovere azioni conservative o inibitorie nel caso di abuso nell’utilizzo dei beni da parte del debitore o del terzo concedente il pegno. 58 Le operazioni di iscrizione, consultazione, modifica, rinnovo o cancellazione presso il registro, gli obblighi a carico di chi effettua tali operazioni nonché le modalità di accesso al registro stesso sono regolati con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro della giustizia.

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zione entro cinque giorni dall’intimazione, mediante ricorso a norma delle disposizioni sul procedimento sommario di cognizione (artt. 702 bis ss. c.p.c.); ove concorrano gravi motivi, il giudice, su istanza dell’opponente, può inibire, con provvedimento d’urgenza, al creditore di procedere alla escussione. Ove il bene da consegnare non sia di immediata identificazione, l’ufficiale giudiziario, con spese anticipate dal creditore, si avvale di un esperto stimatore o di un commercialista da lui scelto, per la corretta individuazione, anche mediante esame delle scritture contabili, del bene mobile oggetto del pegno, tenendo conto delle eventuali operazioni di trasformazione o di alienazione poste in essere. Secondo le tutele del patto marciano (VII, 5.3), entro tre mesi dalla intimazione del creditore, il debitore può agire in giudizio per il risarcimento del danno quando il prezzo della vendita, il corrispettivo della cessione, il corrispettivo della locazione ovvero il valore comunicato ai fini dell’appropriazione non corrispondono ai valori correnti di mercato (ovvero l’escussione è avvenuta in violazione dei criteri e delle modalità di cui alle lett. a, b, c e d del co. 7).

13. Credito alle imprese con trasferimento di immobile condizionato all’inadempimento. – Con l’art. 2 D.L. 3.5.2016, n. 59, conv. con modif. con L. 30.6.2016, n. 119, è introdotto l’art. 48 bis al D.Lgs. 385/1993 (testo unico bancario), che prevede la stipula di contratto di finanziamento garantito dal trasferimento in favore del creditore (o soggetto collegato) della proprietà o altro diritto reale immobiliare dell’imprenditore o di un terzo sospensivamente condizionato all’inadempimento del debitore. Il patto può essere stipulato al momento della conclusione del contratto di finanziamento o per atto notarile in sede di successiva modificazione delle condizioni contrattuali. a) Quanto alla conclusione, anche per tale figura (come per il pegno non possessorio) devono ricorrere presupposti soggettivi e oggettivi. Il contratto di finanziamento deve essere concluso tra un imprenditore e una banca o altro soggetto autorizzato a concedere finanziamenti nei confronti del pubblico, con il trasferimento della proprietà di un immobile o di un altro diritto immobiliare dell’imprenditore o di un terzo. Il trasferimento non può essere convenuto in relazione a immobili adibiti ad abitazione principale del proprietario, del coniuge o di suoi parenti e affini entro il terzo grado. Il trasferimento è sospensivamente condizionato all’inadempimento del debitore: si ha inadempimento quando il mancato pagamento si protrae con le modalità previste. Il contratto è soggetto a pubblicità nei registri immobiliari: per la regola generale dell’art. 26592, dell’acquisto sottoposto a condizione sospensiva di inadempimento se ne deve fare menzione nella nota di trascrizione (tranne che al momento della trascrizione la condizione sospensiva si sia verificata) 59. Ai fini della cancellazione della trascrizione della condizione, per essersi la condizione verificata (art. 26683), il creditore, anche uni59

La nota di trascrizione deve indicare gli elementi di cui all’art. 28392, nn. 4, 5 e 6, c.c. Qualora il finanziamento sia già garantito da ipoteca, il trasferimento sospensivamente condizionato all’inadempimento, una volta trascritto, prevale sulle trascrizioni e iscrizioni eseguite successivamente all’iscrizione ipotecaria. Fatti salvi gli effetti dell’aggiudicazione, anche provvisoria, e dell’assegnazione, la disposizione di cui al periodo precedente si applica anche quando l’immobile è stato sottoposto ad espropriazione forzata in forza di pignoramento trascritto prima della trascrizione del patto ma successivamente all’iscrizione dell’ipoteca.

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lateralmente, rende nell’atto notarile di avveramento della condizione una dichiarazione, a norma dell’art. 47 D.P.R. 445/2000, con cui attesta l’inadempimento del debitore, producendo estratto autentico delle scritture contabili ex art. 2214 c.c. b) Venendo alla escussione, al verificarsi dell’inadempimento, il creditore è tenuto a notificare al debitore e, se diverso, al titolare del diritto reale immobiliare, nonché a coloro che hanno diritti derivanti da titolo iscritto o trascritto sull’immobile, una dichiarazione di volersi avvalere degli effetti del patto, precisando l’ammontare del credito per cui procede. Decorsi sessanta giorni, il creditore chiede al presidente del tribunale del luogo nel quale si trova l’immobile la nomina del perito per la stima del diritto reale immobiliare oggetto del patto, con relazione giurata. Il perito opera come arbitratore ai sensi dell’art. 13491, procedendo alla determinazione della prestazione dedotta in contratto, quindi comunica il valore di stima al debitore (se diverso dal debitore, anche al titolare del diritto reale immobiliare), al creditore e a coloro che hanno diritti sull’immobile per titolo iscritto o trascritto dopo la trascrizione del patto. La previsione di stima del bene integra il tratto peculiare del c.d. patto marciano, che lo distingue dal patto commissorio nullo (art. 2744), non determinandosi un approfittamento del creditore verso il debitore (VII, 5.3) 60. Il debitore può contestare la stima del bene. In tal caso si apre un contraddittorio tra il perito e i soggetti interessati i quali possono inviare note al perito, il quale effettua una nuova comunicazione della relazione con gli eventuali chiarimenti 61.

14. Prestito vitalizio ipotecario. – Man mano che la crisi economica morde le economie familiari, sta emergendo un fenomeno, inquietante, di vendita da parte di anziani della nuda proprietà dell’abitazione al fine di procurarsi liquidità monetaria per far fronte alle esigenze di vita. In tale contesto di perversa mobilizzazione della ricchezza immobiliare per l’esigenza di procurarsi ragioni di sostentamento economico, si inserisce tale esperienza che coinvolge banche e istituti di credito che offrono finanziamenti vitalizi garantiti dalla proprietà dell’immobile che rimane in capo al soggetto beneficiario del finanziamento fino alla sua morte. Il fenomeno, emerso in Gran Bretagna alla fine degli anni ’90 (life time mortgage o di equity release) e con ampia diffusione nella cultura anglosassone, ha ricevuto formale riconoscimento in Italia con D.L. 30.9.2005, n. 2013, conv. con L. 2.12.2005, n. 248, con la formula di “prestito vitalizio ipotecario”. Successivamente l’art. unico della L. 2.4.2015, n. 44, modificando e integrando il co. 12 dell’art. 11 quaterdecies della detta normativa, ha 60

Può farsi luogo al trasferimento anche quando il diritto reale immobiliare già oggetto del patto sia sottoposto ad esecuzione forzata per espropriazione. In tal caso l’accertamento dell’inadempimento del debitore è compiuto, su istanza del creditore, dal giudice dell’esecuzione e il valore di stima è determinato dall’esperto nominato dallo stesso giudice. Ai fini del concorso tra i creditori, il patto a scopo di garanzia è equiparato all’ipoteca. 61 Qualora il debitore contesti la stima, il creditore ha comunque diritto di avvalersi degli effetti del patto e l’eventuale fondatezza della contestazione incide sulla differenza da versare al titolare del diritto reale immobiliare, dovendo il proprietario corrispondere la differenza tra il valore di stima del diritto e l’ammontare del debito inadempiuto e delle spese di trasferimento. Il contratto di finanziamento o la sua modificazione contiene l’espressa previsione di un apposito conto corrente bancario senza spese, intestato al titolare del diritto reale immobiliare, sul quale il creditore deve accreditare l’importo pari alla differenza tra il valore di stima e l’ammontare del debito inadempiuto.

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

previsto che il contratto ha per oggetto la concessione da parte di banche nonché di intermediari finanziari di finanziamenti a medio e lungo termine, con capitalizzazione annuale di interessi e di spese, riservati a persone fisiche con età superiore a sessanta anni, il cui rimborso integrale in un’unica soluzione può essere richiesto al momento della morte del soggetto finanziato ovvero qualora vengano trasferiti (in tutto o in parte) la proprietà o altri diritti reali o di godimento sull’immobile dato in garanzia o si compiano atti che ne riducano significativamente il valore, inclusa la costituzione di diritti reali di garanzia 62. I finanziamenti sono garantiti da ipoteca di primo grado su immobili residenziali, con applicazione dell’art. 391-2-3-4-7 TUIB; e tale ipoteca non può essere iscritta contemporaneamente su più immobili di proprietà del beneficiario del finanziamento. Qualora il finanziamento non sia integralmente rimborsato entro dodici mesi dal verificarsi degli eventi di cui sopra, il finanziatore vende l’immobile ad un valore pari a quello di mercato, determinato da un perito indipendente incaricato dal finanziatore, utilizzando le somme ricavate dalla vendita per estinguere il credito vantato in dipendenza del finanziamento. Si determina una sostituzione legale nel potere di disposizione del venditore, non nella proprietà del bene, finalizzata al soddisfacimento del creditore. È dunque una forma di autotutela del finanziatore nella realizzazione del credito in quanto la vendita può essere compiuta direttamente dal finanziatore senza ricorrere agli strumenti giudiziari coattivi della vendita forzata. La logica che assiste il fenomeno è quella del patto marciano (VII, 5.3) in quanto le eventuali somme rimanenti, ricavate dalla vendita e non portate a estinzione del predetto credito, sono riconosciute al soggetto finanziato o ai suoi aventi causa (co. 12 quater). È un istituto che, per come è stato regolato, presenta per l’utilizzatore poche luci e molte ombre. A fronte del generico vantaggio di consentire l’utilizzo di una somma di danaro senza rimborso rateale, genera molti inconvenienti. Nella dimensione soggettiva, non stimola risparmio familiare e dunque in prospettiva non attiva l’economia familiare: ciò che gode in vita il proprietario è sottratto agli eredi. Nella dimensione oggettiva, a parte il vincolo di indisponibilità che inerisce il bene, per cui il sottoscrittore è tenuto al rimborso integrale se aliena il bene, il sottoscrittore non ha neppure autonomia di utilizzazione dovendo conservare la destinazione e redditività del bene e non potendo locarlo a terzi; spesso è astretto da interventi manutentivi, che normalmente non eseguirebbe in ragione delle proprie difficoltà economiche, ma che invece deve attuare in funzione di conservazione dell’immobile, destinato ad essere collocato sul mercato. Nella dimensione del finanziamento, c’è una capitalizzazione composta sul capitale prestato e sugli interessi maturati, con previsione costante dell’anatocismo che comporta una crescita esponenziale del debito; inoltre l’importo del prestito erogato generalmente oscilla tra il 15 per cento e un massimo del 50 per cento del valore dell’immobile, percentuale che varia in ragione dell’età del soggetto sottoscrittore (più è anziano più la percentuale sale), delle condizioni dell’immobile e dell’appetibilità sul mercato, mentre l’utilizzatore mette in 62

È fatta salva la possibilità di concordare, al momento della stipulazione del contratto, modalità di rimborso graduale della quota di interessi e delle spese, prima del verificarsi degli eventi che danno luogo al rimborso integrale, sulla quale non si applica la capitalizzazione annuale degli interessi. In caso di inadempimento, si applica l’art. 402 (TUIB), con l’effetto che la banca può invocare come causa di risoluzione del contratto il ritardato pagamento quando lo stesso si sia verificato almeno sette volte, anche non consecutive, considerandosi per ritardato pagamento quello effettuato tra il trentesimo e il centoottantesimo giorno dalla scadenza della rata.

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gioco sempre la proprietà dell’immobile. Per di più l’immobile è valutato da perizia realizzata da professionista incaricato dal soggetto finanziatore: testualmente la legge parla di “perito indipendente incaricato dal finanziatore”!

15. Credito ipotecario ai consumatori per acquisto di immobile residenziale. – Con l’art. 11 D.Lgs. 21.4.2016, n. 72, è stata data attuazione alla direttiva 2014/17/UE di previsione del credito ai consumatori per l’acquisto di beni immobili residenziali (c.d. Mortgage Credit Directive – Mcd 63), mediante l’inserimento nel D.Lgs. 385/1993 (TUB), sotto il Titolo VI rubricato “Trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti con i clienti”, del Capo I bis intitolato “Credito immobiliare ai consumatori” (artt. 120 quinquies ss.). La direttiva intende intervenire nell’area dei mutui ipotecari destinati all’acquisto o alla ristrutturazione dell’abitazione, da sempre regolata da normative nazionali, con una normativa europea armonizzata 64, per agevolare la creazione di un mercato interno immobiliare funzionante, garantendo i consumatori che gli operatori si comportino in maniera professionale e responsabile. Per l’art. 120 quinquies, lett. c, si intende per “contratto di credito” un contratto con cui un finanziatore concede o si impegna a concedere a un consumatore un credito sotto forma di dilazione di pagamento, di prestito o di altra facilitazione finanziaria, quando il credito è garantito da un’ipoteca sul diritto di proprietà o su altro diritto reale avente a oggetto beni immobili residenziali o è finalizzato all’acquisto o alla conservazione del diritto di proprietà su un terreno o su un immobile edificato o progettato (co. 1) 65. Una normativa specifica riguarda il merito dell’operazione, sia con riguardo al merito creditizio del consumatore, sia con riferimento alla valutazione dei beni immobili. Prima della conclusione del contratto di credito, il finanziatore svolge una valutazione approfondita del merito creditizio del consumatore, tenendo conto dei fattori pertinenti per verificare le prospettive di adempimento da parte del consumatore degli obblighi stabiliti dal contratto di credito; la valutazione è effettuata sulla base delle informazioni sulla situazione economica e finanziaria del consumatore necessarie, sufficienti, proporzionate e opportunamente verificate (art. 120 undecies). I finanziatori applicano standard affidabili per la valutazione dei beni immobili residenziali ai fini della concessione di credito   63 La Commissione europea già si era mossa con una raccomandazione del 2001 cui ha fatto seguito nel 2007 il Libro bianco sull’integrazione dei mercati U.E. del credito ipotecario. 64 Si intende per “finanziatore” un soggetto che, essendo abilitato a erogare finanziamenti a titolo professionale nel territorio della Repubblica, offre o stipula contratti di credito (lett. e); e per “intermediario del credito” gli agenti in attività finanziaria, i mediatori creditizi o qualsiasi altro soggetto, diverso dal finanziatore, che nell’esercizio della propria attività commerciale o professionale svolge, a fronte di un compenso in denaro o di altro vantaggio economico oggetto di pattuizione e nel rispetto delle riserve di attività previste dalla legislazione vigente, almeno una delle attività indicate (lett. g). 65 Il finanziatore e l’intermediario del credito devono comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, tenendo conto dei diritti e degli interessi dei consumatori, e basano la propria attività sulle informazioni rilevanti riguardanti la situazione del consumatore, su ogni bisogno particolare che questi ha comunicato, su ipotesi ragionevoli con riguardo ai rischi cui è esposta la situazione del consumatore per la durata del contratto di credito (art. 120 septies). Gli annunci pubblicitari relativi a contratti di credito vanno effettuati in forma corretta, chiara e non ingannevole (art. 120 octies). Tra gli obblighi precontrattuali è posto a carico del finanziatore e dell’intermediario del credito l’obbligo di mettere a disposizione del consumatore un documento contenente informazioni generali chiare e comprensibili sui contratti di credito offerti, su supporto cartaceo o altro supporto durevole (art. 120 nonies).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

garantito da ipoteca; quando la valutazione è condotta da soggetti terzi, i finanziatori assicurano che questi ultimi adottino standard affidabili (art. 120 duodecies) 66. Il profilo più delicato è la disciplina dell’inadempimento contrattuale del consumatore. Per l’art. 120 quinquiesdecies il finanziatore non può imporre al consumatore oneri, derivanti dall’inadempimento, superiori a quelli necessari a compensare i costi sostenuti a causa dell’inadempimento stesso; però, fermo quanto previsto dall’art. 2744 c.c., le parti possono convenire al momento della conclusione del contratto, con clausola espressa, che, in caso di inadempimento del consumatore, la restituzione o il trasferimento del bene immobile oggetto di garanzia reale o dei proventi della vendita del medesimo bene comporta l’estinzione dell’intero debito a carico del consumatore derivante dal contratto di credito anche se il valore del bene immobile restituito o trasferito ovvero l’ammontare dei proventi della vendita è inferiore al debito residuo; se il valore dell’immobile come stimato dal perito ovvero l’ammontare dei proventi della vendita è superiore al debito residuo, il consumatore ha diritto all’eccedenza; in ogni caso, il finanziatore si adopera con ogni diligenza per conseguire dalla vendita il miglior prezzo di realizzo (co. 3); il valore del bene immobile oggetto della garanzia è stimato da un perito indipendente scelto dalle parti di comune accordo ovvero, in caso di mancato raggiungimento dell’accordo, nominato dal Presidente del Tribunale territorialmente competente (co. 4). È un altro meccanismo di soluzione della controversia senza ricorso all’autorità giudiziaria, che opera secondo la logica del c.d. patto marciano (VII, 5.3). Anche se il richiamo alla valutazione del perito è compiuta in modo contorto, è comunque ricostruibile il principio che l’acquisizione dell’immobile al creditore deve essere preceduta dalla stima del bene, per compararne il valore con l’ammontare del credito, con attribuzione della eventuale differenza al debitore.

66 L’Osservatorio del mercato immobiliare istituito presso l’Agenzia delle entrate assicura il controllo statistico sul mercato immobiliare residenziale ed effettua le opportune comunicazioni ai fini dei controlli di vigilanza macro-prudenziale (art. 120 sexiesdecies).

CAPITOLO 7

ESTENSIONE DELLA RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE (Garanzie di terzi)

Sommario: 1. Garanzie legali e volontarie. – A) GARANZIE PERSONALI. – 2. Generalità. – 3. Fideiussione. – 4. Contratto autonomo di garanzia. – 5. Mandato di credito. – 6. Avallo. – 7. Lettera di patronage. – 8. Garanzie collettive. – B) GARANZIE REALI. – 9. Cenni e rinvio.

1. Garanzie legali e volontarie. – Sono frequenti le ipotesi di rafforzamento della garanzia del credito con l’estensione della base soggettiva della responsabilità patrimoniale, affiancandosi alla responsabilità patrimoniale del debitore la responsabilità patrimoniale di altri soggetti, imposta per legge o assunta volontariamente. Viene in discussione la previsione dell’art. 1179 che, in presenza di un obbligo di garanzia da parte del debitore senza che ne sia determinato il modo e la forma, fa obbligo al debitore di prestare “un’idonea garanzia reale o personale, ovvero altra sufficiente cautela”. Risponde a un preciso obbligo di legge, oltre che a un generale dovere di correttezza, che la garanzia prestata sia coerente con l’obbligazione principale assunta, in grado di procurare sicurezza di adempimento al creditore, che è l’essenza della obbligazione di garanzia: le due obbligazioni sono distinte ma collegate. Talvolta è la legge a prevedere che alcuni soggetti, per la qualità rivestita e/o l’attività svolta, rispondano per le obbligazioni assunte da soggetti giuridici diversi. Si parla al riguardo di garanzia (personale) ex lege: ad es., per le associazioni non riconosciute, delle obbligazioni delle associazioni rispondono (oltre il fondo comune) anche personalmente e solidalmente le persone che hanno agito in nome e per conto dell’associazione (art. 38) (IV, 3.9); per le società in nome collettivo, dopo l’escussione del patrimonio sociale, i creditori posso pretendere il pagamento dai singoli soci, anche se la società è in liquidazione (art. 2304). Altre volte la garanzia aggiuntiva trova fonte nella volontà privata. In presenza di un patrimonio modesto rispetto alla entità del credito, il creditore è solito chiedere che il debitore procuri garanzie da parte di altri soggetti (terzi) in grado di adempiere in luogo del debitore: oggetto dell’obbligazione di garanzia sta proprio nel procurare al creditore sicurezza di soddisfacimento. Di regola, sono oggetto di pattuizione il tipo di garanzia e le modalità di costituzione ed escussione. In assenza di ogni indicazione, chi è tenuto a dare una garanzia può prestare a sua scelta un’idonea garanzia reale o una garanzia personale ovvero altra sufficiente cautela (art. 1179). Un campo dove comunemente si svolge il rilascio di garanzie da parte di terzi è quel-

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lo dei contratti bancari, richiedendo gli istituti di credito che la erogazione del credito sia assistita da garanzie reali e/o personali di terzi quando il patrimonio del debitore non offra sicurezza di recupero 1; nelle ipotesi di credito a società di capitali, si chiede la garanzia aggiuntiva dei soci.

A) GARANZIE PERSONALI 2. Generalità. – È possibile che un soggetto assuma la garanzia personale dell’adempimento di una obbligazione altrui (spesso sono i familiari, partner o genitori, ad assumere la garanzia dell’adempimento). La garanzia così costituita comporta, a carico del terzo, la garanzia generale del credito: il terzo cioè risponde illimitatamente per l’adempimento dell’obbligazione altrui, con tutti i suoi beni presenti e futuri (art. 2740). Le garanzie personali del terzo si aggiungono a quella del debitore (c.d. debitore principale) e sono escusse secondo specifiche modalità e condizioni delle singole garanzie. La figura tipica e generale di garanzia personale prevista dal codice civile è la fideiussione (artt. 1936 ss.). Però non sussiste un principio di tipicità (e tassatività) delle garanzie, consentendosi ai privati di utilizzare strumenti diversi. L’esigenza di incentivazione del credito nelle relazioni economiche, così nello svolgimento dell’attività di impresa che nell’accesso al consumo, favorisce il ricorso a vari meccanismi di garanzia del credito, talvolta già regolati dalla legge, come la promessa dell’obbligazione e del fatto del terzo (art. 1381) (VIII, 6.15), l’avallo e il mandato di credito, talaltra privi di disciplina ma diffusi nelle relazioni economiche con regolazioni ormai standardizzate, come il contratto autonomo di garanzia, la lettera di patronage e le garanzie collettive (in parte disciplinate). 3. Fideiussione. – È la garanzia personale più frequente (si pensi alla fideiussione prestata dal terzo a garanzia del pagamento dei canoni di locazione, oppure a garanzia della restituzione di somme prese a mutuo dalla banca): il codice civile dedica alla stessa la disciplina più nutrita. Gli artt. 1936 ss. regolano la fideiussione sotto il Titolo relativo ai “singoli contratti”; perciò la fideiussione è un contratto tipico. Per l’art. 1936 “è fideiussore colui che, obbligandosi personalmente verso il creditore, garantisce l’adempimento di un’obbligazione altrui; la fideiussione è efficace anche se il debitore non ne ha conoscenza” 2. Causa tipica del negozio è la garanzia dell’adempimento di un debito altrui mediante estensione della base soggettiva della responsabilità patrimoniale 3. La figura si atteggia come contratto 1

Si è soliti ammettere il conferimento di garanzie nella società: il socio può conferire specifiche garanzie personali e/o reali (fideiussioni, avalli, ipoteche) verso determinati soggetti (di regola istituti di credito), che consentono alla società di ottenere credito sul mercato. È necessario che la garanzia sia concessa espressamente a titolo di conferimento; diversamente il garante non acquista la qualità di socio. 2 Il debitore obbligato a dare una garanzia fideiussoria deve presentare persona capace, che possieda beni sufficienti a garantire l’obbligazione e che abbia o elegga domicilio nella giurisdizione della Corte di appello in cui la fideiussione si deve prestare (art. 19431). Quando il fideiussore è divenuto insolvente, deve esserne dato un altro, tranne che la fideiussione sia stata prestata dalla persona voluta dal creditore (art. 19432). 3 Una fideiussione non può ritenersi mancante ove prestata da soggetto il cui patrimonio sia attualmente incapiente, restando fermi, in applicazione dell’art. 2740, sia la sottoposizione a vincolo patrimoniale che la soggezione al potere di coazione del debitore (Cass. 10-9-2019, n. 22559).

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unilaterale ex art. 1333, nel senso che dallo stesso derivano obbligazioni a carico del solo proponente e cioè del fideiussore. Come per l’intera categoria dei contratti con effetti a carico di una sola parte, anche per la fideiussione è frequente la configurazione di negozio unilaterale recettizio (art. 1334) 4, con il diritto di rifiuto del beneficiario (invito beneficum non datur) (VIII, 2.18). La volontà di prestare fideiussione deve essere espressa: chi intende garantire deve manifestare la volontà di adempiere l’obbligazione del debitore principale 5. Anche rispetto al fideiussore va verificato il ricorso della qualifica soggettiva di “consumatore” per l’applicazione alla fideiussione della disciplina consumeristica, con riguardo allo specifico rapporto intrattenuto dal fideiussore 6. Per i debiti di maggiore consistenza, sono talvolta coinvolti più soggetti nella garanzia del credito, costituendo una confideiussione 7 o una fideiussione plurima 8 o una fideius4 È ammesso che la fideiussione possa essere data anche mediante negozio giuridico unilaterale e secondo alcuni anche per testamento. La giurisprudenza considera valido ed efficace il negozio di fideiussione quando rechi la sola sottoscrizione del fideiussore, non rifiutata dal creditore (Cass. 19-12-2017, n. 30409; Cass. 2-4-2009, n. 8005; Cass. 13-2-2009, n. 3525). L’obbligazione fideiussoria, non richiedendo per perfezionarsi l’accettazione espressa del creditore, per l’art. 1333, la conferma inviata dal creditore costituisce un elemento esecutivo del negozio già concluso (Cass. 14-2-2018, n. 3606). 5 Non è imposta la forma scritta o l’adozione di formule sacramentali, purché la volontà del fideiussore sia “manifestata in modo inequivocabile” (Cass. 2-4-2009, n. 8005). 6 Nel contratto di fideiussione, i requisiti soggettivi per l’applicazione della disciplina consumeristica devono essere valutati con riferimento alle parti di esso, senza considerare il contratto principale, come affermato dalla giurisprudenza unionale (Corte giust. U.E., 19.11.2015, causa C-74/15, e 14.9.2016, causa C-534/15); deve ritenersi consumatore il fideiussore persona fisica che, pur svolgendo una propria attività professionale (o anche più attività professionali), stipuli il contratto di garanzia per finalità estranee alla stessa, nel senso che la prestazione della fideiussione non deve costituire atto espressivo di tale attività, né essere strettamente funzionale al suo svolgimento (cd. atti strumentali in senso proprio) (Cass. 16-1-2020, n. 742). I requisiti soggettivi di consumatore in relazione ad un contratto di fideiussione stipulato da un socio in favore della società devono essere valutati con riferimento alle parti dello stesso (e non già del distinto contratto principale), dando rilievo all’entità della partecipazione al capitale sociale nonché alla qualità di amministratore della società garantita del fideiussore (Cass. 13-12-2018, n. 32225). 7 Si ha confideiussione (o cofideiussione) quando la fideiussione è prestata da più persone per un medesimo debitore e a garanzia di un medesimo debito (art. 1946). Più soggetti prestano la fideiussione nella reciproca consapevolezza di esistenza dell’altrui garanzia e con l’intento di garantire congiuntamente il medesimo debito e il medesimo debitore; si caratterizza come un insieme di vincoli di garanzia collegati da un interesse comune che determina l’obbligazione confideiussoria per l’intero; perciò ogni confideiussore è obbligato in solido con gli altri confideiussori e con il debitore principale (Cass. 24-10-2008, n. 25748; Cass. 6-12-2007, n. 25475; Cass. 2-9-2004, n. 17723). La confideiussione può essere prestata contestualmente con un medesimo atto o anche con atti separati correlati allo scopo unitario, perciò rileva giuridicamente, anche per il risvolto tributario, come unica operazione (Cass. 8-10-2013, n. 22840). Il confideiussore che ha adempiuto per l’intero ha diritto di regresso verso il debitore principale ex art. 1954 (per l’intero) e verso gli altri fideiussori (per la quota di spettanza di ciascuno); ognuno dei confideiussori ha diritto di regresso verso il debitore principale per la quota pagata. Se uno è insolvente, la perdita si ripartisce tra i vari debitori compreso quello che ha fatto il pagamento (art. 1954). È possibile pattuire il b e n e f i c i o d e l l a d i v i s i o n e : in tal caso ogni fideiussore che sia convenuto per il pagamento dell’intero debito può esigere che il creditore riduca l’azione alla parte da lui dovuta (art. 1947). 8 Si ha fideiussione plurima nell’ipotesi di distinte fideiussioni prestate da diversi soggetti in tempi successivi e con atti separati, senza alcuna manifestazione di reciproca consapevolezza tra fideiussori o addirittura con espressa convenzione con il creditore di mantenere differenziata la propria obbligazione da quella degli altri, e, in ogni caso, in assenza di un collegamento correlato ad un interesse comune dei cogaranti. Non si applica il regresso ex art. 1954; è ammessa soltanto la surrogazione ex art. 1203 del garante che abbia estinto

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sione di fideiussione 9. Spesso la fideiussione convive con garanzie reali (pegno o ipoteca) prestate da terzi su specifici beni. Quanto all’oggetto, la fideiussione è di regola prestata per garantire rapporti obbligatori attuali; può essere prestata anche per garantire un’obbligazione condizionale o un’obbligazione futura, con la previsione, in quest’ultimo caso, dell’importo massimo garantito (art. 1938, come sostituito dall’art. 10, n. 1, L. 17.2.1992, n. 154) 10. È un contratto ad esecuzione differita, in quanto la prestazione del fideiussore deve essere eseguita successivamente alla conclusione del contratto: di regola, a seguito dell’inadempimento dell’obbligazione principale. L’obbligazione fideiussoria è accessoria a quella principale garantita, come si desume da più dati legislativi. Anzitutto, la fideiussione non è valida se non è valida l’obbligazione principale, salvo che sia prestata per un’obbligazione assunta da un incapace (art. 1939): in tal caso la fideiussione rimane valida e quindi il fideiussore rimane obbligato anche se l’obbligazione principale viene meno per incapacità del debitore. Inoltre, la fideiussione non può eccedere quanto è dovuto dal debitore, né può essere prestata a condizioni più onerose: se eccede il debito o è contratta a condizioni più onerose, è valida nei limiti dell’obbligazione principale (art. 1941); può invece prestarsi per una parte soltanto del debito o a condizioni meno onerose (art. 19412). Consegue da ciò che non sono efficaci nei confronti del fideiussore i patti intervenuti tra creditore e debitore, modificativi dell’obbligazione principale garantita 11. Un impiego diffuso della fideiussione è con riguardo alla partecipazione alla gara di appalto di opere pubbliche, con obbligo dell’amministrazione di svincolare la garanzia al momento della sottoscrizione del contratto, ovvero di trattenerla con funzione compensativa dei danni relativi alla fase procedimentale 12. La fideiussione si estingue con la estinzione della obbligazione principale 13. Il fil’obbligazione garantita nei diritti del creditore soddisfatto contro gli altri fideiussori che avevano dato separata garanzia (Cass. 16-11-2017, n. 27243; Cass. 2-9-2004, n. 17723). 9 Si ha fideiussione di fideiussione (c.d. fideiussione di secondo grado) quando la fideiussione è prestata a garanzia dell’adempimento di altra obbligazione fideiussoria del primo garante. Il fideiussore di secondo grado è impegnato verso il creditore nel solo caso in cui il debitore principale e tutti i fideiussori di questo siano insolventi o siano liberati perché incapaci (art. 1948). 10 La prassi bancaria aveva fatto emergere un modello di fideiussione per cui il garante si obbligava nei confronti della banca ad adempiere tutte le obbligazioni del cliente verso la banca, già assunte o da assumere in seguito, senza limiti quantitativi o temporali e spesso anche a prima richiesta (fideiussione omnibus); per di più con la dispensa della banca dall’obbligo di richiedere la speciale autorizzazione del fideiussore quando le condizioni patrimoniali del debitore fossero divenute tali da rendere notevolmente più difficile il soddisfacimento del credito (art. 1956). La relativa convenzione fu considerata nulla dalla giurisprudenza per l’indeterminatezza dell’oggetto dell’obbligazione fideiussoria. L’art. 10 L. 154/1992 ha fatto proprio tale indirizzo, introducendo l’obbligo di prevedere l’importo massimo garantito (art. 1938 novell.). Pure in assenza di indicazione del massimo garantito, non si ha nullità della fideiussione qualora esistano nel contratto indici certi e non opinabili mediante i quali è possibile precisare esattamente la prestazione dedotta in obbligazione (Cass. 13-2-2009, n. 3525). Figura simmetrica è il performance bond, contratto con cui il garante risponde per una singola operazione commerciale (e non per tutti i debiti futuri come la fideiussione omnibus). 11 Nei confronti del fideiussore in mora nell’adempimento dell’obbligazione di garanzia non trova applicazione l’art. 12241, posto che la pattuizione degli interessi, intervenuta fra il debitore principale e il creditore, è produttiva di effetti esclusivamente fra le parti stipulanti (Cass. 10-5-2018, n. 11346). 12 Ampiamente, Cons. Stato, ad. plen., 26-4-2022, n. 7. 13 La liberazione del fideiussore consegue all’estinzione dell’obbligazione principale, indipendentemente dalle modalità con cui essa avvenga o dalle fonti della provvista, sicché, salva una diversa previsione contrattuale, non

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deiussore rimane obbligato anche dopo la scadenza dell’obbligazione principale, purché il creditore entro sei mesi dalla scadenza abbia proposto le sue istanze 14 contro il debitore e le abbia con diligenza continuate (art. 19571), altrimenti si determina la decadenza del creditore dalla obbligazione fideiussoria. La disposizione si applica anche al caso in cui il fideiussore abbia espressamente limitato la sua fideiussione allo stesso termine dell’obbligazione principale: in questo caso l’istanza contro il debitore deve essere proposta entro due mesi (art. 19572-3) 15. Inoltre il fideiussore è liberato nelle seguenti due ipotesi: quando, per fatto del creditore, non può avere effetto la surrogazione del fideiussore nei diritti e nelle garanzie del creditore (art. 1955); quando, nella fideiussione per un’obbligazione futura, il creditore, senza speciale autorizzazione del fideiussore, ha fatto credito al terzo (ad es. una banca apre nuove linee di credito al debitore), pur conoscendo che le condizioni patrimoniali di questo erano divenute tali da rendere notevolmente più difficile il soddisfacimento del credito (art. 19561) 16: non è però valida la preventiva rinuncia del fideiussore ad avvalersi della liberazione (art. 19562) (regola introdotta dall’art. 10, n. 2, L. 17.2.1992, n. 154). Analizziamo quindi i rapporti tra i soggetti coinvolti. a) Rapporti tra fideiussore e creditore. Il fideiussore è obbligato in solido col debitore principale al pagamento del debito (art. 19441), sicché il creditore può chiedere l’adempimento per l’intero sia al debitore principale che al fideiussore (solidarietà passiva) (VI, 1.12). Anche nei confronti del fideiussore vale dunque l’obbligo di conservazione della garanzia patrimoniale in favore del creditore 17 e operano i meccaniosta a tale liberazione la circostanza che l’estinzione abbia carattere non satisfattivo per il creditore, per essere il credito originario sostanzialmente immutato, in quanto ristrutturato o sostituito nella sua composizione sulla base di ulteriori finanziamenti o condotte di tolleranza da parte del medesimo creditore (Cass. 7-3-2017, n. 5630). 14 Le istanze da proporre verso il debitore principale si caratterizzano come un onere a carico del creditore per avvalersi della fideiussione. Tale attività tende a far sì che il creditore prenda sollecite e serie iniziative contro il debitore principale per recuperare il proprio credito, in modo che la posizione del garante non resti indefinitamente sospesa; il termine “istanza” si riferisce ai vari mezzi di tutela giurisdizionale del diritto di credito, in via di cognizione o di esecuzione, che possano ritenersi esperibili al fine di conseguire il pagamento, indipendentemente dal loro esito e dalla loro idoneità a sortire il risultato sperato (Cass. 29-1-2016, n. 1724). Può essere previsto un termine di decadenza per l’esercizio della garanzia da parte del creditore, a tutela dell’interesse del garante a conoscere la propria posizione debitoria (Cass. 28-2-2007, n. 4661). 15 La decadenza del creditore dal diritto di pretendere dal fideiussore l’adempimento dell’obbligazione per mancata tempestiva proposizione delle azioni contro il debitore principale nel termine previsto dall’art. 1957 può essere convenzionalmente esclusa anche per effetto di rinuncia preventiva da parte del fideiussore, trattandosi di una pattuizione non in contrasto con un principio di ordine pubblico; e non opera ove le parti abbiano previsto che la fideiussione si estingua solo all’estinguersi del debito garantito (Cass. 3-12-2019, n. 31569; Cass. 16-4-2018, n. 9379; Cass. 13-4-2007, n. 8839): la rinuncia comporta soltanto l’assunzione da parte del fideiussore del maggior rischio inerente alle condizioni patrimoniali del debitore (Cass. 21-5-2008, n. 13078). La decadenza del creditore dalla fideiussione non opera in presenza di un impedimento giuridico ostativo alla realizzazione della pretesa verso il debitore principale (Cass. 8-2-2005, n. 2532). L’istanza proposta contro il debitore interrompe la prescrizione anche nei confronti del fideiussore (art. 19574). 16 Il fideiussore ha l’onere di provare ai sensi dell’art. 2697, sia il requisito oggettivo della concessione di ulteriore finanziamento successivo al deterioramento delle condizioni economiche del debitore e sopravvenuto alla prestazione di garanzia, sia il profilo soggettivo della consapevolezza del creditore del mutamento delle condizioni economiche del debitore, raffrontate a quelle della costituzione del rapporto (Cass. 3-11-2021, n. 31313; v. anche Cass. 14-3-2018, n. 6251; Cass. 7-2-2006, n. 2524). 17 Prestata fideiussione in relazione alle future obbligazioni del debitore principale, gli atti dispositivi del fideiussore successivi alla prestazione della fideiussione medesima, se compiuti in pregiudizio delle ragioni del credi-

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smi di gestione della obbligazione relativi al debitore principale 18. Le parti possono pattuire il c.d. beneficio di escussione, per cui il fideiussore non è tenuto a pagare prima dell’escussione del debitore principale: il fideiussore che sia convenuto per il pagamento e intenda valersi del beneficio dell’escussione deve indicare i beni del debitore principale sui quali il creditore può soddisfarsi (art. 19442). In applicazione del principio generale di correttezza ex art. 1175, il creditore è tenuto all’osservanza dei doveri di buona fede e quindi a salvaguardare l’interesse del fideiussore (anche arg. dall’art. 1956), non aggravando la sua posizione debitoria 19. Se la fideiussione è prestata da più fideiussori, per un medesimo debito e a garanzia di un medesimo debitore, anche tra i vari fideiussori c’è solidarietà verso il creditore, tranne che non sia stato pattuito il c.d. beneficio della divisione (art. 1946): il beneficio va eccepito dalla parte che intende avvalersene. Il fideiussore può opporre al creditore le eccezioni che spettano al debitore principale, salva quella derivante dall’incapacità (art. 1945) 20. b) Rapporti tra fideiussore e debitore. Il fideiussore ha più rimedi a tutela delle sue ragioni verso il debitore. Anche prima di aver pagato, ha il c.d. diritto di rilievo verso il debitore, perché questi, nei casi previsti dall’art. 1953, gli procuri la liberazione (c.d. azione di rilievo per liberazione) o, in mancanza, presti le garanzie necessarie per assicurargli il soddisfacimento delle eventuali ragioni di regresso (c.d. azione di rilievo per cauzione) 21. Il fideiussore che ha pagato il debito è assistito da surrogazione legale nei diritti che il creditore aveva contro il debitore (artt. 1949 e 1203, n. 3): il fideiussore può avvalersi anche delle garanzie che il creditore aveva verso il debitore. Inoltre ha azione di tore, sono soggetti all’azione revocatoria ordinaria, ai sensi dell’art. 2901, n. 1, prima parte, c.c., in base al solo requisito soggettivo della consapevolezza del fideiussore (e, in caso di atto a titolo oneroso, del terzo) di arrecare pregiudizio alle ragioni del creditore; poiché l’acquisto della qualità di debitore del fideiussore nei confronti del creditore procedente risale al momento della nascita del credito, a tale momento occorre far riferimento per stabilire se l’atto pregiudizievole sia anteriore o successivo al sorgere del credito (Cass. 10-7-2014, n. 15773). 18 Nei contratti bancari, il certificato di c.d. “saldaconto” è idoneo ad assolvere all’onere della prova dell’ammontare del credito nei confronti del fideiussore, tanto più qualora il contratto di conto corrente contenga una clausola in forza della quale il cliente riconosce che i libri e le altre scritture contabili della banca fanno piena prova verso di lui del debito garantito (Cass. 9-1-2019, n. 279). 19 Gli obblighi di correttezza e di buona fede che permeano la vita del contratto impongono alla parte garantita di salvaguardare la posizione del proprio fideiussore, con la conseguenza che la loro violazione non consente l’esercizio di pretese nei confronti del garante, nella misura in cui la sua posizione sia stata aggravata dal garantito (Cass. 12-12-2019, n. 32478). Ad es., con riferimento ad un contratto di apertura di credito in conto corrente, se si manifesta un significativo peggioramento delle condizioni patrimoniali del debitore tali da mettere a repentaglio la solvibilità del debitore medesimo, la banca creditrice è tenuta ad avvalersi dei rimedi di autotutela a sua disposizione ex art. 1461 anche a tutela dell’interesse del fideiussore inconsapevole (al fine di non incrementare l’esposizione debitoria) se non vuol perdere il beneficio della garanzia (Cass. 22-10-2010, n. 21730). 20 Alla stregua dell’art. 1945 non è consentito al fideiussore di opporre eccezioni che il debitore principale non potrebbe opporre, perché coperte da giudicato (Cass. 1-10-2012, n. 16669). 21 Il c.d. rilievo del fideiussore è ammesso dall’art. 1953 nei seguenti casi: 1) quando è convenuto in giudizio per il pagamento; 2) quando il debitore è divenuto insolvente; 3) quando il debitore si è obbligato di liberarlo dalla fideiussione entro un tempo determinato; 4) quando il debito è divenuto esigibile per la scadenza del termine; 5) quando sono decorsi cinque anni, e l’obbligazione principale non ha un termine, purché essa non sia di tal natura da non potersi estinguere prima di un tempo determinato. L’art. 1453 non trova però applicazione nel caso di assoggettamento del debitore principale a fallimento (Cass. 16-6-2010, n. 14584).

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regresso verso il debitore principale, benché questi non fosse consapevole della prestata fideiussione (art. 19501) 22. Il regresso comprende il capitale, gli interessi e le spese che il fideiussore ha fatto dopo che ha denunziato al debitore principale le istanze proposte contro di lui (art. 19502); se il debitore è incapace, il regresso è ammesso nei limiti di quanto sia stato rivolto a suo vantaggio (art. 19504). Se la fideiussione è stata prestata a garanzia di più debitori principali obbligati in solido, il fideiussore ha regresso contro ciascuno per l’intero (art. 1951). Sul fideiussore grava l’onere di denunzia al debitore del pagamento fatto al creditore (e ancor prima della richiesta di pagamento ricevuta dal creditore), la cui omissione comporta due effetti: da un lato, il fideiussore non ha regresso verso il debitore principale che, non sapendo del pagamento, ha ugualmente pagato il debito; dall’altro, il debitore principale può opporre al fideiussore le eccezioni che avrebbe potuto opporre al creditore all’atto del pagamento; in entrambi i casi il fideiussore può ripetere contro il creditore quanto ha pagato (art. 1952). Per contrappeso grava sul debitore il dovere di correttezza e buona fede verso il fideiussore, per la salvaguardia della sua posizione (artt. 1175 e 1375) 23.

4. Contratto autonomo di garanzia. – Nel commercio internazionale e in generale nelle contrattazioni di impresa, al fine di favorire la erogazione del credito, è da tempo invalsa la prassi di rafforzare la posizione creditoria con la stipula di un contratto autonomo di garanzia 24, caratterizzato dall’assunzione dell’impegno, da parte del garante, di pagare il debito garantito al creditore senza possibilità di far valere eccezioni relative all’obbligazione garantita, indipendentemente anche dalla validità o dall’esistenza della stessa. È perciò anche qualificata come garanzia a “semplice” o “a prima richiesta” 25, per essere la prestazione cui è tenuto il garante diversa da quella dovuta dall’obbligato principale 26, sebbene a questa in qualche modo collegata. Tale contratto di garanzia può affiancare vari tipi di contratto (appalto, vendita, somministrazione, mutuo, apertura di credito, ecc.), con la funzione di procurare sicurezza a una parte del contratto base circa il soddisfacimento del credito 27. Il fenomeno 22 Secondo Cass. 1-7-2005, n. 14089, il fideiussore che abbia pagato il debito garantito, pur non essendovi più obbligato per la verificatasi decadenza del creditore ex art. 19571, può tuttavia esercitare l’azione di regresso contro il debitore principale. 23 La violazione degli obblighi di buona fede non consente l’esercizio di pretese nei confronti del garante, quando la sua posizione è aggravata dal garantito (Cass. 12-12-2019, n. 32478). 24 La figura ha ricevuto la sua prima elaborazione in Germania con il nome di Garantievertrag. Ha quindi trovato varie forme di sviluppo e specifiche varianti, quali la fideiussione omnibus e la simmetrica performance bond, la polizza fideiussoria. Di regola il debitore corrisponde una somma di danaro per il rilascio di tale garanzia al beneficiario creditore, garanzia che più spesso proviene da banche o assicurazioni, per la fiducia di adempimento procurata al creditore. 25 L’inserimento in un contratto di fideiussione di una clausola di pagamento “a prima richiesta e senza eccezioni” generalmente è idonea a qualificare il negozio come contratto autonomo di garanzia, salvo un’evidente discrasia rispetto all’intero contenuto della convenzione negoziale (Cass. 19-2-2019, n. 4717). 26 Mentre la fideiussione è volta a tutelare l’esatto adempimento dell’obbligazione principale altrui, il contratto autonomo di garanzia pone a carico del garante un’obbligazione autonoma e diversa, in quanto rivolta a indennizzare il creditore insoddisfatto mediante il tempestivo versamento di una somma di denaro predeterminata (Cass. 3-11-2021, n. 31313). 27 La causa concreta del contratto autonomo di garanzia è quella di trasferire da un soggetto ad un altro il rischio economico connesso alla mancata esecuzione di una prestazione contrattuale, che può avere ad ogget-

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trova largo impiego nella materia dei contratti pubblici, prevedendosi forme di garanzia alternative (o aggiuntive) ai depositi cauzionali in danaro o altri beni reali: sono le c.d. assicurazioni fideiussorie, anche dette cauzioni fideiussorie o polizze fideiussorie 28, costituite a favore dell’ente beneficiario per garantire l’esatta esecuzione dell’opera e le eventuali inadempienze dell’appaltatore 29. Non può però avere l’effetto di consentire quelle operazioni che sono vietate da norme imperative rispetto alla obbligazione principale, realizzandosi altrimenti un contratto in frode alla legge (art. 1344) con illiceità della causa 30. Carattere fondamentale della garanzia autonoma è l’assenza del requisito della accessorietà rispetto all’obbligazione garantita; l’obbligazione assunta dal garante è tendenzialmente autonoma rispetto alla obbligazione principale, per cui il garante non può opporre al beneficiario creditore le eccezioni inerenti alla obbligazione principale (che invece può opporre il fideiussore ex art. 1945). Bisogna avere riguardo al concreto regolamento, per verificare il modello di autonomia di garanzia che le parti abbiano inteso statuire rispetto alla obbligazione principale garantita, anche rispetto agli oneri gravanti sul creditore 31. In assenza di diversa indicazione, non c’è solidarietà tra l’obbligazione principale e quella assunta dal garante 32. to anche una prestazione infungibile (es. la prestazione dell’appaltatore); a differenza della fideiussione, l’obbligazione del garante autonomo si pone in via autonoma rispetto alla prestazione principale, in quanto non rivolta all’adempimento del debito principale, bensì ad indennizzare il creditore insoddisfatto mediante il tempestivo versamento di una somma di denaro predeterminata, sostitutiva della mancata o inesatta prestazione del debitore, configurandosi tra le stesse un collegamento negoziale ed un cumulo di prestazioni (Cass., sez. un., 18-2-2010, n. 3947; Cass. 5-3-2020, n. 6177; Cass. 22-11-2019, n. 30509; Cass. 11-12-2019, n. 32402). 28 La c.d. assicurazione fideiussoria, strutturalmente costruita secondo lo schema del contratto a favore di terzo, costituisce una figura contrattuale intermedia tra il versamento cauzionale e la fideiussione ed è contraddistinta dall’assunzione dell’impegno, da parte di una banca o di una compagnia di assicurazione, di pagare un determinato importo al beneficiario, onde garantirlo nel caso di inadempimento della prestazione a lui dovuta dal contraente; essendo caratterizzata dalla stessa funzione di garanzia della fideiussione, ad essa è applicabile, ove non derogata dalle parti, la disciplina legale tipica di tale contratto (Cass. 30-1-2019, n. 2688; Cass. 29-1-2016, n. 1724). 29 Riferimenti specifici sono nel D.Lgs. 18.4.2016, n. 50, recante disciplina dei contratti pubblici. L’appaltatore, per la sottoscrizione del contratto, deve costituire una “garanzia definitiva” a sua scelta sotto forma di cauzione o fideiussione, pari al 10 per cento dell’importo contrattuale; le stazioni appaltanti hanno il diritto di valersi della cauzione, nei limiti dell’importo massimo garantito, per l’eventuale maggiore spesa sostenuta per il completamento dei lavori nel caso di risoluzione del contratto disposta in danno dell’esecutore; possono incamerare la garanzia per provvedere al pagamento di quanto dovuto dal soggetto aggiudicatario per le inadempienze derivanti dalla inosservanza di norme e prescrizioni dei contratti collettivi, delle leggi e dei regolamenti sulla tutela, protezione, assicurazione, assistenza e sicurezza fisica dei lavoratori addetti all’esecuzione dell’appalto; la garanzia deve prevedere espressamente la rinuncia al beneficio della preventiva escussione del debitore principale, la rinuncia all’eccezione di cui all’art. 19572 c.c., nonché l’operatività della garanzia medesima entro quindici giorni, a semplice richiesta scritta della stazione appaltante. La mancata costituzione della garanzia determina la decadenza dell’affidamento e l’acquisizione della cauzione provvisoria presentata in sede di offerta da parte della stazione appaltante, che aggiudica l’appalto o la concessione al concorrente che segue nella graduatoria (art. 103). 30 Anche nel contratto autonomo di garanzia, il garante è legittimato a proporre eccezioni fondate sulla nullità anche parziale del contratto base per contrarietà a norme imperative; può essere sollevata nei confronti della banca l’eccezione di nullità della clausola anatocistica atteso che diversamente si consentirebbe al creditore di ottenere, per il tramite del garante, un risultato che l’ordinamento vieta (Cass. 10-1-2018, n. 371). 31 Pure in presenza di una pattuizione ex art. 2957 c.c., deve privilegiarsi (anche sulla base del criterio di cui all’art. 1367 c.c.) una interpretazione che, valorizzando la autonomia negoziale delle parti, riconosca al contratto in concreto concluso la portata desumibile non dai tipi astratti della garanzia autonoma, ma dalla concreta configurazione che a tale garanzia le parti hanno inteso dare (Cass. 23-6-2014, n. 14205). 32 La causa concreta del negozio autonomo consiste nel trasferire da un soggetto all’altro il rischio economi-

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Esiste un diritto-dovere del garante di opporre al beneficiario della garanzia alcune eccezioni relative al rapporto garantito, contro una escussione abusiva della garanzia da parte del creditore (c.d. exceptio doli), in applicazione del generale principio di buona fede (VII, 5.1); devono sussistere c.d. prove liquide, cioè precostituite, che vanno opposte al creditore nel momento stesso in cui l’eccezione di abuso è sollevata 33. Anche la garanzia autonoma non può valere se l’operazione economica garantita sia illecita o comunque contraria a norme imperative 34. Trova comunque applicazione l’art. 19522, gravando sul garante un onere di avviso al debitore della richiesta di pagamento. Il garante può opporre al beneficiario le eccezioni relative al rapporto di garanzia 35, come le eccezioni personali al garante (es. compensazione). Alla stregua poi dell’art. 1462 la clausola di limitazione delle eccezioni non ha effetto per le eccezioni di nullità, annullabilità e rescissione del contratto di assunzione della garanzia. Di recente si tende a ricondurre nell’area delle garanzie autonome anche la promessa del fatto del terzo (art. 1381), per procurare questa al promissario sicurezza del conseguimento della prestazione. La promessa del fatto del terzo comporta, però, a carico del promittente solo un obbligo di indennizzo del promissario per mancata attuazione del fatto del terzo (VIII, 6.10).

5. Mandato di credito. – È il contratto con il quale un soggetto (mandante) conferisce mandato ad altro soggetto (mandatario) di “fare credito a un terzo”. Il mandatario assume l’obbligazione in proprio di fare credito al terzo 36; oggetto dell’obbligazione può essere un qualunque negozio creditizio (es. un mutuo, un’apertura di credito, ecc.). Il soggetto che ha dato l’incarico (mandante) risponde come fideiussore di un debito futuro (per l’ipotesi di inadempimento del terzo) (art. 19581). Il rapporto di fideiussione deriva ope legis in capo al mandante come effetto naturale dell’incarico dato al mandatario di co connesso alla mancata esecuzione di una prestazione contrattuale, mentre nelle obbligazioni solidali in generale, e nella fideiussione in particolare, è tutelato l’interesse all’esatto adempimento della medesima prestazione principale; l’obbligazione del garante autonomo rimane sempre distinta da quella del debitore principale, configurandosi tra le stesse un mero collegamento negoziale ed un cumulo di prestazioni (Cass. 11-12-2019, n. 32402; Cass. 31-3-2021, n. 8874). 33 La giurisprudenza, partendo dal rilievo che la buona fede opera quale generale fonte integrativa degli atti di autonomia privata, ha stabilito che anche il garante a prima richiesta, quando esistano prove evidenti (c.d. liquide) cioè di pronta soluzione del carattere fraudolento o anche solo abusivo della richiesta di pagamento avanzata dal beneficiario della garanzia, può e deve rifiutare il pagamento richiesto; mentre non possono essere addotte a suo fondamento circostanze fattuali idonee a costituire oggetto di eccezione di merito opponibile dal debitore garantito al creditore beneficiario della garanzia, in ragione dell’inopponibilità da parte del garante di eccezioni di merito proprie del rapporto principale (Cass. 22-11-2019, n. 30509; Cass. 21-6-2018, n. 16345; Cass. 18-3-2006, n. 5997). Se la garanzia viene prestata esclusivamente in rapporto all’adempimento dovuto da un determinato soggetto, ove questi venga liberato (mediante una novazione soggettiva o altra vicenda sopravvenuta), il garante può sollevare nei confronti del creditore l’eccezione di estinzione della garanzia (Cass. 11-12-2018, n. 31956). 34 Tale impegno, seppure incondizionato, non è assoluto, perché incontra il duplice limite della escussione fraudolenta o abusiva (a fronte della quale il garante può opporre la exceptio doli) e del caso in cui le predette eccezioni siano fondate sulla nullità del contratto presupposto per contrarietà a norme imperative o per illiceità della sua causa (Cass. 18-9-2013, n. 21398). 35 È principio acquisito che la clausola “a semplice richiesta” o “senza eccezioni” non impedisce al garante di sollevare eccezioni che attengano al contratto di garanzia e perciò al rapporto tra garante e beneficiario (Cass. 21-2-2008, n. 4446; Cass. 1-6-2004, n. 10486). 36 Il mandato di credito è un contratto bilaterale che esige per il perfezionamento l’accettazione del mandatario, che può avvenire anche per facta concludentia (Cass. 9-4-1990, n. 2965).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

fare credito al terzo. Chi ha accettato l’incarico non può rinunziarvi; mentre chi lo ha conferito può revocarlo, salvo l’obbligo di risarcire il danno alla controparte (art. 19582). Se, dopo l’accettazione dell’incarico, le condizioni patrimoniali di chi ha conferito l’incarico o del terzo diventano tali da rendere notevolmente più difficile il soddisfacimento del credito, chi ha accettato l’incarico non può essere costretto ad eseguirlo (art. 1959). La legge utilizza il meccanismo del “mandato”, che espressamente richiama nella rubrica dell’art. 1958; però la disciplina si discosta dalla essenza del mandato, quale regolato dagli artt. 1703 ss. (IX, 3.1), in quanto, per regola generale, il mandatario si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto del mandante (art. 1703), mentre, nella specie, il mandatario compie l’incarico di fare credito a un terzo, assumendo chi ha dato l’incarico la sola veste di fideiussore. È pertanto una figura assimilabile nella funzione alla fideiussione.

6. Avallo. – È regolato dagli artt. 35 ss. R.D. 14.12.1933, n. 1669 (legge cambiaria) e dagli artt. 28 ss. R.D. 21.12.1933, n. 1736 (legge sull’assegno bancario) ed è apposto sulla cambiale o sull’assegno bancario o relativi allungamenti. Dà luogo a una tipica obbligazione cartolare, caratterizzata dai requisiti dell’autonomia, dell’astrattezza e della letteralità (quali saranno delineati relativamente ai titoli di credito: XI, 2.1). Sia il pagamento della cambiale come il pagamento di un assegno bancario possono essere garantiti con avallo per tutta o parte della somma. Chi rilascia l’avallo (avallante) è obbligato nello stesso modo di colui per il quale l’avallo è stato dato (avallato). Contrariamente alla fideiussione, l’avallo è una obbligazione autonoma: è perciò valida anche se l’obbligazione garantita sia nulla per qualsiasi altra causa che non sia un vizio di forma. L’avallante che paga la cambiale o l’assegno acquista i diritti ad essa inerenti contro il soggetto garantito e contro coloro che sono obbligati verso quest’ultimo in virtù della cambiale o dell’assegno. 7. Lettera di patronage. – È diffusa la prassi di rilasciare, da parte di una società capogruppo o controllante, lettere di patronage (anche dette di gradimento) ad una banca, affinché questa conceda, mantenga o rinnovi un credito a favore di una società controllata 37. Tali dichiarazioni assumono contenuti molto differenti, sicché è difficile ricondurre una prassi così variegata a schemi tipici. Il dato economico comune, sottostante alle lettere di patronage, è la esistenza di un rapporto tra due società, con la partecipazione di una società controllante (patrocinante) nella società controllata (patrocinata) e il correlato impegno della prima verso la banca erogatrice del credito di comunicare ogni variazione del rapporto corrente tra le due società. L’impegno della società patrocinante può esaurirsi in una informativa del controllo, come della gestione della società patrocinata o delle variazioni della organizzazione e della compagine della stessa, fino ad assumere l’impegno di mantenimento della solvibilità della società patrocinata o addirittura il rischio dell’inadempimento. Si sono delineate due fondamentali classi di lettere di patronage, cui in qualche modo le singole figure si riconducono: lettere c.d. deboli, consistenti in mere dichiarazioni di informazione, per le quali la patrocinante risponde verso la banca a titolo di responsabi37 Secondo Cass. 3-4-2001, n. 4888, la lettera di patronage, con la quale il patrocinante assume degli impegni nei confronti del creditore, rientra nello schema negoziale delineato dall’art. 1333; sicché non richiede per il suo perfezionamento l’accettazione espressa dell’oblato, essendo però consentito il rifiuto.

CAP. 7 – ESTENSIONE DELLA RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE

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lità extracontrattuale (art. 2043) quando la non veridicità della informativa pregiudica il rapporto della banca con la patrocinata; lettere c.d. forti, consistenti in assunzione di obblighi per il cui inadempimento la patrocinante risponde verso la banca a titolo di responsabilità contrattuale (art. 1218), per non avere esercitato la dovuta influenza nella patrocinata o per essere venuta meno la solvibilità assicurata o addirittura perché è intervenuto l’inadempimento. È questa seconda classe che si atteggia con una funzione latamente di garanzia, in quanto tende comunque ad agevolare il soddisfacimento del creditore (la banca) 38: ma emergono diversità, sia rispetto alla fideiussione e alla garanzia autonoma, sia rispetto alla promessa del fatto del terzo 39.

8. Garanzie collettive. – È notoria la difficoltà delle piccole e medie imprese di accedere al credito (presso banche e altre strutture finanziarie) per non essere in grado di offrire idonee garanzie di restituzione del danaro. Si è andata perciò da tempo diffondendo la prassi di costituire strutture consorziate di imprese che danno luogo a garanzie collettive, formate con gli apporti delle singole imprese consorziate e di sovente con l’intervento di ausilio pubblico (specie in zone più svantaggiate che si vuole fare sviluppare). D’altra parte, la costituzione di consorzi di garanzia collettiva consente alle banche di ridurre i costi dell’informazione sui soggetti da affidare e i rischi connessi all’inadempimento. Il fenomeno più diffuso è quello dei “consorzi di garanzia collettiva dei fidi” (confidi), primieramente disciplinato dall’art. 13 D.L. 30.9.2003, n. 269, conv. con L. 24.11.2003, n. 326 (c.d. normativa quadro confidi). Per il co. 1 si intendono per “confidi”, i consorzi con attività esterna, le società cooperative, le società consortili per azioni, a responsabilità limitata o cooperative, che svolgono “attività di garanzia collettiva dei fidi”, intesa come utilizzazione di risorse provenienti in tutto o in parte dalle imprese consorziate o socie per la prestazione mutualistica e imprenditoriale di garanzie volte a favorire il finanziamento da parte di banche e di altri soggetti operanti nel settore finanziario. Nell’esercizio dell’attività di garanzia collettiva dei fidi, possono essere compiute più operazioni: prestare garanzie personali e reali; stipulare contratti volti a realizzare il trasferimento del rischio; utilizzare in funzione di garanzia depositi indisponibili costituiti presso i finanziatori delle imprese consorziate o socie. Possono anche essere costituiti confidi di secondo grado, che svolgono la detta attività in favore dei confidi e delle imprese a essi aderenti e delle imprese consorziate o socie di questi ultimi 40. 38 Per Cass. 3-4-2001, n. 4888, cit., la funzione delle lettere di patronage “forti” può esplicarsi anche mediante la posizione di influenza e controllo ricollegabile ad una significativa partecipazione azionaria (non necessariamente maggioritaria) nella società patrocinata; l’insussistenza di detta partecipazione, inveridicamente affermata dal patrocinante, incidendo sull’impegno da questi assunto nei confronti del destinatario della lettera, integra inadempimento ai sensi dell’art. 1218. 39 Qualora il “patronnant” si limiti a promettere che il patrocinato farà fronte alle proprie obbligazioni, pur in presenza di una lettera di patronato c.d. forte, egli non assume anche l’impegno di eseguire personalmente la prestazione, come avviene nella promessa del fatto del terzo dove, in caso di inadempimento, il promittente è obbligato ad indennizzare il creditore; quando il patrocinatore abbia assunto l’impegno direttamente e debba quindi adempiere l’obbligazione nel caso di inadempimento del patrocinato, ricorre un’ipotesi di fideiussione (Cass. 9-12-2019, n. 32026). 40 L’attività strumentale all’ottenimento del credito riconduce i confidi alla previsione dell’art. 2602 c.c., configurandoli, secondo una tradizionale ricostruzione, come “cooperativa consortile di servizi”, che fornisce garanzie ed assistenza tecnica ai soci nei rapporti con il sistema creditizio.

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

Con il Nuovo Accordo sul Capitale c.d. Basilea II (in vigore dal 2008), il ruolo svolto dai confidi è essenziale per assicurare una corretta classificazione dei clienti in base al grado di rischiosità e al merito creditizio 41.

B) GARANZIE REALI 9. Cenni e rinvio. – L’altra forma di estensione della responsabilità patrimoniale è quella della concessione, da parte di terzi, di garanzie reali (pegno e ipoteca) (per lo specifico esame VII, 6). Si è visto come il pegno e l’ipoteca possono essere costituiti a garanzia dell’obbligazione, non solo dal debitore, ma anche dal terzo, che assume la veste di terzo datore di pegno (art. 2784) o di terzo datore di ipoteca (artt. 2868 ss.). Sono garanzie speciali, che danno luogo a diritti reali di garanzia su cosa altrui ed operano quali cause legittime di prelazione (art. 2741). Non vi è assunzione di obbligazione da parte del terzo: sono garanzie senza debito, che rimarcano la duplicità di prospettiva di debito e responsabilità (VIII, 1.4), di regola coese ma anche distinguibili, come appunto nella garanzia reale di terzi. Un regime particolare vale per il terzo datore di ipoteca. Se non è espressamente convenuto, non può invocare il beneficio della preventiva escussione del debitore (art. 2868). Se ha pagato i creditori iscritti o ha sofferto l’espropriazione, ha regresso verso il debitore; se vi sono più debitori obbligati in solido e il terzo ha costituito l’ipoteca a garanzia di tutti, ha regresso contro ciascuno per l’intero (art. 28711) 42. La posizione del terzo datore di ipoteca si distingue da quella eventuale del fideiussore 43. 41 Con D.Lgs. 13.8.2010, n. 141, è stato modificato il titolo V del TUB (artt. 106 ss.) con sensibili mutamenti di disciplina dei confidi e con la previsione di organismi di iscrizione. I confidi, anche di secondo grado, sono iscritti nell’Elenco tenuto dall’Organismo per la tenuta dell’elenco dei confidi ed esercitano in via esclusiva l’attività di garanzia collettiva dei fidi e i servizi a essa connessi o strumentali, alle condizioni previste e nel rispetto delle disposizioni dettate dal Ministro dell’economia e delle finanze e delle riserve di attività previste dalla legge (artt. 12 e 12 bis TUB): cfr. Cass. 23-9-2019, n. 23611. L’attività svolta dal consorzio fidi consiste nella prestazione di una garanzia che lo obbliga a tenere indenne il creditore, in tutto o in parte, dalle perdite derivate dall’inadempimento del debitore, e di suoi eventuali fideiussori, dopo la relativa escussione (Cass. 6-8-2014, n. 17731). Non sussiste rapporto di confideiussione tra la garanzia sussidiaria statutariamente prestata dall’ente di mutua garanzia avente come scopo la semplificazione dell’accesso al credito delle piccole e medie imprese, oltre che la riduzione del costo dei finanziamenti e la prestazione di servizi di consulenza aziendale, e le eventuali fideiussioni prestate direttamente, e in via principale, in favore del consorzio da altri soggetti estranei al consorzio stesso (Trib. Torino 26-10-2010; Trib. Bari 24-11-2009). 42 Può esercitare il subingresso (previsto dall’art. 28662) nei confronti dei terzi acquirenti che hanno trascritto il titolo di acquisto successivamente alla iscrizione ipotecaria (art. 28712). Il terzo datore ha anche diritto di surrogazione nei diritti, nel pegno, nelle ipoteche e nei privilegi del creditore: l’ipoteca si estingue se, per fatto del creditore, non può avere effetto la surrogazione (art. 2869). 43 Il terzo datore di ipoteca e il terzo acquirente dell’immobile ipotecato non sono obbligati in solido col debitore principale e col suo fideiussore, giacché essi non sono soggetti passivi del rapporto obbligatorio, ma soltanto assoggettati, nel caso d’inadempimento del debitore e dei suoi garanti, all’azione esecutiva del creditore sull’immobile ipotecato; tuttavia il terzo datore di ipoteca e il terzo acquirente dell’immobile ipotecato, che abbiano pagato il debito, sono surrogati ex lege nei diritti del creditore verso il debitore ed i suoi fideiussori a norma degli artt. 1203, n. 3, e 1204 c.c., poiché la surrogazione legale va ammessa anche per coloro che sono tenuti al pagamento propter rem in virtù del vincolo, che assoggetta un loro bene all’esecuzione forzata per un debito altrui, e che, essendo posti nell’alternativa di pagare tale debito o di subire l’espropriazione, hanno interesse a soddisfarlo (Cass. 24-9-2019, n. 23648).

CAP. 8 – GESTIONE DELLA DEBITORIA

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CAPITOLO 8

GESTIONE DELLA DEBITORIA (Crisi di impresa e sovraindebitamento) Sommario: 1. Dal debito alla debitoria. – 2. Crisi di impresa. Procedure di allerta e di composizione assistita della crisi. – 3. Segue. Procedure di regolazione della crisi o dell’insolvenza. La liquidazione giudiziale. – 4. Sovraindebitamento. Procedure di composizione della crisi e di liquidazione del patrimonio. – 5. Esdebitazione.

1. Dal debito alla debitoria. – La tradizionale visione dell’obbligazione è di strumento per il conseguimento di beni finali, specificamente la proprietà e in generale i diritti reali, ovvero di organizzazione di interessi tra i soli soggetti del rapporto. La moderna realtà economica evidenzia la crescente funzione del rapporto obbligatorio (del credito come del debito) di risorsa essenziale dell’azione economica, imprenditoriale e no, per consentire l’approvvigionamento di risorse e di beni di consumo. Emerge inoltre la espansione della economia dei servizi, con i rapporti obbligatori funzionali alla erogazione e al conseguimento di servizi. C’è anche da rilevare lo sviluppo dell’economia verso un’attività di produzione e distribuzione di massa. In tale contesto emerge un’attenzione alla c.d. debitoria come complessiva esposizione finanziaria del debitore, connessa all’attività imprenditoriale o correlata all’accesso al consumo. Si è già anticipato come l’esposizione debitoria cospicua, così per ammontare del debito come per numero di creditori, spesso coinvolge interessi ulteriori rispetto a quelli dei titolari dei rapporti obbligatori ovvero compromette posizioni soggettive qualificate, in entrambe le direzioni impegnando dimensioni valoriali da tutelare (VII, 1.19; VII, 5.4). Nella prospettiva dell’impresa, l’insolvenza dell’impresa, originariamente connotata dal fallimento con venature sanzionatorie civili, è stata per lungo tempo vissuta nella direzione di escludere dal mercato imprese c.d. malate che, non riuscendo a soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, avrebbero finito con il compromettere il naturale svolgimento dei traffici economici; perciò con la funzione della procedura fallimentare di liquidare il patrimonio del fallito nel rispetto di un principio concorsuale, con una connotazione marcatamente pubblicistica di egemonia della presenza giudiziaria. Col tempo si è avvertito che tale sistema segni anche la fine irreversibile dell’attività economica dell’impresa, con compromissione dei vari interessi sociali ed economici coinvolti dall’impresa, a cominciare dai rapporti di lavoro. Sulla scorta di esperienze europee sono maturate da tempo tecniche di salvezza delle imprese in crisi: non si tratta solo di assicurare il pari trattamento dei creditori nella liquidazione del patrimonio del debitore, nel rispetto delle eventuali cause di prelazione, ma anche di reintegrare il debitore nel tessuto socia-

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

le, dopo l’estinzione della debitoria, al fine di ancora utilizzare conoscenze, esperienze e iniziative nel mercato, specie in una situazione di stagnazione economica e di progressiva chiusura di aziende. Il debito di impresa rileva quale posizione passiva se guardato nella dimensione strutturale del singolo rapporto, e invece quale possibile meccanismo di sviluppo economico se analizzato nella prospettiva funzionale della organizzazione dell’impresa. C’è l’esigenza di sostenere l’impresa in crisi, sopraffatta dalla debitoria, accompagnandola alla ripresa dell’attività produttiva. Nella prospettiva delle famiglie e di piccole attività, e in genere dei consumatori, la debitoria del singolo familiare si riflette sulla vita e l’iniziativa dell’intera comunità familiare. Bisogna liberare le forze vitali della famiglia, sia come luogo di svolgimento della personalità dei suoi componenti, sia come attivazione dell’economia. Vi è oggi un progressivo impoverimento delle famiglie per una generalizzata contrazione delle entrate (è in crescita il numero delle famiglie monoreddito), mentre è sempre più sviluppata una sussidiarietà delle famiglie verso le nuove generazioni. Nella medesima situazione si dimenano piccoli esercenti ed artigiani, come più fasce di professionisti, che ricorrono di sovente all’indebitamento di supporto alle attività. Molto spesso famiglie e piccole attività, per far fronte ad esigenze esistenziali o di pagamento di debiti pregressi, cadono nella rete dell’usura e dell’estorsione. Una lunga stagione economica ha stimolato la domanda di consumo come sostegno alle imprese, ad es. attraverso il credito al consumo, anche con una eccitazione indiscriminata al consumo sorretta dalla martellante pubblicità spesso subliminale; in una società consumeristica il consumo rappresenta essenziale attrattore di prodotti di impresa, quale naturale serbatoio di collocazione. Nelle varie direzioni vanno utilizzati strumenti di gestione della debitoria, per esaudire esigenze di sopravvivenza e favorire il ritorno al mercato. In presenza di più debiti, da sempre il debitore cerca un accordo con i vari creditori, attraverso una dilazione dei pagamenti, una decurtazione o eliminazione degli interessi dovuti o la riduzione della sorta capitale, ovvero procedendo a compensazioni o cessione ai creditori di beni e crediti; questi accordi rimangono atti di autonomia privata efficaci tra le parti che li hanno stipulati senza alcun effetto verso gli altri creditori e in generale i soggetti che non hanno partecipato all’intesa. La peculiarità dei nuovi meccanismi di sistemazione è di pervenire ad una liberazione del titolare dall’intera debitoria nei confronti di tutti i creditori. L’impianto strutturale del rapporto obbligatorio, quale prestazione rivolta alla realizzazione della pretesa individuale del creditore, è attraversato e rimane inciso dalla visuale aggregata dei debiti afferenti al debitore. La nuova osservazione è rivolta al complesso delle situazioni di debito che accompagnano l’attività economica o la vita familiare del soggetto e in genere il consumatore: appunto la debitoria, per la natura e/o ampiezza degli interessi coinvolti, riceve una rilevanza qualificata. La gestione del debito non è indirizzata in una esclusiva prospettiva commutativa di realizzazione del credito ma aperta ad una dimensione distributiva di soddisfacimento delle molteplici istanze economiche e sociali coinvolte, così da riattivare l’azione patrimoniale del debitore nel mercato, come imprenditore o come consumatore. La debitoria destinata alla cartolarizzazione (VII, 2.6) non è la mera sommatoria dei singoli debiti: la destinazione dei debiti alla cartolarizzazione comporta una rinnovata valutazione degli stessi, in funzione del valore che assume il blocco dei debiti 1. 1

Derivano riflessi anche nell’appostazione al bilancio delle società: la disposizione del blocco travalica la ge-

CAP. 8 – GESTIONE DELLA DEBITORIA

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Come per le merci, si è sviluppata l’esigenza di circolazione dei crediti e dei debiti: il tradizionale divario tra “crediti civili”, vincolabili in funzione dell’interesse del debitore alla stabilità della persona del creditore, e “crediti commerciali” refrattari a ogni vincolo per lasciare al creditore libertà di disposizione 2, è ormai reintegrato nella complessiva valutazione di gestione della debitoria che attraversa imprese, piccole attività, famiglie e in genere i consumatori. Anche l’assunzione del debito altrui che, nella prospettiva individuale, necessita l’assenso del creditore per la liberazione del debitore, è riguardata nella prospettiva delle attività economiche cui i debiti afferiscono per assicurare continuità in altre mani. Già la disciplina della cessione di azienda prevede che l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda, che non abbiano carattere personale (art. 2558), in deroga alla regola che la cessione del contratto è subordinata al fatto che “l’altra parte vi consenta” (art. 1406); analogamente il conduttore può sublocare e cedere il contratto di locazione, anche senza il consenso del locatore, quando venga insieme ceduta o locata l’azienda, potendo il locatore opporsi solo per gravi motivi (art. 36 L. 392/1978); sempre più diffusamente i crediti sono concessi in garanzia per alimentare finanziamenti (già l’art. 27842 prevede il pegno di crediti). Pure le garanzie per l’adempimento delle obbligazioni sono attraversate dalla nuova prospettiva: si pensi al pegno mobiliare non possessorio e al trasferimento immobiliare sospensivamente condizionato all’inadempimento (VII, 6.12 e 13).

2. Crisi di impresa. Procedure di allerta e di composizione assistita della crisi. – Il nuovo diritto dell’economia fa emergere una centralità dell’impresa come ragione di accumulazione e distribuzione di ricchezza e di formazione di posti di lavoro, sicché anche la sua crisi va valutata nella prospettiva sociale di salvezza della produttività, ferme le sanzioni soggettive per le attività fraudolente compiute a danno della trasparenza del mercato e delle consuete vittime sacrificali (consumatori e fisco). In attuazione del Reg. U.E. 2015/848 del 20.5.2015, relativo alle procedure di insolvenza, la L. 19.10.2017, n. 155, detta delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza, attuata con D.Lgs. 12.1.2019, n. 14, recante il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza; con D.Lgs. 26.10.2020, n. 147, sono state apportate disposizioni integrative e correttive: fine ultimo è una gestione efficiente dei risanamenti aziendali e delle procedure concorsuali. Alla stregua del codice si intende per “crisi” lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle ob 

stione ordinaria, come capitale corrente o circolante, per impegnare la gestione straordinaria (ne è consapevole la giurisprudenza: es. App. Milano, 22-8-2016). 2 Ad es., in Germania, pur restando immutato il § 399 BGB che regola la esclusione della cessione concordata del credito, è stato inserito nel HGB il § 354a che, pure in presenza di un divieto di cessione del credito, considera l’atto di cessione del credito comunque efficace quando il negozio costitutivo del divieto sia per entrambe le parti contraenti un “atto di commercio” oppure quando il debitore sia una persona giuridica o un patrimonio destinato facente capo ad un ente di diritto pubblico; al debitore è consentito liberarsi pagando al cedente. In Francia l’art. L 442-6, lett. c, Code de commerce sanziona con la nullità le pattuizioni che accordano a un produttore, un commerciante, un industriale o una persona immatricuilé eaurépertoiredesmétiers il diritto di impedire alla controparte contrattuale di cedere il credito a terzi.

 

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bligazioni pianificate (art. 21, lett. a); per “insolvenza” lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni (art. 21, lett. b); per “sovraindebitamento”: lo stato di crisi o di insolvenza del consumatore, del professionista, dell’imprenditore minore, dell’imprenditore agricolo, delle start-up innovative e di ogni altro debitore non assoggettabile alla liquidazione giudiziale ovvero a liquidazione coatta amministrativa o ad altre procedure liquidatorie previste dal codice civile o da leggi speciali per il caso di crisi o insolvenza (art. 21, lett. c); è poi anticipata la nozione di consumatore sviluppata nella revisione della L. 3/2012, con varie sovrapposizioni (di cui appresso). Debitore e creditori devono comportarsi secondo buona fede e correttezza (art. 4) 3. Il codice introduce una riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali, con un ambito di applicazione molto ampio, per coinvolgere ogni categoria di debitore (art. 1). La normativa tende a sostituire, nel contenuto e nella terminologia, la legge fallimentare, di cui al R.D. 16.3.1942, n. 267. Per favorire la continuità dell’azienda sono apprestate varie procedure di soluzione della crisi di impresa, alcune stragiudiziali senz’altro favorite, altre che coinvolgono l’autorità giudiziaria. È valorizzata la cultura della prevenzione nella gestione delle imprese, al fine di prevenire le crisi e le insolvenze. Sono previste procedure di allerta e di composizione assistita della crisi. Con esclusione delle società quotate in borsa o in altro mercato regolamentato e comunque delle grandi imprese come definite dalla normativa dell’Unione europea, tali procedure non giudiziali e confidenziali sono finalizzate a incentivare l’emersione anticipata della crisi e ad agevolare lo svolgimento di trattative tra debitore e creditori, così da consentire una composizione negoziale assistita della crisi. Un ruolo fondamentale svolge l’Organismo di composizione della crisi d’impresa (OCRI), costituito presso ciascuna camera di commercio (art. 16) 4. In particolare, le procedure di allerta assumono un ruolo fondamentale per la finalità di anticipare l’emersione di una difficoltà economica, così da procedere alla ristrutturazione aziendale prima che la situazione di crisi possa sfociare in una insolvenza dell’impresa. Il debitore, all’esito dell’allerta o anche prima della sua attivazione, può accedere al procedimento di composizione assistita della crisi, che si svolge in modo riservato e confidenziale dinanzi all’OCRI (art. 12) 5. 3 L’imprenditore individuale deve adottare misure idonee a rilevare tempestivamente lo stato di crisi e assumere senza indugio le iniziative necessarie a farvi fronte; l’imprenditore collettivo deve adottare un assetto organizzativo adeguato ai sensi dell’art. 2086 c.c., ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell’assunzione di idonee iniziative (art. 3). 4 L’OCRI è costituito presso ciascuna camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura, con il compito di ricevere le segnalazioni di cui gli artt. 14 e 15, gestire il procedimento di allerta e assistere l’imprenditore, su sua istanza, nel procedimento di composizione assistita della crisi (art. 16). 5 L’accordo con i creditori deve avere forma scritta, è depositato presso l’organismo e non è ostensibile a soggetti diversi da coloro che lo hanno sottoscritto. L’accordo produce gli stessi effetti degli accordi che danno esecuzione al piano attestato di risanamento e, su richiesta del debitore e con il consenso dei creditori interessati, è iscritto nel registro delle imprese (art. 194). Se non è concluso un accordo con i creditori coinvolti e permane una situazione di crisi, l’OCRI invita il debitore a presentare domanda di accesso a una procedura regolatrice della crisi o dell’insolvenza ex art. 37 (art. 21) che si svolge dinanzi al tribunale in composizione collegiale, con le modalità previste dal codice (art. 40) Sono ammessi meri strumenti negoziali

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3. Segue. Procedure di regolazione della crisi o dell’insolvenza. La liquidazione giudiziale. – Il procedimento per l’accesso a una delle procedure di regolazione della crisi o dell’insolvenza si svolge dinanzi al tribunale, su domanda proposta dal debitore, da un creditore, da coloro che hanno funzioni di controllo e di vigilanza sull’impresa o dal pubblico ministero (art. 40). Esistono il concordato preventivo e strumenti negoziali stragiudiziali di accordi di ristrutturazione, soggetti ad omologazione (artt. 57 ss.). È ammesso l’accesso al concordato preventivo e a strumenti negoziali stragiudiziali di accordi di ristrutturazione, soggetti ad omologazione. La sentenza che omologa il concordato o gli accordi di ristrutturazione produce effetti dalla data della pubblicazione, mediante deposito; gli effetti nei riguardi dei terzi si producono dalla data di iscrizione nel registro delle imprese; se il tribunale non omologa il concordato preventivo o gli accordi di ristrutturazione, dichiara con sentenza, su ricorso di uno dei soggetti legittimati, l’apertura della liquidazione giudiziale (art. 48) 6. Con la sentenza nomina il giudice delegato per la procedura e il curatore nonché, se utile, uno o più esperti per l’esecuzione di compiti specifici in luogo del curatore; ordina al debitore il deposito entro tre giorni dei bilanci e delle scritture contabili e fiscali obbligatorie (art. 49). Con la sentenza che dichiara aperta la liquidazione giudiziale, il tribunale autorizza il curatore a proseguire l’esercizio dell’impresa, anche limitatamente a specifici rami dell’azienda (art. 211). La liquidazione giudiziale è una procedura concorsuale che si applica agli imprenditori commerciali in stato di insolvenza che non rientrino tra le c.d. “imprese minori” (art. 121). L’attività nevralgica è la ricostruzione e liquidazione del patrimonio dell’imprenditore (attivo), dopo la formazione dello stato passivo. È sostituito il termine “fallimento” e i suoi derivati con l’espressione “liquidazione giudiziale”, adeguando dal punto di vista lessicale anche le relative disposizioni penali, ferma restando la continuità delle fattispecie criminose. Il giudice delegato esercita funzioni di vigilanza e di controllo sulla regolarità della procedura (art. 123). Sono introdotti precisi criteri direttivi per rendere più efficiente e snella la procedura, con la valorizzazione del curatore, che, per quanto attiene all’esercizio delle sue funzioni, ha la qualifica di pubblico ufficiale (art. 127) 7. Il comitato stragiudiziali (art. 56) e strumenti negoziali stragiudiziali soggetti ad omologazione (artt. 44 e 57 ss.). La ristrutturazione della debitoria, realizzando un intervento sui singoli rapporti obbligatori coinvolti, prospetta il problema della qualificazione delle vicende giuridiche realizzate sulle singole obbligazioni: l’operazione, benché sottoposta ad omologa del tribunale, ha comunque alla base una espressione di autonomia negoziale di transazione tra il debitore e i vari creditori; perciò la problematica qualificatoria chiama in campo i termini di incidenza della transazione (VII, 3.13). 6 Una particolare forma di liquidazione è la “liquidazione coatta amministrativa”, prevista per imprese soggette a vigilanza (ad es. istituti bancari, compagnie di assicurazione, ecc.): è “il procedimento concorsuale amministrativo che si applica nei casi espressamente previsti dalla legge” (art. 293); è regolata dalle disposizioni del codice, salvo che leggi speciali dispongano diversamente (art. 294). Quando la legge ammette la procedura di liquidazione coatta amministrativa e quella di liquidazione giudiziale, l’apertura di una procedura preclude l’altra (art. 295). Si dà luogo a procedura di liquidazione, non solo in ipotesi di crisi economica, ma anche per irregolarità di gestione (es. artt. 80 ss. D.Lgs. 385/1993 TUB). 7 Il curatore ha l’amministrazione del patrimonio compreso nella liquidazione giudiziale, compie tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, nell’ambito delle funzioni ad esso attribuite (art. 128). Il sistema di accertamento del passivo è improntato a criteri di maggiore rapidità, snellezza e concentrazione; è intensificata la trasparenza ed efficienza delle operazioni di liquidazione dell’attivo della procedura; la disciplina degli effetti della procedura sui rapporti di lavoro subordinato è coordinata con la legislazione vigente in materia di diritto del lavoro; è accelerata la chiusura della procedura.

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dei creditori è nominato dal giudice delegato entro trenta giorni dalla sentenza che ha aperto la liquidazione giudiziale (art. 138). La sentenza che dichiara aperta la liquidazione giudiziale priva dalla sua data il debitore dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di apertura della liquidazione giudiziale; alla quale afferiscono anche i beni che pervengono al debitore durante la procedura, dedotte le passività incontrate per l’acquisto e la conservazione dei beni medesimi (art. 142) 8. La liquidazione giudiziale apre il concorso dei creditori sul patrimonio del debitore; ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione o prededucibile, nonché ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare, deve essere accertato secondo le norme del codice, salvo diverse disposizioni della legge (art. 151). È ammesso un concordato a iniziativa del debitore o di terzi (artt. 240 ss.). È conservato l’impianto del R.D. 267/1942 circa l’azione revocatoria fallimentare per gli atti compiuti dal fallito prima della dichiarazione di fallimento (artt. 163 ss.) 9, come rispetto ai rapporti giuridici pendenti (artt. 172 ss.). Approvato il conto, il giudice delegato, sentite le proposte del curatore, ordina il riparto finale (art. 232). La distribuzione delle somme ricavate dalla liquidazione dell’attivo segue i criteri del concorso dei creditori di cui all’art. 2741. Con il decreto di chiusura della liquidazione cessano gli effetti della procedura di liquidazione giudiziale sul patrimonio del debitore e le conseguenti incapacità personali e decadono gli organi preposti alla procedura medesima; i creditori riacquistano il libero esercizio delle azioni verso il debitore per la parte non soddisfatta dei loro crediti per capitale e interessi, salvo gli effetti della esdebitazione (art. 236). Il debitore in stato di sovraindebitamento può domandare con ricorso al tribunale l’apertura di una procedura (più snella) di liquidazione controllata dei suoi beni (artt. 268 ss.): il tribunale dichiara con sentenza l’apertura della liquidazione controllata, nominando il giudice delegato e il liquidatore (art. 270); la procedura si chiude con decreto (art. 276). Per l’analoga formulazione di sovraindebitamento del debitore contenuta nella L. 3/2012, deve pensarsi che alla procedura di liquidazione controllata possano accedere i soli soggetti previsti dal codice. Criteri specifici operano per la liquidazione coatta amministrativa, quale procedimento concorsuale amministrativo che si applica nei casi espressamente previsti dalla legge; la stessa legge determina le imprese soggette e i casi per i quali la liquidazione coatta amministrativa può essere disposta, nonché l’autorità competente a disporla (artt. 293 ss.).

4. Sovraindebitamento. Procedure di composizione della crisi e di liquidazione del patrimonio. – Sempre più spesso anche piccole attività economiche (specie artigiani) e famiglie sono sopraffatte dalla crisi con crescenti posizioni debitorie: si pensi alle fami8 Se al debitore vengono a mancare i mezzi di sussistenza, il giudice delegato, sentiti il curatore e il comitato dei creditori, può concedergli un sussidio a titolo di alimenti per lui e per la famiglia; la casa della quale il debitore è proprietario o può godere in quanto titolare di altro diritto reale, nei limiti in cui è necessaria all’abitazione di lui e della famiglia, non può essere distratta da tale uso fino alla sua liquidazione (art. 144). 9 Gli atti previsti dall’art. 166, compiuti tra coniugi, parti di un’unione civile o conviventi di fatto nel tempo in cui il debitore esercitava un’impresa e quelli a titolo gratuito compiuti tra le stesse persone più di due anni prima della data di deposito della domanda cui è seguita l’apertura della liquidazione giudiziale, ma nel tempo in cui il debitore esercitava un’impresa, sono revocati se il coniuge o l’unito civilmente o il convivente di fatto non prova che ignorava lo stato d’insolvenza del debitore (art. 169).

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glie che non riescono a pagare le rate residue del mutuo contratto per l’acquisto dell’abitazione o della sua ristrutturazione; analogamente per professionisti poco avviati relativamente all’acquisto o ammodernamento dello studio, o anche agricoltori relativamente all’acquisto di nuove attrezzature. La situazione emergenziale economica da Covid, riducendo fortemente gli incassi delle iniziative economiche, ha generalizzato la impossibilità di assolvere la debitoria contratta, sia verso banche e privati che verso strutture pubbliche come Agenzia delle entrate. È da ritenere che il fondamento materiale del favore per la sistemazione dei debiti si dispieghi in una duplice prospettiva: una di carattere valoriale, per consentire alla persona gravemente indebitata di riacquistare una dimensione esistenziale di esplicazione della propria personalità; un’altra di ragione economica, di consentire al debitore di ripartire dopo avere eliminato la propria posizione debitoria, con una riattivazione della propensione al consumo, attraverso indirizzo di spesa e accesso al credito che sono essenziali fattori di sviluppo economico. Del resto anche i creditori, in presenza di un conclamato sovraindebitamento, sono portati ad accettare tali soluzioni a fronte di una infruttuosa azione esecutiva nei confronti del debitore. Procedure di gestione della crisi da sovraindebitamento sono state previste dalla L. 27.1.2012, n. 3, novellata dal D.L. 18.10.2012, n. 179, conv. con L. 17.12.2012, n. 221, con riguardo alla posizione del “consumatore” (platea ampliata dall’art. 9 L. 155/2017). Nella emergenza sanitaria la normativa è stata ulteriormente novellata 10. Si intende per “consumatore” la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigiana o professionale eventualmente svolta, anche se socio di una società di persone, per i debiti estranei a quelli sociali (art. 62, lett. b), e per “sovraindebitamento” la situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, che determina la rilevante difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni, ovvero la definitiva incapacità di adempierle regolarmente (art. 62, lett. a). È consentito al debitore concludere un accordo con i creditori nell’ambito della procedura di composizione della crisi al fine di “porre rimedio alle situazioni di sovraindebitamento non soggette né assoggettabili a procedure concorsuali diverse da quelle regolate dal presente capo II” (art. 6); in tal senso, nonostante l’assonanza terminologica, si determina una perimetrazione rispetto alla procedura di liquidazione controllata prevista dal codice della crisi di impresa per il debitore sovraindebitato, riferito alle figure assoggettate a tale codice. Figure essenziali della crisi da sovraindebitamento sono gli “organismi di composizione della crisi”, iscritti in un apposito registro tenuto presso il Ministero della giustizia (art. 15). a) Sono favorite procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento e piano del debitore (artt. 6 ss.). Il debitore, in stato di sovraindebitamento, può proporre ai creditori, con l’ausilio degli organismi di composizione della crisi con sede nel circondario del tribunale competente, un accordo di ristrutturazione dei debiti e di soddisfazione dei crediti sulla base di un piano che, assicurato il regolare pagamento dei titolari di crediti impignorabili, preveda scadenze e modalità di pagamento dei creditori, anche se suddi10 Con D.L. 28.10.2020, n. 137, conv. con modif. con L. 18.12.2020, n. 176, sono state introdotte varie modifiche alla legge base 3/2012 per semplificare l’accesso alle procedure di sovraindebitamento per le imprese e i consumatori, anticipandosi alcune regole del cod. crisi d’impresa (D.Lgs. 14/2019).

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

visi in classi, indichi le eventuali garanzie rilasciate per l’adempimento dei debiti e le modalità per l’eventuale liquidazione dei beni; il piano può anche prevedere l’affidamento del patrimonio del debitore ad un gestore per la liquidazione, la custodia e la distribuzione del ricavato ai creditori (art. 71). La proposta non è ammissibile quando il debitore ha già beneficiato dell’esdebitazione per due volte; limitatamente al piano del consumatore, ha determinato la situazione di sovraindebitamento con colpa grave, malafede o frode; limitatamente all’accordo di composizione della crisi, abbia commesso atti diretti a frodare le ragioni dei creditori (art. 72): vi è dunque una valutazione anche dello stato soggettivo del debitore, ammettendosi solo una colpa lieve. Sono ammesse “procedure familiari”: i membri della stessa famiglia possono presentare un’unica procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento quando sono conviventi o quando il sovraindebitamento ha un’origine comune; si considerano membri della stessa famiglia, oltre al coniuge, i parenti entro il quarto grado e gli affini entro il secondo, nonché le parti dell’unione civile e i conviventi di fatto di cui alla L. 76/2016; le masse attive e passive rimangono distinte (art. 7 bis). L’accordo di composizione della crisi è omologato dal tribunale, che ne dispone la pubblicazione; l’accordo omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori al momento in cui è stata eseguita la pubblicità; i creditori con causa o titolo posteriore non possono procedere esecutivamente sui beni oggetto del piano (art. 12). Analogamente per l’omologazione del piano del consumatore (art. 12 ter). b) In alternativa, il debitore può chiedere la liquidazione del patrimonio (artt. 14 bis ss.), quando non ricorrono le condizioni di inammissibilità di cui all’art. 72, lett. a e b. Alla domanda sono allegati l’inventario di tutti i beni del debitore, recante specifiche indicazioni sul possesso di ciascuno degli immobili e delle cose mobili, nonché una relazione particolareggiata dell’organismo di composizione della crisi; la domanda di liquidazione è inammissibile se la documentazione prodotta non consente di ricostruire compiutamente la situazione economica e patrimoniale del debitore (art. 14 ter). Il giudice, su istanza del debitore o di uno dei creditori, dispone, col decreto la conversione della procedura di composizione della crisi in quella di liquidazione del patrimonio nell’ipotesi di annullamento dell’accordo o di cessazione degli effetti dell’omologazione del piano del consumatore; la conversione è altresì disposta in altre ipotesi di legge e nell’ipotesi di risoluzione dell’accordo o di cessazione degli effetti dell’omologazione del piano del consumatore, ove determinati da cause imputabili al debitore (art. 14 quater).

5. Esdebitazione. – L’esdebitazione consiste nella liberazione dai debiti e comporta la inesigibilità dei crediti rimasti insoddisfatti nell’ambito di una procedura concorsuale che prevede la liquidazione dei beni. Mira a consentire alle imprese e in generale ai debitori di liberarsi dai debiti residui per riprendere l’azione economica, anche solo con il ricorso al consumo. L’esdebitazione opera come una specifica causa di estinzione non satisfattoria dei debiti concorsuali non pagati dalla procedura di liquidazione. Il codice delle crisi di impresa ha confermato il beneficio della esdebitazione del debitore, previsto dal D.Lgs. 9.1.2006, n. 5 (che aveva modificato gli artt. 42 ss. R.D. 267/1942). Nei confronti dei creditori per fatto o causa anteriori che non hanno partecipato al concorso l’esdebitazione opera per la sola parte eccedente la percentuale attribuita nel concorso ai creditori di pari grado; l’esdebitazione della società ha efficacia nei

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confronti dei soci illimitatamente responsabili; sono salvi i diritti vantati dai creditori nei confronti dei coobbligati e dei fideiussori del debitore, nonché degli obbligati in via di regresso; restano esclusi dall’esdebitazione gli obblighi di mantenimento e alimentari e i debiti per il risarcimento dei danni da fatto illecito extracontrattuale, nonché le sanzioni penali e amministrative di carattere pecuniario che non siano accessorie a debiti estinti (art. 278). L’ammissione a esdebitazione è subordinata a specifiche condizioni relative alla condotta del debitore (art. 280). Gli artt. 282 ss. prevedono la “esdebitazione del sovraindebitato, con varie sovrapposizioni con la disciplina del consumatore sovraindebitato. Anche il debitore sovraindebitato è ammesso al beneficio della esdebitazione, con liberazione dei debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti, a condizione che ricorrano i presupposti indicati dalla L. 3/2012 (art. 14 terdecies ss.) 11. Il giudice, con decreto adottato su ricorso del debitore interessato, presentato entro l’anno successivo alla chiusura della liquidazione, sentiti i creditori non integralmente soddisfatti e verificate le condizioni di cui ai co. 1 e 2, dichiara inesigibili nei suoi confronti i crediti non soddisfatti integralmente.

11 L’esdebitazione è esclusa: a) quando il sovraindebitamento del debitore è imputabile ad un ricorso al credito colposo e sproporzionato rispetto alle sue capacità patrimoniali; b) quando il debitore, nei cinque anni precedenti l’apertura della liquidazione o nel corso della stessa, ha posto in essere atti in frode ai creditori, pagamenti o altri atti dispositivi del proprio patrimonio, ovvero simulazioni di titoli di prelazione, allo scopo di favorire alcuni creditori a danno di altri, e non opera: a) per i debiti derivanti da obblighi di mantenimento e alimentari; b) per i debiti da risarcimento dei danni da fatto illecito extracontrattuale, nonché per le sanzioni penali ed amministrative di carattere pecuniario che non siano accessorie a debiti estinti; c) per i debiti fiscali che, pur avendo causa anteriore al decreto di apertura delle procedure di cui alle sezioni prima e seconda del presente capo, sono stati successivamente accertati in ragione della sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi. Il provvedimento di esdebitazione è revocabile in ogni momento, su istanza dei creditori, se risulta: a) che è stato concesso ricorrendo l’ipotesi del co. 2, lett. b; b) che è stato dolosamente o con colpa grave aumentato o diminuito il passivo, ovvero sottratta o dissimulata una parte rilevante dell’attivo ovvero simulate attività inesistenti.

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PARTE VII – OBBLIGAZIONI

PARTE VIII

CONTRATTO

CAPITOLO 1

AUTONOMIA CONTRATTUALE Sommario: 1. Autonomia negoziale e autonomia contrattuale. – 2. La figura del contratto nel codice civile. – 3. Elementi e requisiti del contratto. – 4. Tipicità di singoli contratti. – 5. I contratti nell’esperienza giuridica. – 6. Uguaglianza tra libertà e giustizia. Gli interventi normativi riequilibratori. – 7. Contratto e mercato: doveri di informazione e misure correttive. – 8. Contratti di impresa e abuso di posizione dominante. – 9. Contratti dei consumatori e degli investitori. – 10. Terzo contratto e condizione degli imprenditori deboli. – 11. Contratto e rapporto di lavoro. – 12. Contratti e accordi della pubblica amministrazione. L’evidenza pubblica. – 13. Il diritto europeo dei contratti. – 14. Il controllo giudiziale dell’autonomia contrattuale.

1. Autonomia negoziale e autonomia contrattuale. – Si è parlato della categoria del negozio giuridico e della maturazione dell’autonomia negoziale (II, 5.5). Bisogna in questa parte approfondire come l’autonomia negoziale operi in materia contrattuale, così da rilevare la specificità dell’autonomia contrattuale e del contratto. L’autonomia negoziale esprime la generale categoria di autoregolazione dei propri interessi, con contenuto sia patrimoniale che non patrimoniale, perciò svolgentesi sia nella dimensione esistenziale e familiare delle persone che nell’azione economica delle stesse. Si è anticipato come il legislatore del 1942, seguendo il metodo dell’economia che vuole la normativa aderente alla realtà economica dei fenomeni regolati, non ha regolato la categoria del negozio giuridico quale figura generale, come aveva fatto l’ordinamento tedesco con il BGB, ma ha disciplinato il contratto (e dunque l’autonomia contrattuale) per la maggiore aderenza del contratto alla realtà economica 1. In altre parti del codice sono regolate altre espressioni di autonomia negoziale, come ad es. il matrimonio e il testamento. Le relazioni economiche si svolgono di regola lungo due traiettorie: di cooperazione o di competizione. Il contratto si pone quale generale meccanismo di conseguimento di   1 Il codice civile prende le distanze sia dal cod. nap. del 1804 che dal BGB del 1900: rispetto al primo, il contratto è svincolato dalla logica della proprietà, essendo regolato in un libro diverso da quello della proprietà; rispetto al secondo, il contratto e non il negozio è categoria generale dei rapporti economici tra i privati.

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PARTE VIII – CONTRATTO 

utilità mediante la cooperazione tra soggetti, atteggiandosi quale strumento per antonomasia degli scambi in una economia di mercato. È ben possibile che lo scopo perseguito dalle parti non sia espresso da un singolo contratto ma da una pluralità di contratti funzionalmente coordinati nel perseguimento di un risultato complesso. Il contratto si atteggia come punto di equilibrio delle differenti strategie degli operatori. I punti di equilibrio sono molti nel tempo e nello spazio, non solo in ragione dell’assetto normativo storicamente operante, ma anche delle variabili che accompagnano la formazione della volontà comune, quali, rispetto ad ogni autore, le condizioni socioeconomiche di partenza, l’accesso alle informazioni, la posizione ricoperta nel mercato, l’ambiente sociale di svolgimento dell’operazione. Pertanto la valutazione del contratto deve aprirsi alla complessità della realtà sociale e normativa in cui si colloca. L’art. 1321 dà la nozione di contratto come “l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”. E l’art. 13221 qualifica l’autonomia contrattuale come il potere delle parti di “liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge”; le parti “possono anche concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico” (art. 13222). L’intreccio tra le due regole comporta che l’autonomia contrattuale si specifica rispetto all’autonomia negoziale, per un verso, per l’essenzialità della pluralità delle parti, per altro verso per l’essenzialità della natura patrimoniale degli interessi regolati. Con il riconoscimento dell’autonomia contrattuale è acquisito un generale statuto di autoregolazione dei propri interessi, in più prospettive: come libertà di contrarre , cioè di stipulare o meno un contratto e quindi di assumere un vincolo contrattuale; come libertà di scelta del contraente , cioè di individuare la persona o ente con cui stipulare il contratto; come libertà di contrattare, cioè di elaborare il contenuto contrattuale e dunque l’assetto di interessi voluto, con l’impiego di modelli normativi ovvero con la costruzione di nuovi schemi, purché meritevoli di tutela. In tutti i versanti indicati, l’autonomia contrattuale incontra i limiti imposti dall’ordinamento, che si articolano in requisiti e vincoli legali all’esplicazione dell’autonomia privata, così nella conclusione del contratto come nella determinazione del regolamento contrattuale e degli effetti conseguenti, in funzione di tutela di interessi generali o di protezione di posizioni deboli sul mercato. C’è la necessità di bilanciamento della volontà dei contraenti (espressione di libertà) con le istanze di solidarietà (esplicative dei diritti della persona) e con le esigenze del mercato (come volano dell’economia) (II, 7.1). Il fondamento costituzionale dell’autonomia contrattuale va ricercato nella disciplina costituzionale dei “rapporti economici” (c.d. costituzione economica) (II, 5.1). I vincoli che circondano le singole ricchezze si traducono in altrettanti limiti all’autonomia contrattuale che ne realizza l’acquisizione, la gestione e la circolazione: la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale (art. 422 Cost.); l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (art. 412 Cost.) 2; il risparmio è incoraggiato e tutelato, specie se indirizzato verso   2 L’art. 41 Cost. espressamente riconosce che l’autonomia contrattuale possa essere limitata per ragioni di utilità economico-sociale (Corte cost. 27-1-2011, n. 31). La libertà di scelta economica dell’imprenditore non è in  

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la proprietà personale dell’abitazione e diretta coltivatrice o verso i grandi complessi produttivi del paese (art. 472). Anche il rapporto di lavoro, indipendentemente dalla fonte da cui derivi, comporta il diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità di lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia “un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36 Cost.). I limiti delineati, coordinati con i generali valori costituzionali (segnatamente artt. 2 e 3), si impongono come fondamentali principi generali di valutazione dei contratti e di individuazione della disciplina applicabile. Le prescrizioni normative, talvolta si appuntano sulla struttura dell’atto concluso (VIII, 2); talaltra si indirizzano all’assetto di interessi realizzato (VIII, 3). Si vedrà dei molti interventi normativi di integrazione del contratto, alcuni contenuti nel codice civile, altri (crescenti) realizzati attraverso interventi legislativi specie di derivazione europea (VIII, 5): talvolta di ausilio all’autonomia privata, riempiendo le lacune di regolazione; talaltra di antagonismo alla stessa, correggendo, amputando o arricchendo il regolamento contrattuale.

2. La figura del contratto nel codice civile. – Il codice civile destina al contratto due titoli del Libro quarto: il titolo II (artt. 1321 ss.), dedicato ai “contratti in generale”, che detta la disciplina generale dei contratti e applicabile dunque ad ogni contratto; il titolo III (artt. 1470 ss.) dedicato ai “singoli contratti”, che regola specifici tipi contrattuali in ragione della tipologia degli interessi attuati (es. vendita, appalto, locazione, mutuo, trasporto, ecc.); in tal guisa le regole generali sul contratto sono destinate a intrecciarsi con le normative specifiche dei singoli contratti. Le parti possono anche concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purché realizzino interessi meritevoli di tutela (art. 13222). Per l’art. 1323 tutti i contratti, ancorché non appartengano ai tipi che hanno una disciplina particolare, sono sottoposti alle norme generali sui contratti; quindi devono avere i requisiti fissati per i contratti in generale. Anche le discipline dei singoli contratti sono suscettibili di delineare traiettorie di tutela applicabili a contratti differenti da quelli previsti quando sono coinvolti interessi e conflitti riconducibili a quelli dei contratti tipici, attraverso una interpretazione estensiva o analogica delle singole discipline. Il codice civile sembra confermare una tendenziale “portata espansiva” della disciplina sui contratti (Relaz. cod. civ., n. 602): per l’art. 1324 “salvo diverse disposizioni di legge, le norme che regolano i contratti si osservano, in quanto compatibili, per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale”. Si delinea una generale categoria di atti inter vivos a contenuto patrimoniale, escludendosi dalla previsione due fondamentali categorie di atti: i negozi a causa di morte e i negozi tra vivi a contenuto non patrimoniale. Per i negozi a causa di morte, si pensi al testamento, che è atto unilaterale e unipersonale che è voluto a causa e per il momento della morte, in cui il suo autore cessa di vivere: a fronte di lacune normative in materia successoria, da tempo si dibatte circa l’applicazione della disciplina contrattuale alla interpretazione e alla invalidità del testamento (XII, 2.5). Per i negozi bilaterali tra vivi a contenuto non patrimoniale, solitamente indi 

sé giudizialmente sindacabile, ma è censurabile l’abuso dell’atto di autonomia contrattuale al fine di valutare se in conseguenza della disparità di forza economica sia mancato il contemperamento degli opposti interessi (Cass. 18-9-2009, n. 20106).

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cati con il termine di convenzioni per distinguerli dai contratti, si pensi al matrimonio e ad altri negozi familiari, come ad es. l’accordo dei coniugi circa l’indirizzo di vita familiare (art. 144), le convenzioni matrimoniali (art. 162), l’accordo di separazione consensuale (art. 158): anche qui, in assenza di normative specifiche, si dibatte sull’applicazione analogica della disciplina del contratto (V, 2.1). Il silenzio normativo fa pensare ad una consapevole scelta del legislatore di attingere la disciplina mancante a principi e valori normativi cui gli specifici istituti si riconducono. È applicabile la normativa sui contratti solo in via analogica, perciò nei limiti fissati dall’art. 12 disp. prel. (I, 3.14); come trovano applicazione i generali principi e valori dell’ordinamento. È possibile a questo punto delineare i tratti caratterizzanti della figura del contratto, rilevando preliminarmente che i soggetti non ineriscono alla struttura dell’atto ma ne sono gli autori (il contratto corre tra i soggetti) (II, 5.6). La nozione di contratto data dall’art. 1321, come “accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale” informa anche la raffigurazione dell’autonomia contrattuale, delineata nel successivo art. 1322 con la previsione di libera determinazione del contenuto del contratto e della possibilità di stipula di contratti atipici. L’art. 1321 contiene, condensata, l’essenza del contratto quale esplicazione di autonomia contrattuale; la figura è diffusamente articolata e regolata negli artt. 1325 ss. che fissano i “requisiti” e cioè gli elementi essenziali del contratto. Attraverso la nozione del contratto è possibile delineare le linee portanti dell’autonomia contrattuale. a) Anzitutto deve ricorrere una pluralità di parti. Si è già visto, parlando dei negozi giuridici in generale (II, 5.6), come il concetto di parte non si esaurisce in quello di soggetto (persona fisica o giuridica) ma si esplica in quello di centro di interessi, formato anche da più soggetti (la parte può essere unisoggettiva o plurisoggettiva). Il contratto corre tra almeno due parti, nel senso di involgere almeno due centri di interessi, per lo più contrapposti (es. vendita, appalto), ma anche con comunione di scopo (es. contratto di società). b) È essenziale la formazione di un accordo tra le parti, come espressivo della comune volontà negoziale. A tal fine, perché l’accordo si realizzi, è indispensabile che le volontà delle parti siano esternate e cioè manifestate: quale che possa essere la forma adottata o imposta, una manifestazione non può mai mancare in quanto indispensabile veicolo di esternazione della volontà nelle relazioni sociali. Il termine “accordo” si presta ad indicare, in modo sintetico, sia l’incontro delle volontà che la concordanza degli interessi: sono profili sinergici di una realtà unitaria. L’accordo indica l’approdo delle tensioni di due o più parti: gli apporti volitivi individuali si incontrano e combinano nell’accordo, che esprime la concorde volontà delle parti. Si è però d’accordo su qualche cosa, e perciò l’accordo esprime anche la concordanza degli interessi delle parti: attraverso le trattative (più o meno laboriose) le parti pervengono alla definizione di un assetto di interessi, che è il necessario punto di riferimento dell’accordo. Si vedrà come il riferimento alla concordanza di interessi spiega la figura del “contratto con se stesso” (ex art. 1395) (VIII, 8.5). La necessità dell’accordo è anche garanzia di indipendenza delle sfere giuridiche, in duplice senso: per un verso, con la propria volontà è possibile autoregolare i propri interessi, per cui il contratto è vincolante per le parti che lo vogliono; per altro verso, il contratto non vincola chi non lo ha voluto, per cui non è possibile incidere la sfera giuridica

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altrui contro la volontà del destinatario: nei casi in cui è consentito incidere favorevolmente la sfera giuridica altrui senza un consenso del titolare, è attribuito allo stesso il potere di rifiutare l’effetto favorevole prodottosi (art. 1333) (VIII, 6.9). c) Deve sussistere la programmazione di uno scopo. L’accordo deve cioè essere finalizzato al conseguimento di un risultato e precipuamente a costituire, regolare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale (dove il termine regolazione si presta a comprendere anche la modificazione del rapporto giuridico e dunque l’effetto traslativo). È il profilo propriamente funzionale del contratto che connota lo stesso quale atto di autonomia privata, in quanto rivolto alla realizzazione di un assetto di interessi (determinativo di vicende giuridiche: II, 4.7). d) Si incide su rapporti giuridici patrimoniali . Non ogni accordo finalizzato alla realizzazione di vicende giuridiche integra un contratto: è necessario che lo scopo perseguito incida su rapporti giuridici di natura patrimoniale e dunque suscettibili di valutazione economica. E ciò può avvenire in due modi: in quanto il contratto ha ad oggetto attribuzioni intrinsecamente di natura patrimoniale (es. vendita di un bene verso il corrispettivo di un prezzo); o in quanto il contratto ha ad oggetto una prestazione per il cui conseguimento si è disposti ad un sacrificio economico (es. l’acquisto di un biglietto per assistere ad un concerto o ad un avvenimento sportivo). La seconda prospettiva ha un preciso referente in tema di obbligazioni, dove la prestazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse anche non patrimoniale del creditore (art. 1174) (VII, 1.7). e) Il risultato perseguito deve essere meritevole di tutela per prodursi effetti giuridici. Ciò implica, da un lato, che gli interessi regolati siano disponibili dagli autori e l’atto abbia i requisiti di legge; dall’altro, che l’atto utilizzato sia considerato idoneo al conseguimento dello specifico risultato e produttivo di effetti conformi all’ordinamento.

3. Elementi e requisiti del contratto. – La ricostruzione dell’autonomia contrattuale sulla figura del contratto, quale espressa dall’art. 1321, dà ragione della articolazione dei “requisiti del contratto”, indicati dall’art. 1325 e singolarmente disciplinati negli articoli successivi (artt. 1326-1352). Sul generale impianto degli elementi del negozio giuridico (II, 5.5) si è soliti parlare di elementi essenziali o costitutivi del contratto. La norma parla però di “requisiti” e non di “elementi”: c’è perciò da chiarire il senso di tale divario, che non è meramente terminologico. In realtà i due termini esprimono prospettive diverse di osservazione. Il termine “elementi” ha riguardo alla struttura dell’atto e indica i c.d. elementi costituitivi del contratto. Il termine “requisiti” ha riguardo alla valutazione dell’atto e indica i requisiti di validità del contratto richiesti dalla legge (l’art. 1104 cod. civ. 1865 parlava espressamente di “requisiti essenziali per la validità del contratto”). È possibile conservare la tradizionale nomenclatura e considerare senz’altro i “requisiti” richiesti dagli artt. 1325 ss. come “elementi essenziali” o costitutivi del contratto. Tali elementi, appresso articolati, si atteggiano, non già come autonomi e distinti, ma come sinergici, quali profili di una realtà unica ed unitaria, pervasi dai tratti comuni e generali dell’autonomia contrattuale. A questi si aggiungono elementi accidentali e elementi (o effetti) naturali, anche questi di seguito delineati. Di tutti gli elementi si dà in questa sede un inquadramento generale, rinviando al seguito una analisi particolareggiata.

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a) Elementi essenziali. Sono già stati delineati i profili comuni degli atti di autonomia negoziale (II, 5.5); tali profili sono specificati nella prospettiva contrattuale come “requisiti del contratto”, così delineati: 1) accordo delle parti; 2) causa; 3) oggetto; 4) forma quando è prescritta sotto pena di nullità. L’accordo delle parti esprime l’elaborazione e la formazione della comune volontà negoziale, l’intento comune, determinando la conclusione del contratto (VIII, 2). La causa indica la funzione concreta del negozio, lo scopo pratico-giuridico perseguito, che può coincidere con uno schema previsto dalla legge come se ne può discostare o addirittura essere interamente forgiato dalle parti. L’oggetto fissa le determinazioni assunte dalle parti (es. le singole attribuzioni), quale punto di riferimento dell’assetto di interessi e dunque della causa del negozio. Causa e oggetto, insieme, integrano il contenuto del contratto (VIII, 3). La forma a pena di nullità designa la forma vincolata di manifestazione della volontà negoziale (VIII, 4). A fronte della organizzazione normativa degli artt. 1325 ss., bisogna svolgere alcune precisazioni. I c.d. elementi essenziali si atteggiano senz’altro come requisiti essenziali di validità del contratto, sicché la mancanza di uno di essi comporta la nullità del contratto (art. 14182); ma non è vero il contrario, e cioè che i requisiti di validità del contratto si esauriscano nei c.d. elementi essenziali o costitutivi del contratto, potendo la legge richiedere requisiti di validità ulteriori rispetto a quelli integranti gli elementi costitutivi dell’atto. Già con riguardo al tipo più grave di invalidità (la nullità), l’art. 1418 prevede quali cause di nullità del contratto, oltre alla mancanza di uno dei requisiti indicati dall’art. 1325 (c.d. nullità strutturale), l’illiceità del contratto; inoltre esistono ulteriori cause di nullità, tassativamente stabilite (c.d. nullità espressa) ovvero operanti per contrarietà a norme imperative (c.d. nullità virtuale); è anche consentito alle parti pattuire una forma convenzionale a pena di nullità (art. 1352). In tempi più recenti, poi, la nullità si lega a interventi legislativi di protezione di determinate fasce di contraenti deboli, per deficienze esterne alla struttura dell’atto, antecedenti all’atto o che vi fanno da sfondo (si pensi alle c.d. nullità protettive dei consumatori per deficienze informative). Sono talvolta richiesti dalla legge alcuni presupposti (c.d. condiciones iuris), il cui concorso è necessario per la validità o anche solo per l’efficacia del contratto, e che, pure essendo esterni alla struttura dell’atto, operano come ulteriori requisiti del contratto (ad es., è frequente la previsione di autorizzazioni amministrative per la validità o efficacia del contratto) 3. Per converso, pure in presenza dei c.d. elementi essenziali, sussistono cause di invalidità meno gravi, che danno luogo all’annullabilità dell’atto, quando i c.d. elementi essenziali sono presenti ma viziati (es. vizi del consenso) o per altre ragioni di segno diverso, come l’incapacità delle parti.   3

Ad es., relativamente al trasferimento di farmacie, ai sensi dell’art. 12 L. 2.4.1968, n. 475, devono concorrere più requisiti di validità dell’atto di trasferimento (decorso di tre anni dalla conseguita titolarità; l’acquirente sia farmacista che abbia conseguito la titolarità o che sia risultato idoneo in un precedente concorso); e poiché la titolarità non può essere disgiunta dall’azienda, l’efficacia dell’atto di cessione è subordinata a provvedimento amministrativo autorizzatorio (la cessione del diritto di esercizio della farmacia deve essere riconosciuta con decreto del medico provinciale).

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In definitiva, i c.d. elementi essenziali o costitutivi rappresentano i requisiti generali di validità di ogni contratto: sono necessari componenti della struttura dell’atto. In aggiunta a questi sussistono requisiti specifici di validità prescritti dalla legge (sempre più a pena di nullità), in ragione di particolari contesti di formazione del contratto e/o in funzione di tutela di particolari posizioni contrattuali e/o in ragione delle tipologie di interessi coinvolti. b) Elementi accidentali. Possono essere o meno presenti nel contratto, senza incidere sulla formazione dell’atto: sono aggiunti dalle parti con la funzione di arricchire il programma negoziale (tipicamente condizione, termine e onere). Quando però sono previsti, gli stessi, penetrando nel contenuto del contratto, concorrono alla elaborazione dell’assetto di interessi, incidendo sugli effetti e sul relativo trattamento. c) Elementi (effetti) naturali. I c.d. elementi naturali sono, in realtà, effetti naturali del negozio, nel senso che sono apprestati direttamente dalla legge ma che le parti possono eliminare. Sono fissati da una disciplina dispositiva, derogabile dalle parti: ad es., dalla stipula del contratto di vendita consegue l’obbligo del venditore di garanzia per i vizi della cosa, che le parti possono escludere (art. 1490).

4. Tipicità di singoli contratti. – L’autonomia contrattuale, come potere di autoregolazione di interessi patrimoniali, è alcune volte incanalata dall’ordinamento in modelli predeterminati. Specifici assetti di interessi sono disciplinati con la conformazione di “singoli contratti” (Titolo III), c.d. contratti tipici o nominati, quali schemi legali rappresentativi di singole operazioni economiche (es. vendita, locazione, appalto, trasporto). La sutura tra le regole generali sul contratto e le discipline particolari dei singoli contratti è compiuta da una norma di raccordo per cui “tutti i contratti, ancorché non appartenenti ai tipi che hanno una disciplina particolare, sono sottoposti alle norme generali” (art. 1323); quindi anche i contratti tipici sono soggetti alla normativa generale dei contratti, attraverso una integrazione delle discipline. Peraltro molte normative particolari delineano nuclei di disciplina per gruppi di tipi contrattuali, che si affiancano alle norme generali. I “singoli contratti” previsti dal codice civile (artt. 1470 ss.) esprimono la realtà storica della economia al tempo della codificazione, secondo gli equilibri valoriali avvertiti e tutelati dalla società dell’epoca (I, 2.5). Successivamente al codice civile, con l’ampliamento dei mercati e l’ingigantimento delle imprese, sono emerse nuove tecniche produttive e di distribuzione, sempre maggiormente di massa, che hanno richiesto nuovi contratti; mentre lo sviluppo dei diritti umani ha imposto nuovi equilibri sociali e ulteriori regimi dei rapporti socio-economici. Tutto ciò ha determinato la progressiva formazione, prima di tipi sociali, e col tempo di nuovi tipi legali che rispondono ad istanze nuove rispetto a quelle sottese alla normativa del codice civile. Si pensi ai contratti di vendita di pacchetti turistici (la cui normativa è confluita nel codice del turismo), alla subfornitura nelle attività produttive (L. 192/1998), all’affiliazione commerciale (L. 179/2004). Nell’esperienza del commercio internazionale, emergono schemi di contratto utilizzati dai privati senza il vaglio ordinamentale (c.d. lex mercatoria: I, 2.13). Sono poi frequenti le ipotesi di connessioni tra più prestazioni che attingono a tipi contrattuali diversi, allo scopo di procurare un risultato unitario con predeterminazione del complessivo impegno finanziario. Il fenomeno è particolarmente evidente con ri-

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guardo alla erogazione di servizi, che ormai accompagna anche la stipulazione dei contratti di alienazione: nella “fornitura” di prodotti si mira ad assicurare al destinatario una tutela unitaria, quale che sia il modello contrattuale utilizzato (vendita, appalto, contratto d’opera, somministrazione, ecc.) (art. 128 cod. cons.). Sotto l’impulso di direttive europee, sono anche emerse nuove tecniche giuridiche di tutela: es. il diritto di ripensamento per i contratti conclusi fuori dei locali commerciali e a distanza; la nullità protettiva in favore di consumatori e contraenti deboli (di cui appresso). In definitiva si assiste ad una crescente emersione di nuovi modelli contrattuali e di nuove tutele, che si affiancano alla disciplina generale dei contratti e alle discipline particolari dei singoli contratti; come sta svolgendosi una progressiva fungibilità degli schemi contrattuali rispetto alla complessità dei contesti di contrattazione e alla natura degli interessi attuati. Nella Parte IX saranno analizzati i più diffusi contratti della vita economica, raggruppati secondo criteri che tengono conto della funzione degli stessi. Di altri singoli contratti si parla nelle trattazioni di specifici istituti, per meglio coglierne il funzionamento: si pensi ai contratti diretti a costituire una garanzia del credito, analizzati nella trattazione delle obbligazioni, in correlazione delle singole situazioni (es. cessione dei beni ai creditori e anticresi: IV, 5, 11 e 12; fideiussione e contratto autonomo di garanzia: VII, 7,3 e 4); si pensi al patto di famiglia, collocato nella materia successoria alla quale accede (XII, 3.7); si pensi anche alla donazione, alla quale è riservata una autonoma Parte XIII, dopo le successioni, per evidenziare la liberalità che la contraddistingue.

5. I contratti nell’esperienza giuridica. – La figura e la disciplina del contratto sono emerse storicamente in una economia essenzialmente caratterizzata dalla “ricchezza immobiliare”. Il contratto assumeva in quel modello di economia una funzione di circolazione della proprietà come ricchezza statica. È un’area che continua ad operare quando le singole persone dispongono delle specifiche situazioni giuridiche di cui sono titolari. Da tempo però la disciplina sul contratto è pervasa dalla rappresentazione della “ricchezza mobiliare” e dei prodotti di impresa: il contratto diventa strumento di attivazione di ricchezza dinamica e dunque esso stesso strumento dinamico dell’economia (reale e finanziaria), per svolgere un essenziale ruolo di approvvigionamento e collocazione di merci e servizi per l’impresa. Si svolge una frammentazione dello statuto unitario dell’autonomia privata in ragione dei settori di mercato e della natura dei beni (es. beni di consumo, prodotti finanziari, pacchetti turistici), della destinazione dei prodotti e delle utilità procurate (di consumo o di investimento), del contesto di stipulazione e delle tecniche di commercializzazione (es. vendite fuori dei locali commerciali e a distanza). La stessa economia immobiliare della modernità fa emergere un’azione produttiva nell’edilizia, dove l’impresa di costruzione, talvolta, asseconda le indicazioni della committenza, più di frequente fissa essa stessa il sito dell’insediamento, disegna e realizza la edificazione, collocando sul mercato le unità immobiliari prodotte. Addirittura i contratti, attraverso un programmato collegamento, sono in grado di creare beni, come per molti prodotti finanziari. Si intensifica l’intreccio tra diritto privato e diritto pubblico nella regolazione del mercato. Anche la normativa si incanala verso testi sempre maggiormente di settore (es. codice del consumo, codice delle assicurazioni private, testo unico dell’intermediazione finanziaria, codice del turismo, codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza). Resta il dato

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minimo, ma essenziale, della persistenza del vincolo contrattuale quale esplicazione della volontà dei soggetti e dunque di autonomia degli stessi. Ciò che rende ancora fondamentale la normativa del codice civile e tuttora vitale lo strumentario concettuale del contratto nel verificare gli assetti attuati. La erosione della figura unitaria del negozio giuridico attraversa oggi la figura generale del contratto per involgere la stessa tenuta logica e giuridica della fattispecie, quale astratta raffigurazione del fatto giuridico, in favore di una pluralizzazione di modelli contrattuali. È possibile ricondurre l’attuale esperienza dei contratti intorno a fondamentali formanti. a) Continua ad operare un’area di contratti ind ividuali, caratterizzata dalla concorde formazione del regolamento contrattuale. Tuttora esistono ampie aree in cui si dispiega l’autonomia contrattuale su un piano di parità dei contraenti. Le parti, attraverso trattative più o meno articolate, raggiungono l’accordo e concludono il contratto sull’assetto di interessi che hanno concorso a elaborare. Si pensi al mercato immobiliare tra singoli privati, vuoi con riguardo all’alienazione della proprietà (es. vendita) che in relazione al mero godimento dell’immobile (es. locazione, comodato), dove le parti, individualmente e specificamente, attribuiscono la proprietà o il godimento del bene al prezzo concordato; si pensi anche al mercato di aziende e impianti industriali. b) Nella modernità si è sviluppata una tecnica di contratti di massa, caratterizzata dalla standardizzazione del contenuto e dalla predisposizione unilaterale del contratto. Il dispiegarsi di una produzione e distribuzione di massa neutralizza lo spontaneo dispiegarsi delle volontà dei contraenti, per essere il contratto preconfezionato dal fornitore: il contratto accompagna la collocazione dei beni presso i fruitori. Talvolta l’operazione economica non è riconducibile ad una specifica fattispecie, in quanto una rete di contratti sviluppa il risultato perseguito. Molto spesso, per i contesti di conclusione del contratto o per le asimmetrie informative o per l’esigenza di appagamento di bisogni e aspirazioni o anche solo per le emotività indotte dalla pubblicità, viene meno anche una ponderata scelta del fornitore. La novità indotta dalla globalizzazione è che il controllo del mercato è sempre più appannaggio delle grandi imprese, così che il contratto sempre maggiormente si atteggia come regolatore di relazioni sociali di massa. È impegnata l’ampia area dei “contratti del consumatore” e sempre più del “terzo contratto”, dei quali si parlerà appresso. c) L’autonomia contrattuale sta toccando la successione ereditaria . A fronte del tradizionale divieto dei patti successori (art. 458) è stato introdotto il c.d. patto di famiglia (artt. 768 bis ss.) come “contratto” tipico inter vivos ad oggetto il trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni societarie ad uno o più discendenti, affinché, nel passaggio generazionale, l’impresa prosegua in capo ai soggetti considerati maggiormente idonei alla sua continuazione (XII, 3.9). Su tale scia si tende a delineare una generale autonomia contrattuale atipica in funzione successoria, con la regolazione in vita dei rapporti economici tra i futuri eredi, ancora molto controversa. d) È emersa una sinergia con il diritto pubblico, con la rilevanza pubblica di una nutrita fascia di contratti, vuoi per la crescita di contratti della pubblica amministrazione, vuoi per l’acquisita rilevanza pubblica di molti beni, che sta configurando un’azione conformata dei privati (si pensi alla conformità edilizia degli immobili trasferiti), cui si avrà riguardo appresso. e) Si stanno diffondendo contratti alieni, caratterizzati dalla provenienza da paesi esteri, con culture giuridiche diverse. Lo schema contrattuale è pensato e scritto in una lin-

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gua diversa e sotto un diritto differente, e applicato in un diverso paese con un differente ordinamento. Se non si vuole stravolgere l’operazione economica che ne è alla base per adattarla all’ordinamento del paese di applicazione (ma allora non avrebbe neppure senso il relativo impiego), inevitabilmente il trapianto del contratto alieno diventa anche veicolo di ingresso nel paese di applicazione di pezzi di cultura giuridica del paese di provenienza. In tal senso sta svolgendosi una prassi di regolazione di tutte le possibili evenienze della esecuzione del contratto, come è proprio della cultura di common law, con una rarefazione di applicazione delle molte norme dispositive.

6. Uguaglianza tra libertà e giustizia. Gli interventi normativi riequilibratori. – L’asserita uguale volizione dei contraenti nella formazione del contratto ripropone le problematiche da tempo analizzate dalla filosofia politica circa il significato e il fondamento dell’uguaglianza. Tali questioni hanno storicamente impegnato, anzitutto, l’area della libertà per i suoi nessi con il determinismo (divino, naturale, sociale) e per collocarsi la stessa all’apice dei diritti civili, quale prerogativa della uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. La libertà, come autodeterminazione, è referente essenziale dell’autonomia contrattuale; al tema della libertà è stato storicamente connesso anche quello della responsabilità, ponendosi come fondamento di questa. L’impianto del codice civile è ancora essenzialmente disegnato in funzione della unità del soggetto di diritto e perciò con presunta eguaglianza di potere contrattuale. C’è un’astrazione dalle circostanze del contratto, e dunque dai radicamenti sociali ed economici dei contraenti e dalle articolazioni del mercato in cui sono coinvolti, limitandosi il codice civile a dettare le regole del gioco per pervenire a una soluzione concordata, anche attraverso una procedimentalità nella formazione dell’accordo. Il dibattito sulla libertà ha perduto nell’attualità la colorazione di un tempo. Già durante il ’900 il problema della uguaglianza è stato correlato alla condizione sociale dei cittadini, affiancando all’ideale della libertà l’esigenza della giustizia. A fronte della rappresentazione dell’uomo come cittadino, che ha uguali diritti (a cominciare dalla libertà) ed è sottoposto a leggi uguali per tutti, esiste la realtà dell’uomo nelle relazioni sociali, con le specifiche condizioni di vita e le concrete esigenze (homme situé). La volontà continua ad essere la forza vitale della persona, ma la sua espressione è coniugata alla libertà di scelta: emerge la rilevanza della scelta volitiva come effettività di autodeterminazione dei propri interessi. Esistono vasti campi e molteplici tipologie contrattuali – come ad es. i contratti di lavoro, le forniture di beni di consumo, i contratti di ausilio all’attività di impresa (es. agenzia), i contratti di affiliazione commerciale – in cui la scelta volitiva è sbilanciata in favore della parte che organizza l’operazione economica e ne predispone il regolamento giuridico, con possibilità di approfittamento a danno dell’altra. Si impongono essenziali interventi di controllo e riequilibrio dell’assetto di interessi, funzionali ai valori dell’ordinamento 4, quali espressi dalla Costituzione repubblicana, che coniuga libertà e giustizia nel segno della dignità della persona umana. Verso tali traiettorie si muovono recentemente gli interventi   4 Nel tracciare i confini del diritto privato agli inizi degli anni ’60, M. GIORGIANNI escludeva che la socializzazione avesse provocato l’attrazione del diritto privato verso il diritto pubblico: “è certo invece – osservava l’Autore – che si è saldamente inserita, anche nella disciplina dell’attività privata, la considerazione dell’interesse collettivo”.

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normativi e gli apporti giurisprudenziali, attraverso una costante osmosi tra gli stessi, in sintonia con i risultati della dottrina. È in corso un trend normativo (specie di provenienza europea) che deroga all’impianto del codice civile, delineando strategie di tutela dei contraenti deboli o più in generale apprestando una regolazione del mercato in grado di preservarne il funzionamento, con interventi di riequilibrio delle posizioni contrattuali 5. Si è anticipato, parlando dell’autonomia negoziale (II, 5.4), come il divario di forza contrattuale tenda da tempo ad essere colmato con il ricorso a due meccanismi: a) riarmando la libertà dei privati (e dunque l’autonomia) nella formazione del contratto, con la predisposizione di strumenti in grado di garantire informazione e trasparenza, sì da consentire l’apporto volitivo consapevole e perciò effettivamente negoziale di entrambe le parti; b) intervenendo autoritativamente sul regolamento contrattuale (e dunque con l’eteronomia), amputando e/o manovrando il contenuto del contratto secondo parametri ritenuti di giustizia, sì da ristabilire l’equilibrio contrattuale e perciò la proporzionalità di utili e sacrifici tra le parti. Sono emerse nuove tecniche di tutela. La nullità del contratto è utilizzata, non solo nella verifica della struttura dell’atto, ma anche in funzione di protezione del soggetto più debole con la previsione di nullità protettive (VIII, 9.6). È dilatata l’area dell’inserimento legale di clausole nel contratto (ex art. 14192); è maturata una responsabilità per danni da prodotti difettosi a carico del produttore non venditore; sono apprestati specifici rimedi di tutela di contraenti deboli (es. diritto di ripensamento); sono favorite azioni di classe per la tutela di interessi omogenei. C’è, in generale, una valutazione qualitativa della circolazione della ricchezza (in funzione del contesto in cui si sviluppa e dei soggetti coinvolti) e non più solo quantitativa (in ragione dell’affidamento e in prospettiva della collocazione dei prodotti); lo stesso modello di produzione è oggi sotto osservazione, emergendo prospettive di impresa sociale e di finanza sociale. Anche l’usura, tradizionalmente punita da molte religioni come peccato, è sanzionata dall’ordinamento per l’approfittamento della persona del debitore, oltre che (in una logica economica) per sottrarre capitali alla produzione. Si parla di seguito di specifiche aree contrattuali toccate da tali interventi normativi.

7. Contratto e mercato: doveri di informazione e misure correttive. – È da tempo emersa la consapevolezza (affiorata con la produzione di massa) che il mercato si sia progressivamente allontanato dal mito illuminista della gara tra uguali per essere sostituito da una disparità di potere dei suoi protagonisti che investe la stessa democrazia capitalista del libero mercato. Anche l’altro mito della economia classica di un libero mercato efficiente che si autoregola, rinsaldato dalle dottrine monetaristiche e dalle politiche delle privatizzazioni, è rimasto travolto dalla globalizzazione del capitalismo finanziario. Certo rimane sempre attuale l’antico detto “res tantum valet quantum vendi potest”; ma chi determina il prezzo è il mercato e quindi chi è in grado di orientare il mercato!   5

Certo, fenomeni di intervento pubblico nella vita economica esistono da molto tempo, come la tassazione, quale strumento di coinvolgimento impositivo dei privati alla spesa pubblica, e il debito pubblico quale meccanismo di raccolta dei risparmi delle famiglie per investimenti pubblici; è invece pressoché scomparsa la pratica dei c.d. prezzi imposti, onde favorire il naturale allineamento dei prezzi nel mercato. I tratti della modernità stanno nell’intervento dell’ordinamento sul regolamento contrattuale secondo tendenze di riequilibrio delle debolezze dei soggetti che accedono al contratto.

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Un’attivazione del mercato quale essenziale volano della crescita economica e garanzia di democrazia economica richiede una regolazione normativa dello stesso: così da atteggiarsi sempre meno come ordo naturalis per assumere maggiormente la veste di ordo legalis e cioè conformato dal diritto 6. Sono molti gli interventi normativi volti a garantire la struttura concorrenziale del mercato, quale bene giuridico (II, 6.4), sia con la fissazione di stringenti regole della gara tra i protagonisti del mercato, sia con interventi autoritativi rimediali ai fallimenti del mercato. a) È valorizzata una gara corretta e trasparente, nel solco della economia liberale più illuminata, per orientare le strutture del mercato verso una equa autoregolazione dei rapporti dei concorrenti, consentendo una ottimale allocazione delle risorse. La disciplina si incentra sui doveri di informazione: è assicurata la trasparenza del mercato con l’imposizione di obblighi di informazioni esaustive, attendibili e tempestive, in grado di favorire la corretta competizione tra le imprese e consentire ai fruitori di prodotti di impresa un consapevole accesso al mercato, senza che peraltro una comunicazione eccessiva e confusa si traduca in una parodia dell’informazione. La scelta consapevole dei prodotti (beni e servizi), contro le suggestioni indotte dalla pubblicità o le reticenze ordite dai contraenti, vale anche a selezionare le imprese maggiormente virtuose e assicurare efficienza al mercato. È significativa la nutrita normativa confluita nel codice del consumo (D.Lgs. 6.9.2005, n. 206), con la previsione, di una Parte II, intitolata “Educazione, informazione, pratiche commerciali, pubblicità” (artt. 4 ss. cod. cons.) a beneficio del consumatore. Con riferimento alla intermediazione finanziaria, è in atto un continuo processo di tutela, iniziato con i doveri di informazione di cui al D.Lgs. 24.2.1998, n. 58 (TUIF) e proseguito con il D.Lgs. 3.8.2017, n. 129, che mira alla formazione di un mercato unico dei servizi finanziari in Europa e al rafforzamento della fiducia, della trasparenza e della protezione degli investitori, imponendo tra l’altro all’intermediario di modulare l’informazione in ragione della tipologia dei prodotti e delle qualità del risparmiatore, con lo scopo di acquisire l’orientamento al rischio del cliente. Sono anche previsti interventi di sostegno nella conclusione dei contratti attraverso la presenza di organizzazioni di categoria che rafforzano il potere contrattuale dei contraenti deboli, vuoi con un’autonomia assistita 7, vuoi con il ricorso alla contrattazione collettiva 8 (VIII, 1.11).   6

È di disperante angoscia il quadro che traccia del “turbocapitalismo” E.N. LUTTWAK (1999). L. EI(1959) considerava “mercato di concorrenza” il mercato dove intervengono molti compratori e molti venditori, dal quale tutti possono uscire senza comprare o senza vendere, in cui nessuno dei compratori o dei venditori sia così grosso e prepotente da dettare la legge agli altri, in cui tutti possono dire la loro uniformandosi ai regolamenti pubblici noti, in cui si sia sicuri che i contratti stipulati vengano adempiuti: “prezzo di mercato” è il prezzo né giusto né ingiusto ma che si paga di fatto, non il prezzo basso da abbondanza di prodotti desiderato dai consumatori e neppure il prezzo alto da scarsità di prodotti perseguito dai produttori, ma che tenda a compensare le spese necessarie a produrre la merce o la fatica del compiere il lavoro manuale o intellettuale. Nella conformazione del mercato si sommano più fonti regolatrici: non solo le leggi e i regolamenti amministrativi, ma anche, le determinazioni delle autorità indipendenti, il cui potere di controllo e regolazione del mercato si riverbera sulla disciplina dei contratti. 7 Le categorie di appartenenza non negoziano direttamente ma affiancano i contraenti appartenenti alla categoria professionale nella stipula di singoli contratti. Ad es., in materia di contratti agrari, sono validi gli accordi stipulati tra le parti con l’assistenza delle rispettive organizzazioni professionali agricole maggiormente rappresentative (art. 45 L. 3.5.1982, n. 203). 8 I contratti più significativi del mondo del lavoro sono negoziati dalle organizzazioni sindacali, attraverso contratti collettivi ai quali si uniformano i contratti individuali di lavoro tra gli appartenenti delle categorie   NAUDI

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b) Sono assunte misure correttive quando il mercato (quand’anche trasparente e informato) manifesti segni di fallimento, vuoi perché patologiche articolazioni del mercato non consentono l’equilibrato dispiegarsi della autonomia individuale di tutti i suoi protagonisti (es. consumatori, lavoratori, piccoli imprenditori), vuoi perché fasce sociali naturalmente deboli sono senz’altro espunte dal mercato o non riescono ad accedervi. In funzione di tutela di contraenti considerati deboli rispetto a strutture pubbliche e private, è significativa la normativa sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (D.Lgs. 9.10.2002, n. 231, attuativo della direttiva 2000/35/CE, come modificato dal D.Lgs. 9.11.2012, n. 192), il cui art. 7 si limita a considerare nulle le clausole relative al termine di pagamento, al saggio degli interessi moratori o al risarcimento per i costi di recupero, a qualunque titolo previste o introdotte nel contratto, quando risultano “gravemente inique in danno del creditore” (VII, 4.10). Si pensi alla prevalenza accordata ai rimedi ripristinatori rispetto a quelli restitutori relativamente alle forniture di beni di consumo (art. 130 cod. cons.), dove emerge una tutela dei consumatori compatibile con la salvaguardia della allocazione della ricchezza. Si pensi anche al crescente impiego della nullità parziale (art. 36 cod. cons.), che tende a preservare l’operazione economica realizzata. c) Alla fine, una considerazione generale. Con la rivoluzione commerciale il mercato è stato edificato al centro del sistema economico; ma con la frode e l’inganno si sono deformate e infrante le regole della concorrenza impedendosi la formazione del “giusto prezzo” fissato dal mercato 9. Ora la rivoluzione finanziaria esaspera gli squilibri: le asimmetrie contrattuali sono aggravate per la opacità degli strumenti finanziari e per l’assenza o opacità delle regole. Nell’economia di mercato il mercato concorrenziale è bene giuridico pubblico perché consente la più efficiente collocazione delle risorse e la selezione delle imprese più efficienti (artt. 101 e 102 TFUE), inserito in una economia sociale di mercato (art. 3 TUE). Bisogna favorire un governo dell’economia, con norme di diritto privato e di diritto pubblico, che si propongano almeno tre obiettivi essenziali: garantire l’informazione (per il potenziamento delle libertà), favorire la produttività (a tutela dell’occupazione), realizzare la equità distributiva (a protezione della solidarietà), quali percorsi concorrenti di conseguimento dello sviluppo quale sintesi di prosperità economica e benessere esistenziale. Lungo tali traiettorie deve svolgersi l’autonomia contrattuale, quale dispiegamento di volontà in una società libera e giusta.

8. Contratti di impresa e abuso di posizione dominante. – Come si è anticipato, nella realtà economica si è fortemente dilatata l’area dei c.d. contratti di impresa (o commerciali secondo una terminologia tradizionale). La qualificazione ha assunto una significazione complessa, per indicare, talvolta, una connotazione tipologica, nel senso che la stipula di tali contratti implica necessariamente la presenza di un imprenditore (ad es. contratti di appalto e assicurazione), talaltra una colorazione socio-economica nel senso che sono le imprese ad avvalersi normalmente di tali contratti nell’esplicazione dell’attività economica (es. vendita di beni di consumo) 10.  

contraenti (art. 39 Cost. e art. 2077 c.c.). In specifici settori si fa ricorso ad a c c o r d i t r a c a t e g o r i e , ai quali uniformare i singoli contratti. 9 Per P. PRODI (2009) è il nuovo modo di violare il comandamento biblico del “non rubare”. 10 Si è soliti distinguere tra “contratti normativamente di impresa” (nel senso di essere istituzionalmente  

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Il dato che qui si vuole approfondire è la riemersione di un diritto elaborato dalle imprese e dalle associazioni di categoria delle stesse (lex mercatoria), caratterizzato dalla effettività di applicazione in quanto diritto effettivamente utilizzato dalle imprese attraverso la modulistica contrattuale. La contrattazione di impresa assume così una duplice connotazione: da un lato, si svolge mediante predisposizione unilaterale, in quanto il contenuto contrattuale non esprime l’esito di una concorde elaborazione della volontà negoziale, ma è il portato della autodeterminazione di una sola parte con la previsione di contrattitipo, cui l’altra parte aderisce; dall’altro, tende a diventare regolazione sociale, in quanto il regolamento contrattuale si impone, non solo al singolo contraente, ma alla generalità dei soggetti interessati al conseguimento del particolare prodotto (bene o servizio) attraverso un meccanismo di standardizzazione contrattuale. È ormai prassi diffusa nella conclusione dei singoli contratti il richiamo a “condizioni generali” di contratto, talvolta allegate al contratto sottoscritto, talaltra addirittura contenute in un opuscolo staccato. Si atteggiano come “condizioni generali di vendita” o di “fornitura” (quando provengono dalla produzione e si impongono a distributori e consumatori) o come “condizioni generali di acquisto” (quando provengono dalla grande distribuzione e si impongono ai piccoli produttori); le modulistiche assecondano le tecniche di produzione e distribuzione di massa, con ripartizione dei rischi delle operazioni in ragione della forza economica dei singoli anelli della catena distributiva 11, scaricandosi comunque sui fruitori finali dei prodotti i rischi dell’operazione economica. È insidiosa prassi di collocazione dei prodotti finanziari utilizzare nel contratto sottoscritto un lessico spesso neutralizzato o addirittura contraddetto dall’opuscolo di accompagnamento. Specie nelle modulistiche del commercio internazionale si assiste ad una sorta di pancontrattualismo in quanto è predeterminata anche la scelta del diritto applicabile e del giudice competente. Emerge un progressivo estendersi di “abuso di posizione dominante” nel mercato. L’espressione è maturata con la L. 10.10.1990, n. 287 (c.d. legge antitrust) – sulla scorta dell’art. 85 (poi art. 81) Trattato C.E., quindi art. 101 TFUE – per indicare l’abuso da parte di una o più imprese di una posizione dominante all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, con conseguente alterazione della struttura concorrenziale del mercato. Con il tempo l’espressione si è dilatata fino ad assumere il più generale significato di divieto di approfittamento a danno di operatori del mercato (imprese concorrenti o consumatori) 12. Il contratto può essere guardato da differenti prospettive e con finalità diverse: da un lato, nell’ottica della produzione, al fine di rilevare il peso esercitato dalle imprese industriali nella distribuzione e collocazione dei prodotti e nell’erogazione dei servizi; dal 

riservati all’imprenditore) e contratti “funzionalmente di impresa” (nel senso di essere utilizzati normalmente dall’imprenditore). 11 La collocazione delle merci si caratterizza, da un lato, per la presenza di “canali” lungo i quali i prodotti fluiscono dal produttore verso i consumatori o utilizzatori finali (c.d. distribuzione commerciale), mediante l’attività di intermediari mercantili (operatori indipendenti) e/o meramente funzionali (ausiliari); dall’altro, per la rilevanza assunta dalla c.d. distribuzione fisica delle merci, laddove il trasferimento delle merci solo raramente si realizza in un’unica soluzione e con un solo mezzo di trasporto, ed implica di regola una pluralità di operazioni coordinate. 12 La libertà di scelta economica dell’imprenditore non è in sé giudizialmente sindacabile, ma è censurabile l’abuso dell’atto di autonomia contrattuale in virtù di tale scelta posto in essere, al fine di valutare se in conseguenza della disparità di forza economica sia mancato il contemperamento degli opposti interessi (Cass. 18-9-2009, n. 20106).

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l’altro, in quella della commercializzazione e dunque della distribuzione (la mercatura o negotiatio delle fonti), allo scopo di cogliere il ruolo svolto dalle imprese di intermediazione nella fase dell’approvvigionamento e di collocazione dei prodotti; dall’altro ancora, in quella del consumo, in funzione di tutela dei fruitori finali di prodotti e servizi, che subiscono il potere contrattuale sia della produzione che della distribuzione. Sono frequenti settori nei quali si articola una forza economica dell’impresa in grado di imporsi a tutti i fruitori di prodotti o servizi di un determinato settore, indipendentemente dalla qualifica assunta: si pensi ai contratti bancari e di assicurazione che quotidianamente concludono sia consumatori che imprenditori, i quali, come “clienti” subiscono il potere contrattuale forte della controparte. In tutte tali ipotesi c’è l’esigenza di protezione di contraenti contro l’abuso di posizione negoziale dominante: immediatamente, nell’interesse dei soggetti deboli interessati; in prospettiva, in funzione di tutela della vitalità del mercato, a presidio della concorrenza.

9. Contratti dei consumatori e degli investitori. – Nell’impianto del cod. comm. del 1882, nel Libro I dedicato al commercio in generale, esisteva un Titolo II riguardante gli atti commercio e un titolo VI riguardante “Delle obbligazioni commerciali in generale” dove era fissato lo statuto dei contratti commerciali e delle obbligazioni che ne derivavano, contenenti deviazioni rispetto alla disciplina generale dei contratti del codice civile, con discipline di favore per i commercianti e cioè gli imprenditori. Nell’attualità si ripropone una deviazione dalla legge generale civile con la previsione dei contratti dei consumatori e dei contratti degli investitori in una logica opposta a quella del cod. comm., per la tutela degli aventi causa dagli imprenditori (c.d. professionisti). Muta l’angolo di osservazione dell’atto di scambio: da strumento dell’attività di impresa, con l’esigenza di favorire la collocazione dei prodotti, a meccanismo di accesso al mercato per la necessità di soddisfare bisogni ed istanze. Sono accordate per via legale quelle tutele che consumatori e investitori non riescono a conseguire sul campo e perciò sul terreno negoziale, a cominciare dalla fase di conclusione del contratto 13. a) Secondo un percorso normativo di derivazione europea, confluito nel codice del consumo (D.Lgs. 6.9.2005, n. 206, costantemente novellato) 14, sono fissate le qualificazioni giuridiche di professionista e consumatore, intendendosi per consumatore o utente “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta”, e per professionista “la persona fisica   13 In tale generalizzato clima di tutela dei consumatori, sta maturando una nuova filosofia nella strategia di impresa al mercato: ad una cultura di “marketing tradizionale” e di domanda indotta, si sta affiancando una cultura di “orientamento al marketing”, attenta ai contesti socio-economici dove la domanda matura e alle esigenze cha la sostengono. 14 Ha rappresentato un indubbio contributo alla semplificazione normativa la redazione di un codice unitario del consumo: ma la tecnica utilizzata non soddisfa appieno. Intanto poteva ordinarsi in modo più organico la materia; ma ciò che più lascia perplessi è lo spostamento dal codice civile al codice del consumo delle normative relative ai contratti dei consumatori e alla vendita di beni di consumo, che, anche per la collocazione all’interno del codice, stavano acquisendo (in via di interpretazione) una valenza applicativa più ampia, quale modello di tutela generale dei contraenti deboli. Lo schema originario del codice del consumo aveva lasciato infatti le dette normative nel codice civile; a seguito però di un parere del Consiglio di Stato (Sezione consultiva per gli atti normativi del 20-12-2004), le stesse furono espunte dal codice civile e inserite nel codice di consumo; e questo non fu un bene.

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o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale 15, ovvero un suo intermediario” (art. 3 cod. cons.), non rilevando il mezzo utilizzato (anche internet) 16. Nella disciplina è impiegata la formula “beni di consumo”, che ha una chiara valenza economica di destinazione del bene. In economia i beni di consumo sono beni finali e diretti in quanto non richiedono alcuna trasformazione per soddisfare il bisogno umano: sono immediatamente destinati a soddisfare esigenze o istanze delle persone; si atteggiano come beni consumabili o durevoli, a seconda che si distruggano con un solo utilizzo o consentano un utilizzo reiterato nel tempo. In ogni caso si differenziano dai beni strumentali o indiretti, impiegati nella produzione di altri beni (cose o servizi). Poiché la distinzione è di carattere funzionale, alcuni beni di consumo (di uso diretto) possono operare come beni strumentali quando sono immessi in un circuito economico, operando quali fattori produttivi di altri beni (come tipicamente avviene per i prodotti tecnologici) 17: in tal senso è la destinazione effettiva dei beni a orientare la qualificazione economica degli stessi. È avvenuto però che la formula “beni di consumo”, derivata dal terreno economico per indicare l’utilizzo finale o diretto dei beni, trasposta sul terreno giuridico per disciplinare il “rapporto di consumo” (Parte III cod. cons.), abbia dissolto l’originaria matrice economica. Con D.Lgs. 4.11.2021, n. 170, è stata data applicazione alla direttiva UE/2019/771, con la sostituzione del Capo I del Titolo III della Parte IV del cod. cons. (artt. 128 ss. cod. cons.), senza modificarne l’impianto. Il novellato Capo I si intitola “Della vendita dei beni”, in luogo della originaria dizione “Della vendita dei beni di consumo”; ma trattasi di modifica di facciata, sia perché è restata invariata la locuzione “beni di consumo” nella formula del Titolo III, che è corrispondente alla intitolazione della Parte III come “rapporto di consumo”, sia (e a maggior ragione) in quanto l’articolato riproduce l’originario impianto e traspone fedelmente il testo della direttiva, senza neppure utilizzare le risorse di autonoma normazione generale che pure la direttiva ha attribuito ai singoli stati; nell’intero testo è reiterata e valorizzata la qualifica formale di “consumatore” restata invariata 18. Con tale normativa esce ribadito il principio, già espresso dall’originario art.   15 Non è necessario che il contratto sia posto in essere nell’esercizio dell’attività propria dell’impresa o della professione, essendo sufficiente che venga concluso “per uno scopo connesso all’esercizio dell’attività imprenditoriale o professionale” (Cass. 15-5-2013, n. 11773; Cass. 14-7-2011, n. 15331). 16 La nozione di “professionista”, ai sensi dell’art. 2, lett. b, della direttiva 2005/29 e dell’art. 2, punto 2, della direttiva 2011/83, è una nozione funzionale: una persona fisica che pubblica su un sito Internet, contemporaneamente, un certo numero di annunci per la vendita di beni nuovi e d’occasione può essere qualificata come “professionista”, e una siffatta attività può costituire una “pratica commerciale”, soltanto qualora tale persona agisca nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, cosa che spetta al giudice del rinvio verificare, alla luce di tutte le circostanze rilevanti del caso di specie (Corte giust. U.E. 4-10-2018, C-105/17). 17 Anche rispetto ai beni strumentali rileva il divario tra capitale fisso, rappresentato dai beni che partecipano stabilmente al processo produttivo (come macchinari, magazzini) e capitale circolante rappresentato dai beni che partecipano una sola volta al processo produttivo (come materie prime e combustibili). In tal senso si suole anche dire che i beni durevoli e quelli strumentali a capitale fisso sono con fecondità ripetuta, mentre i beni non durevoli e quelli a capitale circolante sono con fecondità semplice. 18 Per il novellato art. 128 si intende per bene “qualsiasi bene mobile materiale anche da assemblare” (co. 2, lett. e, 1), nonché “qualsiasi bene mobile materiale che incorpora o è interconnesso con un contenuto digi tale o un servizio digitale in modo tale che la mancanza di detto contenuto digitale o servizio digitale impedi-

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128 c. cons., di reificazione dei beni di riferimento della normativa eurounitaria confluita nel c. cons. La reificazione assimila il contesto di interessi del mercato mobiliare a quello del mercato immobiliare, dove egualmente si ripetono le prospettive del trasferimento e della fabbricazione dell’edificio. Sussiste una chiara indicazione costituzionale di favorire l’accesso del risparmio popolare alle proprietà personali dell’abitazione e diretta coltivatrice (art. 47 Cost.). Tali forme di accesso agli immobili, per integrare un uso finale e diretto, intrecciano la logica economica della collocazione dei beni di consumo, appunto perché destinate ad un uso personale e familiare favorito. La utilizzazione di beni ad uso personale di consumo involge ormai tutte le fasi di svolgimento del contratto (conclusione, contenuto, integrazione, esecuzione, tutele, ecc.), enucleando categorie giuridiche e tecniche di tutela suscettibili di applicazione a tutti i fruitori di prodotti di impresa (quali “clienti” e “contraenti”) 19. Nella giurisprudenza, anche la normativa a tutela della concorrenza (L. 10.10.1990, n. 287) non è circoscritta alla difesa delle imprese ma aperta alla tutela dei consumatori, sempre maggiormente interessati allo svolgimento di un mercato concorrenziale, fino a legittimarne la richiesta di risarcimento dei danni per intese illecite restrittive della concorrenza (II, 6.4). La normativa dei contratti dei consumatori non è autosufficiente, impiantandosi sulla generale organizzazione tecnica e giuridica del contratto disciplinata dal codice civile. Per l’art. 1469 bis c.c., le disposizioni relative al contratto in generale si applicano ai contratti del consumatore ove non derogate dal codice del consumo o da altre disposizioni più favorevoli per il consumatore; a tale previsione fanno eco, relativamente alla clausole abusive, l’art. 38 cod. cons., secondo cui, per quanto non previsto dal codice del consumo, ai contratti tra il consumatore ed il professionista si applicano le disposizioni del codice civile; e relativamente ai difetti di conformità dei beni, l’art. 135 septies cod. cons., secondo cui, per quanto non previsto dal capo della vendita di beni, si applicano le disposizioni del codice civile in tema di formazione, validità ed efficacia dei contratti, comprese le conseguenze della risoluzione del contratto e il diritto al risarcimento del danno. Un significativo valore assume l’art. 2 cod. cons. che fissa otto “diritti fondamentali dei consumatori e degli utenti” 20: la norma ha una grande rilevanza sistematica in quan 

rebbe lo svolgimento delle funzioni proprie del bene (‘beni con elementi digitali’)” (co. 2, lett. e, 2); per il medesimo articolo si stabilisce che sono disciplinati “taluni aspetti dei contratti di vendita conclusi tra consumatore e venditore”, equiparandosi a tali fini “i contratti di permuta e di somministrazione nonché quelli di appalto, d’opera e tutti gli altri contratti comunque finalizzati alla fornitura di beni da fabbricare o produrre” (co. 1). 19 Il contraente debole è tutelato quale mero “cliente” di un istituto bancario (art. 117 D.Lgs. 385/1993 TUB), come mero “cliente” nei contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento (art. 23 D.Lgs. 58/1998, TUF), come mero “contraente” nei contratti di assicurazione (artt. 165 ss. D.Lgs. 209/2005). In tali operazioni sono impiegati moduli e formulari uniformi della categoria di appartenenza, cui non è in grado di sottrarsi ogni contraente aderente (consumatore o imprenditore). 20 Ai consumatori e agli utenti sono riconosciuti come fondamentali i seguenti diritti: a) alla tutela della salute; b) alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi; c) ad una adeguata informazione e ad una corretta pubblicità; c-bis) all’esercizio delle pratiche commerciali secondo principi di buona fede, correttezza e lealtà (inserito dall’art. 21 D.Lgs. 23.10.2007, n. 221); d) all’educazione al consumo; e) alla correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi; f) alla promozione e allo sviluppo dell’associazionismo libero, volontario e democratico tra i consumatori e gli utenti; g) all’erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza.

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to il catalogo dei diritti garantiti abbraccia tutte le ragioni di protezione nel mercato. Sono anche emerse nuove tecniche di tutela, come la mediazione (III, 3.3) e la tutela collettiva (III, 2.7), al fine di sopperire alla debolezza economica e professionale dei consumatori uti singuli, con la valorizzazione delle associazioni dei consumatori. b) Una disciplina particolare è rivolta anche ai contratti degli investitori. Per intanto il fondamentale art. 47 Cost. la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme. Operano poi le normative specifiche dei contratti bancari e sul risparmio gestito (artt. 113 ss. D.Lgs. 1.9.1993, n. 185, TUB), nonché le regole in materia di intermediazione finanziaria e con riguardo alle operazioni di investimento (artt. 21 ss. D.Lgs. 24.2.1998, n. 58, TUF), con una tutela privilegiata della posizione debole dell’investitore che si articola in interventi di supporto ai contratti e in una specifica regolazione dei contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento e accessori (art. 23). I soggetti abilitati alla collocazione sono tenuti a classificare, in base a parametri predeterminati, il grado di rischiosità dei prodotti finanziari e delle gestioni di portafogli d’investimento e devono rispettare il principio dell’adeguatezza tra le operazioni consigliate agli investitori o effettuate per conto di essi e il profilo di ciascun cliente (art. 21, lett. a, D.Lgs. 58/1998). Per l’art. 23, ult. comma, D.Lgs. 58/1998: nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento e di quelli accessori, spetta ai soggetti abilitati l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta. c) Nel presente volume si evita di racchiudere le discipline di protezione dei consumatori e investitori in una trattazione specifica, preferendo analizzare i regimi particolari nelle singole articolazioni del contratto ove emergono le ragioni di divario e di tutela specifica, sia per rimarcare le peculiarità rispetto ai profili generali del contratto, sia per evidenziare la progressiva formazione di una disciplina di protezione dei contraenti deboli, in grado di orientare la stessa disciplina generale dei contratti.

10. Terzo contratto e condizione degli imprenditori deboli. – È emerso da tempo un c.d. terzo contratto, stipulato tra imprese con divario di potere contrattuale, più spesso correlato ad una situazione di dipendenza economica tra le parti. È anche emersa una contrattazione di settore, per cui la standardizzazione contrattuale non riguarda la singola impresa ma l’intero settore di riferimento, attraverso contratti-tipo predisposti dalle organizzazioni di categoria (es. contratti bancari e assicurativi) cui non sono in grado di resistere né consumatori né imprenditori. Anche per tali contratti si propone la possibilità di abuso di posizione negoziale dominante che una impresa è in grado di imporre all’altra. Si è già detto del meccanismo di abuso di posizione dominante. Sono intervenute specifiche discipline di tutela di c.d. imprenditori deboli sul mercato. Si pensi alla normativa sulla subfornitura nelle attività produttive (L. 18.6.1998, n. 192), il cui art. 9 vieta l’abuso, da parte di una impresa, dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi riguardi, un’impresa cliente o fornitrice determinando un “eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi” (IX, 2.7). Si pensi alla normativa sull’affiliazione commerciale (L. 6.5.2004, n. 129), che indica specificamente gli obblighi dell’affiliante ed il contenuto minimo del contratto, con la previsione dell’art. 8 che, se una parte ha fornito false informazioni, è consentito all’altra parte di chiedere l’annullamento del contratto ai sensi dell’art. 1439 c.c. nonché il risarcimento del danno, se dovuto (IX, 3.9). Un trend giurisprudenziale, pure delle

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Corti europee, tende a dilatare la normativa di tutela dei consumatori a ulteriori figure, come il condominio 21. In tutte tali ipotesi c’è l’esigenza di realizzare un riequilibrio delle posizioni contrattuali, secondo una tecnica utilizzata nella disciplina dei contratti dei consumatori, che tende a dilatarsi verso tutte le situazioni di dipendenza economica.

11. Contratto e rapporto di lavoro. – Il terreno dove massimamente si consuma la compressione dell’autonomia privata è quello del lavoro subordinato, dove il rapporto di lavoro è assorbente del contratto di lavoro. Il rapporto di lavoro è funzionalmente caratterizzato da una disparità dei soggetti per il vincolo di subordinazione che lega il lavoratore al datore di lavoro: trattasi di una asimmetria, non solo in fatto (come tra consumatori e impresa), ma anche in diritto in quanto il lavoratore è tenuto per legge a prestare il proprio lavoro manuale o intellettuale alle dipendenze e sotto la direzione del datore di lavoro (artt. 2086 e 2094), comunque nel rispetto della libertà e dignità del lavoratore (art. 2087 c.c. e artt. 2 e 3 L. 20.5.1970, n. 300) 22: il lavoratore non è in grado di incidere sul tessuto giuridico ed economico del contratto come del rapporto, sicché c’è la necessità di un potenziamento della sua autonomia. Il valore fondante del diritto del lavoro sta proprio nel sopperire alla mancata esplicazione dell’autonomia negoziale individuale dei lavoratori. Ciò spiega la rilevanza assunta in materia dall’autonomia collettiva (c.d. contrattazione collettiva), da molto tempo attratta nell’ambito del diritto privato, con la funzione di dare forza alle voci fioche di soggetti deboli, espressiva di interessi collettivi di categoria come sintesi degli interessi individuali di coloro che aderiscono alle associazioni sindacali contraenti. In una logica privatistica, i contratti collettivi tendono a regolare rapporti e interessi tra contrapposte categorie di soggetti con potere sbilanciato: rappresentano “contratti quadro” vincolanti per i successivi contratti individuali. Peraltro è in corso un tendenziale regresso delle rilevanze sindacali nazionali in favore di accordi di stabilimento e di usi aziendali 23. Alcune disposizioni sono già nel codice civile: ad es., l’esecuzione del contratto sopravanza il contenuto, rilevando la fattualità del rapporto e dunque la effettività delle   21 Per Corte giust. U.E. 2-4-2020, causa C-329/2019, non osta alla normativa europea la qualifica di consumatore del “condominio” che stipula un contratto con un professionista, anche se un simile soggetto giuridico non rientra nell’ambito di applicazione della direttiva. È la conferma che la figura del consumatore sta evolvendo in quella di “contraente debole”, da dove proveniva e dove sta faticosamente ritornando. Per un’assimilazione già Cass. 22-5-2015, n. 10679, agendo l’amministratore come mandatario con rappresentanza dei singoli condomini, i quali devono essere considerati consumatori, in quanto persone fisiche operanti per scopi estranei ad attività imprenditoriale o professionale. 22 Il potere organizzativo del datore di lavoro non può tradursi in condotte pregiudizievoli dell’integrità fisica e morale dei prestatori d’opera in quanto nell’equo bilanciamento dell’esigenza di funzionalità dell’impresa e di tutela delle condizioni di lavoro e del lavoratore, il legislatore ha privilegiato, con l’art. 41 Cost., ripreso dall’art. 2087 c.c., i diritti fondamentali dei lavoratori (Cass. 5-8-2010, n. 18278). 23 Il contrasto fra contratti collettivi di diverso ambito territoriale (nella specie, nazionale e regionale) va risolto sulla base della effettiva volontà delle parti sociali, da desumersi attraverso il coordinamento delle varie disposizioni della contrattazione collettiva, aventi tutte pari dignità e forza vincolante; anche i contratti territoriali possono, in virtù del principio dell’autonomia negoziale di cui all’art. 1322 c.c., prorogare l’efficacia dei contratti nazionali e derogarli, anche in peius senza che osti il disposto di cui all’art. 2077 c.c., fatti salvi i diritti definitivamente acquisiti nel patrimonio dei lavoratori (Cass. 18-5-2010, n. 12098).

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mansioni superiori rispetto a quelle indicate nel contratto (art. 2103); le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da norme inderogabili o contratti o accordi collettivi, non sono valide tranne che siano compiute in sede protetta attraverso rituali conciliazioni con autonomia assistita (art. 2113); la nullità del contratto di lavoro non impedisce di riconoscere tutela alle prestazioni di fatto eseguite (inefficacia della invalidità) (art. 2126). Si è inoltre formata una nutrita disciplina di protezione dello status del lavoratore subordinato, con rilevanti deroghe alle generali categorie del diritto privato dei contratti. Anzitutto vige la sostituzione automatica della retribuzione pattuita con quella “proporzionale” alla qualità e quantità di lavoro e in ogni caso in grado di assicurare al lavoratore e alla sua famiglia “un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36 Cost.). C’è inoltre la tutela reintegratoria nel posto di lavoro in alcune ipotesi di licenziamento illegittimo (art. 18 L. 20.5.1970, n. 300 (Stat. lav.) novell. con L. 28.6.2012, n. 92). Ancora, le norme protettive di legge o dei contratti collettivi sono imperative, anche se non di ordine pubblico, per essere derogabili (solo) a favore del lavoratore (c.d. favor) (art. 2077). È in gioco una nuova frontiera delle relazioni industriali: dopo lunghi periodi di conflitti antagonistici affiorano modelli di sindacalismo partecipativo in grado di coniugare globalizzazione e diritti sociali per la salvaguardia dell’occupazione. È in corso nel diritto del lavoro un recupero dell’autonomia privata e un’attenuazione delle inderogabilità a sostegno della tenuta economica. Così il diritto del lavoro ritorna ad utilizzare categorie del diritto privato quale gradualmente si è andato rinnovando. Con un’immagine figurata, il figlio ribelle ritrova l’antico genitore che, mutato e aperto alle dinamiche del mercato e nutrito dei valori costituzionali, è in grado di dialogare ed accoglierlo.

12. Contratti e accordi della pubblica amministrazione. L’evidenza pubblica. – Come si è anticipato (I, 2.9), l’azione della P.A. può esplicarsi tanto in via autoritativa, nelle forme del diritto pubblico, quanto su un piano di parità con i cittadini con modelli di diritto privato: in ogni caso l’azione della P.A. è caratterizzata da un dovere di trasparenza di evidenza pubblica e da un vincolo di funzionalizzazione al perseguimento dell’interesse pubblico, assicurando il buon andamento e la imparzialità della pubblica amministrazione (art. 972 Cost.). Sono delineati di seguito i formanti più diffusi di svolgimento dell’azione della pubblica amministrazione con tecniche contrattuali. a) Talvolta la P.A. opera per intero con strumenti privatistici, trovando il proprio fondamento nella libertà di iniziativa, garantita costituzionalmente e legislativamente a tutte le persone giuridiche, e, dunque, anche agli enti pubblici. Sulla spinta del diritto europeo, l’azione pubblica va assumendo un indirizzo di svolgimento nella vita economica sempre maggiormente vicina al diritto privato. Si sta dilatando l’area dei contratti ordinari o di diritto comune, come espressione del diritto civile della P.A., per realizzare interessi pubblici (e quindi generali) attraverso strumenti privatistici. In tali casi la P.A. agisce iure privatorum, perciò spogliandosi della sua veste autoritativa e ponendosi sullo stesso piano di un soggetto privato: per la L. 7.8.1990, n. 241, la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, “agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente” (art. 11 bis, inserito dall’art. 1 L. 15/2005) (I, 2.11).

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b) Diffusi sono i contratti pubblici con i quali la P.A. adotta moduli negoziali 24, pur serbando strumenti specifici e concreti di tutela. Sussistono anche contratti di diritto speciale che, ancorché stipulati attraverso schemi di diritto privato, sono regolati legislativamente e improntati a precisi parametri di scelta del contraente e di contenuto 25. Anzitutto rilevano i contratti della pubblica amministrazione. La materia è regolata dal D.Lgs. 18.4.2016, n. 50, come novellato dal D.Lgs. 19.4.2017, n. 56, recante il “Codice dei contratti pubblici”, che disciplina i contratti di appalto e di concessione aventi ad oggetto l’acquisizione di servizi, forniture, lavori e opere, nonché i concorsi pubblici di progettazione. L’affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell’ambiente ed efficienza energetica 26. In ragione del principio di “buon andamento”, è consentito alla pubblica amministrazione procedere, anche dopo l’aggiudicazione, alla rimozione in autotutela dell’atto, sia con l’annullamento per illegittimità, sia con la revoca a seguito di rinnovata valutazione della convenienza 27 (III, 3.5): la giurisprudenza è incline a ritenere come conseguenza la caducazione del contratto 28. Ampio sostegno ai contratti pubblici proviene dalla tecnica del c.d. avvalimento, che si pone come un cuneo privatistico nella organizzazione degli appalti pubblici, consentendosi all’impresa aggiudicataria (ausiliata o avvalente) di avvalersi contrattualmente della cooperazione di altra impresa (ausiliaria o avvalsa) utilizzando i mezzi da questa messi a disposizione, così da favorire la competizione tra imprese e consentire anche a piccole imprese di accedere ad appalti pubblici, conferendo efficienza al sistema degli appalti (art. 89) 29.   24 È ormai indirizzo giurisprudenziale consolidato che, per i contratti pubblici, l’indagine circa l’efficacia del contratto deve essere svolta in concreto, sulla base delle generali regole dei contratti e, specificamente, secondo i canoni di interpretazione complessiva enunciati dal cod. civ. e seconda buona fede delle clausole contrattuali (Cons. Stato 14-1-2022, n. 257; Cons. Stato 30-1-2019, n. 755). 25 Sono contratti stipulati da soggetti che agiscono in situazione di monopolio, come per i pubblici servizi di linea per il trasporto di persone o di cose, che utilizzano schemi di diritto privato regolati da norme speciali e non dal contratto di trasporto disciplinato dal codice civile (artt. 1679, 2597 c.c.). 26 La vigilanza e il controllo sui contratti pubblici e l’attività di regolazione degli stessi sono attribuiti, nei limiti di quanto stabilito dal codice, all’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), che agisce anche al fine di prevenire e contrastare illegalità e corruzione (art. 213). 27 Per la giurisprudenza amministrava “l’annullamento (giurisdizionale o in via di autotutela) dell’aggiudicazione di una gara pubblica fa venir meno il vincolo negoziale determinatosi con l’adozione del provvedimento rimosso”, con la conseguenza di appartenere sempre al novero delle potestà di diritto pubblico la determinazione dell’Amministrazione di non avvalersi della procedura espletata e di revocare gli atti che vi hanno dato luogo, a fronte del cui esercizio non sono rinvenibili posizioni di diritto soggettivo in capo agli altri partecipanti alla gara, ancorché in posizione utile per subentrare all’aggiudicatario rimosso (Cons. Stato 14-1-2000, n. 244). 28 Per la giurisprudenza del Consiglio di Stato l’annullamento di un atto presupposto determina l’automatica rimozione dell’atto consequenziale (nella specie la successiva stipula ed approvazione del relativo contratto), senza bisogno che quest’ultimo debba formare oggetto di autonoma o separata impugnativa (Cons. Stato 19-11-2003, n. 7490; Cons. Stato 30-3-1993, n. 435). 29 Il contratto di avvalimento è affiancato da una dichiarazione unilaterale della impresa ausiliaria che si obbliga verso la ausiliata e la stazione appaltante di mettere a disposizione le risorse oggetto del contratto di avvalimento, che comporta una responsabilità in solido tra le due imprese verso la stazione appaltante per le prestazioni oggetto del contratto.

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Con riguardo a opere e infrastrutture di grandi dimensioni, al fine di predeterminare i costi della complessiva operazione e concentrare la imputazione dei rischi di esecuzione del contratto, si tende a coinvolgere un contraente generale (general contractor) quale responsabile dell’intera operazione 30. c) Stanno anche sviluppandosi accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento, con gli interessati, al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale, senza pregiudizio dei diritti dei terzi e in ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse 31; tali accordi debbono essere stipulati, a pena di nullità, per atto scritto, salvo che la legge disponga altrimenti. Non sono tecnicamente contratti per assenza della patrimonialità, ma sono accordi ai quali si applicano, ove non diversamente previsto, “i princìpi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili” (art. 112). Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse l’amministrazione recede unilateralmente dall’accordo, salvo l’obbligo di provvedere alla liquidazione di un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato (art. 114). Con tali strumenti sono realizzate finalità istituzionali con moduli convenzionali disciplinati in tutto o in parte dal diritto privato. Diffuse figure sono le convenzioni urbanistiche quali accordi conclusi dalla P.A. con il privato 32, di pianificazione del territorio attuative del piano regolatore generale (es. piani di lottizzazione convenzionata) 33, ovvero funzionali al rilascio di titolo abilitativo (es. permesso di costruire) con obblighi di fare del privato interessato: il privato realizza una propria utilità, ma l’ente locale autorizza la conformazione del territorio con la costruzione di beni e/o infrastrutture a beneficio della collettività (opere di urbanizzazione e/o aree a ciò destinate) 34. Un settore di intensa collaborazione tra soggetto pubblico e pri  30

Ai sensi dell’art. 11 L. 21.12.2001, n. 443 (c.d. legge obiettivo), il contraente generale è qualificato per specifici connotati di capacità organizzativa e tecnico-realizzativa, per l’assunzione dell’onere relativo all’anticipazione temporale del finanziamento necessario alla realizzazione dell’opera in tutto o in parte con mezzi finanziari privati, per la libertà di forme nella realizzazione dell’opera, per la natura prevalente di obbligazione di risultato complessivo del rapporto che lega detta figura al soggetto aggiudicatore e per l’assunzione del relativo rischio; c’è la previsione dell’obbligo, da parte del contraente generale, di prestazione di adeguate garanzie e di partecipazione diretta al finanziamento dell’opera o di reperimento dei mezzi finanziari occorrenti. 31 Si è soliti distinguere i contratti pubblici in contratti ad oggetto pubblico, in ragione dell’oggetto dei rapporti, del bene e dell’interesse pubblico tutelato e contratti accessivi, ausiliari e sostitutivi di provvedimento amministrativo come, ad esempio, la concessione, gli accordi in materia di espropriazione, ecc. 32 La pianificazione e la realizzazione degli interventi sul territorio d’urbanizzazione, anziché essere rimesse al potere unilaterale ed autoritativo dell’amministrazione, scaturiscono dall’accordo bilaterale e, salvo espresse eccezioni, paritetico del privato attuatore con il Comune; la convenzione non ha valenza privatistica ed autonoma rispetto all’atto autoritativo di concessione, ma si inserisce nel procedimento amministrativo finalizzato al rilascio di essa, essendo imposto dall’amministrazione medesima come momento necessario di tale procedimento e condizionando l’adozione del provvedimento ex art. 11 L. 241/1990 (Cons. Stato 31-8-2020, n. 5318). 33 Per l’art. 28 L. 1150/1942 (l. urb.), come modificato dall’art. 8 L. 765/1967, l’autorizzazione comunale al piano di lottizzazione è subordinato alla stipula di una convenzione, da trascriversi a cura del proprietario, che preveda specifici obblighi per il proprietario; la convenzione deve essere approvata con deliberazione consiliare nei modi e forme di legge. 34 Cons. Stato 7-9-2018, n. 5276: tali contratti non sono disciplinati dalle regole proprie del diritto privato, ma meramente dai principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti, in quanto compatibili e  salvo che non sia diversamente previsto: il contenuto contrattuale (obbligazioni e connesse prestazioni) è de-

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vato è quello della edilizia abitativa convenzionata, che si caratterizza per la presenza di una convenzione tra Amministrazione pubblica e soggetto attuatore dell’intervento edilizio 35. In tutte le forme di collaborazione la convenzione si inserisce nel procedimento amministrativo: l’atto fondativo del rapporto tra amministrazione e privato non è la convenzione, bensì il provvedimento, rispetto al quale la convenzione rappresenta uno strumento ausiliario, idoneo alla regolazione di aspetti patrimoniali del rapporto, nell’ambito di una più ampia finalità di pubblico interesse che ispira l’azione amministrativa. d) In generale, tendono ad estendersi principi del diritto dei contratti, secondo un crescente diritto patrimoniale comune a soggetti privati e pubblici. La giurisprudenza ormai unanime considera applicabili le regole poste a tutela dei contraenti aderenti dagli artt. 1341 e 1342; è invocabile la normativa di derivazione comunitaria a tutela dei consumatori, collegandosi la qualifica di “professionista” anche alla pubblica amministrazione; sono applicate le disposizioni in materia di responsabilità precontrattuale (artt. 1337 e 1338) 36; è ammessa l’esecuzione in forma specifica verso la P.A. dell’obbligo a contrarre ex art. 2932. È estesa alla pubblica amministrazione la normativa sulla buona fede, in un duplice senso: da un lato, come obbligo di osservanza della buona fede anche da parte della P.A.; dall’altro, come rilevanza dell’affidamento dei privati sugli atti della P.A. Non si configura un potere discrezionale della pubblica amministrazione nella esecuzione del contratto, sicché il comportamento della stessa va valutato come quello di un qualsiasi privato 37. Poiché il modulo convenzionale si atteggia come una tecnica di esplicazione della funzione pubblica, è necessario che lo strumento privatistico sia accompagnato ed anzi preceduto da un procedimento amministrativo di evid enza pubblica che valga ad esternare e cioè rendere di pubblica ragione le finalità di pubblico interesse perseguite  

finito dalla legge, di modo che possono, in linea di massima, trovare applicazione sia l’eterointegrazione del contratto ex art. 14192, sia l’inserzione automatica di clausole ex art. 1339. 35 Per l’art. 17 D.P.R. 380/2001 (t.u. edil.), nei casi di edilizia abitativa convenzionata, relativa anche ad edifici esistenti, il contributo afferente al permesso di costruire è ridotto alla sola quota degli oneri di urbanizzazione qualora il titolare del permesso si impegni, a mezzo di una convenzione con il comune, ad applicare prezzi di vendita e canoni di locazione determinati ai sensi della convenzione-tipo prevista dalla regione. Per il successivo art. 18, ai fini del rilascio del permesso di costruire relativo agli interventi di edilizia abitativa, la regione approva una convenzione-tipo, con la quale sono stabiliti i criteri nonché i parametri, definiti con meccanismi tabellari per classi di comuni, ai quali debbono uniformarsi le convenzioni comunali nonché gli atti di obbligo in ordine a specifiche determinazioni. 36 La giurisprudenza ha da tempo riconosciuto la deducibilità davanti al giudice ordinario dell’eventuale responsabilità precontrattuale della P.A., che abbia violato i principi dettati dall’art. 1337 nello svolgimento delle trattative (Cass., sez. un., 23-9-1994, n. 7842). È stata anche ammessa la responsabilità precontrattuale nell’ipotesi in cui l’amministrazione procedente, rilevando un errore nel procedimento di gara già esperito, rimuova in autotutela la gara stessa, ancorché fosse già intervenuta l’aggiudicazione in capo all’impresa vincitrice della selezione (Cons. Stato 6-12-2006, n. 7194). 37 La preminenza della posizione riservata alla P.A. committente e l’essere l’opera appaltata rivolta a fini pubblici non incidono sulla natura privatistica del contratto di appalto di opere pubbliche, da questo derivando, “per l’appaltatore, veri e propri diritti soggettivi, con correlativi obblighi a carico dell’amministrazione”; in particolare si è configurato in capo all’amministrazione committente, creditrice dell’opus, un dovere (discendente dai principi di correttezza e buona fede oggettiva) di cooperare all’adempimento dell’appaltatore, attraverso il compimento di quelle attività, distinte rispetto al comportamento dovuto dall’appaltatore, necessarie affinché quest’ultimo possa realizzare il risultato cui è preordinato il rapporto obbligatorio (fondamentale Cass., sez. un., 27-11-1996, n. 10525; v. Cass. 29-4-2006, n. 10052).

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dall’amministrazione con gli atti di diritto privato, con particolare riferimento alla scelta di contrattare e alla individuazione del contraente, così da assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa e la verifica del perseguimento dei fini pubblici. Con la conseguenza che l’assenza dell’evidenza pubblica comporta la nullità del contratto 38, salvo il diritto del privato di richiedere il risarcimento dei danni subiti. Da ciò consegue anche, al fine di garantire la trasparenza dell’attività della P.A., la necessità della forma scritta a pena di nullità per gli atti di diritto privato compiuti dall’ente (VIII, 9.5) 39. La giurisprudenza è orientata a riconoscere al privato il risarcimento del danno per errori, violazioni e illegittimità commesse dalla P.A. nel procedimento di evidenza pubblica presupposto dal contratto 40. In un certo senso la fase pubblicistica doppia la fase privatistica, sicché le illegittimità del procedimento di evidenza pubblica (es. difetto di legittimazione dell’organo che ha contrattato o difetto o vizio della capacità o della volontà) si riflettono sulla efficacia dei contratti. Gli atti e subprocedimenti presupposti dalla conclusione del contratto si prestano ad essere qualificati e valutati nella prospettiva del diritto pubblico e in quella del diritto privato 41. In ogni caso l’efficacia dei contratti è subordinata all’approvazione degli organi tutori competenti (c.d. condicio iuris) e i contratti stessi sono eseguibili dopo l’approvazione (art. 19 R.D. 18.11.1923, n. 2440).   38 Nella formazione dei contratti soggetti alla c.d. evidenza pubblica (nel cui novero rientrano anche quelli dei comuni e delle province) coesistono due procedimenti: il primo si traduce in un provvedimento (deliberazione a contrarre da parte degli organi qualificati) con cui si esterna lo scopo da perseguire nonché il modo con cui s’intende realizzarlo, e tale manifestazione di volontà costituisce il presupposto dell’atto negoziale che perciò si pone in rapporto strumentale col provvedimento; il secondo si svolge tra le parti contraenti ed ha ad oggetto la formazione della volontà secondo le norme privatistiche, con alcune varianti correlate specialmente alle procedure da seguire per la scelta del contraente: la deliberazione dell’ente – fino a quando non risulti tradotta in un atto contrattuale sottoscritto dal rappresentante dell’ente stesso e dal privato – è atto con efficacia interna all’ente pubblico, non costituente neppure proposta contrattuale, sicché non è idonea a determinare la costituzione del relativo rapporto negoziale (ex multis, Cass., sez. un., 25-11-2003, n. 17891; 5-11-2001, n. 13628). Il contratto e la delibera, ancorché tra loro distinti, sono collegati poiché la delibera a contrarre s’inserisce come passaggio obbligato nell’iter di formazione della volontà contrattuale della parte pubblica: la sua nullità (come la sua mancanza) si riflette sulla validità del contratto, perché la volontà dell’ente non si può ritenere ritualmente formata nella sede propria e, sul piano negoziale, il contratto viene ad essere stipulato in contrasto con una norma imperativa, con le conseguenze di cui all’art. 14181. 39 Ad es., con riguardo ad un contratto di locazione con rinnovo tacito, si è stabilito che, verificatisi gli effetti della disdetta, le parti possono porli nel nulla solo con un ulteriore atto contrattuale che deve rivestire forma scritta ed essere adottato dall’organo legittimato a rappresentare l’ente ed a concludere in suo nome e per suo conto, a nulla rilevando l’inerzia della P.A. (Cass. 9-5-2017, n. 11231). 40 Le illegittimità commesse dalla pubblica amministrazione nello svolgimento del procedimento di evidenza pubblica presupposto del contratto possono dare luogo, in astratto, al risarcimento del danno anche se il danneggiato sia portatore di un interesse legittimo, dovendosi configurare come extracontrattuale la responsabilità dell’amministrazione per i danni cagionati nell’esercizio del potere provvedimentale (Cass. 24-3-2004, n. 5941). 41 Per fermarsi agli atti salienti, il bando di gara (con il quale la pubblica amministrazione esterna nei confronti dei soggetti del mercato di riferimento la propria intenzione contrattuale già racchiusa nella deliberazione di contrattare), è ad un tempo atto amministrativo destinato alla realizzazione di interessi pubblici e dichiarazione di offerta al pubblico ex art. 1336, quale tecnica di formazione del contratto (VIII, 2.11). Analogamente l’offerta del privato è dichiarazione negoziale di partecipazione alla gara, ma al tempo stesso si inserisce nel procedimento amministrativo presupposto dal contratto. Anche l’aggiudicazione (con la quale è individuato il contraente) è atto amministrativo di accertamento dell’offerta più conveniente per la pubblica amministrazione (come tale impugnabile), e dichiarazione negoziale complessa di conclusione dell’accordo ex art. 1326.

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13. Il diritto europeo dei contratti. – Come in generale il diritto privato europeo (II, 2.10), il diritto europeo dei contratti va delineandosi attraverso un progressivo intervento europeo che ha sedimentato un sovrapporsi di normative che hanno notevolmente eroso la unitaria raffigurazione del contratto elaborata dalla tradizione e consegnata nel codice civile. Vi sono aree di armonizzazione e di progressiva uniformazione europea, mentre resistono terreni di differenziazione dei sistemi. a) Si va formando un diritto unionale dei contratti, che viene dall’alto attraverso l’opera delle istituzioni europee. I molti (e disorganici) interventi sono calati senza i necessari coordinamenti con le normative nazionali; anche quando alcune norme sono riportate nei codici, sono inserite nel testo senza un adeguamento dei codici alle novelle, così lasciando all’interprete il delicato compito di ricostruire il diritto applicabile. L’esperienza più rilevante di inserimento di diritto europeo dei contratti in un codice civile è quella tedesca con la “Legge di modernizzazione del diritto delle obbligazioni” (la riforma dello Schuldrecht), in vigore dal 2002, anticipata nel 2000 con l’inserimento nel I libro delle definizioni di “consumatore” e “imprenditore”. Dopo una lunga stagione di armonizzazione delle legislazioni nazionali sul contratto, da tempo è stata imboccata la strada della uniformazione attraverso la elaborazione dell’acquis communautaire, cioè di principi e modelli consolidati nel diritto contrattuale di derivazione comunitaria, anche se sviluppati in direzioni settoriali (significative la vendita dei beni di consumo, riferita a tutti i contratti di fornitura; la subfornitura, referente dei contratti con abuso di posizione dominante). Concorrono previsioni dei trattati, disposizioni normative (regolamenti e direttive), sentenze delle Corti europee, inserite nell’ambito delle fonti del diritto, spesso formalmente trasposte negli ordinamenti nazionali. Si è visto come la normazione europea tenda ad abbandonare la tecnica per fattispecie per indirizzarsi verso la disciplina per risultati (I, 3.2). Allo stato anzitutto sussiste una normativa di diritto internazionale privato fissata dal Regolamento CE/593/2008 del 17.6.2008, sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (c.d. Roma I), che sostituisce la Convenzione di Roma del 19.6.1980 con il medesimo titolo (v. però art. 24 Reg.). Sulla scorta della Convenzione ONU del 1980 sulla vendita di cose mobili è stata articolata la primigenia direttiva 1999/44/CE sulla vendita di beni di consumo, da ultimo sostituita dalla direttiva UE/2019/771 (confluita nel cod. cons. artt. 128 ss.), che è destinata a rappresentare referente costante per i contratti di scambio. Nel settore delle tecnologie assume rilievo la direttiva UE/2019/770, relativa a determinati aspetti dei contratti di fornitura di contenuti digitali o servizi digitali (confluita negli artt. 135 octies ss. cod. cons.). Con l’approvazione della direttiva sui mutui ipotecari destinati all’acquisto di immobili residenziali da parte di consumatori (Direttiva Carrp), è avviato il mercato dei mutui in Europa verso un quadro giuridico comune, che influenzerà il percorso di formazione di una disciplina uniforme delle vendite immobiliari. Resiste un terreno di differenziazioni, che tocca maggiormente i modelli traslativi che restano diversi. A fronte della impostazione francese del c.d. consenso traslativo, per cui l’atto di trasferimento è ad un tempo causale e traslativo, al quale si uniforma il nostro sistema, resiste il sistema tedesco di derivazione romanistica che fissa una sequenza tra l’atto causale obbligatorio e l’atto astratto di trasferimento, valorizzando la pubblicità costitutiva (se ne parlerà ampiamente in seguito: VIII, 6.7). L’affermarsi della “circo-

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lazione globalizzata” di soggetti, beni e servizi interessa anche il commercio elettronico dei beni immobili (c.d. electronic conveyance o e-conveyance). b) Sta svolgendosi un diritto comune dei contratti sotto la spinta delle istituzioni europee che hanno avviato un’opera di avvicinamento delle culture giuridiche, con l’intento di elaborare linguaggi e categorie giuridiche comuni, sulla base di valori condivisi, nella prospettiva di un più generale diritto privato europeo. In tale direzione si stanno muovendo organizzazioni e comunità scientifiche, attraverso la elaborazione di progetti che cementano principi e regole comuni 42, con lo scopo di tradurre in una disciplina unitaria tradizioni giuridiche dei singoli paesi, spesso diverse o addirittura contrastanti. C’è da coniugare i “diritti individuali” garantiti dai tradizionali modelli di esplicazione dell’autonomia privata, con gli affiorati “doveri solidali” implicati dai nuovi strumenti di tutela della persona umana e con “gli obblighi” imposti dalla moderna regolazione del mercato. Dal nuovo trend di diritto europeo dei contratti stanno progressivamente liberandosi regole e principi che investono la parte generale dei contratti e che sono ormai concorrenti e partecipi del nuovo diritto privato.

14. Il controllo giudiziale dell’autonomia contrattuale. – È la più recente frontiera di intervento sull’autonomia contrattuale, attraverso la giurisdizione, la quale compie una valutazione del contratto con tecniche di controllo aperte ai contesti del contratto e alle condotte dei contraenti. L’impianto del codice civile è di valutazione della struttura dell’atto e precipuamente della formazione della volontà negoziale e della liceità del contenuto adottato; i giudici hanno tradizionalmente risolto le controversie tra le parti con la verifica di conformità del contratto alla disciplina generale dei contratti e agli schemi legali di riferimento. A partire dagli anni ’70, facendosi progressiva applicazione dei valori costituzionali e dei principi comunitari, con un ricorso sempre più penetrante alle risorse delle clausole generali e precipuamente a quelle dell’abuso del diritto e della buona fede, si sviluppa un controllo giudiziale dell’assetto di interessi, che tenga conto delle circostanze di stipulazione, delle collocazioni degli autori dell’atto nel mercato, delle informazioni e conoscenze rese disponibili, della natura degli interessi attuati e dei valori coinvolti. Non che sia possibile al giudice fissare regole autonomamente elaborate (per restare il giudice soggetto alla legge: artt. 54 e 1012 Cost.), ma nel più circoscritto significato di dovere il giudice fare applicazione dei valori ordinamentali nella concreta fattispecie, eventualmente valorizzando il contesto del contratto oltre la struttura dell’atto, pure in assenza di specifiche norme regolatrici ovvero in presenza di regole che vi contraddicono. Si svolge un governo dell’autonomia contrattuale con manovra della discrezionalità contrattuale. La problematica si è ampiamente sviluppata nella elaborazione delle fonti di integrazione del contratto (art. 1374), sia con la dilatazione della “legge” al complessivo ordinamento e quindi anche alla costituzione, al diritto europeo e alle convenzioni internazionali ratificate, sia con la configurazione della “equità” come intrecciata con il   42 Importanti sono i principi Unidroit, sui quali v. Principi dei contratti commerciali internazionali, Roma 2004. Rilevante il lavoro della Commissione Lando (dal nome del Presidente) tendente alla elaborazione di Principi di diritto europeo dei contratti (2003) come disciplina della parte generale dei contratti. Efficace è anche l’apporto dell’Associazione internazionale “Secola”.

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principio di buona fede (VIII, 1.14), con il graduale ampliamento della clausola generale di buona fede, fino a farla coincidere con il contenuto di valori costituzionali, a cominciare dal dovere di solidarietà ex art. 2 Cost. (di cui si è detto: II, 7.3). Il principio di meritevolezza degli interessi, dettato per i contratti atipici (art. 13222), diviene riferimento valutativo di tutti gli atti di autonomia privata 43. Anche in capo alla pubblica amministrazione grava l’obbligo di improntare i rapporti con i privati ai princìpi della “collaborazione” e della “buona fede” (I, 2.15). Spetta al giudice tradurre principi e valori costituzionali e europei in regole di controllo dell’autonomia contrattale, forgiandosi un’applicazione costituzionalmente orientata della normativa sui contratti. Più agevolmente si è affermato il controllo delle sopravvenienze nei contratti con esecuzione di durata o successiva, in quanto il controllo del giudice si indirizza su una realtà sopravvenuta (giuridica o economica o sociale) modificativa di quella originaria divisata dalle parti, con aggravamento del sacrificio di una parte o riduzione di utilità del contratto per una delle parti; il controllo giudiziale non si appunta sull’autonomia contrattuale dispiegata dalle parti, anzi è svolto in funzione di mantenimento dell’equilibrio dalla stessa programmato. Già il codice civile prevede lo strumento generale della risoluzione del contrattole, nelle figure della impossibilità sopravvenuta della prestazione (artt. 1463 ss.), specie la impossibilità parziale (art. 1464), e della sopraggiunta eccessiva onerosità di una prestazione (artt. 1467 ss.), secondo i presupposti previsti. Quando l’adeguamento del contratto non sia regolato dalla legge o previsto dalle parti, è ormai indirizzo diffuso additare un obbligo di rinegoziazione delle parti in attuazione del dovere di buona fede, anche se poi sono dibattuti gli strumenti di coazione (come appresso si vedrà: VIII, 7. 6). È invece tuttora problematico ammettere il sindacato del giudice sull’equilibrio contrattuale originario, per intervenire il giudice sulla realtà divisata dalle parti, senza seguire mutamenti del contesto nel quale è stato stipulato. Alcuni restringono il contenuto del controllo alla singola fattispecie, attraverso un controllo di giustizia commutativa, in grado di attuare il riequilibrio delle posizioni contrattuali nel singolo contratto, secondo un criterio di “giustizia contrattuale”; altri dilatano il contenuto delineando un governo del contratto in funzione di una giustizia distributiva, in grado di assicurare finalità di welfare e dunque di sostegno al soggetto più debole secondo un parametro di “giustizia sociale” 44. Nella prima prospettiva, è verificato l’equilibrio tra le parti nella specificità del   43 È ormai principio acquisito che i controlli relativi all’esplicazione della autonomia negoziale, riferiti alla meritevolezza degli interessi regolati e alla liceità della causa, devono essere parametrati ai superiori valori costituzionali previsti a garanzia degli specifici interessi perseguiti; a tal fine la nozione di ordinamento giuridico, cui fa riferimento la norma generale sul riconoscimento della autonomia negoziale ai privati, implica l’interazione sulle previgenti norme codicistiche delle superiori e successive norme di rango costituzionale e sovranazionale comunque applicabili quali principi informatori o fondanti dell’ordinamento stesso (Cass. 1-4-2011, n. 7557). 44 Si è riproposto l’antico divario tra “giustizia commutativa”, riguardante i rapporti tra le persone con riguardo allo scambio e alla sostituibilità delle attribuzioni, e giustizia “distributiva”, riferita ai rapporti dei singoli con la società, secondo un criterio di ripartizione che ha riguardo ai meriti o al bisogno. Il tema, ritornato di recente alla ribalta, è di antica riflessione, sostenuto da varie e articolate giustificazioni, naturalistiche, razionalistiche, idealistiche o senz’altro religiose. Già Aristotele parlava di una giustizia particolare nella società che si affianca ad una giustizia generale come legittimità; e perciò di una distinzione tra giustizia commutativa,   che regola i rapporti privati (scambio di cose) e attribuisce proporzionalmente al merito, e giustizia distri-

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singolo contratto, esaminandosi la giustificazione causale dello scambio e dei reciproci sacrifici; nella seconda prospettiva, è valutato l’impatto sociale dell’assetto contrattuale, rapportandolo alla rete di coesione sociale in una dimensione sistemica. Già nel codice civile, che pure presume la uguaglianza delle parti e la simmetria delle rispettive posizioni per cui il contratto “ha forza di legge tra le parti” (art. 1372), sono presenti figure significative di “squilibrio economico” originario del contratto che ammettono l’intervento riequilibratore del giudice, come la riduzione giudiziaria della penale dovuta dal debitore per l’inadempimento (art. 1384), la riduzione giudiziaria della indennità dovuta dal compratore per inadempimento del contratto di vendita con riserva della proprietà (art. 1526); come opera il criterio generale di valutazione equitativa del danno da inadempimento che non è possibile provare (art. 1226), esteso alla responsabilità extracontrattuale (art. 2056). In via generale opera la categoria della rescissione nelle ipotesi dello stato di percolo e di stato di bisogno (artt. 1447 ss.). Di “squilibrio normativo” originario vi è una precisa disciplina nei contratti dei consumatori (artt. 33 ss. cod. cons.). L’autonomia contrattuale resta esercizio di autonomia privata e dunque di negozialità, come espressione di libertà: autonomia privata, mercato e libertà, insieme, si tengono o periscono; l’autodeterminazione del vincolo contrattuale è l’essenza della libertà delle persone e degli enti. Il sindacato giudiziale resta dunque delineato con riguardo al contratto analizzato: assumendo misure di organizzazione sociale, realizzerebbe anche ragioni di sperequazione umana, premiando i cittadini che hanno stipulato un contratto, a danno di quelli che non lo hanno stipulato o non hanno avuto la possibilità di stipularlo. Bisogna accedere alla configurazione di una giustizia commutativa sostanzialistica, secondo i valori di buona fede e di solidarietà sociale che devono presiedere ogni relazione umana. In tale ottica viene in rilievo la proporzionalità delle attribuzioni patrimoniali. La giurisprudenza ha affrontato il tema attraverso la valorizzazione dell’abuso del diritto (II, 3.4) e della buona fede oggettiva (II, 7.5), facendo operare lo squilibrio contrattuale, non solo come causa di responsabilità, ma anche come ragione di invalidità dell’atto. Con la dilatazione dell’area della nullità all’abuso del diritto (per irragionevole esercizio) 45 e alla  

butiva, che regola i rapporti pubblici (distribuzione di onori e pubbliche ricchezze) che riconosce a tutti in modo uguale. È un’impostazione ampiamente presente nelle pagine di L. EINAUDI (1944), quando l’economista piemontese invita a ravvicinare, per quanto possibile, i “punti di partenza” degli uomini prima che essi si affaccino sul mercato o quando siano costretti ad uscirne temporaneamente, così da conciliare le opposte esigenze di una proporzionalità rispetto ai meriti (equità commutativa) con la proporzionalità rispetto ai bisogni (equità distributiva). È anche interessante un passo della Enciclica Caritas in veritate di Papa Benedetto XVI del 2009: “Il mercato, se c’è fiducia reciproca e generalizzata, è l’istituzione economica che permette l’incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri: è soggetto ai principi della cosiddetta giustizia commutativa, che regola appunto i rapporti del dare e del ricevere tra soggetti paritetici. La dottrina sociale della Chiesa non ha mai smesso di porre in evidenza l’importanza della giustizia distributiva e della giustizia sociale per la stessa economia di mercato, non solo perché inserita nelle maglie di un contesto sociale e politico più vasto, ma anche per la trama delle relazioni in cui si realizza: “il mercato, lasciato al solo principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare. Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave”. 45 Si è precisato come l’abuso del diritto non presuppone una violazione in senso formale, ma si realizza  

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buona fede oggettiva (per non lealtà e correttezza) 46, cresce l’intervento del giudice sul contratto attraverso la rilevabilità di ufficio della nullità (VIII, 9.4). È stata ammessa la rilevabilità di ufficio della onerosità della prestazione nella clausola penale 47 (VIII, 7.4). Raccogliendo gli spunti già presenti nel codice civile e gli apporti della giurisprudenza, deve configurarsi una giustizia commutativa equitativa del contratto, secondo un criterio di reciprocità relazionale che fa obbligo a ciascuna delle parti di compiere gli atti giuridici e materiali necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte nei limiti di un apprezzabile sacrificio proprio, nella logica di un mercato concorrenziale (artt. 101 e 102 TFUE), espressivo di una “economia sociale di mercato” (art. 3 TUE). In tal guisa la giustizia commutativa si atteggia come un potere di sindacato sullo squilibrio della specifica relazionalità secondo parametri ordinamentali costituzionali e europei. La manovra giudiziale del contratto, pure condotta secondo le cadenze processuali, non è un’arbitraria iniziativa correttiva, secondo soggettive ideologie culturali o professioni religiose: è un’azione giuridica che deve svolgersi con impiego dei principi generali dell’ordinamento sulla specifica relazionalità contrattuale; ed è un’azione che deve articolarsi con una struttura logica del trattamento del caso, come presidio di controllo dell’operato in una democrazia vissuta (I, 1.6). In questi limiti e con tali modalità è consentita una eterointegrazione giudiziale del contratto (VIII, 5.9). È il terreno sofferto del diritto vivente, cui si è avuto riguardo innanzi (I, 3.16), rispetto all’applicazione delle clausole generali di buona fede, solidarietà e equità, che saranno varie volte richiamate e utilizzate nell’esame dei singoli istituti.  

quando nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo esercizio, ne risulti alterata la funzione obiettiva rispetto al potere che lo prevede ovvero lo schema formale del diritto sia finalizzato ad obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal legislatore, con una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrificio cui è soggetta la controparte (Cass. 30-9-2021, n. 26541, con riguardo a comodato gratuito di casa familiare). Altri interventi giurisprudenziali stanno emergendo: es. Cass., sez. un., 6-5-2016, n. 9140, relativamente alle clausole assicurative “claims made”; Trib. Treviso 8.10.2018, n. 1956, rispetto ad una prestazione professionale considerata esosa. 46 È diffuso indirizzo che i principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione e nell’interpretazione dei contratti, di cui agli artt. 1175, 1366 e 1375 cod. civ., rilevano sia sul piano dell’individuazione degli obblighi contrattuali, sia su quello del bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti; sotto il secondo profilo, consentono al giudice di intervenire anche in senso modificativo o integrativo sul contenuto del contratto, qualora ciò sia necessario per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso del diritto; giacché ciò che è censurato non è l’atto di autonomia negoziale, ma l’abuso di esso. Di tale principio è stata fatta variamente applicazione: ad es., da Cass. 18-9-2009, n. 20106 e Cass. 21-6-2011, n. 13583, con riferimento al recesso ad nutum da concessione di vendita; da Cass. 13208/2010, in tema di risoluzione di contratto di locazione per morosità. 47 Un orientamento giurisprudenziale, facendo applicazione del generale dovere di solidarietà (art. 2 Cost.) e rileggendo in tal senso anche la clausola generale di buona fede, ha valorizzato l’intervento equitativo del giudice in funzione correttiva dell’autonomia privata, al fine di evitare che l’autonomia contrattuale travalichi i limiti entro i quali la tutela delle posizioni soggettive delle parti risulti meritevole di tutela; considera il dovere di solidarietà come limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva. L’indirizzo accennato è essenzialmente esplicitato da un intervento delle sezioni unite della Cassazione in tema di riduzione della penale (art. 1384), stabilendosi che il potere di riduzione ad equità, attribuito al giudice dall’art. 1384 a tutela dell’interesse generale dell’ordinamento, “può essere esercitato d’ufficio per ricondurre l’autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela, e ciò sia con riferimento alla penale manifestamente eccessiva, sia con riferimento all’ipotesi in cui la riduzione avvenga perché l’obbligazione principale è stata in parte eseguita” (Cass., sez. un., 13-9-2005, n. 18128). Nel medesimo ordine di idee si erano mosse Cass. 23-5-2003, n. 8188 e Cass. 24-9-1999, n. 10511.

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È invece di competenza della politica, specialmente attraverso il potere legislativo, attivare strumenti di “giustizia distributiva” nella dimensione sociale, con il sostegno ai bisogni delle classi deboli e il calmieramento delle posizioni privilegiate, ovvero con la incentivazione dei meriti e la gratificazione del lavoro, secondo direttrici di politica economica e sociale costituzionalmente coerenti. Sono iniziative coinvolgenti un interesse pubblico, superiore e ulteriore rispetto alla relazionalità contrattuale e agli interessi reciproci delle parti, anche questi comunque tutelati secondo i principi generali e i valori dell’ordinamento.

 

CAPITOLO 2

CONCLUSIONE Sommario: 1. Le parti e i requisiti soggettivi. La legittimazione. – 2. Formazione dell’accordo e conclusione del contratto. Il contratto plurilaterale. – 3. Contratti consensuali e contratti reali. – A) ACCORDO DELLE PARTI. – 4. Volontà negoziale e intento comune. – 5. I modi di manifestazione della volontà. – 6. Volontà e dichiarazione. La tutela dell’affidamento. – 7. L’assenza di volontà negoziale. – 8. L’erosione della volontà nei contratti di massa. – B) VIZI DEL CONSENSO. – 9. Generalità. – 10. Errore (vizio e ostativo; errore materiale). – 11. Dolo (determinante e incidente; comunicazioni di massa). – 12. Violenza morale (e timore reverenziale). – C) MODI DI CONCLUSIONE DEL CONTRATTO. – 13. Scambio di proposta e accettazione. La proposta irrevocabile. – 14. Offerta al pubblico. – 15. Il contratto aperto. – 16. Conclusione senza apposita accettazione. – 17. Predisposizione di condizioni generali di contratto (contratti per adesione tra codice civile e codice del consumo). – 18. Contratti conclusi fuori dei locali commerciali e a distanza. – 19. Rapporti contrattuali per contatto sociale. – D) VINCOLI A CONTRARRE E FORMAZIONE PROGRESSIVA. – 20. Vincoli all’autonomia contrattuale. – 21. Trattative (puntuazioni, minute, lettere di intenti). – 22. La prelazione e l’opzione. – 23. Il contratto preliminare. – 24. Il divieto di alienazione. – E) RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE. – 25. Le ipotesi tipizzate di responsabilità. – 26. La clausola generale del trattare lealmente. – 27. I danni risarcibili. – 28. La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione. – 29. La responsabilità precontrattuale degli intermediari finanziari.

1. Le parti e i requisiti soggettivi. La legittimazione. – Prima di trattare della formazione del contratto bisogna riprendere alcune precisazioni e fissarne altre. Come si è visto, il contratto implica la presenza di due o più parti, nel senso di due o più centri di interessi. Ogni parte può essere unisoggettiva o plurisoggettiva, a seconda che sia formata da una sola persona o da più persone (II, 5.6). Bisogna inoltre distinguere tra parte in senso sostanziale, che è titolare dell’interesse inciso dall’atto e dunque destinataria degli effetti del contratto, e parte in senso formale che è partecipe dell’atto e dunque manifesta la volontà negoziale. Di regola le due qualifiche coincidono, in quanto chi compie l’atto è anche titolare dell’interesse e perciò destinatario degli effetti; ma talvolta divergono, in quanto l’autore dell’atto non è anche destinatario degli effetti: tipicamente quando ricorre un fenomeno di rappresentanza, per cui il rappresentante agisce in nome e per conto del rappresentato sul quale si producono gli effetti del contratto (art. 1388). La parte in senso formale deve essere sempre determinata e risultare nell’atto, in quanto artefice dell’atto; la parte in senso sostanziale può anche essere indicata in seguito (es. contratto per persona da nominare: art. 1401) o non essere indicata affatto (es. mandato senza rappresentanza: art. 1705), tranne che il contratto non sia stipulato intuitu personae del destinatario degli effetti; possono peraltro indicarsi anche solo i criteri di identificazione e le qualità del soggetto cui si riconduce l’obbligazione assunta nel contratto.

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Problema fondamentale nella conclusione dei contratti è quello della identità del soggetto costituito nell’atto, che dichiara di concludere il contratto (sia o meno titolare dell’interesse realizzato). Una funzione certatrice è svolta dal pubblico ufficiale (tipicamente il notaio) che riceve l’atto o che autentica la firma del sottoscrittore 1. Rispetto ad ogni contraente devono ricorrere determinati requisiti soggettivi. È necessario che i titolari degli interessi regolati abbiano la capacità giuridica, cioè l’attitudine alla titolarità delle situazioni giuridiche disposte (IV, 1.1), e la capacità di agire, cioè l’idoneità al compimento dell’atto (IV, 1.6); se il soggetto costituito nell’atto è diverso deve avere la capacità di intendere e di volere, avuto riguardo alla natura e al contenuto del contratto (arg. art. 1389). Esistono ipotesi nelle quali c’è, per legge, una inidoneità del soggetto ad essere destinatario degli effetti del contratto, anche per interposta persona. È una incapacità giuridica speciale, da cui deriva la invalidità del contratto, che si atteggia ora come nullità ora come annullabilità in ragione della natura dell’interesse protetto: ad es. i divieti per alcune categorie di soggetti di rendersi cessionari di particolari crediti (art. 1261) o di rendersi compratori di determinati beni (art. 1471). Diversamente si atteggia la legittimazione. È la competenza ovvero il potere di agire rispetto agli interessi regolati con il contratto 2. Il fenomeno è reso evidente quando si intende disporre di un interesse altrui, con incidenza cioè degli effetti dell’atto sulla sfera giuridica di un diverso soggetto: in tal caso, mancando la coincidenza tra titolare dell’interesse inciso (parte in senso sostanziale) e partecipe all’atto (parte in senso formale), occorre un atto autorizzativo del titolare della sfera giuridica incisa (es. procura) o una norma che autorizzi la disposizione dell’interesse altrui (es. la rappresentanza degli incapaci legali); analogo problema si pone con riguardo alla esternazione della volontà degli enti, dovendosi verificare se il soggetto che interviene all’atto quale rappresentante dell’ente sia fornito dei relativi poteri rappresentativi: in tutte tali ipotesi il pubblico ufficiale che riceve l’atto o che autentica le firme ha il dovere di verifica della esistenza dei poteri rappresentativi 3. L’assenza di legittimazione, di regola, non incide sulla validità dell’atto (quando ricorrono tutti gli altri requisiti previsti dalla legge), ma solo sulla efficacia. È una scelta di politica legislativa: ad es., la vendita di cosa altrui, per il cod. civ. del 1865 era nulla (art.   1 Integra il delitto di falsità ideologica in atto pubblico la condotta del notaio che, provvedendo all’autenticazione di firma relativa a scrittura privata, attesti falsamente l’avvenuta preventiva identificazione del sottoscrittore oppure l’apposizione della firma in sua presenza, in quanto l’atto di autenticazione ha autonoma funzione probatoria rispetto alla scrittura privata; risponde di questo reato, e non di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico, chi induce in errore il notaio sull’identità della persona risultante dall’autentica notarile (Cass. pen. 18-1-2013, n. 5239; Cass. pen. 19-6-2008, n. 38714). 2 La categoria della legittimazione è impiegata in più settori dell’ordinamento, con il significato comune di individuare il soggetto competente ad assumere una posizione o a compiere un atto o a regolare un interesse. In procedura civile, indica la legittimazione processuale (legitimatio ad causam) ad agire per la tutela di un diritto (proprio o altrui) o per resistere o per impugnare; in diritto amministrativo indica la competenza dell’ente o dell’organo alla emanazione di un provvedimento o del privato a partecipare ad una gara, assumendo quindi la valenza di un requisito soggettivo. 3 L’obbligo del notaio rogante di verificare l’identità delle parti include, in caso di parte costituita a mezzo di rappresentante, l’accertamento della sussistenza dei necessari poteri in capo a questo; dell’inadempimento di tale obbligo, se non ne sia stato espressamente esonerato dagli interessati, il notaio risponde a titolo contrattuale nei confronti della parte, che per l’invalidità dell’atto abbia patito danno, ma il risarcimento è diminuito se nella sua produzione vi sia stato il concorso colposo della stessa parte (Cass. 29-11-2007, n. 24939).

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1459), mentre era valida per il cod. comm. del 1882 (art. 59). Il cod. civ. del 1942, tutelando in via preferenziale la circolazione dei beni, ha adottato la soluzione dell’abr. cod. comm., per cui la vendita è valida ma inefficace: il compratore diventa automaticamente proprietario nel momento in cui il venditore acquista la proprietà del bene (art. 1478) (VIII, 6.15).

2. Formazione dell’accordo e conclusione del contratto. Il contratto plurilaterale. – La volontà individuale di contrarre si esplica nell’azione tesa alla formazione dell’accordo, che segna l’assunzione del vincolo contrattuale. L’accordo è l’incontro degli apporti volitivi delle parti che realizza la concordanza di intenti su un assetto di interessi: l’accordo su un assetto di interessi (meritevole di tutela) determina la conclusione del contratto; la mancanza di accordo determina la nullità del contratto (art. 14182). In questo capitolo parliamo della formazione dell’accordo e della conclusione del contratto; nel successivo, parliamo del contenuto, come esito della conclusione del contratto. Come appresso si vedrà l’accordo è essenziale ma non è sempre sufficiente alla conclusione del contratto. La disciplina sulla formazione dell’accordo (artt. 1326 ss.) proviene essenzialmente dagli artt. 36 ss. del cod. comm.: da ciò conseguono molte soluzioni normative che tendono a velocizzare e garantire la certezza degli scambi, favorendo la continuità della vita dell’impresa, a scapito della volontà delle parti. Problema delicato è quello della conclusione del contratto con più di due parti in senso sostanziale (contratto plurilaterale). Manca una disciplina generale, ma esistono norme in più settori che consentono di fissare generali criteri di regolazione. La più ampia area è quella dei contratti con comunione di scopo (c.d. contratti associativi), per cui interessi di due o più parti convergono verso un risultato unitario, come tipicamente nel contratto di società, dove due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili (art. 2247) 4: il tratto distintivo è la convergenza degli interessi verso uno scopo comune. Tratto peculiare del contratto con più di due parti è che le vicende del vincolo di un soggetto coinvolgono l’intero contratto quando risultano essenziali al funzionamento del gruppo. A tale criterio fa espresso riferimento l’art. 1420 secondo cui, “nei contratti con più di due parti, in cui le prestazioni di ciascuna parte sono dirette al conseguimento di uno scopo comune, la nullità che colpisce il vincolo di una sola parte non importa nullità del contratto, salvo che la partecipazione di essa debba, secondo le circostanze, considerarsi essenziale”; un richiamo a tale figura è nella disciplina dell’annullabilità (art. 1446) e della risoluzione (artt. 1459 e 1466) del contratto plurilaterale, così delineandosi un generale statuto dei contratti plurilaterali con comunione di scopo. Per la formazione della volontà deliberativa del gruppo, v. II, 5.7. Esistono contratti plurilaterali senza comunione di scopo, nei quali i contraenti perse  4 Anche la società di fatto si fonda sul concorso di un elemento oggettivo (conferimento di beni o servizi in un fondo comune) ed uno soggettivo (comune intenzione dei contraenti di collaborare per conseguire risultati comuni nell’esercizio collettivo di una attività imprenditoriale), ricorrendo i quali la stessa non è esclusa dal fatto che il fine degli associati consista nel compimento di una opera unica, purché di obiettiva complessità (c.d. società occasionali), ovvero dalla mancanza di un atto scritto, potendo la sua costituzione risultare da manifestazioni esteriori della attività di gruppo, quando esse, per la loro sintomaticità e concludenza, evidenzino la esistenza della società (Cass. 25-2-2010, n. 4588).

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guono interessi concorrenti ma distinti, con la formazione di una struttura contrattuale unitaria che consente ad ognuno dei contraenti di conseguire risultati specifici: tipico esempio è il contratto di divisione, per la cui realizzazione è necessaria la partecipazione al contratto di tutti i comunisti 5. Talvolta si realizza una collaborazione tra più contraenti attraverso la stipula di unico contratto in vista di uno scopo comune, mantenendo le parti autonome posizioni giuridiche e di iniziativa (senza peraltro integrare una parte complessa); in tal caso i singoli contraenti operano distintamente ma rispondono solidalmente nei confronti della controparte: esempio è il trasporto cumulativo (art. 1700), con il quale i singoli vettori assumono i rispettivi trasporti con unico contratto con responsabilità solidale verso il mittente (IX, 2.11).

3. Contratti consensuali e contratti reali. – Si è anticipato che talvolta l’accordo (sempre essenziale) non è sufficiente alla conclusione del contratto. In relazione a tale divario rileva la dicotomia tra contratti consensuali e contratti reali. I contratti consensuali si perfezionano in virtù del solo consenso: il contratto è concluso nel momento in cui si forma l’accordo delle parti (es. vendita). Si vedrà come nel nostro ordinamento il consenso è anche idoneo e sufficiente a produrre effetti reali (c.d. consenso traslativo). I contratti reali richiedono per il proprio perfezionamento, oltre l’accordo delle parti (necessario per ogni contratto), anche la consegna della cosa: il contratto è concluso quando, all’accordo, faccia seguito la consegna. Di regola i contratti reali tendono a procurare una situazione soggettiva temporanea sulla cosa, con l’obbligo di restituzione a carico del consegnatario: es. deposito (art. 1766), comodato (art. 1803), mutuo (art. 1813) 6. Rispetto agli effetti, sono di regola contratti unilaterali in quanto dagli stessi derivano obbligazioni a carico di una sola parte (il consegnatario), e cioè l’obbligazione di restituire il bene ricevuto (la corresponsione dei corrispettivi è variamente regolata). Si comprende come la nozione di contratti reali, avendo riguardo alla conclusione del contratto, si distingue dalla nozione di contratti a effetti reali, che, come indica la stessa espressione, ha riguardo alla efficacia del contratto (VIII, 6.6). Il nostro ordinamento ha assunto a regola generale il principio del “consensualismo”: i contratti consensuali rappresentano la regola e perciò ogni contratto si presume consensuale; i contratti reali costituiscono l’eccezione, e perciò sono tipici in quanto specificamente regolati.

  5 È diffuso il c.d. stralcio di quota divisionale (XII, 4.4). È consentito ai comproprietari di pattuire lo scioglimento nei confronti di uno solo dei coeredi, ferma restando la situazione di comproprietà tra gli altri eredi del medesimo dante causa (Cass. 9-10-2013, n. 22977). Anche per realizzare tale risultato sarà necessario il consenso di tutti i comproprietari, espresso contestualmente o con dichiarazioni successive. 6 Il contratto di mutuo si perfeziona anche con il conseguimento della giuridica disponibilità di questa da parte del mutuatario, la quale può ritenersi sussistente, come equipollente della “traditio”, solo nel caso in cui il mutuante crei un autonomo titolo di disponibilità in favore del mutuatario, in guisa tale da determinare l’uscita della somma dal proprio patrimonio e l’acquisizione della medesima al patrimonio di quest’ultimo, ovvero quando, nello stesso contratto di mutuo, le parti abbiano inserito uno specifico incarico del mutuatario al mutuante di impiegare la somma mutuata per soddisfare un interesse del primo (Cass. 12-10-1992, n. 11116); anche con il pagamento ad un terzo (Cass. 28-8-2004, n. 17211).

CAP. 2 – CONCLUSIONE

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A) ACCORDO DELLE PARTI 4. Volontà negoziale e intento comune. – Si è visto come ogni negozio giuridico implichi una volontà rivolta ad uno scopo. La volontà negoziale è appunto la tensione verso un risultato: indica l’intento di realizzare uno scopo pratico dotato di rilevanza giuridica, che è un tratto comune a tutti i negozi giuridici (II, 5.5). Esprime la scelta volitiva del soggetto, anche se, come si è visto, proprio la libertà di scelta è spesso condizionata nel mercato. Si è però anche visto come sia essenziale rivelare nel mondo esterno l’intento perseguito: una manifestazione di volontà non può mai mancare, quale che possa essere la forma della manifestazione (liberamente scelta o imposta dall’ordinamento). Il diritto di una società civile (diversamente dal diritto di una comunità religiosa) regola esclusivamente relazioni sociali; e pertanto l’intento del soggetto rileva giuridicamente in quanto esternato nella realtà sociale e cioè manifestato: volontà e manifestazione sono compenetrate nella unitarietà della manifestazione di volontà, che più spesso si atteggia come dichiarazione di volontà. In tale contesto si comprende come, promanando la volontà negoziale da un solo soggetto (negozi unilaterali), è più agevole la verifica della corretta formazione della volontà negoziale. I dubbi e i travagli che accompagnano la rappresentazione e la definizione del fine perseguito si svolgono all’interno dell’unico autore dell’atto: la manifestazione esprime la volontà negoziale del suo autore, tendente al conseguimento di uno scopo (es. disdetta). Più complessa è la formazione della volontà negoziale nei negozi bilaterali e precipuamente nei contratti. Il fine perseguito da una parte non coincide necessariamente con quello divisato dall’altra o dalle altre parti (es. il venditore vuole vendere ad un determinato prezzo ed il compratore vuole acquistare ad un prezzo inferiore). Sussistono aspirazioni individuali verso un determinato scopo, che devono essere esternate per consentire il confronto con le aspirazioni perseguite dalla controparte, al fine di giungere alla formazione dell’accordo. Perché si formi un comune intento negoziale è necessario che i proponimenti individuali di ciascuna parte si incontrino e combinino in una concorde volontà negoziale, che solamente esprime l’autoregolamento di interessi realizzato dalle parti. La volontà negoziale giuridicamente rilevante nel contratto è la risultante dell’incontro tra i due apporti volitivi: esprime l’intento comune di perseguire uno scopo condiviso, che indica il risultato programmato e voluto dalle parti (nell’esempio fatto, il venditore ed il compratore hanno abbandonato gli originari proponimenti, rispettivamente, di ricavare una somma esorbitante dalla vendita o di pagare un prezzo irrisorio per l’acquisto, ed hanno concordato di realizzare la vendita del bene ad un prezzo di mezzo che soddisfa entrambe le parti). L’accordo delle parti, menzionato dall’art. 1325 e regolato dagli artt. 1326 ss., esprime appunto la tensione concorde delle parti verso un risultato unitario. Sarà poi l’ordinamento giuridico a valutare se vi sia stato un reale incontro di volontà o un suo simulacro e dunque se si sia formata o meno una volontà negoziale comune e dunque un accordo. La legge non dà una espressa definizione dell’accordo contrattuale, ma dalla nozione di contratto fornita dall’art. 1321 può dedursi la raffigurazione giuridica dello stesso. L’accordo contrattuale è l’intento comune di due o più parti di costituire, regolare o

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estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale. Punto di riferimento dell’accordo è il contenuto contrattuale: l’intento comune si nutre di un contenuto e perciò verte su un assetto di interessi. Essenziale è delineare i modi di manifestazione di volontà e le tecniche di incontro delle stesse nella formazione dell’intento comune.

5. I modi di manifestazione della volontà. – I fondamentali modi di manifestazione della volontà sono il linguaggio e il contegno, intorno ai quali si atteggiano le connotazioni delle singole dichiarazioni. a) Il linguaggio rappresenta e comunica il pensiero dell’autore (indipendentemente da una concezione cognitiva o comunicativa del linguaggio): può esprimersi con la parola, con la scrittura o con altri segni 7 (finanche le espressioni del volto o le movenze del corpo possono essere comunicative di un pensiero). Nelle relazioni giuridiche incarna una dichiarazione di volontà indirizzata verso uno o più soggetti, determinati o meno, rivolta al conseguimento di uno scopo. Più spesso la dichiarazione di volontà è espressa, in quanto articola e specifica lo scopo perseguito (es. proposta di acquisto di un bene). Talvolta avviene come dichiarazione tacita, in quanto non è manifesta ma è inclusa in una diversa dichiarazione, che non si ha il diritto di compiere senza la volontà inespressa (es. accettazione tacita dell’eredità ex artt. 476 e 477). Lo sviluppo delle ricerche scientifiche applicate alle comunicazioni sociali ha fatto emergere nel tempo meccanismi sempre nuovi di svolgimento del linguaggio: prima il telegrafo, poi il telefono, poi ancora il telefax e oggi la telematica attraverso impulsi elettronici (mediante posta elettronica o connessione al sito internet o chiamata vocale). Spesso sono utilizzati più mezzi di comunicazione: si pensi alle televendite con accettazione telefonica (salvo il diritto di recesso, di cui in seguito). Di sovente la legge, per varie esigenze, richiede che la manifestazione debba essere espressa in una forma vincolata (es. la vendita di beni immobili deve farsi per iscritto: art. 1350), connettendo all’assenza della forma richiesta specifiche conseguenze. In specifiche ipotesi la legge richiede che la manifestazione di volontà sia esternata in forma scritta e, contemporaneamente, sia anche espressa: ad es., la dichiarazione del creditore di rinunzia all’ipoteca “deve essere espressa e deve risultare da atto scritto, sotto pena di nullità” (art. 2879). b) Il contegno è egualmente rappresentativo del pensiero dell’autore e si avvale di mezzi espressivi. Il contegno è solo obliquamente indirizzato al perseguimento di un risultato: dal comportamento è dedotta la volontà di conseguire uno scopo, sempre che la volontà dedotta risulti univoca, cioè incompatibile con una diversa volontà (c.d. comportamenti concludenti o facta concludentia): deve trattarsi di un contegno univocamente concludente 8. Talvolta la legge, per varie ragioni specie di certezza giuridica, conferisce qua  7 Ad es., per gli artt. 126 e 127 reg. esec. cod. nav., il contratto di pilotaggio è concluso attraverso segnali particolari inviati, rispettivamente, dalla nave che intende chiamare il pilota e dalla nave del pilota che si dirige verso la nave da pilotare. 8 La manifestazione tacita di volontà negoziale deve sostanziarsi in un contegno tale da assumere, secondo la coscienza sociale, un significato oggettivo, riferibile al soggetto quanto meno a titolo di autoresponsabilità (Cass. 17-10-2019, n. 26292; Cass. 3351/1980).

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lificazione legale ad alcuni comportamenti, attribuendovi specifici effetti giuridici: es., il chiamato all’eredità in possesso del bene che non compie l’inventario nel termine di legge è considerato erede puro e semplice (art. 485); la restituzione del titolo originario del credito comporta liberazione del debitore (art. 1237). La rinunzia alla prescrizione può risultare da un fatto incompatibile con la volontà di valersi della prescrizione, come ad es. la richiesta di dilazione di pagamento (art. 2937). Spesso il contegno raggiunge un grado di sì intensa significazione sociale per cui la legge attribuisce al comportamento una valenza senz’altro attuativa di volontà negoziale (c.d. negozi di attuazione o di volontà): es., ricorrendo alcuni presupposti, il contratto è concluso nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio l’esecuzione (art. 1327). A problemi particolari ha dato luogo il silenzio. Questo, come tale, è neutro; acquista rilevanza giuridica in ragione delle circostanze in cui il comportamento silente è tenuto, che militano in una specifica direzione (qui tacet consentire videtur si loqui debuisset ac potuisset) 9. La legge prevede specifiche ipotesi in cui è attribuita rilevanza giuridica al silenzio, ora di assenso ora di diniego: ad es., la mancata disdetta del locatore comporta il rinnovo tacito del contratto (art. 1597); il ritardo del mandante a rispondere alla comunicazione dell’eseguito mandato importa approvazione anche se il mandatario si è discostato dalle istruzioni (art. 1712) 10. Nella moderna realtà economica sono accresciute fortemente le occasioni di contratti senza linguaggio, ma non senza accordo: ad es., l’automobilista che, in un parcheggio automatizzato, introduce e sistema la propria autovettura conclude il contratto di parcheggio; nell’esperienza dei supermercati, la messa in mostra della merce con l’indicazione del prezzo di ciascun esemplare, esprime l’intendimento di un’offerta di vendita, sicché il consumatore che, in tale area, prende la merce e si presenta alla cassa per pagare conclude e attua un contratto di vendita.

6. Volontà e dichiarazione. La tutela dell’affidamento. – Può accadere che una manifestazione di volontà, benché materialmente formulata, non sia spontaneamente e consapevolmente voluta ovvero che sia voluta nella sua materialità e cioè come contegno, ma non sia avvertita e dunque voluta come manifestazione di volontà negoziale e perciò orientata ad un autoregolamento di interessi. L’impatto sociale di ogni dichiarazione comporta di avere in considerazione, non solo l’interesse del soggetto dichiarante ma anche quello dei soggetti che vengono in contatto con la dichiarazione e che vi fanno affidamento: è un elementare criterio di coesione sociale attribuire rilevanza giuridica alle relazioni sociali indotte dalle dichiarazioni dei soggetti. Il problema si pone, anzitutto,   9 Perché il silenzio valga come manifestazione tacita di volontà devono ricorrere circostanze e situazioni oggettive e soggettive che implichino un dovere di parlare ovvero che, secondo un dato momento storico e sociale, avuto riguardo alla qualità delle parti e alle loro relazioni di affari, il tacere di una possa intendersi come adesione alla volontà dell’altra (Cass. 21-3-2008, n. 7697; Cass. 20-2-2004, n. 3403). Il silenzio può acquistare il significato di un fatto concludente o di manifestazione negoziale tacita, tale da integrare consenso, laddove si accompagni a circostanze e situazioni, oggettive e soggettive, che implichino, secondo il comune modo di agire, un dovere di parlare, specie quando il silenzio stesso venga serbato a fronte di una dichiarazione di altri, comportante, per chi tace, un obbligo (Cass. 4-12-2007, n. 25290). 10 In diritto amministrativo è spesso accordata rilevanza giuridica al silenzio (operando come silenzioassenso o silenzio-rifiuto). Si pensi agli interventi subordinati a segnalazione certificata di inizio di attività in alternativa al permesso di costruire (artt. 23 ss. D.Lgs. 6.6.2001, n. 380).

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tra i soggetti che concorrono alla formazione del contratto, e poi con riguardo ai terzi che possono risentire gli effetti del contratto. Il rapporto tra volontà e dichiarazione è risolto in generale dal codice civile con la tutela dell’autore della dichiarazione, nei limiti della protezione dell’affidamento suscitato dalla dichiarazione nel destinatario e verso i terzi (c.d. buona fede soggettiva) (II, 7.2). Non dunque la tutela assoluta del destinatario e dei terzi, ma solo la protezione di una fiducia senza colpa (affidamento incolposo) nella dichiarazione, secondo un criterio oggettivo di esperienza generalizzata, con riferimento al caso concreto. Si è visto innanzi come la tutela di tale principio è correlata alla esigenza di sicurezza del traffico giuridico quale postulato essenziale di una economia di mercato (II, 7.4). Si vedrà peraltro della crescente rilevanza accordata alle circostanze e ai modi di formazione dell’accordo, in relazione alla natura degli interessi coinvolti e alla qualità delle parti.

7. L’assenza di volontà negoziale. – Si ha assenza di volontà negoziale (e dunque, relativamente al contratto, assenza di accordo) quando non si realizza un libero e consapevole intento comune, nonostante l’impiego degli schemi formali di manifestazione della volontà e di formazione del consenso. La legge non dedica un’apposita disciplina all’assenza della volontà negoziale (come, invece, per i vizi del consenso); ma la sua rilevanza deriva dal sistema: di regola l’assenza di volontà negoziale, comportando mancanza di accordo, è causa di nullità del contratto (art. 1325) (VIII, 9.5). a) Alcune volte manca addirittura la volontà della materialità della dichiarazione. È il caso della violenza fisica (c.d. violenza assoluta, per distinguerla dalla c.d. violenza morale quale vizio del consenso): si coarta materialmente un soggetto a dichiarare una volontà inesistente (ad es. conducendo forzatamente la mano altrui nella sottoscrizione). Analogamente la falsificazione del documento: anche ora manca un contegno dichiarativo imputabile a un soggetto e pertanto c’è nullità del contratto. b) Altre volte, c’è sì volontà della materialità della dichiarazione, ma è assente la volontà della dichiarazione orientata ad un autoregolamento di interessi. Si delinea il generale problema della rilevanza di una dichiarazione non corrispondente ad una effettiva volontà negoziale, per valutare se tale dichiarazione possa considerarsi suscettibile di provocare l’affidamento dei terzi. È l’ipotesi della non serietà della dichiarazione, per essere la stessa espressa per scherzo o formulata a fine didattico o declamata sulla scena (come rappresentazione teatrale o riproduzione cinematografica, televisiva, ecc.). La dichiarazione (ancorché spontaneamente emessa), per il luogo in cui è formulata (un’aula di lezioni, un palcoscenico, uno studio televisivo o cinematografico, ecc.), non è tale da poter venire intesa dai destinatari come autoregolamento di interessi. Il contesto di formulazione della dichiarazione è essenziale per valutare se la stessa possa ragionevolmente alimentare l’affidamento dei terzi. In tale contesto è stata tradizionalmente svolta anche la problematica della simulazione quale contrasto tra la volontà, interna e occulta tra le parti, e la dichiarazione, apparente e ostentata nei confronti dei terzi, con la conseguenza di considerare l’atto simulato un negozio non voluto e quindi nullo: si vedrà come una visione funzionale del fenomeno porti a ricostruire la figura come divario di una doppia volontà, una dichiarata per l’apparenza e l’altra dichiarata tra le parti, come svolgimento di una unitaria regolazione di interessi (VIII, 3.13).

CAP. 2 – CONCLUSIONE

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c) Quando il divario tra la volontà e la dichiarazione non è avvertibile nel particolare contesto sociale, assume rilievo l’affidamento dei terzi che attribuisce alla materialità della dichiarazione il valore di dichiarazione negoziale. È così priva di rilevanza giuridica la riserva mentale, cioè la dichiarazione espressiva di una volontà apparente, intenzionalmente discordante con l’interno e reale intento negoziale: la dichiarazione è intenzionalmente non conforme alla volontà negoziale, ma nel contesto sociale dove la dichiarazione opera il divario non è avvertito: perciò il contratto è valido 11. d) Un discorso a sé è da fare per il c.d. errore ostativo, cioè l’errore nella dichiarazione o nella sua trasmissione (art. 1433). C’è discordanza tra volontà negoziale e dichiarazione, ma la discordanza non è ravvisabile all’esterno: si vedrà come il relativo trattamento è assimilato a quello dell’errore vizio della volontà negoziale per la tutela dell’affidamento del destinatario della dichiarazione (VIII, 2.10). Dei singoli rimedi contro assenza o vizi della volontà, si parlerà in seguito trattando delle anomalie genetiche del contratto (VII, 9).

8. L’erosione della volontà nei contratti di massa. – Il delineato meccanismo di confluenza degli apporti volitivi di entrambe le parti, delineato dal codice civile come modello tipico e generale di formazione dell’accordo, incontra varie deroghe nella contrattazione di massa, sia nella conclusione del contratto che con riguardo al contenuto. Nella conclusione del contratto, specie quando il contratto è stipulato fuori dei locali commerciali e a distanza, il consumatore è indotto emotivamente a stipulare senza la necessaria maturazione dell’acquisto, vuoi rispetto alla utilità dell’operazione compiuta che con riguardo alla scelta del prodotto e del contraente. In tali ipotesi il consumatore è colto di sorpresa e gli è perciò accordato un diritto di ripensamento nel termine fissato dalla legge. Quanto al contenuto del contratto, allorché il contratto è stipulato mediante predisposizione unilaterale di condizioni generali di contratto, l’incontro delle dichiarazioni spesso avviene senza conoscenza del contenuto del contratto e comunque nell’impotenza del contraente aderente di incidervi. Emergono clausole vessatorie a danno del contraente aderente, che l’ordinamento sanziona in vario modo. Sempre più spesso l’asimmetria delle conoscenze e degli apporti volitivi si traduce in uno squilibrio contrattuale, che dà luogo alla nullità di parti del contratto o dell’intero contratto. Di tali temi si parlerà specificamente in seguito (par. 17 e 18).

B) VIZI DEL CONSENSO 9. Generalità. – Vari fattori possono distorcere il processo di formazione della volontà, risultando la volontà negoziale viziata. I vizi del consenso previsti dal codice civile sono l’errore, il dolo e la violenza morale: i primi due (errore e dolo) influenzano la conoscenza; il terzo (violenza morale) condiziona la decisione. Per l’art. 1427 il contraente, il cui consenso fu dato per errore, estorto con   11 Diversamente avviene per l’ordinamento canonico: essendo il fine dell’ordinamento sursum e cioè soprannaturale, tutte le anomalie della volontà sono rilevanti. Per il can. 11012 cod. can. il consenso matrimoniale è invalido anche se una sola delle parti esclude, con un positivo atto di volontà, il matrimonio stesso, oppure un suo elemento essenziale o una sua proprietà essenziale.

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violenza o carpito con dolo, può chiedere l’annullamento del contratto, secondo le disposizioni indicate dai successivi articoli. In questo capitolo si ha riguardo ai modi di operare dei vizi del consenso, rinviando al seguito l’esame dei mezzi di tutela per l’anomalia dell’atto (VIII, 9). C’è in generale da rilevare come tali vizi siano maggiormente riferibili al singolo privato che accede al contratto, sorretto esclusivamente dalla sua razionalità e forte solo della propria volontà, perciò destinato a subire tutte le conseguenze di processi logici errati o di violenze alla sua libertà. Meno si attagliano alle organizzazioni economiche che si avvalgono di accorsati studi professionali o la cui titolarità è formata da una nutrita compagine sociale, sia perché è più approfondita la conoscenza, sia perché meglio attrezzati a prevenire e sventare le insidie altrui. Nel mercato dei beni di consumo e in generale dei prodotti di impresa, la spinta al consenso è più spesso indotta dalla pubblicità commerciale, perciò senza dialogo tra le parti e in assenza del bene: la scelta compiuta dal contraente cade sulla rappresentazione del prodotto non sulla fisicità dello stesso. Perciò i vizi del consenso indicati dal codice vanno, in questa direzione, ripensati ed applicati in funzione delle suggestioni indotte dai mezzi di comunicazione di massa nella rappresentazione virtuale dei prodotti.

10. Errore (vizio e ostativo; errore materiale). – L’errore può insorgere sia nella formazione della volontà negoziale che nella dichiarazione della stessa: nella prima ipotesi opera quale errore vizio della volontà negoziale, perciò detto “errore vizio” o “errore motivo” della volontà; nella seconda ipotesi opera quale anomalia della dichiarazione, perciò indicato quale “errore ostativo”. a) Errore vizio (o motivo). È l’errore vero e proprio, quale vizio della volontà, consistente in una falsa rappresentazione della realtà (materiale o giuridica) rilevante nella formazione del consenso. La falsa conoscenza della realtà è imputabile allo stesso autore della dichiarazione che autonomamente e spontaneamente si rappresenta una situazione diversa dalla realtà. L’errore di conoscenza influenza ed orienta la libertà di scelta, traducendosi in un vizio della volontà: il consenso è dato per errore (art. 1427). L’errore vizio può essere di fatto o di diritto. L’errore di fatto cade su una circostanza di fatto la cui falsa rappresentazione incide nella determinazione dell’assetto di interessi. Ad es., in una galleria di quadri, un visitatore acquista un determinato quadro ad un prezzo elevato per averlo erroneamente attribuito ad un pittore di una prestigiosa scuola, mentre si rivela in seguito solo una crosta; oppure un soggetto acquista un bene ad un determinato prezzo credendolo d’oro, invece si scopre in seguito che è solo ricoperto di oro. Ma si pensi anche ai molti errori in cui può cadere un soggetto nella visione di alcune raffigurazioni pubblicitarie. L’errore di diritto cade sulla esistenza o interpretazione di una norma giuridica che regola fatti o rapporti la cui rappresentazione incide sul regolamento di interessi. Bisogna, però, circoscrivere la rilevanza dell’errore di diritto rispetto al principio della obbligatorietà della legge (artt. 10 ss. disp. prel.). Nessuno può accampare la ignoranza di una norma giuridica per sottrarsi all’osservanza della stessa. L’ignoranza della norma, non esclude l’applicazione della norma; ricorrendo i presupposti dell’errore, può solo servire a conseguire l’annullamento del contratto, osservandosi dunque la norma. Non dà luogo ad annullamento, ma solo a rettifica, l’errore di calcolo; tranne che questo, concretandosi in errore sulla quantità, sia stato determinante del consenso (art.

CAP. 2 – CONCLUSIONE

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1430). L’errore di calcolo è un errore di conteggio quando siano certi i parametri di riferimento: se dunque l’errore attiene alla individuazione dei parametri di riferimento, si è in presenza di errore essenziale 12. Analogamente, se si provi che l’errore di calcolo ha influito notevolmente sulla quantità programmata dell’oggetto della prestazione sì da determinare il consenso, è suscettibile di rilevare come errore essenziale e di conseguenza come causa di annullamento del contratto. Neppure ha rilevanza giuridica l’errore sui motivi che inducono la parte al contratto: inerendo i motivi alla sfera personale ed intima del soggetto errante, l’errore sugli stessi non si considera incidere significativamente sull’assetto di interessi attuato o sulla scelta della controparte. Analogamente non è accordata rilevanza alla errata valutazione economica compiuta, riguardando tale profilo la convenienza economica dell’affare e perciò rientrante, appunto, tra i motivi personali che possono indurre al contratto 13, tranne che non ricorrano i presupposti della rescissione (VIII, 9.11). In ogni caso, per svolgersi i motivi all’interno del soggetto caduto in errore, non sono riconoscibili dal destinatario della dichiarazione. Diversamente per la donazione: per lo spirito di liberalità che la connota, è prevista la rilevanza dell’errore sui motivi, coscritta al caso in cui il motivo (di fatto o di diritto) risulti dall’atto e sia il solo che abbia determinato il donante a compiere la liberalità (art. 787) (XIII, 1.3); analoga previsione per il testamento, per la rilevanza accordata alla volontà del disponente (art. 624) (XII, 2.5). b) Errore ostativo. L’errore ostativo incide sulla manifestazione della volontà negoziale, che si è correttamente formata priva di vizi e però è stata espressa o trasmessa in modo erroneo in modo da non rispecchiare la vera volontà negoziale, per contenere riferimenti errati (es. si scrive 100 invece di 1000; si scrive Tizio invece di Caio). L’errore può cadere sulla dichiarazione oppure sulla sua trasmissione quando è inesattamente trasmessa dal dichiarante o dall’ufficio che ne era stato incaricato (es. errata trasmissione di una posta elettronica o di un testo telegrafico tramite ufficio postale). La dichiarazione non corrisponde alla volontà negoziale, che manca, per cui l’esito logico dovrebbe essere la nullità del contratto per assenza di un elemento essenziale del contratto. In tal senso era considerato sotto il codice civile abrogato proprio in quanto ostativo alla volontà negoziale e quindi alla formazione del negozio. Una valutazione della rilevanza sociale del fenomeno ha fatto però considerare che il   12 Si ha errore di calcolo quando, in operazioni aritmetiche, posti come chiari e sicuri i termini da computare ed il criterio matematico da seguire, si commette per inesperienza o disattenzione un errore materiale di calcolo che si ripercuote sul risultato finale, rilevabile tuttavia ictu oculi in base a quegli stessi dati e criteri, a seguito della ripetizione corretta del calcolo (Cass. 18-2-2016, n. 3178; Cass. 20-3-1995, n. 3228). Non è tale l’errore che attiene alla individuazione di uno dei termini da computare, quale è la cifra iniziale dalla quale detrarre l’importo risarcitorio (Cass. 3-3-2022, n. 7066). La regola dell’art. 1430 ha rilevanti connessioni con la disciplina della “vendita a misura” di immobili (art. 1537). 13 L’errore sulla valutazione economica del bene oggetto del contratto non rientra nella nozione di errore di fatto idoneo a giustificare una pronuncia di annullamento, in quanto non incide sull’identità o qualità della cosa, ma attiene alla sfera dei motivi in base ai quali la parte si è determinata a concludere un certo accordo e al rischio che il contraente si assume, nell’ambito dell’autonomia contrattuale, per effetto delle proprie personali valutazioni sull’utilità economica dell’affare (Cass. 12-11-2018, n. 29010; Cass. 3-9-2013, n. 20148). Diversamente quando la fallace rappresentazione economica non sia dipesa da un errore su una qualità essenziale della cosa, accordando l’ordinamento per siffatti casi, ove ricorrano le altre particolari condizioni, lo specifico e diverso rimedio della rescissione (Cass. 27-11-2012, n. 21094. V. anche Cass. 3-4-2003, n. 5139; Cass., sez. un., 1-7-1997, n. 5900).

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PARTE VIII – CONTRATTO 

destinatario non è in grado di cogliere se ricorra un errore vizio oppure un errore ostativo della volontà negoziale. Una generale esigenza di tutela dell’affidamento ha accomunato le due ipotesi come cause di annullabilità. Per l’art. 1433 le disposizioni relative all’errore vizio si applicano anche all’errore ostativo: perciò anche l’errore ostativo è rilevante come causa di annullamento del contratto solo se è essenziale e riconoscibile, secondo le indicazioni degli artt. 1429 e 1431; inoltre anche con riguardo all’errore ostativo opera il principio del mantenimento del contratto rettificato (art. 1432) 14. c) Presupposti di rilevanza. L’errore (sia di fatto che di diritto) è rilevante come causa di annullamento del contratto quando è essenziale e riconoscibile dall’altro contraente (art. 1428) 15. Regole particolari operano con riguardo alla annullabilità della transazione (artt. 1971 ss.) (IX, 6.1) 16. L’errore è essenziale quando cade su specifiche circostanze indicate dalla legge. L’art. 1429 prevede un’elencazione di circostanze di errore giuridicamente rilevanti, di cui è discussa la tassatività: le norme sono suscettibili di applicazione estensiva e analogica 17. Rispetto ad alcune circostanze, l’errore è considerato senz’altro essenziale e quindi rilevante giuridicamente; con riguardo ad altre circostanze, l’errore è considerato essenziale solo quando è determinante del consenso; con la conseguenza che, nella prima ipotesi, è sufficiente per l’errante provare la fattispecie dell’errore, da cui si inferisce la essenzialità; nella seconda ipotesi, c’è la necessità della prova anche del carattere concretamente determinante del consenso. Per l’art. 1429 l’errore è essenziale in relazione alle seguenti circostanze. 1) Quando cade sulla natura o sull’oggetto del contratto (art. 1429, n. 1). L’errore è qualificato senz’altro come essenziale e quindi rilevante giuridicamente. L’errore sulla natura del contratto ha riguardo alla causa del contratto: ad es. è stipulato un contratto credendolo di comodato invece è di locazione. L’errore sull’oggetto del contratto ha riguardo alla rappresentazione della prestazione dovuta: ad es., stipulando la somministra  14 È stata ampliata l’applicabilità anche di altre norme riferite all’annullabilità, precisamente l’art. 1441 (“Legittimazione”) e l’art. 1442 (“Prescrizione”) (Cons. Stato 14-2-2012, n. 726). 15 L’invalidità è subordinata, prima ancora che alla essenzialità e riconoscibilità dell’errore, alla circostanza (della cui prova è onerata la parte che deduce il vizio del consenso) che la volontà sia stata manifestata in presenza di una falsa rappresentazione della realtà (Cass. 1-10-2009, n. 21074; Cass. 24-8-2004, n. 16679). Il lodo arbitrale irrituale, come la perizia contrattuale, essendo volto a integrare una manifestazione di volontà negoziale con funzione sostitutiva di quella delle parti in conflitto, e per esse vincolante, è impugnabile soltanto per i vizi che possono vulnerare ogni manifestazione di volontà negoziale; l’errore del giudizio arbitrale, per essere rilevante, secondo la previsione dell’art. 1428, deve essere essenziale e riconoscibile – artt. 1429 e 1431 – e cioè devono essere gli arbitri incorsi in una falsa rappresentazione o alterata percezione degli elementi di fatto, determinata dall’aver ritenuto esistenti fatti che certamente non lo sono e viceversa, ovvero contestati fatti che tali non sono, analogamente all’errore revocatorio contemplato, per i provvedimenti giurisdizionali, dall’art. 395, n. 4, c.p.c. (Cass. 11-6-2019, n. 15665). 16 Fuori delle ipotesi previste negli artt. 1971 e 1975 (transazione su pretesa temeraria o su titolo nullo), non è causa di annullamento della transazione la circostanza che la situazione di fatto, origine delle pretese contrapposte, fosse diversa da quella ritenuta da una delle parti transigenti, e tale che se questa ne avesse avuto esatta conoscenza non avrebbe concluso l’accordo transattivo (Cass. 14-1-2005, n. 690). 17 Per la Relaz. cod. civ., n. 652, il requisito dell’essenzialità dell’errore viene determinato dal nuovo codice con riguardo a criteri obiettivi in armonia alla tutela all’affidamento: altri casi di essenzialità possono essere rilevati dall’interprete in relazione a singole ipotesi di fatto, quando queste abbiano le medesime caratteristiche delle ipotesi previste dalla legge, per guisa che possano elevarsi fino all’importanza giuridica di queste.

CAP. 2 – CONCLUSIONE

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zione di un servizio, si immagina di conseguire una prestazione personalizzata, che invece è standardizzata 18. 2) Quando cade sulla identità dell’oggetto della prestazione ovvero sopra una qualità dello stesso che, secondo il comune apprezzamento o in relazione alle circostanze, deve ritenersi determinante del consenso (art. 1429, n. 2). L’errore è senz’altro essenziale e quindi rilevante giuridicamente se cade sull’identità dell’oggetto: si pensi all’acquisto di un fondo che risulta essere contiguo a quello immaginato. Quando invece cade su una qualità dell’oggetto della prestazione, è necessario verificare in concreto se, secondo il comune apprezzamento o in relazione alle circostanze, deve ritenersi determinante del consenso (art. 1429, n. 2). Si pensi all’acquisto di un bene credendolo d’oro, invece è solo ricoperto di oro. La giurisprudenza configura quale errore sulla qualità anche l’errore che cade sulla destinazione giuridica del bene, ad es. si immagina di acquistare un suolo edificatorio, che invece si rivela un terreno agricolo 19. Come si vedrà, non rileva l’errore sul valore del bene, per riguardare i motivi; come non rileva l’errore sulla consistenza patrimoniale della società nella vendita di partecipazioni sociali 20. 3) Quando cade sull’identità o sulle qualità della persona dell’altro contraente, sempre che l’una o le altre siano state determinanti del consenso (art. 1429, n. 3). Ciò avviene tipicamente per i contratti stipulati intuitu personae (si pensi ad es. al mandato). 4) Quando è un errore di diritto e questo sia stato la ragione unica o principale del contratto (art. 1429, n. 4). L’errore può riguardare l’esistenza o la interpretazione di un precetto giuridico 21. Però la transazione non può essere annullata per errore di diritto relativo alle questioni che sono state oggetto di controversia tra le parti (art. 1969). L’errore deve essere anche riconoscibile dall’altro contraente. Per l’art. 1431 “l’errore si considera riconoscibile quando, in relazione al contenuto, alle circostanze del contratto ovvero alla qualità dei contraenti, una persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo”. Vi in tale previsione una significativa applicazione del principio dell’affida  18 La parte che deduce di essere incorsa in un errore di fatto sulla natura di un contratto e ne chiede l’annullamento deve indicare quale altro contratto intendeva concludere, mentre per l’errore sull’oggetto deve dimostrare che l’errore cade sull’identità di esso; essa inoltre ha l’onere di dimostrare l’essenzialità dell’errore e la sua riconoscibilità dalla controparte con l’uso dell’ordinaria diligenza (Cass. 8-6-2004, n. 10815). 19 L’errore sulla edificabilità del fondo compravenduto, anche se provocato dall’ignoranza della disciplina urbanistica, deve essere ricondotto all’errore sulle qualità dell’oggetto del contratto ex art. 1429, n. 2, piuttosto che all’errore di diritto, perché la destinazione del fondo è attinente alle sue caratteristiche reali, in senso funzionale, economico e sociale (Cass. 24-10-2013, n. 24132; Cass. 11-8-2011, n. 17216). 20 In materia di vendita di azioni, se il venditore non ha prestato garanzia circa la situazione patrimoniale della società, il valore economico delle azioni non rientra tra le qualità di cui all’art. 1429, n. 2, trattandosi di un mero errore di valutazione da parte dell’acquirente; le carenze o i vizi relativi alle caratteristiche e al valore dei beni ricompresi nel patrimonio sociale – e, di riverbero, alla consistenza economica della partecipazione – possono giustificare l’annullamento del contratto per errore o, ai sensi dell’art. 1497 c.c., la risoluzione per difetto di “qualità” della cosa venduta solo se il cedente abbia fornito, a tale riguardo, specifiche garanzie contrattuali, ovvero nel caso di dolo di un contraente, quando il mendacio o le omissioni sulla situazione patrimoniale della società siano accompagnate da malizie ed astuzie volte a realizzare l’inganno ed idonee, in concreto, a sorprendere una persona di normale diligenza (Cass. 19-7-2007, n. 16031). 21 L’annullabilità del contratto per errore di diritto ricorre quando il consenso di una parte sia determinato da falsa rappresentazione circa l’esistenza, l’applicabilità o la portata di una norma giuridica, imperativa o dispositiva, e tale vizio sia rilevabile dall’altro contraente con l’uso della normale diligenza (Cass. 1-3-1995, n. 2340. V. anche Cass. 19-8-1996, n. 7629).

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PARTE VIII – CONTRATTO 

mento (buona fede soggettiva) accolto dal codice civile del 1942 (II, 7.2). Con tale codice l’attenzione dell’ordinamento si è spostata dalla salvaguardia della volontà dell’autore della dichiarazione alla valorizzazione dell’affidamento del destinatario della dichiarazione: rilevante per l’annullamento del contratto non è più la scusabilità dell’errore da parte del dichiarante (secondo il principio di responsabilità, proprio del cod. civ. del 1865) ma la riconoscibilità dell’errore da parte del destinatario della dichiarazione (secondo il criterio dell’affidamento). La riconoscibilità va verificata secondo un criterio oggettivo di esperienza generalizzata, con riferimento al caso concreto. Bisogna in particolare verificare se un soggetto, delle medesime qualità personali e professionali del destinatario della dichiarazione, nelle circostanze di fatto in cui il contratto è stato concluso e alla stregua del contenuto del contratto adottato, era o meno oggettivamente in grado di riconoscere l’errore in cui è caduto il dichiarante 22. Se l’errore risulta riconoscibile il contratto è annullabile; altrimenti, pure in presenza dell’errore, il contratto rimane valido: l’interesse del dichiarante (all’annullamento del contratto) è sacrificato rispetto al contrapposto interesse (alla validità del contratto) del destinatario della dichiarazione 23. Rileva invece comunque l’errore comune, non prospettandosi un problema di tutela dell’affidamento 24. In applicazione di un generale principio di conservazione del negozio, è consentito al destinatario della dichiarazione evitare l’annullamento del contratto, anche quando l’errore è riconoscibile, con il mantenimento del contratto rettificato. La parte in errore non può domandare l’annullamento del contratto se, prima che ad essa possa derivarne pregiudizio, l’altra offre di eseguirlo in modo conforme al contenuto e alle modalità del contratto che quella intendeva concludere (art. 1432) (VIII, 9.10). d) Errore materiale. È figura delineata dalla giurisprudenza. È frutto di una volizione, esattamente formatasi ma espressasi in modo palesemente distorto. Lo stesso, perciò, non rileva giuridicamente come causa di annullamento ed è ricostruibile in via interpretativa 25.   22 Alla riconoscibilità è legittimamente assimilabile, quoad effectum, la concreta ed effettiva conoscenza dell’errore da parte dell’altro contraente, attesa la ratio dell’art. 1431 volta a tutelare il solo affidamento incolpevole del destinatario della dichiarazione negoziale viziata nel processo formativo della sottostante determinazione volitiva (Cass. 28-11-2019, n. 31078). In tema di dichiarazione dei redditi, nei casi in cui i dati da inserire nella stessa sono espressione di volontà negoziale (come ad es. l’opzione per una scelta), l’errore è emendabile e ritrattabile solo se il contribuente, secondo la disciplina generale degli artt. 1427 ss. c.c., estesa dall’art. 1324 c.c. agli atti unilaterali in quanto compatibile, fornisce la prova della sua essenzialità e obiettiva riconoscibilità da parte dell’Amministrazione finanziaria (Cass. 4-3-2020, n. 6046; Cass. 17-10-2019, n. 26382). 23 La verifica si presenta delicata quando la controparte del soggetto errante si avvale di ausiliari per lo svolgimento della propria attività. Per Cass. 28-5-2003, n. 8553, in virtù dell’art. 22101, in ipotesi di contratto di fideiussione sottoscritto dal cliente di una banca su apposito modulo e dinanzi ad un impiegato dell’istituto di credito, lo stato soggettivo ai fini della conoscibilità dell’errore, va verificato con riguardo all’impiegato che tratta la pratica e non con riferimento al legale rappresentante della banca. 24 Nell’ipotesi di errore bilaterale, che ricorre quando sia comune alle parti, il contratto è annullabile a prescindere dalla riconoscibilità, poiché in tal caso non è applicabile il principio dell’affidamento, avendo ciascuno dei contraenti dato causa all’invalidità del negozio (Cass. 15-12-2011, n. 26974). 25 Qualora il contenuto del contratto, come risulta materialmente redatto, non corrisponda, quanto alle espressioni usate, alla comune e reale volontà delle parti, per erronea formulazione, redazione o trascrizione di elementi di fatto ad esso afferenti, ancorché la discordanza non emerga prima facie dalle tavole negoziali, non ricorre alcuna delle fattispecie dell’errore ostativo, vertendosi, viceversa, in tema di mero errore materiale, ricostruibile con ogni mezzo di prova, al di là della forma di volta in volta richiesta per il contratto cui afferi 

CAP. 2 – CONCLUSIONE

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11. Dolo (determinante e incidente; comunicazioni di massa). – Come l’errore, anche il dolo influenza la conoscenza della realtà (materiale o giuridica) e dunque la libertà di scelta, viziando la volontà negoziale. Il dato peculiare è che il dolo induce in errore tramite l’inganno, cioè con l’impiego di raggiri ed artifici che una parte perpetra a danno dell’altra per indurla a concludere il contratto: il consenso è carpito con dolo (art. 1427). Non è sufficiente qualunque pressione di ordine psicologico, ma è necessaria l’esistenza di mezzi fraudolenti che, avuto riguardo alla maturità della vittima e al contesto di stipulazione, siano idonei a trarla in inganno, suscitando una falsa rappresentazione della realtà così da orientare la sua volontà in un senso in cui non si sarebbe spontaneamente indirizzata 26. Riprendendo gli esempi innanzi fatti in tema di errore, il visitatore della galleria d’arte acquista lo specifico quadro ad un prezzo elevato a seguito dei raggiri usati dal gallerista, che lo induce in errore circa l’attribuzione del quadro ad un pittore di una prestigiosa scuola (ad es. producendo documenti non veritieri), mentre si scopre dopo che è solo una crosta; oppure, relativamente alla vendita di un oggetto, il compratore lo acquista ad una cifra elevata in ragione dei raggiri usati dal venditore che lo induce in errore circa la consistenza in oro del bene, mentre si scopre dopo che è solo ricoperto di oro. In sostanza il soggetto è indotto in errore dall’autore del dolo, che quindi conosce l’errore della controparte. Il dolo può essere commissivo, cioè compiuto con atti fraudolenti, come artifici, raggiri, menzogne, ovvero omissivo cioè compiuto con omissioni fraudolente, come reticenza, silenzio di quanto risultava utile alla controparte conoscere nella stipula del contratto: in ogni caso deve ingenerare nella controparte una rappresentazione alterata della realtà, sì da essere determinante del consenso 27, avendosi riguardo ad un soggetto di normale diligenza nel caso concreto 28. L’inganno raramente si consuma in un solo atto; più spesso è perpetrato attraverso una catena concatenata di atti. A differenza dell’errore, non sono previste specifiche fattispecie di dolo giuridicamente rilevanti, ma si è soliti distinguere tra dolo determinante e dolo incidente. Si ha dolo determinante (dolus causam dans) quando i raggiri usati da un contraente (deceptor) sono stati tali che, senza di essi, l’altro contraente (deceptus) non avrebbe con 

sce, onde consentire al giudice del merito la formazione di un corretto convincimento circa la reale ed effettiva volontà dei contraenti, anche sulla scorta delle trattative e di tutto il materiale probatorio acquisito (Cass. 4-10-2018, n. 24208; Cass. 9-4-2008, n. 9243; Cass. 19-12-2003, n. 19558). 26 A produrre l’annullamento del contratto non è sufficiente una qualunque influenza psicologica sull’altro contraente, ma sono necessari artifici o raggiri, o anche semplici menzogne che abbiano avuto comunque un’efficienza causale sulla determinazione volitiva della controparte (Cass. 4-11-2021, n. 31731; Cass. 24-9-2021, n. 25968; Cass. 27-2-2019, n. 5734). 27 Il dolo omissivo può ravvisarsi solo quando l’inerzia della parte s’inserisca in un complesso comportamento, adeguatamente preordinato, con malizia o astuzia, a realizzare l’inganno perseguito, determinando l’errore del deceptus; pertanto, il semplice silenzio e la reticenza, limitandosi a non contrastare la percezione della realtà alla quale sia pervenuto l’altro contraente, non costituisce di per sé causa invalidante del contratto (Cass. 30-6-2021, n. 18496; Cass. 8-5-2018, n. 11009; Cass. 2-2-2012, n. 1480). 28 Sia nella ipotesi di dolo commissivo che in quella di dolo omissivo, gli artifici o i raggiri, la reticenza o il silenzio devono essere valutati in relazione alle particolari circostanze di fatto ed alle qualità e condizioni soggettive dell’altra parte, onde stabilire se erano idonei a sorprendere una persona di normale diligenza, giacché l’affidamento non può ricevere tutela giuridica se fondato sulla negligenza (Cass. 20-1-2017, n. 1585).

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PARTE VIII – CONTRATTO 

trattato (art. 14391). È questo il dolo vero e proprio, detto appunto determinante della conclusione del contratto o dolo decettivo, nel senso di svolgere un’efficienza causale sulla determinazione volitiva della controparte, conoscendosi l’errore della controparte 29. I raggiri devono risultare oggettivamente idonei ad indurre in errore un soggetto con le medesime qualità personali e professionali e nelle stesse circostanze in cui è stipulato il contratto 30. Quando artifici e raggiri sono stati usati d a un terzo, il contratto è annullabile solo se gli stessi erano noti al contraente che ne ha tratto vantaggio (art. 14392). L’interesse del soggetto vittima del dolo rimane cioè sacrificato rispetto all’interesse della controparte che non era a conoscenza del dolo perpetrato dal terzo: è apprestata una tutela privilegiata all’affidamento della controparte (in applicazione del principio generale di protezione dell’affidamento incolpevole). In ragione dell’induzione all’errore con l’inganno, si giustifica l’articolato trattamento dell’ordinamento: vi è reazione sull’atto, con annullabilità del contratto; a tale reazione si aggiunge la responsabilità dell’autore del dolo per la condotta illecita avuta, lesiva della libertà negoziale altrui. Perciò, all’annullamento del contratto (che è la tipica reazione dell’ordinamento sull’atto), si somma l’obbligo di risarcimento dei danni a carico dell’autore del dolo (che è la tipica sanzione dell’ordinamento contro il soggetto per l’attività illecita compiuta) 31. Il dolo può anche avere rilevanza penale, atteggiandosi quale truffa contrattuale , integrante il reato di truffa ex art. 640 c.p., quando, con artifizi o raggiri, si induce taluno in errore, procurando a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno 32.   29 Il dolo che vizia la volontà ed è causa l’annullamento del contratto implica necessariamente la conoscenza da parte dell’agente delle false rappresentazioni che si producono nella vittima e il convincimento che sia possibile determinare con artifici, menzogne e raggiri la volontà altrui, inducendola specificamente in inganno (Cass. 24-5-2018, n. 13034). 30 In virtù del principio fraus omnia corrumpit il dolo decettivo conduce all’annullamento del contratto (come pure del negozio unilaterale) qualunque sia l’elemento sul quale il deceptus sia stato ingannato e, dunque, in relazione a qualunque errore in cui sia stato indotto, ivi compreso quello sul valore o sulle qualità del bene oggetto del negozio (Cass. 25-10-2019, n. 27406; Cass. 4065/2014). Il dolo deve essere ordito attraverso un’alterazione della realtà esterna, simulatrice dell’inesistente o dissimulatrice dell’esistente (artificio) o con una menzogna corredata da ragionamenti idonei a farla scambiare per realtà (raggiro); il mendacio rileva come dolo in ragione delle circostanze del fatto e del risultato conseguito. il dolo decettivo conduce all’annullamento del contratto (come pure del negozio unilaterale) qualunque sia l’elemento sul quale il deceptus sia stato ingannato e, dunque, in relazione a qualunque errore in cui sia stato indotto, ivi compreso quello sul valore o sulle qualità del bene oggetto del negozio (Cass. 20-2-2014, n. 4065). Sia nella ipotesi di dolo commissivo che in quella di dolo omissivo, gli artifici o i raggiri, la reticenza o il silenzio devono essere valutati in relazione alle particolari circostanze di fatto e alle qualità e condizioni soggettive dell’altra parte, onde stabilire se erano idonei a sorprendere una persona di normale diligenza, non richiedendosi che l’errore poteva essere evitato solo con l’ausilio di competenze e tecniche straordinarie (Cass. 27-10-2004, n. 20792). 31 Il contraente il cui consenso risulti viziato da dolo, “può richiedere il risarcimento del danno conseguente all’illecito della controparte, lesivo della libertà negoziale, sulla base dell’art. 2043 c.c., anche senza proporre domanda di annullamento del contratto ai sensi dell’art. 1439” (Cass. 19-9-2006, n. 20260). 32 Il contratto stipulato a seguito di truffa non è nullo ex art. 1418 c.c., ma annullabile ex art. 1439 c.c., dal momento che il dolo costitutivo del delitto di truffa non è ontologicamente diverso da quello che vizia il consenso negoziale (Cass. 20-8-2018, n. 20801; Cass. 22-6-2018, n. 16559). Gli artifizi o i raggiri richiesti per la sussistenza del reato di truffa possono consistere anche nel semplice silenzio maliziosamente serbato, su circostanze fondamentali ai fini della conclusione di un contratto, da chi abbia l’obbligo, anche in forza di una norma  

CAP. 2 – CONCLUSIONE

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Si ha dolo incidente (dolus incidens) quando il dolo non è determinante della conclusione del contratto, che si sarebbe egualmente avuta, ma incide sul contenuto, che si sarebbe pattuito diversamente. Per l’art. 1440, se i raggiri non sono stati tali da determinare il consenso, il contratto è valido, benché senza di essi sarebbe stato concluso a condizioni diverse; ma il contraente in mala fede risponde dei danni. È evidentemente un’indagine da compiere in concreto e con riguardo alle circostanze dello specifico assetto di interessi, stabilire se il dolo abbia indotto alla conclusione del contratto o abbia solo influito su alcune determinazioni del contenuto contrattuale. In ipotesi di dolo incidente, non c’è reazione dell’ordinamento sull’atto ma solo reazione contro il soggetto che ha agito con dolo: il contratto rimane valido, ma l’autore del dolo risponde per comportamento illecito lesivo della libertà negoziale della controparte, con comminatoria dell’obbligo di risarcimento del danno 33. Anche il dolo incidente, come il dolo determinante, può essere perpetrato con un comportamento commissivo o omissivo. Anche quando non ricorre il dolo omissivo c’è comunque da verificare se la parte abbia assolto l’obbligo di buona fede che impone di salvaguardare l’interesse altrui (nei limiti di un apprezzabile sacrificio proprio), la cui violazione è fonte di responsabilità (II, 7.4). Tradizionalmente si è anche posta la distinzione tra dolus malus (determinante o incidente), che è il dolo giuridicamente rilevante in quanto considerato socialmente riprovevole, sempre vietato, e dolus bonus, che è la comune esaltazione della propria merce, generalmente consentito se facilmente avvertibile. 3) Crescente rilevanza di dolo è nelle comunicazioni di massa. La progressiva spersonalizzazione dei rapporti sociali ed economici sta fortemente dilatando l’area del dolo. L’assenza di dialogo tra le parti favorisce l’inganno, non essendo il perseguimento dell’interesse individuale mitigato dalla moralità o dalla emotività del rapporto interpersonale: solo la correttezza dell’informazione assicura la effettività del consenso 34. Si pensi alle tante pubblicità accattivanti di soggiorni di vacanza in alberghi “confortevoli” o a “pochi passi” da determinati luoghi, enfatizzati con pagine patinate di cataloghi o con sontuosa scenografia in vetrine virtuali di siti web: solo successivamente si scopre che le fotografie e le scene erano meri fotomontaggi (con distanza notevole dell’albergo dal centro storico ovvero dai campi da sci o dal mare) e che i servizi reclamizzati erano inesistenti o riguardavano  

extra penale, di farle conoscere in quanto il comportamento dell’agente in tal caso non può ritenersi meramente passivo, ma artificiosamente preordinato a perpetrare l’inganno e a non consentire alla persona offesa di autodeterminarsi liberamente (Cass. pen. 9-5-2018, n. 23079; Cass. pen. 12-9-2018, n. 44228). Quando si procede per truffa, la titolarità del diritto di querela spetta sia al soggetto raggirato e materialmente defraudato del bene alla cui apprensione era diretta la condotta illecita, sia al soggetto che ha patito il danno patrimoniale, ovvero a colui che vanta il diritto di proprietà sul bene appreso illecitamente, essendo possibile la coesistenza di più soggetti passivi di un medesimo reato (Cass. pen. 18-7-2018, n. 41785). 33 In ipotesi di dolo incidente, proprio in quanto la vittima del dolo agisce per conseguire il risarcimento del danno, si ritiene che la domanda risarcitoria non supponga la proposizione della domanda di annullamento del contratto, in quanto la domanda risarcitoria ha come presupposto che i raggiri non abbiano avuto carattere determinante del consenso e che, pertanto, il contratto resti valido (Cass. 8-9-1999, n. 9523). Sono evidenti le connessioni di tale previsione con la generale regola della responsabilità precontrattuale per violazione del principio di buona fede (art. 1337) (di cui in seguito). 34 L’intreccio tra tutela civile e tutela penale è particolarmente avvertito nella collocazione dei prodotti presso i consumatori, sanzionando il codice penale la frode nell’esercizio del commercio (art. 515 c.p.), la vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine (art. 516 c.p.), la vendita di prodotti industriali con segni mendaci (art. 517 c.p.).

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PARTE VIII – CONTRATTO 

un’unica camera dell’albergo … non disponibile. Si pensi anche alle molte televendite, dove la prospettiva della ripresa televisiva distorce la raffigurazione dell’oggetto venduto. Con riguardo agli investimenti finanziari, si pensi alle artate comunicazioni di salute delle società attraverso falsificazioni di bilancio per accrescere il valore delle azioni collocate sul mercato: essendo il valore delle azioni per relazione rispetto a quello della società, le ingannevoli crescite di utili si traducono in raggiri nella cessione delle azioni. Analogo meccanismo è spesso utilizzato per accedere a finanziamenti. Si pensi anche a strumentali gonfiamenti di utili al fine di far lievitare il valore dell’azienda in vista di cessione della stessa o di un ramo di azienda. A contrastare tali evenienze sta emergendo una nutrita legislazione a tutela della trasparenza del mercato che si muove in più direzioni: la repressione di fuorvianti comunicazioni di massa, di cui fondamentale è la normativa sulla pubblicità ingannevole e comparativa, la disciplina sugli obblighi di informazione, la tutela specifica dei consumatori in molti settori del commercio, al fine di consentire la conoscenza della composizione e della c.d. “tracciabilità” dei prodotti 35. Altri presidi stanno svolgendosi a favore degli investitori in strumenti finanziari 36. Sono forme di inganno che, oltre a comportare le sanzioni prescritte dalle normative specifiche, rilevano anche alla stregua delle previsioni del codice civile. È una nuova frontiera del dolo: pensato come vizio della volontà per contratti individuali, si presta ad operare come formidabile criterio di tutela di massa nei contratti seriali con predisposizione unilaterale. Anche la verifica della incidenza del dolo nella collocazione dei prodotti va condotta con riguardo ad un contraente medio in un contratto di adesione, con asimmetria di conoscenze e di potere contrattuale, spesso pressato dal bisogno e/o indotto dalla pubblicità.

12. Violenza morale (e timore reverenziale). – Si è detto della violenza fisica o assoluta, che forzatamente coarta la manifestazione di una volontà negoziale inesistente (VIII, 2.7). Viene qui in esame la violenza morale, la quale è una violenza psichica (vis compulsiva) che incide sulla libertà di decisione, impedendo alla volontà negoziale di liberamente determinarsi. L’essenza della violenza morale è nella minaccia di un male ingiusto e notevole in grado di estorcere il consenso. Più specificamente, a seguito della minaccia, al soggetto violentato si prospettano due fondamentali possibilità: subire il male minacciato e non concludere il contratto; evitare il male minacciato e concludere il contratto. In quest’ultima ipotesi il soggetto si decide alla stipula del contratto proprio perché violentato: il   35 L’art. 22, lett. c, cod. cons. annovera, tra i “diritti del consumatore”, quello ad una adeguata informazione e ad una corretta pubblicità. Generali tutele in tale direzione sono contenute nel medesimo codice nella Parte II “Educazione, informazione, pratiche commerciali, pubblicità”, come sostituita dal D.Lgs. 23.10.2007, n. 221, con particolare riguardo al divieto delle pratiche commerciali scorrette e delle pratiche commerciali ingannevoli (art. 20 ss.). Specifiche tutele provengono da altri testi normativi: es. D.Lgs. 27.1.1992, n. 109, che reca attuazione delle direttive CEE 395/89 e 396/89, concernenti l’etichettatura, la presentazione e la pubblicità dei prodotti alimentari; D.Lgs. 25.1.1992, n. 73, che reca attuazione della direttiva 357/87/CEE, relativa ai prodotti che, avendo un aspetto diverso da quello che sono in realtà, compromettono la salute o la sicurezza dei consumatori. 36 Fondamentale la disciplina sulla “informazione societaria” (artt. 113 ss. D.Lgs. 24.2.1998, n. 58, TUF).

CAP. 2 – CONCLUSIONE

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consenso è estorto con violenza (art. 1427). La minaccia può essere esercitata in modo esplicito (manifesto e diretto) o anche in modo implicito (mediante un comportamento intimidatorio orientato ad uno scopo), e può provenire sia dalla controparte che da un terzo (art. 1434). La violenza deve assumere efficienza causale concreta nella determinazione del consenso 37. Per l’art. 1435 la violenza deve essere di tal natura da far impressione sopra una persona sensata, sì da fare temere di esporre sé o i suoi beni a un male ingiusto e notevole, avendosi riguardo all’età, al sesso e alla condizione delle persone. La valutazione va compiuta secondo il comune criterio oggettivo di esperienza generalizzata, con riferimento al caso concreto. Come per il dolo (e a differenza dell’errore) non sono indicate le ipotesi di violenza rilevanti giuridicamente, ma sono indicati i caratteri rilevanti della violenza, che deve essere determinante del consenso, nel senso che una persona, con le medesime qualità e condizioni personali del soggetto minacciato e nelle medesime circostanze, avrebbe prestato il consenso pur di evitare il male minacciato. Quanto ai requisiti del male minacciato, deve trattarsi di un male ingiusto e notevole. Il male deve essere ingiusto, sia per il mezzo adoperato che il vantaggio (cioè il fine) perseguito: più agevole è la prima verifica, più complessa si rivela la seconda. L’ingiustizia del mezzo è rilevabile immediatamente dal tipo di comportamento minacciato: ad es. la minaccia di gambizzazione è senz’altro causa di annullamento del contratto perché impiega un mezzo illecito, per lesione alla integrità fisica. Per verificare invece la ingiustizia del vantaggio bisogna accertare il fine perseguito mediante il comportamento minacciato. È il fenomeno della c.d. minaccia di far valere un diritto. C’è da chiarire che ogni soggetto ha diritto di far valere giudiziariamente le proprie ragioni: ad es. un creditore che non consegue il pagamento dovutogli ha diritto di minacciare la espropriazione dei beni del debitore (art. 2740). La minaccia di far valere un diritto è causa di annullamento del contratto quando, attraverso la minaccia di esercizio di un diritto, si vuole conseguire un vantaggio ingiusto (art. 1438): nell’esempio fatto, il creditore, minacciando l’espropriazione dei beni, tende ad acquistare dal debitore un bene a prezzo irrisorio 38. Inoltre il male deve essere notevole, nel senso di prospettare al soggetto minacciato un grave danno ai beni o alla persona. Nella prima direzione, il male inerisce al patrimonio (ad es. minaccia di incendio di un capannone se non si stipula un determinato contratto); nella seconda direzione il male può inerire alla vita fisica (es. minaccia di gambizzazione) o alla onorabilità della persona (es. minaccia ad un uomo politico o di spettaco  37 I requisiti previsti dall’art. 1435 c.c. possono variamente atteggiarsi, a seconda che la coazione si eserciti in modo esplicito, manifesto e diretto, o, viceversa, mediante un comportamento intimidatorio, oggettivamente ingiusto, anche ad opera di un terzo; è in ogni caso necessario che la minaccia sia stata specificamente diretta ad estorcere la dichiarazione negoziale della quale si deduce l’annullabilità e risulti di natura tale da incidere, con efficacia causale concreta, sulla libertà di autodeterminazione dell’autore di essa (Cass. 10-8-2017, n. 19974). Non costituisce minaccia invalidante il negozio la mera rappresentazione interna di un pericolo, ancorché collegata a determinate circostanze oggettivamente esistenti (Cass. 12-3-2010, n. 6044; Cass. 28-5-2007, n. 12484; Cass. 22-7-2004, n. 13644). 38 La minaccia di far valere un diritto assume i caratteri della violenza morale, quando il fine perseguito consista nella realizzazione di un risultato che, oltre ad essere abnorme e diverso da quello conseguibile attraverso l’esercizio del diritto medesimo, sia anche esorbitante ed iniquo rispetto all’oggetto di quest’ultimo e non quando il vantaggio perseguito sia solo quello del soddisfacimento del diritto nei modi previsti dall’ordinamento (Cass. 15-2-2017, n. 4006).

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lo di una campagna denigratoria per indurlo a stipulare un determinato contratto). La violenza è causa di annullamento del contratto anche quando il male minacciato riguarda la persona o i beni del coniuge del contraente o di un discendente o ascendente di lui; se il male minacciato riguarda altre persone, l’annullamento del contratto è rimesso alla prudente valutazione delle circostanze da parte del giudice (art. 1436). Come si è anticipato, la violenza è sempre causa di annullamento del contratto, anche se esercitata da un terzo (art. 1434): ciò a differenza del dolo, rispetto al quale il contratto è annullabile solo se i raggiri usati dal terzo erano noti alla controparte (art. 14392). Il differente trattamento delle due situazioni si giustifica per il disfavore dell’ordinamento verso la violenza: rispetto alla violenta lesione della libertà di un contraente non opera la tutela dell’affidamento dell’altro. Perciò il contratto stipulato con estorsione del consenso è sempre annullabile, anche se l’altro contraente ne fosse ignaro. Come per il dolo, anche con riguardo alla violenza morale, la reazione dell’ordinamento, oltre che sull’atto, è contro l’autore della condotta illecita. Perciò, anche ora, all’annullamento del contratto (che è la tipica reazione dell’ordinamento sull’atto), si somma la responsabilità civile a carico dell’autore della violenza (che è la tipica sanzione dell’ordinamento contro il soggetto per l’attività illecita compiuta) con comminatoria dell’obbligo di risarcimento del danno subito dal soggetto minacciato. Al pari del dolo, anche la violenza morale può avere rilevanza penale: può integrare il reato di estorsione ex art. 629 c.p., che punisce chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. Non è causa di annullamento del contratto il c.d. timore reverenziale (art. 1437). È questo uno stato d’animo che, pur incidendo sulla formazione della volontà negoziale, si genera e sviluppa all’interno del soggetto. Nella violenza morale, c’è una pressione psicologica proveniente dall’esterno; viceversa, nel timore reverenziale, la pressione psicologica si genera all’interno del soggetto, per rispetto o servilismo verso l’altra parte. Il timore reverenziale si differenzia anche dalla incapacità di intendere e di volere (art. 428), in quanto in questa non opera alcun tipo di pressione psicologica (né interna, né esterna), ricorrendo solo una inidoneità psico-fisica. Esistono delicate zone di confine tra le tre figure, nelle quali le cesure sono molto labili. Al fondo della irrilevanza del timore reverenziale gioca l’esigenza di certezza del traffico giuridico: non essendosi impiegati raggiri o minacce, è tutelato l’affidamento sulla validità del contratto concluso 39.

C) MODI DI CONCLUSIONE DEL CONTRATTO 13. Scambio di proposta e accettazione. La proposta irrevocabile. – Tecnica generale di conclusione del contratto è lo scambio di proposta e accettazione. Le stesse non sono autonomi negozi ma dichiarazioni unilaterali di volontà (c.d. atti prenegoziali) rivolte alla formazione di un accordo; sono orientate alla realizzazione di un intento comune su un assetto di interessi, che esprime la unitaria volontà negoziale.   39 Ciò spiega perché nel matrimonio, che involge la dimensione esistenziale dei soggetti, il timore assume rilevanza giuridica, potendo il matrimonio essere impugnato da quello dei coniugi il cui consenso è stato estorto con violenza o determinato da timore di eccezionale gravità derivante da cause esterne allo sposo (art. 122).

CAP. 2 – CONCLUSIONE

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Gli autori di tali atti prenegoziali devono essere capaci e sostenuti da una volontà rivolta al compimento di un atto di autonomia privata. Per il carattere strumentale che le connota, proposta e accettazione sono tendenzialmente revocabili fino alla formazione del vincolo contrattuale. Se l’accordo corre tra soggetti presenti, la verifica della conclusione del contratto è più agevole in quanto il consenso è contestuale e contemporaneo: proposta ed accettazione, quand’anche idealmente distinte, si combinano e confondono nell’unità di tempo e di spazio, sovrapponendosi l’una all’altra. Il modo più diffuso di conclusione del contratto è proprio quello della sottoscrizione di dichiarazione congiunta delle parti. Più complessa è la verifica della conclusione del contratto tra soggetti lontani. Assumono ora rilevanza fondamentale le caratteristiche delle dichiarazioni che le parti si scambiano, derivando dall’incontro delle stesse la conclusione del contratto 40. In particolare proposta ed accettazione, come la relativa revoca, sono atti unilaterali recettizi, nel senso che producono effetto dal momento in cui pervengono a conoscenza dei destinatari (art. 1334), con il temperamento della presunzione di conoscenza ex art. 1335 (di cui appresso). Il codice civile regola la scansione di proposta ed accettazione in un percorso procedimentale che si svolge nel tempo. In un’epoca in cui le dichiarazioni si compivano e si scambiavano con mezzi cartacei affidati al servizio postale, che vi provvedeva attraverso servizi di trasporto e recapito, era utile regolare la sorte delle dichiarazioni lungo il tempo dell’arrivo a destino, come era anche utile consentire alle parti di revocarle quando fosse venuto meno l’interesse all’affare nel tempo occorrente all’incrocio delle dichiarazioni. Nell’attualità, in cui le comunicazioni, specie nei rapporti commerciali, sono prevalentemente affidate a mezzi telematici tramite internet, le dichiarazioni di proposta e accettazione hanno assunto il carattere della immediatezza. Non c’è più il problema di gestione del tempo dell’arrivo a destinazione delle dichiarazioni, ma resta il problema di determinazione dell’incontro delle volontà come momento di formazione dell’accordo e dunque del contratto. a) La proposta esprime la iniziativa del contratto: è la offerta di una parte all’altra parte di concludere un contratto relativamente ad un determinato assetto di interessi, sul quale si richiede l’accettazione. La proposta deve essere completa e impegnativa: deve cioè contenere i tratti essenziali del contratto proposto ed esprimere un intento impegnativo di conclusione del contratto 41. Ad es. nella vendita, oltre le parti, vanno indicati anzitutto il bene venduto il prezzo dell’acquisto; è peraltro utile indicare anche le modalità e i tempi di pagamento, la data di consegna ed eventuale presenza di caparra e relativo ammontare. Se la proposta è incompleta in quanto manca un tratto essenziale del contratto (ad es. il proponente acquirente di un bene si limita a comunicare l’intenzione di acquisto senza indicare a quale prezzo) o comunque non integra un impegno vincolante, la dichiarazione si atteggia quale invito ad offrire: in tal caso il destinatario, se intende concludere il contratto, deve   40 Per costante giurisprudenza la stipula per iscritto di contratti d’opera tra pubblica amministrazione e professionisti non può avvenire a mezzo di scambio di corrispondenza, ma richiede la contestualità delle rispettive dichiarazioni di volontà delle parti (Cass. 2-8-2006, n. 17551). 41 Se la proposta esprime una disponibilità dell’autore senza la volontà di esporsi al vincolo contrattuale se non dopo ulteriori passaggi valutativi, non dà al destinatario il potere di determinare con l’accettazione la conclusione del contratto (Cass. 7-7-2009, n. 15964).

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PARTE VIII – CONTRATTO 

formulare una sua proposta (nell’esempio fatto, deve indicare la sua offerta a vendere il bene ad un determinato prezzo). Sono frequenti inserzioni pubblicitarie su giornali o a mezzo internet di vendita di immobili, auto, apparecchiature, ecc., che non indicano gli estremi essenziali del contratto. Il proponente può fissare un termine entro il quale il destinatario può far pervenire l’accettazione; in mancanza, la determinazione del termine opera secondo la natura dell’affare o gli usi. Scaduto il termine indicato dal preponente o evinto dagli usi, il proponente può comunque ritenere efficace l’accettazione tardiva, dandone avviso all’accettante. La proposta semplice è revocabile fino a quando il contratto non è concluso; tuttavia, se l’accettante ha intrapreso in buona fede l’esecuzione del contratto prima di avere avuto notizia della revoca, il proponente è tenuto ad indennizzarlo delle spese e delle perdite subite per l’iniziata esecuzione del contratto (art. 13281) 42: in mancanza di avviso di ritenere efficace l’accettazione tardiva, il proponente risponde per i danni subiti dall’accettante che in buona fede aveva dato esecuzione al contratto nella convinzione della conclusione del contratto. Una specifica funzione assume la proposta irrevocabile (anche detta proposta ferma). Se il proponente si obbliga a mantenere ferma la proposta per un certo tempo, la revoca è senza effetto (art. 13291). La tutela dell’affidamento del destinatario della proposta irrevocabile prevale sul rispetto della persistenza della volontà del proponente 43. La irrevocabilità esprime un impegno unilaterale del proponente, connesso alla proposta anch’essa unilaterale. La proposta ferma (o irrevocabile) è anche una proposta a termine, non consentendosi nell’ordinamento un impegno perpetuo. Nel termine indicato il destinatario della proposta irrevocabile ha il diritto (non l’obbligo) di concludere il contratto con l’accettazione, senza che il proponente possa revocare la proposta; fino allo scadere del termine di irrevocabilità, la morte o la sopravvenuta incapacità del proponente non toglie efficacia alla proposta, salvo che la natura dell’affare o altre circostanze escludano tale efficacia (art. 13292). La eventuale revoca della proposta resta senza effetto, non impedendo il perfezionamento del contratto in dipendenza dell’accettazione dell’altra parte. Il termine di efficacia dell’accettazione della proposta semplice si distingue dal termine di efficacia della proposta irrevocabile. Il termine di efficacia dell’accettazione derivante dalla proposta semplice (fissato dal proponente o evinto dagli usi) indica il lasso di tempo entro il quale deve pervenire al proponente la dichiarazione di accettazione; invece il termine di efficacia della proposta irrevocabile indica il lasso di tempo di non   42

Secondo un precedente orientamento, per il combinato disposto degli artt. 1326, 1328, 1334 e 1335 c.c., la revoca della proposta di contratto, quale atto unilaterale recettizio, non produce effetto quando sia pervenuta all’accettante dopo la conclusione del contratto, ossia dopo l’arrivo all’indirizzo del proponente dell’accettazione della controparte (Cass. 16-5-2000, n. 6323). Si è successivamente affermato che la revoca si perfeziona quando sia spedita all’indirizzo dell’accettante, prima che l’accettazione sia giunta a conoscenza del proponente, mentre resta irrilevante che l’accettante ne abbia notizia in un momento successivo a quello in cui l’accettazione sia giunta a conoscenza del preponente; l’affidamento dell’accettante resta tutelato dalla previsione di un indennizzo a carico del proponente per le spese e le eventuali perdite subite dall’accettante per l’iniziata esecuzione del contratto (Cass. 15-4-2016, n. 7543). 43 Il termine entro il quale il proponente si obbliga a mantenere ferma la proposta costituisce elemento essenziale della proposta irrevocabile, ed è fissato dallo stesso proponente; in mancanza di determinazione, la proposta va considerata pura e semplice, ed è revocabile finché il contratto non sia concluso (Cass. 2-10-2014, n. 20853).

CAP. 2 – CONCLUSIONE

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revocabilità della proposta e cioè di fermezza della proposta. La privazione degli effetti di una eventuale revoca della proposta ha lo scopo di accordare al destinatario della proposta un predeterminato e certo lasso di tempo per l’accettazione. Scaduto il termine di fermezza della proposta, senza che sia pervenuta accettazione, la proposta torna ad essere semplice e quindi revocabile 44. Il termine di irrevocabilità (ex art. 1329) non deve necessariamente coincidere con il termine di efficacia della proposta (ex art. 13262): con la previsione del termine di irrevocabilità (art. 1329) la proposta rimane irrevocabile fino alla scadenza di tale termine; successivamente la proposta diviene revocabile, tranne che, per il tempo trascorso, non debba considerarsi scaduto anche il termine di efficacia della proposta 45. È prassi peraltro fare coincidere il termine di impegno della proposta con quello di irrevocabilità. La proposta di contratto da cui derivano obbligazioni a carico del solo proponente è per legge irrevocabile appena giunge al destinatario, il quale può rifiutarla nel termine richiesto dalla natura dell’affare o dagli usi: in mancanza il contratto è concluso (art. 1333) (VIII, 2.18). È dibattuta la natura giuridica della proposta irrevocabile, quale autonomo negozio unilaterale o come rinunzia alla revoca o come partecipe di un procedimento. La dichiarazione di irrevocabilità ha una funzione rafforzativa della proposta semplice, senza snaturarne la natura di unitario atto unilaterale prenegoziale: trattasi di una proposta qualificata per la sua non revocabilità entro un determinato termine. Si comprende pertanto come si riveli essenziale la determinazione del termine di irrevocabilità della proposta, alla cui scadenza viene meno il rafforzamento della proposta, la quale continua a rilevare ed essere efficace fino alla naturale scadenza 46. b) L’accettazione è la dichiarazione di consenso alla proposta e dunque all’assetto di interessi divisato dal proponente: l’accettazione deve essere conforme alla proposta e tempestiva 47. Un’accettazione non conforme alla proposta equivale a nuova proposta (art. 13265), non essendosi realizzata la concordanza su un assetto di interessi 48: il destinata  44 Ove si pattuisca che il termine entro il quale la proposta deve rimanere ferma coincida con la sottoscrizione del contratto preliminare di vendita o, in difetto, con il rogito notarile di trasferimento della proprietà, deve negarsi l’esistenza di una proposta irrevocabile perché tale fattispecie presuppone che alla scadenza del termine il proponente riacquisti la possibilità di esercitare la facoltà di revoca (Cass. 2-8-2010, n. 18001). 45 È dibattuta la sorte della proposta irrevocabile in assenza della indicazione del termine di irrevocabilità. Deve ammettersi il ricorso al giudice per la fissazione del termine, secondo la regola generale dell’art. 1183, applicata in tema di opzione (art. 13312). In mancanza di intervento giudiziale, è da ritenere che la mancata previsione di tale termine (art. 1329) renda la proposta irrevocabile fino allo scadere del comune termine di efficacia della proposta (art. 13262). Ma non manca chi ritiene che, in mancanza della indicazione del termine, la proposta irrevocabile operi come una proposta semplice. 46 Ove il termine entro il quale la proposta deve rimanere ferma coincida con la sottoscrizione del contratto preliminare di vendita o, in difetto, con il rogito notarile di trasferimento della proprietà, deve negarsi l’esistenza di una proposta irrevocabile perché tale fattispecie presuppone che alla scadenza del termine il proponente riacquisti la possibilità di esercitare la facoltà di revoca (Cass. 2-8-2010, n. 18001). 47 Non è necessaria una formulazione rituale dell’accettazione: qualora, con la proposta formulata in un documento, la parte, indicando gli elementi essenziali del negozio, abbia manifestato la volontà di concludere il contratto alle condizioni ivi stabilite, la sottoscrizione del documento apposta dalla controparte senza alcuna modifica o integrazione, essendo espressione della volontà di aderire alla proposta, vale come accettazione (Cass. 31-3-2011, n. 7420). 48 L’accettazione della proposta contrattuale di compravendita, anche ove quest’ultima sia irrevocabile in forza di un patto d’opzione, è idonea a segnare il perfezionamento del contratto, e quindi a spiegare effetto  traslativo della proprietà della cosa venduta, non soltanto quando il prezzo sia stabilito in detta proposta o in

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PARTE VIII – CONTRATTO 

rio che formula un’accettazione difforme dalla proposta diventa nuovo proponente e l’originario proponente assume la veste di destinatario della nuova proposta, e così di seguito, fino alla formazione di un accordo 49. L’accettazione deve giungere al proponente nel termine indicato o in quello ordinariamente necessario secondo la natura dell’affare o secondo gli usi (art. 13262). La dimensione temporale influenza l’interesse all’operazione economica: ciò che poteva riuscire utile al proponente ad una data epoca potrebbe non esserlo più dopo molto tempo (l’immobile che aveva proposto di acquistare in quella città non è più di utilità essendo stato trasferito per il lavoro in altra città; il bene che aveva proposto di acquistare è divenuto nel frattempo obsoleto; il macchinario che voleva destinare all’impresa non interessa più per avere dismesso quella catena di produzione; ecc.). In ogni caso il proponente può sempre considerare efficace l’accettazione tardiva, purché ne dia immediatamente avviso all’altra parte (art. 13263). Succedendosi più proposte, è nella libertà del destinatario accettare la proposta considerata più conveniente 50, tranne che questa sia stata revocata dal proponente prima dell’accettazione, che conclude il contratto. Anche l’accettazione è revocabile, purché la revoca giunga a conoscenza del proponente prima dell’accettazione (art. 13282). c) Sussistono alcuni tratti comuni. Di regola, se non è prevista una forma vincolata, proposta e accettazione possono essere dichiarate in qualsiasi forma. Per i contratti che devono farsi per iscritto sotto pena di nullità (art. 1351), come ad es. la vendita immobiliare, anche proposta e accettazione devono avere la medesima forma 51. Se il proponente richiede per l’accettazione una forma determinata, l’accettazione non ha effetto se è data in forma diversa (art. 13264); il proponente può peraltro rinunciare a detta forma, ritenendo sufficiente un’adesione manifestata in modo diverso. In ogni caso la forma vincolata non implica la necessaria contestualità di proposta e accettazione, potendo il consenso formarsi anche con lo scambio delle dichiarazioni, purché entrambe abbiano la forma solenne richiesta (VIII, 4.2). Essendo atti prenegoziali sono revocabili, nei limiti indicati; diversamente dai negozi unilaterali, che sono irrevocabili quando giungono al destinatario (es. recesso, disdetta) (ex artt. 1334 e 1335), salva diversa volontà concorde delle parti. La morte o l’incapacità successiva di una delle parti prima della formazione dell’accordo impedisce la conclusione del contratto. Tale tradizionale regola della c.d. caduca 

quel patto d’opzione, ma anche quando sia determinabile alla stregua di criteri, riferimenti o parametri precostituiti, così che la sua successiva concreta quantificazione sia ricollegabile ad un’attività delle parti di tipo meramente attuativo e ricognitivo (Cass. 19-1-2017, n. 1332). 49 La modifica, da parte dell’accettante, del termine per l’esecuzione indicato nella proposta, implicando la realizzazione di un assetto d’interessi sostanzialmente diverso da quello indicato dal proponente, specie in caso di attribuzione, anche implicita, di essenzialità al nuovo termine, si configura, ai sensi dell’art. 1326, ult. comma, come nuova proposta, con conseguente necessità di accettazione dell’originario proponente (Cass. 15-5-2019, n. 12899). 50 In difetto di obblighi insorgenti da una precorsa trattativa, il destinatario di proposte plurime è libero di accettare la proposta ravvisata preferibile in base a considerazioni anche prescindenti da valutazioni di carattere meramente economico (Cass. 28-2-2019, n. 5834). 51 È stato costantemente ribadito che nei contratti che richiedono la forma scritta ad substantiam (come la vendita immobiliare), la conclusione tra persone lontane postula che alla proposta in forma scritta segua l’accettazione anche essa in forma scritta (Cass. 22-3-2017, n. 7313; Cass. 2712/1996; Cass. 5370/1989).

CAP. 2 – CONCLUSIONE

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zione della proposta e dell’accettazione, maggiormente orientata alla tutela della persistenza della volontà delle parti fino all’accordo, incontra però due fondamentali deroghe che la svalutano fortemente, in favore di una tutela dei traffici. Anzitutto, come si è visto, la morte e la sopravvenuta incapacità del proponente non tolgono efficacia alla proposta irrevocabile, salvo che la natura dell’affare o altre circostanze ne tolgano efficacia (art. 13292). Inoltre sia la proposta che l’accettazione, quando sono fatte da un imprenditore nell’esercizio della sua impresa, non perdono efficacia se l’imprenditore muore o diviene incapace prima della conclusione del contratto, salvo che si tratti di piccolo imprenditore o che diversamente risulti dalla natura dell’affare o da altre circostanze (art. 1330). La sussistenza di un’organizzazione imprenditoriale travalica la vicenda personale dei soggetti: prevale l’esigenza di continuità dell’attività di impresa. Spetterà, rispettivamente, agli eredi e ai rappresentanti legali dell’imprenditore ogni decisione di convenienza circa l’utilità dell’affare. d) La conclusione del contratto avviene nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell’accettazione dell’altra parte (art. 13261): cioè quando l’accettazione (conforme alla proposta e tempestiva) è portata a conoscenza del proponente 52. La norma è da collegare all’art. 1334, secondo cui gli atti unilaterali producono effetto quando pervengono a conoscenza del destinatario (c.d. atti unilaterali recettizi). Da entrambe le norme si ricava che il nostro legislatore, per la efficacia di una dichiarazione unilaterale, ha attribuito rilevanza alla conoscenza della stessa da parte del destinatario: è il c.d. principio cognitivo o della conoscenza. Tale principio opera però con il fondamentale temperamento della c.d. presunzione di conoscenza, per cui la proposta, l’accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta ad una determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario 53, salvo che questi non provi che, senza sua colpa, era nella impossibilità di prenderne conoscenza (art. 1335) (es. era ricoverato in ospedale). È dunque sufficiente che la dichiarazione (e quindi il plico che la contiene) pervenga nella sfera di influenza del destinatario, come tale conoscibile dallo stesso (es. residenza, domicilio commerciale o fiscale o anche elettronico, sede dell’azienda); non è essenziale che la dichiarazione sia ricevuta personalmente dal destinatario. In tal modo il principio cognitivo rimane attenuato da un criterio ricettivo, atteggiandosi come principio di presun  52 Nei contratti conclusi per telefono, luogo della conclusione è quello in cui l’accettazione giunge a conoscenza del proponente ed in cui questi, attraverso il filo telefonico, ha immediata e diretta conoscenza dell’accettazione; in tale luogo si radica il primo dei fori alternativi previsti dall’art. 20 c.p.c. (Cass. 14-7-2009, n. 16417). Nei contratti redatti con la forma solenne dell’atto notarile, ai fini della individuazione del foro facoltativo del luogo in cui è sorta l’obbligazione ex art. 20 c.p.c., il luogo della conclusione del contratto coincide con quello in cui le parti hanno sottoscritto l’atto davanti al notaio, assumendo il precedente scambio di missive tra i professionisti incaricati dalle parti valore meramente interlocutorio nell’ambito del procedimento di formazione del consenso (Cass. 5-11-2019, n. 28403). 53 Ai fini dell’operatività della presunzione di conoscenza degli atti negoziali ai sensi dell’art. 1335 c.c., l’indirizzo del destinatario, presso il quale deve giungere la dichiarazione recettizia, non necessariamente coincide con i luoghi di individuazione delle persone fisiche (domicilio, residenza, dimora) o degli enti collettivi (sede), potendo identificarsi in un diverso luogo preventivamente indicato dal destinatario, in ragione di un collegamento di altra natura, e pertanto rientrante nella propria sfera di dominio e di controllo (la S.C. ha ritenuto efficace la disdetta del contratto di locazione inviata dal locatore alla società conduttrice presso l’indirizzo, da questa eletto nel contratto, coincidente con l’immobile locato, ancorché, al momento del recapito della dichiarazione, la destinataria non lo occupasse più, avendo ceduto l’azienda ivi esercitata) (Cass. 19-7-2019, n. 19524).

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PARTE VIII – CONTRATTO 

zione cognitiva. Al dichiarante che invoca l’efficacia della dichiarazione è sufficiente provare che la stessa sia giunta all’indirizzo del destinatario 54: è onere del destinatario provare che, nonostante l’arrivo della dichiarazione al suo indirizzo, era nella impossibilità di prenderne conoscenza. Se il principio cognitivo operasse in via assoluta, deriverebbe sì una maggiore garanzia per il destinatario, ma si presterebbe anche a facili aggiramenti (potendo sempre il destinatario addurre di non avere avuto conoscenza della dichiarazione inviatagli), con evidenti intralci nella vita economica. Il temperamento della presunzione di conoscenza evita facili aggiramenti, offrendo rilevanza alle sole ipotesi di effettiva impossibilità di conoscenza 55. Come si vedrà, la verifica della formazione dell’accordo risulta più complessa nelle ipotesi di formazione progressiva del contratto, specie rispetto a puntuazioni, minute e lettere di intenti, dovendosi verificare se e in quale momento il contratto è concluso (par. 21).

14. Offerta al pubblico. – È una proposta indirizzata ad una generalità di persone (in incertam personam). Vale come proposta quando contiene gli estremi essenziali del contratto alla cui conclusione è diretta, salvo che risulti diversamente dalle circostanze o dagli usi (art. 13361). Per non essere indirizzata ad un soggetto determinato, l’offerta al pubblico non integra un atto recettizio: non deve essere portata a conoscenza dei terzi per avere efficacia, essendo sufficiente che sia resa conoscibile. Il contratto è concluso con l’accettazione di chi è interessato alla proposta (offerta) formulata. Sono esempi di offerta al pubblico i molti dispositivi meccanici automatici che espongono, insieme, la merce e il prezzo di acquisto, sicché è sufficiente introdurre il danaro richiesto per ottenere la merce esposta. Altri esempi sono i c.d. parcheggi automatici di veicoli, ai quali si accede attraverso meccanismi automatici di pagamento della prestazione e prelievo del veicolo. Per le circostanze nelle quali tali contegni sono tenuti, gli stessi assumono il significato sociale di orientarsi verso lo scambio di un bene o un servizio, con accettazione dell’offerta. Significativi esempi provengono dall’area finanziaria, attraverso le “offerte pubbliche di acquisto o di scambio” di strumenti finanziari, sotto il controllo della Consob (artt. 102 ss. D.Lgs. 24.2.1998, n. 58, TUF). Al meccanismo dell’offerta al pubblico sono anche ricondotti i bandi di concorso per l’assunzione di lavoratori 56 e i bandi di gara indet  54 Nel caso di contestazione dell’atto comunicato a mezzo raccomandata, la prova dell’arrivo di questa fa presumere, ex art. 1335 c.c., l’invio e la conoscenza dell’atto, spettando al destinatario, in conformità al principio di “vicinanza della prova”, l’onere di dimostrare che il plico non conteneva l’avviso; ove il mittente affermi di averne inserito più di uno e il destinatario contesti tale circostanza, grava sul mittente l’onere di provare l’intervenuta notifica e, quindi, il fatto che tutti gli atti fossero contenuti nel plico, in quanto, secondo l’id quod plerumque accidit, ad ogni atto da comunicare corrisponde una singola spedizione (Cass. 26-11-2019, n. 30787; Cass. 24-11-2004, n. 22133; Cass. 13-4-2006, n. 8649). 55 L’art. 1335 è di riferimento per tutte le dichiarazione che devono pervenire ad un destinatario, anche in materia tributaria dove il tema della notifica degli atti dell’amministrazione finanziaria è ricorrente: spetta al destinatario l’onere di dimostrare che il plico non conteneva alcuna lettera al suo interno, ovvero che esso conteneva una lettera di contenuto diverso da quello indicato dal mittente: proprio dalla prova contraria che il destinatario dell’atto è tenuto a fornire deriva la presunzione legale di conoscenza dell’atto che è estesa anche al contenuto del plico” (Cass. 28-10-2016, n. 21852; Cass. 7-5-2015, n. 9246; Cass. 12-5-2015, n. 9533). 56 Il bando di concorso per l’assunzione di lavoratori, ove contenga gli elementi del contratto alla cui conclusione è diretto, in quanto preordinato alla stipulazione di contratti di lavoro che esigono il consenso delle  

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ti da privati o da pubbliche amministrazioni 57 per la stipulazione di contratti: il soggetto (pubblico o privato) che indice il bando è tenuto all’osservanza, oltre che delle normative di riferimento, anche della disciplina del bando (autonomamente assunta) quale contenuto dell’offerta e del generale dovere di buona fede 58. La sufficienza della conoscibilità della proposta si riflette sulla natura della revoca. Non essendo note le persone che abbiano potuto apprenderne la conoscenza, la revoca dell’offerta non è indirizzabile individualmente: è sufficiente che sia resa conoscibile, indipendentemente dalla conoscenza effettiva. Al pari dell’offerta, anche la revoca non è recettizia: la revoca dell’offerta al pubblico, quando è fatta nella stessa forma dell’offerta o in altra equipollente, è efficace anche verso chi non ne ha avuto notizia (art. 13362). L’offerta al pubblico si differenzia dalla promessa al pubblico (art. 1989), essendo questa un negozio unilaterale, di per sé fonte di obbligazione (XI, 1.2).

15. Il contratto aperto. – Si è anticipato e ancora si parlerà in seguito dei contratti con comunione d i scopo, con i quali si tende a realizzare un interesse comune a tutte le parti del contratto (VIII, 3.18). Tali contratti possono aprirsi all’esterno mediante la previsione di una c.d. clausola di apertura. È il fenomeno tipico delle organizzazioni collettive (associazioni, società specie cooperative, ecc.), al fine di incrementare la compagine sociale (o anche solo accrescere i fondi). La clausola di apertura vale anche a denotare il pluralismo sociale delle moderne democrazie 59. Il carattere “aperto” tipicamente connota i contratti plurilaterali. Con la clausola di apertura i contraenti originari offrono la possibilità ad altri soggetti di aderire al contratto originario, accettandone i fini e l’organizzazione interna, risultanti dall’atto costitutivo e dallo statuto. L’apertura può riguardare la generalità dei soggetti o specifiche categorie di soggetti con determinate caratteristiche (professionali, culturali, ecc.), operando in ogni caso come offerta al pubblico. Più raramente l’apertura fa riferimento a soggetti predeterminati: in tal caso opera come una normale offerta (proposta) contrattuale.  

controparti, costituisce un’offerta al pubblico, ai sensi dell’art. 1336 c.c., di cui è inammissibile l’integrazione o modifica in epoca successiva all’inizio del percorso di selezione, determinandosi, in caso contrario, un’alterazione della disciplina prevista per lo svolgimento della procedura (Cass. 27-12-2019, n. 34544; Cass. 17-1-2020, n. 983; Cass. 6-6-2007, n. 13273). 57 Nei contratti stipulati dalla P.A. con il sistema dell’asta pubblica, l’atto di aggiudicazione rappresenta un atto di accertamento dell’avvenuta formazione dell’accordo in virtù dell’incontro della proposta dell’amministrazione contenuta nel bando, e costituente proposta al pubblico ai sensi dell’art. 1336 c.c., con quella del miglior offerente (Cass. 11-6-2004, n. 11103). 58 Ove il datore di lavoro provveda alla copertura di posti attraverso il sistema del concorso interno e abbia, a questo fine, pubblicato un bando che contenga tutti gli elementi essenziali, sono rinvenibili in un comportamento siffatto gli estremi propri di un’offerta al pubblico, che impegna l’azienda non solo al rispetto delle norme con le quali essa stessa ha autodisciplinato la propria discrezionalità, ma anche ad adempiere a tale obbligazione secondo i principi di correttezza e buona fede, con piena possibilità di controllo giurisdizionale, che intervenendo su scelte imprenditoriali autonomamente compiute, non limita in alcun modo la libertà d’iniziativa economica e soltanto verifica l’osservanza di impegni legittimamente assunti (Cass. 15-12-2006, n. 26892). Con la conseguenza che, in caso di violazione dei detti obblighi, il datore di lavoro incorre in responsabilità contrattuale per inadempimento, esponendosi al risarcimento del danno in favore del lavoratore che abbia subito la lesione del suo diritto conseguente all’espletamento della procedura concorsuale (Cass. 19-4-2006, n. 9049). 59 È una caratteristica dei gruppi organizzati senza scopo di lucro (partiti, sindacati, organizzazioni di volontariato e in generale il mondo del non profit) fare proselitismo e dunque aprirsi alle adesioni più ampie possibili.

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PARTE VIII – CONTRATTO 

L’adesione al contratto vale accettazione. Se non sono determinate le modalità dell’adesione, questa deve essere diretta all’organo costituito per l’attuazione del contratto o, in mancanza, a tutti i contraenti originari (art. 1332). L’organo a ciò deputato è normalmente il consiglio di amministrazione, cui spetta l’attuazione del contratto. Le adesioni sono assoggettate a verifica da parte dell’organo a ciò destinato per statuto o, in mancanza, dalla totalità degli associati. L’atto di accoglimento di regola si limita a verificare il ricorso dei presupposti per l’ammissione: è un controllo di conformità dell’adesione all’offerta (proposta) contenuta nella clausola di apertura. Qualora l’adesione non sia conforme all’offerta, per non ricorrere i requisiti di adesione predeterminati, la richiesta di adesione vale (a sua volta) come proposta (ex art. 13265), che, per essere accolta, richiede l’accettazione da parte del gruppo.

16. Conclusione senza apposita accettazione. – Sono sempre più numerose le ipotesi nelle quali si realizza un regolamento di interessi tra due parti senza il ricorso alle tecniche della formale proposta e accettazione, ma solo attraverso il contegno delle parti che assume un valore sociale tipico giuridicamente rilevante. Nel codice civile sono previste due ipotesi, per le quali è attribuito a specifici comportamenti un significato legale tipico. a) Esecuzione prima dell’accettazione. Qualora, su richiesta del proponente o per la natura dell’affare o secondo gli usi, la prestazione debba eseguirsi senza una preventiva risposta, il contratto è concluso nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio l’esecuzione (art. 13271). È un meccanismo di conclusione del contratto che deroga alla regola dello scambio delle dichiarazioni, consentendo, da un lato, che l’esecuzione del contratto possa intervenire prima dell’accettazione, e dall’altro che l’inizio dell’esecuzione determini la conclusione del contratto. Di regola l’esecuzione segue la conclusione del contratto: il proponente deve essere a conoscenza dell’accettazione prima dell’esecuzione per predisporsi a ricevere la prestazione della controparte. Perciò la fattispecie è circoscritta dalla legge a tre ipotesi tipiche tassativamente previste: richiesta del proponente, natura dell’affare, presenza di usi. La legge valorizza un comportamento concludente del destinatario della proposta, che, con l’inizio dell’esecuzione, mostra di volere concludere il contratto. Il fenomeno è frequente nei rapporti commerciali, per la natura di tali affari di comportare una pronta realizzazione. Ad es., nelle vendite tra piazze diverse, è prassi che il venditore, ricevuta la proposta di acquisto dal compratore e trovatala conveniente, invii senz’altro la merce prima della risposta 60; nelle vendite a distanza mediante invio di ordini predisposti dal venditore (come ordinazioni di libri, dischi e altro), è usuale che l’impresa venditrice provveda alla spedizione appena ricevuto l’ordine di acquisto (tanto più quando vi è anche pagamento con carta di credito). La conclusione del contratto nel luogo di inizio della esecuzione comporta anche che in tale luogo si radichi la competenza territoriale facoltativa ex art. 20 c.p.c. 61.   60 Nelle vendite tra piazze diverse stipulate tra commercianti, quando l’ordinazione venga fatta mediante moduli di commissione predisposti da parte venditrice, ai fini della conclusione del contratto basta che ne sia data esecuzione con la consegna della merce al vettore o allo spedizioniere per l’inoltro all’acquirente; con la conseguenza che, qualora non vi sia prova di una preventiva risposta di accettazione, luogo di conclusione del contratto, per la determinazione della competenza territoriale, è quello in cui è avvenuta detta consegna (Cass. 27-8-2003, n. 12585; Cass. 11-10-2002, n. 14565). 61 Con riferimento alla disciplina dell’art. 1327 c.c. il forum contractus, che individua la competenza ai sen 

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L’accettante deve dare prontamente avviso alla controparte della iniziata esecuzione e, in mancanza, è tenuto al risarcimento danni (13272). Il proponente, non avvertito dell’accettazione, potrebbe non essere pronto a ricevere la prestazione (nell’esempio fatto il compratore potrebbe non avere gli spazi disponibili a ricevere la merce inviatagli dal venditore). In tal caso l’accettante è tenuto a risarcire i danni sofferti dal proponente per riceversi la prestazione. Il meccanismo predisposto dall’art. 1327 non può operare in presenza di contratti solenni, che cioè richiedono una forma vincolata. In tal caso, nonostante il ricorso di una delle tre ipotesi previste dall’art. 1327, la mancata accettazione con la forma richiesta ad substantiam rende comunque nullo il contratto 62. b) Obbligazioni del solo proponente. La proposta diretta a concludere un contratto da cui derivano obbligazioni solo per il proponente è irrevocabile appena giunge a conoscenza del destinatario (c.d. oblato) (art. 13331). Il destinatario può rifiutare la proposta nel termine richiesto dalla natura dell’affare o dagli usi; in mancanza del rifiuto, il contratto è concluso (art. 13332). Il meccanismo si caratterizza per risiedere il carico economico dell’operazione sul solo proponente, mentre al destinatario della proposta derivano esclusivamente vantaggi. Il fenomeno opera di frequente nelle assunzioni di garanzie: ad es., per l’art. 1936, è fideiussore colui che, obbligandosi personalmente verso il creditore, garantisce l’adempimento di un’obbligazione altrui 63; analogamente l’assunzione del debito altrui per espromissione (art. 1272). È dubbio con riguardo all’attribuzione di diritti reali, per gli oneri che normalmente vi si connettono 64. Nonostante che la rubrica dell’articolo parli di “contratto con obbligazioni a carico di una sola parte”, e che il testo della norma preveda che, in assenza di rifiuto, “il contratto è concluso”, è fortemente dibattuta la struttura di tali atti, se cioè trattasi effettivamente di struttura bilaterale (contrattuale), come la formula indica, o di struttura unilaterale (negozio unilaterale), come la funzione suggerisce. La giurisprudenza tende a conformarsi alla lettera della legge, qualificando il mancato rifiuto come accettazione tacita, secondo peraltro il tradizionale indirizzo dottrinale. Derivando dal contratto obbligazioni a carico del solo proponente, il silenzio del destinatario è considerato come comportamento concludente favorevole alla formazione del contratto 65.  

si dell’art. 20 c.p.c., deve intendersi, allorché si verta in ipotesi di contratto di trasporto e salvo che non siano previste preventive prestazioni accessorie a carico del trasportatore, coincidente con quello del luogo in cui avviene il caricamento della merce da trasportare, poiché in tale luogo si verifica l’inizio dell’esecuzione del contratto (Cass. 15-7-2009, n. 16446). 62 Il meccanismo ex art. 1327 non può operare con riguardo ai contratti (anche di diritto privato) della pubblica amministrazione, richiedendosi per tali contratti la forma scritta ad substantiam; la volontà di obbligarsi da parte della P.A. non può implicitamente desumersi da atti o fatti concludenti: Cass. 15-3-2004, n. 5234; Cass. 12-7-2001, n. 9428. 63 Si pensi anche ad una lettera di patronage con la quale il patrocinante assume degli impegni nei confronti del creditore (Cass. 3-4-2001, n. 4888). 64 L’art. 1333 è applicabile anche ai contratti con effetti traslativi da una sola parte, purché si tratti di attribuzioni traslative che non comportino alcun onere od obbligo per il beneficiario; la presenza di un pregiudizio anche solo potenziale – oneri di custodia, gestione, tributari – anche se discendono dalla legge e non dal contratto, comporta la necessaria accettazione del destinatario della proposta: consegue l’inapplicabilità della norma alla costituzione del diritto di usufrutto (Cass. 18-6-2018, n. 15997). 65 La ratio dell’art. 13332 comporta che l’inefficacia della proposta possa desumersi, oltre che da un rifiuto  

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PARTE VIII – CONTRATTO 

La modalità di svolgimento del fenomeno induce però ad una diversa ricostruzione. La previsione di irrevocabilità della proposta, appena giunge a conoscenza del destinatario, fa coincidere il termine di irrevocabilità con il termine di efficacia della proposta, in deroga alla generale disciplina di normale revocabilità della proposta fino alla conclusione del contratto (art. 1328) (di cui si è parlato innanzi). Altra anomalia rispetto alla regola generale è che il termine di irrevocabilità della proposta è mutuato dal termine di rifiuto del destinatario (richiesto dalla natura dell’affare o dagli usi). È dunque una proposta rafforzata dalla irrevocabilità, che esprime l’intento attributivo irretrattabile dell’autore dell’atto: la mancata richiesta di accettazione da parte del destinatario è giustificata dalla congiunta circostanza di gratuità dell’attribuzione e di irretrattabilità della stessa, perciò tendenzialmente accolta dal destinatario. Si rivela perciò più appropriata la ricostruzione della figura come negozio unilaterale recettizio, funzionalmente rivolto ad incrementare il patrimonio del destinatario, accordando allo stesso un beneficio, che, come di regola, non può realizzarsi contro la volontà del beneficiario che non vuole profittarne. Il diritto accordato all’oblato di “rifiutare la proposta” garantisce allo stesso il diritto di non subire un effetto (ancorché favorevole) non voluto (invito beneficium non datur). È il generale principio di tendenziale indipendenza delle sfere giuridiche, per cui nessuno può incidere la sfera giuridica altrui contro la volontà del titolare che non vuole profittarne (VIII, 6.9). Sulla scorta di tale previsione è possibile, in generale, delineare la distinzione tecnica tra rinunzia e rifiuto. La rinunzia presuppone la titolarità del diritto: è un negozio unilaterale rivolto a dismettere la titolarità del diritto dalla propria sfera giuridica con la produzione di un effetto abdicativo. Il rifiuto è negozio unilaterale di diniego di un effetto favorevole: non intendendo il destinatario profittare dello stesso ne impedisce l’acquisizione nella propria sfera giuridica. Esce così erosa la diffusa qualifica dei contratti con obbligazioni a carico di una sola parte quali contratti unilaterali per la derivazione delle obbligazioni da una sola parte. La dichiarazione del beneficiario è solo a presidio della sua sfera giuridica, una sorta di scudo contro la invasione non voluta della stessa.

17. Predisposizione di condizioni generali di contratto (contratti per adesione tra codice civile e codice del consumo). – Una esigenza di programmazione e razionalizzazione delle scelte imprenditoriali ha condotto da tempo alla standardizzazione contrattuale attraverso l’impiego di moduli e formulari (spesso elaborati da associazioni di categoria), con predisposizione unilaterale di condizioni generali di contratto. È la tecnica propria dei contratti per adesione, per cui una parte aderisce ad un contratto di serie predisposto dall’altra parte 66. È un terreno dove massimamente è intervenuta la norma 

espresso, anche da un comportamento del destinatario, inequivocabilmente apprezzabile come dettato dalla volontà di non avvalersi dell’effetto favorevole (Cass. 4-9-2001, n. 11391). 66 La ricostruzione del fenomeno è da tempo dibattuta. È emersa una teoria normativa, nel senso che il predisponente detta le regole del contratto; ma rimane il dato innegabile che il consenso dell’altro contraente è comunque essenziale perché tali regole possano operare. Si è perciò preferito non discostarsi da una teoria contrattualistica che radica comunque nell’accordo il fondamento delle condizioni del contratto. Bisogna accedere ad un ricostruzione composita del fenomeno, che tiene conto della complessiva realtà: sicuramente il contraente aderente non partecipa alla elaborazione delle condizioni del contratto, però volontariamente e quindi con il suo consenso assume il vincolo contrattuale, dal quale derivano le condizioni del contratto; il problema è quello della tutela rispetto al contenuto del contratto essendosi la sua autonomia privata dispiegata solo con riferimento all’assunzione del vincolo contrattuale.

CAP. 2 – CONCLUSIONE

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tiva europea, che però non è penetrata nel codice civile, con la conseguenza che, alla generale normativa del codice civile, si è affiancata la nuova disciplina confluita nel codice del consumo, determinandosi un doppio regime dei contratti per adesione. a) Codice civile. L’ispirazione della normativa del codice civile è di semplificazione della conclusione del contratto, con la previsione di strumenti finalizzati alla conoscenza delle clausole maggiormente onerose, nella convinzione che il contraente aderente, debitamente informato, sia in grado di valutare la convenienza della conclusione del contratto. È peraltro introdotta una presunzione di conoscenza per favorire la conclusione del contratto: per l’art. 13411 le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti sono efficaci nei confronti dell’altro se, al momento della conclusione del contratto, “questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza”. In tal guisa il generale criterio della conoscenza del regolamento contrattuale previsto dall’art. 1326 (sebbene temperato dalla presunzione di conoscenza dell’art. 1335) è sostituito da quello della conoscibilità, a tutto vantaggio del predisponente: l’aderente rimane vincolato anche per condizioni generali che non ha effettivamente conosciuto e dunque accettato, ma che risultino conoscibili nel caso di specie. Con una interpretazione orientata alla tutela del contraente aderente, la “conoscibilità” è stata intesa come notorietà della esistenza delle condizioni generali e intelligibilità del relativo contenuto. Sono apprestati tre meccanismi di tutela del contraente aderente, che, peraltro, trovano applicazione quando ricorrono, insieme, una predisposizione unilaterale del contratto 67 e un impiego seriale del medesimo contratto 68. La Cassazione ha ritenuto applicabile la complessiva normativa anche ai contratti predisposti dalla pubblica amministrazione, sempre che ricorra la generalità della predisposizione 69. 1) Specifica approvazione per iscritto delle clausole vessatorie . Sono le clausole considerate particolarmente onerose per il contraente aderente e dalla stessa legge   67 Un fenomeno di predisposizione non è configurabile nella stipulazione di un contratto collettivo di lavoro, alla cui formazione concorrano in condizioni di parità le contrapposte associazioni sindacali in rappresentanza dei singoli iscritti, con conseguente inapplicabilità dell’art. 13412 (Cass. 6-8-2003, n. 11875). 68 La Suprema Corte è ferma nel richiedere quali presupposti per l’applicazione dell’art. 1341 la predisposizione unilaterale del contenuto del contratto e la generalità di impiego per essere destinato a regolare una serie indefinita di rapporti, tanto dal punto di vista sostanziale (cioè predisposto da un contraente che esplica attività contrattuale all’indirizzo di una pluralità di soggetti), quanto dal punto di vista formale (cioè predeterminato nel contenuto a mezzo di moduli o formulari utilizzati in serie (Cass. 31-12-2021, n. 42091; Cass. 28-2-2019, n. 5971). Si è precisato che “la mera attività di formulazione del regolamento contrattuale è da tenere distinta dalla predisposizione delle condizioni generali di contratto”, non potendo considerarsi tali le clausole contrattuali elaborate da uno dei contraenti in previsione e con riferimento ad un singolo, specifico negozio, ed a cui l’altro contraente possa, del tutto legittimamente, richiedere di apportare le necessarie modifiche dopo averne liberamente apprezzato il contenuto (Cass. 17-1-2022, n. 1166; Cass. 19-3-2018, n. 6753; Cass. 15-4-2015, n. 7605). La clausola compromissoria contenuta in un capitolato speciale predisposto da uno dei contraenti nei confronti di persona indeterminata non deve essere approvata specificamente per iscritto a norma dell’art. 13412 c.c., perché il capitolato speciale non è diretto a disciplinare una serie indefinita di rapporti ma solo quello da istituirsi col vincitore della gara (Cass. 19-3-2004, n. 5549; Cass. 22-10-2003, n. 15783). 69 Nel contratto tra una pubblica amministrazione e l’azienda fornitrice, non è richiamabile la disciplina relativa agli artt. 1341 e 1342 c.c., nemmeno in relazione alla clausola derogativa alla competenza arbitrale e territoriale, sia in relazione alla qualità delle parti, sia al fatto che non si tratta di contratto per adesione, predisposto da una parte “in serie” e al quale l’altra parte può solo aderire (Cass. 10-7-2013, n. 17073).

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PARTE VIII – CONTRATTO 

individuate 70. Per l’art. 13412 non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria 71; in tutte tali ipotesi è necessaria (ma anche sufficiente) una seconda sottoscrizione di tali clausole 72. La clausola di previsione di interessi superiori a quelli legali non rientra tra le clausole vessatorie; deve essere approvata separatamente per iscritto, altrimenti gli interessi sono dovuti nella misura legale (art. 12842); se poi sono fissati interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi (arg. art. 18152). Il vincolo di forma della seconda sottoscrizione non è però in grado di suscitare sempre la dovuta riflessione: il contraente aderente, con la medesima disinvoltura con la quale sottoscrive il contenuto contrattuale non conosciuto, in modo meccanico reitera la sottoscrizione delle clausole vessatorie. È perciò emersa una interpretazione che richiede un’autonoma e specifica approvazione per iscritto delle singole clausole vessatorie, con la scelta di una tecnica redazionale idonea a suscitare l’attenzione del sottoscrittore, non considerandosi sufficiente un richiamo cumulativo di tutte le clausole contrattuali ovvero di clausole vessatorie e non 73. È anche andata emergendo una interpretazione estensiva   70 Le clausole vessatorie sono prive di efficacia per assenza di specifica approvazione per iscritto anche quando hanno carattere di reciprocità e bilateralità (Cass. 12-10-2015, n. 20401; Cass. 14-7-2015, n. 14737). 71 Problemi interpretativi si sono posti per due serie di clausole che, nell’apparenza neutre, possono risultare onerose per il contraente aderente. Anzitutto per le clausole determinative dell’oggetto del contratto, dovendosi verificare se l’oggetto del contratto non sia ampliato o ristretto contro le ragionevoli aspettative del contraente aderente, secondo una valutazione di buona fede. Un problema si è posto anche per le clausole di rinvio ad altro documento, dovendosi verificare la conoscenza del diverso documento e la portata delle clausole richiamate: si è stabilito che, quando i contraenti fanno riferimento alla disciplina fissata in un distinto documento, le previsioni di quella disciplina si intendono conosciute e approvate per relationem, assumendo pertanto il valore di clausole concordate senza necessità di una specifica approvazione per iscritto ai sensi dell’art. 1341 c.c. (Cass. 19-10-2012, n. 18041). Ma è soluzione formalistica e pericolosa: sarebbe sufficieungere dal contratto approvato tutte le clausole vessatorie e inserirle in altro documento approvato per relationem. Significativamente l’art. 341 cod. cons. estende il controllo di vessatorietà ad ogni altro contratto collegato o da cui dipende il contratto sottoscritto. Si è precisato che le caparre, le clausole penali ed altre simili, con le quali le parti abbiano determinato in via convenzionale anticipata la misura del ristoro economico dovuto all’altra in caso di recesso o inadempimento, non avendo natura vessatoria, non rientrano tra quelle di cui all’art. 1341, non necessitano, pertanto, di specifica approvazione (Cass. 30-6-2021, n. 18550; Cass. 6558/2010)). 72 Il giudizio sulla necessità che una clausola contrattuale sia specificamente approvata per iscritto non può essere compiuto per la prima volta in sede di legittimità perché la valutazione circa la natura della clausola richiede un giudizio di fatto che si può formulare soltanto attraverso l’interpretazione della clausola stessa nel contesto complessivo del contratto, allo scopo di stabilirne il significato e la portata (Cass. 30-3-2022, n. 10258). 73 L’obbligo della specifica approvazione per iscritto della clausola vessatoria è rispettato anche nel caso di richiamo numerico a clausole, onerose e non, purché non cumulativo, salvo che, in quest’ultima ipotesi, non sia accompagnato da un’indicazione, benché sommaria, del loro contenuto, ovvero che non sia prevista dalla legge una forma scritta per la valida stipula del contratto (Cass. 9-7-2018, n. 17939; Cass. 16-3-2018, n. 6621). Si configura richiamo cumulativo che non soddisfa il requisito della specificità della sottoscrizione delle clausole non solo quando esso sia riferito a tutte le condizioni generali del contratto ma anche quando, prima della sottoscrizione, siano indistintamente richiamate più clausole del contratto per adesione, di cui solo una sia vessatoria (Cass. 9-7-2015, n. 14390). Conf. Cass. 11-6-2012, n. 9492.

CAP. 2 – CONCLUSIONE

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delle clausole previste dal codice, tendenzialmente uniformate alle “clausole abusive” indicate dalla normativa di provenienza europea 74 (di cui appresso). È maturata inoltre la convinzione che l’assenza di specifica approvazione scritta delle clausole vessatorie comporti un vizio di forma ad substantiam che determina la nullità delle stesse, rilevabile di ufficio dal giudice (artt. 1418 e 1421) 75 e dal solo aderente 76, secondo il modello della c.d. nullità protettiva fissata dall’art. 363 cod. cons. 2) Prevalenza delle clausole aggiunte a moduli o formulari. Per l’art. 13421 le clausole aggiunte al modulo o formulario prevalgono su quelle del modulo o del formulario quando siano incompatibili con esse, anche se non cancellate (art. 13422). È però raro che, nella esperienza contrattuale di impresa, trovino ingresso modifiche del testo contrattuale predisposto, specie oggi che la collocazione dei prodotti è affidata sempre più alla intermediazione commerciale, che utilizza moduli forniti dai produttori. Anche ai contratti conclusi mediante moduli e formulari è applicabile il requisito di forma per la validità delle clausole vessatorie (art. 13422). 3) Interpretazione contro l’autore della clausola (c.d. interpretatio contra stipulatorem). Per l’art. 1370 le clausole inserite nelle condizioni generali di contratto o in moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti s’interpretano, nel dubbio, a favore dell’aderente. La norma contiene una chiara deroga al principio ermeneutico che i contratti a titolo oneroso, rimasti oscuri nonostante l’applicazione delle norme sull’interpretazione, debbano essere intesi nel senso di realizzare l’equo contemperamento degli interessi delle parti (art. 1371). Per essere clausole predisposte, è imputata all’autore della clausola la oscurità del testo. b) Codice del consumo. La tutela accordata dal codice di consumo (D.Lgs. 6.9.2005, n. 206) prescinde dalla serialità della predisposizione, soffermandosi sulla specificità del rapporto contrattuale corrente tra professionista e consumatore, secondo le qualificazioni giuridiche di provenienza europea. Le clausole abusive contenute nel contratto non sono vincolanti per i consumatori per garantire l’equilibrio sostanziale tra le parti 77. La disciplina del codice del consumo, di derivazione europea, è più articolata di quella del codice civile per riguardare la elaborazione del contratto e il contenuto del regolamento contrattuale. In attuazione della direttiva 93/13/CEE del 5.4.1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, veniva adottata una normati  74 La giurisprudenza considera l’elencazione contenuta nell’art. 13412 di carattere tassativo, ma ne ammette l’interpretazione estensiva (Cass. 19-5-2006, n. 11757; Cass. 19-3-2003, n. 4036). 75 La mancata specifica approvazione per iscritto delle clausole onerose indicate nell’art. 1341 ne comporta la nullità, eccepibile e rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, ivi compresa la fase di legittimità dinanzi alla Corte di cassazione, sempreché i presupposti di fatto della detta nullità (carattere vessatorio della clausola ed inesistenza della prescritta approvazione specifica) risultino già acquisiti agli atti del processo (Cass. 14-7-2009, n. 16394; Cass. 18-1-2002, n. 547). 76 Contrariamente ad un tradizionale indirizzo tendente a ritenere quella in questione una nullità assoluta (VIII, 9.4), si è affermata una c.d. nullità relativa di protezione (VIII, 9.6), ritenendosi che, essendo la specifica approvazione per iscritto delle clausole vessatorie (nella specie: clausola compromissoria) requisito per l’opponibilità delle clausole medesime al contraente aderente, quest’ultimo è il solo legittimato a farne valere l’eventuale mancanza, sicché la nullità di una clausola onerosa senza specifica approvazione scritta dell’aderente non può essere invocata dal predisponente (Cass. 20-8-2012, n. 14570). 77 Ampiamente Corte giust. U.E., grande sez., 17-5-2022, cause C-600/19, C-693/19 e 831/19, C-725/19, C-869/19.

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PARTE VIII – CONTRATTO 

va che ha incontrato varie vicissitudini 78, residuando molte disarmonie tra corti europee e giudici nazionali 79. La direttiva UE/2019/771 (attuata con D.Lgs. 4.11.2021, n. 170, trasposto nel cod. cons.) ha abrogato la precedente direttiva, ma ne ha conservato la sostanza. Il coordinamento tra codice civile e codice del consumo è compiuto dal novellato art. 1469 bis c.c. e dall’art. 38 cod. cons., nella logica di una tutela preferenziale del consumatore (VIII, 1.9). Sotto la rubrica “Dei contratti del consumatore in generale”, gli artt. 33 ss. cod. cons. regolano i contratti stipulati tra un “consumatore” o “utente” e un “professionista”, secondo le definizioni fissate dall’art. 3 cod. cons. (VIII, 1.9). La normativa si apre a tutti i beni negoziati, per mancare una tipologia di beni cui applicarsi o l’esclusione di tipologie di beni, come invece testualmente avviene per le disposizioni relative ai diritti dei consumatori nei contratti (Tit. III, Capo 1, come sostituiti dal D.Lgs. 21/2014) 80; nella direzione di una riconduzione della vendita e del preliminare di vendita di immobili 81 nell’alveo di applicazione degli artt. 33 ss. cod. cons. sta muovendosi la Suprema Corte attraverso la valutazione dei requisiti soggettivi delle parti e della destinazione dei beni negoziati, valorizzando le posizioni materiali delle parti e le condizioni di stipulazione del contratto 82.   78

La direttiva veniva attuata con l’art. 25 L. 6.2.1996, n. 52 (“Legge comunitaria per il 1994”), che inseriva, nel titolo II del libro IV del codice civile, il capo XIV-bis (artt. da 1469 bis a 1469 sexies), rubricato “Dei contratti del consumatore”. Veniva però attivata una procedura di infrazione verso l’Italia, ai sensi dell’art. 226 del TCE, per il non corretto recepimento della direttiva, cui il nostro paese si conformava con L. 21.12.1999, n. 526 (“Legge comunitaria per il 1999”). La procedura proseguiva il suo svolgimento, per la previsione della possibilità per le associazioni dei consumatori di agire in via preventiva, ancor prima dell’utilizzazione di clausole vessatorie (contenute in formulari convenzionali): seguivano l’art. 3 L. 30.7.1998, n. 281 (sulla disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti) e l’art. 6 L. 3.2.2003, n. 14 (“Legge comunitaria 2002”). La materia veniva compiutamente organizzata con il D.Lgs. 6.9.2005, n. 206, introduttivo del Codice del consumo. In tal guisa una fondamentale tutela del consumatore veniva eliminata dal codice civile (dove era stata primieramente collocata) per assumere una disciplina autonoma, con evidente caduta di centralità concettuale e politica. 79 Cfr. Corte giust. U.E. 25-11-2020, causa C-269/19; Corte giust. U.E. 3-10-2019, causa C-260/18. 80 Per l’art. 47, lett. e, le disposizioni delle Sezioni da I a IV non si applicano ai contratti aventi ad oggetto la creazione di beni immobili o la costituzione o il trasferimento di diritti su beni immobili; da ciò inferendosi l’applicabilità a tutti i beni (mobili e immobili) della restante normativa quando i contratti corrono tra un professionista e un consumatore, secondo le accezioni tecniche normative. 81 Per Cass. 14-1-2021, n. 497, gli artt. 33 ss. cod. cons. sono applicabili anche ad un contratto preliminare di compravendita di bene immobile, allorquando venga concluso tra un professionista, che stipuli nell’esercizio dell’attività imprenditoriale, o di un professionista intellettuale, ed altro soggetto, che contragga per esigenze estranee all’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale; non risulta decisivo, in senso contrario, che le parti abbiano espressamente richiamato in contratto la disciplina del D.Lgs. 122/2005 in tema di tutela degli acquirenti di immobili da costruire, atteso che quest’ultima concorre, in presenza dei relativi presupposti applicativi, con le disposizioni a tutela del consumatore, almeno in difetto di un rapporto di reciproca incompatibilità o esclusione. V. anche Cass. 6802/2010; Cass. 4914/2009; Cass. 24257/2008. In presenza di un contratto rientrante nell’ambito applicativo del D.Lgs. 206/2005, l’avvenuta negoziazione delle singole clausole costituisce presupposto oggettivo di esclusione dell’applicazione della disciplina del codice ed è circostanza che rappresenta un prius logico anche rispetto all’accertamento dell’eventuale squilibrio di cui si sostanzia l’abusività, conseguendone che la relativa prova compete al professionista (Cass. 8268/2020; Cass. 24262/2008). 82 Cfr. Cass. 14-1-2021, n. 497, cit.: una clausola, per non essere considerata abusiva ai sensi del cod. cons., deve   essere il frutto di una trattativa caratterizzata dai requisiti della serietà (ossia svolta mediante l’adozione

CAP. 2 – CONCLUSIONE

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Sono apprestati dal codice del consumo più criteri di tutela del consumatore. 1) Doppio elenco di clausole vessatorie, cui corrispondono differenti regimi, in ragione del diverso grado di onerosità delle clausole. Una prima lista è formata da clausole presunte vessatorie fino a prova contraria (art. 33), sempre che non siano state oggetto di trattativa individuale (art. 344) (c.d. lista grigia). Si presumono “abusive” (cioè vessatorie) le clausole che, “malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto” (art. 331): rileva cioè l’equilibrio giuridico delle parti. L’anodina formula “malgrado la buona fede” si riconduce ad una errata traduzione dei testi originali della direttiva comunitaria, dove il significato era di considerare vessatorie le clausole in contrasto con la buona fede (lealtà e correttezza). L’art. 332 detta un elenco esemplificativo di clausole presunte vessatorie: tali sono in generale le clausole che tendono ad escludere o a limitare la responsabilità del professionista o la tutela del consumatore, oppure tendono a consentire al professionista rimedi eccezionali o a riservargli tutele non accordate al consumatore o a rendere eccessivamente gravosa la difesa dei diritti del consumatore 83. È ammessa la prova contraria della mancata ricorrenza dello squilibrio tra le posizioni giuridiche delle parti contrattuali. Non sono vessatorie le clausole che riproducono disposizioni di legge ovvero che siano riproduttive di disposizioni o attuative di principi contenuti in convenzioni internazionali delle quali siano parti contraenti tutti gli Stati membri dell’Unione europea o l’Unione europea (art. 343). La trattativa sul contenuto del contratto o di singole clausole esclude di per sé la vessatorietà. Per ricorrere una “trattativa individuale”, non è sufficiente la mera sottoscrizione (eventualmente reiterata): è richiesta una influenza nella elaborazione del contratto o della singola clausola. Il senso della novella è proprio quello di squarciare il velo delle scritturazioni per verificare la trama delle negoziazioni. Per i contratti conclusi mediante sottoscrizione di moduli o formulari predisposti per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali, incombe sul professionista l’onere di provare che le clausole, o gli elementi di clausola, malgrado siano dal medesimo unilateralmente predisposti, siano stati oggetto di specifica trattativa con il consumatore (art. 345) 84.  

di un comportamento obiettivamente idoneo a raggiungere il risultato di una composizione dei contrapposti interessi delle parti), della effettività (rispettosa dell’autonomia privata delle parti, non solo nel senso di libertà di concludere il contratto ma anche nel suo significato di libertà e concreta possibilità di determinarne il contenuto) e della individualità (dovendo riguardare tutte le clausole, o elementi di clausola, costituenti il contenuto dell’accordo, prese in considerazione sia singolarmente, oltre che nel significato desumibile dal complessivo tenore del contratto). 83 Si è precisato che, per qualificare una clausola come abusiva, il giudice nazionale deve procedere a un esame caso per caso tenendo conto dei criteri forniti in ambito U.E.; ad es., se in un contratto è inserita una clausola che prevede una modifica unilaterale delle spese collegate a un servizio, non sono indicate le modalità di calcolo e il consumatore non può recedere, la clausola è abusiva; peraltro i giudici nazionali, se la legislazione nazionale lo prevede, possono stabilire che detta clausola non vincola i consumatori anche se questi ultimi non hanno agito nel procedimento collettivo avviato nei confronti di un professionista (Corte giust. C.E. 26-4-2012, causa C-472/2010). Le regole sulle clausole abusive nei contratti dei consumatori si applicano anche agli accordi tra avvocato e cliente quando questi agisce per scopi estranei alla sua attività professionale (Corte giust. U.E. 15-1-2015, causa C-537/13). 84 Ai sensi dell’art. 344-5 cod. cons. spetta al professionista dare la prova che la clausola vessatoria è stata oggetto di specifica trattativa, con i requisiti della individualità, serietà ed effettività, ovvero di dare prova ido 

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PARTE VIII – CONTRATTO 

Una seconda lista è formata dalle clausole comunque vessatorie, quantunque oggetto di trattativa, previste dall’art. 362 (c.d. lista nera). Sono clausole di maggiore onerosità per il consumatore, che hanno per oggetto o per effetto: a) di escludere o limitare la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del consumatore, risultante da un fatto o un’omissione del professionista; b) di escludere o limitare le azioni del consumatore nei confronti del professionista o di un’altra parte in caso di inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista; c) di prevedere l’adesione del consumatore come estesa a clausole che non ha avuto, di fatto, la possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto. Sono clausole oggettivamente vessatorie, indipendentemente da una negoziazione delle stesse e che neppure consentono una prova contraria. 2) Rilevanza dell’operazione . L’accertamento della vessatorietà va condotto tenendo conto della specificità del regolamento contrattuale, dovendosi valutare la singola clausola in ragione della natura del bene o del servizio oggetto del contratto e facendo riferimento alle circostanze esistenti al momento della sua conclusione ed alle altre clausole del contratto medesimo o di un altro contratto collegato o da cui dipende (art. 341). Inoltre, nella verifica della vessatorietà, bisogna tener conto, non solo del contratto nel quale la singola clausola è inserita, ma anche di eventuali contratti collegati o dai quali dipende, interpretando così il singolo negozio alla stregua della complessiva operazione negoziale realizzata. L’accertamento della vessatorietà è compiuto tenendo conto della natura del bene o del servizio oggetto del contratto, delle circostanze esistenti al momento della sua conclusione, delle altre clausole del contratto o di altri contratti collegati (art. 341). Emerge l’ulteriore divario con la disciplina delle clausole vessatorie del codice civile. L’applicazione degli artt. 1341 e 1342 c.c. ricorre nell’ipotesi di predisposizione unilaterale per un impiego seriale del contratto; invece gli artt. 33 ss. cod. cons. sono applicabili per il fatto in sé della predisposizione unilaterale del contratto da parte del “professionista” senza possibilità per il “consumatore” di incidere sul contenuto. 3) Controllo di trasparenza. L’oscurità del testo contrattuale è considerata espressione di vessatorietà. Quando le clausole sono proposte per iscritto devono sempre essere redatte in modo chiaro e comprensibile (art. 351). Come si è anticipato, la valutazione di vessatorietà non attiene alla determinazione dell’oggetto del contratto, né all’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, “purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile” (art. 342). Consegue che il giudizio di vessatorietà si estende all’assetto economico quando questo non sia espresso in modo chiaro e comprensibile. In caso di dubbio sul senso di una clausola, prevale l’interpretazione più favorevole al consumatore (art. 352), regola corrispondente all’art. 1370 c.c. (c.d. interpretatio contra stipulatorem). Dall’assenza di trasparenza derivano dunque le seguenti conseguenze: la valutazione  

nea a vincere la presunzione di vessatorietà della clausola medesima, dimostrando che, valutata singolarmente e in connessione con le altre di cui si compendia il contenuto del contratto, nello specifico caso concreto essa non determina un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto (si è ritenuto che, in difetto di tale prova, la clausola di deroga del foro del consumatore sia nulla, anche laddove il foro indicato come competente risulti coincidente con uno dei fori legali di cui agli artt. 18, 19 e 20 c.p.c. (Cass. 20-3-2010, n. 6802). Conf. Cass. 26-4-2010, n. 9922.

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di vessatorietà si estende all’oggetto e all’adeguatezza economica del contratto; il consumatore non è tenuto per clausole che non ha avuto la possibilità di conoscere; le clausole ambigue si interpretano contro l’autore delle stesse. 4) Nullità parziale e di protezione. Le clausole illegittime (per squilibrio tra le parti o per mancata trasparenza) sono nulle, mentre il contratto rimane valido per il resto (art. 361); la nullità opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice (art. 363) (ampiamente in tema di nullità: VIII, 9.6) 85. 5) Tutela preventiva e collettiva . Le associazioni rappresentative dei consumatori e le associazioni rappresentative dei professionisti possono convenire innanzi al giudice ordinario il professionista o l’associazione di professionisti che utilizzano o raccomandano l’utilizzo di condizioni generali di contratto chiedendo la inibitoria delle condizioni generali di contratto abusive (art. 37 cod. cons.) (III, 1.7). È stata anche introdotta una tutela amministrativa contro le clausole vessatorie (art. 37 bis cod. cons., inserito dal D.L. 1/2012, conv. con L. 27/2012 (c.d. decreto liberalizzazioni)): l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, sentite le associazioni di categoria rappresentative a livello nazionale e le camere di commercio interessate o loro unioni, d’ufficio o su denuncia, dichiara la vessatorietà delle clausole inserite nei contratti tra professionisti e consumatori che si concludono mediante adesione a condizioni generali di contratto o con la sottoscrizione di moduli, modelli o formulari, applicando, in caso di inottemperanza a quanto disposto dall’Autorità una sanzione amministrativa pecuniaria. Il provvedimento che accerta la vessatorietà della clausola è pubblicizzato su apposita sezione del sito internet istituzionale dell’Autorità, sul sito dell’operatore che adotta la clausola ritenuta vessatoria e mediante ogni altro mezzo ritenuto opportuno in relazione all’esigenza di informare compiutamente i consumatori a cura e spese dell’operatore 86. È possibile una tutela collettiva ad opera delle Associazioni dei consumatori e degli utenti rappresentative a livello nazionale, inserite nell’elenco istituito presso il Ministero dello sviluppo economico. L’originaria procedura, prevista dagli artt. 139 ss. cod. cons., è stata assorbita dalla generale disciplina dei “procedimenti collettivi” (artt. 840 bis ss. c.p.c.) di cui si è detto (III, 1.7).

18. Contratti conclusi fuori dei locali commerciali e a distanza. – È inserita nel cod. cons. una incisiva tutela dei consumatori quando i contratti sono conclusi fuori dei locali commerciali ovvero a distanza, che si articola nel dovere per il professionista di rendere informazioni precontrattuali al consumatore e nel diritto di recesso del consumatore (artt. 49 ss., che inglobano la direttiva 2011/83/UE, attuata con D.Lgs. 11.2.2014).   85 Il doveroso controllo di vessatorietà ha ricadute anche sull’attività notarile, per essere la vessatorietà causa di nullità, e non potendo il notaio ricevere atti che siano espressamente proibiti dalla legge o manifestamente contrari al buon costume o all’ordine pubblico (art. 28, n. 1, l. not.). Si pensi ai contratti stipulati dalle banche per l’erogazione di mutui fondiari: le clausole del contratto sono essenzialmente predisposte dalla banca; si pensi anche ai contratti di vendita di multiproprietà, le cui clausole sono essenzialmente predisposte dalle società venditrici. 86 Le imprese interessate hanno facoltà di interpellare preventivamente l’Autorità in merito alla vessatorietà delle clausole che intendono utilizzare nei rapporti commerciali con i consumatori. Contro gli atti dell’Autorità è competente il giudice amministrativo; mentre resta salva la giurisdizione del giudice ordinario sulla validità delle clausole vessatorie e sul risarcimento del danno.

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PARTE VIII – CONTRATTO 

Nei contratti negoziati fuori dei locali commerciali 87 presso il consumatore o in altro luogo, come nei contratti a distanza 88 c’è la necessità di proteggere la maturazione dell’acquisto, mancando la ponderazione che normalmente caratterizza il recarsi presso il locale commerciale. Si vuole proteggere il consumatore contro tecniche di stipulazione “aggressive” in quanto l’operatore commerciale coglie il consumatore impreparato all’acquisto. L’anomalia sta nella sorpresa che coglie il consumatore, il quale addiviene al contratto nella immediatezza emotiva dell’offerta, senza la necessaria ponderazione dell’utilità o convenienza dell’acquisto, della portata del contenuto contrattuale e della scelta tra prodotti e tra contraenti. Specificamente nei contratti con una o più tecniche di comunicazione a distanza per la conclusione del contratto, si vuole proteggere la conoscenza del contenuto contrattuale, potendo il consumatore non avere preso visione o contezza del regolamento apprestato dal professionista con la tecnica di comunicazione: è il sistema comunicativo proprio della società dell’informazione, connotata dalla digitalizzazione delle reti (informatiche, di telecomunicazione e radiotelevisive) (I, 2.15). Per le peculiari circostanze di conclusione del contratto, è presunta l’assenza di una consapevole volontà negoziale (con conoscenza della realtà e coscienza della decisione), che si atteggia come un vizio della volontà. Perciò è accordato al consumatore un termine di riflessione circa il mantenimento della operazione economica realizzata: è attribuito il diritto di recesso dal contratto senza alcuna penalità 89 e senza specificarne il motivo entro il termine di quattordici giorni (art. 52); se il professionista non fornisce al consumatore le informazioni sul diritto di recesso, il periodo di recesso termina dodici mesi dopo la fine del periodo di recesso iniziale (art. 53). Trattasi di un recesso di pentimento (ius poenitendi), che ormai sta assurgendo a rimedio generale di tutela dei consumatori 90. Per effetto del recesso, vengono meno gli obblighi delle parti: perciò il professioni  87 Si intende per “contratto negoziato fuori dei locali commerciali” qualsiasi contratto tra il professionista e il consumatore concluso alla presenza fisica e simultanea del professionista e del consumatore, in un luogo diverso dai locali del professionista; o è stata fatta un’offerta da parte del consumatore, nelle stesse circostanze; o concluso nei locali del professionista o mediante qualsiasi mezzo di comunicazione a distanza immediatamente dopo che il consumatore è stato avvicinato personalmente e singolarmente in un luogo diverso dai locali del professionista, alla presenza fisica e simultanea del professionista e del consumatore; o concluso durante un viaggio promozionale organizzato dal professionista e avente lo scopo o l’effetto di promuovere e vendere beni o servizi al consumatore (art. 45, lett. h, cod. cons.). 88 Si intende per “contratto a distanza” qualsiasi contratto concluso tra il professionista e il consumatore nel quadro di un regime organizzato di vendita o di prestazione di servizi a distanza senza la presenza fisica e simultanea del professionista e del consumatore, mediante l’uso esclusivo di uno o più mezzi di comunicazione a distanza fino alla conclusione del contratto, compresa la conclusione del contratto stesso (art. 45, lett. g, cod. cons.). 89 Con riguardo ai contratti a distanza, anche le spese di consegna dei beni al consumatore rientrano tra le somme che il fornitore deve rimborsare al consumatore qualora questi eserciti il diritto di recesso (Corte giust. 15-4-2010, causa C-511/08). Il consumatore non è obbligato, in generale, a indennizzare il venditore per l’uso della merce acquistata, sempre che ne abbia fatto uso in modo compatibile con taluni principi di diritto civile, quali quelli della buona fede o dell’arricchimento senza causa (Corte giust. 3-9-2009, causa C-489/07). 90 Per eventuali controversie, è stabilita la competenza territoriale inderogabile del giudice del luogo di residenza o di domicilio del consumatore se ubicati nel territorio dello Stato (art. 66 bis cod. cons.). Tale competenza era stata già introdotta dalla Convenzione di Roma del 19.6.1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (ratif. con L. 18.12.1984, n. 975) (art. 5).

CAP. 2 – CONCLUSIONE

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sta è tenuto a rimborsare tutti i pagamenti ricevuti dal consumatore, eventualmente comprensivi delle spese di consegna, senza indebito ritardo e comunque entro quattordici giorni dal giorno in cui è informato della decisione del consumatore di recedere dal contratto (art. 56). Nei contratti che implicano una spedizione dei beni, in contrasto con gli artt. 1378 e 15102 c.c., il rischio della perdita o del danneggiamento dei beni, per causa non imputabile al venditore, si trasferisce al consumatore soltanto nel momento in cui quest’ultimo, o un terzo da lui designato e diverso dal vettore, entra materialmente in possesso dei beni; il rischio si trasferisce al consumatore nel momento della consegna del bene al vettore qualora quest’ultimo sia stato scelto dal consumatore, fatti salvi i diritti del consumatore nei confronti del vettore (art. 63). Il consumatore è esonerato dall’obbligo di fornire qualsiasi prestazione corrispettiva in caso di fornitura non richiesta di beni o di prestazione non richiesta di servizi, vietate dall’art. 205 e dall’art. 261, lett. f; anche l’assenza di una risposta da parte del consumatore alla fornitura non richiesta non costituisce consenso; salvo consenso del consumatore, da esprimersi prima o al momento della conclusione del contratto, il professionista non può adempiere eseguendo una fornitura diversa da quella pattuita, anche se di valore e qualità equivalenti o superiori (art. 66 quinquies cod. cons.). Sono però previsti alcuni obblighi a carico del consumatore, stimolandone l’autoresponsabilità, per la conservazione della merce e la tempestività di risoluzione dell’operazione, al fine di non distruggere ricchezza e consentine il reimpiego nel mercato (art. 57 cod. cons.). Con riguardo al commercio elettronico, alle offerte di servizi della società dell’informazione, effettuate ai consumatori per via elettronica, gli aspetti non disciplinati dal cod. cons. sono regolati dal D.Lgs. 9.4.2003, n. 70 (recante attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno) (art. 68 cod. cons.) (VIII, 4.5). L’impianto descritto è a base anche della “Commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori” (artt. da 67 bis a 67 vicies-bis cod. cons., introdotti dal D.Lgs. 23.10.2007, n. 221), analogamente caratterizzata da un elenco di informazioni che vanno fatte al consumatore nella fase delle trattative e comunque prima che il consumatore sia vincolato da un contratto e dalla previsione del diritto di recesso del consumatore (art. 67 duodecies). Una specifica tutela è anche apportata dal D.Lgs. 24.2.1998, n. 58 (t.u. in materia di intermediazione finanziaria) con riguardo al collocamento di prodotti finanziari, con “offerta fuori sede” (art. 30). La giurisprudenza tende a fornire un’interpretazione estensiva dell’art. 30, rinvenendo il “collocamento” di prodotti finanziari in ogni operazione di acquisizione di un prodotto finanziario, a prescindere dal tipo di servizio di investimento che abbia dato luogo all’operazione: anche l’esistenza di eventuale contratto-quadro, dove preventivamente sono disciplinate le modalità di prestazione del servizio, non fa venir meno il rischio che il cliente sia stato colto di sorpresa 91.

  91 La tutela accordata dall’art. 30 D.Lgs. 58/1998 trova applicazione, non soltanto nel caso in cui la vendita fuori sede di strumenti finanziari da parte dell’intermediario sia intervenuta nell’ambito di un servizio di collocamento prestato dall’intermediario medesimo in favore dell’emittente o dell’offerente di tali strumenti, ma anche quando la medesima vendita fuori sede abbia avuto luogo in esecuzione di un servizio d’investimento diverso, ove ricorra la stessa esigenza di tutela (Cass., sez. un., 3-6-2013, n. 13905).

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PARTE VIII – CONTRATTO 

19. Rapporti contrattuali per contatto sociale. – L’accentuata attenzione alla dimensione sociale dei fatti giuridici ha portato progressivamente a svalutare la essenzialità dell’accordo per valorizzare i fasci di interessi coinvolti. Si è visto come gli effetti giuridici sono ricondotti ad una causalità complessa di determinazione (II, 4.2). L’ormai acquisita consapevolezza che gli effetti giuridici sono ricondotti all’ordinamento a seguito di una valutazione dei fatti giuridici ha portato ad attribuire rilevanza giuridica anche al contatto sociale, estrinsecato in relazioni alle quali la legge connette l’osservanza di specifici comportamenti o anche l’esecuzione di negozi giuridici invalidi. Nella prima direzione il fenomeno rileva per il funzionamento del dovere di solidarietà nello svolgimento delle relazioni sociali. Si è già detto della configurazione giuridica di tali rapporti, evidenziando come la giurisprudenza tenda a dilatare l’area della c.d. responsabilità contrattuale da contatto sociale in più settori (es. sanitario, della pubblica amministrazione, bancario, dell’istruzione, ecc.), connettendo un dovere di diligenza e solidarietà in capo ai soggetti della relazione sociale in ragione della natura dell’attività svolta (VII, 4.3). Nella seconda direzione, si tende ad attribuire effetti giuridici ad atti e comportamenti compiuti sul presupposto di negozi giuridici rivelatisi invalidi. Si pensi alla materia del lavoro, dove la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non produce effetto rispetto alle prestazioni eseguite (art. 2126): l’esigenza di tutela dei lavoratori subordinati, che in fatto hanno eseguito prestazioni delle quali il datore di lavoro si è avvantaggiato, fa sì che l’ordinamento connetta all’attività lavorativa la instaurazione di un rapporto di lavoro (quand’anche non sorretto da un valido contratto di lavoro) 92. Analogamente, in materia societaria, la dichiarazione di nullità della società non pregiudica l’efficacia degli atti compiuti in nome della società dopo l’iscrizione nel registro delle imprese (art. 23322): pur mancando un valido contratto di società, l’esigenza di protezione del mercato fa salvi i rapporti instaurati dalla società con i terzi; analogamente la tutela dei creditori fa connettere all’esistenza in fatto della organizzazione collettiva l’obbligo dei soci di eseguire i conferimenti fino a quando non sono soddisfatti i creditori sociali (art. 23323). In tutte tali ipotesi l’ordinamento fa derivare effetti giuridici, non già in virtù di un atto di autonomia privata, ma per il fatto in sé dell’intervenuto contatto sociale, che, come tale, suscita affidamenti e perciò involge responsabilità. In sostanza è giuridicamente riconosciuta la nascita di rapporti contrattuali pure in assenza di atti formali di costituzione: la relazione sociale giuridicamente rilevante diventa un peculiare modo di produzione di rapporti contrattuali. La inattuazione dei doveri connessi a rapporti sociali qualificati si atteggia come inadempimento contrattuale, con i caratteri propri di questo (artt. 1218 ss.), di cui si è detto (VII, 4.3).

  92 Si è pero stabilito che l’esecuzione di una prestazione d’opera professionale di natura intellettuale effettuata da chi non sia iscritto nell’apposito albo previsto dalla legge dà luogo, ai sensi degli artt. 1418 e 2231 c.c., a nullità assoluta del rapporto tra professionista e cliente, privando il contratto di qualsiasi effetto, con la conseguenza che il professionista non iscritto all’albo o che non sia munito nemmeno della prescritta qualifica professionale per appartenere a categoria del tutto differente, non ha alcuna azione per il pagamento della retribuzione, nemmeno quella sussidiaria di arricchimento senza causa, essendo l’esercizio della professione subordinato per legge all’iscrizione in apposito albo o ad abilitazione (Cass. 11-6-2010, n. 14085).

CAP. 2 – CONCLUSIONE

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D) VINCOLI A CONTRARRE E FORMAZIONE PROGRESSIVA 20. Vincoli all’autonomia contrattuale. – I vincoli alla libertà di contrarre si atteggiano come altrettanti limiti all’autonomia privata. Sono vari e operano con differenti tecniche e diversa efficacia, in ragione della derivazione (legale o volontaria) e della struttura delle singole figure. I vincoli legali si articolano in vario modo. Una fondamentale condizione giuridica inerisce ai beni costituenti il demanio pubblico: sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabili dalle leggi che li riguardano (art. 822). Anche i beni costituenti il patrimonio indisponibile non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano (art. 828). Un’ampia categoria di vincoli riflette lo statuto del bene, a tutela di interessi pubblici ovvero di interessi privati privilegiati. Sono vincoli conformativi che si traducono in un’azione conformata dei privati, così nella utilizzazione del bene che nella disponibilità. Talvolta sono fissati in funzione dell’attuazione di interessi pubblici (es. vincoli ambientali, vincoli artistici, vincoli urbanistici rispetto all’alienazione di edifici): comportano l’intervento della pubblica amministrazione per il rispetto dello statuto del bene. Talaltra sono statuiti in funzione di protezione di soggetti che hanno l’utilizzazione di specifici beni o che dalla stessa sono stati esclusi (es. prelazione dell’affittuario coltivatore diretto o del confinante rispetto all’alienazione di terreno agricolo). Un’ulteriore categoria inerisce alla qualificazione assunta dai soggetti in specifici contesti, specie di carattere familiare 93, ovvero nell’esplicazione di specifiche attività 94. Particolari vincoli gravano a carico di soggetti che operano in virtù di concessioni amministrative (tipicamente le imprese che esercitano pubblici servizi di linea (art. 1679) 95. I vincoli convenzionali sono voluti dalle parti a tutela di loro interessi. Spesso le parti, per specifiche esigenze, pervengono alla conclusione del contratto in modo pro  93 I genitori esercenti la responsabilità genitoriale sui figli, il tutore e il protutore non possono, neppure all’asta pubblica, rendersi acquirenti direttamente o per interposta persona dei beni e dei diritti del minore, né possono diventare cessionari di alcuna ragione o credito verso il minore (artt. 323 e 378 c.c.). Analogamente avviene con riferimento all’amministratore di sostegno rispetto al beneficiario (art. 411 c.c.) e al tutore rispetto all’interdetto (art. 424 c.c.). 94 I magistrati dell’ordine giudiziario, i funzionari delle cancellerie e segreterie giudiziarie, gli ufficiali giudiziari, gli avvocati, i procuratori, i patrocinatori e i notai non possono, neppure per interposta persona, rendersi cessionari di diritti sui quali è sorta contestazione davanti l’autorità giudiziaria di cui fanno parte o nella cui giurisdizione esercitano le loro funzioni, sotto pena di nullità e dei danni (art. 1261 c.c.). Analogamente non possono essere compratori nemmeno all’asta pubblica, né direttamente né per interposta persona, a pena di nullità, gli amministratori dei beni dello Stato, dei comuni, delle province o degli altri enti pubblici, rispetto ai beni affidati alla loro cura, gli ufficiali pubblici, rispetto ai beni che sono venduti per loro ministero; e a pena di annullabilità, coloro che per legge o per atto della pubblica autorità amministrano beni altrui, rispetto ai beni medesimi; i mandatari, rispetto ai beni che sono stati incaricati di vendere, salvo il disposto dell’art. 1395 (art. 1471 c.c.). 95 Ulteriori obblighi a contrarre sussistono nella legislazione speciale. Ad es. il D.Lgs. 31.3.1998, n. 114, impone ai titolari delle attività commerciali al dettaglio l’obbligo di vendita nel rispetto dell’ordine temporale delle richieste; l’art. 132 D.Lgs. 209/2005 (cod. assic.) impone alle imprese di assicurazione di accettare, secondo le condizioni di polizza e le tariffe preventivamente stabilite, le proposte per l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile che sono loro presentate.

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PARTE VIII – CONTRATTO 

gressivo attraverso la stipula di atti preliminari in vario modo impegnativi. Sono altrettante forme di autolimitazione dell’autonomia privata per assumere le parti, volontariamente e perciò in via negoziale, specifici vincoli alla conclusione del contratto 96, sicché si instaura una procedimentalità con la formazione progressiva del contratto. Tali vincoli possono essere assunti da una sola delle parti o da entrambe le parti, in quest’ultimo caso vincolando entrambe le parti o una sola delle stesse. Le figure di vincoli che la tradizione ha evidenziato come le più diffuse sono la prelazione e l’opzione, il contratto preliminare e il divieto di alienazione. Le prime tre figure si inseriscono nella procedimentalità contrattuale, determinando una formazione progressiva del contratto; il divieto di alienazione vincola l’autonomia contrattuale nel modo più incisivo, escludendone l’esercizio. Peraltro anche le trattative sono in grado di incidere sulla procedimentalità. Dei vincoli relativi al regolamento contrattuale si parlerà in seguito, trattando della integrazione del contratto (VIII, 5.6).

21. Trattative (puntuazioni, minute, lettere di intenti). – È diffusa la prassi che la stipulazione del contratto sia preceduta da trattative, con progressivo affinamento dell’accordo circa il risultato perseguito. La conclusione del contratto avviene mediante un elaborato procedimento di formazione dell’accordo, durante il quale progressivamente e con atti diversi si esprime la valutazione delle parti circa la convenienza dell’affare e la determinazione di conclusione del contratto. Nelle contrattazioni più elaborate si è soliti procedere con progressive puntualizzazioni sui profili del contratto sui quali si è raggiunto l’accordo rinviando per l’ulteriore regolamentazione ad una successiva documentazione. In ragione del grado di completezza, tali accordi prendono il nome di puntuazione, minuta, lettera di intenti, tutti documenti con funzione preparatoria del successivo vincolo contrattuale e dell’assetto di interessi da attuare. Talvolta contengono intese parziali in ordine al futuro contenuto contrattuale (puntuazione di clausole); talaltra predispongono con completezza un accordo negoziale in modo provvisorio e perciò da confermare nella stesura definitiva (minuta); talaltra ancora è fissato l’intento di trattare su uno specifico oggetto con indicazione di massima dei termini della trattativa (lettera di intenti). Per tutte tali intese si prospetta il problema della verifica se abbiano già conseguito un vero e proprio regolamento definitivo del rapporto ovvero abbiano ancora funzione preparatoria di un successivo vincolo contrattuale; ed eventualmente se e in quale momento la progressiva formazione dell’accordo abbia condotto alla conclusione del contratto 97. D’altra parte,   96

Talvolta sono pattuiti vincoli convenzionali di forma di un successivo contratto (art. 1352) (VIII, 4.2). Nella nozione di minuta o puntuazione del contratto rientrano tanto i documenti che contengono intese parziali in ordine al futuro regolamento di interessi tra le parti (c.d. puntuazione di clausole), quanto i documenti che predispongano con completezza un accordo negoziale in funzione preparatoria del medesimo (c.d. puntuazione completa di clausole); mentre la prima denota una presunzione iniziale di mancato accordo, salva la dimostrazione concreta che solo a quelle clausole aveva riferimento un accordo raggiunto tra le parti, la seconda integra una presunzione semplice di perfezionamento contrattuale, superabile dalla prova contraria della effettiva volontà delle parti non volta all’attuale raggiungimento di un accordo: la parte o il terzo che abbiano l’interesse a dimostrare che non si tratta di un contratto concluso ma di una semplice minuta con  puntuazione completa di clausole, hanno l’onere di superare la presunzione semplice di avvenuto perfezio97

CAP. 2 – CONCLUSIONE

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come si vedrà, l’assenza di alcune determinazioni può essere supplita da interventi legali in via di integrazione (es. la mancata determinazione del luogo o del tempo dell’adempimento è supplita dalle disposizioni degli artt. 1182 e 1183). Quando non emerga la formazione di un attuale accordo contrattuale, tali intese non sono vincolanti, ma rilevano giuridicamente in funzione di una responsabilità precontrattuale (par. 25). Se dalle stesse, complessivamente analizzate, si ricava un contenuto compiuto dell’assetto di interessi, la mancata redazione dell’atto nella sua completezza comporta inadempimento del contratto e non interruzione della trattativa 98.

22. La prelazione e l’opzione. – La prelazione e l’opzione sono di fonte legale o di fonte convenzionale; in ogni caso scandiscono la formazione del contratto, inserendosi in modo diversificato nella procedimentalità di conclusione del contratto. a) Prelazione. Attribuisce il diritto di preferenza nella conclusione del contratto, se la controparte intende stipulare un contratto. Ad es. il proprietario di un bene attribuisce ad un terzo il diritto di acquistare il bene, a determinate condizioni, qualora decida di vendere il bene. Trattasi di una procedimentalità aperta, in quanto la iniziativa della stipula del contratto rimane nelle mani del titolare del diritto, che ha il solo vincolo di scelta del contraente, essendo tenuto a preferire il soggetto a favore del quale è attribuita la prelazione. Nella prelazione legale il diritto di preferenza è accordato dalla legge. La fattispecie fondamentale di riferimento è la prelazione successoria (art. 732 c.c.), assistita dal c.d. retratto successorio, che fa da riferimento alle altre forme di prelazione 99 e non è escluso che possano ricorrere più titoli di prelazione legale in capo allo stesso soggetto 100. Il meccani 

namento del contratto, fornendo la prova concreta della insussistenza della volontà attuale di accordo negoziale (Cass. 30-1-2020, n. 2204; Cass. 11-5-2010, n. 11371; Cass. 2-2-2009, n. 2561). 98 In tema di minuta o di puntuazione del contratto, qualora l’intesa raggiunta dalle parti abbia ad oggetto un vero e proprio regolamento definitivo del rapporto, non è configurabile un impegno con funzione meramente preparatoria di un futuro negozio, dovendo ritenersi formata la volontà attuale di un accordo contrattuale; per tale valutazione può farsi ricorso ai criteri interpretativi dettati dagli artt. 1362 ss., i quali mirano a consentire la ricostruzione della volontà delle parti, operazione che non assume carattere diverso quando sia questione, invece che di stabilirne il contenuto, di verificare anzitutto se le parti abbiano inteso esprimere un assetto d’interessi giuridicamente vincolante, dovendo il giudice accertare, al di là del nomen iuris e della lettera dell’atto, la volontà negoziale con riferimento sia al comportamento, anche successivo, comune delle parti, sia alla disciplina complessiva dettata dalle stesse, interpretando le clausole le une per mezzo delle altre (Cass. 4-2-2009, n. 2720). Il problema assume un particolare rilievo con riguardo ai contratti con la pubblica amministrazione. La deliberazione assunta dall’organo deliberante di un ente pubblico di stipulare un contratto non ha effetti nei riguardi dei terzi, in quanto semplicemente preparatoria del futuro contratto, che dovrà essere stipulato dall’organo rappresentativo, mediante sottoscrizione, unitamente alle controparti, del relativo atto scritto, salvi gli eventuali controlli o approvazioni (Cass. 22-6-2004, n. 11601; Cass. 14-2-2000, n. 1632). 99 È accordato il diritto di prelazione ai coeredi rispetto all’alienazione di una quota o parte di quota dell’eredità, con diritto di riscattare la quota dall’acquirente e da ogni successivo avente causa finché dura lo stato di comunione ereditaria (art. 732). Per Cass. 23-4-2010, n. 9744, i diritti di prelazione e di riscatto in favore del coerede postulano che l’alienazione compiuta da un altro coerede riguardi la quota ereditaria (o parte di essa) intesa come porzione ideale dell’universum ius defuncti, e vanno perciò esclusi quando, attraverso un’adeguata valutazione degli elementi concreti della fattispecie, risulti che i contraenti non hanno inteso sostituire il terzo all’erede nella comunione ereditaria e che l’oggetto del contratto è stato considerato come cosa a sé stante e non come quota del patrimonio ereditario. 100 Si pensi al coltivatore diretto, ad un tempo, affittuario e proprietario del terreno confinante.

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PARTE VIII – CONTRATTO 

smo opera in ragione della posizione ricoperta da alcuni soggetti rispetto ad un bene al fine di favorirne l’accesso (fondo rustico 101 o immobile urbano 102), oppure in funzione della natura o collocazione del bene al fine di conservarne la destinazione (es. beni culturali) 103. L’iniziativa dell’alienazione resta in capo al titolare del diritto, sul quale grava l’obbligo della denunzia al beneficiario della volontà di alienare (denuntiatio), con indicazione del contenuto del contratto e dell’invito ad esercitare la prelazione. La prelazione è esercitata con la formale e tempestiva dichiarazione recettizia, da parte del prelazionario, di volere concludere il contratto alle condizioni comunicate dal concedente; la stipula del contratto interviene successivamente, in adempimento del rapporto obbligatorio instauratosi tra le parti, in ciò risiedendo il divario con l’opzione il cui esercizio conclude il contratto 104. L’eventuale atto di alienazione, compiuto senza la preventiva notifica al soggetto preferito ovvero senza tenere conto dell’esercizio della prelazione, è di regola valido 105 ed efficace tra le parti, ma inefficace verso il beneficiario, al quale è riconosciuto ex lege il diritto di essere preferito nella alienazione 106 del diritto da parte del titolare, con connes  101 È la c.d. prelazione agraria. Si lega al fenomeno delle c.d. proprietà private favorite, secondo il dettato dell’art. 47 Cost. Specifici vincoli mirano a favorire l’accesso alla proprietà dei fondi rustici in favore del coltivatore diretto affittuario (art. 8 L. 26.5.1965, n. 590) o confinante (art. 7 L. 14.8.1971, n. 817). 102 È la c.d. prelazione urbana, che si atteggia come prelazione commerciale, con riguardo alle locazioni di immobili urbani adibiti ad uso diverso (art. 38 L. 27.7.1978, n. 392) e prelazione abitativa in favore del conduttore che abita l’immobile (art. 3 L. 9.12.1998, n. 431, lett. g). C’è anche la prelazione per dismissione del patrimonio pubblico a favore dei conduttori (prevista dall’art. 3 D.L. 25.9.2001, n. 351, conv. con L. 23.11.2001, n. 410). Il conduttore di un immobile ad uso non abitativo, ove sia decaduto dal diritto di esercitare il riscatto ex art. 38 L. 392/1978, può domandare sia al venditore che al compratore il risarcimento del danno patito, a titolo di responsabilità extracontrattuale, per effetto della decadenza, a condizione che ne dimostri la rispettiva malafede, consistita nell’intento di tenerlo all’oscuro dell’avvenuto trasferimento (Cass. 29-3-2022, n. 10136). 103 È la c.d. prelazione artistica. Con riguardo al trasferimento di beni culturali, sussiste la prelazione a favore dello Stato (Ministero dei beni culturali o della regione o di altro ente territoriale) (art. 61 D.Lgs. 22.1.2004, n. 42). In pendenza del termine di esercizio della prelazione, l’atto di alienazione rimane condizionato sospensivamente all’esercizio della prelazione e all’alienante è vietato effettuare la consegna della cosa, essendo disposta la nullità degli atti compiuti in violazione della legge (artt. 614 e 164 D.Lgs. 42/2004). Rilevante anche la prelazione dell’Ente parco (art. 15 L. 6.12.1991, n. 394). 104 Cfr. Cass. 28-2-2022, n. 6601, che ha fatto applicazione di tale principio in tema di locazione. 105 Per la validità dell’atto di alienazione, Cass. 24-5-2003, n. 823. Non è valida l’alienazione di beni culturali in pendenza dell’esercizio della c.d. prelazione artistica (artt. 614 e 164 D.Lgs. 42/2004). 106 È stata esclusa la sussistenza del diritto di prelazione di cui all’art. 38 L. 392/1978 (immobili locati ad uso non abitativo) in caso di conferimento di beni in società, in quanto il conferimento non costituisce la componente di un contratto di scambio e come tale non solo non è equiparabile ad una compravendita, e, più in generale, non rientra nel novero delle alienazioni a titolo oneroso (Cass. 17-7-2012, n. 12230). Non è configurabile un “trasferimento a titolo oneroso” ai sensi dell’art. 381 della L. 392/1978, né è possibile che il titolare del diritto di prelazione possa offrire al locatore-venditore la medesima controprestazione e le medesime condizioni, in quanto il conferimento in società è correlato alla qualità di socio (Cass. 18-9-2008, n. 23856). Anche con riferimento alla c.d. prelazione agraria, si è stabilito che la prelazione in favore dell’affittuario coltivatore di fondo rustico o del proprietario del fondo confinante non sussiste nel caso di conferimento del fondo rustico in una società di capitali (o di cessione di quote di una tale società), non configurandosi un’alienazione a titolo oneroso del fondo stesso in considerazione della natura ed infungibilità della controprestazione del trasferimento del bene, costituita dall’acquisto della qualità di socio (Cons. Stato 13-3-2008, n. 1087; Cons. Stato 10-5-2007, n. 2198; conf. Cass. 29-11-2005, n. 26044). L’indirizzo non convince. Per intanto,   l’onerosità non si traduce necessariamente nel corrispettivo di una somma di danaro ma in qualsiasi van-

CAP. 2 – CONCLUSIONE

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so diritto potestativo di riscatto verso il terzo avente causa: la prelazione ha efficacia reale, nel senso di essere opponibile al terzo avente causa dall’alienante, con effetto retroattivo della sostituzione ex lege nella posizione dell’acquirente, fin dalla data dell’alienazione. La prelazione convenzionale non ha nella legge una normativa generale; la disciplina più significativa è in tema di somministrazione (art. 1566), da cui possono ricavarsi le linee guida. Con il patto di prelazione il promittente (concedente) assume l’obbligo di preferire un soggetto (prelazionario) nella ipotesi di alienazione di un bene: il nucleo del meccanismo della prelazione è rappresentato dal mero obbligo di denuntiatio al beneficiario prelazionario. A seguito del patto, il promittente rimane libero di alienare o meno: solo se intende alienare deve preferire, a parità di condizioni, il soggetto beneficiario della prelazione. Nell’esempio fatto, il promittente, decidendo di alienare, deve comunicare al prelazionario le condizioni propostegli da terzi o comunque a quali condizioni intende alienare. La comunicazione non può limitarsi alla mera enunciazione dell’intenzione di addivenire a quell’affare: la comunicazione non può limitarsi alla mera enunciazione dell’intenzione di alienare, ma deve indicare gli elementi del contratto, sì da tradursi in una vera e propria proposta contrattuale. Non è escluso peraltro che il patto di prelazione possa prevedere in favore del prelazionario un criterio predeterminato di favore rispetto all’offerta pervenuta all’alienante (ad es. prevedendosi lo sconto di una quota percentuale del prezzo offerto dal terzo). Di sovente un patto di prelazione è inserito in statuti societari, vincolandosi il socio che intenda cedere la propria quota a farne preventiva offerta agli altri soci 107. È ammessa l’assunzione di un obbligo di prelazione anche da parte della pubblica amministrazione 108. Il prelazionario deve dichiarare, sotto pena di decadenza, nel termine stabilito o in quello necessario secondo le circostanze o gli usi, se intende valersi del diritto di preferenza. Nella stipula del patto, va determinato l’oggetto del contratto per il quale si concede la preferenza. Deve anche essere fissata la durata dell’obbligo di preferenza (per la somministrazione non può superare i cinque anni; se è convenuto un termine maggiore, questo  

taggio di carattere economico che arride al disponente di un diritto in ragione e per effetto dell’atto dispositivo; pertanto anche il conferimento di beni in una società di capitali è da ricostruire come atto a titolo oneroso. Inoltre la normativa richiamata sulla prelazione legale intende dettare un criterio di favore nell’accesso ad un determinato bene di specifici soggetti a fronte di un atto dispositivo a titolo oneroso del disponente, considerando l’accesso al particolare bene un titolo preferenziale rispetto al conseguimento di un corrispettivo. La prelazione agraria ha peraltro una base costituzionale per favorire la Repubblica l’accesso del risparmio popolare, tra l’altro, “alla proprietà dell’abitazione e alla proprietà diretta coltivatrice” (472 Cost.). In ogni caso, pur nell’alveo dell’indirizzo richiamato, è da ritenere che debba egualmente operare la prelazione legale, con conseguente diritto di riscatto, quando si riesca a dimostrare, attraverso l’impiego del collegamento negoziale, che trattasi di una società di comodo che successivamente al conferimento venda il bene a terzi, così ricorrendo nella specie una simulazione relativa in frode alla legge, rivolta a celare la vendita del bene a terzi dietro lo schermo del conferimento del bene in società. 107 La clausola di prelazione è opponibile erga omnes, nel solo senso dell’inefficacia, verso la società, del trasferimento eseguito in sua violazione, potendo la società rifiutare di riconoscere quale socio l’acquirente della partecipazione (Trib. Milano 26-2-2015). 108 Il titolare di prelazione riconosciuta da un ente pubblico con riferimento a futuri contratti relativi allo stesso servizio non ha l’onere di partecipare alla gara, potendo all’esito legittimamente divenire aggiudicatario del servizio allo stesso prezzo di quello risultante dalla migliore offerta presentata dai concorrenti; l’omesso inserimento della clausola di prelazione tra le condizioni di gara integra gli estremi dell’inadempimento e consente al titolare del diritto di agire per il risarcimento del danno (Cass. 25-9-2009, n. 20672).

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PARTE VIII – CONTRATTO 

si riduce a cinque: art. 1566): è un principio generale dell’ordinamento di non consentire l’autolimitazione dell’autonomia privata in perpetuo o per periodi troppo lunghi (per generali applicazioni v. artt. 1379, 2557, 2596). È comune opinione che il patto abbia efficacia obbligatoria tra le parti e non sia opponibile ai terzi, quand’anche trascritto 109; con la conseguenza che, dalla violazione del patto, deriva solo l’obbligo di risarcimento del danno del promittente, non consentendosi al prelazionario l’esecuzione in forma specifica 110. Non può accedersi ad un criterio unitario della efficacia del patto, come emergerà dall’esame della efficacia delle limitazioni convenzionali del potere di disposizione (VIII, 6.14). b) Opzione. Attribuisce il diritto di conclusione del contratto, a fronte del vincolo di stipulazione assunto dalla controparte. Ad es., a fronte dell’impegno del venditore di alienare un bene a un determinato prezzo, è attribuito al compratore la possibilità di valutarne la convenienza e di accettare o meno il contratto al prezzo stabilito. Trattasi di una procedimentalità chiusa, in quanto una parte ha già assunto il vicolo definitivo contrattuale. Esiste una profonda differenza con la prelazione: il beneficiario della prelazione ha solo il diritto di essere preferito nella eventuale stipula di un successivo contratto (rimanendo la iniziativa di questo in capo al promittente); invece il beneficiario dell’opzione ha il diritto, con l’accettazione, di determinare senz’altro la conclusione del contratto. L’opzione legale trova essenzialmente applicazione in settori dove opera la mano pubblica. In particolari contesti, la legge fa obbligo ad enti di formulare offerta di acquisto, accordando a soggetti con specifici requisiti il diritto potestativo di accettare o meno. La figura è talvolta utilizzata nell’accesso alla proprietà abitativa popolare. Trova applicazione in tema di società per azioni, dove è riconosciuto ai soci il diritto di sottoscrizione delle azioni di nuova emissione (art. 2441); coloro che esercitano il diritto di opzione, purché ne facciano richiesta, hanno anche il diritto di prelazione nell’acquisto delle azioni e delle obbligazioni convertibili che siano rimaste non optate. Nella opzione convenzionale, con la stipula del patto di opzione le parti convengono che una di esse (concedente) rimanga vincolata alla propria proposta e l’altra (opzionario o oblato) abbia facoltà di accettarla o meno. Essenziale è che il patto contenga il regolamento completo del contratto da concludere, nella forma richiesta per legge 111. Si è detto della proposta irrevocabile, come impegno unilaterale di una parte di mantenere ferma la propria proposta per un tempo determinato, per gli effetti che ne conseguono   109

È principio consolidato che la violazione della prelazione convenzionale (diversamente da quella legale) non attribuisce il diritto di retratto (Cass. 15-5-2018, n. 11741). Si è stabilito che anche la domanda giudiziale volta ad ottenere l’accertamento dell’esistenza di un patto di prelazione in caso di vendita di un bene immobile non è suscettibile di essere trascritta; a differenza del contratto preliminare, la prelazione non prevede alcun obbligo di futuro trasferimento (Cass., sez. un., 23-3-2011, n. 6597). 110 La prelazione convenzionale non ha natura reale ma obbligatoria e, non essendo riconducibile alla promessa di stipulare, è insuscettibile di esecuzione coattiva; inoltre, stante l’efficacia obbligatoria della stessa, il mancato esercizio del diritto di prelazione non comporta la nullità degli atti compiuti e dei negozi posti in essere ma dà diritto soltanto al risarcimento del danno (Cass. 18-7-2008, n. 19928; Cass. 19-5-1988, n. 3466). 111 Ad es., il patto di opzione di compravendita immobiliare impone, in forza della forma scritta richiesta ad substantiam dagli artt. 1350 e 1351, che dal documento risulti, anche attraverso il riferimento ad elementi esterni, ma idonei a consentire l’identificazione dell’immobile in modo inequivoco, se non l’indicazione dei dati catastali o delle mappe censuarie e dei confini, quantomeno che le parti abbiano inteso fare riferimento ad un bene determinato o comunque logicamente determinabile (Cass. 30-11-2017, n. 28762).

CAP. 2 – CONCLUSIONE

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(art. 1329) (par. 13). Con il patto di opzione il vincolo è assunto con l’accordo delle parti: la parte che, con tale accordo, si vincola a mantenere ferma la proposta, mentre l’altra ha facoltà di accettarla o meno, assume l’obbligo di tenere ferma la propria dichiarazione, considerata come proposta irrevocabile per gli effetti dell’art. 1329 (art. 1331) 112. Il meccanismo è utilizzato nei settori più vari: ad es., in materia immobiliare, se un soggetto è interessato ad un acquisto, ma non è ancora sicuro dello stesso o non ha ancora il danaro necessario; analogamente per l’acquisto di un pacchetto di azioni di una società; è anche molto utilizzato nel mondo del calcio in occasione del passaggio dei giocatori da una società all’altra, quando una società è interessata ad un giocatore ma vuole verificare anche altre possibilità. La concessione dell’opzione è di regola a titolo oneroso: un soggetto si obbliga a mantenere ferma la proposta verso un corrispettivo, che rappresenta il prezzo dell’opzione; ma può essere concessa anche a titolo gratuito. Sul piano strutturale il patto di opzione è un atto bilaterale (perciò patto di opzione) finalizzato al risultato contrattuale finale; il patto di opzione deve contenere la programmazione dell’assetto di interessi perseguito dalle parti 113. Tale struttura bilaterale comporta che qualsiasi modifica del patto di opzione (anche solo il termine entro il quale l’oblato può accettare la proposta) deve provenire dalla volontà comune delle parti, oltre che rivestire la medesima forma prescritta per il negozio finale (v. però le aperture intervenute intorno alla modifica del preliminare, che devono considerarsi applicabili anche all’opzione: par. 23). Per lo stato di soggezione che caratterizza la posizione del concedente rispetto a quella dell’opzionario nella conclusione del contratto si è soliti qualificare la situazione soggettiva dell’opzionario come diritto potestativo. Con l’accettazione il contratto è concluso: se per l’accettazione non è fissato un termine, questo può essere stabilito dal giudice (art. 13312), secondo la regola generale dell’art. 1183. Il termine di esercizio dell’opzione segna il termine finale di efficacia del patto di opzione, sicché, scaduto tale termine, si estingue la stessa opzione e l’opzionario non può accedere con una sua dichiarazione unilaterale al rapporto finale: deve necessariamente rinegoziare il risultato programmato con l’opzione. Si è propensi a ritenere che il patto abbia efficacia obbligatoria 114, con obbligo del solo risarcimento del danno tra le parti per inadempimento; senza potersi opporre ai terzi, quand’anche trascritto. Anche con riguardo all’opzione, non può accedersi a un criterio unitario dell’efficacia del patto, come si vedrà analizzando in generale la efficacia delle limitazioni convenzionali del potere di disposizione (VIII, 6.14).   112

È ammissibile il contratto di opzione a favore del terzo (Cass. 1-12-2003, n. 18321). Il patto di opzione di vendita immobiliare impone, in forza della forma scritta richiesta ad substantiam, l’accordo delle parti sugli elementi essenziali del futuro contratto; è necessario che dal documento risulti, anche attraverso il riferimento ad elementi esterni, ma idonei a consentire l’identificazione dell’immobile in modo inequivoco, se non l’indicazione dei dati catastali o delle mappe censuarie e dei confini, quantomeno che le parti abbiano inteso fare riferimento ad un bene determinato o comunque logicamente determinabile (Cass. 30-11-2017, n. 28762). 114 Si è ritenuto che dal negozio preparatorio di opzione “non derivi un rapporto obbligatorio”; la sentenza ha avuto evidentemente riguardo al rimedio della esecuzione specifica dell’obbligo a contrarre del contratto preliminare: ma ciò attiene all’attuazione del rapporto obbligatorio non alla sua nascita. È invece corretto il risultato di ritenere che, appunto in assenza di tale rimedio, con il patto di opzione “non matura il diritto del mediatore alla provvigione” (Cass. 21-11-2011, n. 24445). 113

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PARTE VIII – CONTRATTO 

23. Il contratto preliminare. – È prassi diffusa che la stipula di un contratto sia preceduta da una contrattazione preliminare tra le parti, finalizzata a un futuro contratto definitivo. Con il contratto preliminare le parti, verificata la convenienza di un affare, intendono fermarlo stabilendo i termini essenziali dello stesso, rinviando ad un momento successivo la stipula del contratto definitivo. È una tecnica propria dei sistemi (come quello francese e italiano) che attribuiscono al consenso efficacia traslativa: la mediazione del contratto preliminare assicura la stabilità dell’impegno senza ancora il trasferimento del diritto; è invece scarsamente impiegata nei sistemi (come quello tedesco) dove la vendita ha solo efficacia obbligatoria, dovendo intervenire un successivo atto per il trasferimento del diritto (VIII, 1.13). Con il contratto preliminare si dà luogo a una anticipazione di regolazione dell’assetto di interessi, che si compirà con un successivo contratto: le parti assumono un obbligo di realizzare una operazione, impegnandosi a concludere il contratto definitivo cui si connettono gli effetti perseguiti dalle parti 115. Non c’è nella legge una disciplina organica, ma sussistono norme disseminate (artt. 1351, 2932, 2645 bis, 2775 bis e 2825 bis) dalle quali è possibile trarre una raffigurazione dell’istituto; d’altronde sussistono nella realtà economica più tipologie di contratti preliminari che variano in ragione delle sequenze di svolgimento delle singole operazioni. La regolazione dell’operazione economica avviene sempre più spesso attraverso due traiettorie (strutturale e funzionale) intrecciate: strutturalmente, si svolge una sequenza procedimentale di più atti collegati, spesso iniziati con la proposta e l’accettazione ovvero con una proposta irrevocabile o opzione, cui segue (eventuale preliminare di preliminare in presenza di mediazione), un preliminare puro e infine il definitivo, anche con la previsione lungo il percorso di una clausola compromissoria 116; funzionalmente, si svolge una progressiva formazione dell’assetto economico orientato al risultato voluto 117. Ogni atto della sequenza svolge la propria funzione nella progressione di regolazione dell’operazione; il contratto preliminare si colloca in un momento della trattativa in cui è ormai delineato l’affare da concludere e le pari vogliono fermarlo: ha la funzione di fissare l’affare, indicando, a pena di nullità, l’oggetto e la causa del contratto da concludere. Vi è una complementarietà del preliminare con il definitivo: gli effetti che si realizzano lungo la sequenza procedimentale sono distinti ma non autonomi, in quanto concorrenti alla realizzazione della operazione. È un’esperienza che ha avuto un diffuso sviluppo specie nel mercato immobiliare, dove le cadenze della contrattazione si intrecciano sempre più spesso con le azioni incisive delle   115 Si è soliti anche impiegare il termine compromesso; ma questo indica, tecnicamente, l’accordo delle parti di far decidere da arbitri la controversia tra loro insorta (art. 806 c.p.c.). 116 La clausola compromissoria contenuta in un preliminare di vendita sopravvive alla sua mancata riproduzione nel contratto definitivo, trattandosi di negozio autonomo ad effetti processuali, avente funzione distinta dal contratto preliminare cui accede; che le parti possono porla nel nulla solo mediante una manifestazione di volontà specificamente diretta a tale effetto (Cass. 22-1-2020, n. 1439). 117 Nel preliminare di vendita immobiliare, per il quale è richiesto l’atto scritto come per il definitivo, è sufficiente che dal documento risulti, anche attraverso il riferimento ad elementi esterni idonei a consentirne l’inequivoca identificazione, che le parti abbiano inteso fare riferimento ad un bene determinato o comunque determinabile, la cui indicazione può anche essere incompleta o mancare del tutto, purché l’intervenuta convergenza delle volontà sia (anche aliunde o per relationem) logicamente ricostruibile (Cass. 24-10-2013, n. 24133).

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agenzie di intermediazione immobiliare 118. La elaborazione dello scambio si dipana attraverso un processo di affinamento in ragione della sostenibilità economica dell’acquisto, della realizzazione fisica dell’immobile, della certezza di circolazione del bene, della impellenza e motivazione della vendita e dell’acquisto, della verifica di conformità urbanistica. In tale contesto il contratto preliminare, collocato tra le trattative e il contratto definitivo, segna lo snodo dello scambio in quanto fissa impegnativamente i tratti essenziali già maturati, con possibili “effetti anticipati”, e programma quelli non ancora definibili o non voluti definire, secondo molte variabili di scambio ed esecuzione, da realizzare comunque in un tempo predeterminato; è una tecnica frequentemente utilizzata nella vendita di edifici da costruire o in corso di costruzione 119. Nell’ipotesi di preliminare di vendita di immobile in comunione, è necessario il consenso di tutti i comunisti e che lo stesso permanga fino alla stipula del definitivo 120. Diverso è il preliminare di alienazione di quota, consentito al titolare per il principio di disponibilità della quota (art. 1103) 121.   118 Più spesso le parti fissano nel preliminare i termini del contratto di vendita (es. immobile venduto, prezzo della vendita, data di consegna, data di stipula del contratto definitivo, ecc.), rinviando ad un momento successivo la stipula del contratto definitivo per più motivi: ad es., verificare la regolarità urbanistica del fabbricato o la presenza di eventuali vizi di costruzione; ottenere licenze e autorizzazioni amministrative; accertare la libertà dell’immobile da diritti altrui, pesi ed altri gravami; consentire alla banca mutuante il tempo necessario all’istruttoria per l’erogazione del mutuo o di un finanziamento agevolato; accertare la qualifica imprenditoriale o meno del venditore (per l’eventualità di fallimento dello stesso e conseguente revocatoria fallimentare). È anche possibile stipulare un contratto preliminare con facoltà di recesso; l’immobile può anche essere disponibile da subito per l’acquirente, versando un acconto o/e una caparra che si perderà se l’affare non si conclude. Il risultato consolidato dello scambio emerge dalla complessiva regolazione contrattuale compiuta nei vari atti, tranne che non risulti che le parti abbiano inteso abbandonare gli assetti gradualmente realizzati negli atti prodromici per considerarsi vincolati solo dalle determinazioni dispositive del definitivo. 119 Le vendite sono compiute “in pianta” o “su carta”, collocando le società costruttrici le unità immobiliari prima della realizzazione del fabbricato, al fine di finanziare (in parte) la costruzione stessa attraverso l’anticipazione (di parte) del prezzo: la stipula del contratto definitivo è rinviata all’ultimazione del fabbricato, quando è possibile la consegna delle singole unità immobiliari. Il fenomeno è stato regolato con il D.Lgs. 20.6.2005, n. 122, su cui in seguito (IX, 1.5). 120 La giurisprudenza è ormai concorde nel ritenere che, allorché nell’unico documento predisposto per il negozio non risulti la volontà dei comproprietari di stipulare più contratti preliminari relativi esclusivamente alle singole quote di cui ciascuno di essi è titolare, le dichiarazioni dei promittenti venditori, che costituiscono un’unica parte complessa, danno luogo a un’unica volontà negoziale come un unicum inscindibile, sicché i vari comunisti sono parti necessarie del giudizio ex art. 2932, nei cui confronti deve spiegare effetto la sentenza costitutiva (Cass. 20-3-2006, n. 6162). Consegue ancora che la mancanza originaria o la caducazione del vincolo contrattuale di uno dei comproprietari preclude al promissario la possibilità di esercitare l’azione di esecuzione in forma specifica nei confronti degli altri e ancora che gli atti interruttivi della prescrizione posti nei confronti di un solo dei promittenti non hanno efficacia contro gli altri (Cass. 19-5-2004, n. 9458; Cass. 26-12-2002, n. 16678). Se il preliminare riguarda la vendita di beni i n c o m u n i o n e l e g a l e , c’è “litisconsorzio necessario” nel giudizio di esecuzione promosso dal promissario acquirente per l’emissione di sentenza costitutiva ex art. 2932; per integrare il preliminare momento originario di una sequenza obbligatoria finalizzata al trasferimento della proprietà, va considerato atto eccedente l’ordinaria amministrazione: pertanto, qualora non sia convenuto anche il coniuge rimasto estraneo al preliminare, il giudizio è “nullo per mancata integrazione del contraddittorio” (Cass., sez. un., 24-8-2007, n. 17952). 121 Si è anche propensi ad ammettere il preliminare di contratti reali. Una indicazione in tale direzione è nell’art. 1822 che prevede la c.d. promessa di mutuo. È peraltro da rilevare che l’inadempimento dell’obbligo di stipula del definitivo rende inattuabile il ricorso alla esecuzione specifica dell’obbligo a contrarre ex art.  2932, in quanto la sentenza che produce gli effetti del contratto non concluso non potrebbe far nascere

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PARTE VIII – CONTRATTO 

a) Fattispecie e effetti. Il contratto preliminare fissa un assetto di interessi preordinato alla stipula di un successivo contratto definitivo. È dunque necessario che contenga gli estremi essenziali del contratto definitivo: è un’indagine di fatto stabilire se le parti abbiano inteso solo fissare una puntuazione del contratto o stipulare un contratto preliminare o senz’altro concludere un contratto definitivo. Non possono però le parti rimanere indefinitamente obbligate: in assenza di previsione del termine, deve valere la disciplina generale sul tempo dell’adempimento (art. 1183) 122; è in corso un indirizzo giurisprudenziale che tende a rimettere al giudice la valutazione di ragionevolezza del tempo trascorso, anche senza una preventiva fissazione giudiziale del termine (ad es. in tema di condizione: VIII, 3.20). Dal contratto preliminare può derivare un obbligo di stipulazione del definitivo a carico di entrambe le parti (c.d. preliminare bilaterale), come più spesso accade; oppure un obbligo di stipulare a carico di una sola parte (c.d. preliminare unilaterale). Il contratto preliminare unilaterale si diversifica dall’opzione. Il patto di opzione ha in comune con il contratto preliminare unilaterale l’assunzione dell’obbligazione da parte di un solo contraente, ma se ne distingue per lo svolgimento del percorso negoziale. Il preliminare unilaterale è un contratto perfetto e autonomo rispetto al definitivo; il beneficiario, se intende avvalersene, deve stipulare un successivo contratto, e se la parte obbligata si rifiuta deve ottenere una sentenza costitutiva che produca gli effetti del contratto non concluso (art. 2932); invece l’opzione è collocata nel procedimento di formazione del contratto, che si conclude con l’accettazione del promissario che, saldandosi con la proposta irrevocabile, perfeziona il contratto. Il contratto preliminare ha una efficacia obbligatoria, sebbene assistito da una peculiare modalità di adempimento in forma specifica (di cui appresso) 123. Si è tradizionalmente ritenuto che dal contratto preliminare derivi solo una obbligazione di facere e cioè di stipulare il contratto definitivo 124. Sono però frequenti gli indirizzi che tendono a valo 

un’obbligazione di restituzione senza la preventiva consegna della cosa: a favore del soggetto non inadempiente opera solo il diritto al risarcimento del danno. Del resto l’art. 1822 prevede la promessa di mutuo al solo fine di far funzionare l’autotutela del mutuante, consentendogli di non adempiere la sua obbligazione quando le condizioni patrimoniali dell’altra parte sono tali da rendere notevolmente difficile la restituzione e non gli sono offerte idonee garanzie: previsione peraltro pleonastica derivando tale autotutela già dalla regola generale dell’art. 1461 (che evidentemente il legislatore ha ribadito per confermare la validità di un contratto preliminare di mutuo) (cfr. Cass. 6-6-2003, n. 9101; Cass. 18-6-1981, n. 3980). 122 La regola dell’immediata esigibilità della prestazione ex art. 1183 opera con esclusivo riguardo al caso della mancata determinazione del tempo della medesima; mentre quando il termine non sia stato fissato per essersene rimessa l’individuazione alla volontà di una delle parti, spetta al giudice di stabilirlo secondo le circostanze (Cass. 11-5-2010, n. 11371). 123 Per l’efficacia obbligatoria, la giurisprudenza, dopo una certa oscillazione, è pervenuta a considerare valido il contratto preliminare con oggetto un immobile non conforme urbanisticamente, statuendo che la nullità ex art. 40 L. 47/1985 attenga ai soli contratti con effetti traslativi e non anche quelli con efficacia solo obbligatoria, quale il preliminare di vendita (Cass. 7-2-2020, n. 2909). Ove il preliminare abbia ad oggetto un immobile irregolare urbanisticamente, al mediatore spetta egualmente la provvigione, per aver costituito tra le parti un valido vincolo giuridico (Cass. 29-4-2020, n. 8363). 124 Stipulato il contratto definitivo, questo costituisce l’unica fonte dei diritti e delle obbligazioni inerenti al particolare negozio voluto, in quanto il contratto preliminare, determinando soltanto l’obbligo reciproco della stipulazione del contratto definitivo, resta superato da questo, la cui disciplina può anche non conformarsi  a quella del preliminare (Cass. 25-2-2003, n. 2824; Cass. 9-7-1999, n. 7206). È però da ritenere che il contrat-

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rizzare la strumentalità del preliminare rispetto al conseguimento del risultato programmato. Essendo il contratto preliminare preordinato alla stipula del definitivo si tende ad estendere al preliminare varie disposizioni proprie del definitivo, specialmente in materia di vendita: ad es. è estesa al contratto preliminare la disciplina relativa alla “vendita a corpo” (art. 1538) 125; nell’ipotesi di preliminare di vendita di cosa altrui, la giurisprudenza ammette che il diritto si trasferisca direttamente dal terzo al promissario acquirente 126 (VIII, 2.23); è anche ammesso un preliminare di vendita di cosa futura 127. In sostanza il preliminare fissa un regolamento prodromico e funzionale al conseguimento del risultato realizzato dal definitivo 128, derivando così dal preliminare l’obbligo delle parti di tenere il comportamento necessario al raggiungimento dello scopo perseguito. Il contratto definitivo svolge una duplice funzione: attua il programma divisato con il preliminare e completa e stabilizza il complessivo assetto di interessi perseguito 129. Di  

to preliminare possa comunque costituire un parametro per l’interpretazione del contratto definitivo, ai sensi dell’art. 13622, quando sorgano contestazioni sul significato di alcune clausole del definitivo. 125 Essendo il contratto preliminare regolato anche dalle norme integrative della disciplina del contratto, tra le quali quella dell’art. 1538 c.c., è legittimo il rifiuto della stipulazione del contratto definitivo da parte del promissario compratore che pretenda la riduzione del prezzo opponendo, con fondamento o, comunque, senza colpa, che la misura reale del bene è inferiore ad un ventesimo rispetto a quella indicata nel contratto (Cass. 5-9-2013, n. 20393). 126 Dalla ricostruzione che, con il preliminare di vendita nasca a carico del promittente venditore una obbligazione di dare, la giurisprudenza ha tratto il corollario che, relativamente ad un preliminare di vendita di cosa altrui, il promittente venditore di una cosa che non gli appartiene possa adempiere la propria obbligazione “procurando l’acquisto del promissario direttamente dall’effettivo proprietario, senza necessità di un doppio trapasso”: in tal caso il proprietario acquirente, indipendentemente dal fatto che sia consapevole o meno dell’altruità del bene, non potrà agire per la risoluzione del contratto e per il risarcimento dei danni; viceversa il promittente alienante continua ad essere responsabile per le garanzie per vizi ed evizione (Cass., sez. un., 18-5-2006, n. 11624). Vedi anche Cass. 25-7-2006, n. 16937. Il promissario acquirente non può agire per la risoluzione prima della scadenza del termine per la stipula del contratto definitivo, in quanto il promittente venditore fino a tale data può adempiere l’obbligazione di fargli acquistare la proprietà del bene o acquistandola egli stesso dal terzo proprietario o inducendo quest’ultimo a trasferirgliela (Cass. 23-8-2007, n. 17923). V. anche Cass. 24-7-2007, n. 16362. Nell’ipotesi in cui il terzo effettivo proprietario della cosa promessa in vendita aderisca al preliminare di vendita, egli non assume alcun obbligo diretto nei confronti del promissario acquirente, in quanto non è parte del preliminare di vendita di cosa altrui, ma assume in questo caso un obbligo esclusivamente nei confronti del promittente alienante (Cass. 20-8-2014, n. 18097). Sono anche ammessi un preliminare di acquisto per sé o per persona da nominare (Cass. 7-3-2002, n. 3328) e un preliminare a favore del terzo (Cass. 1-12-2003, n. 18321). 127 Il preliminare di vendita di cosa futura ha come “contenuto soltanto la stipulazione di un successivo contratto definitivo” e pertanto produttivo, dal momento in cui si perfeziona, di semplici effetti obbligatori preliminari, distinguendosi dal contratto di vendita di cosa futura che si perfeziona ab initio ed attribuisce lo ius ad habendam rem nel momento in cui la cosa venga ad esistenza (Cass. 1-3-2007, n. 4888). 128 Il contratto preliminare è sempre più visto come un negozio destinato a realizzare un assetto di interessi prodromico a quello compiutamente attuato con il definitivo. Perciò si è pervenuti a stabilire che, con riguardo a contratti inerenti al trasferimento di diritti reali, il relativo oggetto è “non solo e non tanto un facere, consistente nel manifestare successivamente una volontà rigidamente predeterminata quanto alle parti e al contenuto, ma anche e soprattutto un dare: la trasmissione della proprietà, che costituisce il risultato pratico avuto di mira dai contraenti” (Cass., sez. un., 18-5-2006, n. 11624). 129 La causa della operazione economica proviene dall’intreccio del preliminare con il definitivo (come negozi collegati): ognuno dei due contratti concorre alla formazione dell’operazione economica con le statuizioni valide che lo caratterizzano, più spesso sovrapponibili, talvolta volutamente collocate distintamente nei due atti, specie quando solo il definitivo è trascritto. È possibile provare il carattere simulatorio del preliminare, con i limiti di prova che vi ineriscono (VIII, 3.15). Va accertata la rilevanza della invalidità di singole  

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PARTE VIII – CONTRATTO 

regola il definitivo è assorbente del preliminare, tranne che le parti, per varie ragioni, non abbiano pattuito di fare salve alcune pattuizioni del preliminare, non riprodotte nel definitivo 130. b) Forma e trascrizione. Per l’art. 1351 il contratto preliminare è nullo se non è fatto nella stessa forma che la legge prescrive per il contratto definitivo (c.d. forma per relationem). La norma si giustifica per la possibilità accordata a ciascuna parte di ottenere in via giudiziaria gli effetti del contratto non concluso (art. 2932), perciò senza l’intervento della controparte. Mancando la stipula del contratto definitivo, è esclusivamente dal contratto preliminare che risulta l’intento delle parti di realizzare lo specifico assetto di interessi: è perciò necessario che, quando una forma è richiesta ad substantiam, la stessa sussista già relativamente al contratto preliminare. Si è tradizionalmente ritenuto che pure la modifica di tale preliminare sia soggetta alla medesima forma; ma più di recente si tende ad ammettere il mancato rispetto di tale forma rispetto agli elementi accidentali del contratto 131. E il discorso può valere per tutte le ipotesi di vincoli a contrarre, come prelazione e opzione. La forma dell’atto ha assunto rilevanza anche ai fini della trascrizione del preliminare, di cui ampiamente in seguito (XIV, 2.9). Con D.L. 31.12.1996, n. 669 (conv. con modif. con L. 28.2.1997, n. 30) è stato introdotto l’art. 2645 bis che prevede la soggezione a trascrizione dei contratti preliminari aventi ad oggetto la conclusione di contratti di cui ai nn. 1, 2, 3 e 4 dell’art. 2643 (cioè determinativi di vicende di diritti reali su beni immobili) 132, anche se sottoposti a condizione o relativi a edifici da costruire o in corso di costruzione, se risultano da atto pubblico o da scrittura privata con sottoscrizione autenti 

statuizioni in uno dei due contratti e il ruolo svolto nell’economia dell’intera operazione; analogamente rileva la consapevolezza della invalidità del preliminare e la volontà di mantenere l’operazione con la stipula del definitivo. 130 Nell’ipotesi di statuizione nel definitivo di un prezzo di vendita inferiore a quello convenuto nel preliminare (per chiari fini tributari), la presunzione di conformità del nuovo accordo alla volontà delle parti può, nel silenzio del contratto definitivo, essere vinta soltanto dalla prova – la quale deve risultare da atto scritto, ove il contratto abbia ad oggetto beni immobili – di un accordo posto in essere dalle stesse parti contemporaneamente alla stipula del definitivo, dal quale risulti che altri obblighi o prestazioni, contenute nel preliminare, sopravvivono, dovendo tale prova essere data da chi chieda l’adempimento di detto distinto accordo (Cass. 30-8-2017, n. 20541). 131 La forma solenne non riguarda le determinazioni relative all’esecuzione del contratto: è perciò valido un accordo verbale di differimento del termine di stipula del contratto definitivo di vendita di immobile (Cass. 25-6-2005, n. 13703). V. anche Cass. 30-3-2021, n. 8765: per quanto concerne il preliminare di vendita immobiliare, la rinuncia delle parti di modificare (o di avvalersi di) uno egli elementi accidentali del negozio, come il termine oppure una condizione, non richiede la forma scritta, sia perché detta forma è necessaria solo quando il diritto immobiliare costituisca l’oggetto diretto e immediato della rinuncia o della pattuizione, sia perché l’accordo delle parti in ordine alla rinuncia o alla modifica non incide su alcuno degli elementi essenziali del contratto. 132 La trascrivibilità del contratto preliminare relativo a beni immobili fa emergere una profonda incongruenza rispetto al preliminare di cessione di azienda per il quale non è prevista la pubblicità (L. 29.12.1993, n. 580; D.P.R. 7.12.1995, n. 581; D.P.R. 14.12.1999, n. 558); eppure, molto spesso, il valore di un’azienda è di gran lunga superiore a quello di un singolo immobile! Si prospetta una interpretazione analogica della normativa sulla pubblicità del preliminare, operando anche con riguardo alla vita delle imprese apposito registro di pubblicità: l’omogeneità degli effetti perseguiti dalla pubblicità del preliminare nei due campi e la esistenza in entrambi i campi di appositi registri di pubblicità deve orientare verso un regime unitario di tutele, secondo un fondamentale criterio di ragionevolezza (ex art. 3 Cost.).

CAP. 2 – CONCLUSIONE

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cata o accertata giudizialmente (co. 1). Consegue che i soli contratti preliminari stipulati con una di tali forme sono soggetti a trascrizione. La trascrizione del contratto preliminare produce un effetto prenotativo, per cui la trascrizione del contratto definitivo o di altro atto che costituisca esecuzione del contratto preliminare ovvero della sentenza che accoglie la domanda diretta ad ottenere l’esecuzione in forma specifica del contratto preliminare prevale sulle trascrizioni ed iscrizioni eseguite contro il promittente alienante dopo la trascrizione del contratto preliminare (co. 2). L’effetto prenotativo viene meno se entro un anno dalla data convenuta per la conclusione del contratto definitivo e in ogni caso entro tre anni dalla trascrizione del contratto preliminare non segua la trascrizione del contratto definitivo o della domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre ex art. 2652, n. 2; trascorsi i termini indicati, gli effetti della trascrizione del contratto preliminare cessano e si considerano come mai prodotti (co. 2 e 3). Il medesimo regime vale con riguardo ai contratti preliminari inerenti a porzioni di edifici da costruire o in corso di costruzione (D.Lgs. 122/2005, come modificato dal D.Lgs. 14/2019) (IX, 1.6) 133. c) Inadempimento e tutele. Quando la parte obbligata a concludere il contratto definitivo si rende inadempiente, per non volere più stipulare il contratto definitivo, la parte non inadempiente può ricorrere a due tipi di tutela: l’esecuzione in forma specifica e la risoluzione del contratto. 1) Con l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre la parte interessata mira alla realizzazione dell’operazione. Per l’art. 29321, se colui che è obbligato a concludere un contratto non adempie l’obbligazione, l’altra parte, “qualora sia possibile” 134 e “non sia escluso dal titolo”, può ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso: la sentenza tiene luogo del consenso non prestato dal soggetto inadempiente ed ha dunque efficacia costitutiva (art. 2908) 135. Trattasi di un’azione di natura personale contro l’inadempimento di un’obbligazione di facere 136 operante anche in altre ipotesi (es. mandato ad acquistare un bene immobile o un bene mobile registrato non ritrasferito dal mandatario al mandante: art. 17062), che permette alla parte non inadempiente di conseguire, in via giudiziaria, quegli effetti che sarebbero dovuti derivare con la stipula del successivo contratto 137. Nel contratto preliminare a favore del terzo   133 Vanno indicate la superficie utile della porzione di edificio e la quota del diritto spettante al promissario acquirente rispetto al costruendo edificio espressa in millesimi; appena l’edificio viene ad esistenza gli effetti della trascrizione si producono rispetto alle porzioni materiali corrispondenti alle quote di proprietà predeterminate nonché alle relative parti comuni (co. 4 e 5). 134 Ad es., non deve essere stata pronunziata dichiarazione di fallimento del venditore (Cass., sez. un., 14-4-1999, n. 239) o non deve essere intervenuto decreto di esproprio del bene (Cass. 10-3-2006, n. 5162). 135 Il principio della retroattività degli effetti della pronuncia alla data di notificazione dell’atto introduttivo del giudizio non opera nei riguardi delle sentenze costitutive, fra le quali rientra quella di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto, i cui effetti si producono ex nunc, con il passaggio in giudicato (Cass. 4-7-2003, n. 10564; Cass., sez. un., 3-7-1993, n. 7286). 136 Cfr. Cass. 25-6-2020, n. 12642 quando è stata richiesta la esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre e non sia possibile pervenire alla relativa pronuncia per impossibilità dell’oggetto (nella specie mancava la necessaria documentazione urbanistica), il giudice non incorre in ultrapetizione se si limita a dichiarare l’inadempimento del promittente venditore (Cass. 25-10-2010, n. 21844). 137 Il rimedio ex art. 2932 è applicabile a qualsiasi ipotesi dalla quale sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o per la costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia  

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PARTE VIII – CONTRATTO 

l’effetto prodotto dalla sentenza costitutiva si realizza immediatamente nei confronti del terzo (ad es., in virtù della sentenza, il terzo diventa acquirente del bene alienato). Se il contratto preliminare è finalizzato al trasferimento della proprietà di una cosa determinata o al trasferimento o costituzione di altro diritto, presupposto della domanda di esecuzione in forma specifica è la esecuzione della prestazione dovuta o l’offerta di esecuzione della stessa nelle forme di legge, salvo che la prestazione non sia ancora esigibile (art. 29322). La previsione ha la finalità di consentire l’attuazione del sinallagma del contratto non concluso. La giurisprudenza tende a stemperare il rigore di tale onere, ritenendo sufficiente la c.d. offerta secondo gli usi (art. 1214) o addirittura la mera domanda di esecuzione in forma specifica del contratto contenente l’implicita volontà di adempiere 138. Varie questioni sono sorte relativamente al preliminare di alienazione di beni in comunione legale 139. Si tende a ricondurre alla contrattazione preliminare anche i patti regolatori della crisi coniugale che impegnano i coniugi ad atti di trasferimento: sono negozi dispositivi atipici, gratuiti ma non liberali (VIII, 3.18), in quanto stipulati nell’assolvimento di doveri familiari, con la conseguenza che per l’attuazione di tali trasferimenti si possa dare luogo alla esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre ex art. 2932 c.c. La sentenza è soggetta a trascrizione quale titolo degli effetti traslativi (art. 2643, n. 14); è pure soggetta a trascrizione la domanda giudiziale di esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre, per gli effetti previsti dall’art. 26521, n. 2. Come ogni diritto, anche il diritto alla esecuzione in forma specifica del preliminare è soggetto alla prescrizione ordinaria, decorrente da quando il diritto può essere fatto valere e cioè dalla scadenza del termine per la stipulazione del contratto definitivo 140.  

in relazione a un atto o fatto dai quali detto obbligo possa sorgere ex lege (Cass. 30-3-2012, n. 5160). Il rimedio ex art. 2932 è ammesso anche nei confronti di una società cooperativa che abbia per oggetto la costruzione di alloggi per i soci, di fronte al “rifiuto della società di prestarsi, in concorso di tutte le circostanze richieste, all’atto traslativo dell’immobile al socio assegnatario” (Cass. 23-5-2008, n. 13403). 138 L’offerta del pagamento del residuo prezzo della vendita deve essere effettuata formalmente solo nell’ipotesi in cui il contratto preliminare abbia previsto che il versamento del prezzo debba avvenire in un momento antecedente alla stipula dell’atto traslativo, mentre nella ipotesi di prevista contestualità, non è necessaria una offerta formale, essendo sufficiente la manifestazione dell’intendimento di adempiere la controprestazione, anche implicito (Cass. 28-7-2010, n. 17688). Quando, per accordo delle parti la controprestazione debba essere eseguita al momento della stipula del contratto definitivo o successivamente, la sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c. è pronunziata indipendentemente da qualsiasi offerta ed il pagamento del prezzo o della parte residua di esso è imposto dal giudice quale condizione dell’effetto traslativo derivante dalla sentenza stessa (Cass. 19-4-2016, n. 7711; Cass. 4-3-2016, n. 4305; Cass. 24-8-2012, n. 1462). La disponibilità della parte promissaria acquirente al pagamento del prezzo residuo, manifestata nel giudizio avente ad oggetto l’esecuzione del preliminare ovvero la sua risoluzione, integra gli estremi del riconoscimento del diritto che interrompe la prescrizione ex art. 2944 c.c., dovendosi attribuire tale effetto a qualsiasi atto implicante l’esistenza del debito ed incompatibile con la volontà di disconoscere la pretesa del soggetto attivo (Cass. 2-9-2019, n. 21947). 139 Si è stabilito che, nell’azione prevista dall’art. 2932 c.c. promossa dal promissario acquirente, per l’adempimento in forma specifica o per i danni da inadempimento contrattuale, nei confronti del promittente venditore che, coniugato in regime di comunione dei beni, abbia stipulato il preliminare senza il consenso dell’altro coniuge, quest’ultimo deve considerarsi litisconsorte necessario del relativo giudizio, con la conseguenza che, qualora non sia stato integrato il contraddittorio nei suoi confronti, il processo svoltosi è da ritenersi nullo e deve essere nuovamente celebrato a contraddittorio integro (Cass., sez. un., 24-8-2007, n. 17952). 140 Il contratto preliminare è fonte di obbligazione al pari di ogni altro contratto e il suo particolare oggetto (cioè l’obbligo di concludere il contratto definitivo) non esclude che l’inattività delle parti, ove si pro 

CAP. 2 – CONCLUSIONE

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2) Con la risoluzione del contratto preliminare la parte mira alla eliminazione dell’operazione. È la normale azione di risoluzione del contratto per inadempimento (artt. 1453 ss.) 141. Ciò avviene ad es. quando, prima della stipula del contratto definitivo, il promittente venditore alieni il bene oggetto di preliminare a un terzo (cui il preliminare non sia opponibile) o non compia gli atti necessari all’alienazione (es. richiedendo le autorizzazioni amministrative) o non adempia un’obbligazione da eseguirsi prima del definitivo, o quando risulti certa la non conformità del bene a quello programmato o comunque non risulti realizzabile l’attribuzione traslativa. È possibile avvalersi dei rimedi di autotutela: sia quelli risolutori della diffida ad adempiere, della clausola risolutiva espressa e del termine essenziale; che quelli conservativi della eccezione di inadempimento e della sospensione della prestazione per mutamento delle condizioni patrimoniali dell’altro contraente (VIII, 10.12). In presenza di pagamento di una somma di danaro a titolo di caparra al momento della conclusione del contratto preliminare, presumendosi la caparra come confirmativa, è possibile avvalersi dei rimedi ex art. 13852, per cui se la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l’altra può recedere dal contratto ritenendo la caparra; se inadempiente è invece la parte che l’ha ricevuta, l’altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra; tranne che la parte non inadempiente sia interessata a richiedere l’esecuzione o la risoluzione, oltre il risarcimento del danno 142 (VIII, 7.4). Non è rara l’ipotesi di richiesta di una parte della esecuzione specifica del contratto e della controparte della risoluzione. Il giudice dovrà compiere una valutazione comparativa e unitaria degli inadempimenti addebitati dalle parti al fine di stabilire se sussista un inadempimento che legittimi la risoluzione 143. 3) In ogni caso la parte non inadempiente ha diritto al risarcimento dei danni, in via aggiuntiva se è conseguita la esecuzione in forma specifica, in via sostitutiva (e dunque in misura maggiore) se è ottenuta la risoluzione del contratto 144. d) Preliminare a effetti anticipati. Gli effetti dispositivi conseguono di regola alla stipula del contratto definitivo. Rientrando però nella competenza dell’autonomia privata la disponibilità degli effetti, seppure nei limiti segnati dall’ordinamento, è diffusa nella  

tragga per oltre dieci anni dalla scadenza del termine, sia pur non essenziale, ivi fissato, determini, a norma degli artt. 2934, 2935 e 2946 c.c., l’estinzione del diritto medesimo, salvi gli effetti di eventuali atti interruttivi (Cass. 22-3-2018, n. 7180). 141 In presenza di due contrapposte domande, una di esecuzione specifica del contratto preliminare e un’altra di risoluzione di tale contratto per inadempimento, bisogna svolgere una valutazione comparativa e unitaria degli inadempimenti, al fine di stabilire quale dei comportamenti sia responsabile delle trasgressioni maggiori e causa del comportamento della controparte (Cass. 13-1-2005, n. 587; Cass. 17-2-2004, n. 2992). 142 Il promissario acquirente, dopo avere inutilmente formulato diffida ad adempiere ed instaurato il conseguente giudizio per l’accertamento dell’avvenuta risoluzione di diritto del contratto, ben può, ove non abbia contestualmente avanzato richiesta di risarcimento ai sensi dell’art. 1453 c.c., instare per il semplice conseguimento del doppio della caparra versata, secondo la previsione dell’art. 1385 c.c., e sul presupposto della risoluzione di diritto verificatasi ex art. 1454 c.c. (Cass. 27-10-2017, n. 25623). 143 Cass. 15-2-2022, n. 4929. 144 Il risarcimento del danno al promissario acquirente per la mancata stipulazione del contratto definitivo di vendita, imputabile al promittente venditore, consiste nella differenza tra il valore commerciale del bene al momento della proposizione della domanda di risoluzione del contratto (cioè al tempo in cui l’inadempimento è divenuto definitivo) ed il prezzo pattuito; tale differenza va rivalutata per compensare la svalutazione intervenuta nelle more del giudizio (Cass. 28-7-2010, n. 17688; Cass., sez. un., 25-7-1994, n. 6938).

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PARTE VIII – CONTRATTO 

prassi anticipare al momento del preliminare (o comunque a prima del definitivo) alcuni degli effetti propri del contratto definitivo (c.d. preliminare ad effetti anticipati o preliminare spurio). È così frequente che una parte del prezzo della vendita sia pagata all’atto della stipulazione del preliminare e/o che la consegna del bene sia anticipata rispetto alla stipula del definitivo. Proprio con riguardo al conseguimento dell’anticipata disponibilità materiale del bene 145 si sono appuntati i maggiori dubbi circa la tutela del promissario acquirente. Per intanto è certo che non si determina una anticipazione dell’effetto traslativo, ma solo dell’adempimento della obbligazione di consegna 146. Pur configurandosi tale disponibilità materiale come “detenzione”, esercitata alieno nomine, trattasi comunque di una detenzione qualificata in quanto finalizzata all’acquisizione della proprietà del bene. Deve perciò riconoscersi al promissario acquirente, oltre l’azione possessoria di reintegrazione ai sensi dell’art. 11682, una ulteriore tutela funzionale al conseguimento della proprietà: nell’ipotesi di una difformità della cosa consegnata rispetto a quella promessa, la giurisprudenza – rinvenendo nel contratto preliminare un assetto di interessi funzionale al risultato pratico perseguito – è propensa ad accordare al promissario acquirente, anche disgiuntamente dall’azione prevista dall’art. 2932, la tutela contrattuale per inesatta esecuzione della prestazione dovuta 147 e specificamente per vizi 148 oltre che per la presenza di pesi di carattere reale 149. L’anticipazione di tutela non esclude che il promissario acquirente possa avvalersi della garanzia per vizi successivamente al trasferimento del diritto nei modi e termini di legge 150. Anche protraendosi la disponibilità materiale del bene per oltre venti anni, senza stipulare il contratto definitivo, avendo il promissario acquirente cominciato ad avere la detenzione (sebbene qualificata) non può mutare il titolo in possesso, tranne che non provi il mutamento del titolo (c.d. interversio possessionis) ai   145 Qualora il contratto preliminare preveda che il saldo del prezzo debba essere corrisposto alla consegna dell’appartamento e tale consegna sia prevista in data anteriore rispetto a quella fissata per la redazione dell’atto pubblico, rientra tra le obbligazioni gravanti sul promittente venditore anche quella di allegare il certificato di abitabilità dell’immobile contestualmente alla consegna dell’appartamento (Cass. 28-3-2001, n. 4513). 146 Nella promessa di vendita, quando viene convenuta la consegna del bene prima della stipula del contratto definitivo, e, unitamente o non, il pagamento anticipato del prezzo, non si verifica un’anticipazione degli effetti traslativi, bensì un rapporto tra contratti collegati (Cass. 3-7-2013, n. 16629). 147 Il promissario acquirente, che non voglia domandare la risoluzione del contratto, può agire contro il promittente venditore per l’adempimento, chiedendo, congiuntamente o disgiuntamente all’azione ex art. 2932, l’eliminazione dei vizi o la riduzione del prezzo (Cass. 26-1-2010, n. 1562; Cass., sez. un., 27-2-1985, n. 1720). 148 La presenza di vizi nella cosa consegnata prima del contratto definitivo abilita il promissario acquirente (senza il rispetto del termine di decadenza ex art. 1495) sia ad opporre l’eccezione di inadempimento al promittente venditore che chieda la stipulazione del contratto definitivo e il pagamento contestuale del prezzo, sia a chiedere la risoluzione del contratto preliminare per inadempimento del promittente venditore ovvero, alternativamente, la condanna dello stesso ad eliminare i vizi a sue spese o la riduzione del prezzo (Cass. 11-10-2013, n. 23162; Cass. 15-12-2006, n. 26943; Cass. 31-7-2006, n. 17304). 149 Al promissario acquirente è attribuito il potere di ottenere la liberazione dei pesi gravanti sul bene (art. 1482), oltre che, in alternativa, di agire per la risoluzione del contratto se ricorrono gli estremi del grave inadempimento (Cass. 12-3-2002, n. 3565; Cass. 1-12-2000, n. 15380). 150 Si è precisato che la consegna dell’immobile oggetto dell’accordo effettuata prima della stipula del definitivo non determina la decorrenza del termine di decadenza per opporre i vizi noti né quello di prescrizione, perché l’onere della tempestiva denuncia presuppone che sia avvenuto il trasferimento del diritto al promissario acquirente (Cass. 17-6-2013, n. 15098).

CAP. 2 – CONCLUSIONE

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sensi dell’art. 11412, per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il possessore; e ciò vale anche per i successori a titolo universale) 151. Intervenendo la dichiarazione di nullità del contratto preliminare o la risoluzione dello stesso, conseguono i comuni effetti dell’indebito oggettivo (art. 2033), con l’obbligo di restituzione delle prestazioni eseguite. Analogamente avviene per la eventuale consegna del bene se si determina la inefficacia del contratto preliminare per prescrizione del diritto di chiedere la esecuzione dell’obbligo a contrarre 152. e) Preliminare di immobili da costruire. È amara esperienza corrispondere un acconto per l’acquisto di immobile da costruire (c.d. su pianta) o in corso di costruzione e constatare poi che l’immobile, per varie ragioni (ad es. il fallimento del costruttore), non è costruito o comunque non ultimato. Una tutela generale proviene dalla trascrizione anche di tale forma di contratto preliminare ex art. 2645 bis (di cui si è detto sopra) per l’effetto prenotativo comportante la trascrizione. Una tutela più incisiva, specifica per le persone fisiche, è accordata dal D.Lgs. 20.6.2005 (modificato dal D.Lgs. 12.1.2019, n. 14), con più prescrizioni: a carico del costruttore, dell’obbligo di rilasciare una garanzia fideiussoria per gli importi ricevuti e una polizza assicurativa per i danni all’immobile; a favore dell’acquirente, del diritto di prelazione nell’acquisto dell’immobile se viene posto all’asta. Si parlerà ampiamente dell’articolata tutela trattando della vendita (IX, 1.6). f) Preliminare di preliminare. È prassi delle agenzie immobiliari fare sottoscrivere agli aspiranti acquirenti moduli (dalle stesse predisposti) contenenti proposte irrevocabili di acquisto o di accettazione ovvero preliminari succinti prodromici alla stipula di un compiuto contratto preliminare da concludere tra promittente venditore e promissario acquirente. La giurisprudenza, tradizionalmente contraria al fenomeno per lo stravolgimento della causa del contratto preliminare, prodromica e funzionale ad un assetto definitivo 153, ha mostrato ripensamenti quando emerge la configurabilità dell’interesse delle parti a una formazione progressiva del contratto basata sulla differenziazione dei contenuti negoziali: valorizzando la figura della “causa concreta”, offre riconoscimento alla volontà delle parti   151

Il conseguimento della disponibilità del bene da parte del promissario acquirente ha luogo con la piena consapevolezza dei contraenti che l’effetto traslativo non si è ancora verificato, risultando dal titolo l’altruità della cosa; ne consegue che “deve ritenersi inesistente nel promissario acquirente l’animus possidendi, sicché la sua relazione con la cosa va qualificata come semplice detenzione e non costituisce possesso utile ai fini dell’usucapione”: perché ciò avvenga è necessario l’interversio possessionis attraverso il compimento di atti in grado di manifestare all’esterno e quindi anche al possessore l’esercizio di un potere di fatto sulla cosa nomine proprio (Cass. 27-3-2008, n. 7930; Cass. 14-11-2006, n. 24290). Per il medesimo principio è stata esclusa l’applicabilità dell’art. 1148, relativo all’obbligo del possessore in buona fede di restituire solo i frutti percepiti dopo la domanda giudiziale (Cass. 28-6-2000, n. 8796; Cass. 27-2-1996, n. 1533). 152 La sopravvenuta inefficacia di un contratto preliminare di compravendita, a seguito della prescrizione del diritto da esso derivante alla stipulazione del contratto definitivo, comporta, per il promissario acquirente che abbia ottenuto la consegna anticipata della cosa, l’obbligo di restituzione, ex art. 2033 c.c., della cosa e degli eventuali frutti, non un’obbligazione risarcitoria per il mancato godimento del bene nel periodo successivo al compimento della prescrizione (Cass. 3-7-2013, n. 16629). 153 Si darebbe luogo ad una “superfetazione non sorretta da alcun effettivo interesse meritevole di tutela, ben potendo l’impegno essere assunto immediatamente”: esclusa la validità del primo preliminare, questo è ricostruito come una “puntuazione” destinata a fissare, senza effetto vincolante, il contenuto del successivo negozio (Cass. 2-4-2009, n. 8038).

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PARTE VIII – CONTRATTO 

di determinare e fissare “un nucleo di interessi da trasfondere nei vari passaggi contrattuali”, presidiato dall’obbligo di risarcimento danni per inadempimento 154. g) Patto di ripetizione del contratto. Contiguo ma diverso dal contratto preliminare in senso stretto è l’accordo con il quale le parti assumono l’obbligo di ripetizione del contratto concluso, perciò già definitivo ed efficace, in un contratto con forma diversa (c.d. preliminare improprio). È un impegno di documentare un contratto già stipulato e non di stipulare un contratto nuovo. È ad es. ricorrente, nel mercato immobiliare, che le parti stipulino un contratto di vendita per scrittura privata ma si obblighino a rivestire il contratto della forma dell’atto pubblico ai fini della trascrizione dello stesso. Gli effetti si producono all’atto della conclusione del primo (ed unico) contratto 155. Spesso è una questione di interpretazione stabilire se sia stato stipulato un preliminare o un definitivo 156. A fronte di una tradizionale impostazione, che non ammetteva la variazione della domanda di esecuzione in forma specifica del preliminare in domanda di accertamento del contratto concluso, per diversità di domande 157, si tende a valorizzare il c.d. petitum sostanziale, ammettendosi il mutamento di domanda 158.

24. Il divieto di alienazione. – Diversamente dai vincoli a contrarre innanzi delineati, tendenti ad un esercizio graduale dell’autonomia contrattuale attraverso la formazione   154

La stipulazione di un contratto preliminare di preliminare, in virtù del quale le parti si obbligano a concludere un successivo contratto che preveda soltanto effetti obbligatori (nella specie, relativo ad una compravendita immobiliare), ha natura atipica ed è valido ed efficace, ove sia configurabile un interesse delle parti, meritevole di tutela, ad una formazione progressiva del contratto, perché la procedimentalizzazione delle fasi contrattuali non può essere considerata, di per sé, connotata da disvalore, se intesa a comporre un complesso di interessi che sono realmente alla base dell’operazione negoziale; la violazione di tale accordo, in quanto contraria a buona fede, è idonea a fondare una responsabilità contrattuale da inadempimento di una specifica obbligazione sorta nella fase precontrattuale (Cass. 17-10-2019, n. 26484; Cass. 7-5-2020, n. 8638). La violazione di tale accordo, in quanto contraria a buona fede, potrà dar luogo a responsabilità per la mancata conclusione del contratto stipulando, da qualificarsi di natura contrattuale per la rottura del rapporto obbligatorio assunto nella fase precontrattuale (Cass., sez. un., 6-3-2015, n. 4628). Deve emergere la differenziazione dei contenuti negoziali, tale da identificare una più ristretta area del regolamento di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo preliminare (Cass. 20-3-2019, n. 7868; Cass. 17-1-2017, n. 923). 155 La successiva stipulazione, in forma di atto pubblico, di un contratto di vendita definitivamente concluso dalle parti mediante scrittura privata, non vale a trasformare quest’ultimo in una promessa bilaterale di futuro contratto, giacché la successiva redazione dell’atto pubblico assolve una funzione meramente riproduttiva degli estremi del negozio (Cass. 23-8-2019, n. 21650). 156 Il carattere preliminare o definitivo di una vendita non dipende dalla pattuizione di un impegno a comparire davanti a un notaio per la formazione di un atto pubblico suscettibile di trascrizione, dovendosi indagare se le parti abbiano inteso soltanto obbligarsi all’alienazione oppure abbiano senz’altro traferito la proprietà (Cass. 31-3-2022, n. 10364). 157 Nella domanda di esecuzione coattiva del contratto preliminare l’attore è titolare di un diritto potestativo e agisce per ottenere una sentenza costitutiva che produca gli effetti del contratto non concluso; nella domanda di sentenza che accerti l’avvenuto effetto traslativo agisce quale titolare di un diritto reale e chiede una sentenza dichiarativa che attesti che il trasferimento si è avverato (Cass., sez. un., 5-3-1996, n. 1731). 158 La modificazione della domanda ammessa ex art. 183 c.p.c. può riguardare anche uno od entrambi gli elementi identificativi della medesima sul piano oggettivo (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti in ogni caso connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che per ciò solo si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte ovvero l’allungamento dei tempi processuali; deve ritenersi ammissibile la modifica della iniziale domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto in domanda di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo (Cass., sez. un., 15-6-2015, n. 12310).

CAP. 2 – CONCLUSIONE

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progressiva del contratto, il divieto di alienazione vincola in modo maggiormente incisivo l’autonomia privata, escludendone l’esercizio. Indipendentemente dalla soluzione teorica del problema se il potere di disposizione sia espressione della capacità di agire o integri il contenuto del diritto (come noi riteniamo), il divieto di alienazione di un diritto integra il più incisivo vincolo a contrarre del titolare del diritto. Il divieto legale di alienazione è preclusivo della conclusione del contratto, e il contratto concluso in dispregio del divieto è invalido. Il divieto, talvolta, è legato a esigenze esistenziali, compenetrato nella natura del diritto 159; talaltra, è connesso a relazioni familiari, connaturato alla relazione stessa 160; più spesso è connesso a interventi di ausilio pubblico e tende ad assicurare l’attuazione dello scopo prefigurato: in tal caso, è sempre di carattere temporaneo per non frustrare un razionale sfruttamento dei beni 161. Il divieto negoziale di alienazione trova un’articolata disciplina nell’art. 1379, collocato nel capo relativo agli “effetti del contratto” 162. La norma si conforma al principio di relatività del contratto, prevedendo che il divieto di alienazione, stabilito per contratto, “ha effetto solo tra le parti”; il contratto non è valido se non è contenuto “entro convenienti limiti di tempo” e se non risponde a un “apprezzabile interesse di una delle parti”. Per l’ampiezza della formulazione, si è soliti attribuire alla norma una portata generale 163. Si ritiene che gli specifici requisiti di validità tendono a restringere il campo di limitazione del potere di disposizione; mentre l’efficacia solo tra le parti del divieto evita di compromettere l’acquisto del terzo e quindi la sicurezza della circolazione giuridica. Dalla pattuizione del divieto di alienare si fa discendere la sola efficacia obbligatoria, con   159 L’ipotesi di maggiore rilevanza, anche per il diffuso impatto sociale, riguarda la indisponibilità degli alimenti: per l’art. 447 il credito alimentare non può essere ceduto; né l’obbligato può opporre all’altra parte la compensazione, neppure quando si tratta di prestazioni arretrate (v. art. 1246, n. 5). In ragione dell’inerenza ai bisogni propri e della propria famiglia è stabilita la indisponibilità del diritto di uso e di abitazione: per l’art. 1024 i diritti di uso e di abitazione non si possono cedere o dare in locazione. 160 Si pensi alla inalienabilità dell’usufrutto legale sui beni dei figli minori (art. 326). 161 Le disposizioni legislative di favore nell’accesso all’abitazione hanno sempre sancito il divieto di alienazione dell’alloggio di edilizia economica e popolare e di edilizia residenziale pubblica per un certo numero di anni (di regola dieci) dall’acquisto di esso o dall’assegnazione. Il vincolo dispositivo mira a preservare la funzione pubblica perseguita di soddisfare esigenze abitative (almeno nel decennio successivo all’acquisizione da parte del privato): è da ritenere che il divieto di alienazione abbracci ogni atto di trasferimento, sia a titolo oneroso che gratuito. Anche con riguardo alla proprietà diretta coltivatrice, sono state varie le disposizioni che hanno imposto vincoli al potere di disposizione del privato che ha acquistato il fondo con le c.d. agevolazioni della piccola proprietà contadina. 162 Il divieto di alienazione è di sovente adottato dalle case automobilistiche, inserito nei contratti di vendita delle auto ai propri dipendenti ad un prezzo inferiore di quello di mercato: il divieto di alienazione del bene per un determinato termine evita che si formi un mercato parallelo a più basso costo. 163 Ad es. il mandato a vendere in rem propriam preclude al mandante la possibilità di alienare direttamente il bene, come si desume dagli artt. 17232 e 1724; è essenziale a pena di nullità, la previsione di un termine ultimo di durata del mandato, decorso il quale l’incarico deve intendersi cessato, attesa la disposizione di portata generale dell’art. 1379, applicabile anche a pattuizioni che comportino comunque limitazioni incisive del diritto di proprietà (Cass. 20-11-2019, n. 30246). È nullo per violazione dell’art. 1379, il legato modale con cui il testatore abbia sottoposto un bene a un vincolo perpetuo di destinazione (Cass. 20-6-2017, n. 15240). L’art. 1379, essendo espressione di un principio di portata generale, è applicabile anche a pattuizioni che, come quelle contenenti un vincolo di destinazione, seppur non puntualmente riconducibili al paradigma del divieto di alienazione, comportino limitazioni altrettanto incisive del diritto di proprietà (Cass. 17-11-1999, n. 12769; Cass. 11-4-1990, n. 3082).

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PARTE VIII – CONTRATTO 

la responsabilità per inadempimento contrattuale del soggetto promittente, che ha alienato il bene in violazione del divieto. Trattando della efficacia del contratto, si vedrà come ulteriori discipline siano dettate per il divieto di cessione di diritto di credito, il divieto di cessione di diritti reali limitati, il divieto di cessione di partecipazioni sociali: va ricostruito un sistema diversificato ed articolato della efficacia, obbligatoria o reale, del patto di non alienazione in ragione della natura e del collegamento funzionale degli interessi coinvolti (VIII, 6.14).

E) RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE 25. Le ipotesi tipizzate di responsabilità. – L’ordinamento valuta il comportamento tenuto dalle parti durante le trattative e nella formazione del contratto, che deve informarsi al principio di buona fede (art. 1337). È la c.d. buona fede oggettiva e cioè il dovere di lealtà e correttezza che deve caratterizzare il comportamento delle parti nella formazione del contratto, che si traduce in dovere di informazione delle condizioni dell’affare compiuto e delle circostanze di fatto e di diritto in cui l’affare si colloca, assicurando trasparenza all’operazione: la violazione di tale dovere di buona fede comporta “responsabilità precontrattuale” (c.d. culpa in contrahendo). E si è visto come il dovere di buona fede è esplicativo del dovere di solidarietà che permea la relazionalità sociale (II, 7.3). Per riferirsi il controllo al comportamento tenuto dalle parti prima della conclusione del contratto, tradizionalmente è stata configurata come responsabilità extracontrattuale (aquiliana) che si connette alla violazione della regola di condotta preposta al corretto svolgimento della formazione del contratto, come violazione del principio del neminem laedere (ex art. 2043) 164. Più di recente, nello sviluppo di un filone dottrinale di valorizzazione della responsabilità da contatto sociale qualificato, è emersa la valutazione di una responsabilità contrattuale per violazione dell’obbligo di buona fede nella relazione sociale instaurata 165, con la conseguente applicazione della disciplina dell’inadempimento contrattuale ex art. 1218 (VII, 4.2). L’interesse protetto è quello della libertà negoziale, cioè l’interesse a non essere coinvolti in trattative inutili e a non stipulare contratti invalidi o inefficaci. Tale interesse trova ormai tutela anche nei rapporti con la pubblica amministrazione 166. Le cause che tradizionalmente hanno dato luogo a responsabilità precontrattuale erano connesse alla man  164

È giurisprudenza consolidata: Cass. 27-11-2009, n. 25047; Cass. 7-2-2006, n. 2525; Cass. 18-6-2005, n. 13164; Cass., sez. un., 9645/2001. 165 Anche la giurisprudenza è ormai su queste posizioni: la violazione della buona fede comporta inadempimento di una obbligazione che dà luogo a responsabilità contrattuale da contatto sociale qualificato, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ai sensi dell’art. 1173 e dal quale derivano, a carico delle parti, non obblighi di prestazione ai sensi dell’art. 1174 bensì reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione ai sensi degli artt. 1175 e 1375, con conseguente applicabilità del termine decennale di prescrizione ex art. 2946 (Cass. 12-7-2016, n. 14188). 166 Nell’ipotesi in cui la P.A. arbitrariamente coinvolga il privato in una trattativa su un piano paritetico, al di fuori della necessaria procedura di evidenza pubblica, creando un ingiustificato affidamento poi frustrato da pur legittimi provvedimenti di autotutela, la domanda risarcitoria formulata dal privato non deriva dalla lesione di un interesse legittimo ma di un diritto soggettivo, deducendosi non già il cattivo esercizio del potere ma la violazione degli obblighi di correttezza e buona fede nel corso delle trattative, con conseguente possibilità di devolvere ad arbitri la controversia (Cass. 21-12-2020, n. 29188).

CAP. 2 – CONCLUSIONE

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cata conclusione del contratto 167 e ricondotte alle previsioni degli artt. 1337 (per ingiustificata rottura delle trattative) e 1338 (per mancata comunicazione delle cause di invalidità). Si vedrà come tali ipotesi siano ormai da considerare come specifiche espressioni del generale principio del trattare lealmente. a) Ingiustificata rottura delle trattative. Per l’art. 1337 le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede. La ingiustificata rottura delle trattative si ha quando le trattative si spingano fino ad un punto di sviluppo da ingenerare nella controparte il ragionevole affidamento nella conclusione del contratto. Va ribadito che, fino alla conclusione del contratto, sia la proposta che l’accettazione sono revocabili, sebbene nei limiti fissati dall’art. 1328, sicché le parti possono sempre evitare la conclusione del contratto fino al perfezionamento dell’accordo: però l’arbitraria interruzione delle trattative, dopo avere ingenerato l’affidamento nella conclusione del contratto, è causa di responsabilità. Ad integrare la responsabilità non è necessaria la malafede nella interruzione delle trattative, essendo sufficiente l’assenza di giusta causa 168. A carico del danneggiato grava l’onere di provare l’affidamento suscitato dalla trattativa 169; a carico del danneggiante incombe l’onere di provare la giusta causa della interruzione della trattativa. Incorre in tale responsabilità anche il soggetto che, essendo a conoscenza della impossibilità di esecuzione del contratto e dunque della inutilità della stipulazione, non l’ha comunicata all’altra parte e successivamente ha interrotto le trattative adducendo appunto la inutilità del contratto. È da verificare in concreto se l’affinamento delle trattative (per l’accordo su alcuni punti dell’operazione o su altri connessi) sia pervenuto a fissare gli estremi essenziali del contratto da stipulare: minuta, puntuazione e anche la c.d. lettera di intenti (più formale) non sono come tali vincolanti, ma rilevano giuridicamente per l’eventuale affidamento suscitato, quali cause di responsabilità precontrattuale. b) Mancata comunicazione delle cause di invalidità. Per l’art. 1338 la parte che, conoscendo o dovendo conoscere la esistenza di una causa di invalidità, non ne dà notizia all’altra parte è tenuta a risarcire il danno da questa sofferto per avere confidato senza sua colpa nella validità del contratto. C’è, ad un tempo, la violazione di una norma strumentale di organizzazione che   167 Un tradizionale filone giurisprudenziale era dell’avviso che la configurabilità della responsabilità precontrattuale fosse preclusa dalla intervenuta conclusione del contratto (Cass. 5-2-2007, n. 2479; Cass. 16-4-1994, n. 3621). Come si vedrà, è un indirizzo ormai superato, potendo ricorrere responsabilità anche in presenza di conclusione del contratto. 168 Ad integrare tale fattispecie occorre il ricorso di tre presupposti: tra le parti siano intercorse trattative per la conclusione di un contratto giunte ad uno stadio tale da giustificare oggettivamente l’affidamento nella conclusione del contratto; una delle parti abbia interrotto le trattative così eludendo le ragionevoli aspettative dell’altra, la quale, avendo confidato nella conclusione finale del contratto, sia stata indotta a sostenere spese o a rinunciare ad occasioni più favorevoli; il comportamento della parte che recede dalla trattativa sia stato determinato, se non da malafede, almeno da colpa, e non sia quindi assistito da un giusto motivo (Cass. 7-5-2004, n. 8723; Cass. 18-7-2003, n. 11243; Cass. 10-1-2013, n. 477). 169 Ai fini dell’accertamento della responsabilità precontrattuale, il giudice di merito, dopo aver individuato il comportamento della parte che si assume contrario ai doveri di correttezza, deve altresì considerare l’idoneità di tale condotta ad ingenerare nella controparte l’idea di una rottura ingiustificata delle trattative e in tale valutazione non può prescindere dal comportamento tenuto dalla stessa parte adempiente (Cass. 12-7-2019, n. 18748; Cass. 2-11-2010, n. 22269).

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PARTE VIII – CONTRATTO 

comporta la invalidità dell’atto, e la trasgressione di una norma materiale di protezione che determina l’obbligo di risarcimento del danno. È bene chiarire: il ricorso di una causa di invalidità comunque determina la nullità o l’annullabilità del contratto; però la parte che, conoscendo o dovendo conoscere la causa di invalidità, non l’ha comunicata alla controparte compie un atto illecito per lesione della libertà negoziale della controparte. Pertanto, alla reazione dell’ordinamento sull’atto con la invalidità del contratto, si aggiunge la reazione a carico del soggetto per l’illecito compiuto. Consegue che, se entrambe le parti conoscevano o erano tenute a conoscere la causa di invalidità, c’è invalidità dell’atto ma non c’è responsabilità per nessuna delle parti; come non c’è responsabilità se la parte cui non è stata comunicata la causa di invalidità era comunque in grado di venirne a conoscenza con la diligenza (ordinaria o qualificata) che si connette alla specifica condizione soggettiva 170; criterio utilizzato anche nei rapporti con la pubblica amministrazione 171. C’è nell’art. 1338 un fondamentale riferimento per la ricostruzione di un generale principio del dovere di informazione nei rapporti giuridici contrattuali. In applicazione di tale principio è da ritenere che la parte sia responsabile anche per la mancata comunicazione di una causa di inefficacia del contratto e, a maggior ragione, per il mancato compimento degli atti necessari alla validità o efficacia del contratto (es. mancata richiesta di eventuali autorizzazioni amministrative) 172.

26. La clausola generale del trattare lealmente. – Più di recente la giurisprudenza ravvisa una responsabilità precontrattuale anche in ipotesi di valida conclusione del contratto, allorché vi sia violazione del principio di buona fede nel corso della formazione del contratto, con pregiudizio della vittima del comportamento scorretto. Gli artt. 1337 e 1338 sono connessi al principio di buona fede (oggettiva), integrando una clausola generale che impone alle parti di trattare con lealtà, con conseguente responsabilità per violazione di tale principio. In tal guisa l’incidenza del principio di buona fede travalica le due ipotesi tipizzate di responsabilizzata (ingiustificata rottura delle trattative e mancata comunicazione delle   170

È giurisprudenza costante che non ricorre responsabilità per colpa in contraendo allorquando la causa di invalidità del negozio, benché nota ad una parte e da questa taciuta, derivi da una norma di legge, per dovere essere questa nota per presunzione assoluta alla generalità dei contraenti: gli artt. 1337 e 1338 mirano, infatti, a tutelare nella fase precontrattuale il contraente di buona fede ingannato o fuorviato da una situazione apparente, non conforme a quella vera, e, comunque, dall’ignoranza della causa d’invalidità del contratto che gli è stata sottaciuta; ma se vi è colpa da parte sua, potendo con l’ordinaria diligenza venire a conoscenza della reale situazione o della causa di invalidità del contratto, le norme suddette non sono più applicabili (Cass. 8-7-2010, n. 16149; Cass. 2-3-2006, n. 4635). 171 Cfr. Cass. 26-6-2020, n. 12836: In tema di responsabilità precontrattuale nei rapporti con la Pubblica Amministrazione, la responsabilità ex art. 1338 c.c., a differenza di quella ex art. 1337 c.c., tutela l’affidamento di una delle parti non sulla conclusione del contratto, ma sulla sua validità, sicché non è configurabile una responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione ove l’invalidità del contratto derivi da norme generali, da presumersi note alla generalità dei consociati e quindi tali da escludere l’affidamento incolpevole della parte adempiente. 172 L’art. 1338 è applicabile a tutte le ipotesi di nullità, anche parziale, e di annullabilità, nonché alle ipotesi di inefficacia del contratto, dovendosi ritenere che anche in tal caso si riscontra la medesima esigenza di tutela delle aspettative delle parti al perseguimento delle utilità cui esse mirano mediante la stipulazione del contratto (Cass. 8-7-2010, n. 16149).

CAP. 2 – CONCLUSIONE

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cause di invalidità), per impegnare una serie aperta di ipotesi: anche se il contratto è validamente concluso, il comportamento scorretto di una parte influenza negativamente le scelte dell’altra parte e dunque si atteggia come illecito civile con conseguente obbligo di risarcimento danni. Il parlare chiaramente (clare loqui) è un fondamentale criterio morale e giuridico di coesione sociale, che integra una clausola generale di buona fede, che si atteggia come un obbligo a carico sia dei privati che della pubblica amministrazione, che rispondono per comportamento scorretto. Pure nella fase precontrattuale emerge dunque una atipicità delle fattispecie di illecito che, se generatrici di danni, sono fonti di responsabilità, spettando al giudice identificare in concreto i casi in cui un danno genera responsabilità e i connessi obblighi di risarcimento. Poiché tale dovere è correlato al dovere di solidarietà che permea la relazione sociale, il comportamento illecito tenuto integra una responsabilità da inadempimento di obbligo (indipendentemente dalla stipulazione o meno del contratto e della validità dello stesso) 173. Sono state così riscontrate varie direzioni di svolgimento di tale responsabilità. È stata delineata una responsabilità per carenza di informazione circa significativi profili dell’assetto di interessi, che opera indipendentemente dalla conclusione o meno del contratto 174. Varie discipline particolari a tutela di consumatori, risparmiatori e clienti in genere fanno obbligo al “professionista” e comunque al soggetto che predispone il contratto di fornire specifiche informazioni precontrattuali, sì da superare l’asimmetria informativa tra il predisponente il contratto e il consumatore o risparmiatore o cliente in genere che vi aderisce. Molto spesso tali obblighi informativi sono addirittura imposti a pena di nullità del contratto (come in seguito si vedrà). È stata anche delineata una responsabilità per reticenza nella conclusione del contratto. Se la reticenza assume la figura del dolo omissivo il contratto è annullabile (art. 1439); se opera come dolo incidente comporta solo l’obbligo di risarcire i danni subiti (art. 1440) (par. 11). La giurisprudenza tende a valorizzare la disciplina del dolo incidente nella ricostruzione di un generale principio del trattare lealmente, connettendo a tale comportamento la responsabilità per danni. È stato configurato un dovere di salvaguard ia dell’interesse della controparte, nei   173

La regola dell’art. 1337 ha valore di clausola generale che assume rilievo, non solo in caso di rottura ingiustificata delle trattative, e quindi di mancata conclusione del contratto o di conclusione di un contratto invalido o inefficace, ma anche nel caso di contratto valido e tuttavia risulti pregiudizievole per la parte vittima dell’altrui comportamento scorretto; il risarcimento va commisurato al “minor vantaggio o al maggior aggravio economico” rispetto alle condizioni diverse a cui sarebbe stato stipulato il contratto, senza l’interferenza del comportamento scorretto di una delle parti e comunque avendo riguardo a tutti i danni collegati a tale comportamento da un rapporto conseguenziale e diretto (Cass. 14-2-2022, n. 4715; Cass. 23-3-2016, n. 5762). Nel caso degli artt. 1337 e 1338 c’è un’obbligazione inadempiuta, che trova la propria fonte nel fatto giuridico dell’instaurazione tra le parti di una trattativa precontrattuale, e che ha per oggetto il comportamento secondo buona fede di ciascuna di esse; si tratta di responsabilità contrattuale, ma non da inadempimento di un contratto, bensì dalla violazione del dovere di buona fede imposto alle parti con i connessi obblighi di informazione e di protezione (Cons. Stato 21-2-2020, n. 1314; Cass. 21-10-2013, n. 23873; Cass. 26-4-2012, n. 6526). 174 È stato richiesto un dovere di completezza informativa circa la reale intenzione di concludere il contratto, senza che alcun mutamento delle circostanze possa risultare idoneo a legittimare la reticenza o la maliziosa omissione di informazioni rilevanti nel corso della prosecuzione delle trattative finalizzate alla stipulazione del negozio (Cass. 26-4-2012, n. 6526; Cass. 29-5-1998, n. 5297).

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PARTE VIII – CONTRATTO 

limiti di un apprezzabile sacrifico dell’interesse proprio (II, 7.6). Ed è stata altresì ravvisata una responsabilità per ingiustificato ritardo nella conclusione del contratto 175.

27. I danni risarcibili. – La determinazione dei danni risarcibili è legata alla dinamica dell’azione precontrattuale, risultando fondamentale se il contratto sia stato o meno concluso. Quando il contratto non è stato concluso (è la tipica responsabilità precontrattuale) si tende a limitare il risarcimento al ristoro del solo c.d. interesse negativo e cioè dell’interesse a non iniziare trattative inutili che hanno comportato la sopportazione di spese e la perdita di altre occasioni. Avendo riguardo alle comuni componenti del risarcimento alla stregua dell’art. 1223, la liquidazione del danno comprende il danno per la perdita subita (danno emergente) e il mancato guadagno (lucro cessante), rapportati all’interesse negativo: l’art. 1337 tutela non già l’interesse a perfezionare la trattativa quanto quello a non iniziarla inutilmente, con perdita di occasioni favorevoli. Il risarcimento cui ha diritto il soggetto danneggiato comprende dunque il rimborso delle spese sostenute in previsione della conclusione del contratto (viaggi, corrispondenza, progetti, acquisti finalizzati al contratto, anticipata esecuzione, ecc.) e le perdite sofferte per non avere concluso altri contratti (cioè il mancato guadagno ritraibile da differenti contratti che il soggetto danneggiato non ha coltivato o perfezionato per la stipula del contratto poi non concluso) 176; non comprende l’interesse positivo che pensava di trarre dal contratto stipulato, appunto perché non c’è stata conclusione del contratto e dunque non c’è stato inadempimento contrattuale. Quando il contratto è stato concluso nonostante la violazione del dovere di buona fede, è possibile fare applicazione della disciplina in materia di dolo incidente (art. 1440), in quanto il contratto è stato egualmente concluso ma a condizioni diverse, sicché il contraente in malafede risponde dei danni (par. 11). In generale l’impostazione ormai diffusa, che giustifica una responsabilità precontrattuale anche in presenza di conclusione di un contratto valido, amplia la sfera del danno risarcibile fino a comprendere il maggiore aggravio economico determinato dal comportamento sleale altrui 177. Sul soggetto danneggiato grava l’onere di provare l’illiceità del comportamento della controparte e i danni subiti. 28. La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione. – È ormai indirizzo giurisprudenziale acquisito che anche la pubblica amministrazione è tenuta al   175 Il perfezionamento di un contratto non esclude in sé la responsabilità, ai sensi dell’art. 1337, per i danni derivati dal ritardo nella sua formazione, in violazione del principio di buona fede; a maggior ragione se una parte è un’impresa esercente in condizione di monopolio legale, sussiste l’obbligo di non rinviarne ingiustificatamente la conclusione (Cass. 16-10-1998, n. 10249). 176 Il risarcimento deve comprendere sia la perdita subita che il mancato guadagno, purché in relazione immediata e diretta con la lesione dell’affidamento, e non del contratto, consistendo quindi il danno emergente nelle spese sostenute ed il lucro cessante nelle occasioni di lavoro mancate, mentre resta, in ogni caso, escluso quanto sarebbe stato dovuto in forza del contratto non concluso (Cass. 20-12-2011, n. 27648). Sui criteri di risarcimento del danno cfr. Cass. 13-10-2005, n. 19883; Cass. 29-9-2005, n. 19024. Per Cass. 23-2-2005, n. 3746, il danno per lucro cessante può essere costituito anche dal pregiudizio economico derivante dalla rinunzia alla stipulazione di un contratto avente contenuto diverso rispetto a quello per cui si sono svolte le trattative. 177 Il risarcimento del danno deve essere ragguagliato al minor vantaggio o al maggior aggravio economico determinato dal comportamento tenuto dall’altra parte in violazione dell’obbligo di buona fede, salvo che sia dimostrata l’esistenza di ulteriori danni che risultino collegati a detto comportamento da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto (Cass. 8-10-2008, n. 24795).

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rispetto, durante le trattative, dei generali doveri di correttezza e buona fede, come profilo della fiducia riposta dal cittadino nello svolgimento dell’attività amministrativa 178. È una responsabilità da comportamento, anche detta pura o in senso stretto, per assumere rilievo il solo comportamento tenuto dalla P.A., indipendentemente dal giudizio di legittimità dell’atto (l’atto potrebbe essere anche legittimo) 179. Vengono in rilievo i comuni obblighi di correttezza e buona fede gravanti su ogni soggetto (VIII, 1.12) 180. Il tema si è posto in particolare con riferimento all’esercizio di autotutela della P.A. di rimozione dell’atto amministrativo, sia con annullamento per vizi di legittimità dell’atto sia con revoca dello stesso per mutamento delle circostanze o rivalutazione dell’interesse pubblico: sono provvedimenti di secondo grado ad esito eliminatorio 181; è stato anche valorizzato il contatto sociale qualificato instaurato 182. La responsabilità ha interessato   178 In tema di responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione va precisato che il nuovo legame che si instaura tra dovere di correttezza e libertà di autodeterminazione negoziale (che va a sostituire l’impostazione precedente, che legava alla correttezza la tutela dell’interesse nazionale) impedisce di restringerne lo spazio applicativo alle sole situazioni in cui sia stato avviato un vero e proprio procedimento di formazione del contratto o, comunque, esista una trattativa che abbia raggiunto già una fase molto avanzata, tanto da far sorgere il ragionevole affidamento circa la conclusione del contratto; la valenza costituzionale del dovere di correttezza impone di ritenerlo operante in un più vasto ambito di casi, in cui, pur eventualmente mancando una trattativa in senso tecnico-giuridico, venga, comunque, in rilievo una situazione relazionale qualificata, capace di generare ragionevoli affidamenti e fondate aspettative (Cons. Stato 6-12-2019, n. 8347). 179 A seguito della nota sentenza di Cass., sez. un., 22-7-1999, n. 500, che ha ammesso la risarcibilità degli interessi legittimi (X, 1.3), è stato fugato ogni dubbio circa la responsabilità precontrattuale della P.A., quantunque utilizzi un procedimento di evidenza pubblica per selezionare l’altra parte, come un procedimento per l’aggiudicazione di un appalto. La responsabilità precontrattuale da comportamento scorretto della Stazione Appaltante sussiste in relazione a tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica, anche prima e a prescindere dell’aggiudicazione, e può derivare non solo da comportamenti anteriori al bando, ma anche da qualsiasi comportamento successivo che risulti contrario – all’esito di una verifica da condurre necessariamente in concreto – ai doveri di correttezza e buona fede (Cons. Stato, ad. plen., 4-5-2018, n. 5, cit.; Cons. Stato 2-5-2017, n. 1979; Cass. 12-5-2015, n. 9636; Cass. 3-7-2014, n. 15260). Il danno derivante dalla violazione di tali regole è limitato al c.d. interesse contrattuale negativo, consistente nel ristoro delle spese sostenute per la partecipazione alla gara e di una percentuale equitativa delle spese generali di impresa, e nel ristoro per la perdita – adeguatamente documentata – di altre favorevoli occasioni contrattuali, con esclusione del danno c.d. curriculare (Cons. Stato 1-2-2013, n. 633). 180 La violazione delle norme generali dell’ordinamento civile, che impongono di agire con lealtà e correttezza, può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull’interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illecite frutto dell’altrui scorrettezza. Affinché nasca la responsabilità dell’amministrazione non è sufficiente che il privato dimostri la buona fede soggettiva (ovvero che egli abbia maturato un affidamento incolpevole circa l’esistenza di un presupposto su cui ha fondato la scelta di compiere conseguenti attività economicamente onerose), ma occorrono gli ulteriori seguenti presupposti: a) che l’affidamento incolpevole risulti leso da una condotta che, valutata nel suo complesso, e a prescindere dall’indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti, risulti oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà; b) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all’amministrazione, in termini di colpa o dolo; c) che il privato provi sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità fra tali danni e la condotta scorretta che si imputa all’amministrazione (Cons. Stato, ad. plen., 4-5-2018, n. 5; Cons. Stato 8-11-2017, n. 5146). 181 È rinvenibile un’ipotesi di responsabilità precontrattuale a carico dell’amministrazione, ai sensi dell’art. 1337 c.c., anche quando il ritiro in autotutela di atti prodromici alla stipula di un atto negoziale non risulti ex se illegittimo (Cons. Stato 13-9-2018, n. 5363; Cons. Stato 20-2-2014, n. 790). 182 Si è stabilito che, in tema di contratti conclusi con la P.A., l’eventuale responsabilità di quest’ultima, in  

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PARTE VIII – CONTRATTO 

anche aggiudicazioni seguite da contratto ad evidenza pubblica, ma prive dell’approvazione ministeriale 183. Diversa è la c.d. responsabilità precontrattuale per illegittimità dell’atto amministrativo, c.d. spuria o in senso lato, che designa i danni cagionati da provvedimenti illegittimi nel corso della procedura di evidenza pubblica: trattasi dell’illegittimo esercizio della potestà amministrativa con conseguente lesione dell’interesse legittimo pretensivo al conseguimento del bene della vita. Il riferimento al carattere precontrattuale indica il legame cronologico con la fase delle trattative, restando assenti i tratti della figura civilistica: il privato infatti non deduce la violazione del principio di buona fede bensì l’illegittimità dell’azione amministrativa, lesiva dell’interesse legittimo corrispondente di cui è titolare 184. Non mancano peraltro casi di cumulo delle due fattispecie.

29. La responsabilità precontrattuale degli intermediari finanziari. – Si è detto della specificità che sta assumendo l’autonomia contrattuale nella stipulazione di contrattati con investitori finanziari, per lo squilibrio di posizione contrattuale (VIII, 1.9). È diffusa la violazione di obblighi di informazione nella intermediazione finanziaria, con particolare riguardo alla collocazione dei prodotti finanziari, in violazione di norme di legge (specie D.Lgs. 24.2.1998, n. 58, c.d. TUIF e succ. modif.) e di regolamenti (specie Reg. Consob 29.10.2007, n. 16190, di attuazione del D.Lgs. 58/1998, sostitutivo del Reg. Consob 1.7.1998, n. 11522). Da tempo ha assunto rilevanza giuridica l’assenza di informazione da parte dell’intermediario finanziario 185, anche se imputabile ai promotori finanziari 186. Dopo un al 

pendenza dell’approvazione ministeriale, deve qualificarsi come precontrattuale, ai sensi degli artt. 1337 e 1338 c.c., ed è inquadrabile nella responsabilità di tipo contrattuale da “contatto sociale qualificato”, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni, ex art. 1173 c.c., dal quale derivano reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, giusta gli artt. 1175 e 1375 c.c., con conseguente applicabilità del termine decennale di prescrizione sancito dall’art. 2946 c.c. (Cass. 12-7-2016, n. 14188, cit.). 183 Nei contratti conclusi con P.A. l’efficacia dei contratti è subordinata all’approvazione ministeriale, ai sensi dell’art. 19 R.D. 18.11.1923, n. 2440; se pertanto l’approvazione non sopraggiunge si dà luogo a responsabilità precontrattuale della P.A. ai sensi degli artt. 1337 e 1338 (Cass. 12-7-2016, n. 14188, che peraltro configura come responsabilità contrattuale da contatto sociale). 184 I confini tra i due rimedi sono bene delineati da Cons. Stato 27-11-2012, n. 5993. 185 L’obbligo informativo che grava sull’intermediario ha una connotazione di specificità e deve sostanziarsi nella rappresentazione, all’investitore, della natura, della quantità e della qualità dei prodotti finanziari, oltre che nella formulazione delle indicazioni atte a dar conto della loro rischiosità (Cass. 21-4-2016, n. 8089). In particolare – è stato sottolineato – “l’obbligo informativo ha ad oggetto la natura e le caratteristiche peculiari del titolo, con particolare riferimento alla rischiosità del prodotto finanziario offerto, la precisa individuazione del soggetto emittente, il rating nel periodo di esecuzione dell’operazione ed il connesso rapporto tra il rendimento e il rischio” (Cass. 26-1-2016, n. 1376; Cass. 31-5-2017, n. 13765). Si è rilevato: “la dichiarazione resa dal cliente, su modulo predisposto dalla banca e da lui sottoscritto, in ordine alla propria consapevolezza circa le informazioni ricevute sulla rischiosità dell’investimento suggerito e sollecitato dalla banca e della inadeguatezza dello stesso rispetto al suo profilo di investitore, pur non costituendo dichiarazione confessoria (in quanto rivolta alla formulazione di un giudizio e non all’affermazione di scienza e verità di un fatto obiettivo), può comprovare l’avvenuto assolvimento degli obblighi di informazione incombenti sull’intermediario” (Cass. 29-1-2019, n. 2472). È una decisione che non si condivide: nelle collocazioni di prodotti finanziari è una clausola di stile che viene fatta normalmente sottoscrivere e della quale non bisognerebbe tenere conto. L’informazione va invece delineata e provata dall’intermediario (art. 23 D.Lgs. 58/1998). 186 L’intermediario risponde per i danni arrecati a terzi dai promotori finanziari nello svolgimento delle  

CAP. 2 – CONCLUSIONE

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terno percorso la giurisprudenza, valorizzando una tradizionale dicotomia tra “regole di comportamento” nella contrattazione e “norme di validità” della struttura dell’atto, tende a mantenere l’assenza di informazione nell’ambito della responsabilità precontrattuale, come violazione di regole di condotta, espressive della clausola generale del “trattare lealmente” 187, indipendentemente dalla conclusione o meno del contratto. E invece una interpretazione coerente con i rapporti di forza che si realizzano nel mercato finanziario dovrebbe accedere ad una configurazione della nullità del contratto per violazione della forma dell’informazione (VIII, 4.1). Peraltro l’obbligo informativo non può ritenersi esaurito con la sola redazione del profilo soggettivo del cliente; i dati raccolti devono essere integrati e correlati con la compiuta informazione sui singoli titoli oggetto di acquisto e con la puntuale valutazione di adeguatezza dell’investimento agli obiettivi formulati dall’investitore 188. La recente esperienza dei mercati finanziari ha fatto emergere la rilevanza del c.d. contratto quadro di intermediazione finanziaria (anche detto contratto quadro per la negoziazione di strumenti finanziari) assimilabile al contratto normativo con il quale (nel contratto predisposto dall’intermediario) si regola la successiva attività delle parti e gli ordini di investimento impartiti dal risparmiatore. È giurisprudenza ormai unanime che, a parte i vizi specifici dei singoli ordini di investimento, i vizi del contratto quadro si riflettono sul regime degli ordini impartiti: il contratto quadro va adeguato ai mutamenti della normativa di settore che intervengono nel tempo, risultando altrimenti affetto da un vizio sopravvenuto di nullità.

 

incombenze loro affidate purché il fatto illecito del promotore sia legato da un nesso di occasionalità necessaria con l’esercizio delle mansioni cui sia adibito (Cass. 10-11-2015, n. 22956). 187 La giurisprudenza, dapprima, aveva delineato una responsabilità per inadempimento contrattuale ex art. 1218, soluzione confortata dalla disciplina dell’art. 236 D.Lgs. 58/1998, che ha appunto riguardo a “giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento e di quelli accessori”; poi ha preso a dichiarare la nullità del contratto o dell’ordine di acquisto, ravvisando nella omissione delle indicazioni la contrarietà ad una normativa imperativa (c.d. nullità virtuale ex art. 14181). Successivamente ha abbracciato una tesi eclettica: “La violazione dei doveri d’informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni, che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario, può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguente obbligo di risarcimento dei danni, ove tali violazioni avvengano nella fase precedente o coincidente con la stipulazione del contratto d’intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti; può, invece, dar luogo a responsabilità contrattuale ed eventualmente condurre alla risoluzione del predetto contratto, ove si tratti di violazioni riguardanti operazioni di investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto d’intermediazione finanziaria in questione” (Cass., sez. un., 19-12-2007, nn. 26724 e 26725). 188 Il fenomeno è particolarmente rilevante rispetto a quelle tecniche contrattuali insidiose di dissociazione del regolamento contrattuale con le quali si fa sottoscrivere una fittizia polizza di assicurazione sulla vita mentre nel prospetto informativo si delinea un effettivo prodotto finanziario rischioso e senza garanzia di rimborso del premio assicurativo corrisposto dal risparmiatore.

 

CAPITOLO 3

CONTENUTO Sommario: 1. Determinazione del contenuto contrattuale. L’assetto di interessi. – A) OGGETTO. – 2. Nozione. – 3. Requisiti dell’oggetto. Il contratto incompleto. – 4. Beni futuri. – B) CAUSA. – 5. Evoluzione del concetto di causa. La causa concreta. – 6. Il tipo contrattuale. – 7. Assenza di causa e astrazione dalla causa. – 8. Causa illecita. – 9. Il contratto in frode alla legge. – 10. Motivi. – 11. La presupposizione. – 12. Combinazione di fasci di prestazioni: contratto complesso (specie misto) e collegamento negoziale. – 13. Simulazione. L’accordo simulatorio. – 14. Segue. Regime e effetti della simulazione (tra le parti e verso i terzi). – 15. Segue. Azione di simulazione e prova della simulazione. – 16. Negozi indiretti e fiduciari. – 17. Il trust. – 18. Le dicotomie fondamentali. – C) ELEMENTI ACCIDENTALI. – 19. L’ampliamento del contenuto contrattuale. – 20. Condizione. Caratteri e tipi. – 21. Segue. Pendenza della condizione ed avveramento. – 22. Termine. – 23. Onere.

1. Determinazione del contenuto contrattuale. L’assetto di interessi. – Si è visto come la volontà negoziale, espressione di libertà e forza vitale di azione, è orientata al perseguimento di uno scopo, determinativo di un assetto di interessi (il voluto). L’accordo esprime la tensione concorde delle parti verso un risultato, determinativo del contenuto del contratto, espressivo della volontà negoziale attuata. Il contenuto fissa l’assetto di interessi voluto dalle parti ed è dunque il punto di riferimento dell’accordo. Nel contenuto confluiscono clausole di diversa ispirazione e di differente rilevanza rispetto all’assetto di interessi avuto di mira. Comunemente convivono narrative di antefatti, esplicazioni di motivazioni, determinazioni propriamente dispositive dell’assetto di interessi, clausole di stile, regolazioni dell’esecuzione e misure rafforzative della stessa. Sono le determinazioni dispositive a segnare principalmente il regolamento di interessi, ma la reale portata di questo emerge dall’intero contenuto contrattuale, considerato nel suo insieme. Le determinazioni dispositive, talvolta, ripetono tratti tipici di contratti nominati (ad es., nella vendita, lo scambio del trasferimento del diritto verso il pagamento del prezzo: art. 1470); talaltra, arricchiscono o modificano tipi legali. Si ricorderà come, per la norma fondamentale sull’autonomia contrattuale, le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge (art. 13221). Possono anche concludere contratti che non appartengono ai tipi disciplinati dalla legge, purché diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico (art. 13222). Il contenuto del contratto si connette specificamente a due elementi essenziali del contratto (oggetto e causa), distintamente enumerati dall’art. 1325 e autonomamente disciplinati dagli artt. 1346 ss. e 1343 ss. come requisiti di validità del contratto (VIII, 1.3). Oggetto e causa sono destinati ad integrarsi nella determinazione dell’assetto di in-

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teressi e del programma contrattuale, indicando rispettivamente attribuzioni e funzione del regolamento contrattuale: la mancanza o anomalia di uno di tali elementi si comunica al contenuto del contratto, producendo la nullità del contratto. Profili principali del contenuto del contratto sono anche quelle determinazioni con le quali si manovrano gli effetti del contratto, subordinandone la verificazione o la caducazione all’avveramento di un evento (condizione) o collocandone la produzione nel tempo (termine) (c.d. elementi accidentali). Di regola i contratti contengono precetti volti a regolare direttamente e nell’immediatezza i rapporti tra le parti. Esistono però contratti che apprestano un regolamento da valere per i futuri rapporti tra le parti: sono i c.d. contratti normativi (o contratti quadro), con i quali le parti dettano le regole impegnative per i successivi contratti che si concluderanno tra le stesse (es. contratti collettivi di lavoro o contratti normativi di servizi).

A) OGGETTO 2. Nozione. – L’art. 1325, n. 3, indica l’oggetto come requisito essenziale del contratto, la cui mancanza comporta la nullità del contratto (art. 1418). È dunque un elemento essenziale (costitutivo) del contratto, di cui però la normativa che lo regola (artt. 1346-1349) non fornisce la nozione. Da tempo è dibattuta la qualificazione giuridica dell’oggetto del contratto: da alcuni è riferita al bene materiale esterno all’atto; da altri è ricondotta all’interno dell’atto per indicare vuoi la materia o gli interessi cui ha riguardo il contratto, vuoi la rappresentazione ideale del risultato perseguito. È preferibile muovere dalla indicazione del codice civile che lo regola: gli artt. 1348 e 1349 parlano espressamente di “prestazione dedotta in contratto”; emerge il riferimento alle prestazioni dedotte dalle parti nel contratto. Poiché il termine “prestazione” ha specifico riguardo all’obbligazione (art. 1174), una nozione complessiva dell’oggetto deve essere posta in relazione all’insieme delle attribuzioni dedotte nel contratto. Significativamente l’art. 1470 definisce la vendita come il contratto che ha ad oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo; l’art. 1571 definisce la permuta come il contratto che per oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose o di altri diritti. È significativo il divario con il cod. civ. del 1865. Per il codice abrogato il contratto aveva ad oggetto cose (art. 1116 c.c. abr.) per assolvere in quel codice il contratto essenzialmente la funzione di circolazione della ricchezza proprietaria: significativamente prevedeva la norma che “le sole cose che sono in commercio possono formare oggetto di contratto”. Nel cod. civ. del 1942 il contratto ha ad oggetto prestazioni (art. 1349), quale comportamento caratteristico di un’economia fondata sull’attività di impresa. 3. Requisiti dell’oggetto. Il contratto incompleto. – L’oggetto del contratto deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile (art. 1346). Sono altrettanti requisiti dell’oggetto che si riverberano sui caratteri della prestazione (VII, 1.7). La mancanza di uno di essi comporta la nullità del contratto (art. 1418); però degli stessi manca una nozione specifica, che pertanto bisogna ricavare dal sistema. a) Possibilità. Indica la suscettibilità di esecuzione delle attribuzioni dedotte nel contratto e perciò la idoneità dell’atto a realizzare lo scopo programmato. La possibi-

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PARTE VIII – CONTRATTO 

lità deve essere sia materiale che giuridica: quindi l’attribuzione deve essere, non solo fisicamente eseguibile, ma anche giuridicamente realizzabile nel senso che non deve essere vietata dall’ordinamento. Ad es., ha un oggetto impossibile la vendita di un bene demaniale, per la previsione dell’art. 823 che i beni del demanio pubblico sono inalienabili e di regola non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi. Come ha un oggetto impossibile la cessione di parcheggio realizzato ai sensi dell’art. 9 L. 24.3.1989, n. 122, separatamente dall’unità immobiliare alla quale è legato da vincolo pertinenziale 1. La possibilità dell’attribuzione non deve essere necessariamente attuale al momento della conclusione del contratto, potendo anche sopravvenire: essenziale è che esista al momento della sua efficacia. Tale indicazione si ricava da due precise regole: per l’art. 1347, il contratto sottoposto a condizione sospensiva o a termine è valido se la prestazione inizialmente impossibile diviene possibile prima dell’avveramento della condizione o della scadenza del termine; per l’art. 1348, la prestazione di cose future può essere dedotta in contratto, salvi i particolari divieti della legge (es. con riguardo alla donazione di cose future: art. 7711). In sostanza il contratto deve avere ad oggetto attribuzioni realizzabili, riferite a cose presenti o future (tranne specifici divieti di legge) 2. Se la prestazione diventa impossibile successivamente alla conclusione del contratto, si determinano anomalie del rapporto contrattuale e non più dell’atto (artt. 1256 e 1463), con inattuazione del contratto (VIII, 10.1). In questa sede ci stiamo occupando della impossibilità originaria che comporta la nullità del contratto. b) Liceità. In assenza di una autonoma qualificazione normativa, bisogna accedere alle previsioni in tema di causa e condizione (artt. 1343 e 1354), che forniscono la nozione di illiceità. Al pari di causa e condizione, anche l’oggetto è dunque illecito quando è contrario a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume 3 (par. 8). Il tema della illiceità dell’oggetto è da tempo analizzato in ragione della conformità urbanistica dell’immobile trasferito: con riguardo all’alienazione di edifici abusivi, è emerso il divario tra c.d. nullità formale (per assenza di menzione nel contratto di vendita del titolo abilitativo) e nullità sostanziale (per assenza di conformità urbanistica dell’immobile venduto), composto in favore della prima tesi in modo formalistico dalle se  1 La nullità ipso iure degli atti di cessione di aree destinate a parcheggio, conclusi in violazione dell’art. 95, L. 24.3.1989, n. 122, discende dal combinato disposto degli artt. 1418 e 1346 c.c., trattandosi di parcheggi soggetti a vincolo di destinazione ed a vincolo di inscindibilità dall’unità principale, cioè “a utilizzazione vincolata” e, al tempo stesso, “a circolazione controllata” (Cass. 16-2-2012, n. 2248). 2 La vendita di un terreno per consentire all’acquirente una utilizzazione edificatoria, al momento non permessa dagli strumenti urbanistici, e venga quindi sottoposta alla condizione sospensiva della futura approvazione di una variante di detti strumenti che contempli quell’utilizzazione, non è affetta da nullità, né sotto il profilo dell’impossibilità dell’oggetto, né sotto il profilo dell’impossibilità della condizione, dovendosi ritenere consentito alle parti di dedurre come condizione sospensiva anche un mutamento di legislazione o di norme operanti erga omnes, salva restando l’inefficacia del contratto in conseguenza del mancato verificarsi di tale mutamento (Cass. 12-2-2014, n. 3207). 3 L’oggetto del contratto è stato considerato illecito allorché concerne cose o fatti di rilevanza patrimoniale che per la loro stessa tipologia, così come contemplata dalle parti, siano insuscettibili di commercio per contrarietà all’ordine pubblico, al buon costume o a norme imperative: la vendita di titoli del debito pubblico negoziati come genuini che, una volta individuati, risultino essere falsi, non è nulla, ma è inadempiuta per consegna di aliud pro alio, con la conseguenza che l’acquirente ha azione di risarcimento del danno ai sensi dell’art. 1218 c.c. verso l’alienante (Cass. 24-9-2013, n. 21829).

CAP. 3 – CONTENUTO

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zioni unite 4; la problematica si è proposta anche con riferimento all’appalto di costruzione di immobili privi delle autorizzazioni amministrative 5, mentre è stata esclusa rispetto alla locazione 6. c) Determinatezza o determinabilità. Indica la sostanza delle attribuzioni dovute, a presidio della serietà dell’impegno stretto, non potendo sussistere un accordo contrattuale se non vi è effettiva conoscenza degli impegni assunti. È dunque necessario che il contratto abbia ad oggetto attribuzioni determinate ovvero contenga criteri definiti di determinabilità delle attribuzioni. Bisognerà tenere conto dei comuni criteri di adeguatezza dei criteri rappresentativi dell’oggetto, utilizzati secondo il generale principio di buona fede nel particolare contesto 7. Talvolta è la legge ad apprestare i fattori di determinazione dell’attribuzione: si pensi alla vendita di cose aventi un prezzo di borsa o di mercato, dove il prezzo è desunto dai listini o dalle mercuriali del luogo in cui deve essere eseguita la consegna, o da quelli del  4 Per Cass., sez. un., 22-3-2019, n. 8230, la nullità comminata dall’art. 46 D.P.R. 380/2001 e dagli artt. 17 e 40 L. 47/1985 va ricondotta nell’ambito del co. 3 dell’art. 1418 c.c., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”, con tale espressione dovendo intendersi un’unica fattispecie di nullità volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell’immobile; in presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato. Manca un’attenzione ai valori coinvolti dalla circolazione immobiliare, non cogliendosi l’evoluzione del diritto vivente e perciò non recependosi il disvalore espresso dall’ordinamento rispetto al fenomeno dell’abusivismo edilizio, assumendo nella modernità l’ambiente e il territorio ragioni di esplicazione della persona umana di rilevanza costituzionale. 5 Alla stregua dell’art. 291 D.P.R. 380/2001 l’appaltatore è tenuto a verificare la conformità dell’opera a tale normativa, alle previsioni di piano, a quelle del titolo abilitativo e alle sue modalità esecutive; ove l’edificio realizzato sia radicalmente diverso per caratteristiche tipologiche e volumetrie, l’opera è da equiparare a quella posta in essere in assenza di concessione, con conseguente nullità del contratto per illiceità dell’oggetto e violazione di norme imperative; quando la modifica concerne parti non essenziali del progetto, tale nullità non sussiste (Cass. 27-11-2018, n. 30703). 6 Il carattere abusivo dell’immobile o la mancanza di certificazione di abitabilità non importa nullità del contratto locatizio, non incidendo i detti vizi sulla liceità dell’oggetto del contratto ex art. 1346 c.c. (che riguarda la prestazione) o della causa del contratto ex art. 1343 c.c. (che attiene al contrasto con l’ordine pubblico), né potendo operare la nullità ex art. 40 L. 471985 (che riguarda solo vicende negoziali con effetti reali): ne consegue l’obbligo del conduttore di pagare il canone anche con riferimento alla locazione di un immobile avente i caratteri suddetti (Cass. 28-10-2019, n. 27485). 7 Ad es., in tema di appalto, per la determinazione dell’oggetto, non è necessario che l’opera sia specificata in tutti i suoi particolari, ma è sufficiente che ne siano fissati gli elementi fondamentali; eventuali deficienze ed inesattezze riguardanti taluni elementi costruttivi non costituiscono causa di nullità, quando non siano rilevanti ai fini della realizzazione dell’opera e non ne impediscano l’agevole individuazione, nella sua consistenza qualitativa e quantitativa, mediante il ricorso ai criteri generali della buona tecnica costruttiva ed alle c.d. regole d’arte, le quali devono adeguarsi alle esigenze e agli scopi cui l’opera è destinata (Cass. 8-1-2020, n. 133). Nelle gare pubbliche, con riguardo all’avvalimento tecnico-operativo di requisiti di capacità tecnica e professionale, la specifica indicazione dei mezzi aziendali messi a disposizione per l’esecuzione dell’appalto è necessaria a pena di esclusione: i mezzi, il personale, il know-how, la prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti in relazione all’oggetto dell’appalto ed ai requisiti per esso richiesti dalla stazione appaltante sono indispensabili per rendere determinato l’impegno dell’ausiliario tanto nei confronti di quest’ultima che del concorrente aggiudicatario, risultando l’indicazione contrattuale degli elementi in questione necessaria per definire l’oggetto dell’avvalimento ai sensi dell’art. 1346 c.c.; donde la nullità (strutturale) del contratto medesimo ex art. 14182 laddove risulti impossibile individuare un’obbligazione assunta dall’ausiliario su un oggetto puntuale e che sia coercibile per l’aggiudicatario (Cons. Stato 7-5-2019, n. 2917).

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PARTE VIII – CONTRATTO 

la piazza più vicina (art. 14742); si pensi anche alla esperienza degli appalti pubblici, dove, oltre al capitolato speciale relativo al singolo rapporto, opera il c.d. capitolato generale d’appalto 8; nei contratti bancari, l’art. 1176 D.Lgs. 386/1993 (TUB) considera nulle e non apposte le clausole contrattuali di rinvio agli usi per la determinazione dei tassi di interesse e di ogni altro prezzo e condizione praticati 9. Esistono poi ipotesi di integrazione legale del contratto (es. la determinazione della qualità delle cose di genere ex art. 1178). La problematica impegna la necessità di identificazione d el b ene , come riferimento del diritto disposto con il contratto e perciò essenziale fattore di determinazione dell’attribuzione; per la vendita di immobili c’è la specifica necessità di individuazione dell’immobile sul territorio, anche per la rappresentazione nei registri immobiliari (XIV, 2.2) 10, semplificata per il contratto preliminare 11. Per i contratti con forma   8 Per l’art. 1 D.M. 19.4.2000, n. 145 (Regolamento recante il capitolato generale d’appalto dei lavori pubblici), il capitolato generale d’appalto contiene la disciplina regolamentare dei rapporti tra le amministrazioni e i soggetti affidatari di lavori pubblici. Le disposizioni del capitolato generale devono essere espressamente richiamate nel contratto di appalto; esse si sostituiscono di diritto alle eventuali clausole difformi di contratto o di capitolato speciale, ove non diversamente disposto dalla legge o dal regolamento. 9 Il requisito della necessaria determinazione scritta degli interessi ultralegali, prescritto dall’art. 1284, può essere soddisfatto anche per relationem, attraverso il richiamo a criteri prestabiliti ed elementi estrinseci, purché obbiettivamente individuabili. È tuttavia insufficiente a tale scopo la clausola che si limiti ad un mero riferimento “alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza”, o espressioni analoghe, poiché non consente, per la sua genericità, di stabilire a quale previsione le parti abbiano inteso concretamente riferirsi: la conoscenza successiva del saggio applicato non vale a sanare l’originario vizio di nullità della pattuizione, per carenza del requisito della determinabilità (Cass. 2-10-2003, n. 14684; Cass. 18-4-2001, n. 5675). 10 L’identificazione dell’immobile è la rappresentazione della identità fisica e giuridica dell’immobile oggetto del diritto venduto. Per l’art. 2826 (come novellato dall’art. 13 L. 27.2.1985, n. 52), richiamato dall’art. 2659, l’immobile deve essere specificamente designato con l’indicazione della sua natura, del comune in cui si trova, nonché dei dati di identificazione catastale; per i fabbricati in corso di costruzione devono essere indicati i dati di identificazione catastale del terreno su cui insistono. La norma, pur riferita alla costituzione di ipoteca, trova generale applicazione in virtù del richiamo operato dall’art. 2659, n. 4, in tema di trascrizione. I dati catastali non hanno valore determinante rispetto al contenuto descrittivo del titolo ed ai confini indicati nell’atto, ad eccezione del caso in cui le parti ad essi abbiano fatto esclusivo riferimento per individuare l’immobile, e manchi un qualsiasi contrasto tra gli stessi ed i confini del bene (Cass. 26-4-2010, n. 9896). La indicazione dei tre confini (richiesta dall’art. 29 L. 52/1985, al fine della trascrizione dell’atto), non è essenziale nella determinazione dell’oggetto, per la quale può essere sufficiente, nel contratto, l’indicazione dei suoi dati catastali ed il riferimento alle mappe censuarie (Cass. 20-3-2006, n. 6166). Si è però chiarito che “Ai fini dell’individuazione dell’immobile oggetto di una compravendita immobiliare, l’indicazione dei confini – i quali, concernendo punti oggettivi di riferimento esterni, consentono la massima precisione – assume valore decisivo e prevalente rispetto alle altre risultanze probatorie, ed in particolare ai dati catastali che, avendo tra l’altro finalità di natura tributaria, hanno carattere sussidiario” (Cass. 24-4-2007, n. 9857). Qualora le parti abbiano fatto riferimento al frazionamento allegato all’atto di vendita, detto frazionamento, espressivo della volontà negoziale, costituisce il dato primario per l’esatta identificazione del bene trasferito, in quanto la sua specificità non lascia margini di incertezza nella determinazione dei relativi confini (Cass. 24-2-2004, n. 3633). 11 Ai fini della validità del contratto preliminare, risulta sufficiente l’accordo delle parti sugli elementi essenziali; nel preliminare di vendita immobiliare, per il quale è richiesto ex lege l’atto scritto come per il definitivo, è sufficiente che dal documento risulti, anche attraverso il rimando ad elementi esterni ma idonei a consentirne l’identificazione in modo inequivoco, che le parti abbiano inteso fare riferimento ad un bene determinato o, comunque, determinabile, la cui indicazione pertanto, attraverso gli ordinari elementi identificativi richiesti per il definitivo, può altresì essere incompleta o mancare del tutto, purché l’intervenuta convergenza delle volontà risulti, sia pure aliunde o per relationem, logicamente ricostruibile (Cass. 10-5-2018, n. 11297;  Cass. 1-2-2013, n. 2473; conf. Cass. 14-12-2012, n. 23162). L’oggetto di un contratto preliminare di vendita

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solenne c’è la necessità che i criteri di identificazione del bene risultino dall’atto 12; problematica che impegna fortemente la responsabilità notarile 13. Si dà luogo a contratto incompleto, quando manca una compiuta determinazione dell’oggetto del contratto e comunque dell’assetto di interessi. Non si tratta di intervenire con un mero calcolo matematico di produzione di un risultato, perché in tal caso il sicuro criterio di determinazione rende la rappresentazione dell’oggetto esaustiva e quindi il contratto completo; analogamente non è incompleto il contratto che si autocompleta con il rinvio per relationem a specifici parametri o criteri altrove fissati e espressamente richiamati in contratto. Il contratto è incompleto quando si lascia a un successivo fattore valutativo la determinazione dell’oggetto secondo criteri di massima stabiliti nel contratto, sempre che nel contratto sia fissato il nucleo dell’assetto di interessi, perché altrimenti il contratto stesso è nullo per mancanza di causa concreta. Il contratto è anche incompleto quando coinvolge una pluralità di rapporti di cui è difficile predeterminare lo svolgimento; ovvero quando sono immaginate sopravvenienze materiali e legislative alle quali bisogna adattare i rapporti programmati. L’incompletezza può essere scelta dalle parti o necessitata per impossibilità di determinazione al momento del contratto: in ogni caso il contratto è vincolante tra le parti ed è stipulato con riserva di determinazione dell’oggetto. Dal vincolo contrattuale instauratosi deriva l’obbligo delle parti di riprendere la contrattazione; con la conseguenza che, se una parte si rifiuta ovvero non rende possibile il completamento incorre nella responsabilità contrattuale per violazione di un obbligo di buona fede. Si ha arbitraggio quando le parti deferiscono ad un terzo la determinazione dell’oggetto del contratto (art. 1349). La funzione del terzo (c.d. arbitratore) è quella di contribuire a determinare, con un proprio atto, il contenuto del contratto (un esempio tipico è previsto dall’art. 1473 in tema di vendita con determinazione del prezzo affidata a un terzo): il terzo rimane estraneo all’atto di autonomia voluto e concluso dalle parti 14.  

immobiliare può essere determinato attraverso atti e fatti storici esterni al negozio, anche successivi alla sua conclusione, nella sola ipotesi in cui l’identificazione del bene da trasferire avvenga in sede di conclusione consensuale del contratto definitivo su base negoziale, e non quando, invece, afferisca ad una pronuncia giudiziale ex art. 2932 c.c., dovendo la sentenza corrispondere esattamente al contenuto del contratto, senza poter attingere da altra documentazione i dati necessari alla specificazione del bene oggetto del trasferimento (Cass. 16-1-2013, n. 952). 12 Nei contratti in cui è richiesta la forma scritta ad substantiam, l’oggetto del contratto deve essere determinato o determinabile sulla base degli elementi risultanti dal contratto stesso, non potendo farsi ricorso ad elementi estranei ad esso; se le parti di una compravendita immobiliare hanno fatto riferimento, per individuare il bene, ad una planimetria allegata all’atto, è necessario che essa non solo sia sottoscritta dai contraenti, ma anche espressamente indicata nel contratto come parte integrante del contenuto dello stesso (Cass. 9-10-2014, n. 21352; Cass. 24-4-2003, n. 6516; Cass. 20-1-2003, n. 729). 13 Rientra tra gli obblighi del notaio richiesto della stipulazione di un contratto di compravendita immobiliare e, in particolare, nell’obbligo di buona fede oggettiva, lo svolgimento delle attività accessorie e successive necessarie per il conseguimento del risultato voluto dalle parti ed, in particolare, il compimento delle cosiddette “visure” catastali e ipotecarie allo scopo di individuare esattamente il bene e verificarne la libertà, salvo espresso esonero del notaio da tale attività per concorde volontà delle parti, dettata da motivi di urgenza o da altre ragioni (Cass. 29-8-2019, n. 21775; Cass., sez. un., 31-7-2012, n. 13617; Cass. 27-11-2012, n. 20991; Cass. 20-8-2015, n. 16990). 14 L’arbitraggio con cui le parti demandano ad un terzo arbitratore la determinazione, in loro sostituzione, di uno o più elementi di un contratto concluso ma incompleto, è figura assimilabile ad un mandato collettivo;  

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PARTE VIII – CONTRATTO 

L’intervento del terzo si atteggia diversamente in ragione della natura del potere attribuitogli dalle parti 15: si tende ad ammettere l’intervento integrativo del giudice al quale sia sottoposta la vicenda 16. Diversa è la perizia contrattuale, con la quale le parti deferiscono ad uno o più soggetti, scelti per la loro particolare competenza tecnica, il compito di formulare un apprezzamento tecnico che esse parti si impegnano ad accettare come diretta espressione della loro volontà contrattuale 17.

4. Beni futuri. – Più spesso i contratti riguardano beni esistenti; non mancano però casi in cui i contratti facciano riferimento a beni non ancora esistenti: per l’art. 1348 la prestazione di cose future può essere dedotta in contratto, salvi i particolari divieti della legge (es. divieto di donazione di cose future: art. 7711). I contratti aventi ad oggetto beni futuri sono dunque validi, ancorché inefficaci fino a quando la cosa non viene ad esistenza. Il bene futuro può essere una cosa (es. la vendita “in pianta” di immobile da costruire), un’opera (es. il contratto di edizione di opera da crearsi), come anche un diritto (es. la cessione di un credito sperato e cioè eventuale 18).  

ne consegue che il negozio costituente la fonte dei poteri del terzo può essere revocato anche ad opera di una sola parte qualora ricorra una giusta causa, trovando applicazione l’art. 1726 (Cass. 26-3-2002, n. 4283). L’arbitraggio si distingue dall’arbitrato: si ha a r b i t r a g g i o quando è deferito al terzo l’incarico di determinare un profilo del contenuto del contratto in via sostitutiva della volontà delle parti. Si ha a r b i t r a t o (rituale o irritale) quando le parti affidano ad arbitri la definizione (in differenti modi) di una controversia tra loro insorta (art. 806 c.p.c.). (Cass. 29-10-1999, n. 12155) (IX, 6.2). 15 Se la determinazione dell’oggetto è deferita all’equo apprezzamento del terzo, questi deve operare un equo contemperamento degli interessi delle parti (secondo la formula generale nell’interpretazione di contratti a titolo oneroso: art. 1371): quando il terzo non procede alla determinazione o questa è manifestamente iniqua o erronea, la determinazione è fatta dal giudice (art. 13491), che può svolgere un’opera di equo apprezzamento non compiuta dal terzo. Se la determinazione dell’oggetto è deferita al mero arbitrio del terzo, la stessa è rimessa alla scelta libera del terzo, il quale non ha l’obbligo di ricercare un equo contemperamento tra gli interessi delle parti: la determinazione è impugnabile solo per “mala fede” del terzo, il suo operato si sottrae ad ogni controllo di merito e le parti possono impugnare la determinazione effettuata solo dimostrando che egli ha agito intenzionalmente a danno di una di esse, così tradendo la fiducia accordatagli. Quando il terzo omette la determinazione o è in mala fede e le parti non si accordano per sostituire il terzo, il contratto è nullo. Quando non risulta che le parti vollero rimettersi al mero arbitrio del terzo, questi deve procedere con equo apprezzamento (art. 13491). 16 Qualora il terzo – cui sia stato demandato dalle parti il relativo compito – non addivenga alla determinazione della prestazione dedotta in contratto, né ad essa provvedano le parti direttamente, e una di esse adisca il giudice chiedendo la condanna della controparte all’adempimento della prestazione, la relativa controversia – che ha per oggetto il predetto adempimento e il necessario presupposto della determinazione della prestazione da eseguire – può essere risolta direttamente, anche per il principio generale dell’economia processuale, dal giudice, con una decisione il cui risultato ha la funzione di integrare, quanto alla determinazione e secondo la ratio dell’art. 1349 c.c., il contratto nel suo manchevole elemento (Cass. 8-2-2019, n. 3835). 17 Con la perizia contrattuale viene negozialmente conferita al terzo la formulazione di un apprezzamento tecnico che le parti si impegnano ad accettare come diretta espressione della loro determinazione volitiva; pertanto non sono applicabili le norme relative all’arbitrato, restando impugnabile la perizia contrattuale per i vizi che possono vulnerare ogni manifestazione di volontà negoziale (errore, dolo, violenza, incapacità delle parti) (Cass. 8-11-2018, n. 28511). Il perito viene scelto per la sua particolare competenza, non ha facoltà di nominare a sua volta un esperto, ove egli non si reputi tale; costituisce giusta causa di revoca la subdelega dell’intero incarico valutativo ricevuto ad un diverso esperto, salvo che non consti il consenso esplicito dei soggetti mandanti (Cass. 31-8-2016, n. 17443). 18 Comprendendosi nella nozione di bene ogni fonte di utilità (II, 2.1), è ammissibile la costituzione di un  

CAP. 3 – CONTENUTO

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Una generale applicazione in materia è in tema di vendita, relativamente alla vendita di cosa futura: per l’art. 1472 l’acquisto della proprietà si verifica quando la cosa viene ad esistenza (co. 1); qualora le parti non abbiano voluto concludere un contratto aleatorio, la vendita è nulla (rectius inefficace) se la cosa non viene ad esistenza (co. 2). È dunque fondamentale la rilevanza giuridica attribuita dalle parti alla venuta ad esistenza della cosa, articolandosi due modelli di contratto (aleatorio o commutativo). Il contratto è aleatorio quando c’è assunzione del rischio della venuta ad esistenza della cosa: la prestazione corrispettiva all’alienazione della cosa futura è comunque dovuta quantunque la cosa futura non venga ad esistenza (ad es., il compratore del futuro raccolto di un fondo agricolo è tenuto al pagamento del prezzo pattuito quantunque il raccolto non verrà ad esistenza o sarà distrutto) (emptio spei). Il contratto è commutativo quando non c’è assunzione del rischio della venuta ad esistenza della cosa: la prestazione corrispettiva all’alienazione della cosa non sarà dovuta se la cosa non viene ad esistenza. Nell’esempio fatto, il prezzo non sarà dovuto se il raccolto non verrà ad esistenza o sarà distrutto; si pensi anche all’acquisto di immobile da costruire quando questo non può essere realizzato per diniego del permesso di costruire (emptio rei speratae) 19. Argomentando dalla regola dell’art. 1472, la commutatività è la regola: se non è espressamente pattuita l’aleatorietà del contratto, si presume il carattere commutativo dello stesso, e perciò il contratto non ha effetto se la cosa non viene ad esistenza 20 (per la distinzione tra i due modelli, par. 18).

B) CAUSA 5. Evoluzione del concetto di causa. La causa concreta. – Come l’oggetto, anche la causa è richiesta come requisito del contratto (art. 1325, n. 2); l’art. 14182 prevede la nullità del contratto per mancanza della causa o per la sua illiceità. La causa è dunque un elemento essenziale (costitutivo) del contratto; ma, come per l’oggetto, manca una nozione normativa, di cui bisogna delinearne il concetto. a) Storicamente l’esigenza di una causa come requisito di validità del contratto nasce con riferimento all’obbligazione, quale titolo giustificativo del comportamento dovuto da un contraente e dell’utilità conseguita dall’altro contraente. L’art. 1104 cod. civ. 1865  

credito futuro, come la cessione di un credito futuro, con i comuni corollari per l’ipotesi in cui il credito non viene ad esistenza: l’art. 2852 consente l’iscrizione di ipoteca per un “credito condizionale”, oppure per “crediti che possano eventualmente nascere in dipendenza di un rapporto già esistente”. Nel caso di cessione di credito futuro, quest’ultimo si trasferisce in capo al cessionario nel momento in cui il credito stesso viene in essere (Cass. 22-4-2003, n. 6422). 19 L’impossibilità di utilizzare le presunzioni in riferimento ai contratti aleatori – in ragione della loro eccezionalità, sì da richiedere che essi risultino da una espressa volizione delle parti e da clausole appositamente stabilite o accettate – esclude soltanto la possibilità di affermare che sussista una ipotesi di “vendita di speranza” (art. 14722), ma non impedisce di affermare sulla base di presunzioni esistenti che un contratto di vendita di cosa futura, ex art. 1472 c.c., sia stato in ogni caso concluso (Cass. 5-12-2011, n. 26022). 20 Anche la vendita di cosa futura è soggetta a trascrizione se abbia per oggetto beni immobili: in tal caso la trascrizione grava inizialmente sul terreno e potenzialmente sulla costruzione, in virtù del principio dell’elasticità del dominio (Cass. 21-7-2009, n. 16921). È ammessa la stipulazione di contratto preliminare di vendita di cosa futura (Cass. 27-5-1992, n. 6383).

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PARTE VIII – CONTRATTO 

includeva tra i requisiti essenziali per la validità del contratto “una causa lecita per obbligarsi”: affermazione che si legava all’altra che, nel definire la causa del contratto, statuiva che “l’obbligazione senza una causa o fondata sopra una causa falsa o illecita non può avere alcun effetto” (art. 1119); il quadro era chiuso dalla previsione di validità del contratto pur senza espressione della causa, che veniva presunta (artt. 1119 e 1120), con palese esaltazione della libertà dei privati. La causa esprimeva la giustificazione dell’assunzione di una situazione passiva di un soggetto verso un altro soggetto che acquisiva una situazione attiva: un diffuso favore verso il debitore imponeva che fosse giustificata l’assunzione di un’obbligazione. Nei contratti di scambio emergevano due differenti cause: la causa dell’obbligazione di ciascuna parte era nella corrispondente obbligazione assunta dalla controparte. Il contratto di vendita era definito come il contratto per cui “uno si obbliga a dare una cosa e l’altro a pagarne il prezzo” (art. 1447 cod. civ. 1865). b) In una prospettiva di economia attiva, il referente della causa non è più l’obbligazione ma il contratto nella sua essenza ed unitarietà, con il quale si programma e in buona parte si realizza l’operazione economica. La causa esprime lo scopo pratico perseguito dal contratto 21. Con la valorizzazione del potere dei privati di produrre effetti reali in virtù del consenso (c.d. consenso traslativo) (VIII, 6.6), viene meno la connessione necessaria tra risultato programmato e vincolo obbligatorio, potendo lo scopo perseguito trovare realizzazione anche senza la mediazione di un rapporto obbligatorio: il contratto, come tale, è ritenuto in grado di realizzare il risultato traslativo programmato. La causa si configura come uno strumento di controllo della rilevanza sociale dell’operazione. Per la Relaz. cod. civ. la causa esprime la “funzione economico-sociale che il diritto riconosce rilevante ai suoi fini e che sola giustifica la tutela dell’autonomia privata (n. 613). È dunque necessario che la regola pattizia, oggettivamente e come tale, si riveli (secondo alcuni autori) utile o (secondo altri autori) compatibile con l’organizzazione economica della società. Si è parlato della causa anche come “funzione pratico-sociale” per abbracciare anche i negozi a contenuto non patrimoniale, ovvero come “sintesi degli effetti essenziali del contratto”, con un’attenzione privilegiata alla fattispecie. Decisiva risulta la funzione astratta dello schema negoziale impiegato, intesa nella sua unitarietà ed oggettività (c.d. causa astratta). Ad es., in un contratto di vendita, il dato giuridicamente rilevante è lo scambio in sé della cosa con il prezzo (art. 1470); in un contratto di mandato rileva il fatto in sé dell’assunzione dell’obbligazione di compiere uno o più atti giuridici per conto della controparte. Con la obbligatorietà di una causa manifesta, le parti sono tenute a dare conto della operazione economica e specificamente dello spostamento di ricchezza, consentendo all’ordinamento la verifica di meritevolezza del contratto. In sostanza, con la richiesta di una causa, si vuole che emerga dal contratto (e risulti perciò manifesto) il dato strutturale dell’operazione economica, al fine di verificare la incidenza dello spostamento patrimoniale sul generale tessuto economico-sociale e quindi la coerenza con lo stesso.   21

Dapprima si affaccia una ricostruzione della causa quale scopo o motivo ultimo voluto dalle parti (teoria soggettiva); successivamente si afferma una qualificazione della causa come funzione del negozio (teoria oggettiva), secondo del resto l’indicazione della Relaz. cod. civ., n. 613, che, nel clima proprio del regime dell’epoca, parla di un contenuto socialmente utile del contratto: per la Relazione la causa esprime la “funzione economico-sociale” riconosciuta rilevante dal diritto, affinché il fine intrinseco del contratto sia socialmente apprezzabile e come tale meritevole di tutela.

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c) Da alcuni anni va sviluppandosi una nutrita tendenza, anche legislativa, che tende a valorizzare la specificità dell’assetto di interessi realizzato, sicché anche la nozione di causa del negozio è risultata soggetta a revisione. Erosa ogni visione autoritaria, sottesa all’idea della funzionalizzazione dell’autonomia privata all’utilità sociale verificabile attraverso il controllo della causa, si è sviluppata una valorizzazione della dimensione privata dei soggetti, realizzabile attraverso l’autonomia individuale e quella collettiva di gruppo, che merita tutela di per sé e come tale in quanto espressione di libertà non in contrasto con i valori fondamentali dell’ordinamento. Così emerge e rileva la funzione concreta del negozio e cioè lo scopo perseguito dalle parti con la operazione economica messa in campo, rilevando le peculiarità della relazione sociale (c.d. causa concreta); si è parlato di una funzione economico-individuale del negozio, quale “sintesi degli interessi reali” che il contratto è diretto a realizzare. È la concreta regola pattizia che, in quanto tale, reclama rilevanza giuridica in quanto coerente con i valori fondanti dell’ordinamento. In tal guisa lo stesso concetto di causa esce ridisegnato. La causa si atteggia come la ragione giustificativa dello specifico regolamento contrattuale, che cementa e sorregge la volontà negoziale. Lo stesso contenuto del contratto, quale dato strutturale dell’atto di autonomia privata, è riguardato e valutato nella prospettiva dinamica e funzionale dell’assetto di interessi individuale concretamente attuato; la verifica di liceità e meritevolezza della causa, da un lato, è aperta alla ricezione di ogni modello di spostamento patrimoniale, emergente dalla società o di elaborazione individuale; dall’altro, è esteso ai contratti tipici al fine di valutare la rilevanza ordinamentale dell’assetto realizzato. Tranne alcune isolate pronunce, la matura adesione alla teoria della causa concreta è essenzialmente segnata dalla storica sentenza della Cassazione del 2006, che ha ammesso la possibilità di nullità di un contratto tipico per mancanza di causa concreta 22. Rilevano le circostanze in cui il contratto è maturato, le articolazioni del mercato che ne hanno determinato la conclusione, le qualità dei soggetti che ne sono autori, la natura degli interessi coinvolti, la destinazione dei beni negoziati. d) I progetti di formazione di un diritto europeo dei contratti tendono in prevalenza a non menzionare la causa come requisito autonomo del contratto: non perché possa esistere un atto di autonomia negoziale senza causa e quindi senza scopo (che sarebbe un controsenso), ma solo perché la causa rimane assorbita nella determinazione dell’accordo, atteggiandosi l’assetto di interessi quale punto di riferimento dell’accordo stesso: l’accordo si forma e verte su un concreto assetto di interessi e quindi su una causa. C’è il pericolo che l’accantonamento della causa, specie nella prospettiva delineata di causa concreta, possa comportare l’obliterazione della valutazione della singola operazione, con il corollario di una enfatizzazione dell’astratta operazione come tassello utile al mercato e all’economia ma sganciata dalla complessità della specifica relazione sociale.   22 La causa non deve essere intesa come astratta funzione economico-sociale del negozio bensì come sintesi degli interessi reali che il contratto è diretto a realizzare, e cioè come funzione individuale del singolo, specifico contratto, a prescindere dal tipo contrattuale astratto prescelto dalle parti, fermo restando che detta sintesi deve riguardare la dinamica contrattuale e non la mera volontà delle parti (Cass. 8-5-2006, n. 10490). L’indagine va svolta in concreto, attraverso l’apprezzamento degli interessi che il contratto è destinato a realizzare, quali emergono dalle circostanze obiettive (pregresse, coeve e successive alla sua conclusione) secondo la valutazione del materiale probatorio acquisito, al fine di verificare – ex artt. 1343 e 1344 – la conformità alla legge dell’attività negoziale posta in essere dalle parti e quindi la riconoscibilità della tutela apprestata dall’ordinamento giuridico (Cass. 20-3-2012, n. 4372; Cass. 17-1-2017, n. 921; Cass. 15929/2018; Cass. 26770/2019).

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PARTE VIII – CONTRATTO 

6. Il tipo contrattuale. – Nel codice civile compaiono i termini “tipo” e “causa” del contratto, senza essere fissate le necessarie correlazioni. Per l’art. 13222 le parti possono concludere “contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare”, purché siano diretti a realizzare “interessi meritevoli di tutela” secondo l’ordinamento giuridico; e per l’art. 1323, “tutti i contratti, ancorché non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare, sono sottoposti alle norme generali” sul contratto: dunque devono avere una causa. Il tipo indica lo schema diffuso di una operazione economica, talvolta nella struttura, talaltra nel contenuto, talaltra ancora per entrambi i profili, che può essere di mera ricorrenza sociale o assurto a regolazione giuridica. Si ha mero tipo sociale quando uno schema di operazione, ancorché ricorrente nella realtà sociale e meritevole di tutela, non è (ancora) disciplinato dall’ordinamento: si parla, al riguardo, di negozio socialmente tipico. Quando l’operazione sociale, per il suo ripetersi, fa emergere uno schema consolidato, si determina gradualmente una tipizzazione giurisprudenziale dell’operazione, che molto spesso approda al riconoscimento da parte dell’ordinamento così assurgendo a tipo legale (è la storia di vari contratti, es. il leasing). Il tipo legale indica uno schema di operazione economica assunto dall’ordinamento giuridico a struttura generale e astratta di operazione e come tale regolata: esprime la causa astratta del negozio, indipendentemente dai contesti di stipulazione e dalle motivazioni che ne sorreggono la conclusione. Si pensi ai tanti motivi per i quali un soggetto acquista un immobile: per abitarvi, per destinarlo alla propria attività professionale, per investimento onde darlo in locazione e trarne una rendita, per consentire l’abitazione di un proprio figlio, ecc.; e correlativamente si pensi ai tanti motivi per i quali il proprietario si decide ad alienare l’immobile: per riacquistare altro immobile in una diversa località, per reinvestire il danaro in una operazione finanziaria, per conseguire danaro liquido da ricollocare sul mercato o anche solo per estinguere pregresse debitorie; indipendentemente dai tanti e diversi motivi che spingono rispettivamente il compratore ad acquistare e l’alienante a vendere, la compravendita è riguardata dall’ordinamento nella unitaria e astratta configurazione di scambio: per l’art. 1470 la vendita è il contratto che ha ad oggetto il trasferimento di un diritto verso il corrispettivo di un prezzo. Il tipo legale (o causa astratta) esprime appunto la funzione astratta ed elementare del contratto: l’operazione economica, depurata dalle specificità del caso concreto, è considerata adeguata giustificazione dello spostamento di ricchezza e/o dell’obbligo di un comportamento umano, come tale meritevole di tutela dall’ordinamento che vi appresta gli effetti essenziali. La riconduzione di una operazione economica ad uno schema predisposto dall’ordinamento implica l’adozione di un contratto tipico, con struttura giuridica approvata dall’ordinamento. Altro però è il controllo dell’assetto di interessi realizzato nel caso concreto, che implica la verifica della causa concreta del contratto: sarà approfondito trattando dei controlli. Talvolta la tipicità inerisce ad una categoria di atti in ragione di specifiche e comuni esigenze suscitate, al fine di apprestare una disciplina uniforme di tutela. Si pensi alle forniture di beni di consumo: per l’art. 1281 cod. cons., ai fini della garanzia di conformità della merce consegnata al contratto, ai contratti di vendita sono equiparati i contratti di permuta e di somministrazione nonché quelli di appalto, di opera e tutti gli altri contratti comunque funzionali alla fornitura di beni di consumo da fabbricare o produrre. Alla stregua delle rilevazioni compiute è possibile cogliere la distinzione tra contratti tipici e contratti atipici, sia rispetto alla struttura utilizzata che alla disciplina applicata.

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I contratti tipici (o nominati) impegnano uno schema fissato per legge, con conseguente previsione legale della relativa disciplina: l’operazione prefigurata è astrattamente apprezzata dall’ordinamento e perciò tendenzialmente in grado di produrre gli effetti essenziali predisposti, salvo il controllo di meritevolezza concreta. I contratti atipici (o innominati) utilizzano un formante non riconducibile ad uno schema legale (causa astratta), o perché è del tutto nuovo o in quanto (come più spesso avviene) modifica il tipo legale: in tal caso è in discussione la stessa conformità all’ordinamento dello schema giuridico impiegato, dovendosi spesso operare con i meccanismi della interpretazione estensiva e dell’analogia 23. La valutazione ordinamentale si svolge con modalità e intensità diverse a seconda del ricorso o meno di un tipo legale. Quando è utilizzato un tipo legale, l’impiego dello stesso implica di per sé conformità all’ordinamento dello schema impiegato: va solo verificata, in concreto, la liceità e la meritevolezza dell’assetto di interessi attuato. Quando non è utilizzato un tipo legale, bisogna preliminarmente verificare la compatibilità con l’ordinamento dello schema di operazione impiegato e poi compiere la consueta verifica di liceità e meritevolezza dell’assetto di interessi attuato. In una prospettiva più ampia c’è da rilevare come, tra tipicità e atipicità, corre una continua osmosi: di regola una operazione economica emerge nella esperienza sociale con i connotati della atipicità, per poi, con la diffusa ripetizione, assumere i caratteri di una tipicità sociale e quindi assurgere all’area della tipicità legale. Si pensi alla esperienza della commercializzazione dei c.d. pacchetti turistici (ora regolata dal cod. cons.) e alla prassi dei contratti di affiliazione commerciale (ora disciplinata con L. 129/2004). Nella esperienza concreta è raro rinvenire un negozio caratterizzato da una atipicità “totale” cioè integralmente sganciata da ogni riferimento, anche solo per qualche profilo, ad uno schema normativo: più spesso le parti finiscono, in qualche modo, con l’utilizzare o riecheggiare frammenti di tipi legali con varianti e collegamenti dettati dalle necessità del caso concreto (è il fenomeno dei c.d. contratti misti) (par. 12).

7. Assenza di causa e astrazione dalla causa. – Per l’art. 1323 tutti i contratti, ancorché non appartengano ai tipi che hanno una disciplina particolare (tipi legali), sono sottoposti alle norme generali sul contratto: perciò devono avere una causa. a) Una causa deve dunque esistere in tutti i contratti (oltre che essere lecita e meritevole di tutela): ad es., è nulla la vendita di una cosa di cui il compratore è già proprietario; è nulla la divisione di un bene che non è in comproprietà; è nulla l’assicurazione di un bene già perito al momento del contratto (art. 1895). Per consentire la verifica di legalità del contenuto del contratto la causa deve, non solo esistere, ma anche risultare dal contratto. In tal senso la necessaria presenza di una causa costituisce un limite all’esplicazione dell’autonomia privata, in quanto l’ordinamento intende controllare la ragione giustificativa dell’operazione economica realizzata:   23 Ai contratti atipici o innominati possono applicarsi, oltre alle norme generali in materia di contratti, anche le norme regolatrici dei contratti nominati, quante volte il concreto atteggiarsi del rapporto, quale risultante dagli interessi coinvolti, faccia emergere situazioni analoghe a quelle disciplinate per singoli contratti nominati (Cass. 28-11-2003, n. 18229; Cass. 23-2-2000, n. 2069).

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PARTE VIII – CONTRATTO 

ad es., non è sufficiente volere il trasferimento di un diritto, ma bisogna anche indicare la ragione dello stesso, verso un prezzo (vendita) o per spirito di liberalità (donazione). Salvo specifici divieti legali, è consentito alle parti, nella esplicazione dell’autonomia privata, regolare i propri rapporti e dunque i corrispondenti vantaggi e sacrifici liberamente, nei limiti fissati dall’ordinamento 24. Di regola sono nulli i contratti dai quali non risulti la causa (quand’anche esistente sul piano sottostante) in quanto non è possibile verificare l’operazione economica realizzata. È di regola vietato il trasferimento astratto di diritti. Spesso si dà luogo a negozi con c.d. causa esterna all’atto. Il fenomeno rileva in particolare con riferimento alle attribuzioni traslative: il singolo trasferimento non è privo di una giustificazione causale, ma solo che tale giustificazione e quindi la causa non è presente nell’atto di trasferimento ma bisogna ricercarla altrove, in altre situazioni o contratti che giustificano e talvolta impongono il trasferimento. Poiché il nostro sistema, a differenza di quello tedesco, è improntato al principio di causalità dei negozi e a quello connesso del consenso traslativo, per cui l’atto dispositivo è ad un tempo causale e traslativo (VIII, 6.7), consegue che i negozi a causa esterna devono necessariamente contenere il richiamo al fondamento giustificativo dell’attribuzione o comunque che lo stesso sia oggettivamente ricostruibile. Si pensi al c.d. pagamento traslativo (VII, 3.2). Si pensi ancora alla ricostruzione della causa attraverso il meccanismo del c.d. collegamento negoziale di più contratti coordinati ad un medesimo scopo (par. 12). Per molte ragioni, vuoi di carattere fiscale vuoi di frode a terzi e creditori, spesso si compiono atti apparentemente validi che producono un’attribuzione traslativa senza fare emergere la causa dell’attribuzione patrimoniale. Si pensi all’atto di accertamento di un’avvenuta usucapione (inesistente), che ha il risultato di fare acquistare la proprietà a titolo originario, senza fare emergere il regolamento di interessi sottostante e dunque la giustificazione effettiva del trasferimento. Sono negozi simulati, senz’altro nulli perché stipulati in violazione del principio di causalità dei contratti (artt. 1325 e 1418). b) In ipotesi determinate l’ordinamento consente l’astrazione dalla causa, che non risulta dall’atto compiuto. I negozi astratti sono eccezionali nel sistema e perciò tipici e comunque (come si vedrà) non sono staccati del tutto dalla realtà materiale cui si connettono. Si ha astrazione sostanziale quando la evidenziazione della causa è irrilevante rispetto alla validità del contratto. Sono tassative le ipotesi in cui all’autonomia privata è (eccezionalmente) consentito assumere obbligazioni senza che ne risulti la giustificazione. Le rare ipotesi previste sono sempre in ragione di tutela di terzi: ed anche in tali ipotesi è solo consentito che la causa sia accantonata, salvo emergere successivamente. Si pensi alla circolazione dei titoli di credito, dove l’obbligazione cartolare di cui è creditore il terzo che ha ricevuto il titolo (c.d. giratario) astrae dal rapporto sottostante all’emissione del titolo corrente tra emittente e prenditore del titolo: la causa di questo è accantonata, essendo desti  24 Lo squilibrio economico originario non priva di causa il contratto, perché nel nostro ordinamento prevale il principio dell’autonomia negoziale, che opera anche con riferimento alla determinazione delle prestazioni corrispettive; perciò, salvo particolari esigenze di tutela, lo squilibrio economico iniziale tra le prestazioni non può condurre a una dichiarazione di nullità contrattuale per mancanza di causa, ma può rilevare ai fini della rescissione del contratto a norma dell’art. 1447 c.c. o dell’art. 1448, in considerazione dello stato di bisogno o di pericolo di alcuno dei contraenti, ovvero ai fini dell’annullabilità, a norma dell’art. 428 c.c., del contratto stipulato da persone incapaci (Cass. 4-11-2015, n. 22567).

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nata ad operare solo successivamente nel rapporto tra emittente e prenditore (XI, 2.1). Si pensi anche alla c.d. delegazione pura, in virtù della quale il terzo (delegato) assume l’obbligazione del debitore (delegante) verso il creditore (delegatario), senza il richiamo dei rapporti di provvista e di valuta (artt. 1269 e 12713); ma la nullità di questi si riflette sulla sorte dell’obbligazione assunta (VIII, 2.10). Si pensi pure ai contratti autonomi di garanzia (a prima richiesta), che sono indipendenti dall’obbligazione garantita (ma paralizzati dalla c.d. exceptio doli). Diversa è l’astrazione processuale, di cui si parlerà in seguito con riguardo alle c.d. promesse unilaterali. Nella promessa di pagamento e nella ricognizione di debito l’astrazione si concreta in una inversione dell’onere della prova, per cui il destinatario della promessa è dispensato dall’onere di provare il rapporto fondamentale, la cui esistenza è presunta fino a prova contraria (art. 1988) (XI, 1.2). In generale la causalità dei negozi tutela massimamente il titolare del diritto oggetto di disposizione, dovendo sussistere una ragione giustificativa del trasferimento di ricchezza a terzi; viceversa l’astrattezza dei negozi tutela massimamente l’aspirante acquirente, non risentendo l’acquisto delle anomalie della causa. In Europa sussistono paesi (come il nostro) legati alla causalità dei negozi traslativi (ad un tempo causali e traslativi) ed altri (es. Germania) che ammettono negozi traslativi astratti a seguito di negozi obbligati causali (VIII, 6.7).

8. Causa illecita. – Una causa può esistere e risultare dal contratto, ma essere illecita. Una causa può essere illecita o perché sono illecite le prestazioni (di entrambe o di una delle parti) o perché è illecita la combinazione delle prestazioni, benché, isolatamente considerate, siano conformi all’ordinamento. È ricorrente l’esempio dell’attribuzione di una somma di danaro al dipendente pubblico perché istruisca una determinata pratica: la prestazione di somma di danaro a una persona è valida, ed è addirittura atto dovuto l’esame delle pratiche da parte dei dipendenti pubblici; è però la combinazione delle due prestazioni, per cui l’una è in funzione dell’altra, a rendere vietato il risultato perseguito e dunque illecita la causa del contratto (la fattispecie rileva anche penalmente come reato di corruzione). Quando un contratto è nullo per illiceità, non assume rilevanza giuridica l’eventuale inadempimento dello stesso 25. Vi è una correlazione della illiceità con l’art. 1345 sulla nullità del contratto per un motivo illecito comune a entrambe le parti, per essersi il comune motivo illecito oggettivizzato nella causa concreta del contratto, divenuta anche essa illecita (par. 10). Per l’art. 1343 la causa è illecita quando è “contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume”. a) Le norme imperative sono le norme inderogabili (I, 3.2). Ad es. è nullo un contratto che esclude o limita preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o per colpa grave (art. 1229); è nulla una convenzione con cui taluno dispone della propria successione (art. 458). Ampio impiego di tale contrarietà è stato compiuto in sede di trasferimento di beni urbanisticamente irregolari, riconducendo l’illiceità talvolta (come si è visto) all’oggetto, talaltra alla causa. Non è invece illecito un patto che deroga a una nor  25 Allorché un contratto sia nullo per illiceità della causa, e perciò improduttivo di qualsiasi effetto, non è configurabile un inadempimento imputabile in relazione alla mancata esecuzione degli obblighi da esso nascenti (Cass. 18-9-2013, n. 21398).

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mativa dispositiva, per essere questa derogabile: ad es., la clausola di un contratto di vendita che deroga alla disciplina della consegna della merce (art. 1510), essendo questa una norma che fa salvo il patto o l’uso contrario. b) Per ordine pubblico si allude ai principi e valori fondamentali dell’ordinamento, essenzialmente desumibili dalla Carta costituzionale e dal diritto europeo convenzionale, che precipuamente informano i rapporti sociali nel particolare momento storico; alcuni principi di ordine pubblico sono tratti anche dalla legislazione ordinaria nel suo complesso, quando sono segni connotativi del sistema o delineano l’essenza di singoli istituti. Si è visto come, intorno al principio personalista e solidarista, vada delineandosi un reticolo comune che abbraccia ordine pubblico nazionale e internazionale (II, 7.9). c) Relativamente al buon costume, da tempo se ne è ampliata la portata, dall’area del pudore sessuale (dove tradizionalmente ha operato) alla c.d. morale sociale. Il rispetto del buon costume esprime un principio generale dell’ordinamento, che tende a determinarne il contenuto precettivo alla stregua dell’evoluzione dell’etica sociale e dei valori dell’ordinamento. Opera la generale regola dell’art. 2035, secondo cui, in presenza di comune scopo contrario al buon costume, chi ha eseguito la prestazione non può ripeterla (cioè chiedere la restituzione) (soluti retentio) 26 (art. 2035) (VIII, 5.11). L’art. 1343, dando la nozione di causa illecita, non distingue tra contratti tipici e contratti atipici, potendo dunque anche i primi risultare illeciti. Si vedrà in seguito come la verifica di illiceità è intrecciata con la verifica di meritevolezza ed entrambe rilevano in funzione della valutazione dell’assetto di interessi, alla cui realizzazione possono concorrere anche più atti.

9. Il contratto in frode alla legge. – Per l’art. 1344 si reputa illecita la causa quando il contratto costituisce “il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa”. C’è un abuso del mezzo utilizzato (di per sé formalmente valido), piegandosi la funzione tipica dello schema contrattuale utilizzato ad uno scopo illecito: si realizza cioè una elusione della norma giuridica, infrangendo e deformando lo strumento legale impiegato (in fraudem legis). Più spesso la frode alla legge avviene attraverso una sequenza di atti 27. Accertata la   26 Ai fini dell’applicazione della soluti retentio ex art. 2035 le prestazioni contrarie al buon costume non sono soltanto quelle che contrastano con le regole della morale sessuale o della decenza, ma sono anche quelle che non rispondo ai principi e alle esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico, dovendosi pertanto ritenere contraria al buon costume, e come tale irripetibile, l’erogazione di somme di denaro in favore di un’impresa già in stato di decozione integrante un vero e proprio finanziamento, che consente all’imprenditore di ritardare la dichiarazione di fallimento, incrementando l’esposizione debitoria dell’impresa trattandosi di condotta preordinata alla violazione delle regole di correttezza che governano le relazioni di mercato e alla costituzione di fattori di disinvolta attitudine “predatoria” nei confronti di soggetti economici in dissesto (Cass. 5-8-2020, n. 16706). Conf. Cass. 3-4-2018, n. 8169; Cass. 21-4-2010, n. 9441: chi abbia versato una somma di denaro per l’ottenimento di un posto di lavoro (nella specie, presso un istituto bancario), a prescindere dall’esito della trattativa immorale, non è ammesso a ripetere la prestazione, perché tale finalità, certamente contraria a norme imperative, è da ritenere anche contraria al buon costume. 27 La giurisprudenza richiede che, al momento della stipulazione, le parti siano consapevoli della frode alla legge (Cass. 7-8-2004, n. 15308; Cass. 4-4-2003, n. 5324) (teoria soggettiva della frode). Ma non mancano orientamenti che hanno riguardo alla oggettiva idoneità del contratto ad eludere l’applicazione della legge (teoria oggettiva della frode) (Cass. 14-3-2006, n. 5438). Non si rinviene nell’ordinamento una norma che san 

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frode alla legge, consegue la illiceità e dunque la nullità del contratto 28. Se è possibile sanzionare il risultato perseguito attraverso l’interpretazione estensiva o analogica di una precisa norma, si ha un diretto contrasto con una norma giuridica; si ha negozio in frode alla legge quando il risultato perseguito, specie attraverso una sequenza di atti, tende a conseguire un obiettivo non riconducibile a una specifica previsione ma comunque vietato dall’ordinamento, anche solo per contrasto ai principi e valori generali. Una tradizionale ipotesi è quella della vendita con patto di riscatto o retrovendita (contratto valido per essere disciplinato dall’art. 1500) stipulata per una causa di garanzia invece che per una causa di scambio, con aggiramento del divieto del patto commissorio (art. 2744) (VII, 5.3). Un campo di incisiva applicazione della categoria dei contratti in frode alla legge è quello tributario, dove, a fianco della evasione fiscale, opera appunto la elusione fiscale quale mezzo di aggiramento della norma tributaria. L’art. 10 bis dello Statuto del contribuente (L. 27.7.2000, n. 212), inserito dall’art. 1 D.Lgs. 5.8.2015, n. 168, sotto la rubrica “Disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale”, prevede che configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti; tali operazioni non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni; in tal guisa assimilandoli ai negozi in frode ai creditori. Si è dell’idea che, quando tali atti integrino un abuso del diritto, debbano essere considerati senz’altro nulli per frode alla legge e non meramente inopponibili al fisco, in quanto elusivi di norme tributarie che non possono non considerarsi imperative 29 e di interessi che non possono non essere di carattere generale.  

cisca in via generale (come per il contratto in frode alla legge) l’invalidità del contratto in frode dei terzi, per il quale, invece, l’ordinamento accorda rimedi specifici, correlati alle varie ipotesi di pregiudizio che essi possano risentire dall’altrui attività negoziale (Cass. 4-10-2010, n. 20576; Cass. 29-5-2003, n. 8600; Cass., sez. un., 25-10-1993, n. 10603). 28 Gli artt. 1344 e 1418 considerano l’illiceità quale causa di nullità e non di conversione del contratto in frode alla legge nel contratto che costituisce presupposto per l’applicazione della norma, che le parti intendevano eludere (Cass. 3-9-2001, n. 11351). 29 La figura dell’abuso di diritto in materia tributaria richiede il concorso di due fattori: che il contribuente abbia conseguito una positiva ricaduta fiscale dal suo operato; che tale vantaggio fiscale costituisca la ragione determinante dell’operazione, cioè che non concorrano ragioni e giustificazioni economico-sociali di altra natura, o almeno che esse siano di minimo rilievo (Cass. 19-11-2012, n. 20254; Cass. 30-11-2012, n. 21390). La sanzione prevista per l’elusione tributaria non è la nullità, ma la inopponibilità degli atti all’Amministrazione finanziaria. L’interrogativo che si prospetta è: le norme tributarie sono norme imperative? Direi di sì: nel contesto sociale ed economico attuale c’è un trend normativo e di diritto vivente di forte contrasto all’evasione e alla elusione tributaria come fondamentale meccanismo di salvaguardia dei conti pubblici e dello stato sociale, sì da assurgere a leva fondamentale di tenuta della coesione sociale (per l’art. 53 Cost., tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva, e per l’art. 971 Cost., le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico). Direi che lo strumento della nullità degli atti evasivi e elusivi potrebbe far compiere un passo significativo nella lotta all’evasione fiscale. Si è del resto stabilito che il reato di dichiarazione infedele dei redditi può essere integrato anche dai comportamenti elusivi posti in essere dal contribuente per trarre indebiti vantaggi dall’utilizzo in modo distorto di strumenti giuridici, in mancanza di ragioni economicamente apprezzabili che possano giustificare l’operazione (Cass. pen. 6-3-2013, n. 19100). Se con la stipula dell’atto è commesso un reato non può non essere nullo l’atto che sorregge il reato!

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Diversamente si atteggiano i negozi in frode ai creditori, colpiti dall’azione revocatoria (art. 2901), perché in tal caso non è la funzione dell’atto a essere illecita, ma è il cotesto di svolgimento dell’atto a renderlo di pregiudizio ai creditori (art. 2740), richiedendosi appunto tra i presupposti della revocatoria il “pregiudizio” dei creditori (eventus damni), con inefficacia relativa dell’atto dispositivo (VII, 5.7).

10. Motivi. – Il motivo indica la ragione individuale dell’atto: lo scopo specifico e personale per cui ciascuna delle parti conclude il contratto. Ad es. un soggetto acquista un immobile per abitarlo o per installarvi lo studio professionale o per concederlo in locazione a terzi: questi sono gli specifici motivi che spingono all’acquisto. Di regola i motivi perseguiti dal singolo contraente, ancorché determinanti dell’intento negoziale, sono irrilevanti ove non siano esteriorizzati in una condizione o in un’altra pattuizione contrattuale. Si tende ad attribuire rilevanza ai motivi quando gli stessi sono oggettivati nella causa concreta del contratto. E ciò per garantire stabilità alle operazioni economiche e dunque al mercato: diversamente ogni contratto resterebbe esposto alla caducazione per la successiva emersione di motivi personali di una parte ignoti alla controparte, con intralcio alla circolazione dei beni. Anche l’errore sui motivi del contratto è di regola irrilevante (es. errore sulla convenienza dell’affare concluso): come si è visto, l’errore è rilevante e dunque causa di annullamento del contratto quando è essenziale e riconoscibile (art. 1431). Assume rilevanza la illiceità del motivo, quando il motivo è comune alle parti e determinante del consenso: per l’art. 1345 il contratto è illecito quando le parti si sono determinate a concluderlo esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe. Quando il motivo comune penetra nell’assetto di interessi realizzato perde autonoma rilevanza, per rimanere assorbito dalla illiceità della causa concreta. Il motivo illecito è dunque causa di nullità quando assume due caratteri: a) è comune ad entrambe le parti, nel senso che entrambe le parti stipulano il contratto per il medesimo motivo, ovvero una parte tragga profitto dal motivo illecito dell’altra (es. locazione di immobile a soggetto cha lo utilizzerà per casa di meretricio, traendo da ciò un alto canone): si realizza una oggettivizzazione dei motivi nella causa del contratto 30; b) è l’unico per il quale le parti hanno concluso il contratto, ed è perciò determinante del consenso. La illiceità del motivo, con i caratteri descritti, determina la nullità del contratto (art. 14182). Una maggiore rilevanza assume il motivo nei negozi di liberalità (testamento e donazione) (XII, 2.5; XIII, 1.2). In assenza di una nozione normativa di illiceità del motivo, questa è mutuabile dalla nozione di illiceità della causa (art. 1343) e pertanto ricorre per contrarietà a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume. Come per la causa, anche rispetto al motivo illecito comune trova applicazione l’art. 2035 che, in presenza di comune scopo contrario al buon costume, dispone la irripetibilità della prestazione compiuta (soluti retentio). Utilizzandosi il principio espresso dall’art. 1324 di applicazione delle norme sui contratti ai negozi unilaterali tra vivi con contenuto patrimoniale, si tende a fare applicazio  30 La causa in concreto conferisce rilevanza ai motivi, sempre che questi abbiano assunto un valore determinante nell’economia del negozio, assurgendo a presupposti causali, e siano comuni alle parti o, se riferibili ad una sola di esse, siano comunque conoscibili dall’altra (Cass. 10-7-2018, n. 18047).

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ne dell’art. 1345 sul motivo illecito anche ai negozi unilaterali a contenuto patrimoniale quando il motivo illecito è stato l’unico che abbia indotto al negozio 31. C’è da evidenziare una crescente normativa protettiva che riconosce rilevanza giuridica a specifiche motivazioni dell’operazione economica: ad es., la normativa a tutela dei consumatori, che valorizza il motivo del consumo oggettivato nella destinazione del bene acquistato, determinando l’applicazione di una normativa specifica di protezione.

11. La presupposizione. – Oltre gli elementi essenziali (costitutivi) del contratto rilevano spesso i presupposti del contratto, che possono essere di fatto e di diritto. La presupposizione designa un presupposto di fatto o di diritto a fondamento del contratto, perciò rilevante per l’assetto di interessi, pur senza essere oggetto di espressa menzione 32. Si è soliti anche parlare di condizione inespressa in quanto, benché non indicata, è comune alle parti e determinante della volontà negoziale; però differisce dalla condizione in quanto, nella condizione l’evento è considerato come incerto, mentre nella presupposizione è assunto come certo. La presupposizione non è oggetto di una statuizione contrattuale, ma emerge dalle circostanze che i contraenti hanno tenuto presente nel contratto come presupposto dello stesso. C’è il classico esempio della locazione del balcone per un determinato giorno, sul presupposto inespresso di assistere alla sfilata di un corteo. Ai nostri giorni si pensi al caso (esaminato dalla giurisprudenza) della conclusione di un contratto di fornitura di carburante, sul presupposto della costruzione della stazione di servizio: si è ritenuto che la costruzione della stazione di servizio fosse il presupposto dell’accordo, sicché l’impossibilità di realizzarla per una sopravvenuta normativa che lo vieta, giustifica la risoluzione del contratto di fornitura di carburante. Frequente è l’ipotesi di permuta di suolo edificatorio contro appartamenti da costruire, sul presupposto dell’ottenimento del premesso di costruire che invece non viene rilasciato. La presupposizione non è disciplinata dalla legge, sicché da tempo la sua rilevanza giuridica è oggetto di dibattito. Le diverse opinioni si svolgono intorno a due fondamentali e contrapposte traiettorie, volontaristica e causalistica. Nella impostazione volontaristica, la presupposizione, secondo una prospettiva, esprime il motivo di ciascun contraente e dunque è come tale irrilevante; secondo una diversa prospettiva, la presupposizione rileva quando è comune alle parti o quando, ancorché assunta da una sola parte, sia nota alla controparte. In entrambe le prospettive la figura finisce con l’essere ancorata ad una dimensione soggettivistica: nella prima, collegata al motivo individuale; nella seconda, ricondotta alla comune volontà presunta o implicita delle parti. La giurisprudenza, che in tempi più recenti tende ad ammettere la presupposizione, la ricollega appunto alla prospettiva dell’accordo, come presupposto della volontà negoziale, nel senso di essere tenuta presente dalle parti nella formazione dell’accordo 33.   31 In ordine al licenziamento nullo perché ritorsivo, il motivo illecito addotto ex art. 1345 c.c. deve essere determinante, ossia costituire l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale (Cass. 2-12-2019, n. 31395; Cass. 4-4-2019, n. 9468; Cass. 16-1-2020, n. 808). 32 La contemplazione del presupposto può riguardare entrambe le parti o anche una sola di esse con il riconoscimento dell’altra parte (Cass. 19-10-2015, n. 21122). 33 Per configurare la fattispecie della c.d. “presupposizione” (o condizione inespressa) è necessario che dal contenuto del contratto si evinca l’esistenza di una situazione di fatto, non espressamente enunciata in sede di  

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Nella impostazione causalistica (o funzionalista) la presupposizione è ricondotta alla causa concreta del contratto, verificata secondo i canoni ermeneutici legali. La figura è dunque ricostruita in una dimensione oggettivistica: non è necessario ricostruire una volontà anche solo ipotetica; è sufficiente accertare la ragguagliabilità del presupposto (di fatto o di diritto) all’assetto di interessi realizzato e più specificamente il nesso di necessaria connessione del presupposto con lo scopo pratico perseguito dal negozio 34. È l’impostazione sicuramente più aderente alla evoluzione della raffigurazione dell’autonomia privata, calata nella effettività delle relazioni sociali e delle dinamiche del mercato. In ogni caso la presupposizione assume rilevanza sia quando la situazione presupposta come esistente non esiste al momento della conclusione del contratto, sia quando quella contemplata come futura (ma certa) non si realizza: nella prima ipotesi, il contratto è inefficace sin dalla nascita in quanto nullo; nella seconda, diventa inefficace successivamente attraverso la risoluzione 35. Talvolta il fatto presupposto è enunciato nel contratto, sicché alla parte che intende farvi riferimento è sufficiente richiamarne la statuizione (clausola espressa di presupposizione); più spesso manca una indicazione nel contratto del fatto presupposto e successivamente una delle parti ne invochi la rilevanza (clausola tacita di presupposizione), che rappresenta la vera presupposizione: in questa ipotesi, che è la più dibattuta, la parte che invoca il fatto presupposto deve provarne l’esistenza 36. Al dibattito sulla presupposizione si ricollega di recente la riflessione sulle sopravvenienze, ossia il sopraggiungere durante l’esecuzione del contratto di fatti e interessi non considerati dai contraenti al momento della stipulazione, ma tali da stravolgere l’assetto di interessi programmato: c’è quindi da valutare l’incidenza delle sopravve 

stipulazione, ma considerata quale presupposto imprescindibile della volontà negoziale, il cui successivo verificarsi o venir meno dipenda da circostanze non imputabili alle parti (Cass. 5-3-2018, n. 5112; Cass. 18-9-2009, n. 20245). Per aversi presupposizione è necessario: a) che la presupposizione sia comune a tutti i contraenti; b) che l’evento supposto sia stato assunto come certo nella rappresentazione delle parti (ed in ciò la presupposizione differisce dalla condizione); c) che si tratti di un presupposto obiettivo, consistente cioè in una situazione di fatto il cui venire meno o il cui verificarsi sia del tutto indipendente dalla attività e volontà dei contraenti e non corrisponda, integrandolo, all’oggetto di una specifica obbligazione (Cass. 6-12-2018, n. 31629). Si ha presupposizione quando una determinata situazione di fatto o di diritto – comune ad entrambi i contraenti ed avente carattere certo e obiettivo – sia stata elevata dai contraenti stessi a presupposto condizionante il negozio, in modo tale da assurgere a fondamento, pur in mancanza di un espresso riferimento, dell’esistenza ed efficacia del contratto (Cass. 15-12-2021, n. 40279). 34 La presupposizione è stata anche ricondotta alla causa concreta del contratto, precisandosi che la presupposizione non attenga né all’oggetto, né alla causa, né ai motivi del contratto, per consistere in uno “specifico e oggettivo presupposto di efficacia in base al significato proprio del medesimo, assumendo per entrambe le parti (o anche per una sola di esse ma con riconoscimento dell’altra) valore determinante ai fini del mantenimento del vincolo contrattuale” (Cass. 25-5-2007, n. 12235; Cass. 24-3-2006, n. 6631). È anche principio diffuso della giustizia amministrativa che le convenzioni tra soggetti pubblici si devono intendere stipulate nella presupposizione implicita della clausola generale “rebus sic stantibus”, di guisa che una successiva modifica del quadro, specie normativo, di riferimento non può restare senza conseguenze sull’efficacia degli accordi dedotti in convenzione (Cons. Stato 13-9-2012, n. 4861). 35 È principio diffuso: es. Cass. 14-11-2006, n. 24295. 36 L’affermazione dell’esistenza nel contratto di una clausola di tacita presupposizione impone alla parte che ne assume l’esistenza di allegare, nel contraddittorio processuale con l’avversario, la situazione di fatto considerata, ma non espressamente enunciata nel contratto, che sia successivamente mutata per il sopravvenire di circostanze non imputabili alla parte stessa, così da determinare un assetto ai propri interessi fondato su basi diverse da quello in virtù del quale era stato concluso il contratto (Cass. 23-10-2014, n. 22580).

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nienze rispetto al regolamento assunto e ai fatti presupposti (VIII, 7.5).

12. Combinazione di fasci di prestazioni: contratto complesso (specie misto) e collegamento negoziale. – Nel vasto campo dell’atipicità negoziale, l’esperienza giuridica registra la crescita di operazioni economiche coinvolgenti più fasci di prestazioni in vista di un risultato unitario. L’operazione economica, talvolta, si struttura in un unico contratto con contenuto complesso e vario; talaltra si svolge attraverso una pluralità di contratti connessi e coordinati. Il fenomeno si delinea attraverso la fondamentale ripartizione tra contratto complesso (specie misto) e contratti collegati. Non bisogna però confondere tra negozio e documento che lo contiene: in uno stesso documento possono essere stipulati più negozi, mentre attraverso più documenti può ricostruirsi un negozio unitario. a) Si ha contratto complesso quando singoli fasci di prestazioni sono dalle parti combinati in un contratto unico e unitario strutturalmente e funzionalmente (perciò con unica causa). Trattasi di una volontà negoziale espressa in un medesimo contesto e racchiusa in uno stesso atto, che involge e riconduce ad unità prestazioni astrattamente riconducibili a più negozi 37. Sono coinvolte prestazioni eterogenee, che attingono anche a più schemi negoziali, ma che sono dalle parti programmate e organizzate in un unico negozio finalizzato al perseguimento di un risultato unitario. È una realtà in progressivo aumento nell’economia dei servizi, per programmarsi l’impegno finanziario in vista del complessivo risultato perseguito. Si pensi al contratto di logistica, con il quale, per un prezzo onnicomprensivo, una parte tende a conseguire la fornitura di servizi logistici integrati, rimanendo l’operatore responsabile per tutte le obbligazioni che ineriscono ai singoli servizi. Si pensi anche al contratto di rete con il quale le parti (imprese) tendono a compiere una varietà di attività in comune o solo scambiandosi una varietà di informazioni per la maggiore efficienza delle singole imprese. Il fenomeno è bene evidente in presenza di obb ligazioni aggiuntive alla obbligazione principale assunta, con carattere strumentale o accessorio. Si atteggiano come obbligazioni strumentali quando mirano a consentire o agevolare l’attuazione del contenuto tipico del contratto, al di fuori del quale non conserverebbero un’autonomia giuridica: si pensi, relativamente al contratto di trasporto, alle operazioni di imbarco e sbarco dei passeggeri ovvero di caricazione, stivaggio e scaricazione della merce, o anche alla protezione del passeggero e di custodia della merce (cfr. art. 1177). Si configurano come obbligazioni accessorie quando sono suscettibili di formare oggetto di autonomi contratti, ma sono nella specie connesse al concreto contenuto del contratto utilizzato: nell’esempio sopra fatto del trasporto, si pensi all’assicurazione della merce nel trasporto di cose o alla prestazione di vitto e alloggio per il passeggero nel trasporto di persone; si pensi anche alle visure ipocatastali e alla registrazione, che si connettono alla prestazione professionale del notaio di rogazione dell’atto di trasferimento di un bene (par. 3). In effetti, nella realtà economica il dato legislativo è spesso ribaltato: le c.d. obbligazioni aggiuntive sono quasi sempre principali in quanto o sono strumentali al conseguimento dello scopo programmato o concorrono alla determinazione dell’assetto di interessi per  37 L’esistenza di una causa unica del negozio complesso si riflette sul nesso intercorrente tra le varie prestazioni, con una intensità tale da precludere che ciascuna delle prestazioni possa essere rapportata a una distinta causa tipica: le prestazioni si presentano organicamente interdipendenti e dirette al raggiungimento di un intento negoziale oggettivamente unico (Cass. 28-3-2006, n. 7074).

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seguito dalle parti, indipendentemente dal fatto che le stesse siano adempiute dal debitore direttamente o avvalendosi di ausiliari. Quando tali fasci di prestazioni rispecchiano più tipi legali si dà propriamente luogo al c.d. contratto misto, che è la figura più diffusa di contratto complesso. Gli elementi di più schemi tipici concorrono alla elaborazione di un unitario intento negoziale in funzione del conseguimento di uno scopo unitario. Il contratto misto si configura come contratto atipico, per non essere riconducibile ad uno specifico schema legale, ma per risultare dalla combinazione di più frammenti di schemi tipici finalizzati ad un unitario (benché complesso) assetto di interessi. Il riferimento tradizionale è al negozio che combina la causa di un contratto a titolo oneroso con la causa di un contratto a titolo gratuito (negotium mixtum cum donatione) 38; più di recente, si pensi al contratto di residence, che combina la locazione di un appartamento con la erogazione di servizi; al contratto di parcheggio, che combina la locazione di un posto auto con la custodia 39. Il risultato è conseguito mediante un unico contratto, nel quale sono coordinati profili di più tipi legali: unica è però la causa concreta realizzata, alla cui stregua va valutata la meritevolezza e la liceità del concreto contratto e successivamente l’esattezza dell’adempimento. È da tempo discussa la individuazione della disciplina applicabile al contratto misto 40. L’indirizzo tradizionale di ancorare la disciplina alla “prevalenza del tipo”, è stato nel tempo superato dal principio della “combinazione dei tipi” attingendosi alle normative dei vari tipi coinvolti, in quanto compatibili; la giurisprudenza tende a semplificare la individuazione della disciplina applicabile, facendo riferimento alla disciplina unitaria dello schema prevalente, in ragione della prevalenza fra le prestazioni pattuite 41 o dell’assetto di interessi perseguito 42. b) Si ha collegamento negoziale quando singoli fasci di prestazioni integrano più con  38 Una posizione particolare assume la c.d. vendita mista a donazione (es. si arreca un beneficio al compratore vendendo il bene ad un prezzo inferiore a quello di mercato; oppure si beneficia il venditore, acquistando il bene ad un prezzo superiore a quello di mercato): si ha in tale ipotesi una donazione indiretta e perciò un negozio indiretto (VIII, 3.15). 39 Anche il contratto di albergo va configurato come contratto atipico misto, per impegnarsi l’albergatore a fornire al cliente, dietro corrispettivo, una serie di prestazioni eterogenee, quali la locazione di alloggio, la fornitura di servizi, il deposito. Ricorrente è anche il contratto con il quale il concessionario del servizio di distribuzione di carburanti affida a terzi la gestione di un impianto, affiancando al comodato gratuito degli impianti il rapporto di somministrazione in esclusiva dei prodotti petroliferi. 40 Tradizionalmente si sono contese il campo tre impostazioni: teoria dell’assorbimento, secondo cui andrebbe applicata la disciplina del contratto prevalente; teoria dell’applicazione analogica, secondo cui il contratto misto sarebbe un contratto innominato e dunque sarebbe soggetto all’applicazione analogica del contratto tipico più simile; teoria della combinazione, secondo cui andrebbero coordinate le discipline dei vari contratti, simultaneamente applicate. 41 La giurisprudenza tende ad assoggettare il negozio misto alla “disciplina unitaria di uno dei contratti in base alla prevalenza degli elementi, salva l’applicazione degli elementi del contratto non prevalente se regolati da norme compatibili con quello del contratto prevalente” (Cass., sez. un., 31-10-2008, n. 26298). Bisogna aver riguardo alle norme del contratto tipico nel cui schema sono riconducibili gli elementi prevalenti (teoria dell’assorbimento o della prevalenza), senza escludere ogni rilevanza giuridica degli altri elementi, che sono voluti dalle parti e concorrono a fissare il contenuto e l’ampiezza del vincolo contrattuale, ai quali si applicano le norme proprie del contratto cui essi appartengono, in quanto compatibili con quelle del contratto prevalente (Cass. 17-10-2019, n. 26485). 42 Il fattore decisivo per stabilire la prevalenza degli elementi tra vendita e appalto è dato dall’interesse che ha mosso le parti a stipulare (Cass. 6-10-2014, n. 20993).

CAP. 3 – CONTENUTO

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tratti strutturalmente autonomi ma connessi in vista di un risultato unitario. I negozi collegati sono appunto negozi con strutture autonome, ed anche con cause distinte ma funzionalmente combinate in un programma unitario. Il collegamento può essere necessitato o facoltativo. Il collegamento necessitato indica una connessione necessaria di un negozio con un altro negozio: la connessione è strumentale in quanto un negozio è preordinato e preparatorio rispetto alla stipula di altro negozio: es. il contratto preliminare rispetto al contratto definitivo (art. 1351), la procura rispetto al contratto da compiere (art. 1388); è solo complementare quando consente, consolida o risolve l’efficacia di altro negozio: rispettivamente, la ratifica di negozio inefficace (art. 1399), la convalida di negozio annullabile (art. 1444), la dichiarazione di volere profittare nel contratto a favore di terzo (art. 1411) la risoluzione consensuale di un precedente contratto (art. 1372). Il collegamento facoltativo esprime la libera organizzazione dell’assetto di interessi con l’impiego di più negozi variamente connessi. Le parti realizzano una operazione economica mediante una pluralità coordinata di contratti che hanno specifici schemi, teleologicamente connessi da un vincolo funzionale che li indirizza al risultato unitario: perché ricorra un collegamento negoziale rileva e va pertanto verificato il nesso teleologico tra i negozi. Nel caso in cui le parti contrattuali siano diverse e il collegamento sia stabilito nell’interesse soltanto di una di esse, è necessario che il nesso teologico sia esplicitato ovvero sia ricostruibile nel senso che i più contratti risultino funzionalmente connessi e tra loro interdipendenti per il raggiungimento dello scopo perseguito dalle parti 43. Conseguono dal collegamento negoziale due corollari: da un lato, ognuno dei differenti contratti mantiene la sua individualità e resta soggetto alla disciplina propria della struttura specifica impiegata, e come tale va verificato e deve essere eseguito 44; dall’altro, la interdipendenza degli stessi, per essere finalizzata al perseguimento di un risultato complessivo, impegna una funzione unitaria che come tale va valutata, con la conseguenza che le vicende del singolo negozio si ripercuotono sul complessivo assetto di interessi: le vicende che investono un contratto (invalidità, risoluzione, inefficacia in genere) coinvolgono i contratti collegati. Rispetto alla struttura del singolo contratto si ha un feno  43 Il collegamento deve dipendere dalla genesi del rapporto, con l’intento specifico delle parti di coordinare i due negozi instaurando tra essi una connessione teleologica; la volontà di collegamento deve obiettivarsi nel contenuto dei diversi negozi, sicché ognuno dei negozi sia destinato a subire le ripercussioni delle vicende dell’altro (Cass. 23-2-2022, n. 9475). Nell’ipotesi di contratto di mutuo, in cui sia previsto lo scopo del reimpiego della somma mutuata per l’acquisto di un determinato bene, sussiste il collegamento negoziale tra tali contratti (di vendita e di mutuo), per cui il mutuatario è obbligato all’utilizzazione della somma mutuata per la prevista acquisizione; della somma concessa in mutuo beneficia il venditore del bene, con la conseguenza che la risoluzione della compravendita del bene – che importa il venir meno dello stesso scopo del contratto di mutuo – legittima il mutuante a richiedere la restituzione della somma mutuata, non al mutuatario, ma direttamente ed esclusivamente al venditore (Cass. 19-7-2012, n. 12454). 44 Si ha collegamento meramente occasionale quando le singole dichiarazioni, strutturalmente e funzionalmente autonome, mantengono l’individualità propria di ciascun tipo negoziale in cui esse si inquadrano, sicché la loro unione non influenza la disciplina dei singoli negozi in cui si sostanziano; si ha invece collegamento funzionale (che è il collegamento vero e proprio) quando i diversi e distinti negozi, cui le parti danno vita nell’esercizio della loro autonomia negoziale, pur conservando l’individualità propria di ciascun tipo, vengono tuttavia concepiti e voluti come avvinti teleologicamente da un nesso di reciproca interdipendenza (Cass. 21-9-2011, n. 19211; Cass., sez. un., 25-11-2008, n. 28053). Il collegamento negoziale non può realizzarsi fra negozi simulati e dissimulati, essendo di per sé la simulazione già deputata al perseguimento di scopi estranei a quelli del negozio formalmente posto in essere (Cass. 31-5-2013, n. 13861).

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PARTE VIII – CONTRATTO 

meno di negozio con causa esterna in quanto è la causa della complessiva operazione economica che giustifica la presenza dei singoli negozi 45. Non è rilevante la contestualità documentale ma la correlazione funzionale: più negozi possono essere stipulati in distinti documenti come in un unico documento. Il collegamento teleologico tra gli atti comporta un collegamento funzionale tra i rapporti regolati nei singoli atti combinati, con risvolti sia di carattere civilistico (invalidità o rescissione) che di carattere tributario (per la tassazione degli atti in funzione delle operazioni compiute) 46. La connessione tra i negozi può integrare un vincolo unilaterale tra i contratti nel senso di subordinazione di un solo contratto all’altro 47, come può dispiegarsi in un vincolo plurilaterale nel senso di concorrente implicazione tra i singoli contratti. Può riguardare più contratti stipulati tra le parti o anche stipulati tra persone diverse 48. Spesso è lo stesso ordinamento che, al fine di tutelare specifici interessi, impone la verifica del collegamento: ad es., nei contratti con i consumatori, il controllo di vessatorietà del contratto va compiuto tenendo conto anche di altre clausole di un contratto collegato o da cui dipende (art. 341 cod. cons.). Di sovente l’emergere di un tipo legale proviene proprio da una esperienza economica di collegamento negoziale tra più contratti. Uno dei terreni significativi di emersione di contratti collegati è quello dei viaggi organizzati: la prassi sociale di collegamento tra i vari servizi (trasporto, alloggio e servizi turistici) ha prima fatto emergere una tipicità sociale di contratti collegati e poi dato senz’altro vita all’unitario tipo legale della “vendita di pacchetti turistici” (IX, 2.12). Si è anche ricorso al meccanismo del collegamento ne  45 Il collegamento contrattuale non dà luogo ad un autonomo e nuovo contratto, ma è un meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico unitario e complesso, attraverso una pluralità coordinata di contratti, i quali conservano una loro causa autonoma, anche se ciascuno è finalizzato ad un unico regolamento dei reciproci interessi: i vari contratti restano soggetti alla disciplina propria del rispettivo schema negoziale, mentre la loro interdipendenza produce una regolamentazione unitaria delle vicende relative alla permanenza del vincolo contrattuale, per cui “simul stabunt, simul cadent” (Cass. 10-10-2014, n. 21417; Cass. 22-3-2013, n. 7255). Nel caso in cui le parti contrattuali siano diverse e il collegamento sia stabilito nell’interesse soltanto di una di esse è necessario che il nesso teleologico tra i singoli atti negoziali si traduca – ricevendo forma giuridica – nell’inserimento di apposite clausole a tutela della parte che è portatrice di tale interesse, ovvero venga esplicitato o comunque accettato dagli altri contraenti (Cass. 6-2-2013, n. 2839; Cass. 22-3-2013, n. 7255). 46 Incombe sull’Amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale elusivo (Cass. 26-2-2014, n. 4603). In tema di imposta di registro, il negozio complesso è contrassegnato da una causa unica, laddove, invece, nel collegamento negoziale, distinti ed autonomi negozi si riannodano ad una fattispecie complessa pluricausale, della quale ciascuno realizza una parte, ma pur sempre in base ad interessi immediati ed autonomamente identificabili (Cass. 23-10-2019, n. 27043). 47 Le parti possono concordare che uno soltanto dei contratti sia dipendente dall’altro, se il regolamento di interessi che l’uno è volto a disciplinare non dipende da quello dell’altro (Cass. 8-10-2008, n. 24792). Le vicende che investono l’un contratto possono dunque ripercuotersi sull’altro non necessariamente in funzione di condizionamento reciproco, ben potendo uno soltanto dei contratti essere subordinato all’altro e non viceversa (Cass. 4-3-2010, n. 5195). 48 La fattispecie del collegamento negoziale se, da un lato