Diritto parlamentare [3 ed.]
 9788892120099, 9788892181908

Table of contents :
Copertina
Occhiello
Dedica
Indice generale
Prefazione alla terza edizione
1. Le fonti del diritto parlamentare
2. La forma di governo parlamentare in Italia
3. Struttura, formazione, composizione e durata delle Camere
4. Lo status del parlamentare
5. Il funzionamento delle Camere
6. La funzione legislativa
7. La funzione di indirizzo e controllo
8. Le altre funzioni delle Camere
9. Parlamento e Unione europea
10. Il Parlamento in seduta comune
Bibliografia
Indice analitico

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DIRITTO PARLAMENTARE

STEFANO MARIA CICCONETTI

DIRITTO PARLAMENTARE Terza edizione aggiornata

alla riforma del Regolamento del Senato

G. Giappichelli Editore

© Copyright 2019 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100

http://www.giappichelli.it

ISBN/EAN 978-88-921-2009-9

ISBN/EAN 9788892181908 (ebook)

Stampa: Stampatre s.r.l. - Torino

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Indice generale

V

A mia madre

Indice generale

VII

INDICE GENERALE

pag. Prefazione alla terza edizione

XIII

CAPITOLO 1 LE FONTI DEL DIRITTO PARLAMENTARE 1. 2.

3.

4. 5. 6. 7.

Introduzione ed impostazione del tema Le fonti del diritto parlamentare: norme giuridiche (costituzionali, legislative, regolamentari, consuetudinarie) e norme non giuridiche (convenzioni costituzionali e prassi) I regolamenti parlamentari a) La natura giuridica dei regolamenti parlamentari: critica della tesi che nega il carattere giuridico delle norme dei regolamenti parlamentari e delle tesi che ritengono, in tutto o in parte, meramente interne le norme dei regolamenti parlamentari. I regolamenti parlamentari sono fonti dell’ordinamento giuridico italiano b) La diversa posizione dei regolamenti parlamentari nel precedente e nell’attuale ordinamento. La riserva assoluta di competenza a favore dei regolamenti parlamentari prevista dagli artt. 64 e 72 Cost. c) La forza di legge dei regolamenti parlamentari: aspetti problematici della questione d) La negazione della parametricità delle norme dei regolamenti parlamentari e della loro idoneità a costituire l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale. La sent. n. 154/1985 della Corte costituzionale e relative critiche. Gli ulteriori sviluppi della giurisprudenza costituzionale al riguardo e) I regolamenti parlamentari minori Le leggi Le consuetudini costituzionali Le convenzioni costituzionali La prassi ed i precedenti

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VIII

Indice generale

pag. CAPITOLO 2 LA FORMA DI GOVERNO PARLAMENTARE IN ITALIA 1. 2.

La forma di governo parlamentare adottata dai Costituenti I fattori giuridici, politici e tecnologici, che hanno modificato tacitamente la forma di governo parlamentare

39 41

CAPITOLO 3 STRUTTURA, FORMAZIONE, COMPOSIZIONE E DURATA DELLE CAMERE 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

8.

Il bicameralismo I sistemi elettorali Ineleggibilità, incandidabilità (c.d. Legge Severino), incompatibilità e verifica dei poteri Senatori di diritto e nomina dei senatori a vita Gli organi delle Camere: Assemblee, Presidenti, Uffici di presidenza, Gruppi, Commissioni, Giunte, Conferenza dei Presidenti di Gruppo La durata delle Camere: la legislatura, la proroga, la prorogatio, lo scioglimento anticipato L’autonomia costituzionale delle Camere con riferimento al momento applicativo delle norme regolamentari: in particolare, l’autonomia contabile ed il principio di autodichia (rinvio al par. successivo) Le disposizioni dei regolamenti parlamentari che disciplinano il principio di autodichia. Gli argomenti a sostegno della illegittimità di tali disposizioni. La sent. 28 aprile 2009 Savino ed altri contro Italia della Corte europea dei diritti dell’uomo. Le sentt. nn. 120/2014 e 262/2017 della Corte costituzionale

51 52 56 63 66 71

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CAPITOLO 4 LO STATUS DEL PARLAMENTARE 1. 2.

Il divieto del mandato imperativo L’immunità di carattere assoluto prevista dall’art. 68, co. 1, Cost., per le opinioni espresse e per i voti dati nell’esercizio della funzione parlamentare: la prassi delle Camere, la giurisprudenza della Corte costituzionale sul cosiddetto “nesso funzionale” e la L. di attuazione n. 140/2003

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Indice generale

IX pag.

3.

4. 5. 6.

Le immunità di carattere relativo previste dall’art. 68, co. 2 e 3, Cost. e l’obbligo di richiedere l’autorizzazione alla Camera di appartenenza; in particolare, la disciplina delle intercettazioni dirette ed indirette nei confronti di parlamentari stabilita dalla L. n. 140/2003. La procedura per la concessione o il diniego dell’autorizzazione. L’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della L. n. 140/2003 L’immunità della sede. Irrilevanza della diversa terminologia presente nell’art. 69 reg. Senato e nell’art. 62 reg. Camera L’indennità parlamentare L’autorizzazione a procedere nei confronti di parlamentari che rivestono, o hanno rivestito, la carica di Ministro

99 105 108 109

CAPITOLO 5 IL FUNZIONAMENTO DELLE CAMERE 1.

2. 3. 4. 5.

Il funzionamento delle Camere: la convocazione delle Camere e delle Commissioni; la documentazione dei lavori parlamentari; sedute pubbliche e sedute segrete; il numero legale; i tipi di maggioranza e loro determinazione; forme e modi di votazione La programmazione dei lavori La sessione di bilancio L’ostruzionismo parlamentare L’attività delle Camere in periodo di crisi di Governo

113 123 130 132 137

CAPITOLO 6 LA FUNZIONE LEGISLATIVA 1.

2.

La legge nei regimi assolutistici e nei regimi democratici. La spinta alla delegificazione: tipi di delegificazione. La diversa posizione della legge negli ordinamenti a Costituzione flessibile e negli ordinamenti a Costituzione rigida. L’ambiguità dell’espressione “legge” e la necessità di distinguere tra leggi costituzionali, leggi ordinarie e leggi atipiche Cenni sul concetto di procedimento giuridico nella dottrina processualistica e nella dottrina amministrativistica. Aspetti peculiari del procedimento legislativo: il suo fondamento costituzionale; la riserva in favore dei regolamenti parlamentari; la caratteristica della politicità come elemento di maggiore differenziazione tra il procedimento legislativo, il procedimento amministrativo ed il processo giurisdizionale

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X

Indice generale

pag. 3.

4.

5.

6.

7.

Il potere d’iniziativa legislativa: terminologia; la predisposizione e la presentazione degli atti d’iniziativa legislativa; la riserva di legge costituzionale ex art. 71 Cost.; il principio del pari valore formale, sotto il profilo soggettivo, degli atti d’iniziativa legislativa; i requisiti formali con particolare riferimento alla relazione illustrativa ed alla cosiddetta «relazione tecnica»; i soggetti titolari: l’iniziativa governativa, parlamentare, regionale, popolare, del CNEL; l’art. 133, co. 1, Cost.; iniziativa riservata e iniziativa vincolata Il potere di ritiro: suo fondamento; casi nei quali è inammissibile; i soggetti titolari; la forma ed il termine per il suo esercizio; la prassi della richiesta da parte del Governo di trasferire un proprio disegno di legge da una Camera all’altra. Il principio della decadenza dei progetti di legge alla fine della legislatura. Le eccezioni a tale principio: i progetti di legge d’iniziativa popolare; i progetti di legge, già approvati dalle due Camere, rinviati dal Presidente della Repubblica per una nuova deliberazione a norma dell’art. 74 Cost.; i disegni di legge di conversione di decreti-legge Gli effetti della presentazione dell’atto d’iniziativa: l’attivazione del procedimento; la predeterminazione della qualificazione giuridica dell’eventuale legge approvata; il limite stabilito dall’art. 79, co. 3, Cost. Il sindacato sull’atto d’iniziativa da parte del Presidente della Camera o del Senato: il sindacato per l’uso di espressioni sconvenienti; il sindacato nei casi di inesistenza e di illegittimità formale dell’atto; l’insussistenza del sindacato per vizi sostanziali; casi d’improcedibilità previsti dai regolamenti parlamentari e relative eccezioni L’assegnazione dei progetti di legge. Le commissioni in sede consultiva: tipi di pareri e loro efficacia. Il procedimento normale: l’istituto della riserva di legge d’Assemblea stabilito dall’art. 72, co. 4, Cost.; l’intervento della commissione in sede referente, la discussione generale in Assemblea, la discussione e la votazione degli articoli, la votazione finale. Il procedimento speciale caratterizzato dall’intervento della commissione in sede legislativa o deliberante. Il procedimento speciale caratterizzato dall’intervento della commissione in sede redigente: le differenze tra il procedimento previsto dal regolamento del Senato e quello previsto dal regolamento della Camera. I procedimenti urgenti Le caratteristiche che contraddistinguono il procedimento legislativo tipico. La facoltà, attribuita dalla Costituzione ai regolamenti parlamentari, di stabilire, nel rispetto delle suddette caratteristiche, varianti procedimentali per la discussione e l’approvazione di de-

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Indice generale

XI pag.

8. 9.

terminate leggi: a) le leggi di conversione dei decreti-legge; b) le leggi rinviate alle Camere dal Presidente della Repubblica; c) la legge di approvazione del bilancio dello Stato; d) la legge di delegazione europea Il procedimento di formazione delle leggi costituzionali Il procedimento di formazione della legge di concessione dell’amnistia e dell’indulto

221 230 233

CAPITOLO 7 LA FUNZIONE DI INDIRIZZO E CONTROLLO 1.

2.

La funzione di indirizzo e controllo nei confronti del Governo: interrogazioni, interpellanze, mozioni, risoluzioni, ordini del giorno e pareri Le Commissioni d’inchiesta

237 243

CAPITOLO 8 LE ALTRE FUNZIONI DELLE CAMERE 1. 2. 3.

La richiesta di informazioni e le indagini conoscitive L’esame delle petizioni La deliberazione dello stato di guerra

247 248 249

CAPITOLO 9 PARLAMENTO E UNIONE EUROPEA 1. 2. 3.

Le procedure parlamentari di collegamento con l’Unione europea Dalla legge comunitaria alla legge di delegazione europea e alla legge europea Il ruolo del Parlamento nel processo di formazione delle decisioni europee

251 253 255

XII

Indice generale

pag. CAPITOLO 10 IL PARLAMENTO IN SEDUTA COMUNE 1. 2.

3.

Struttura e funzioni del Parlamento in seduta comune La messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica: la definizione dei reati di alto tradimento e di attentato alla Costituzione; le tesi d’ispirazione penalistica e quelle d’ispirazione costituzionalistica Cenni procedurali: l’istruttoria parlamentare e la votazione dell’atto di accusa

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BIBLIOGRAFIA

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INDICE ANALITICO

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Prefazione alla terza edizione

XIII

PREFAZIONE ALLA TERZA EDIZIONE

Nel dicembre 2017 il Senato ha approvato una riforma radicale del proprio regolamento con la conseguenza che le citazioni della maggior parte degli articoli del suddetto regolamento, contenute nella precedente edizione di questo volume, risultano oramai sbagliate non soltanto per quanto riguarda la numerazione degli articoli ma soprattutto per le novità introdotte sul piano sostanziale. Tale riforma giustificherebbe da sola la presente nuova edizione. Tuttavia, con l’occasione ho inserito anche un’importante sentenza, adottata dalla Corte costituzionale nel corso del 2017, che risolve, almeno per adesso, il quesito circa la legittimità della cosiddetta autodichia, problema ampiamente trattato nella precedente edizione ma la cui soluzione veniva necessariamente lasciata in sospeso, sul piano giurisprudenziale, in attesa della suddetta sentenza. Inoltre, è stato completamente rivisto ed aggiornato il capitolo relativo ai rapporti con l’Unione europea. Infine, piccoli interventi sono stati compiuti un po’ in tutto il testo per renderlo più comprensibile o per eliminare istituti non più esistenti, come è il caso della legge finanziaria e della legge di stabilità. Per il resto, l’impostazione generale rimane inalterata. La bibliografia non è stata aggiornata: mi scuso pertanto con gli Autori che non vedessero citati i loro lavori più recenti. STEFANO MARIA CICCONETTI Roma, marzo 2019

XIV

Capitolo 3

Le fonti del diritto parlamentare

1

CAPITOLO 1 LE FONTI DEL DIRITTO PARLAMENTARE SOMMARIO: 1. Introduzione ed impostazione del tema. – 2. Le fonti del diritto parlamentare: norme giuridiche (costituzionali, legislative, regolamentari, consuetudinarie) e norme non giuridiche (convenzioni costituzionali e prassi). – 3. I regolamenti parlamentari. – a) La natura giuridica dei regolamenti parlamentari: critica della tesi che nega il carattere giuridico delle norme dei regolamenti parlamentari e delle tesi che ritengono, in tutto o in parte, meramente interne le norme dei regolamenti parlamentari. I regolamenti parlamentari sono fonti dell’ordinamento giuridico italiano. – b) La diversa posizione dei regolamenti parlamentari nel precedente e nell’attuale ordinamento. La riserva assoluta di competenza a favore dei regolamenti parlamentari prevista dagli artt. 64 e 72 Cost. – c) La forza di legge dei regolamenti parlamentari: aspetti problematici della questione. – d) La negazione della parametricità delle norme dei regolamenti parlamentari e della loro idoneità a costituire l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale. La sent. n. 154/1985 della Corte costituzionale e relative critiche. Gli ulteriori sviluppi della giurisprudenza costituzionale al riguardo. – e) I regolamenti parlamentari minori. – 4. Le leggi. – 5. Le consuetudini costituzionali. – 6. Le convenzioni costituzionali. – 7. La prassi ed i precedenti.

1. Introduzione ed impostazione del tema A giudizio di chi scrive, il diritto parlamentare non è una disciplina autonoma ma semplicemente una parte del diritto costituzionale. Volendo servirsi di un paragone, il rapporto tra il diritto costituzionale ed il diritto parlamentare è lo stesso che intercorre tra il diritto privato ed il diritto civile. Così come sarebbe impensabile lo studio del diritto civile da parte di chi non avesse in precedenza studiato il diritto privato, altrettanto vale nei confronti del rapporto intercorrente tra il diritto costituzionale ed il diritto parlamentare. Quanto detto definisce le linee guida del presente manuale. Il lettore non troverà, se non per semplici accenni, quei concetti elementari, anche se fondamentali, che caratterizzano e definiscono i regimi

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Capitolo 1

parlamentari, il loro sviluppo storico ed il loro studio in chiave comparativistica, poiché la conoscenza di tali concetti viene data per scontata. Lo stesso vale per il procedimento legislativo con riferimento alle sue fasi conclusive, esterne alle Camere, quali le fasi della promulgazione e della pubblicazione della legge, perché anche in questo caso la loro conoscenza viene data per scontata. Ciò non esclude che vi potranno essere delle eccezioni. Mi riferisco, ad esempio, alle modifiche di fatto della forma di governo determinate dal ruolo sempre più pervasivo assunto dalla Corte costituzionale, sia mediante nuovi tipi di sentenze (quali le sentenze interpretative, le sentenze additive e le sentenze sostitutive) create con la propria giurisprudenza, sia mediante la facoltà, che la stessa Corte si è auto-attribuita, d’individuare caso per caso i cosiddetti limiti taciti della revisione costituzionale e di sindacare, per questa via, anche le leggi costituzionali approvate dalle Camere. Le parti del diritto costituzionale relative al Parlamento – che, per l’appunto, costituiscono quello si definisce diritto parlamentare – saranno approfondite con particolare riguardo agli aspetti problematici, più che a quelli descrittivi. Esemplificando con riferimento ai regolamenti parlamentari, che costituiscono la fonte principale, quantomeno sotto il profilo quantitativo, del diritto parlamentare, mentre si discuterà in maniera approfondita delle disposizioni di difficile interpretazione, si accennerà soltanto a quelle disposizioni il cui significato è del tutto evidente anche a chi giurista non è. Di conseguenza, il presente manuale non è e non vuole essere un puntuale commentario, articolo per articolo, dei regolamenti parlamentari, non soltanto, come spiegato, per il particolare angolo visuale, fondamentalmente problematico, dal quale s’intende studiare il diritto parlamentare, ma anche perché ottimi commentari già esistono e sarebbe inutile aggiungervene un altro. Particolare attenzione sarà data alla giurisprudenza della Corte costituzionale relativa a temi “caldi” del diritto parlamentare, quali, a titolo di esempio, il tema delle immunità parlamentari, quello della sindacabilità dei regolamenti parlamentari e quello della cosiddetta autodichia. Un’ulteriore considerazione è necessaria in questa sede introduttiva. Oggi è di moda l’espressione “diritto vivente”, espressione che viene usata con riferimento, soprattutto, alla giurisprudenza della Corte costituzionale. Ebbene, nessun diritto è, per definizione, più “vivente” del diritto parlamentare, poiché l’interpretazione di molte delle disposizioni dei regolamenti parlamentari è possibile soltanto con l’ausilio della consuetudine e della prassi; consuetudine e prassi alle quali occorre ugualmente ricorrere

Le fonti del diritto parlamentare

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per colmare le eventuali lacune presenti negli stessi regolamenti o addirittura, nemine opponente, per derogare ad essi. Tuttavia, tanto più “vivente” è un diritto, tanto più difficile è il suo studio, poiché la conoscenza delle disposizioni positive – contenute nella Costituzione, nelle leggi e nei regolamenti nel caso del diritto parlamentare – deve essere necessariamente integrata dalla conoscenza di altre norme non scritte, giuridiche nel caso delle norme consuetudinarie, non giuridiche ma altrettanto efficaci in via di fatto nel caso delle norme della prassi.

2. Le fonti del diritto parlamentare: norme giuridiche (costituzionali, legislative, regolamentari, consuetudinarie) e norme non giuridiche (convenzioni costituzionali e prassi) Le norme che compongono il diritto parlamentare sono di varia natura, di diverso grado gerarchico e con diversi ambiti di competenza. Accanto a norme di grado costituzionale, contenute nella stessa Costituzione (ad es. gli artt. di cui al Titolo I della Parte II) o in leggi costituzionali (ad es. le L. cost. 16 gennaio 1989, n. 1; 6 agosto 1993, n. 1; 24 gennaio 1997, n. 1), vi sono anche norme legislative, norme contenute nei regolamenti parlamentari e norme create dalla consuetudine. Altre norme, non giuridiche ma talvolta di grande importanza, sono quelle create dalle convenzioni costituzionali e dalla prassi. Delle norme costituzionali, così come delle norme legislative, relative al Parlamento si parlerà di volta in volta in relazione ai singoli argomenti che verranno trattati. Una norma costituzionale di fondamentale importanza è però quella contenuta nell’art. 64 Cost., che attribuisce a ciascuna Camera il potere di adottare un proprio regolamento. E poiché i regolamenti parlamentari costituiscono il nucleo centrale del diritto parlamentare è da questi che conviene prendere le mosse.

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Capitolo 1

3. I regolamenti parlamentari a) La natura giuridica dei regolamenti parlamentari: critica della tesi che nega il carattere giuridico delle norme dei regolamenti parlamentari e delle tesi che ritengono, in tutto o in parte, meramente interne le norme dei regolamenti parlamentari. I regolamenti parlamentari sono fonti dell’ordinamento giuridico italiano Il fondamento della potestà regolamentare di ciascuna Camera risiede in Italia nell’art. 64 Cost., il quale stabilisce che «ciascuna Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi componenti». L’art. 64 stabilisce non soltanto un’attribuzione di competenza regolamentare ma anche una specifica condizione per il suo esercizio: la necessità che il regolamento parlamentare sia approvato dalla maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera. Tale attribuzione, compiuta in generale dall’art. 64, è ribadita e specificata dall’art. 72 in riferimento alle forme ed ai modi di esercizio della funzione legislativa. Sul problema della natura giuridica dei regolamenti parlamentari si sono susseguite diverse tesi. In primo luogo quella che nega la natura giuridica delle norme dei regolamenti parlamentari partendo dal presupposto secondo cui tali norme si fonderebbero su un potere particolare, diverso dal diritto di sovranità statale, e quindi sarebbero prive dei due caratteri propri delle norme giuridiche: la generalità e la novità. Tuttavia, anche tralasciando le osservazioni che potrebbero rivolgersi contro la distinzione tra diritti di sovranità statale e diritti di supremazia speciale, la tesi non sembra convincente nel suo nucleo centrale. Affermare che le norme dei regolamenti parlamentari non possiedono il requisito della novità poiché non possono derogare alle norme dell’ordinamento statale, né ad esse aggiungere alcunché, non tiene conto del fatto che il sistema delle norme dei regolamenti parlamentari nel suo complesso s’inserisce nel più vasto ordinamento dello Stato e perciò la modifica di una norma del regolamento, ripercuotendosi sul sistema che concorre a formare, si ripercuote anche sull’ordinamento statale, determinandone una modifica nella sua composizione globale. L’impossibilità per le norme dei regolamenti parlamentari di modificare norme dell’ordinamento statale non attiene perciò alla loro capacità innovativa, e quindi alla loro giuridicità o non giuridicità, ma piuttosto al diverso problema della loro rilevanza nei confronti del resto dell’ordinamento statale. Quanto al rilievo circa una presunta mancanza di generalità delle norme dei regolamenti parlamentari, esso è da respingere per quanto concerne le

Le fonti del diritto parlamentare

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norme regolamentari di tipo organizzatorio poiché ogni norma di organizzazione sembra essere, per sua natura, generale. Lo stesso è da dirsi per le norme regolamentari attributive di diritti, potestà, facoltà, obblighi o status, poiché sembra eccessivo desumere una mancanza di generalità dalla circostanza che loro destinatari possano essere soltanto i membri del Parlamento, ovvero le persone estranee alle Camere che con esse vengano in contatto stabilmente (ad es., i dipendenti della Camera e del Senato) o occasionalmente (ad es., coloro che assistono alle sedute o coloro che sono interrogati da una commissione parlamentare d’inchiesta). Tali soggetti, infatti, non sono in concreto singolarmente determinati dalle norme regolamentari bensì soltanto predeterminabili sulla base dei criteri fissati da quelle stesse norme. In secondo luogo, s’intende accennare a quella tesi che, partendo dall’esatto presupposto della pluralità degli ordinamenti giuridici, afferma la giuridicità delle norme dei regolamenti parlamentari soltanto nell’ambito dell’ordinamento particolare cui esse danno luogo. Tali norme vengono perciò qualificate come norme interne, irrilevanti per l’ordinamento statale ed in quanto tali sottratte agli eventuali controlli esterni. Questa tesi, nata sotto lo Statuto albertino, subì alcuni necessari adattamenti con l’entrata in vigore del Costituzione repubblicana poiché, soprattutto alla luce dell’art. 72, apparve chiaro che almeno alcune delle norme dei regolamenti parlamentari dovevano considerarsi come norme dotate di efficacia esterna. Adattamenti, tuttavia, che, se limitarono la portata di quella tesi attraverso una serie di criteri tendenti a stabilire quali norme dei regolamenti parlamentari dovessero considerarsi esterne e quali no, ne confermarono il principio informatore secondo cui almeno una parte di tali norme aveva valore meramente interno e quindi era irrilevante per l’ordinamento statale. Contro l’affermazione del valore interno di tutte le norme dei regolamenti parlamentari stanno considerazioni di tipo formale e sostanziale. Sotto il primo profilo, infatti, la disciplina per la creazione di tali norme è oggi notevolmente diversa da quella vigente all’epoca in cui la tesi in esame fu formulata. L’art. 64 Cost. non definisce più, come invece l’art. 61 dello Statuto albertino, il regolamento parlamentare come regolamento “interno”; lo stesso art. 64 non rimette più a ciascuna Camera la scelta delle modalità di approvazione del regolamento, ma stabilisce che esso deve essere adottato a maggioranza assoluta dei componenti; i regolamenti parlamentari, che nel periodo statutario non erano pubblicati affatto e la cui pubblicazione nel successivo periodo repubblicano ebbe carattere meramente notiziale, devono adesso essere pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale,

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Capitolo 1

secondo quanto dispongono gli artt. 16, co. 5, reg. Camera e 167, co. 7, reg. Senato. Sotto il secondo profilo, è facile individuare un notevole numero di disposizioni dei regolamenti parlamentari che hanno efficacia all’esterno delle Camere, vale a dire direttamente nei confronti dell’ordinamento giuridico statale, o per il loro contenuto o per i loro destinatari. Nel primo senso vengono in gioco quelle disposizioni dei regolamenti che, di volta in volta, completano, attuano o precisano le norme costituzionali relative al procedimento di formazione della legge. Il valore non meramente interno di tali disposizioni si evince sia dal fatto che esse sono direttamente strumentali per la formazione di un atto per definizione “esterno”, qual è la legge, sia dal fatto che le finalità che esse devono perseguire – o, se si preferisce, lo spazio che devono colmare – sono già parzialmente predeterminate dall’art. 72 Cost. Circostanza, quest’ultima, che differenzia ulteriormente l’attuale normativa costituzionale sui regolamenti parlamentari rispetto a quella vigente nel precedente ordinamento regio, poiché inutilmente si cercherebbe nello Statuto albertino una disposizione corrispondente al citato art. 72. Nel secondo senso, il carattere esterno di una disposizione del regolamento parlamentare sembra sussistere quando essa sia destinata a valere nei confronti di soggetti diversi dai membri del Parlamento, siano essi persone fisiche o giuridiche ovvero organi dello Stato. Se per il passato quest’ipotesi ricorreva soltanto nei confronti delle disposizioni regolamentari relative a membri del Governo ovvero a terze persone che a vario titolo si trovavano nella sede della Camera o del Senato (pubblico che assiste alle sedute, giornalisti parlamentari, funzionari ministeriali, visitatori, ecc.), oggi essa è riscontrabile con una frequenza molto maggiore. A titolo di esempio e limitandosi al solo regolamento della Camera, al quale del resto corrisponde per quest’aspetto abbastanza fedelmente il regolamento del Senato, basti pensare all’art. 143, co. 2, secondo il quale ciascuna commissione parlamentare, previa intesa con il Presidente della Camera, ha facoltà di chiedere che i ministri competenti dispongano l’intervento dei dirigenti preposti a settori della pubblica amministrazione e ad enti pubblici, anche con ordinamenti autonomi, per fornire chiarimenti su questioni di amministrazione in rapporto alla materia di competenza della commissione; all’art. 144 che, disciplinando le cosiddette indagini conoscitive delle commissioni parlamentari, prevede la facoltà d’invitare alle sedute della commissione qualsiasi persona in grado di fornire elementi utili ai fini dell’indagine; all’art. 145, in base al quale l’Assemblea e le commissioni possono chiedere che il Presidente della Camera inviti, tramite il Governo,

Le fonti del diritto parlamentare

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l’ISTAT a compiere rilevazioni, elaborazioni e studi statistici, previa definizione dell’oggetto e delle finalità; agli artt. 146 e 147 che prevedono, rispettivamente, il potere dell’Assemblea o delle commissioni di chiedere che il Presidente della Camera inviti il CNEL ad esprimere il parere sull’oggetto della discussione ovvero a compiere studi od indagini, previa definizione dell’oggetto e delle finalità; all’art. 148, secondo il quale un Presidente di commissione, per la materia di competenza di questa, o un Presidente di Gruppo possono, tramite il Presidente della Camera, avanzare richiesta d’informazioni, chiarimenti e documenti alla Corte dei conti nei limiti dei poteri a questa attribuiti dalle leggi vigenti; agli artt. 149 e 150 che prevedono la richiesta da parte di una commissione parlamentare alla Corte dei conti di ulteriori informazioni ed elementi di giudizio sulla gestione degli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria e sui decreti registrati con riserva trasmessi dalla Corte dei conti al Parlamento; all’art. 143, co. 4 1, che, disciplinando le forme ed i modi di espressione da parte della commissione competente per materia del parere che il Governo sia tenuto per legge a richiedere su atti che rientrano nella sua competenza, ha trovato frequente ed ormai normale applicazione in occasione dell’espressione del parere sulle nomine di dirigenti di enti pubblici. Ipotesi, quest’ultima, nella quale il carattere di esteriorità è, sia pure in senso atecnico, duplice: in via diretta nei confronti del Governo in quanto destinatario del parere, in via indiretta nei confronti della persona che il Governo propone di nominare. Infine, due altri casi nei quali destinatari delle norme dei regolamenti parlamentari sono soggetti diversi dai membri del Parlamento ricorrono a proposito dell’art. 12, sia del regolamento della Camera, sia del regolamento del Senato, e a proposito delle commissioni monocamerali d’inchiesta. Nel primo caso la norma di cui all’art. 12, co. 3, lett. f) e d) reg. Camera, stabilendo che l’Ufficio di Presidenza decide sui ricorsi che attengono allo stato giuridico, al trattamento economico e di quiescenza, nonché alla disciplina dei dipendenti della Camera e del Senato, ivi compresi i doveri relativi al segreto d’ufficio, esclude per questi soggetti la possibilità della tutela giurisdizionale esterna 2. Per di più, una recente riforma dell’art. 12 1

Nel testo risultante dalla modifica approvata il 1° giugno 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 5 giugno 1978. Il co. 4 dell’art. 143 è stato sostituito con deliberazione del 20 luglio 1999 (pubblicata in Gazzetta Ufficiale 26 luglio 1999, n. 173): il procedimento consultivo nei casi in cui il Governo è tenuto per legge a richiedere un parere parlamentare su atti di propria competenza è rimasto comunque sostanzialmente immutato; sono stati soltanto razionalizzate le modalità e i tempi per l’espressione del parere. In proposito cfr. anche il par. 4 di questo capitolo. 2 L’art. 12, co. 1, reg. Senato, è molto più sintetico, limitandosi ad affermare che il Con-

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reg. Camera 3 ha introdotto ulteriori norme destinate a produrre effetti addirittura nei confronti di soggetti del tutto estranei rispetto all’apparato amministrativo delle Camere. Il co. 3 del nuovo art. 12 reg. Camera prevede, infatti, che l’Ufficio di Presidenza adotti la disciplina 4 per la determinazione dei «criteri per l’affidamento a soggetti estranei alla Camera di attività non direttamente strumentali all’esercizio delle funzioni parlamentari» e che esso stesso giudichi sui «ricorsi e qualsiasi impugnativa, anche presentata da soggetti estranei alla Camera, avverso gli atti di amministrazione della Camera medesima». Al di là dei profili problematici relativi alla legittimità della c.d. autodichia – che verranno esaminati nel cap. 3, par. 8 – non v’è dubbio che le più recenti riforme regolamentari vengano ad ampliare ulteriormente il novero delle norme produttive di effetti nei confronti di soggetti diversi dai membri del Parlamento, confermando così la capacità della norme dei regolamenti parlamentari di produrre effetti esterni. Nel secondo caso, la possibilità che norme dei regolamenti parlamentari trovino applicazione nei confronti di soggetti estranei al Parlamento deriva dal fatto che l’art. 82 Cost., mentre fissa i poteri ed i limiti delle commissioni monocamerali d’inchiesta in riferimento a quelli dell’autorità giudiziaria, nulla prevede circa le regole procedurali che devono disciplinare i lavori di tali commissioni; regole, peraltro, che sarebbe impossibile desumere per analogia da quelle fissate dal codice di procedura penale per l’autorità giudiziaria, data la totale diversità di struttura tra questa e la commissione d’inchiesta. Analogia di struttura che, invece, sussiste nei confronti delle commissioni parlamentari permanenti e che pertanto, nel silenzio dei regolamenti parlamentari e fatta eccezione del caso in cui sia la stessa legge istitutiva di una commissione bicamerale d’inchiesta a stabilire la procedura applicabile, induce a ritenere che le norme per esse stabilite dai regolamenti parlamentari si applichino, per quanto possibile, alle commissiglio di Presidenza «approva i regolamenti interni dell’Amministrazione del Senato e adotta i provvedimenti relativi al personale stesso nei casi ivi previsti». Il principio di autodichia è contenuto nel Regolamento degli uffici e del personale, approvato dal Consiglio di Presidenza del Senato il 18 dicembre 1987 ed emanato con Decreto del Presidente del Senato 1° febbraio 1988, n. 6314. 3 Deliberata dall’Assemblea di Montecitorio il 16 dicembre 1998 e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale 21 dicembre 1998, n. 297. 4 Disciplina attualmente contenuta nel «Regolamento per la tutela giurisdizionale relativa agli atti di amministrazione della Camera dei deputati non concernenti i dipendenti», adottato dall’Ufficio di Presidenza della Camera con deliberazione 22 giugno 1999, n. 155, resa esecutiva dal decreto del Presidente della Camera 22 giugno 1999, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 25 giugno 1999, n. 147.

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sioni d’inchiesta, quanto meno per ciò che attiene alla validità delle sedute e delle deliberazioni (ad esempio: regolarità dell’avviso di convocazione del seduta, quorum di validità della seduta, quorum di maggioranza, computo ed incidenza degli astenuti, tipi di votazioni e controllo dei risultati). Né, contro tale tesi, varrebbe sostenere che l’attività delle commissioni d’inchiesta si svolge di regola in modo informale e che quindi, come affermato dalla Corte costituzionale nella sent. n. 231/1975 «le commissioni restano libere di prescegliere modi di azione diversi, più duttili ed esenti da formalismi giuridici …». Tale modo di procedere informale è infatti una mera facoltà delle commissioni, come del resto ha riconosciuto la stessa sentenza, qualora esse non ritengano di servirsi dei poteri propri dell’autorità giudiziaria. Oltre a queste considerazioni, altre e di più ampio respiro se ne possono fare contro l’esattezza non soltanto della tesi fin qui esaminata ma anche dell’altra tesi secondo cui soltanto una parte delle norme dei regolamenti parlamentari avrebbe valore interno. Accanto all’osservazione secondo cui sarebbe abbastanza strano che il regolamento parlamentare sia sprovvisto di ogni rilevanza proprio agli occhi dell’ordinamento statale che lo prevede e lo disciplina in due specifiche disposizioni costituzionali, è stato esattamente notato che nella teoria degli atti normativi interni si annida un equivoco. Se è vero, infatti, che i regolamenti parlamentari possono disciplinare soltanto una materia predeterminata – quella ad essi riservata – ciò si verifica anche per tutte le fonti dotate di autonomia, senza che tale circostanza impedisca di considerare le norme così prodotte come costitutive del diritto oggettivo. Ma, soprattutto e data anche l’incertezza che tutt’ora caratterizza il concetto di norma interna, occorre verificare quanto sia esatto, o per lo meno conveniente, nel nostro ordinamento il metodo di desumere l’insindacabilità esterna di una norma dalla previa dimostrazione del suo valore interno. Un ribaltamento completo di tale metodo è stato tentato, affermandosi che occorre muovere dalla dimostrazione della sindacabilità per acquisire, in caso di dimostrazione riuscita, la natura non necessariamente interna delle norme dei regolamenti parlamentari. Perciò, al sillogismo secondo cui una norma interna è insindacabile si dovrebbe sostituire l’altro secondo cui una norma in tanto può dirsi interna in quanto se ne dimostri l’insindacabilità: non più «norma interna = norma insindacabile», bensì «norma insindacabile = norma interna». Il tentativo è indubbiamente suggestivo ma dà luogo, nella sua assolutezza, ad una difficoltà. Se è esatto sostenere che una norma sindacabile deve necessariamente qualificarsi come esterna, non altrettanto convincen-

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te è che una norma è certamente e residualmente interna quando è insindacabile poiché, quantomeno nel nostro ordinamento, esiste una categoria di atti – i cosiddetti atti politici – che, pur essendo giuridicamente insindacabili, sono però sicuramente atti esterni. Difficoltà, questa, che non si pone per chi ha compiuto quel tentativo poiché, alla stregua di una particolare concezione della forza di legge, gli atti politici potrebbero essere oggetto del giudizio di legittimità costituzionale; difficoltà che, invece, appare insuperabile qualora si accetti una diversa concezione della forza di legge, come si è cercherà di dimostrare tra brave. b) La diversa posizione dei regolamenti parlamentari nel precedente e nell’attuale ordinamento. La riserva assoluta di competenza a favore dei regolamenti parlamentari prevista dagli artt. 64 e 72 Cost. La posizione dei regolamenti parlamentari nell’attuale ordinamento repubblicano è diversa rispetto a quella che essi avevano nel precedente ordinamento. Tale diversità nasce dal diverso valore dello Statuto albertino rispetto a quello della Costituzione repubblicana: l’uno Costituzione flessibile pariordinata alla legge, l’altra Costituzione rigida superiore alla legge e da questa immodificabile. Da tale diverso rapporto tra Costituzione e legge deriva che la norma tendente ad attribuire a ciascuna Camera la potestà di darsi un proprio regolamento, pur nascendo dall’esigenza di raggiungere una medesima finalità, produce effetti non equivalenti nelle due ipotesi. Se l’esigenza da cui muovono sia l’art. 61 dello Statuto albertino, sia l’art. 64 Cost., è quella di attribuire a ciascuna Camera un potere normativo proprio ed esclusivo nella loro sfera di competenza, i limiti che l’esercizio di tale potere incontra sono diversi nei due casi. In particolare, nella prima ipotesi non si può dire che la materia tradizionalmente oggetto del regolamento parlamentare sia sottratta all’intervento della legge, stante la pariordinazione tra quest’ultima e lo Statuto. Eventuali interventi della legge volti a disciplinare parti della cosiddetta materia parlamentare, e dunque ad abrogare le eventuali norme regolamentari che già disciplinassero quelle parti, si giustificano considerando l’intervento della legge come tacitamente in deroga alla norma costituzionale ad essa pariordinata. Nel precedente ordinamento, i regolamenti parlamentari erano gerarchicamente subordinati alla legge; la legge poteva abrogare le norme dei regolamenti parlamentari e non poteva validamente essere abrogata da esse: la riserva di competenza a favore dei regolamenti parlamentari, perciò, valeva soltanto nei confronti di norme inferiori a quelle legislative. Il valore rigido della Costituzione repubblicana ribalta queste conclu-

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sioni. Una volta accettata l’opinione secondo cui gli artt. 64 e 72 Cost. stabiliscono una riserva di competenza in favore dei regolamenti parlamentari per la materia ad essi propria, tale riserva deve necessariamente intendersi come operante nei confronti di tutte le fonti dell’ordinamento non di grado costituzionale e dunque in primo luogo nei confronti della legge. Una legge che tentasse di abrogare disposizioni dei regolamenti parlamentari sarebbe illegittima poiché, pretendendo di interferire in un materia ad essa sottratta, violerebbe gli artt. 64 e 72 Cost. La diversa posizione dei regolamenti parlamentari nell’attuale ordinamento rispetto al precedente, rende, sotto altri aspetti, molto più concreta la problematica relativa ai regolamenti parlamentari. Innanzitutto, occorre verificare se tale posizione giochi un qualche ruolo nell’inquadramento dei regolamenti parlamentari tra le altre fonti del diritto italiano, in particolare per quanto concerne l’attribuzione ad essi della forza di legge e quindi la loro sindacabilità da parte della Corte costituzionale in sede di giudizio di legittimità costituzionale. Di tale aspetto, tuttavia, ci si occuperà specificamente nel paragrafo successivo. In secondo luogo, la posizione che hanno i regolamenti parlamentari nell’attuale ordinamento impone di definire con maggiore precisione rispetto al passato quali siano i confini della materia riservata ai regolamenti parlamentari. Al riguardo si può osservare come alcune soluzioni non appaiono convincenti. Così, il ricorso al concetto di tradizione, che sarebbe richiamato da una norma costituzionale implicita, se da un lato non è sufficientemente preciso, dall’altro – come è stato osservato – non è idoneo a spiegare le eventuali innovazioni che i regolamenti parlamentari di oggi o di domani possono contenere rispetto a quelli di ieri. In proposito valga l’esempio costituito dalle disposizioni del regolamento della Camera dei deputati, introdotte nel 1971, relative alle procedure d’indirizzo, controllo ed informazione: disposizioni che, per la loro assoluta novità rispetto al passato, ben difficilmente si potrebbero spiegare in termini di tradizione. Egualmente insoddisfacente è il tentativo di definire la materia riservata ai regolamenti parlamentari escludendo da essa tutte quelle disposizioni creatrici di diritti o di obblighi nei confronti di terzi, ovvero di altri organi dello Stato. Da un lato, tale esclusione non varrebbe a definire in positivo quale sia la materia in questione, bensì soltanto, in negativo, ad individuarne alcuni limiti; dall’altro, non sembra neanche esatto porre in generale un limite di tal genere ai regolamenti parlamentari, dovendosi quantomeno distinguere in quale contesto gli eventuali diritti od obblighi siano creati e se ciò comporti o meno la violazione di norme costituzionali relative allo status del soggetto o alle competenze di altri organi dello Stato.

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Ad esempio, non sembra contestabile la legittimità dell’art. 64 reg. Camera che pure fissa obblighi nei confronti di soggetti estranei al Parlamento: ai co. 3, 5 e 6 gli obblighi per coloro che assistono alla seduta di astenersi da ogni segno di approvazione o disapprovazione, di non turbare l’ordine e di non recare oltraggio alla Camera o ad un suo membro. Lo stesso è da dirsi per l’art. 131, co. 1, reg. Camera che fissa l’obbligo per il Governo, qualora dichiari di non poter rispondere ad una interrogazione, di indicarne il motivo ovvero, qualora dichiari di dover differire la risposta, l’obbligo di precisare in quale giorno, nel termine di un mese, è disposto a rispondere. Egualmente, per quanto concerne l’art. 37 reg. Camera, il quale stabilisce, al co. 1, l’obbligo per i rappresentanti del Governo, se richiesti, di assistere alle sedute dell’Assemblea e delle commissioni, e, al co. 2, che alle sedute delle commissioni in sede legislativa deve comunque partecipare un rappresentante del Governo. Negli esempi citati la legittimità degli obblighi dipende dalla presenza di quelle due circostanze alle quali si è in premessa accennato: il fatto che l’imposizione dell’obbligo sorga in connessione ed in occasione dell’esercizio di una funzione della Camera ed il fatto che tale imposizione non leda lo status costituzionalmente garantito del soggetto o dell’organo obbligato. Tutto sommato, sembra opportuno continuare ad accogliere la definizione, ormai classica, secondo cui la materia riservata ai regolamenti parlamentari è quella attinente all’organizzazione di ciascuna Camera ed ai modi di esercizio delle sue funzioni. Lasciando alla prassi l’individuazione delle singole fattispecie ricomprese in tale definizione, coerentemente alla caratterizzazione del diritto parlamentare soprattutto come “diritto vivente”. c) La forza di legge dei regolamenti parlamentari: aspetti problematici della questione L’individuazione concreta di quali siano gli “atti aventi forza di legge” costituisce il maggior problema posto dall’art. 134 poiché si ritiene, in modo pressoché unanime, che tali non possano essere soltanto i due atti (i decreti legislativi ed i decreti-legge) ai quali espressamente la Costituzione (art. 77) attribuisce la forza di legge. Quali siano gli altri atti ai quali tale forza debba riconoscersi dipende, pertanto, dalla definizione del concetto di forza di legge; una volta che tale definizione sia stata acquisita con ragionevoli margini di certezza, la si potrà applicare di volta in volta per stabilire se un determinato atto normativo – nel nostro caso i regolamenti parlamentari – abbia o no le caratteristiche che consentano di definirlo come atto dotato o privo di forza di legge.

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Tuttavia, l’elaborazione dottrinaria del concetto di forza di legge è stata in Italia talmente articolata e complessa da non poter essere esaminata con il dovuto approfondimento in questa sede. Tanto più che, diversamente dall’abbondanza della dottrina, la giurisprudenza della Corte costituzionale è assolutamente carente in ordine alla definizione del concetto di forza di legge, essendosi la Corte limitata ad affermare o a negare, in fattispecie specifiche e senza particolari motivazioni applicabili in via generale, se un determinato atto avesse o no forza di legge. In questa sede, pertanto, sembra sufficiente limitarsi a dar conto delle principali teorie in tema di forza di legge, esaminando successivamente la giurisprudenza della Corte sui regolamenti parlamentari. Secondo una prima tesi, le caratteristiche della forza di legge sarebbero due: la primarietà, intesa come elemento proprio di quelle fonti che non hanno al di sopra di sé alcuna altra fonte ad eccezione di quelle di grado costituzionale; la raffrontabilità in termini di equipollenza alla legge, intesa come capacità di un atto normativo primario di operare nell’ambito attribuito dalla Costituzione alla legge. In sintesi, per questa tesi la forza di legge è determinata dalla capacità, propria di un atto normativo diverso dalla legge, di abrogare quest’ultima. Tale capacità viene poi ulteriormente specificata, da altra parte della dottrina, in una duplice direzione: un atto, per essere qualificato come atto con forza di legge, deve avere, allo stesso tempo, la capacità di abrogare le leggi e gli altri atti con forza di legge (forza di legge in senso attivo) e la capacità di resistere ai tentativi di abrogazione compiuti da atti inferiori alla legge (forza di legge in senso passivo). La prima tesi esclude per definizione dall’ambito degli atti con forza di legge tutti quegli atti i cui rapporti con la legge siano disciplinati dal principio della competenza, poiché un atto al quale sia riservata la disciplina di una determinata materia con esclusione dell’intervento della stessa legge – è il caso dei regolamenti parlamentari ai quali l’art. 64, co. 1, Cost., riserva in via esclusiva la disciplina dell’organizzazione e del funzionamento interno di ciascuna delle due Camere – non è raffrontabile in termini di equipollenza alla legge, data l’impossibilità per il primo di abrogare la seconda. La seconda tesi perviene alla medesima esclusione, anche se non, come nel caso precedente, sulla base di una sua premessa, bensì a causa dei risultati contraddittori ai quali si giunge a seguito della sua applicazione. Tornando al caso dei regolamenti parlamentari ed applicando ad essi la tesi suddetta, i risultati sono i seguenti: i regolamenti parlamentari non possono abrogare una legge poiché, se così tentassero, violerebbero l’art. 64, co.

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1, Cost., che implicitamente esclude dalla loro sfera di competenza tutte le materie che non siano quelle relative all’organizzazione ed al funzionamento di ciascuna Camera; le leggi non possono abrogare norme contenute nei regolamenti parlamentari poiché, se così tentassero, violerebbero la riserva assoluta di competenza sancita dall’art. 64, co. 1, Cost., a favore dei regolamenti parlamentari. La conclusione, contraddittoria e perciò del tutto inconcludente in ordine all’attribuzione o alla negazione della forza di legge ai regolamenti parlamentari, è la seguente: i regolamenti parlamentari non hanno forza di legge in senso attivo perché non possono abrogare le leggi; hanno forza di legge in senso passivo – anzi, una forza di legge addirittura superiore a quella propria delle leggi – perché resistono non soltanto ai tentativi di abrogazione compiuti nei loro confronti da atti inferiori alla legge ma addirittura a quelli compiuti dalla stessa legge. La contraddittorietà di risultati che si è appena messa in luce dipende da un motivo molto semplice. La definizione della forza di legge come forza attiva e passiva presuppone il principio della gerarchia come principio regolatore dei rapporti tra atti normativi; perciò, essa funziona quando il rapporto tra un determinato atto normativo, del quale sia ignota la forza, e la legge sia regolato da quel principio in termini, come è noto, di superiorità, parità o inferiorità; non funziona più quando quel rapporto sia regolato dal principio della competenza. Proprio tenendo conto della circostanza secondo la quale nell’ordinamento italiano i rapporti tra le fonti sono disciplinati talvolta dal principio della gerarchia e talvolta dal principio della competenza, alla definizione, basata sul criterio della gerarchia, della forza di legge come forza attiva e passiva, si è aggiunta un’ulteriore definizione basata sul criterio della competenza: atti con forza di legge sarebbero quelli autorizzati da una norma costituzionale a disciplinare determinate materie ad essi riservate e sulle quali deve ritenersi escluso l’intervento della stessa legge; con una espressione più semplice, potrebbe anche dirsi che gli atti autorizzati ad intervenire in via esclusiva su quelle materie “prendono il posto” della legge e dunque vanno considerati come equivalenti ad essa. Le due definizioni sono complementari, nel senso che la prima serve ad accertare la forza di legge quando il rapporto di un atto con la legge sia regolato dal principio della gerarchia, mentre la seconda adempie alla stessa funzione quando il suddetto rapporto sia regolato dal principio della competenza. La tesi illustrata, che in questa sede si ritiene di accettare, comporta la qualificazione dei regolamenti parlamentari come atti con forza di legge, alla luce della riserva stabilita dall’art. 64 Cost.

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Non sono, tuttavia, mancate altre tesi in ordine alla definizione della forza di legge. La più nota ribalta il sillogismo, che ha rappresentato la premessa delle tesi fin qui illustrate, secondo cui dalla dimostrazione della forza di legge di un atto, intesa come capacità basata sul principio della gerarchia o sul principio della competenza, deriva la sindacabilità di tale atto da parte della Corte costituzionale. Partendo dalla premessa negativa dell’impossibilità di definire una forza di legge “tipica”, a causa della esistenza di numerose leggi “atipiche”, come tali dotate di forza o competenza non omogenea, si rinuncia alla premessa di cui sopra e si afferma che la forza di legge si risolve interamente nella sindacabilità da parte della Corte costituzionale. Il ragionamento si ribalta rispetto a quello compiuto dalla tesi precedente: alla proposizione «gli atti sindacabili da parte della Corte costituzionale sono gli atti con forza di legge» si sostituisce la proposizione «gli atti con forza di legge sono gli atti sindacabili da parte della Corte costituzionale». Tuttavia, per evitare un’evidente tautologia («sindacabili dalla Corte sono gli atti sindacabili dalla Corte»), si precisa che oggetto del sindacato di legittimità costituzionale da parte della Corte sono tutti quegli atti per i quali l’ordinamento italiano non prevede un sindacato diverso. In questo senso, poiché gli atti di autorità giurisdizionali o amministrative sono soggetti ai controlli previsti dagli artt. 103, 111 e 113 Cost., gli atti oggetto del sindacato della Corte costituzionale sarebbero, residualmente, tutti gli atti di altri soggetti pubblici per i quali non siano previste apposite forme di controllo. Secondo un’altra tesi, infine, il concetto di forza di legge risulterebbe dall’integrazione delle due ultime tesi: atti con forza di legge sarebbero, pertanto, tutti gli atti normativi primari, sotto il profilo della gerarchia o sotto quello della competenza, che siano insindacabili da parte di qualsiasi autorità all’infuori della Corte costituzionale. Come si è già avvertito in precedenza, la Corte costituzionale non ha mai compiuto una scelta netta in ordine alle tesi fin qui illustrate, né ha tantomeno proceduto ad una autonoma elaborazione del concetto di “atto avente forza di legge”, essendosi, invece, limitata, caso per caso e non sempre con motivazioni convincenti, a negare o ad ammettere singoli atti normativi come oggetto del proprio giudizio di legittimità costituzionale. La giurisprudenza della Corte costituzionale sui regolamenti parlamentari verrà esaminata nel paragrafo successivo.

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d) La negazione della parametricità delle norme dei regolamenti parlamentari e della loro idoneità a costituire l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale. La sent. n. 154/1985 della Corte costituzionale e relative critiche. Gli ulteriori sviluppi della giurisprudenza costituzionale al riguardo L’art. 72 Cost., riservando ai regolamenti parlamentari la disciplina del procedimento legislativo, pone il problema dell’eventuale parametricità delle norme dei regolamenti parlamentari ai fini del giudizio di legittimità costituzionale. È lecito chiedersi, in altre parole, se la Corte costituzionale possa dichiarare l’illegittimità costituzionale di una legge non soltanto quando nel corso del suo procedimento di formazione siano state violate norme formalmente costituzionali, ma anche quando siano state violate esclusivamente norme contenute nel regolamento dell’una o dell’altra Camera. La Corte costituzionale si è pronunciata espressamente su tale problema con la sent. n. 9/1959, negando la propria competenza a sindacare le violazioni di norme dei regolamenti parlamentari, avvenute nel corso del procedimento legislativo, sulla base di tre argomenti. In primo luogo perché la competenza della Corte è limitata, in relazione al procedimento di formazione delle leggi, al controllo dell’osservanza delle sole norme formalmente costituzionali. In secondo luogo, perché l’art. 72 Cost., per la parte in cui attribuisce ai regolamenti parlamentari il potere di stabilire in quali casi e forme un disegno di legge può essere assegnato a commissioni in sede legislativa, non può considerarsi come una norma in bianco, in conseguenza della quale le disposizioni al riguardo inserite da ciascuna Camera nel regolamento assumono il valore di norme costituzionali. In terzo luogo, perché, essendo decisivo l’apprezzamento della Camera in ordine all’interpretazione di una disposizione del proprio regolamento, anche l’osservanza di quest’ultima è rimessa alla Camera stessa. Da tali argomenti si deduce innanzitutto la reiezione, che la Corte dà per scontata, della tesi che, sotto profili diversi, considera materialmente costituzionali le norme dei regolamenti parlamentari o, con una diversa terminologia, attribuisce ad esse un valore materialmente costituzionale. Inoltre, da essi si evince anche, seppure implicitamente, la reiezione della tesi secondo la quale la parametricità dei regolamenti parlamentari deriverebbe dal qualificare le norme in essi contenute come norme interposte. Mentre, infatti, in altre occasioni, e con particolare riferimento al caso della delega legislativa, la Corte, riconoscendo che la violazione di una norma costituzionale può avvenire in modo sia diretto che indiretto, ha ammesso che le norme interposte rientrano tra le norme parametro del giudizio di legittimità costituzionale, il fatto che in questa circostanza la Corte si sia

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dichiarata competente a verificare soltanto il rispetto delle norme formalmente costituzionali nel corso del procedimento legislativo sta ad indicare che essa non ha riconosciuto la qualifica di norme interposte alle norme dei regolamenti parlamentari. La negazione di tale riconoscimento è da condividere, se non altro perché la sua affermazione produrrebbe conseguenze troppo drastiche. Infatti, stante il rinvio generico compiuto dall’art. 72 Cost., la violazione di qualsiasi norma dei regolamenti parlamentari relativa al procedimento legislativo determinerebbe l’incostituzionalità della legge. A fronte delle numerose norme regolamentari, che sotto i più vari aspetti concorrono alla disciplina del procedimento legislativo, non sarebbe possibile distinguere tra norma e norma, in relazione al loro diverso grado d’incidenza sulla formazione della legge; con la conseguenza pratica di un aumento verticale dei casi di leggi dichiarate incostituzionali per vizi di forma. Del resto, il vero significato dell’art. 72 Cost. non è quello di attribuire valore di norme interposte alle norme dei regolamenti parlamentari bensì quello di ribadire, per la specifica materia del procedimento legislativo, la riserva di regolamento già affermata in via di principio dall’art. 64 Cost.; ripetizione non inutile, peraltro, poiché, nell’eventuale silenzio dell’art. 72, si sarebbe potuto quantomeno discutere sulla estensibilità al procedimento legislativo di una riserva di regolamento stabilita soltanto dall’art. 64. Articolo che non si trova nella sezione II del titolo I relativa alla formazione delle leggi bensì nella sezione I relativa alle Camere, e dunque precipuamente relativa alla loro formazione ed organizzazione. Per quanto concerne l’ultimo argomento addotto nella motivazione della sentenza in esame, occorre verificare se le norme dei regolamenti parlamentari abbiano veramente carattere cedevole, come ha implicitamente cercato di dimostrare la Corte, deducendo una libertà di applicazione delle norme regolamentari da parte di ciascuna Camera da un loro esclusivo potere d’interpretazione delle stesse. Il ragionamento della Corte non si può condividere sotto due profili. Innanzitutto, non sembra esatto ritenere che un organo, solo perché competente a creare determinate disposizioni, sia l’unico a poterle interpretare o quantomeno a poterle interpretare in modo privilegiato e prevalente rispetto a qualsiasi altro soggetto. L’interpretazione data da una Camera ad una disposizione del proprio regolamento acquista un valore maggiore soltanto in caso d’interpretazione autentica, che però dovrà essere compiuta nelle stesse forme previste per la creazione della disposizione – deliberazione a maggioranza assoluta – ed alla quale la Corte, nella sent. n. 9, non si è affatto riferita. Il potere ordinario d’interpretazione a maggioranza sempli-

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ce, che ciascuna Assemblea implicitamente esercita tutte le volte che è chiamata dal suo Presidente a pronunciarsi su un richiamo al regolamento, non può dunque di per sé precludere o limitare la possibilità per la Corte costituzionale d’interpretare la stessa disposizione in modo diverso. In secondo luogo, il ragionamento della Corte non convince laddove essa deduce dal potere d’interpretazione una libertà di applicazione. Tale collegamento non sussiste perché, così facendo, si confondono due operazioni aventi oggetti diversi: mentre l’interpretazione riguarda la disposizione, l’applicazione riguarda la norma ricavata per via interpretativa dalla disposizione. E non è affatto automatico che le condizioni richieste per la prima operazione siano le stesse di quelle richieste per la seconda. Quest’ultima considerazione si rivolge anche contro l’argomento secondo cui la possibilità per una Camera di sottrarsi a maggioranza semplice all’osservanza delle norme del proprio regolamento deve escludersi in quanto logicamente inconciliabile con la norma costituzionale che prescrive la maggioranza assoluta per l’approvazione e la modifica delle norme dei regolamenti parlamentari. Tale ragionamento, di per sé impeccabile, parte, infatti, da un presupposto sbagliato: dal ritenere che una deliberazione a maggioranza semplice sia condizione sufficiente nella prassi parlamentare non soltanto per l’interpretazione di disposizioni del regolamento, ma anche per la deroga alle norme da esse ricavate. Laddove, invece, è principio fondamentale della prassi parlamentare italiana quello secondo cui la deroga ad una norma del regolamento – la disapplicazione di quest’ultima al caso concreto – è possibile soltanto all’unanimità, qualora, cioè, non vi sia opposizione da parte di alcuno (nemine opponente). Se tale è la condizione necessaria per la deroga a norme dei regolamenti parlamentari, ne resta dimostrato, per quest’aspetto, il carattere potenzialmente cedevole delle norme suddette. E questa potenziale cedevolezza, che si attualizza ogni volta che una Camera deroga senza che vi sia opposizione ad una norma del proprio regolamento, è l’elemento fondamentale che esclude la possibilità di ricomprendere le norme dei regolamenti parlamentari tra le norme parametro, costituzionali o interposte, del giudizio di legittimità costituzionale. Passando al diverso problema della sindacabilità dei regolamenti parlamentari da parte della Corte costituzionale, la più recisa presa di posizione al riguardo da parte della Corte si verifica con la sent. n. 154/1985. Tale sentenza era attesa, all’epoca, con estremo interesse, data l’importanza dell’argomento sul quale la Corte doveva pronunciarsi: l’ammissibilità o l’inammissibilità del giudizio di legittimità costituzionale sui regolamenti parlamentari. Come talvolta accade, l’attesa maggiore era incentrata non

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tanto sulla questione di legittimità costituzionale sottoposta alla Corte – questione, peraltro, di grande rilievo e con implicazioni pratiche di notevole peso – quanto piuttosto sull’ammissibilità della questione stessa. Per chiarezza di esposizione, non è inutile ricordarne sinteticamente gli estremi. Le disposizioni in questione – alle quali si è già in precedenza accennato in questo stesso par. – erano l’art. 12, co. 1, reg. Senato e l’art. 12, co. 3, reg. Camera, che attribuiscono a ciascuna Camera la cosiddetta autodichia sulle controversie d’impiego dei propri dipendenti. Tali disposizioni, escludendo la possibilità per il dipendente di adire la giurisdizione esterna, avrebbero contrastato con gli artt. 24, 113 e 111 Cost. È del tutto evidente – o almeno così sembrava a tutta la dottrina – che la Corte, per poter valutare la legittimità costituzionale delle indicate disposizioni, doveva preliminarmente stabilire se queste ultime possedevano o meno, ai sensi dell’art. 134 Cost., i requisiti necessari per la loro sottoponibilità al suo giudizio. È utile chiarire subito che la Corte dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale relativa a norme dei regolamenti parlamentari con una motivazione che prescinde completamente dalla qualificazione o meno dei regolamenti parlamentari come atti con forza di legge. Innanzitutto, la Corte salta a piè pari tutta la problematica sollevata in dottrina a favore o contro la forza di legge dei regolamenti parlamentari, che era stata richiamata tanto dall’Avvocatura dello Stato quanto dalle parti, affermando che le «considerazioni di ordine concettuale … in definitiva si bilanciano, sicché non è possibile cogliere in alcuna di esse un argomento decisivo». In secondo luogo, l’art. 134 Cost., la cui interpretazione relativamente all’espressione «atti con forza di legge» in esso contenuta avrebbe dovuto nelle aspettative costituire il perno di volta della decisione, è oggetto, nella motivazione della sentenza, soltanto della seguente considerazione: «Formulando tale articolo, il costituente ha segnato rigorosamente i precisi ed invalicabili confini della competenza del giudice delle leggi nel nostro ordinamento, e poiché la formulazione ignora i regolamenti parlamentari, solo in via d’interpretazione potrebbe ritenersi che questi vi siano egualmente compresi. Ma una simile interpretazione, oltre a non trovare appiglio nel dato testuale, urterebbe contro il sistema». Se si prescinde dall’ultima affermazione (il contrasto con il sistema), sulla quale ci si soffermerà appresso, dato che essa costituisce il presupposto della nuova impostazione seguita dalla Corte, la riportata ed unica considerazione sull’art. 134 sembra quasi obiter dicta, come se la Corte avesse avuto fretta di passare ad un altro tipo di argomenti, tali da risolvere il problema della sindacabilità dei regolamenti parlamentari a prescindere da

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un’interpretazione in positivo dell’art. 134. Solo così si spiega il rilievo piuttosto ovvio secondo cui soltanto per via interpretativa i regolamenti parlamentari potrebbero ricomprendersi nell’art. 134, la cui formulazione li ignora. Ed è soltanto nell’ottica di considerazioni incidentali che probabilmente si deve valutare la poco comprensibile affermazione secondo cui un’interpretazione di quel tipo non troverebbe appiglio nel dato testuale. Che la Corte abbia ritenuto inutile addentrarsi nella problematica della forza di legge per risolvere il quesito circa la sindacabilità dei regolamenti parlamentari risulta chiaramente dall’argomento secondo cui tale sindacabilità “urterebbe contro il sistema”. Intendendosi con quest’ultima espressione non il sistema delle fonti, come invece si sarebbe dovuto intendere se l’insindacabilità fosse derivata da una valutazione della natura giuridica dei regolamenti parlamentari, bensì il sistema di democrazia parlamentare instaurato dalla Costituzione repubblicana nel quale il Parlamento è collocato al centro come istituto caratterizzante l’ordinamento. E con ciò si è arrivati al nocciolo della motivazione della Corte. È nella logica di tale sistema – afferma la Corte – che alle Camere spetti una “indipendenza guarentigiata” nei confronti di qualsiasi altro potere, cui pertanto deve ritenersi precluso ogni sindacato degli atti di autonomia normativa ex art. 64, co. 1, Cost. Il Parlamento, in quanto espressione immediata della sovranità popolare, è diretto partecipe di tale sovranità ed i regolamenti, in quanto svolgimento diretto della Costituzione, hanno una peculiarità e dimensione che ne impedisce la sindacabilità, se non si vuole negare che la riserva costituzionale di competenza regolamentare rientra tra le guarentigie disposte dalla Costituzione per assicurare l’indipendenza dell’organo sovrano da ogni potere. La Corte risolve così il quesito circa la sindacabilità dei regolamenti parlamentari spostando l’asse del ragionamento dalla natura giuridica dell’atto alla posizione dell’organo che lo adotta. Il tipo di ragionamento implicitamente compiuto dalla Corte è infatti il seguente: è inutile affrontare il problema della forza di legge dei regolamenti parlamentari ai fini della loro sindacabilità, poiché questa è comunque esclusa dalla posizione d’indipendenza guarentigiata che l’ordinamento attribuisce a ciascuna Camera. Perciò la Corte, mentre esclude la sindacabilità dei regolamenti parlamentari (e dunque il loro valore di legge), non esclude necessariamente che essi posseggano la forza di legge, in ordine alla capacità di produrre determinati effetti o alla possibilità ad essi riservata dalla Costituzione di disciplinare in via esclusiva determinate materie. In conclusione, la Corte non afferma ma neanche nega che possano esistere atti con forza di legge privi del relativo valore. Nega però sicuramente

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un altro concetto fondamentale: che dalla sola dimostrazione della forza di legge di un atto normativo scaturisca necessariamente la possibilità di sottoporre quest’ultimo al giudizio di legittimità costituzionale. Non sembra perciò azzardato affermare che la sent. n. 154 scardina completamente tutti i meccanismi finora elaborati in tema di sindacabilità dei regolamenti parlamentari. In particolare i due seguenti e contrapposti principi: quello secondo cui la forza di legge di un atto si risolve nel suo valore e quello secondo cui il valore di legge di un atto deriva dalla sua forza. La sent. della Corte fa sorgere qualche dubbio in ordine alla possibilità che i regolamenti parlamentari siano sindacabili nell’ambito di una diversa competenza della Corte, e cioè in sede di conflitto tra poteri della Stato. Possibilità finora considerata abbastanza pacifica in dottrina ed ammessa anche in ordinamenti, come ad esempio quello tedesco, che pure escludono la sindacabilità dei regolamenti parlamentari in sede di giudizio di legittimità costituzionale 5. L’affermazione della Corte secondo cui l’insindacabilità dei regolamenti parlamentari si fonda sull’esigenza di assicurare l’indipendenza delle Camere sovrane da ogni altro potere fa sorgere il dubbio che tale insindacabilità valga sempre e comunque, indipendentemente dai diversi meccanismi di sindacato, purché si tratti di sindacato esterno, e cioè compiuto da organi diversi dalle Camere. Se l’insindacabilità dei regolamenti parlamentari non deriva da una particolare qualificazione giuridica delle norme in essi contenute ma costituisce invece un principio indispensabile per escludere ingerenze di altri organi costituzionali nei confronti delle Camere, se ne dovrebbe dedurre l’operatività ogni volta che sussista la possibilità d’ingerenze esterne. Tuttavia, un minimo di cautela consiglia di non dare per scontato tale possibile svolgimento delle affermazioni compiute dalla Corte per due motivi. In primo luogo perché la Corte, nella decisione in esame, si è occupata del problema della sindacabilità dei regolamenti soltanto in riferimento all’ipotesi del giudizio di legittimità costituzionale, senza alcun accenno alla diversa ipotesi del conflitto tra poteri dello Stato. In secondo luogo, perché l’affermazione dell’insindacabilità dei regola-

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Cfr. l’art. 93, co. 1, par. 2, della Legge fondamentale tedesca e l’art. 64, co. 1, della legge sulla Corte costituzionale federale che disciplinano il caso di controversie tra organi. Al riguardo, con specifico riferimento ai regolamenti parlamentari, cfr. anche le sentenze della Corte costituzionale federale 6 marzo 1952, n. 27, in Entscheidungen des Bundersverfassungsgerichts, Bd. 1, 1952, 144 ss., e 14 luglio 1959, n. 2, in Entscheidungen des Bundesverfassungsgerichts, Bd. 10, 1960, 19 ss.

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menti parlamentari, se è strumento di tutela della posizione d’indipendenza delle Camere, in tanto vale in quanto garantisce l’esercizio della funzione regolamentare attribuita dall’art. 64 Cost. in via esclusiva a ciascuna Camera. Non dovrebbe più valere, perciò, quando norme espressione di quella funzione operino al di fuori dei confini ad esse assegnati, e dunque non possano più essere considerate strumento di tutela e di garanzia della posizione di ciascuna Camera. Poiché per l’appunto l’ipotesi del conflitto tra poteri dello Stato ricorre quando un organo costituzionale leda la competenza di un altro organo costituzionale, sembra che la sent. n. 154, se interpretata nel modo che si è cercato d’individuare, non escluda la possibilità che le norme dei regolamenti parlamentari costituiscano l’oggetto di un conflitto tra una Camera ed un altro organo costituzionale ai sensi dell’art. 134 Cost. Tale possibilità è stata successivamente affermata in modo esplicito dalla Corte costituzionale e concretamente esaminata dalla stessa nell’ambito di un conflitto tra Camera dei deputati, Presidenza della Repubblica e Corte di cassazione. Ma di ciò si parlerà diffusamente in modo specifico nel cap. 3, par. 8. È arrivato il momento di valutare gli argomenti addotti dalla Corte a sostegno della propria decisione, anche se sarebbe meglio usare il singolare poiché tutta la motivazione della sentenza è basata su un solo argomento di portata generale: la posizione centrale attribuita al Parlamento dalla Costituzione repubblicana. Tale posizione, derivante dal tipo di democrazia parlamentare vigente nella quale il Parlamento è espressione immediata della sovranità popolare, assicura alle Camere un’indipendenza guarentigiata nei confronti di tutti gli altri poteri dello Stato. Le guarentigie che tutelano tale posizione d’indipendenza non vanno considerate singolarmente bensì nel loro insieme. Così, accanto a quelle previste nei confronti dei membri delle Camere e delle sedi parlamentari, deve essere annoverata anche quella dell’insindacabilità dei regolamenti parlamentari. La premessa del ragionamento della Corte è certamente da condividere. Non vi è dubbio che il Parlamento sia posto al centro del sistema, com’è dimostrato da numerose norme costituzionali che gli attribuiscono rilevanti possibilità d’intervento nei confronti degli altri poteri dello Stato. Basti considerare, come esempi di tali possibilità d’intervento, le seguenti norme costituzionali: gli artt. 83 e 90, co. 2, che attribuiscono al Parlamento in seduta comune rispettivamente l’elezione e la messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica; l’art. 94, secondo il quale il Governo deve avere la fiducia delle due Camere; l’art. 135, co. 1, secondo il quale un terzo dei giudici della Corte costituzionale è eletto dal Parlamen-

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to in seduta comune e l’art. 135, ultimo co., secondo il quale spetta a questo stesso organo di compilare l’elenco nell’ambito del quale vengono estratti a sorte i sedici giudici costituzionali aggregati; l’art. 104, co. 4, che prevede l’elezione da parte del Parlamento in seduta comune di un terzo dei membri del Consiglio superiore della magistratura. Tuttavia, la riconosciuta posizione centrale del Parlamento non gli assicura quella posizione d’indipendenza assoluta nei confronti degli altri poteri dello Stato, che la Corte considera invece come conseguenza necessaria. In realtà, la posizione del Parlamento è quella che risulta disegnata in positivo dalla Costituzione e tale disegno, come si cercherà di dimostrare, non esclude rilevanti possibilità d’intervento di altri organi costituzionali nei confronti delle Camere. Occorre ricordare innanzitutto il potere di scioglimento anticipato delle Camere attribuito dall’art. 88 al Presidente della Repubblica, ma anche i poteri attribuiti a questo stesso organo rispettivamente dall’art. 62, co. 2, e dall’art. 59, co. 2, di convocazione straordinaria di ciascuna Camera e di nomina di cinque senatori a vita. Così come, per quanto riguarda il Governo, il diritto dei membri di tale organo, riconosciuto dall’art. 64, co. 4, di assistere alle sedute delle Camere, anche se non ne fanno parte, nonché il potere di rimessione di un progetto di legge all’Assemblea previsto dall’art. 72, co. 3. È innegabile che negli esempi citati ci si trova di fronte a possibilità d’interventi talvolta di estremo rilievo – si pensi al potere di scioglimento anticipato – da parte di altri organi costituzionali nei confronti delle Camere. Tali possibilità d’interventi “dall’esterno” consentono un primo approfondimento in negativo del concetto di centralità del Parlamento: esso non significa indipendenza delle due Camere nei confronti degli altri organi costituzionali intesa come esclusione assoluta di ogni ingerenza esterna. La posizione delle Camere sotto quest’aspetto è in via di principio analoga a quella degli altri poteri dello Stato, nel senso che ognuno di essi ha diritto, nei rapporti reciproci, al rispetto delle proprie competenze nei limiti fissati dalle norme costituzionali. Ciò consente di approfondire ulteriormente, sia pure ancora in negativo, il concetto di centralità del Parlamento nel senso che esso non comporta una posizione di prevalenza, dal punto di vista formale, delle Camere nei confronti degli altri organi costituzionali. Diversamente, non si capirebbe come un organo costituzionale, definito prevalente rispetto agli altri, possa essere parte, in posizione di parità, di un conflitto con un altro organo costituzionale, sottoponendosi per di più alla decisione di un terzo organo costituzionale. Centralità del Parlamento non significa, dunque, esclusione d’interventi

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di altri organi costituzionali nei confronti di ciascuna Camera, né significa prevalenza, dal punto di vista giuridico-formale, del Parlamento nei confronti degli altri poteri dello Stato. Quel concetto acquista, invece, significato sotto due aspetti: quello politico, perché il Parlamento è (o almeno dovrebbe essere) il centro motore delle decisioni politiche dello Stato, sia in quanto organo direttamente rappresentativo del corpo elettorale, sia in quanto titolare delle funzioni d’indirizzo e controllo politico; quello istituzionale, perché ad esso spettano la funzione legislativa ordinaria ed il potere di adottare leggi costituzionali. Se la centralità del Parlamento non consiste, come invece afferma la Corte, in un’indipendenza che esclude qualsiasi ingerenza da parte di altri poteri dello Stato, cade la premessa di ordine generale per poter giustificare, in termini di rapporti tra organi costituzionali, l’insindacabilità dei regolamenti parlamentari. Né tale conclusione sembra essere inficiata dal fatto che la Corte non si limita a qualificare la posizione del Parlamento come una posizione d’indipendenza nei confronti di qualsiasi altro potere, bensì aggiunge che tale posizione è “guarentigiata” e dunque, per questa via, arriva a giustificare l’insindacabilità dei regolamenti parlamentari. Infatti, intendere la posizione di centralità del Parlamento non in termini d’indipendenza assoluta, bensì nel significato che si è cercato in precedenza di dimostrare, non sposta granché i termini di questo secondo problema poiché si tratta comunque di verificare se tra le guarentigie della posizione centrale delle Camere vada annoverato anche il principio dell’insindacabilità dei regolamenti parlamentari. Ma tale verifica va fatta in positivo sulla base delle norme costituzionali vigenti e non invece, come ha fatto la Corte, ricomprendendo il principio dell’insindacabilità dei regolamenti parlamentari tra le guarentigie della posizione del Parlamento, come conseguenza automatica della sua indipendenza. L’affermazione della Corte secondo cui la posizione del Parlamento è guarentigiata è sicuramente da condividere alla luce delle diverse immunità parlamentari esistenti nei confronti dei singoli parlamentari e delle sedi della Camera e del Senato. A queste è da aggiungere la guarentigia di cui all’art. 66, secondo il quale ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei propri componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e d’incompatibilità. Una ulteriore guarentigia è infine quella prevista dall’art. 64, co. 1, il quale, stabilendo che ciascuna Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi componenti, viene interpretato nel senso di fissare una riserva di regolamento parlamentare di tipo assoluto. Interpretazione condivisa dalla stessa Corte, in modo incidentale, nella sent. n. 231/1975 ed esplicitamente nella sent. n. 154.

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Non vi è dubbio, infatti, che la riserva di regolamento parlamentare, e dunque l’autonomia costituzionale attribuita a ciascuna Camera per la disciplina della propria organizzazione e del proprio funzionamento, costituisca una delle garanzie peculiari del carattere di centralità delle due Camere. Non è un caso che l’art. 64, co. 1, non abbia equivalenti espressi in nessun altra disposizione costituzionale nei confronti di altri organi costituzionali. Il punto da esaminare, una volta negato che il principio dell’insindacabilità dei regolamenti parlamentari rappresenti una conseguenza meccanica del principio d’indipendenza del Parlamento, riguarda l’interpretazione da dare all’art. 64, co. 1. In particolare, se la guarentigia in esso contenuta si risolva nel conferimento dell’autonomia costituzionale a ciascuna Camera, ovvero se accanto ad essa debba considerarsi implicitamente prevista anche l’ulteriore guarentigia consistente nell’insindacabilità delle norme frutto dell’esercizio di quell’autonomia. Questa seconda possibilità va però decisamente esclusa. Innanzitutto sotto il profilo testuale, poiché il co. 1 dell’art. 64 non offre alcun appiglio al tentativo di ricavare da esso il principio dell’insindacabilità dei regolamenti parlamentari. In secondo luogo, tale principio non può essere dedotto, sotto il profilo sostanziale, da alcuno dei concetti ricompresi nella disposizione in esame, vale a dire i concetti di autonomia e di riserva di fonte. La tesi secondo cui le fonti di autonomia sarebbero, in quanto tali, insindacabili è insostenibile in modo talmente palese – ed infatti non è mai stata sostenuta da alcuno – da non meritare di essere presa in considerazione anche solo come ipotesi di esercizio dialettico. Non è un caso se anche chi pone un accento particolare sull’autonomia attribuita a ciascuna Camera dall’art. 64, si serva di tale concetto per giustificare la legittimità costituzionale del principio di autodichia stabilito dai regolamenti parlamentari ma non certo per escludere la sindacabilità di questi ultimi, sindacabilità che viene invece negata per mancanza del requisito della forza di legge. Altrettanto insostenibile sarebbe, peraltro, il tentativo di ritenere insindacabile un atto allorché sia riservata soltanto ad esso la disciplina di una determinata materia. Ciò equivarrebbe, infatti, ad escludere la stessa sindacabilità della legge nelle ipotesi in cui la Costituzione prevede materie ad essa riservate. In conclusione, non si può condividere l’impostazione data dalla Corte al problema della sindacabilità dei regolamenti parlamentari in termini di rapporti tra organi costituzionali, poiché l’insindacabilità di tali atti non sembra ricavabile né dalla posizione del Parlamento nel nostro sistema costituzionale, né dalla possibilità di considerare quel principio come una

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guarentigia parlamentare implicitamente prevista dall’art. 64, co. 1. Ciò significa che l’art. 134, laddove stabilisce che oggetto del giudizio di legittimità costituzionale sono le leggi e gli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni, non può considerarsi tacitamente derogato da altre norme o principi costituzionali che escludono la sindacabilità di determinati atti per la posizione dell’organo che li adotta e non per la loro qualificazione come atti dotati o privi della forza di legge. È certamente vero che l’art. 134 delimita la competenza della Corte nei confronti degli altri organi costituzionali dello Stato, ma è altrettanto vero che il criterio all’uopo impiegato da tale disposizione è soltanto quello della qualificazione giuridica degli atti di altri organi costituzionali. Nel 1993 la Corte viene nuovamente investita di una questione di legittimità costituzionale relativa ad una disposizione del regolamento della Camera. La questione era stata sollevata dal Tribunale di Roma con due distinte ordinanze ed in due diversi giudizi civili ma sostanzialmente negli stessi termini. In ambedue i casi, infatti, la fattispecie di merito riguardava le richieste di risarcimento dei danni avanzate nei confronti di singoli parlamentari in relazione a dichiarazioni di questi ultimi ritenute diffamatorie. In ambedue i casi, inoltre, non vi era stata in concreto, in ordine ai fatti dedotti in giudizio, alcuna deliberazione della Camera dei deputati in merito alla qualificazione delle opinioni espresse dai suddetti deputati come rientranti o meno nella funzione parlamentare ai sensi e per gli effetti dell’art. 68, co. 1, Cost. Tale circostanza, secondo il Tribunale, avrebbe determinato un’illegittima compressione del diritto di difesa del cittadino, cui verrebbe ad essere preclusa la possibilità di convenire in giudizio un parlamentare, anche nelle ipotesi di opinioni espresse al di fuori dell’esercizio delle funzioni, con violazione dell’art. 24 Cost. In questa prospettiva, pertanto, l’art. 18 reg. Camera sarebbe illegittimo per violazione dell’art. 24 Cost., in quanto si limita a regolare la competenza della Giunta ivi contemplata con riguardo alle richieste di autorizzazione a procedere in materia penale 6 e non attribuisce alla citata Giunta analoga competenza in ordine alle richieste del giudice civile di qualificare ex art. 68, co. 1, Cost. le opinioni espresse dai deputati. La Corte costituzionale dichiara manifestamente inammissibile la questione ritenendo che «come già affermato da questa Corte nella sent. n. 154/1985, il problema dell’ammissibilità del sindacato di costituzionalità 6

Tale autorizzazione non è più prevista dal nuovo testo dell’art. 68 Cost., come modificato dall’art. 1 della L. cost. 29 ottobre 1993, n. 3. In proposito cfr. il cap. 4, par. 2.

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sui regolamenti parlamentari va risolto, alla stregua dell’art. 134 Cost., in senso negativo, giacché nella competenza del giudice delle leggi, quale stabilita dal richiamato articolo, non possono comprendersi i regolamenti parlamentari, né espressamente né in via d’interpretazione». e) I regolamenti parlamentari minori Accanto ai regolamenti parlamentari previsti e disciplinati dall’art. 64 Cost., esistono altri numerosi regolamenti che, per comodità e senza alcuna valenza scientifica, vengono qui definiti come minori. Una classificazione unitaria degli stessi non è possibile poiché essi risultano diversificati in relazione al soggetto che li approva o al procedimento o alle forme di pubblicità. Esistono regolamenti approvati dall’Assemblea a maggioranza assoluta e successivamente pubblicati in Gazzetta Ufficiale (il regolamento della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari al Senato, denominato “Regolamento parlamentare per la verifica dei poteri” (art. 19); il regolamento della Giunta delle elezioni alla Camera (art. 17); il regolamento della Giunta per le autorizzazioni a procedere alla Camera (art. 18)). Regolamenti approvati da commissioni parlamentari (regolamenti di commissioni d’inchiesta previsti dalle relative leggi istitutive) ovvero da commissioni parlamentari a maggioranza assoluta, successivamente emanati dai Presidenti delle Camere e pubblicati in Gazzetta Ufficiale (regolamento della commissione parlamentare bicamerale per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi). Regolamenti approvati dall’Ufficio di Presidenza della Camera o dal corrispondente Consiglio di Presidenza del Senato: qui l’elenco completo sarebbe veramente troppo lungo. Basti ricordare, sia alla Camera sia al Senato, i regolamenti del personale, dei servizi e degli uffici, il regolamento di amministrazione e di contabilità, il regolamento della biblioteca, il regolamento dell’Archivio storico, nonché altri regolamenti previsti da leggi specifiche (ad es. il regolamento di attuazione della L. 2 marzo 1974, n. 195, “Contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici”) 7. La qualificazione giuridica dei suddetti regolamenti non è agevole data 7

La Segreteria generale della Camera dei deputati ha pubblicato nell’aprile 2004 un volume intitolato “I regolamenti interni dell’Amministrazione della Camera dei deputati”. I regolamenti concernenti il personale sono ben sette, più una tabella ed alcune disposizioni di attuazione del regolamento dei servizi e del personale; i regolamenti concernenti l’attività amministrativa sono tre, più un protocollo integrativo.

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la loro diversità. Si può innanzi tutto essere d’accordo sul fatto che tutti sono espressione, sia pure a livelli diversi, dell’autonomia costituzionale riconosciuta a ciascuna Camera dall’art. 64 Cost. Alcuni di essi (i regolamenti del personale, dei servizi e degli uffici, il regolamento di amministrazione e di contabilità, il regolamento della biblioteca, il regolamento dell’Archivio storico, ecc.) contengono norme tipicamente interne di carattere amministrativo, sia per le finalità che tendono a soddisfare, sia per il soggetto che li approva, sia per la mancanza di qualsiasi forma di pubblicità esterna. Per tali motivi, non vi è dubbio che le norme contenute in questi regolamenti sono gerarchicamente inferiori alle norme contenute nei regolamenti parlamentari veri e propri e dunque non possono porsi in contrasto con esse, pena la loro illegittimità. La conclusione è probabilmente diversa, rispetto a quella prevalente in dottrina, per i regolamenti approvati dall’Assemblea a maggioranza assoluta e successivamente pubblicati in Gazzetta Ufficiale poiché, pur essendo vero che il loro fondamento risiede in norme dei regolamenti parlamentari, l’identità procedimentale, nonché quella sia del soggetto titolare, sia del regime di pubblicità dell’atto, gioca un ruolo da non sottovalutare in ordine all’attribuzione nei loro confronti dello stesso grado gerarchico dei regolamenti parlamentari di cui all’art. 64 e di una sfera di competenza riservata. Donde la capacità di derogare a norme dei regolamenti parlamentari, fatta eccezione dei casi in cui queste ultime siano ripetitive di norme costituzionali o diano ad esse attuazione. Esemplificando, i regolamenti in questione ben potrebbero stabilire che il numero legale per la validità delle deliberazioni delle Giunte da essi disciplinati non è presunto, ovvero stabilire meccanismi diversificati per la sua verifica, ovvero, ancora, che esso richieda la presenza della metà più uno dei componenti della Giunta, diversamente da quanto stabiliscono i regolamenti parlamentari (alla Camera un quarto dei componenti per le deliberazioni delle commissioni in sede diversa da quella legislativa, secondo l’art. 46, co. 1; al Senato un terzo dei componenti per le deliberazioni delle commissioni in sede diversa da quelle indicate dall’art. 30, co. 1). Quest’ultima ipotesi non è meramente teorica poiché, al contrario, essa è esplicitamente prevista dall’art. 2, co. 1, del Regolamento della Giunta delle elezioni della Camera, secondo cui «Le deliberazioni della Giunta non sono valide se non partecipa al voto almeno la maggioranza dei suoi componenti». Del resto, la norma di rinvio contenuta nei regolamenti in esame (cfr. l’art. 21 del Regolamento parlamentare per la verifica dei poteri del Senato: «Per ciò che non è previsto dal presente regolamento, si osservano le disposizioni del regolamento generale del Senato, in quanto appli-

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cabili», ed analogamente l’art. 19, co. 3, del Regolamento della Giunta delle elezioni della Camera) fa ulteriormente propendere nel senso dell’attribuzione di una competenza riservata poiché, se così non fosse, le norme del regolamento generale dovrebbero espandersi per forza propria, senza bisogno di richiami, al fine di riempire le eventuali lacune dei regolamenti in questione. Infine, la parificazione delle norme in questione a quelle contenute nei regolamenti parlamentari, al di là del dato formale costituito dalla diversa denominazione delle une e delle altre, giustifica la legittimità del requisito della maggioranza assoluta, previsto dai regolamenti parlamentari per la loro approvazione, come invece si sarebbe potuto e dovuto dubitare ai sensi dell’art. 64, co. 2, Cost. nella parte in cui riserva alla sola Costituzione (ed alle leggi costituzionali, come unanimemente si ritiene) la possibilità di prescrivere maggioranze speciali 8. La suddetta parificazione, infatti, comporta che a tali norme si applichi l’art. 64, co. 1, secondo cui le norme dei regolamenti parlamentari devono essere approvate da ciascuna Camera a maggioranza assoluta dei suoi componenti.

4. Le leggi Alla luce della riserva di regolamento parlamentare stabilita dall’art. 64 Cost., dovrebbe, in teoria, escludersi qualsiasi ingerenza da parte della legge nella materia oggetto della suddetta riserva. Ovviamente il riferimento è alla sola legge ordinaria ed agli atti con forza di legge del Governo, poiché devono ritenersi legittimi eventuali interventi da parte delle leggi costituzionali, atteso il loro grado gerarchico superiore e dunque la loro capacità di derogare al principio proclamato dall’art. 64. Nella realtà, l’esclusione delle leggi ordinarie dal territorio riservato ai regolamenti parlamentari non è così netta, sia per le difficoltà in precedenza evidenziate di circoscrivere entro confini rigorosi la “materia parlamentare”, sia per la necessità di rispettare le riserve di legge previste dalla stessa Costituzione su materie attinenti al Parlamento (si vedano, ad esempio, gli artt. 60, co. 2; 65, co. 1 e 69). La questione, del resto, ha un valore prevalentemente astratto poiché i soggetti titolari della funzione legislativa sono pur sempre le Camere anche se, mentre nel caso dell’approvazione dei regolamenti parlamentari esse operano disgiuntamente ed autonomamente l’una dall’altra (il regolamento parlamentare è atto monocamerale), nel ca8

Sui problemi interpretativi posti dall’art. 64, co. 2, Cost., cfr. cap. 5, par. 1.

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so dell’approvazione della legge operano sì disgiuntamente ma devono necessariamente concordare su un medesimo testo (la legge è atto bicamerale). Qualora una delle due Camere dovesse ritenere che un progetto di legge in discussione presso di essa violi la riserva costituzionale del proprio regolamento, avrebbe a propria disposizione un mezzo semplicissimo di difesa: la reiezione o comunque la non approvazione del progetto di legge. L’approvazione di quest’ultimo in un medesimo testo da parte delle due Camere, pertanto, fa presumere che nel corso del procedimento legislativo sia stato accertato, nell’uno e nell’altro ramo del Parlamento, il rispetto dell’art. 64 Cost. Né in contrario potrebbe addursi la circostanza secondo cui, mentre i regolamenti parlamentari devono essere approvati a maggioranza assoluta, per l’approvazione delle leggi è sufficiente la maggioranza semplice, per cui una maggioranza occasionale di oggi potrebbe prevalere nei confronti di quanto deciso dalla maggioranza assoluta di ieri. Tale prevalenza, infatti, sarebbe del tutto transitoria, poiché, più in generale, qualora una Camera si ritenesse lesa nella propria autonomia regolamentare da una legge, potrebbe adottare nel proprio regolamento, questa volta a maggioranza assoluta, una norma tendente ad escludere l’applicabilità della legge suddetta al proprio interno. Sembra, invece, improponibile un eventuale ricorso alla Corte costituzionale per conflitto tra poteri dello Stato, adottato a maggioranza assoluta da parte di una delle due Camere, poiché tale ricorso implicherebbe, almeno pro parte, la coincidenza tra soggetto ricorrente e soggetto resistente. La qualificazione come potere dello Stato di una singola Camera, infatti, non è influenzata, nel senso di una possibile diversificazione soggettiva, dalle diverse maggioranze che di volta in volta si possono formare al suo interno. Esempi di leggi riguardanti le Camere e direttamente applicabili alle stesse sono, tra le altre, la L. 13 febbraio 1953, n. 60, “Incompatibilità parlamentari”, la L. 31 ottobre 1965, n. 1261, “Determinazione dell’indennità spettante ai membri del Parlamento”, la L. 5 luglio 1982, n. 441, “Disposizioni per la pubblicità della situazione patrimoniale di titolari di cariche elettive e di carche direttive di alcuni enti” e la L. 20 giugno 2003, n. 140, “Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato”. Inoltre, esistono leggi che attribuiscono nuove competenze alle Camere o modificano competenze precedenti: in questi casi tali leggi non possono essere applicate all’interno di ciascuna Camera fin tanto che queste ultime non abbiano adottato le necessarie norme regolamentari di recepimento e di attuazione. Come esempio del primo caso si veda la L. 24 gennaio 1978, n. 14,

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“Norme per il controllo parlamentare sulle nomine negli enti pubblici”, che prevede il parere delle commissioni parlamentari sulle proposte di nomina avanzate dal Governo e che è stata attuata dai regolamenti del Senato (art. 139-bis) e della Camera (art. 143). Senza un recepimento formale ma anche senza alcuna contestazione è stata applicata la L. 14 novembre 1995, n. 481, “Norme per la concorrenza e la regolazione dei servizi di pubblica utilità. Istituzione delle Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità”; tale legge, all’art. 2, co. 7, specifica che, per le fattispecie ivi previste, il parere favorevole delle competenti commissioni parlamentari deve essere espresso non a maggioranza semplice ma a maggioranza dei due terzi dei componenti. Lo stesso è valso per la L. 31 luglio 1997, n. 249, “Istituzione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui sistemi delle telecomunicazioni e radiotelevisivo”, che, all’art. 1, co. 3, richiama la norma di cui sopra. Come esempio del secondo caso si veda, tra le altre, la L. 5 giugno 1989, n. 219, “Nuove norme in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall’art. 90 della Costituzione”, recepita ed attuata, in relazione ai reati ministeriali, al Senato il 7 giugno 1989 con l’approvazione dell’art. 135-bis ed alla Camera il 28 giugno 1989 con l’approvazione degli artt. 18-ter e 18quater. La stessa legge, in ordine alle disposizioni relative al procedimento di accusa nei confronti del Presidente della Repubblica, è stata recepita ed attuata dal “Regolamento parlamentare per i procedimenti di accusa”, approvato in un identico testo dal Senato il 7 giugno 1989 e dalla Camera il 28 giugno 1989. Gli esempi citati confermano quanto elastico sia il rapporto tra legge e regolamento parlamentare e quanto astratte siano le possibilità di un effettivo contrasto tra le due fonti, come si è in precedenza osservato. I casi di recepimento tacito di cui sopra ne rappresentano la dimostrazione più lampante.

5. Le consuetudini costituzionali Accanto alla consuetudine disciplinata dalle Disposizioni sulla legge in generale, premesse al Codice civile, nell’ordinamento italiano viene pressoché unanimemente riconosciuta l’esistenza di consuetudini costituzionali, le quali ripeterebbero tale qualifica dal fatto di formarsi a seguito di comportamenti uniformi e costanti tenuti da organi costituzionali o comunque da soggetti pubblici operanti a livello costituzionale. Questo sembra essere, tuttavia, l’unico punto di diffuso consenso nella definizione, peraltro estre-

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mamente vaga, delle consuetudini costituzionali, poiché profonde divergenze si riscontrano in ordine al grado gerarchico delle suddette consuetudini, alla loro funzione ed agli elementi che le diversificano da fenomeni esteriormente simili quali le convenzioni costituzionali e la prassi. Prima di esaminare tali problemi, conviene ricordare, a fini di chiarezza, almeno qualcuno degli esempi di consuetudini costituzionali: le consultazioni da parte del Presidente della Repubblica per la nomina del Governo; il conferimento dell’incarico da parte dello stesso; la nomina nel Governo di sottosegretari, di ministri senza portafoglio, di vicepresidenti; l’istituzione, per un certo periodo di tempo, del Consiglio di Gabinetto come organo più ristretto rispetto al concomitante Consiglio dei Ministri; la facoltà di proporre mozioni di sfiducia nei confronti di singoli ministri invece che del Governo nel suo complesso. Tutti questi esempi rientrerebbero in un particolare tipo di consuetudini costituzionali: si tratterebbe, cioè, di consuetudini facoltizzanti che, invece di prescrivere obblighi, attribuirebbero a determinati soggetti pubblici facoltà tendenti a concretizzare le forme ed i modi per lo svolgimento di poteri loro attribuiti da norme costituzionali. Oltre a tali consuetudini costituzionali, sarebbero rinvenibili anche consuetudini prescriventi norme il cui contenuto non consiste nell’attribuzione di facoltà: esempi ne sarebbero il principio della discontinuità dei lavori parlamentari per fine legislatura, quello dell’immunità delle sedi delle Camere, quello della non sottoponibilità dei bilanci delle Camere al controllo contabile della Corte dei conti, e così via. In ordine ad alcuni degli esempi di consuetudini facoltizzanti di cui sopra occorre però osservare che non vi è affatto concordia su tale qualifica. Così, si è sostenuto che tanto la fase delle consultazioni, quanto il conferimento dell’incarico, sarebbero oramai basate su di una consuetudine costituzionale prescrivente non già una facoltà bensì un obbligo in tal senso per il Presidente della Repubblica e che, qualora con legge ordinaria le si volesse vietare, tale legge sarebbe illegittima per contrasto con le suddette consuetudini costituzionali; queste ultime, pertanto, avrebbero il medesimo rango dei principi costituzionali ai quali afferiscono. All’opposto, si è replicato che, alla luce della rigidità della Costituzione e della necessità di ricorrere esclusivamente al procedimento previsto dall’art. 138 per creare norme di grado costituzionale, le consuetudini costituzionali non possono “di per sé” avere valore costituzionale ma soltanto in modo indiretto – per così dire di riflesso – nella misura in cui siano ricostruibili come esecutive di norme costituzionali e non anche come integrative delle stesse. E con ciò si sono messi in evidenza – sia pure per accenni e senza per il momento darvi soluzione – gli aspetti problematici di cui si è fatto cenno all’inizio:

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quello del grado da assegnare alle consuetudini costituzionali e quello della loro funzione. Ancora una volta, tuttavia, prima di affrontare tali aspetti problematici occorre osservare che il concetto di consuetudini facoltizzanti ha suscitato notevoli perplessità alla luce del principio generale secondo cui tutto ciò che non è vietato espressamente o implicitamente deve ritenersi automaticamente consentito; talché non si vede la necessità di ricorrere al concetto di consuetudine per giustificare atti o comportamenti che l’ordinamento non vieta o comunque non esclude. Né tale necessità sarebbe giustificata dall’argomento secondo cui le regole consuetudinarie, per il fatto di essere norme giuridiche, avrebbero la funzione di determinare l’obbligo, anch’esso giuridico, di rispettare l’atto o il comportamento di un soggetto da parte di tutti gli altri soggetti; tale obbligo sussiste, infatti, per definizione, nei confronti di qualsiasi atto o comportamento che non sia vietato dall’ordinamento giuridico. Né, infine, decisiva sembra essere l’affermazione secondo la quale i soggetti investiti di cariche pubbliche – diversamente da tutti gli altri soggetti che tali cariche non rivestono e per i quali vale il principio di cui sopra – avrebbero soltanto quei poteri ad essi espressamente conferiti da norme giuridiche, dovendosi quindi ritenere illegittimo ed illecito ogni altro potere per il solo fatto di non essere fondato sul diritto. Quest’affermazione – peraltro eccessiva quando esclude la possibilità che un potere possa ritenersi attribuito da una norma ad una pubblica autorità soltanto implicitamente – si limita a circoscrivere ed a ridurre ma non ad eliminare la sfera di libertà derivante dalla mancanza di divieti: tale sfera di libertà certamente non potrà giustificare il sorgere di poteri nuovi ma ben lo potrà nei confronti di poteri strumentali all’esercizio di poteri già previsti da norme giuridiche e non confliggenti con competenze di altre autorità pubbliche; soprattutto se si tratta di norme costituzionali poiché il più delle volte esse non hanno contenuti dettagliati. Quando la Costituzione (art. 92, co. 2) attribuisce al Presidente della Repubblica il potere di nominare il Governo, senza peraltro disciplinare in alcun modo le procedure (e quindi i poteri) in base alle quali il Presidente può assumere tutte le informazioni necessarie per arrivare alla nomina di un Governo potenzialmente in grado di ottenere la fiducia delle Camere, si devono ritenere implicitamente consentiti dall’art. 92 in tale spazio di libertà tutti i poteri necessari per il raggiungimento del suddetto risultato. Sembra pertanto da condividere la conclusione secondo cui è superfluo ricorrere alla consuetudine per giustificare l’attribuzione in capo a determinati soggetti pubblici di facoltà o di poteri, poiché questi ultimi devono

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considerarsi comunque consentiti laddove non siano vietati espressamente o implicitamente da alcuna norma giuridica e siano strumentali rispetto ad altri poteri, fini o principi fissati da queste ultime. Il ruolo della consuetudine, in questi casi, può, invece, essere diverso, nel senso di trasformare in obbligo giuridico quella che in origine era una facoltà. Ritorna anche qui l’esempio del potere di consultazione che dalla originaria natura di facoltà o potere – immediatamente esercitabile in quanto non vietato da alcuna norma e strumentale al conseguimento dell’obiettivo previsto dall’art. 92 Cost. – si è oramai trasformato in un obbligo giuridico per il Presidente della Repubblica, a seguito del formarsi di una consuetudine costituzionale in tal senso, grazie alla ripetizione costante del comportamento nel quale si risolvono le consultazioni. Quanto al grado della consuetudine costituzionale nell’ordinamento italiano, un punto fermo è costituito dalla negazione della possibilità che norme suddette possano abrogare norme formalmente costituzionali. Tale negazione, giustificata dal fatto che le norme costituzionali possono essere modificate soltanto da leggi costituzionali approvate secondo il procedimento previsto dall’art. 138 Cost., è condivisa anche da chi sostiene che le consuetudini costituzionali avrebbero il medesimo rango dei principi costituzionali ai quali afferiscono e determinerebbero, pertanto, l’illegittimità costituzionale di eventuali leggi ordinarie che le volessero vietare. Quest’ultima conseguenza sembra però eccessiva se intesa come incapacità assoluta della legge d’intervenire nei confronti di consuetudini costituzionali. Una volta ammesso – come si vedrà tra poco – che tali consuetudini possono operare soltanto nei limiti dell’esecuzione, dell’integrazione e dell’interpretazione delle disposizioni formalmente costituzionali, non si vede per quale motivo il legislatore ordinario non possa intervenire successivamente per adottare una diversa disciplina in ordine all’esecuzione, all’integrazione o all’interpretazione di quelle stesse disposizioni. In realtà, che l’esecuzione o l’integrazione di una disposizione formalmente costituzionale avvenga per mezzo di norme consuetudinarie o di norme legislative non ha niente a che vedere con il rango delle une o delle altre ma attiene, invece, al carattere di parametricità che tali norme vengono in tal modo ad assumere ai fini di un eventuale giudizio di legittimità costituzionale nei confronti di successive leggi o atti con forza di legge, con esse puntualmente contrastanti, oppure che volessero introdurre nuove disposizioni, apparentemente di nuova esecuzione o integrazione, ma in realtà contrastanti con la disposizione costituzionale alla quale si riferiscono: la loro violazione costituisce, infatti, violazione indiretta della disposizione costituzionale che eseguono o che integrano.

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La Corte costituzionale si è mossa per ora in questa direzione con le sentt. nn. 129/1981 e 7/1996, ammettendo le consuetudini costituzionali tra le norme parametro del giudizio sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato. Consuetudini costituzionali che la Corte definisce come quei «principi e regole non scritti, manifestatisi e consolidatisi attraverso la ripetizione costante di comportamenti uniformi (o comunque retti da comuni criteri, in situazioni identiche o analoghe)», tendenti, «in armonia con il sistema costituzionale», a contribuire «ad integrare le norme costituzionali scritte» (così sent. n. 7/1996). Nel primo caso la Corte ritenne non spettante alla Corte dei conti il potere di sottoporre a giudizio di conto i tesorieri della Presidenza della Repubblica, della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, giustificando tale esenzione con l’esistenza di una consuetudine costituzionale in tal senso, formatasi sotto lo Statuto albertino e non interrotta dall’instaurazione dell’ordinamento repubblicano; consuetudine che, prosegue la Corte, si richiama, integrandolo e specificandolo, al principio costituzionale dell’autonomia di cui godono i suddetti organi costituzionali. Nel secondo caso, la Corte ritenne legittima la mozione di sfiducia individuale votata dal Senato il 19 ottobre 1995 nei confronti del Ministro di grazia e giustizia, Mancuso, e la successiva rimozione dello stesso dalla carica di ministro con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio; anche in questo secondo caso sulla base di una consuetudine costituzionale, secondo la Corte formatasi al Senato e ritenuta integrativa della normativa costituzionale al riguardo (artt. 92, 94 e 95 Cost.), oltre che delle disposizioni contenute nel nuovo testo dell’art. 115 reg. Camera. In conclusione, secondo la Corte costituzionale le consuetudini costituzionali possono intervenire soltanto laddove la disciplina di una norma costituzionale sia incompleta, generica o poco chiara (funzione di integrazione, esecuzione ed interpretazione); da ciò consegue che esse devono essere riconducibili in positivo a norme o a principi costituzionali nei confronti dei quali svolgono le suddette funzioni.

6. Le convenzioni costituzionali Dalle consuetudini vanno tenute distinte le convenzioni costituzionali e cioè quegli accordi, taciti o anche espressi, che intervengono a livello istituzionale tra soggetti politici per regolamentare determinate fattispecie. L’esempio tipico è rappresentato dagli accordi tra le forze politiche che in passato hanno regolato l’elezione dei cinque giudici costituzionali da parte

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del Parlamento in seduta comune: accordi sia tra i partiti della maggioranza, sia tra questi ed i partiti dell’opposizione, dato l’elevato quorum di maggioranza previsto. Tale accordo, che inizialmente prevedeva l’impegno a votare il candidato di un determinato partito senza discussione sul nominativo indicato, è stato successivamente modificato nel senso che i partiti diversi da quello proponente potevano dissentire sul nominativo indicato e dunque impedirne l’elezione, fatto salvo il diritto di proporre un nuovo nominativo da parte del partito a cui spettava la designazione. Le convenzioni costituzionali non determinano la nascita di norme giuridiche non tanto perché non è previsto alcun procedimento di formazione al riguardo – neanche per le consuetudini lo è, senza che ciò impedisca il sorgere di norme giuridiche consuetudinarie – quanto perché sono gli stessi soggetti che, nel momento in cui raggiungono un determinato accordo, non vogliono creare norme giuridiche – né lo potrebbero non avendo alcuna competenza al riguardo – ma soltanto stabilire degli impegni politici che, per loro natura, possono essere disattesi in qualsiasi momento, fatta salva la necessità di sopportarne le conseguenze politiche. L’esempio degli accordi succedutisi riguardo all’elezione dei cinque giudici costituzionali da parte del Parlamento in seduta comune ne costituisce la migliore riprova: tali accordi si sono gradualmente modificati e continueranno con ogni probabilità a modificarsi in relazione al mutare della situazione politica e dei diversi rapporti di forza tra i partiti politici. Il criterio per riconoscere una convenzione costituzionale da una consuetudine costituzionale è, almeno in teoria, abbastanza semplice perché l’accordo nel quale si risolve una convenzione costituzionale ha effetto immediato. Ciò significa che mentre la nascita della regola politica scaturente da una convenzione costituzionale è di tipo istantaneo, la nascita di una norma consuetudinaria è di tipo graduale in relazione al consolidarsi nel tempo di un comportamento uniforme e costante. Nella pratica, tuttavia, la distinzione può risultare difficile nel caso di convenzioni costituzionali che si ripetano senza eccezioni nel tempo, poiché non sembra agevole riuscire a capire in un caso del genere – soprattutto negando, come si è cercato di sostenere in altri lavori, la necessità dell’elemento spirituale nella consuetudine – se la ripetizione comporti o no un diverso atteggiamento dei soggetti politici che avevano raggiunto l’accordo iniziale: se, cioè, tali soggetti si ritengano oramai vincolati sul piano giuridico, invece che su quello politico, dalla regola risultante da quell’accordo. Un criterio abbastanza attendibile potrebbe essere il seguente: la trasformazione di una convenzione costituzionale in consuetudine costituzionale può affermarsi quando la ripetizione della regola convenzionale da parte dei soggetti che

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l’avevano posta in essere permane anche nel caso in cui, essendo mutata la situazione politica, e quindi i rapporti di forza tra tali soggetti, questi ultimi avrebbe ben potuto discostarsene.

7. La prassi ed i precedenti Il termine prassi, riferito agli organi pubblici, indica, secondo un orientamento pressoché plebiscitario nella dottrina costituzionalistica, «la costanza della ripetizione dei loro comportamenti nell’esercizio dei poteri conferiti». Egualmente concorde è l’atteggiamento in ordine alla negazione della prassi come fonte del diritto: le regole da essa scaturenti non hanno carattere giuridico, sono sempre derogabili da quegli stessi soggetti che le hanno create con il loro comportamento, costituiscono tuttalpiù uno dei tanti elementi ai quali fare ricorso per interpretare disposizioni poco chiare o l’attività posta in essere dai suddetti soggetti. Si ammette, infine, senza difficoltà, che una prassi possa trasformarsi in una vera e propria consuetudine quando la regolarità del comportamento si stabilizza nel tempo unitamente al formarsi dell’opinio iuris et necessitatis, così come, all’inverso, che una consuetudine possa trasformarsi in una semplice prassi per il venir meno dell’elemento psicologico. Se si nega – come personalmente si ritiene – che l’opinio iuris et necessitatis sia un elemento costitutivo della consuetudine, la distinzione tra prassi e consuetudine non può che riguardare l’elemento materiale. Nella consuetudine quest’ultimo consiste nella ripetizione uniforme e costante di un determinato comportamento; pertanto, l’accertamento della nascita di una norma consuetudinaria potrà avvenire soltanto dopo un certo tempo rispetto al momento iniziale nel quale quel comportamento ha cominciato ad essere osservato. In breve, la durata della ripetizione di un certo comportamento è elemento essenziale della consuetudine. Nella prassi la situazione è molto diversa poiché essa è determinata dai precedenti, indipendentemente dal loro numero, dalla maggiore o minore ripetizione degli stessi e dalla loro coerenza reciproca. Se, in relazione ad una determinata fattispecie, ci si chiede quale sia la prassi, la risposta sarà diversa a seconda dei precedenti esistenti: nel caso di un solo precedente, si dirà che vi è una prassi “non consolidata”; nel caso di numerosi precedenti tra loro difformi, si dirà che vi è una prassi “contrastante” o “oscillante”; nel caso di numerosi precedenti tra loro conformi, si dirà che vi è una prassi “consolidata” o “costante”. Soltanto in quest’ultimo caso è possibile la trasformazione di una prassi in una consuetudine: quando, cioè,

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una prassi consolidata si protrae nel tempo in una misura tale da far ritenere sorta una vera e propria norma consuetudinaria. La riprova di ciò viene soprattutto dalla prassi parlamentare poiché, quando l’Assemblea assume una determinata decisione nell’applicazione del proprio regolamento ma non vuole che tale decisione possa dar luogo ad una prassi (e possa quindi essere successivamente invocata come precedente), il Presidente dichiara a verbale che l’Assemblea adotta la presente decisione «senza che ciò costituisca precedente». Da quanto detto è evidente che la definizione di prassi qui accolta è diversa da quella della prevalente dottrina, che per prassi intende soltanto quella che si è in precedenza definita come prassi consolidata.

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CAPITOLO 2 LA FORMA DI GOVERNO PARLAMENTARE IN ITALIA SOMMARIO: 1. La forma di governo parlamentare adottata dai Costituenti. – 2. I fattori giuridici, politici e tecnologici, che hanno modificato tacitamente la forma di governo parlamentare.

1. La forma di governo parlamentare adottata dai Costituenti L’attuale forma di governo italiana – a differenza di quella vigente all’epoca dello Statuto albertino – è, almeno all’inizio e nelle intenzioni dei Costituenti, quella di una repubblica parlamentare di tipo classico: il popolo è, ai sensi dell’art. 1 Cost., il titolare della sovranità, che tuttavia esercita soltanto indirettamente attraverso i suoi rappresentanti liberamente eletti, fatti salvi alcuni limitati casi d’esercizio diretto di determinati poteri previsti dalla Costituzione (iniziativa legislativa, vari tipi di referendum e diritto di petizione); le Camere esercitano la funzione legislativa e la funzione d’indirizzo e controllo politico nei confronti del Governo, la cui espressione più rilevante è la fiducia parlamentare di cui quest’ultimo deve godere per essere nella pienezza dei suoi poteri; al Governo spetta la funzione esecutiva, esercitata mediante atti politici, amministrativi e di normazione sia primaria (decreti-legge e decreti legislativi) sia secondaria (regolamenti); il Presidente della Repubblica, eletto dal Parlamento in seduta comune per la durata di sette anni, è organo politicamente imparziale con funzioni di controllo e di stimolo nei confronti degli altri poteri dello Stato; la Magistratura, che ai sensi dell’art. 104 Cost. costituisce un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere, esercita la funzione giurisdizionale. Tale forma di governo rispecchia sia pure non perfettamente – si vedano soprattutto le interferenze esistenti tra le Camere ed il Governo a livello di normazione primaria (leggi approvate dalle une ed atti con forza di legge adottati dall’altro) – il principio settecentesco della divisione dei poteri ma con l’importante variante dell’istituzione, prevista dagli artt. 134 ss.

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Cost., della Corte costituzionale. A tale organo, non inquadrabile in nessuno dei tre classici poteri dello Stato (legislativo, esecutivo e giurisdizionale), spettano, infatti, importanti poteri che interferiscono, più o meno a seconda dei casi, con le funzioni proprie degli altri organi costituzionali: nei confronti delle Camere e del Governo il potere di dichiarare l’illegittimità costituzionale delle leggi e degli atti con forza di legge; nei confronti del Presidente della Repubblica il potere di giudicarlo sulla base delle accuse promosse dal Parlamento in seduta comune; nei confronti del popolo il potere di dichiarare l’inammissibilità delle richieste di referendum abrogativi; nei confronti di tutti gli altri poteri dello Stato il potere di dirimere i conflitti di attribuzione tra loro insorti. Altri fattori che giocarono un ruolo importante sul funzionamento sostanziale, piuttosto che sulla definizione astratta, della forma di governo italiana derivano dall’influenza che ebbe sui Costituenti la nefasta fase storica del fascismo, caratterizzata dalla violazione di tutti i più elementari diritti dei cittadini e dalla negazione del concetto stesso di democrazia realizzata attraverso la messa fuori legge dei partiti politici di opposizione al regime, i brogli elettorali, la sostituzione del Parlamento con la compiacente Camera dei fasci e delle corporazioni, la strumentalizzazione di fatto della magistratura e delle forze di polizia, l’istituzione dei tribunali speciali, l’obbligo del giuramento di fedeltà al fascismo imposto a tutti i dipendenti pubblici pena la decadenza dall’ufficio, l’eliminazione fisica degli oppositori politici di maggiore prestigio (da ricordare, per tutti, l’assassinio di Matteotti). Da qui nasce la solenne affermazione del carattere democratico della repubblica (art. 1), che è realizzato non soltanto attraverso la definizione della forma di governo in senso stretto, alla quale si è fin qui fatto riferimento, ma anche attraverso tutta una serie di norme inserite nel testo della Costituzione, alcune delle quali sono quelle che garantiscono: l’indipendenza e l’autonomia della Magistratura da ogni altro potere (art. 104); il riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo (art. 2), concretizzato attraverso l’elencazione di tutta una serie di libertà (artt. 13 ss.: libertà personale, di domicilio, della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, di circolazione e soggiorno, di riunione, di associazione, di fede, di manifestazione del pensiero, ecc.); il ruolo dei partiti politici (a tutti salvo che a quello fascista la cui ricostituzione è vietata dalla XII disp. finale della Costituzione), ai quali, ai sensi dell’art. 49 Cost., tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale; la libertà di organizzazione sindacale (art. 39) ed il diritto di sciopero (art. 40); e, soprattutto, il principio di

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uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni sociali e personali (art. 3).

2. I fattori giuridici, politici e tecnologici, che hanno modificato tacitamente la forma di governo parlamentare Quello che era il progetto ideale dei costituenti – una repubblica parlamentare di tipo classico, sia pure con l’aggiunta della Corte costituzionale – ha assunto oggi, a più di cinquant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, connotati diversi da quelli originari a causa di due ordini di fattori tra loro connessi: di natura giuridica e di natura tecnologica. Il primo fattore, del tutto nuovo, riguarda l’entrata in campo dell’Unione europea mediante una serie di trattati sempre più invasivi a livello interno e che hanno intaccato il principio della esclusività della sovranità statale, sia pure con l’accordo dell’Italia e la stiracchiata copertura costituzionale fornita dall’art. 11 Cost. Soprattutto per quanto attiene alla funzione legislativa e alla funzione di controllo, il ruolo del Parlamento e del Governo risulta ridimensionato rispetto a quanto stabilito in Costituzione. Basti pensare al ruolo di controllo dell’Unione sulla politica economica del Governo, che raggiunge il punto più alto d’interferenza nella definizione della legge del bilancio dello Stato. Ovvero, sull’altro fronte, l’efficacia, diretta o indiretta a seconda dei casi, delle norme europee nell’ordinamento italiano, alle quali è stata riconosciuta la forza di norme costituzionali addirittura prevalenti sulle stesse norme costituzionali italiane con la sola eccezione del rispetto dei principi supremi dell’ordinamento e dei diritti fondamentali dei cittadini (i cosiddetti “controlimiti”). Infine, il rapporto non sempre agevole tra la Corte costituzionale e la Corte di giustizia europea; le interferenze sul piano dei diritti della Corte europea dei diritti dell’uomo; la vigilanza sul sistema bancario da parte della Banca centrale europea. Il secondo fattore riguarda sia la Corte costituzionale, sia il sistema elettorale. La Corte ha progressivamente ampliato il proprio ruolo innanzi tutto dichiarandosi competente a sindacare le leggi costituzionali contrastanti con quei valori supremi che, pur non essendo contenuti in principi espressi, stanno tuttavia alla base del nostro ordinamento giuridico; allo stesso tempo, riservando a se stessa la facoltà d’individuare, caso per caso, quali siano tali valori, immodificabili da parte delle stesse leggi di revisione costi-

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tuzionale. Con ciò implicitamente ponendosi quale vero organo di chiusura del sistema, diversamente da quanto immaginato dai Costituenti, secondo i quali tale ruolo doveva spettare al Parlamento, in quanto unico organo abilitato a cambiare le “regole del gioco” proprio in virtù del potere di revisione costituzionale ad esso attribuito dall’art. 138 Cost. In secondo luogo, la Corte esercita oramai funzioni molto vicine alla funzione legislativa, e comunque con essa interferenti, mediante il ricorso alle sentenze cosiddette “manipolative”, create con la propria giurisprudenza ed articolate nei vari tipi di sentenze “additive”, “sostitutive” ed “additive di principio”. Quanto ai sistemi elettorali e limitandoci, per semplicità di discorso, alle leggi per l’elezione dei deputati e dei senatori, occorre ricordare che il meccanismo elettorale approvato inizialmente fu ispirato al principio della rappresentatività, secondo il quale tutte le idee degli elettori, variamente raggruppate e graduate sul piano quantitativo, devono trovare, in base ai risultati delle elezioni, una rispondenza diretta in Parlamento e, anche se più in generale e meno direttamente, nei meccanismi di governo dello Stato. Da ciò scaturì l’adozione di un sistema elettorale di tipo proporzionale puro, in base al quale, sia pure soltanto per grandi linee, ciascuna delle liste elettorali che si presentano ottiene un numero di seggi in Parlamento più o meno grande a seconda del numero di voti ottenuti. La scelta suddetta fu determinata, sul piano politico, dalla situazione nella quale si venne a trovare la società italiana nell’immediato dopoguerra: una situazione di spiccato multipartitismo nella quale i molti partiti e raggruppamenti politici avevano in comune – chi più, chi meno – la precedente partecipazione alla lotta antifascista. Nel momento in cui fu redatta la nuova Costituzione e s’indissero le elezioni, la premessa necessaria fu quella di valutare sul piano politico – e di darvi riscontro sul piano elettorale – il ruolo che tutti quei raggruppamenti, ciascuno in relazione alla propria consistenza ed al proprio impegno, aveva svolto nel conseguimento dell’obiettivo comune: la liberazione dell’Italia dal fascismo. Fu pertanto necessario adottare un sistema elettorale proporzionale, né poteva essere diversamente. Tale sistema rimase in funzione fino al 1993 con pregi e difetti. I primi riguardarono l’effettiva realizzazione del principio di tutela delle minoranze attraverso la garanzia per i partiti più piccoli – soprattutto per quelli di opposizione – di essere comunque rappresentati in Parlamento. Inoltre, la necessità di raggiungere accordi tra diversi partiti per giungere alla formazione del Governo (i cosiddetti governi bi-tri-quadri-pentapartitici a seconda del numero di partiti che li appoggiavano) sotto un certo profilo accentuò la funzione d’indirizzo e controllo politico delle Camere sul Governo poiché quest’ultimo doveva ben ponderare le proprie deci-

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sioni a fronte di maggioranze parlamentari politicamente articolate e poco coese, come tali scarsamente propense ad approvare a scatola chiusa qualsiasi proposta del Governo. I difetti furono, tuttavia, maggiori dei pregi: la difficoltà di costituire la maggioranza di governo, data la necessità di raggiungere accordi non tra pochi ma tra molti partiti; la difficoltà di mantenere stabile tale maggioranza – da cui la frequenza delle crisi di governo e l’impossibilità di portare a compimento programmi a lunga scadenza – poiché tanto maggiore è il numero dei partiti che concorrono alla sua formazione, tanto più elevata risulta la possibilità di un successivo e determinante abbandono da parte di uno di essi; la difficoltà di un’incisiva e tempestiva azione di governo poiché ogni decisione andava preliminarmente concordata tra i diversi partners della coalizione. I suddetti difetti misero gradualmente in crisi il sistema politico italiano. Tuttavia, la vera spallata per un cambiamento del sistema elettorale venne soprattutto da fattori politici che occorre qui ricordare, sia pure brevemente, se si vuole rimanere su un terreno concreto. Anzitutto, il progressivo sfumare del ricordo della lotta antifascista – soprattutto tra le generazioni che si andavano succedendo – e comunque l’insufficienza del valore di quella lotta a costituire da solo il collante necessario per consentire a partiti tra loro ideologicamente molto diversi di affrontare gli enormi problemi posti dalla ricostruzione, materiale ed istituzionale, di una società ridotta in condizioni disperate da una guerra persa e da un ventennio di ottusa dittatura. In secondo luogo, la crisi che si abbatté improvvisamente sui due maggiori partiti italiani di allora – la Democrazia cristiana ed il Partito comunista – sia pure per motivi di natura interna nel primo caso e di natura prevalentemente internazionale nel secondo: crisi che portò allo smembramento della DC in tre partiti di piccole dimensioni e che obbligò il PCI ad una profonda revisione ideologica (la cosiddetta svolta della Bolognina) pagata alla propria sinistra, in termini elettorali per la prima volta non irrilevanti, nei confronti di Rifondazione comunista. Crisi tanto più grave per il sistema politico italiano che fino a quel momento, grazie alla contrapposizione di quei due partiti, tra loro quasi equivalenti in termini di voti ma di gran lunga più consistenti rispetto a tutti gli altri, aveva ammortizzato gli inconvenienti di un multipartitismo fortemente frazionato con elementi di bipartitismo, sia pure di un bipartitismo ufficialmente non riconosciuto, altalenante e talvolta portato all’auto-annullamento nell’illusione di quella che i tedeschi chiamano Grosse Koalition e che in Italia, per un breve periodo, si realizzò mediante il cosiddetto “compromesso storico”.

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Infine, la vicenda che va sotto il nome di Tangentopoli e che dette il colpo di grazia, nella coscienza popolare, alla credibilità politica del sistema dei partiti fino a quel momento esistente in Italia. Da qui scaturì il terremoto elettorale che portò, a seconda dei casi, alla sostanziale scomparsa, al netto ridimensionamento o al frazionamento di quei partiti che negli anni precedenti avevano contribuito alla formazione di governi di coalizione. Nacque così la scelta – nei fatti imposta dal popolo attraverso l’approvazione di un referendum abrogativo di alcuni articoli della legge elettorale per il Senato – di voltare pagina sul terreno istituzionale, passando da un sistema elettorale proporzionale ad un sistema prevalentemente maggioritario (per il 75% maggioritario e per il 25% proporzionale) che privilegiasse il principio della governabilità rispetto a quello della rappresentatività ed il principio dell’alternanza di governo rispetto a quello dei governi di coalizione. Tuttavia, è un dato di fatto che un sistema elettorale maggioritario è in grado di realizzare pienamente il fine della governabilità, attraverso l’alternanza, soltanto a fronte di situazioni fondamentalmente bipartitiche: si vedano soprattutto gli esempi degli USA e della Gran Bretagna. In Italia, invece, dopo l’abbandono del sistema proporzionale e l’introduzione di un sistema fondamentalmente maggioritario, è rimasto immutato il sistema dei partiti: un sistema multipartitico che era allo stesso tempo premessa e conseguenza di un sistema elettorale proporzionale ma che risultava incompatibile con un sistema elettorale maggioritario. Peraltro, a fronte di una realtà politica, quale il multipartitismo, difficilmente trasformabile in tempi brevi, il fine fondamentale della lotta politica – la vittoria elettorale – ha spinto i partiti a coalizzarsi, in funzione delle elezioni, in due poli tra loro contrapposti. Era evidente, infatti, che in un sistema maggioritario chiunque si fosse presentato in ordine sparso avrebbe al massimo ottenuto qualche seggio ma certamente non avrebbe vinto le elezioni. Nasce così in Italia il bipolarismo, che è concetto molto diverso dal bipartitismo. Infatti, bipartitismo significa che in una società vi sono soltanto due grandi partiti, ognuno con un proprio programma politico deciso unilateralmente, ben strutturati al proprio interno e con un’organizzazione periferica estremamente articolata sul territorio, in grado d’incidere stabilmente su determinati tessuti e centri della società. Il bipolarismo è invece l’aggregazione, in due poli tra loro contrapposti e sulla base di un programma concordato soltanto nelle sue linee essenziali, che viene creata a fini elettorali da numerosi partiti politici, molti dei quali tra loro diversi per dimensioni, programmi, organizzazione interna e radicamento sul territorio.

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Il bipolarismo avrebbe potuto portare alla vittoria elettorale ed infatti così è stato: nel 1994 le elezioni sono state vinte dal Polo delle libertà, nel 1996 dall’Ulivo, nel 2001 ancora dal Polo (ridenominato Casa delle libertà) e così via sostanzialmente in alternanza. Tuttavia, se il bipolarismo si è dimostrato il passaggio obbligato per la vittoria elettorale in un sistema maggioritario, esso da un lato non ha del tutto escluso la possibilità dei cosiddetti “ribaltoni”, come quello della Lega Nord nei confronti del primo governo Berlusconi e quello di Rifondazione Comunista nei confronti del governo Prodi; dall’altro ha determinato due nuovi inconvenienti di notevole peso. Il primo di essi riguarda l’aumento spropositato del numero dei partiti politici, nonostante la profonda crisi che tutti i partiti tradizionali avevano subito ed a dispetto del fatto che l’introduzione di un sistema prevalentemente maggioritario avrebbe dovuto progressivamente ridurre il numero dei partiti. In regime di bipolarismo, un partito, ancorché di piccole dimensioni, può infatti portare in dote quella manciata di voti in più che consente all’una o all’altra coalizione di vincere nei collegi uninominali e/o d’incrementare il numero dei propri parlamentari eletti nella quota proporzionale: la speranza di diventare l’ago della bilancia politica diventa la molla per fondare sempre nuovi partiti – perlopiù riedizioni con diverso nome di frazioni di partiti vecchi – non importa se di piccole dimensioni o con platee di consenso esclusivamente locali. Da qui il seguente paradosso: in situazioni di multipartitismo bipolare un partito piccolo conta di più qualora il sistema elettorale sia di tipo prevalentemente maggioritario e di meno qualora il sistema elettorale sia di tipo proporzionale. Il secondo inconveniente è quello che più direttamente incide sul funzionamento reale della forma di governo parlamentare, così com’era stata pensata dai Costituenti. I partiti che compongono la coalizione di governo, vincitrice delle elezioni, sono ben consapevoli che il mantenimento della loro unità è il presupposto essenziale per continuare a governare. Perciò, il collante della gestione del potere statale (con tutti i vantaggi, anche di tipo personale, che esso comporta: si pensi soltanto al potere di nomina alle cariche cosiddette di “sottogoverno”) riduce fortemente la possibilità di reali controversie tra le varie componenti della coalizione vincitrice, o quantomeno le declassa a mere controversie verbali che non incidono poi sulla compattezza delle votazioni parlamentari; ovvero, quando tale compattezza viene occasionalmente a mancare nel corso di votazioni in un ramo del Parlamento, essa viene immediatamente recuperata con le votazioni nell’altro ramo cancellando ciò che era stato in precedenza approvato. Ma ciò determina, evidentemente, un ridimensionamento sostanziale della funzio-

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ne d’indirizzo e controllo politico del Parlamento sul Governo; anzi, non è azzardato affermare, come dimostra l’esperienza fin qui maturata, che i ruoli s’invertono: il Parlamento si limita a ratificare quanto deciso dal Governo, essendo quest’ultimo forte di maggioranze parlamentari a prova di bomba e di “franchi tiratori”; non vi è più un etero-controllo del Parlamento sul Governo ma una sorta di auto-controllo (che equivale ad un non-controllo) da parte di quest’ultimo. Non vi è alcun dubbio che, sotto quest’aspetto, il funzionamento attuale della forma di governo in Italia è ben diverso da quello che i Costituenti immaginavano di aver costruito. Il 30 dicembre 2005 viene pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la L. n. 270 per le elezioni della Camera e del Senato (comunemente nota come Legge Calderoli o Porcellum). La suddetta legge, approvata con i soli voti della maggioranza di centro-destra a pochi mesi dalla data di svolgimento delle elezioni politiche, eliminava il precedente sistema elettorale di tipo maggioritario ed introduceva un nuovo sistema elettorale di tipo proporzionale corretto verso l’alto (premio di maggioranza) e verso il basso (soglie di sbarramento). La Corte costituzionale con la sent. n. 1/2014 dichiarò illegittimo il premio di maggioranza e il voto di lista, in tal modo creando un sistema elettorale proporzionale puro. La L. n. 270 venne applicata alle elezioni politiche del 2006, 2008 e 2013. Al di là delle considerazioni che si potrebbero fare su taluni aspetti specifici della legge, deve essere messa in rilievo soprattutto l’introduzione di diversi meccanismi elettorali per i due rami del Parlamento, con particolare riferimento all’attribuzione del premio di maggioranza che alla Camera avveniva su base nazionale ed al Senato su base regionale. Tale diversità poteva determinare la vittoria di coalizioni diverse alla Camera ed al Senato o la formazione di una maggioranza estremamente esigua al Senato rispetto a quella esistente alla Camera. Questa seconda eventualità si è puntualmente verificata in occasione della vittoria della coalizione di centrosinistra alle elezioni del 2006: vittoria che assicurò al Governo Prodi una maggioranza al Senato talmente esigua da determinare il ricorso a nuove elezioni anticipate soltanto due anni dopo, elezioni che si conclusero con la netta vittoria del centro-destra. Comunque, al di là di tali risultati elettorali contrastanti ma che rientrano negli altalenanti sviluppi della dialettica politica, non c’è dubbio che la Legge del 2005 alimentava il rischio dell’ingovernabilità. In altre parole, vi era la contraddizione di una legge che, da un lato, voleva ridurre tale rischio attraverso le correzioni, verso l’alto e verso il basso, introdotte al sistema proporzionale e, dall’altro, potenziava quel rischio attraverso la diversificazione dei meccanismi elettorali previsti per il Senato e per la Camera.

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Nel 2015 viene approvata la L. 6 maggio 2015, n. 52 (comunemente nota come Italicum). Tale legge originariamente prevedeva un sistema maggioritario a doppio turno con premio di maggioranza, soglia di sbarramento e cento collegi plurinominali con capilista “bloccati”, con la possibilità per lo stesso candidato di partecipare all’elezione in 11 collegi. Nel gennaio 2017 la Corte costituzionale, con la sent. n. 35, ha dichiarato incostituzionale il turno di ballottaggio, lasciando l’eventuale premio di maggioranza per la lista che dovesse ottenere il 40% dei voti validi al primo (e quindi unico) turno. La Corte ha inoltre dichiarato incostituzionale la possibilità per i capilista bloccati che dovessero essere eletti in più collegi di scegliere discrezionalmente l’effettivo collegio di elezione; la scelta viene quindi affidata ad un sorteggio. L’Italicum disciplinava l’elezione della sola Camera dei deputati a decorrere dal 1º luglio 2016, in sostituzione della precedente legge del 2005. Pertanto, quest’ultima, come modificata dalla sent. n. 1/2014 della Corte costituzionale, rimaneva in vigore limitatamente all’elezione del Senato. Tale scelta fu determinata dalla decisione di approvare una legge costituzionale che, oltre ad introdurre numerosissime modiche al testo della Costituzione, prevedeva non più l’elezione popolare diretta dei senatori ma un diverso meccanismo di scelta di tipo indiretto, oltre ad una radicale riduzione delle competenze del Senato. Tuttavia, la suddetta legge costituzionale, approvata in seconda deliberazione con la maggioranza assoluta, venne successivamente bocciata dal referendum popolare indetto ai sensi dell’art. 138 Cost. Da ciò il paradosso della contemporanea esistenza di due leggi elettorali diverse per l’elezione dei deputati (l’Italicum, di fatto mai applicato) e dei senatori (il Porcellum) con tutti gli inconvenienti che si sono in precedenza evidenziati. Alla fine del 2017 viene approvata una nuova legge elettorale (il c.d. Rosatellum-bis) applicabile in modo uguale ai due rami del Parlamento, la cui struttura, frutto di un ampio accordo politico, prevede una quota maggiore (64%) di seggi attribuiti con il sistema proporzionale e una quota minore (36%) di seggi attribuiti con il sistema maggioritario: tale legge verrà illustrata dettagliatamente nel capitolo 3, par. 2. Tuttavia, al di là dei diversi sistemi elettorali che si sono finora succeduti e dei diversi assetti dei partiti che si sono via via determinati, il fattore che ha fin qui maggiormente modificato il funzionamento della forma di governo è senz’altro quello tecnologico, intendendosi con tale termine i cosiddetti mass media (mezzi di comunicazione di massa: giornali, radio, TV ed oggi anche Internet) con particolare riferimento alla televisione. Televisione che – è utile ricordarlo – non esisteva in Italia all’epoca dell’ap-

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provazione della Costituzione e che quindi non poteva evidentemente essere presa in considerazione dai Costituenti in tutta la sua portata dirompente ai fini della determinazione del consenso politico. È oramai del tutto pacifico il concetto secondo cui nelle società moderne la formazione del consenso politico è influenzata in modo determinante – nell’ordine che segue e tanto più rigidamente quanto più basso è il livello culturale medio di una data società – dalla televisione, dalla radio e dai giornali. Storicamente si può ricordare il massiccio uso della radio compiuto dal nazismo a fini di propaganda politica, nonché, in anni più recenti, la straordinaria diffusione degli apparecchi televisivi in Unione Sovietica nonostante il bassissimo livello di reddito delle famiglie. La mancanza o l’insufficienza di regole che disciplinino il pari accesso ai mass media, tali da impedire forme di monopolio e comunque di rilevante controllo sugli stessi da parte di pochi soggetti, attribuisce a questi ultimi un potere a fini elettorali assolutamente impensabile all’epoca, peraltro non troppo lontana, in cui le campagne elettorali si facevano con i comizi, i manifesti ed i camioncini con l’altoparlante sul tetto. Deriva da ciò una profonda trasformazione del solenne principio proclamato dal co. 2 dell’art. 1 Cost. («La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione»): se è vero che chi è in grado, attraverso il controllo soprattutto delle televisioni, di acquisire il consenso popolare con relativa facilità, il principio di cui all’art. 1 risulta svuotato del suo significato originale e rimane l’ipocrita copertura di una realtà del tutto cambiata. Tanto più se si riflette sul fatto che il controllo sui mass media determina una spirale diabolica che poco ha a che fare con un concetto reale di democrazia: tale controllo, infatti, produce effetti non soltanto nel momento iniziale dell’acquisizione del consenso ma anche e soprattutto in un momento successivo, quello della conservazione del consenso da parte di chi ha vinto. Con il rischio che chi ha vinto una volta continui poi a vincere molto più spesso di chi ha perso. Se non si vuole che in Italia il concetto di democrazia si trasformi definitivamente in una “videocrazia”, occorre al più presto approvare una disposizione che garantisca, come accennato in precedenza, il pari accesso ai mass media ed impedisca forme di monopolio e comunque di rilevante controllo degli stessi da parte di pochi soggetti. Né è sufficiente che una tale disposizione sia adottata con legge ordinaria, data l’estrema facilità con la quale la coalizione di volta in volta vincitrice delle elezioni può abrogare le leggi approvate dalla precedente maggioranza. Occorre, invece, che la suddetta disposizione sia approvata con legge costituzionale a modifica dell’ormai obsoleto art. 21, come corollario di garanzia sostanziale del reale

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funzionamento del principio secondo cui la sovranità appartiene al popolo. Purtroppo, tutto ciò non si è riusciti finora a realizzare e le numerose, anche se frammentarie, leggi ciclicamente approvate in materia – a cominciare dalla cosiddetta Legge Mammì 6 agosto 1990, n. 223, per finire alla vigente Legge Gasparri – non hanno minimamente intaccato l’esistente regime di oligopolio televisivo. Negli ultimi nove anni – quelli decorrenti dalla data della precedente edizione di questo manuale ad oggi – due nuovi fenomeni, tra loro collegati, hanno fortemente intaccato il funzionamento della originaria forma di governo: la crisi dei partiti politici ed il sorgere del populismo. Nelle intenzioni dei Costituenti il motore che doveva provvedere, nei fatti, al funzionamento delle istituzioni era costituito dai partiti politici, la cui funzione, come recita l’art. 49 Cost., era quella di consentire ai cittadini di associarsi in partiti politici “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. I partiti politici dovevano rappresentare – e così è stato per molti anni – il canale privilegiato per consentire ai cittadini non soltanto di determinare le rispettive posizioni politiche ma anche di scegliere i candidati che, ove fossero stati eletti, sostenessero a livello istituzionale (soprattutto ma non soltanto in Parlamento) tali posizioni politiche. In poche parole, i partiti avrebbero dovuto essere il tramite fondamentale per la formazione del consenso politico e per il concreto funzionamento delle istituzioni Nella realtà odierna, invece, i partiti politici ed i loro rappresentanti in Parlamento sono stati oggetto di attacchi generalizzati (e soltanto in parte giustificati), che hanno fatto presa rapidamente a livello popolare ed hanno portato, non soltanto in Italia, al sorgere e all’affermazione dall’oggi al domani di movimenti del tutto nuovi: si pensi al Movimento 5Stelle in Italia e in Francia al movimento “En Marche” di Macron, oggi contrastato da un altro movimento popolare (i c.d. “Gilet gialli”). Tale processo è diverso da quello che a suo tempo portò alla discesa in campo di Berlusconi e alla rapida affermazione di Forza Italia: allora lo spazio politico che si aprì dipese da due fattori specifici quali – come ricordato in precedenza – tangentopoli e la caduta del muro di Berlino; oggi non vi sono stati fattori particolari ma si è consolidata in larghe fasce della popolazione una diffusa sfiducia nei confronti della classe politica e dei suoi rappresentanti a livello sia partitico, sia istituzionale. In altre parole, rinasce il preoccupante fenomeno del populismo – che la storia ben conosce – vale a dire l’idea che il popolo possa agire da solo senza l’interposizione di soggetti o strutture che, a loro volta, vengono considerati come ostacoli inaffidabili se non addirittura corrotti. Tutto il contrario di quanto solennemente affermato dal-

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l’art. 1 Cost. secondo cui l’esercizio della sovranità da parte del popolo deve avvenire “nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Sempre negli ultimi nove anni si è assistito ad un rapidissimo quanto all’epoca imprevedibile sviluppo della tecnologia digitale, tale da rendere l’accesso ad Internet alla portata della maggior parte della popolazione (il 100% dei giovani) soprattutto grazie alla tecnologia WiFi. Premesso che tale tecnologia ha apportato notevoli benefici soprattutto nel campo della ricerca e della comunicazione, quanto si è qui detto nel 2010 a proposito dello strumento televisivo e dei possibili pericoli ad esso connessi in termini di democrazia vale cento volte di più per lo strumento digitale, anche perché non esistono ancora efficaci meccanismi di controllo. I fenomeni delle fake news e dell’hackeraggio a livello politico e industriale; la facilità di violazioni della privacy, la diffusione sempre più rapida dei Social Networks … sono prove sicure del fatto che siamo entrati in un’epoca totalmente diversa dalle precedenti, che già influenza il modo di fare politica (si è parlato di “politica digitale”) e che di riflesso non potrà non influenzare anche il diritto e le istituzioni che stanno alla sua base. A titolo soltanto esemplificativo basti ricordare – come avrebbe potuto immaginare George Orwell – che lo stesso Presidente degli Stati Uniti, e non soltanto lui, annuncia spesso le proprie decisioni con un Tweet invece che con un tradizionale comunicato stampa; oppure l’impiego di un software (la c.d. piattaforma Rousseau) da parte del M5S per scegliere i propri candidati alle elezioni.

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CAPITOLO 3 STRUTTURA, FORMAZIONE, COMPOSIZIONE E DURATA DELLE CAMERE SOMMARIO: 1. Il bicameralismo. – 2. I sistemi elettorali. – 3. Ineleggibilità, incandidabilità (c.d. Legge Severino), incompatibilità e verifica dei poteri. – 4. Senatori di diritto e nomina dei senatori a vita. – 5. Gli organi delle Camere: Assemblee, Presidenti, Uffici di presidenza, Gruppi, Commissioni, Giunte, Conferenza dei Presidenti di Gruppo. – 6. La durata delle Camere: la legislatura, la proroga, la prorogatio, lo scioglimento anticipato. – 7. L’autonomia costituzionale delle Camere con riferimento al momento applicativo delle norme regolamentari: in particolare, l’autonomia contabile ed il principio di autodichia (rinvio al par. successivo). – 8. Le disposizioni dei regolamenti parlamentari che disciplinano il principio di autodichia. Gli argomenti a sostegno della illegittimità di tali disposizioni. La sent. 28 aprile 2009 Savino ed altri contro Italia della Corte europea dei diritti dell’uomo. Le sentt. nn. 120/2014 e 262/2017 della Corte costituzionale.

1. Il bicameralismo La Costituzione italiana accoglie il principio del bicameralismo, secondo il quale il Parlamento si compone di due Camere: la Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica (art. 55, co. 1, Cost.). Il bicameralismo, prevalso dopo un lungo dibattito in Assemblea Costituente in cui, in ossequio al principio dell’unità della sovranità popolare, soprattutto le forze di sinistra propendevano per un Parlamento monocamerale, è di tipo perfetto o paritario. Dunque, entrambe le Camere esercitano le stesse funzioni, vale a dire la funzione legislativa e la funzione di indirizzo e controllo, hanno gli stessi poteri e sono assistite dalle medesime garanzie. Anche la durata, originariamente diversa, è la stessa: la legislatura, se le Camere non vengono sciolte anticipatamente, è di cinque anni. Differenze sussistono soltanto nella composizione. Innanzi tutto, è diverso il numero dei membri di ciascuna Camera. La Camera dei deputati si compone di 630 deputati, mentre il Senato è composto di 315 senatori, cui si aggiungono i senatori nominati dal Presidente della Repubblica, secondo

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quanto previsto dall’art. 59 Cost., e gli ex Presidenti della Repubblica che, alla scadenza della loro carica, diventano automaticamente senatori a vita. Ciò comporta che, mentre alla Camera tutti i deputati sono rappresentanti del popolo, al Senato siedono anche senatori non eletti. Un’ulteriore differenza è costituita dal limite di età fissato per essere eletti senatori. Per essere eletti senatori è necessario aver compiuto 40 anni, mentre per essere eletti deputati basta aver compiuto 25 anni di età. Tale differenza è legata al ruolo di “camera di riflessione”, di ripensamento, che si è voluto attribuire al Senato. Le due Camere esercitano le loro funzioni separatamente, a meno che non si tratti di quelle funzioni per le quali la Costituzione prevede che esse si riuniscano in seduta comune 1.

2. I sistemi elettorali La Costituzione italiana non disciplina direttamente i sistemi elettorali per l’elezione dei membri del Parlamento ma rinvia alle leggi di attuazione. I sistemi elettorali possono essere divisi in due categorie: sistemi elettorali proporzionali e sistemi elettorali maggioritari. Nei sistemi elettorali proporzionali, il territorio è diviso in circoscrizioni, a loro volta suddivise in collegi plurinominali (collegi dove vengono eletti due o più candidati), nei quali i seggi sono attribuiti tra le varie liste in proporzione dei voti ottenuti. Nei sistemi maggioritari, invece, le circoscrizioni elettorali in cui è diviso il territorio sono suddivise in collegi uninominali (collegi in cui è eletto un solo candidato), nei quali il seggio è attribuito al candidato che ottiene la maggioranza dei voti. I sistemi maggioritari possono ulteriormente suddividersi in sistemi maggioritari nei quali per essere eletti è richiesta la maggioranza assoluta dei voti validi e sistemi nei quali è sufficiente la maggioranza relativa dei voti validi. Nei sistemi elettorali maggioritari a maggioranza assoluta, è eletto al primo turno chi ha ottenuto tale maggioranza; altrimenti, si passa al secondo turno (ballottaggio) al quale possono accedere soltanto i due candidati che hanno raggiunto il maggior numero di voti o tutti quelli che hanno raggiunto un determinato numero di voti, fissato come soglia di sbarramento per passare al secondo turno. Fino al 1993, in Italia vigeva un sistema elettorale di tipo proporzionale puro, attraverso il quale tutti i partiti, anche quelli più piccoli, venivano 1

Per un’analisi delle funzioni svolte dalle Camere in seduta comune cfr. cap. 10.

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rappresentati in Parlamento purché raggiungessero il minimo di voti previsto dalla legge. Successivamente, si è passati ad un sistema misto nel quale il 75% dei seggi era attribuito con il sistema maggioritario ed il restante 25% era attribuito con il sistema proporzionale, ma soltanto tra i partiti che avessero raggiunto il 4% dei voti validi a livello nazionale (cosiddetta clausola di sbarramento). La modifica del sistema elettorale avvenne in seguito all’esito positivo di un referendum abrogativo proposto sulla legge elettorale del Senato. Tale referendum, di carattere manipolativo, mirava, attraverso la tecnica del ritaglio, ossia mediante l’abrogazione di singole parole o disposizioni contenute nel testo della legge, a trasformare il sistema elettorale del Senato da proporzionale in maggioritario. Alla luce dell’esito referendario anche il sistema elettorale della Camera è stato trasformato in maggioritario dalla L. n. 277/1993 che lo ha uniformato, nella sostanza, a quello del Senato. Va, a questo proposito, precisato che la Corte costituzionale ha dichiarato ammissibili in materia elettorale soltanto i referendum cosiddetti parziali, ossia quei referendum che non abbiano come risultato, in caso di esito positivo, quello di produrre un mero vuoto, ma producano una disciplina “di risulta” in grado di consentire il funzionamento degli organi elettivi senza bloccarne l’eleggibilità. In particolare, uno dei criteri di ammissibilità elaborati dalla Corte costituzionale (cfr. sent. n. 32/1993) per i referendum elettorali è quello dell’idoneità dell’abrogazione a produrre una «coerente normativa residua immediatamente applicabile, in guisa da garantire, pur nell’eventualità dell’inerzia legislativa, la costante operatività dell’organo». Negli anni successivi e fino ad oggi la legge elettorale è stata più volte sostituita: nel 2005 dalla Legge Calderoli (c.d. Legge Porcellum), parzialmente dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale, che prevedeva un sistema proporzionale corretto ed un premio di maggioranza; nel 2015 dalla legge c.d. Italicum, applicabile soltanto alle elezioni per la Camera dei deputati e in realtà mai applicata. Dal 2017 è in vigore la L. 3 novembre 2017, n. 165 (c.d. Rosatellum-bis) che verrà illustrata nelle sue linee essenziali qui di seguito. La legge suddetta introduce un sistema di tipo misto, tendenzialmente proporzionale. Sia alla Camera che al Senato, due terzi dei seggi sono assegnati con il metodo proporzionale, mentre il rimanente terzo è attribuito con metodo maggioritario 2. In particolare, alla Camera, 232 seggi sono assegnati con il metodo maggioritario in collegi uninominali, mentre i restanti 2

A questi si aggiungono i 12 deputati e i 6 senatori eletti nelle circoscrizioni estero.

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386 sono attribuiti con metodo proporzionale in collegi plurinominali 3. Per partecipare alla ripartizione dei seggi è necessario superare una soglia di sbarramento, che è fissata per le coalizioni al 10% dei voti validi su base nazionale; mentre per le liste che si presentano, sia sole sia in coalizione, al 3%. Al Senato, i seggi assegnati nei collegi uninominali sono 116, mentre i rimanenti sono attribuiti con il metodo proporzionale. Oltre alle liste che superano le soglie di sbarramento richiamate sopra, accedono al riparto dei seggi anche le liste che hanno ottenuto almeno il 20% dei voti espressi in una regione e, nelle regioni ad autonomia speciale, le liste rappresentative di minoranze linguistiche che hanno eletto almeno due candidati nei collegi uninominali della circoscrizione regionale. Una stessa persona non può candidarsi in più collegi uninominali, ma può essere candidata nei collegi plurinominali, fermo restando il limite di 5. Nel caso di elezione sia in un collegio uninominale che in uno o più collegi plurinominali, il deputato o il senatore si intende eletto nel collegio uninominale. L’elettore può esprimere un solo voto, che è valido sia per eleggere il candidato al collegio uninominale che i candidati nel collegio plurinominale. Non è dunque possibile il c.d. voto disgiunto, vale a dire che non si può votare in modo diverso per eleggere i candidati che concorrono nel collegio plurinominale e uninominale. In ossequio a quanto previsto dall’art. 51 Cost., e diversamente dalla vecchia L. n. 270/2005, che non conteneva nessuna misura di questo tipo, sono previste disposizioni per favorire il riequilibrio dei sessi nella rappresentanza politica. In primo luogo, nei collegi plurinominali i candidati sono messi in lista in ordine alternato per genere. Inoltre, alla Camera, nel complesso delle candidature presentate da ogni lista o coalizione di liste nei collegi uninominali a livello nazionale, nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore al 60% e la stessa misura deve essere rispettata nei collegi plurinominali per la posizione di capolista. Al Senato, invece, la medesima proporzione deve essere rispettata in riferimento al complesso delle candidature presentate da ogni lista o coalizione di liste nei collegi uninominali della Regione. L’art. 48, co. 1 e 2, prevede che «Sono elettori tutti o cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è un dovere civico». Per quanto riguarda l’elezione della Camera dei deputati, hanno diritto di elettorato attivo (diritto di voto) tutti i cittadini maggiorenni; diversamente, per l’elezione del Senato della Repubblica, tutti i cittadini che hanno compiuto 25 anni, se3

In proporzione dei voti ottenuti dalle liste che sono corte e bloccate.

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condo quanto statuisce l’art. 58, co. 1, in base al quale «I senatori sono eletti a suffragio universale e diretto dagli elettori che hanno superato il venticinquesimo anno di età». Ai sensi dell’art. 48, ult. co., dell’elettorato attivo si può venire privati soltanto per incapacità civile (interdetti o inabilitati), per sentenza penale irrevocabile di condanna o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge (per esempio gli interdetti dai pubblici uffici). Hanno diritto di voto anche gli italiani residenti all’estero. Per rendere effettivo tale diritto, gli artt. 48, 56 e 57 Cost. sono stati modificati dalle LL. cost. 17 gennaio 2000, n. 1 e 23 gennaio 2001, n. 1, che hanno istituito una circoscrizione Estero per l’elezione delle Camere ed hanno previsto che 12 deputati alla Camera e 6 senatori al Senato siano eletti nella circoscrizione Estero. In particolare, l’art. 48, co. 3, dispone che «La legge stabilisce requisiti e modalità per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti all’estero e ne assicura l’effettività. A tale fine è istituita una circoscrizione Estero per l’elezione delle Camere, alla quale sono assegnati seggi nel numero stabilito da norma costituzionale e secondo criteri determinati dalla legge». Ai sensi dell’art. 56, co. 4, «La ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni, fatto salvo il numero dei seggi assegnati alla circoscrizione Estero, si effettua dividendo il numero degli abitanti della Repubblica, quale risulta dall’ultimo censimento generale della popolazione, per seicentodiciotto e distribuendo i seggi in proporzione alla popolazione di ogni circoscrizione, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti». Infine, l’art. 57, co. 4, prevede che «La ripartizione dei seggi tra le Regioni, fatto salvo il numero dei seggi assegnati alla circoscrizione Estero, previa applicazione delle disposizioni del precedente comma, si effettua in proporzione alla popolazione delle Regioni, quale risulta dall’ultimo censimento generale, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti». Per quanto riguarda l’elettorato passivo (diritto ad essere candidati), per l’elezione alla Camera dei deputati, hanno diritto di elettorato passivo tutti i cittadini che abbiano compiuto 25 anni, secondo quanto previsto dall’art. 56 Cost.; per l’elezione al Senato della Repubblica, invece, tutti i cittadini che abbiano compiuto 40 anni, ai sensi dell’art. 58 Cost. Per garantire l’eguaglianza tra uomini e donne nella parità di accesso alle cariche elettive, recentemente ed a seguito di un lungo dibattito, è stato modificato l’art. 51 Cost. Il nuovo testo dell’articolo riconosce espressamente che «Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini. La

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legge può, per l’ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive, parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica. Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro». Pertanto, il co. 1 di tale articolo prevede ora, con una formula che riecheggia l’art. 3 Cost., che la Repubblica promuova con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini. Tale modifica costituzionale non si può comprendere appieno se ci si ferma al dato testuale. Infatti, anche prima della suddetta legge costituzionale, la parità di accesso alle cariche elettive era garantita a uomini e donne, senza discriminazioni di sesso. Tuttavia, secondo la Corte costituzionale, sulla base della vecchia formulazione dell’art. 51 e dell’art. 3 Cost., dovevano ritenersi illegittime quelle azioni volte a favorire l’accesso delle donne in politica (sent. n. 422/1995). La novità sta ora nella previsione secondo cui la Repubblica può adottare specifici provvedimenti per rendere effettiva tale parità 4.

3. Ineleggibilità, incandidabilità (c.d. Legge Severino), incompatibilità e verifica dei poteri Ai sensi dell’art. 65, «La legge determina i casi di ineleggibilità e incompatibilità con l’ufficio di deputato o di senatore. Nessuno può appartenere contemporaneamente alle due Camere». L’art. 66 statuisce, inoltre, che «Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità». L’espressione “ineleggibilità” significa che un soggetto non può essere candidato in una determinata elezione. La ratio del divieto può essere individuata, da un lato, nella necessità di tutelare la libertà del voto e, dall’altro, nell’esigenza di garantire l’indipendenza degli eletti nell’esercizio delle 4 Nelle elezioni del 2001 per la Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica, le donne costituivano solo il 9,2% degli eletti: alla Camera sono state elette 64 donne su 630 deputati ed al Senato 24 su 315 senatori. Lo stesso problema della sottorappresentazione delle donne in politica è avvertito a livello regionale. La necessità di garantire la parità di accesso alle cariche elettive è alla base della previsione contenuta nel nuovo art. 117 Cost., che assegna alle Regioni a statuto ordinario il compito di promuovere, con apposite leggi, la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive. Per quanto riguarda le Regioni a statuto speciale, un’identica previsione è contenuta nella L. cost. n. 2/2001. Sul tema si veda la sent., Corte cost. n. 49/2003, con la quale è stata ritenuta infondata una questione di legittimità costituzionale sollevata sulla legge elettorale per l’elezione del Consiglio regionale della Valle d’Aosta che prevede l’obbligo di formare le liste in modo da garantire la presenza di candidati di entrambi i sessi.

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loro funzioni. Infatti, sono ineleggibili coloro che, grazie al ruolo che svolgono, potrebbero esercitare pressioni determinanti per essere votati, coartando la libertà di scelta degli elettori, e coloro che, nell’esercizio della propria carica, potrebbero non godere della necessaria indipendenza. In particolare, secondo quanto previsto dalla legislazione ordinaria (D.P.R. n. 361/1957, così come modificato dalle leggi elettorali per la Camera e per il Senato), cui la Costituzione rinvia, è causa d’ineleggibilità ricoprire la carica di sindaco di un comune con più di 20.000 abitanti, di capo della polizia, di capo di gabinetto di un Ministero, prefetto, magistrato, direttore generale di un’Asl ecc.; essere titolare di rapporti d’impiego con Governi esteri (diplomatici, consoli, addetti al consolato ecc.); essere titolare di rapporti economici con lo Stato (concessionari di pubblici servizi, ecc.); candidarsi contestualmente al Senato e alla Camera (ex art. 65, co. 2, Cost.; art. 9, co. 2, D.Lgs. 20 dicembre 1993, n. 533). Colui che si trovi in una di queste situazioni d’ineleggibilità non può candidarsi e, qualora ciò avvenisse, l’eventuale elezione sarebbe nulla. Peraltro, secondo quanto disposto dall’art. 6 del D.P.R. n. 361/1957, le cause d’ineleggibilità non hanno effetto se le funzioni esercitate sono cessate almeno 180 giorni prima della data di scadenza del quinquennio di durata di ogni legislatura. Nel 2012 entra in vigore il D.Lgs. 31 dicembre 2012, n. 235, (la c.d. Legge Severino) recante il “Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190”. Va innanzitutto precisato che il termine “incandidabilità”, usato nella Legge Severino, ha una portata più ampia del termine “ineleggibilità” perché esso ricomprende l’incandidabilità non soltanto a cariche elettive (europee, nazionali, regionali e negli enti locali) ma anche a cariche alle quali si accede per nomina (incarichi di Governo, amministratori negli enti locali). Inoltre, mentre l’ineleggibilità può essere superata rimuovendo nei termini prescritti dalla legge le cause che l’avevano determinata, ciò non è possibile nei casi previsti dalla legge Severino (c.d. ineleggibilità assoluta). In sintesi, la legge in questione prevede nuove cause di incandidabilità, sospensione e decadenza relativamente alle cariche di cui sopra. In questa sede verranno esaminate soltanto le incandidabilità relative alla Camera dei deputati ed al Senato. L’art. 1 stabilisce che: «1. Non possono essere candidati e non possono comunque ricoprire la carica di deputato e di senatore: a) coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione

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per i delitti, consumati o tentati, previsti dall’articolo 51, commi 3-bis e 3quater, del codice di procedura penale; b) coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati, previsti nel libro II, titolo II, capo I, del codice penale; c) coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione, per delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, determinata ai sensi dell’articolo 278 del codice di procedura penale». L’art. 2 stabilisce che: «1. L’accertamento della condizione di incandidabilità alle elezioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica comporta la cancellazione dalla lista dei candidati. 2. L’accertamento dell’incandidabilità è svolto, in occasione della presentazione delle liste dei candidati ed entro il termine per la loro ammissione, dall’ufficio centrale circoscrizionale, per la Camera, dall’ufficio elettorale regionale, per il Senato, e dall’ufficio centrale per la circoscrizione estero, sulla base delle dichiarazioni sostitutive attestanti l’insussistenza della condizione di incandidabilità di cui all’articolo 1, rese da ciascun candidato ai sensi dell’articolo 46 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445. Gli stessi uffici accertano d’ufficio la condizione di incandidabilità anche sulla base di atti o documenti di cui vengano comunque in possesso comprovanti la condizione di limitazione del diritto di elettorato passivo di cui all’articolo 1. 3. Per i ricorsi avverso le decisioni di cui al comma 2 trova applicazione l’articolo 23 del decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361. 4. Qualora la condizione di incandidabilità sopravvenga o sia accertata successivamente alle operazioni di cui al comma 2 e prima della proclamazione degli eletti, l’ufficio centrale circoscrizionale, per la Camera, l’ufficio elettorale regionale, per il Senato, e l’ufficio centrale per la circoscrizione Estero procedono alla dichiarazione di mancata proclamazione nei confronti del soggetto incandidabile». L’art. 3 stabilisce che: «1. Qualora una causa di incandidabilità di cui all’articolo 1 sopravvenga o comunque sia accertata nel corso del mandato elettivo, la Camera di appartenenza delibera ai sensi dell’articolo 66 della Costituzione. A tal fine le sentenze definitive di condanna di cui all’articolo 1, emesse nei confronti di deputati o senatori in carica, sono immediatamente comunicate, a cura del pubblico ministero presso il giudice indicato nell’articolo 665 del codice di procedura penale, alla Camera di rispettiva appartenenza. 2. Se l’accertamento della causa di incandidabilità interviene nella fase di convalida degli eletti, la Camera interessata, anche nelle more della conclusione di tale fase, procede immediatamente alla deliberazione

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sulla mancata convalida. 3. Nel caso in cui rimanga vacante un seggio, la Camera interessata, in sede di convalida del subentrante, verifica per quest’ultimo l’assenza delle condizioni soggettive di incandidabilità di cui all’articolo 1». L’art. 4 stabilisce che: «1. Non possono essere candidati e non possono comunque ricoprire la carica di membro del Parlamento europeo spettante all’Italia coloro che si trovano nelle condizioni di incandidabilità stabilite dall’articolo 1». La Corte costituzionale con le sentt. n. 236/2015 e n. 276/2016 ha dichiarato l’infondatezza di una serie di questioni di legittimità costituzionale che, pur non riguardando direttamente parlamentari ma amministratori locali (i casi De Magistris e De Luca), hanno una portata più ampia rispetto alle fattispecie originarie. Gli aspetti d’incostituzionalità sollevati riguardavano un preteso eccesso di delega del D.Lgs. 31 dicembre 2012, n. 23; il carattere sanzionatorio della sospensione dalla carica; l’applicazione retroattiva della sospensione, in contrasto con il divieto di retroattività che si ricaverebbe dall’art. 51, co. 1, Cost. In estrema sintesi, la Corte nega innanzitutto che dal raffronto tra la legge di delega ed il decreto legislativo possa configurarsi un’ipotesi di eccesso di delega. Quanto alle misure di incandidabilità, sospensione e decadenza previste dal decreto, la Corte ritiene che esse non costituiscono sanzioni o effetti penali della condanna, ma conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche considerate o per il loro mantenimento. In altre parole, il Governo avrebbe soltanto esercitato il proprio potere di fissazione dei requisiti di eleggibilità che l’art. 51, co. 1, Cost. riserva al legislatore. Diverse dalle cause d’ineleggibilità sono le cause d’incompatibilità. La ratio della previsione di cause d’incompatibilità può essere individuata nella necessità che un soggetto non cumuli due cariche contemporaneamente, per evitare che ciò pregiudichi il corretto esercizio delle funzioni elettive che è chiamato a svolgere. La Costituzione prevede direttamente alcune cause d’incompatibilità e rinvia alla legge ordinaria per l’individuazione delle altre. Sono cause d’incompatibilità direttamente previste dalla Costituzione: la carica di Presidente della Repubblica (ex art. 84, co. 2, Cost.), l’ufficio di membro del CSM (ex art. 104, co. 7, Cost.), la carica di consigliere regionale o di membro di una Giunta regionale (ex art. 122, co. 2, Cost.), la carica di giudice della Corte costituzionale (ex art. 135, co. 6, Cost.). Numerose sono anche le incompatibilità previste dalla legge ordinaria (L. 15

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febbraio 1953, n. 60), tra le quali la titolarità di pubblici uffici, la titolarità di cariche direttive in istituti bancari, ecc. Se ricorrono cause d’incompatibilità, il soggetto può candidarsi ma, qualora risulti eletto, dovrà scegliere fra le due cariche tra le quali sussiste l’incompatibilità. Dunque, diversamente dalle cause d’ineleggibilità, le cause d’incompatibilità non viziano l’elezione. Successivamente allo svolgimento delle consultazioni elettorali, è prevista la cosiddetta verifica dei poteri. Si tratta di un controllo che ha lo scopo, da un lato, di garantire la regolarità delle operazioni elettorali e, dall’altro, di verificare che non sussistano cause d’ineleggibilità o d’incompatibilità. Per le elezioni parlamentari tale potere di controllo è attribuito alle Camere stesse. In tal modo, la Costituzione italiana riconosce loro una posizione di particolare indipendenza, che non sarebbe tale se fosse previsto un controllo da parte di un soggetto esterno, come accade in Francia, in cui la verifica delle elezioni è affidata al Conseil constitutionnel (organo sostanzialmente equivalente alla nostra Corte costituzionale). Tale indipendenza può però dare luogo ad abusi, anche perché, rispetto alle decisioni dell’Assemblea, non è prevista alcuna possibilità di appello. La verifica dei poteri è disciplinata dall’art. 66 Cost., dai regolamenti di Camera (artt. 17 e 17-bis) e Senato (art. 135-ter) e dai regolamenti interni delle rispettive Giunte, nonché, in modo non sempre coerente con quanto stabilito dalle suddette disposizioni regolamentari, dalla prassi. Nelle sue grandi linee, sostanzialmente uguali sia alla Camera, sia al Senato, la verifica è svolta inizialmente dalle competenti Giunte delle elezioni. Il Presidente della Giunta nomina un relatore per ciascuna circoscrizione elettorale il quale, qualora non abbia dubbi in ordine alla regolarità dell’elezione, ne propone la convalida. Diversamente, propone l’apertura di un’istruttoria al fine di acquisire ulteriori elementi; al termine della stessa, che viene svolta alla Camera da un comitato denominato di verifica ed al Senato da un comitato denominato inquirente, il relatore propone alla Giunta la convalida dell’elezione o la contestazione della stessa. L’accoglimento da parte della Giunta della proposta di convalida è comunicata al Presidente della Camera o del Senato, ai fini della proposta per l’Assemblea. In caso di contestazione dell’elezione, invece, si apre, sempre in seno alla Giunta, una nuova fase procedimentale di ulteriore verifica, che presenta molte delle caratteristiche dei procedimenti giurisdizionali: come nella fase precedente viene assicurato il principio del contraddittorio a tutela delle parti ma, ad ulteriore garanzia, le sedute sono pubbliche e di esse

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viene redatto il resoconto stenografico. Al termine dei lavori, la Giunta delibera in camera di consiglio sulla proposta all’Assemblea di annullamento, decadenza o convalida dell’elezione; al termine della Camera di Consiglio, il Presidente comunica in seduta pubblica la deliberazione assunta. Tale deliberazione è oggetto di una relazione scritta, che deve essere presentata all’Assemblea entro venti giorni dalla seduta pubblica in cui è stata assunta; è ammessa la presentazione di relazioni di minoranza. Quest’ultima facoltà non è prevista dal regolamento della Giunta del Senato. Inoltre, per quanto attiene alla fase procedimentale che si svolge nella Giunta, al Senato sussistono, oltre a quella appena indicata, altre due differenze rispetto alla normativa vigente alla Camera. Il relatore può proporre alla Giunta la contestazione dell’elezione anche senza bisogno di richiedere preliminarmente l’apertura dell’istruttoria (art. 10, co. 1, reg. Giunta). Nei casi di ineleggibilità e di incompatibilità riconosciuti dalla Giunta all’unanimità, la Giunta stessa può deliberare con apposita votazione di prescindere dal procedimento di contestazione, ma la proposta di annullamento dell’elezione o di dichiarazione della decadenza dal mandato parlamentare dovrà sempre essere presentata al Senato con apposita relazione scritta (art. 18, co. 8, reg. Giunta). La successiva fase di verifica si svolge in Assemblea secondo modalità non del tutto coincidenti alla Camera ed al Senato. Alla Camera, le proposte di annullamento o di decadenza vengono sempre votate dall’Assemblea. Diversamente, ai sensi dell’art. 17-bis reg. Camera, qualora una proposta della Giunta delle elezioni in materia di verifica dei poteri discenda esclusivamente dal risultato di accertamenti numerici, l’Assemblea non procede a votazioni e la proposta s’intende approvata, salvo che, prima della conclusione della discussione, venti deputati chiedano, con un ordine del giorno motivato, che la Giunta proceda ad ulteriori verifiche. Se l’Assemblea respinge l’ordine del giorno, s’intende approvata la proposta della Giunta. Alla luce della chiara e tassativa norma di cui sopra (“esclusivamente dal risultato di accertamenti numerici”) non sembra condivisibile l’opinione, peraltro avanzata in dottrina, secondo la quale la procedura prevista dall’art. 17-bis sarebbe ammissibile anche in ipotesi diverse da quella disciplinata dalla suddetta disposizione. Infine, per prassi costante, l’Assemblea non vota sulle proposte di convalida delle elezioni, limitandosi a prendere atto senza discussione delle relative comunicazioni fatte dal suo Presidente 5. 5

Un precedente contrastante con tale prassi si verificò nel corso della seduta del 20 giugno 2002. Il Presidente della Camera giudicò ammissibile la presentazione e la votazio-

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Al Senato, il procedimento di verifica in Assemblea è disciplinato dall’art. 135-ter. Il co. 1 stabilisce che «L’Assemblea discute e delibera sulle proposte della Giunta … riguardanti elezioni contestate nonché sulle proposte in materia di ineleggibilità originaria o sopravvenuta e di incompatibilità». Il co. 2, tuttavia, limitando il principio generale di cui al citato co. 1, stabilisce che «Fino alla chiusura della discussione in Assemblea, almeno venti senatori possono formulare proposte in difformità dalle conclusioni della Giunta, mediante la presentazione di ordini del giorno motivati, in mancanza dei quali l’Assemblea non procede a votazione, intendendosi senz’altro approvate le conclusioni della Giunta». La norma di cui al co. 2, che prevede il meccanismo dell’approvazione implicita, ha una funzione garantista perché da un lato, in positivo, obbliga i senatori contrari alle proposte della Giunta a “venire allo scoperto” mediante la formulazione di proposte diverse dalle conclusioni della Giunta; dall’altro, in negativo, impedisce la possibilità di ribaltare le conclusioni della Giunta senza motivazione ed in maniera anonima, poiché le votazioni riguardanti persone devono avvenire a scrutinio segreto. Quanto alla possibilità di qualificare come definitive le deliberazioni di convalida adottate dalle Giunte di Camera e Senato, la soluzione preferibile sembra essere quella negativa, alla luce non soltanto dell’art. 66 Cost., che attribuisce a ciascuna “Camera” la cosiddetta verifica dei poteri, ma anche delle disposizioni regolamentari che espressamente qualificano come “proposte” di convalida l’oggetto delle deliberazioni suddette (artt. 17-bis reg. Camera; 135-ter reg. Senato; 11, co. 8 e 13, co. 8, reg. Giunta Camera). Pertanto, la prassi di non votare le proposte di convalida da un lato non attribuisce carattere di definitività alle deliberazioni delle Giunte ma costituisce, invece, una forma di accoglimento tacito delle stesse da parte dell’Assemblea; dall’altro, tale prassi non può essere considerata come inderogabile, anche alla luce del precedente verificatosi alla Camera nel 2002 e più sopra riportato. Un discorso a parte merita l’ipotesi, al centro del dibattito politico nelle ultime legislature, del conflitto d’interessi. Con questa formula s’indica la situazione di chi cumula una carica elettiva con un rilevante potere economico, per esempio nel campo dell’informazione. Tale potere economico, infatti, potrebbe preventivamente influire sulla libera formazione del consenso elettorale a favore del candidato e, successivamente, spingere quene di una proposta di rinvio degli atti alla Giunta relativamente ad una proposta di convalida. La proposta di rinvio venne respinta e, conseguentemente, l’elezione si ritenne convalidata.

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st’ultimo ad esercitare il mandato in funzione dei propri interessi personali. In Italia, per risolvere tale conflitto non è prevista una particolare disciplina.

4. Senatori di diritto e nomina dei senatori a vita Secondo l’art. 59, co. 1, Cost.: «È senatore di diritto e a vita, salvo rinunzia, chi è stato Presidente della Repubblica». Pertanto, ai fini dell’assunzione della carica senatoriale, di carattere vitalizio ed operante ope legis, non occorre l’accettazione ad opera dell’interessato ma soltanto la mancanza di un’espressa rinuncia. Qualora il mandato presidenziale si concluda per naturale scadenza del settennato, l’ex Presidente diventa senatore a partire dal momento in cui il nuovo Presidente eletto presta giuramento davanti al Parlamento in seduta comune. Se, invece, prima della naturale scadenza del mandato, il Presidente si dimette, diventa senatore a partire dal momento stesso in cui ha rassegnato le dimissioni. La disposizione prevista dall’art. 59, co. 2, secondo cui «Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario», potrebbe essere interpretata, in astratto, tanto nel significato di consentire comunque a ciascun Presidente della Repubblica, nel corso del suo mandato, di nominare cinque senatori a vita, quanto nel significato di consentire l’esercizio di tale potere soltanto nella misura risultante dal numero di senatori a vita, nominati da precedenti Presidenti della Repubblica, che già facciano parte del Senato e dunque addirittura di escluderlo qualora i senatori a vita siano già cinque. La scelta dell’interpretazione deve avvenire in questo caso ricorrendo all’ausilio di altre norme ricavabili dall’ordinamento giuridico, in particolare quelle che caratterizzano la figura, il ruolo e le funzioni del Capo dello Stato e soprattutto quelle che assegnano alle due Camere un carattere fondamentalmente elettivo, rispetto al quale ogni disposizione derogatoria, com’è quella in oggetto, deve essere interpretata in modo restrittivo. Sotto quest’ultimo aspetto, la necessità di limitare in via generale a non più di cinque il numero dei senatori di nomina presidenziale è particolarmente rilevante quando maggioranza e opposizione al Senato siano divise soltanto da pochi voti: in questo caso tanto maggiore sarà il numero dei senatori nominati dal Presidente della Repubblica, tanto maggiore sarà la possibilità che siano proprio i voti di questi ultimi a determinare l’esito di

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eventuali votazioni 6. Con ciò verificandosi la seguente inaccettabile conseguenza: che decisioni importanti di un organo rappresentativo del popolo e che opera in nome e per conto di esso siano in realtà determinate, sia pure indirettamente, da nomine operate da un organo, quale il Capo dello Stato, che non rappresenta il popolo e che non ha alcuna competenza in ordine alle scelte politiche delle Camere. Nella prassi l’interpretazione restrittiva dell’art. 59 è stata pacifica fino al 1984, quando l’allora Presidente della Repubblica Pertini, nonostante fossero in carica già cinque senatori a vita (dei quali tre nominati dallo stesso Pertini e due nominati dal suo predecessore), con il parere favorevole della Giunta per il regolamento del Senato, ne nominò altri due portando così a sette il numero complessivo; nello stesso modo si comportò il Presidente Cossiga, eletto alla scadenza del mandato presidenziale di Pertini, che procedette ad ulteriori nomine senatoriali. All’interpretazione restrittiva si è, invece, correttamente ritornati sotto le presidenze Scalfaro e Ciampi. Una diversa questione è quella relativa al se un singolo Presidente possa esercitare nel corso del suo mandato il potere di nomina di senatori a vita per un numero di volte superiore a cinque, qualora alcuni dei senatori già nominati dallo stesso Presidente siano venuti nel frattempo a mancare per decesso o per rinuncia, fermo restando il rispetto della condizione secondo la quale il numero dei senatori a vita facenti parte del Senato non può essere superiore a cinque. Il caso si è verificato finora una sola volta nel corso del mandato del Presidente Einaudi, il quale esercitò il suddetto potere di nomina per otto volte, avendo dovuto procedere a tre nomine aggiuntive per sostituire Toscanini, che aveva rinunciato alla nomina, ed i senatori Trilussa (il vero nome era Salustri) e Castelnuovo successivamente deceduti. La risposta sembra dover essere positiva alla luce della conclusione, in precedenza raggiunta, secondo la quale il numero dei senatori a vita facenti parte del Senato non può essere superiore a cinque. Tale limite è l’unico posto dall’art. 59 ed esso evidentemente non riguarda l’esercizio del potere di nomina presidenziale – vale a dire quante volte un singolo Presidente possa esercitarlo nel corso del suo mandato – bensì gli effetti di tale esercizio, effetti che non possono essere tali da determinare la presenza nel Senato di un numero di senatori, nominati dal Presidente della Repubblica, su6

Emblematica, in questo senso, fu l’elezione del Presidente del Senato, avvenuta nel 1996, quando il senatore Scognamiglio, candidato del Polo, prevalse per un solo voto nei confronti del senatore Spadolini, candidato dell’Ulivo.

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periore a cinque. Il riflesso del limite in questione sull’esercizio del potere di nomina è soltanto indiretto e nulla ha a che vedere con la questione esaminata: il concreto esercizio del potere di nomina da parte di un singolo Presidente, infatti, produce conseguenze soltanto nei confronti dei successivi Presidenti, il potere di nomina dei quali risulta condizionato dal numero di senatori a vita nominati dal loro predecessore ed ancora facenti parte del Senato. All’epoca dell’ultimo governo Prodi di centro-sinistra (2006-2008), la maggioranza a sostegno del governo, che era estremamente esigua al Senato a seguito del voto popolare disciplinato dalla L. n. 270/2005, venne spesso raggiunta soltanto grazie al voto determinante di alcuni senatori a vita. Da parte dell’opposizione di centro-destra venne contestata la legittimità di tale operazione sostenendosi che le deliberazioni di un organo rappresentativo del popolo, qual è il Senato, non possono essere determinate dal voto di senatori non eletti dal popolo stesso. L’argomento addotto in precedenza per sostenere l’interpretazione restrittiva dell’art. 59, co. 2, Cost. non sembra di per sé valere in questo caso perché la fattispecie di riferimento è diversa: allora si trattava di stabilire quale fosse l’estensione del potere di nomina dei senatori a vita da parte dei singoli Presidenti della Repubblica; adesso si tratta di stabilire se la posizione dei senatori a vita, in ordine ai loro poteri e doveri istituzionali e con particolare riguardo all’esercizio del diritto di voto, sia uguale o diversa rispetto a quella dei senatori eletti. Sotto quest’aspetto non vi è alcun dubbio che nessuna norma prevista dalla Costituzione differenzia la posizione delle due “categorie” di senatori, né confacente sembra essere l’eventuale ricorso all’art. 1, co. 2, Cost., poiché, se è incontestabile che l’elezione delle Camere rappresenta la forma massima di espressione della sovranità popolare solennemente affermata dalla citata disposizione costituzionale, è altrettanto vero che questa stessa disposizione, altrettanto solennemente, disciplina l’esercizio della sovranità popolare nelle forme e nei limiti della Costituzione. Ed uno dei suddetti limiti è posto, per l’appunto, dall’art. 59, co. 2, Cost., in base al quale il Senato, a differenza della Camera dei deputati, è organo non esclusivamente rappresentativo della volontà popolare. Infine, da un punto di vista pratico, una volta ammesso – e non potrebbe essere altrimenti – che ai senatori a vita, in quanto membri a tutti gli effetti del Senato, spetta in generale il diritto di voto, sarebbe estremamente difficile – oltre che illegittimo come si è cercato fin qui di chiarire – il tentativo di differenziare, in relazione alla loro valenza politica, le diverse occasioni nelle quali il suddetto diritto viene esercitato. Ad esempio, sarebbe

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impossibile distinguere il voto dei senatori a vita da quello dei senatori eletti in tutti i casi nei quali disegni di legge del Governo, anche di forte valenza politica ed oggetto di accesa contestazione in sede parlamentare da parte dell’opposizione, siano votati a scrutinio segreto. Né limitazioni al voto dei senatori a vita sarebbero ipotizzabili, sempre richiamandosi all’art. 1, co. 2, Cost., quando il Senato sia chiamato a votare la questione di fiducia al Governo poiché tale competenza non spetta al popolo bensì alle due Camere come testualmente recita l’art. 94, co. 1, Cost. Disposizione, quest’ultima, che rappresenta un ulteriore limite all’esercizio della sovranità popolare in conformità di quanto disposto dallo stesso art. 1.

5. Gli organi delle Camere: Assemblee, Presidenti, Uffici di presidenza, Gruppi, Commissioni, Giunte, Conferenza dei Presidenti di Gruppo Le Camere sono organi collegiali complessi le cui componenti, previste e disciplinate dalla Costituzione e dai regolamenti parlamentari sono: Assemblee, Presidenti, Uffici di presidenza, Gruppi, Commissioni, Giunte, Conferenza dei Presidenti di Gruppo. Un ruolo chiave nell’organizzazione e nella guida dei lavori parlamentari è svolto dai due Presidenti delle Assemblee ai quali spetta dirigere e regolamentare i lavori dell’Assemblea. Secondo quanto dispone l’art. 8 reg. Camera, «Il Presidente dà la parola, dirige e modera la discussione, mantiene l’ordine, pone le questioni, stabilisce l’ordine delle votazioni, chiarisce il significato del voto e ne annunzia il risultato». Inoltre, secondo quanto previsto dalla Costituzione, il Presidente del Senato ha funzioni di supplenza del Capo dello Stato (art. 86 Cost.), il Presidente della Camera presiede il Parlamento in seduta comune (art. 63, co. 2, Cost.), entrambi devono essere consultati in caso di scioglimento anticipato delle Camere (art. 88 Cost.). L’art. 8 reg. Senato attribuisce espressamente al Presidente il potere di «giudicare della ricevibilità dei testi»; nel regolamento della Camera manca una disposizione equivalente ma non vi è alcun dubbio sulla spettanza al Presidente della Camera del suddetto potere, sia sulla base di una prassi univoca in tal senso, sia sulla base di un’interpretazione analogica dell’art. 89 reg. Camera, secondo il quale «il Presidente ha facoltà di negare l’accettazione e lo svolgimento di ordini del giorno, emendamenti o articoli aggiuntivi che siano formulati con frasi sconvenienti» 7. 7

Sui poteri dei Presidenti in relazione al procedimento legislativo cfr. cap. 6; con riferimento al sindacato ispettivo cfr. cap. 7.

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I regolamenti parlamentari prevedono per l’elezione alla carica di Presidente ampie maggioranze per garantire che egli sia il più possibile imparziale. In particolare, l’art. 4 reg. Camera richiede la maggioranza dei due terzi nei primi tre scrutini (dal secondo scrutinio vengono computati tra i voti anche le schede bianche) e la maggioranza assoluta a partire dalla quarta votazione; l’art. 4 reg. Senato prevede la maggioranza assoluta nelle prime due votazioni, la maggioranza dei presenti nel terzo scrutinio e quindi il ballottaggio fra i due candidati che abbiano ottenuto il maggior numero di voti. A tal fine, secondo una convenzione seguita fino al 1994, una delle due presidenze dell’Assemblea veniva affidata ad un esponente del maggior partito di opposizione. A partire dalla XII legislatura, la prima dopo l’introduzione del sistema maggioritario, i due Presidenti sono, invece, esponenti della maggioranza parlamentare. Attualmente la situazione è fluida come è dimostrato dal fatto che il Presidente della Camera (Roberto Fico) appartiene alla maggioranza di Governo (M5S) mentre il Presidente del Senato (Maria Elisabetta Alberti Casellati) appartiene allo schieramento di centro-destra che non fa parte della maggioranza di Governo. Con i Presidenti di ciascuna Camera collaborano l’Ufficio di Presidenza alla Camera e il Consiglio di Presidenza al Senato; entrambi sono composti da quattro VicePresidenti, tre questori ed otto segretari. In particolare, i VicePresidenti coadiuvano il Presidente e lo sostituiscono in caso di assenza o impedimento (art. 9 reg. Camera ed art. 9 reg. Senato); i VicePresidenti curano collegialmente il buon andamento dell’amministrazione, sovrintendono alle spese e al mantenimento dell’ordine nella sede della Camera, secondo le disposizioni del Presidente; predispongono il progetto di bilancio e il conto consuntivo (art. 10 reg. Camera e art. 10 reg. Senato); i segretari sono preposti alla redazione del processo verbale ed alle operazioni di voto (art. 11 reg. Camera ed art. 11 reg. Senato). Estremamente importanti per i lavori delle Camere sono i Gruppi parlamentari, unioni di parlamentari che, grosso modo, rispecchiano i partiti che hanno partecipato alle elezioni. I Gruppi sono formati da un numero minimo di 20 deputati alla Camera e di 10 senatori al Senato. Tutti i parlamentari, pochi giorni dopo la prima riunione delle Camere, devono dichiarare a quale Gruppo vogliono appartenere. I parlamentari che non aderiscono a nessun Gruppo entrano a far parte del cosiddetto “Gruppo misto”, in cui confluiscono non soltanto i parlamentari non direttamente legati ad un determinato partito, ma anche tutti quelli che, pur appartenendo ad un determinato partito, non riescono a raggiungere la consistenza numerica prevista per diventare un Gruppo autonomo e quelli che, nel

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corso della legislatura, decidono di abbandonare il proprio Gruppo. Ciascun Gruppo ha un suo Presidente che lo rappresenta e ne esprime la volontà, come emerge chiaramente non solo dalla discussione in Assemblea ma anche dall’organizzazione dei lavori della stessa, il cui calendario è determinato dalla Conferenza dei Presidenti dei Gruppi e dal Presidente dell’Assemblea. A differenza di quanto avviene alla Camera – ove la scelta di appartenere ad un determinato gruppo è libera – il nuovo testo dell’art. 14 reg. Senato stabilisce un rapporto stretto tra il risultato elettorale e la formazione dei gruppi parlamentari, disponendo che il gruppo «deve rappresentare un partito o movimento politico, anche risultante dall’aggregazione di più partiti o movimenti politici, che abbia presentato alle elezioni del Senato propri candidati con lo stesso contrassegno, conseguendo l’elezione di senatori». Accanto ai Gruppi, articolazioni fondamentali per i lavori del Parlamento sono le Commissioni parlamentari permanenti (14 sia alla Camera che al Senato) alle quali sono assegnati i membri di ciascuna Camera in modo tale da rispettare la proporzione tra i vari Gruppi parlamentari che compongono l’Assemblea. Il principio di proporzionalità è espressamente previsto da norme costituzionali soltanto per la composizione delle commissioni in sede deliberante (art. 72, co. 3) e delle commissioni d’inchiesta (art. 82, co. 2); pertanto, stante l’autonomia regolamentare, ciascuna Camera ha diversamente interpretato la garanzia della proporzionalità applicabile nelle altre commissioni. Alla Camera, ciascun Gruppo parlamentare distribuisce i propri componenti nelle 14 commissioni; qualora il numero dei componenti il Gruppo sia inferiore a 14, esso non potrà essere rappresentato in tutte le commissioni, in quanto nessun deputato può appartenere contemporaneamente a più commissioni; qualora la composizione numerica del Gruppo non sia multipla di 14, il Presidente della Camera distribuisce gli eventuali deputati “residui” in modo tale da rispettare la proporzione dei vari Gruppi (art. 19, co. 1 e 2, reg. Camera). Al Senato, invece, l’applicazione meno rigorosa del principio di proporzionalità garantisce una maggiore rappresentatività di tutti i Gruppi, compresi quelli minori, eventualmente assenti nella corrispondente commissione della Camera. Infatti, qualora la composizione numerica del Gruppo sia inferiore al numero delle commissioni, è possibile che uno stesso senatore venga designato in non più di tre commissioni, in modo tale da garantire la rappresentanza dei Gruppi nel maggior numero possibile di commissioni (art. 21, co. 1, 2 e 3, reg. Senato). Inoltre, in entrambe le Camere è prevista la possibilità di istituire com-

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missioni speciali, ossia commissioni create per un determinato affare. Nelle commissioni, che sono individuate sulla base delle materie di competenza, si svolge la maggior parte del lavoro parlamentare che non viene svolto in Assemblea. Esse esercitano sia funzioni legislative 8, sia funzioni di indirizzo e controllo nei confronti del Governo 9, sia funzioni di informazione e di acquisizione di dati 10. Oltre alle commissioni presenti in ciascuna camera, possono essere istituite commissioni bicamerali, formate in numero uguale da deputati e senatori. La Costituzione prevede espressamente la Commissione bicamerale per le questioni regionali (art. 126), ma con legge ordinaria sono state istituite altre commissioni bicamerali: la Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, creata con la L. n. 103/1975, che svolge funzioni di controllo sull’informazione svolta dal servizio pubblico; la Commissione per il controllo degli interventi nel Mezzogiorno, prevista dalla L. n. 183/1976, alla quale è affidato sia il controllo sulla programmazione e sull’attuazione degli interventi ordinari e straordinari nel mezzogiorno, sia il compito di esprimere pareri sulla coerenza degli atti legislativi all’esame alle due Camere con le esigenze di sviluppo del Meridione; il Comitato sui servizi di informazione e sicurezza, istituito dalla L. n. 801/1977, cui competono compiti di vigilanza sull’applicazione dei principi stabiliti dalla legge stessa. Oltre alle commissioni di inchiesta monocamerali – istituite da ciascuna Camera e composte soltanto da parlamentari appartenenti alla stessa – previste dall’art. 82 Cost., possono essere istituite con legge ordinaria commissioni d’inchiesta bicamerali, i cui componenti sono sia deputati, sia senatori 11. Nelle ultime legislature, inoltre, le leggi di delega e di delegificazione hanno previsto l’istituzione di commissioni bicamerali con il compito di esaminare gli schemi di decreti legislativi e di regolamenti in delegificazione, adottati in esecuzione della delega o della delegificazione: la Commissione parlamentare consultiva in materia di riforma fiscale (L. n. 662/1996); la Commissione parlamentare consultiva in ordine alla riforma del bilancio statale (L. n. 94/1997); la Commissione parlamentare consultiva in ordine all’attuazione della riforma amministrativa (la c.d. «bicameralina», L. n. 59/1997). Accanto alle Commissioni parlamentari, altri organi collegiali sono le

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Si veda il cap. 6. Si veda il cap. 7. 10 Si veda il cap. 8. 11 Per quanto riguarda il ruolo e le funzioni svolte da tali commissioni cfr. cap. 7. 9

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Giunte, i cui membri sono nominati direttamente dal Presidente dell’Assemblea, appena costituiti i Gruppi parlamentari. Alla Camera è prevista una Giunta per il regolamento, una Giunta per le elezioni ed una per le autorizzazioni a procedere (artt. 16-18-quater reg. Camera). Al Senato, invece, accanto alla Giunta per il regolamento è prevista la sola Giunta per le elezioni e le immunità parlamentari con il compito sia di verificare le elezioni, sia di decidere in ordine alle immunità parlamentari (artt. 17-19 reg. Senato). La Giunta per il regolamento propone all’Assemblea le modificazioni e le integrazioni del regolamento stesso, fornisce pareri sull’interpretazione delle norme regolamentari, risolve i conflitti di competenza tra le commissioni qualora il Presidente non vi provveda personalmente. La Giunta delle elezioni riferisce all’Assemblea sulla regolarità delle operazioni elettorali e sui titoli di ammissione dei parlamentari, formulando le relative proposte di convalida, di annullamento o di decadenza. Alla Giunta per le autorizzazioni a procedere spetta, invece, il compito di proporre all’Assemblea, entro 30 giorni dalla trasmissione fatta dal Presidente della Camera, la concessione o il diniego delle autorizzazioni previste dal co. 2 e 3 dell’art. 68 Cost. Infine, la Conferenza dei Presidenti di Gruppo, introdotta nel 1951 e derivata da un analogo istituto francese, è convocata dal Presidente della Camera, ogniqualvolta lo ritenga utile, anche su richiesta del Governo o di un Presidente di Gruppo e si riunisce per esaminare lo svolgimento dei lavori dell’Assemblea e delle Commissioni (art. 13 reg. Camera). Nel regolamento del Senato la Conferenza dei Presidenti di Gruppo non è disciplinata da una norma ad hoc, ma la sua presenza risulta nella parte in cui tale regolamento attribuisce ad essa la competenza in ordine all’approvazione del programma e del calendario dei lavori dell’Assemblea, predisposti dal Presidente (art. 53, co. 1, reg. Senato) e all’organizzazione della discussione del disegno di legge europea e della relazione annuale sulla partecipazione dell’Italia all’Unione europea (artt. 55, co. 5 e 144-bis reg. Senato). Pertanto, le funzioni tipiche della Conferenza consistono nella programmazione ed organizzazione dei lavori parlamentari, al fine di risolvere problemi dettati dalla lentezza delle procedure e dall’eventuale ostruzionismo delle forze politiche. Oltre a tali compiti, la Conferenza esercita funzioni atipiche ed aggiuntive, ad essa assegnate dal Presidente dell’Assemblea, soprattutto in ordine a questioni politico-parlamentari particolarmente rilevanti, concernenti, ad esempio, i meccanismi di adeguamento dell’indennità parlamentare e le limitazioni delle missioni all’estero 12.

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Sulla programmazione ed organizzazione dei lavori parlamentari si veda cap. 4, par. 2.

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6. La durata delle Camere: la legislatura, la proroga, la prorogatio, lo scioglimento anticipato Per legislatura s’intende la durata in carica delle Camere tra un’elezione e l’altra: tale periodo è normalmente di cinque anni, secondo quanto statuisce l’art. 60, co. 1, Cost., ma può essere abbreviato in caso di scioglimento anticipato di una o di ambedue le Camere da parte del Presidente della Repubblica ovvero allungato in caso di proroga delle stesse. Nella corrente terminologia giuridica, l’istituto previsto dall’art. 60, co. 2, secondo cui «La durata di ciascuna Camera non può essere prorogata se non per legge e soltanto in caso di guerra», viene denominato “proroga”, mentre l’istituto di cui all’art. 61, per differenziarlo dal precedente, viene denominato con il termine latino “prorogatio”. Tale articolo dispone che «Le elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro settanta giorni dalla fine delle precedenti. La prima riunione ha luogo non oltre il ventesimo giorno dalle elezioni. Finché non siano riunite le nuove Camere sono prorogati i poteri delle precedenti». Le differenze tra i due istituti possono così riassumersi: a) la proroga deve essere istituita con legge mentre la prorogatio opera automaticamente dal giorno successivo alla scadenza di ogni legislatura; b) la proroga è un istituto eccezionale che può essere attivato soltanto in caso di guerra mentre la prorogatio è un istituto ordinario che evita un vuoto di potere delle Camere tra un’elezione e l’altra; c) la durata della proroga è a priori indeterminata e soltanto a posteriori determinabile poiché essa dipende dalla durata della guerra; la durata della prorogatio è predeterminata in relazione all’entrata in funzione delle Camere neo-elette (art. 61, co. 1: «La prima riunione ha luogo non oltre il ventesimo giorno dalle elezioni»); d) in regime di proroga le Camere rimangono nella pienezza dei loro poteri, fatti salvi quelli straordinari da esse conferiti al Governo ai sensi dell’art. 78; in regime di prorogatio, la prassi è nel senso di una deminutio potestatis delle Camere, ovvero di un depotenziamento relativo non alla sfera di competenza ma esclusivamente alla possibilità di esercizio di alcune funzioni. Si ritiene, pertanto, che esse possano adottare soltanto gli atti urgenti (ad es. la conversione in legge di decreti-legge adottati dal Governo ai sensi dell’art. 77, co. 2, Cost., ovvero il disegno di legge di autorizzazione alla ratifica di un trattato internazionale che preveda un termine tassativo di decadenza) e gli atti dovuti (ad es. l’approvazione della legge di bilancio).

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Secondo quanto dispone l’art. 88 Cost. «Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse. Non può esercitare tale facoltà negli ultimi sei mesi del suo mandato, salvo che essi coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura». Il potere di scioglimento anticipato delle Camere è sottoposto ad una serie di limiti sia rinvenibili nel testo dell’art. 88, sia desumibili dalla posizione del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano. Occorre, infatti, tenere ben presente che, nell’attuale forma di governo parlamentare, il Capo dello Stato è organo imparziale, per definizione privo di un proprio indirizzo politico, al quale spettano, per contro, importanti funzioni di stimolo e di controllo nei confronti degli altri organi costituzionali. In particolare, il Presidente della Repubblica ha il compito di risolvere le crisi del sistema, di sbloccarlo quando si sia inceppato, e lo strumento di ultima istanza al quale ricorrere – vale a dire quando tutti gli altri possibili rimedi abbiano fallito – è per l’appunto il potere di scioglimento anticipato delle Camere. La situazione italiana non è paragonabile a quella inglese nella quale, vigendo un sistema maggioritario secco ed un regime bipartitico, la scelta di procedere allo scioglimento anticipato delle Camere spetta sostanzialmente al Capo del Governo, quando questi ritenga che nuove elezioni possano favorire il proprio partito. L’individuazione dei cosiddetti limiti sostanziali del potere di scioglimento deve perciò necessariamente compiersi nel quadro dei concetti di cui sopra. I limiti del potere di scioglimento anticipato delle Camere possono suddistinguersi in limiti procedurali, temporali e sostanziali. Il limite procedurale, previsto dall’art. 88, consiste nell’obbligo per il Presidente della Repubblica di acquisire il parere dei Presidenti delle due Camere in ordine all’opportunità dello scioglimento. Tale parere non è vincolante, né preclude la possibilità per il Capo dello Stato di ascoltare, sia pure informalmente, qualsiasi soggetto ritenuto utile allo scopo. Il limite temporale, anch’esso previsto dall’art. 88, vieta l’esercizio del potere di scioglimento anticipato negli ultimi sei mesi del mandato presidenziale (cosiddetto semestre bianco). La spiegazione, che sembra più plausibile, di tale norma risiede nella preoccupazione di evitare che un Presidente della Repubblica, desideroso di essere rieletto ma poco fiducioso in tal senso a causa della composizione politica delle Camere in quel momento, si serva del potere di scioglimento anticipato nella speranza che la composizione delle Camere neo-elette gli sia più favorevole. Nel 1991, il co. 2 dell’art. 88 fu modificato, nel testo oggi vigente, escludendosi l’operatività del divieto suddetto nell’ipotesi in cui gli ultimi sei mesi del mandato

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presidenziale coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura: ciò allo scopo, che non richiede particolari spiegazioni, di evitare un “ingorgo istituzionale” (come stava per accadere nel 1992). I limiti sostanziali sono abbastanza numerosi ed alcuni di essi sono anche di difficile definizione, se non addirittura contestati in radice da una parte della dottrina. La sola ipotesi sicura è quella relativa all’impossibilità di formare il Governo: quando il Presidente della Repubblica accerta attraverso le sue consultazioni che le Camere non sono politicamente in grado di esprimere alcuna maggioranza tale da consentire la nomina di un Governo, lo scioglimento anticipato diventa un atto dovuto per consentire al circuito costituzionale Capo dello Stato – Parlamento – Governo di riprendere a funzionare. Un’altra ipotesi di sistema inceppato è quella dell’impossibilità di funzionamento delle Camere ma in questo caso sorge quel problema di definizione ulteriore al quale si era accennato in precedenza: in concreto, quali possono essere le situazioni in grado di determinare l’impossibilità di funzionamento delle Camere? Alla luce dell’attuale sistema elettorale è del tutto improbabile che le Camere abbiano una composizione politica talmente diversificata tra di esse, tale da impedire l’approvazione di leggi indispensabili, quale ad es. la legge di bilancio. Né è più realistico immaginare forme, anche esasperate, di ostruzionismo parlamentare tali da bloccare l’attività dell’una o dell’altra Camera poiché gli attuali regolamenti parlamentari prevedono oramai norme in grado di ridurre notevolmente l’efficacia dell’ostruzionismo. Più delicata è l’ipotesi della mancata elezione da parte del Parlamento in seduta comune dei cinque giudici della Corte costituzionale o dei membri laici del Consiglio superiore della magistratura, anche se non è da escludere la diversa soluzione del ricorso alla stessa Corte costituzionale per conflitto tra poteri dello Stato, assumendosi che il mancato esercizio di una competenza propria del Parlamento in seduta comune lede la capacità di esercitare le competenze di altri due organi (Corte e CSM). Un’altra ipotesi è poi quella della sopravvenuta mancanza di rappresentatività delle Camere nei confronti del popolo sovrano; ma anche qui sorgono gli stessi problemi d’individuazione concreta che si erano evidenziati nell’ipotesi precedente. Non sembra sufficiente un eventuale risultato di pur diffuse elezioni amministrative contrario alla maggioranza che sostiene il Governo in carica perché non è per niente detto (e l’esperienza italiana lo dimostra) che vi sia necessariamente coincidenza di risultati tra elezioni amministrative ed elezioni politiche. Né tantomeno è sufficiente l’eventuale passaggio di una forza politica (Lega Nord nel 1995) dalla coalizione

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vincitrice a quella che aveva perso e che quindi diventa maggioranza perché, tralasciando per brevità altre possibili obiezioni, si dimenticherebbe l’art. 67 Cost., secondo il quale ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato: ne consegue che il “trasformismo” parlamentare non è sindacabile sotto il profilo giuridico ma soltanto, eventualmente, sotto quello politico da parte del popolo al momento dello svolgimento delle nuove elezioni. Ancora, non sembra egualmente sufficiente l’eventuale abrogazione mediante referendum popolare ex art. 75 Cost. di una seppur importante legge approvata dalle Camere durante la legislatura in corso, perché il dissenso del popolo su uno specifico provvedimento non significa automaticamente sfiducia generalizzata nei confronti delle Camere che quel provvedimento avevano approvato; la conclusione sarebbe diversa (ma l’ipotesi è di pura scuola) qualora l’abrogazione da parte del popolo riguardasse non una sola bensì tutta una serie di leggi approvate dalle Camere in carica. Infine, occorre ricordare un’ipotesi di scioglimento anticipato cosiddetto tecnico – verificatasi nel 1953, nel 1958 e nel 1963 – quando la Costituzione prescriveva per il Senato una durata maggiore (sei anni) di quella della Camera (cinque anni). L’esigenza, condivisa da tutte le forze politiche, di evitare due tornate elettorali (con duplicazione delle spese per le relative campagne) ad una così breve distanza ha portato allo scioglimento del solo Senato, anticipato di un anno rispetto alla normale durata di sei anni, in tal modo conseguendosi lo scopo di far coincidere le elezioni di entrambe le Camere. Oggi il problema non si pone più poiché nel 1963 l’art. 60 Cost. è stato modificato con la L. cost. n. 2 che ha unificato la durata di entrambe le Camere in cinque anni.

7. L’autonomia costituzionale delle Camere con riferimento al momento applicativo delle norme regolamentari: in particolare, l’autonomia contabile ed il principio di autodichia (rinvio al par. successivo) Il principio dell’autonomia costituzionale attribuito dall’art. 64 Cost. a ciascuna Camera non si realizza soltanto attraverso la riserva di competenza relativa all’approvazione del proprio regolamento ma ricomprende altresì la scelta delle misure atte ad assicurare l’osservanza delle stesse norme regolamentari, in tal senso comportando «di necessità, la sottrazione a qualsiasi giurisdizione degli strumenti intesi a garantire il rispetto del diritto parlamentare». Tale radicale affermazione è contenuta nella sent. n. 379/1996 della

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Corte costituzionale, adottata in riferimento ad un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, elevato dalla Camera dei deputati nei confronti dell’autorità giudiziaria, contro il provvedimento con cui era stata dichiarata la non applicabilità dell’art. 68, co. 1, Cost., e disposta la trasmissione alla Presidenza della Camera dei deputati degli atti del procedimento penale a carico di due deputati. Questi ultimi erano indagati perché si erano falsamente attribuiti la qualifica e l’identità di altri parlamentari ed avevano partecipato alle operazioni di voto attestando falsamente la presenza e l’espressione del voto da parte di due deputati non presenti in Aula 13. La sent. n. 379 contiene uno dei riconoscimenti più compiuti dell’autonomia del diritto parlamentare dall’ordinamento giuridico generale che la storia della giurisprudenza costituzionale ricordi. Per assicurare l’improcedibilità contro i due ex deputati, infatti, la Corte non ricorre, se non in termini marginali, alla tradizionale lettura estensiva della prerogativa parlamentare dell’insindacabilità 14, bensì riesce a sottrarre i fatti contestati al sindacato del giudice penale sin dalla ricostruzione sistematica del quadro costituzionale di riferimento. A fronte dell’ordinanza del g.i.p. che dispone la trasmissione degli atti del procedimento alla Camera di appartenenza dei due ex parlamentari, per la valutazione della sussistenza dei requisiti di cui al co. 1 dell’art. 68 Cost., la Camera solleva il conflitto di attribuzione deducendo la propria esclusiva competenza nella valutazione del comportamento dei parlamentari durante le votazioni. La Camera propone quindi una “ricostruzione unitaria” degli artt. 64, 70 e 72 Cost., invocando, a tutela dell’esercizio della funzione legislativa, il pieno riconoscimento del proprio esclusivo sindacato sul procedimento parlamentare in tutti i suoi risvolti, anche in riferimento ad eventuali comportamenti dei deputati in contrasto con disposizioni di legge o regolamentari. La Corte accoglie in pieno questa impostazione mediante una valutazione del quadro costituzionale atto di per sé a garantire «il libero agire del Parlamento nell’ambito suo proprio e l’esclusiva competenza di ciascuna Camera a prevedere ed attuare i rimedi contro gli atti e i comportamenti che incidano negativamente sulle funzioni dei singoli parlamentari e che

13 Si tratta dei cosiddetti “pianisti”, vale a dire quei parlamentari che, votando nel corso di una votazione a scrutinio elettronico non soltanto per sé ma anche per altri colleghi vicini di posto ma non presenti, premono i tasti, propri ed altrui, che determinano il voto (per l’appunto come se stessero suonando un pianoforte). 14 All’epoca era ancora vigente la norma costituzionale relativa alla necessità dell’autorizzazione, da parte della Camera di appartenenza, per sottoporre a procedimento penale un parlamentare.

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pregiudichino il corretto svolgimento dei lavori». Viene così escluso a priori il sindacato del giudice penale, senza dover ricorrere esplicitamente – se non in un obiter dictum – alla tradizionale ricostruzione dei conflitti di attribuzione in riferimento alle prerogative parlamentari. Se la ratio di questi ultimi viene infatti individuata nel tentativo di contemperare il principio di eguaglianza con quello di autonomia delle Assemblee rappresentative, la Corte viene ora invece ad operare un fortissimo riconoscimento dell’indipendenza delle Camere, non circoscritta alla riserva di regolamento parlamentare di cui all’art. 64 Cost., ma estesa al «momento applicativo delle norme regolamentari» che, come rilevato all’inizio, «include la scelta delle misure atte ad assicurarne l’osservanza e comporta, di necessità, la sottrazione a qualsiasi giurisdizione degli strumenti intesi a garantire il rispetto del diritto parlamentare». La sentenza illustrata è soltanto l’ultima e più esplicita decisione rispetto ad altre precedenti, sia pure relative ad aspetti specifici dell’autonomia costituzionale di ciascuna Camera. Con la sent. n. 129/1981, escludendo la possibilità da parte della Corte dei conti di sottoporre a giudizio contabile i tesorieri di Camera e Senato, la Corte costituzionale, riprendendo un’affermazione già contenuta incidentalmente nella motivazione della sent. n. 143/1968 15, aveva dilatato il concetto di autonomia degli organi costituzionali, affermando che essa non si esaurisce nell’autonomia regolamentare ma include anche il momento applicativo delle norme stesse, cosicché l’esenzione dal giudizio contabile rappresenta il riflesso di quell’autonomia, che verrebbe altrimenti dimezzata dall’attivazione di corrispondenti rimedi amministrativi ed anche giurisdizionali. In particolare la Corte, giustificando la suddetta esenzione dal giudizio contabile sulla base di una consuetudine costituzionale, formatasi sotto lo Statuto albertino e non interrotta dall’instaurazione dell’ordinamento repubblicano, precisava che tale consuetudine si richiama, integrandolo e specificandolo, al principio costituzionale dell’autonomia di cui godono, nella fattispecie, i due rami del Parlamento. L’altra fattispecie che viene fatta rientrare nella copertura dell’autonomia costituzionale è quella relativa alla cosiddetta “autodichia” o “giustizia domestica”. Tale argomento, per la sua ampiezza, verrà trattato in modo specifico nel successivo par. 8.

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La Corte afferma che dal controllo della Corte dei conti «è esente l’attività di quegli organi, come il Capo dello Stato, il Parlamento e questa Corte, la cui posizione, ai vertici dell’ordinamento costituzionale, è di assoluta indipendenza».

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8. Le disposizioni dei regolamenti parlamentari che disciplinano il principio di autodichia. Gli argomenti a sostegno della illegittimità di tali disposizioni. La sent. 28 aprile 2009 Savino ed altri contro Italia della Corte europea dei diritti dell’uomo. Le sentt. nn. 120/2014 e 262/2017 della Corte costituzionale Con il termine “autodichia” o “giustizia domestica” ci si riferisce alla particolare situazione nella quale versano i dipendenti di alcuni organi costituzionali (Senato, Camera dei deputati, Corte costituzionale 16 e adesso anche la Presidenza della Repubblica 17) i quali, contro i provvedimenti 16 Il principio di autodichia riferito ai dipendenti della Corte costituzionale è argomento che, evidentemente, non rientra in una trattazione relativa al diritto parlamentare. Tuttavia, anche per meglio comprendere le possibili implicazioni di cui alla sent. n. 154/1985 della Corte costituzionale, non sembra inutile riportare qui, sia pure in sintesi, le disposizioni adottate dalla Corte per la disciplina del principio di autodichia al suo interno. I provvedimenti relativi al personale della Corte sono adottati, a seconda del caso, dall’Ufficio di Presidenza della Corte, dalla Corte stessa ovvero dal Segretario generale. L’art. 14, co. 3, della L. 11 marzo 1953, n. 62, stabilisce che «La Corte è competente in via esclusiva a giudicare sui ricorsi dei suoi dipendenti». La Corte, nell’esercizio della competenza regolamentare attribuitale dal co. 1 della legge citata, ha poi approvato, con delibera 16 dicembre 1999, il Regolamento per i ricorsi in materia di impiego del personale della Corte costituzionale. Secondo l’art. 2, co. 2, del suddetto regolamento, la Corte giudica sui ricorsi dei propri dipendenti con i poteri propri della giurisdizione esclusiva e con quelli della giurisdizione di merito in materia di sanzioni disciplinari; secondo il successivo co. 3, la Corte giudica sui ricorsi con l’intervento dei tre giudici più anziani che non fanno parte dell’Ufficio di Presidenza, né della Commissione di disciplina. Secondo l’art. 13-bis, «Avverso le decisioni pronunciate dalla Corte nella composizione prevista dall’art. 2, co. 3, è ammesso ricorso davanti alla Corte costituzionale in composizione ordinaria, che giudica senza la presenza dei tre giudici che hanno emesso la decisione impugnata». Come si vedrà più oltre, la Presidenza della Repubblica ha da ultimo radicalmente modificato le proprie norme relative alla composizione delle commissioni interne giudicanti assicurandone in tal modo il carattere di terzietà. 17 Mentre le sentt. nn. 3422/1988 e 12614/1998 della Corte di cassazione avevano escluso che il principio di autodichia potesse valere nei confronti dei dipendenti della Presidenza della Repubblica, la stessa Cassazione, applicando i criteri enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza Savino ed altri contro Italia, alla disciplina dell’autodichia introdotta dai decreti presidenziali nn. 81 e 89/1996 (e non applicabile, ratione temporis, alla fattispecie decisa nel 1998), con l’ordinanza delle Sez. Un. 17 marzo 2010, n. 6592 ha ribaltato quanto deciso nel 1998, affermando la legittimità del principio di autodichia, così come disciplinato dai suddetti decreti ed il conseguente difetto assoluto di giurisdizione degli organi di giustizia amministrativa. Come successivamente verrà illustrato al termine di questo paragrafo, la Corte costituzionale ha confermato la sussistenza dell’autodichia nei confronti della Presidenza della Repubblica, pur in mancanza di una esplicita norma costituzionale attributiva di tale potere. Inoltre, come già ricordato alla nota precedente, la Presidenza della Repubblica ha da ultimo radicalmente modificato le proprie norme relative

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adottati dalle rispettive amministrazioni relativi al loro trattamento economico o al loro stato giuridico, possono ricorrere soltanto di fronte ad organi interni alle suddette amministrazioni, con esclusione della possibilità di successivi ricorsi di fronte a giudici esterni. Varie vicende si sono susseguite in questi anni nei confronti dell’autodichia, sia sul piano normativo, sia su quello giurisprudenziale. Per una maggiore chiarezza conviene, pertanto, illustrarle partendo dall’inizio. Per quanto concerne la Camera dei deputati, l’art. 12, reg. Camera, stabilisce che «l’Ufficio di Presidenza adotta i regolamenti e le altre norme concernenti … d) lo stato giuridico, il trattamento economico e di quiescenza e la disciplina dei dipendenti della Camera, ivi compresi i doveri relativi al segreto d’ufficio; e) i criteri per l’affidamento a soggetti estranei alla Camera di attività non direttamente strumentali all’esercizio delle funzioni parlamentari, nonché i doveri di riservatezza e gli altri obblighi alla cui osservanza tali soggetti sono tenuti, anche nei confronti di soggetti estranei alla Camera; f) i ricorsi nelle materie di cui alla lettera d), nonché i ricorsi e qualsiasi impugnativa, anche presentata da soggetti estranei alla Camera, avverso gli altri atti di amministrazione della Camera medesima». Il Regolamento per la tutela giurisdizionale dei dipendenti, approvato dall’Ufficio di Presidenza il 28 aprile 1988 ai sensi del citato art. 12, disponeva (art. 1) che i dipendenti della Camera, per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi, possono ricorrere contro gli atti e i provvedimenti, anche di carattere generale, adottati dall’Amministrazione; analoga facoltà di ricorso è ammessa a favore dei terzi interessati dalle decisioni degli organi dell’Amministrazione concernenti procedure concorsuali per l’assunzione nei ruoli della Camera dei deputati. L’art. 3 istituiva la Commissione giurisdizionale per il personale con il compito di decidere in primo grado sui ricorsi di cui all’art. 1; la Commissione era nominata, entro quarantacinque giorni dall’inizio della legislatura, dal Presidente della Camera ed era composta di sei membri scelti mediante sorteggio da un elenco di deputati … designati rispettivamente dal Presidente della Camera, dal Segretario generale, nonché, d’intesa tra loro, dalle organizzazioni sindacali …; i suddetti deputati dovevano essere in possesso di uno dei seguenti requisiti: magistrato, anche a riposo, delle giurisdizioni ordinaria e amministrativa; professore universitario in materie giuridiche; avvocato; avvocato dello Stato o procuratore presso l’Avvocatura dello Stato, anche a riposo; non potevano far parte dell’elenco di cui sopra i membri in carica dell’Ufficio di Presialla composizione delle commissioni interne giudicanti assicurandone in tal modo il carattere di terzietà (v. oltre).

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denza della Camera. L’art. 6 istituiva la Sezione giurisdizionale dell’Ufficio di Presidenza, quale organo al quale ricorrere contro le decisioni della Commissione giurisdizionale; la Sezione, presieduta dal Presidente della Camera, era composta di quattro membri nominati, entro quarantacinque giorni dall’inizio della legislatura, dall’Ufficio di Presidenza fra i propri componenti su proposta del Presidente … Il Regolamento per la tutela giurisdizionale relativa agli atti di amministrazione della Camera dei deputati non concernenti i dipendenti, adottato dall’Ufficio di Presidenza della Camera con deliberazione 22 giugno 1999, n. 155, istituiva (art. 2) come organo di primo grado il Consiglio di giurisdizione, nominato con decreto del Presidente della Camera entro sessanta giorni dall’inizio della legislatura e composto di tre deputati in possesso degli stessi requisiti previsti per i membri della Commissione giurisdizionale per il personale; non potevano far parte del Consiglio i membri in carica dell’Ufficio di Presidenza della Camera. Avverso le decisioni del Consiglio si poteva ricorre alla Sezione giurisdizionale dell’Ufficio di Presidenza (art. 5). Nell’ottobre 2009 l’Ufficio di presidenza della Camera ha apportato importanti modifiche all’art. 12 del proprio regolamento, al Regolamento per la tutela giurisdizionale dei dipendenti e, di riflesso, al Regolamento per la tutela giurisdizionale relativa agli atti di amministrazione della Camera dei deputati non concernenti i dipendenti. Tuttavia, poiché tali modifiche sono state introdotte a seguito della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 28 aprile 2009 Savino ed altri contro Italia, che verrà esaminata più avanti, conviene rinviare a tale momento anche la semplice illustrazione del testo che le prevede. Per quanto concerne il Senato, l’art. 12, co. 1, reg. Senato, stabilisce che il Consiglio di Presidenza «approva i regolamenti interni dell’Amministrazione del Senato e adotta i provvedimenti relativi al personale stesso nei casi ivi previsti». Il principio di autodichia è contenuto nel «Testo unico delle norme regolamentari dell’amministrazione riguardanti il personale del Senato della Repubblica» 18. Secondo quanto disposto dal suddetto T.U. (art. 72, co. 8) la Commissione contenziosa decide in primo grado i ricorsi dei dipendenti del Senato e dei candidati alle prove concorsuali; essa si compone di tre senatori, un consigliere parlamentare ed un dipendente, nominati all’inizio 18 T.U. (aggiornato al 10 settembre 2009) nel quale è rifluito l’originario “Regolamento degli uffici e del personale”, approvato dal Consiglio di Presidenza del Senato il 18 dicembre 1987 ed emanato con Decreto del Presidente del Senato del 1° febbraio 1988, n. 6314.

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di ogni legislatura dal Presidente del Senato; (art. 85-bis) i suddetti senatori devono essere esperti in materie giuridiche, amministrative e del lavoro e devono avere uno dei seguenti requisiti: magistrato, anche a riposo, delle magistrature ordinaria e amministrative; professore universitario, ordinario o associato, in materie giuridiche, anche a riposo; avvocato dello Stato, anche a riposo; avvocato del libero foro; (art. 72, co. 13) non possono far parte della Commissione i componenti del Consiglio di Presidenza, i componenti del Consiglio dell’Amministrazione, del Consiglio di garanzia e del Consiglio di disciplina, i dipendenti assegnati al Servizio del Personale, nonché agli Uffici di segreteria della Commissione contenziosa e del Consiglio di garanzia. L’organo di appello (art. 75) è il Consiglio di garanzia, composto di cinque senatori, anch’essi nominati dal Presidente del Senato, in possesso degli stessi requisiti previsti per i senatori membri della Commissione contenziosa; l’incarico è incompatibile con quello di membro del Consiglio di Presidenza, della Commissione contenziosa e del Consiglio di disciplina. Infine, analogamente a quanto già previsto alla Camera dei deputati, il Regolamento sulla tutela giurisdizionale relativa ad atti e provvedimenti amministrativi non concernenti i dipendenti o le procedure di reclutamento, n. 180, approvato dal Consiglio di Presidenza il 5 dicembre 2009, ha attribuito la competenza sui ricorsi contro i suddetti atti agli stessi organi di cui sopra, sia pure in una composizione parzialmente diversa 19. La valutazione della legittimità delle citate disposizioni non sembra presentare particolari difficoltà, se si prescinde per un momento dal principio di autonomia costituzionale di cui godono le due Camere. È molto dubbio che gli organi in precedenza illustrati siano qualificabili, sotto il profilo soggettivo, come organi giurisdizionali, e, sotto il profilo oggettivo, come organi che esercitano comunque funzioni giurisdizionali. Manca il carattere della terzietà, poiché i componenti di tali organi sono nominati, rispettivamente, dai Presidenti della Camera o del Senato – che sono, con un’espressione civilistica, i legali rappresentati di quelle stesse amministrazioni contro le quali si ricorre – e poiché le decisioni di ultima istanza sono adottate o dallo stesso organo che ha adottato il provvedimento contro il quale si ricorre (l’Ufficio di Presidenza o una sua sezione specializzata nel caso della Camera) o da un organo formalmente distinto ma pur sempre nominato dal Presidente del Senato, sentito il Consiglio di Presidenza, e composto da senatori. Anche la Corte di cassazione, che in primo momento aveva qualificato 19

Cfr. l’art. 1, co. 2, del citato regolamento.

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l’autodichia parlamentare come un caso di giurisdizione speciale 20, ha successivamente negato che essa possa addirittura qualificarsi come giurisdizione, poiché il concetto di giurisdizione postula necessariamente la terzietà del giudice che, invece, manca per definizione in ogni ipotesi di autodichia 21. La stessa Corte costituzionale, del resto, ha avuto modo di affermare che la terzietà dell’organo giudicante è «attributo connaturale all’esercizio della funzione giurisdizionale» 22. Le disposizioni in esame violano, pertanto, l’art. 111, co. 2, Cost., secondo il quale «Ogni processo si svolge … in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale»; l’art. 113, co. 2, secondo il quale la «tutela giurisdizionale (contro gli atti della pubblica amministrazione di cui al co. 1) non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti»; l’art. 24 Cost., secondo il quale «Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi». Tuttavia, la questione si complica se il principio di autodichia parlamentare e le disposizioni regolamentari che vi danno attuazione vengono valutate alla stregua dell’art. 64 Cost., poiché si potrebbe sostenere che l’autonomia costituzionale garantita da tale norma ha una portata talmente ampia da giustificare l’ammissibilità di deroghe, per specifiche fattispecie, nei confronti dei principi di cui agli artt. 24, 111 e 113 Cost. Lo stesso varrebbe per la Corte costituzionale alla luce dello stesso principio di autonomia costituzionale oramai pacificamente riconosciutale. Non a caso, tale ragionamento è stato fatto proprio dalla Corte di cassazione che, ponendo a fondamento dell’autodichia parlamentare l’art. 64 Cost., ha ammesso la derogabilità degli artt. 24, 111 e 113 proprio in forza della citata disposizione costituzionale 23. Ci si troverebbe, pertanto, di fronte ad un possibile contrasto tra norme costituzionali e dunque alla necessità di procedere ad un bilanciamento dei valori che stanno alla base delle citate disposizioni costituzionali. In questo senso, più volte la Corte costituzionale ha qualificato come principi supremi il diritto alla difesa in giudizio ed il diritto ad una tutela giurisdizionale piena ed effettiva (sentt. nn. 18/1982, 232/1989, 315/1992, 148/1996, 26/1999, 29/2003), in quanto tali immodificabili da parte delle stesse leggi di revisione costituzionale ed in grado (i cosiddetti “controlimiti”) d’impedire l’ingresso nell’ordinamento italiano del diritto europeo con essi con20

Cfr. Cass., Sez. Un., 28 novembre 1985, n. 6943. Cfr. Cass., Sez. Un., 27 maggio 1999, n. 317 e 19 novembre 2002, n. 16267. 22 Cfr. la sent. n. 133/1962, in Giur. cost., 1963, 1477. 23 Cfr. Cass., Sez. Un., 10 giugno 2004, n. 11019 e 27 luglio 2004, n. 14085. 21

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trastante. Qualificazione che, invece, la Corte costituzionale non ha, almeno finora, attribuito al principio dell’autonomia camerale di cui all’art. 64 Cost. Il risultato del bilanciamento dovrebbe, pertanto, essere nel senso della prevalenza dei principi di cui agli artt. 24, 111 e 113 rispetto al principio di cui all’art. 64 e, conseguentemente, della illegittimità costituzionale delle norme regolamentari che prevedono il principio dell’autodichia nei confronti dei dipendenti di Camera e Senato e, a più forte ragione, nei confronti di terzi estranei. La soluzione indicata, tuttavia, è risultata nei fatti impraticabile poiché la Corte costituzionale, dopo qualche accenno del tutto incidentale al principio dell’autodichia nella motivazione delle sentt. nn. 143/1968 e 110/1970, con la notissima sent. n. 154/1985, chiude la porta alla possibilità di sindacare le norme dei regolamenti parlamentari sulla base della particolare posizione di “indipendenza guarentigiata” delle Camere. A seguito di tale sentenza, la magistratura, ritenendo nella fattispecie inammissibile la questione di legittimità costituzionale, si è dichiarata carente di giurisdizione nei confronti di ricorsi, addirittura proposti non da dipendenti parlamentari ma da terzi, contro atti della Camera dei deputati relativi a procedure di gara per l’aggiudicazione di taluni appalti 24. A fronte di tale situazione bloccata, il rimedio fu quello di un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, adducendosi la compressione del proprio diritto ad agire in giudizio, diritto solennemente proclamato dall’art. 6, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La compressione deriverebbe, infatti, dalla natura non giurisdizionale delle decisioni degli organi interni camerali, in quanto privi del requisito della terzietà richiesto dall’art. 111 Cost., nonché dalla sent. n. 154/1985 della Corte costituzionale e dalla conseguente carenza di giurisdizione del giudice (amministrativo o del lavoro, a seconda del caso) eventualmente adito successivamente all’espletamento dei ricorsi interni. Tuttavia, a giudizio della Corte europea, tale compressione, di per sé non illegittima, lo diventa quando il rapporto di proporzionalità, che deve sussistere tra lo scopo perseguito, in questo caso dall’art. 64 Cost. (l’autonomia di ciascuna Camera), ed i mezzi apprestati per garantirlo, non sia ragionevole. Spetterebbe dunque alla Corte europea, in via residuale, procedere a quel bilanciamento di valori che la Corte costituzionale ha evitato di compiere, adducendo la propria incompetenza a sindacare la legittimità costituzionale dei regolamenti parlamentari. 24

Cfr., ad esempio, le decisioni del T.A.R. Lazio 21 dicembre 1999, n. 3863 e 4 febbraio 2000, n. 698.

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Come si colloca la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Savino ed altri contro Italia nei confronti di quanto fin qui sostenuto? La risposta presuppone una breve illustrazione, in fatto ed in diritto, della suddetta sentenza. La Corte doveva decidere tre ricorsi presentati da alcuni dipendenti della Camera dei deputati e da alcuni partecipanti ad un concorso per l’assunzione in qualità di commesso presso la stessa Camera che non avevano superato le prove concorsuali. Nei tre casi, con separate decisioni la Commissione giurisdizionale aveva accolto in primo grado i ricorsi mentre in appello la Sezione giurisdizionale dell’Ufficio di Presidenza aveva annullato le suddette decisioni favorevoli ai ricorrenti. Questi ultimi avevano quindi fatto ricorso alla Corte di cassazione che, con la già citata sentenza del 2004 25, aveva ritenuto irricevibili i ricorsi sulla base dell’art. 64 Cost. e della sent. n. 154/1985 della Corte costituzionale. I ricorrenti si erano pertanto rivolti alla Corte europea dei diritti dell’uomo sostenendo che i due organi decidenti della Camera non sono tribunali costituiti per legge e non sono indipendenti ed imparziali come dispone la Convenzione. Lamentano, inoltre, di non aver potuto adire un “tribunale” ai sensi dell’art. 6, par. 1, della Convenzione, che dispone quanto segue: «Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente … da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile …». In via preliminare, la Corte accerta, in primo luogo, che nelle fattispecie al suo esame le contestazioni dei ricorrenti riguardavano “diritti” ai sensi del citato art. 6. In secondo luogo, la Corte ritiene che la Commissione e la Sezione possano qualificarsi come “tribunali”, sempre ai sensi dell’art. 6, poiché, alla luce della propria costante giurisprudenza, con il termine “tribunale” non s’intende necessariamente una giurisdizione di tipo classico, integrata nelle strutture ordinarie giudiziarie del paese. «Ai fini della Convenzione, un’autorità può essere considerata un “tribunale”, nel senso materiale del termine, qualora le competa decidere, sulla base di norme di diritto, con pienezza di giurisdizione e a conclusione di una procedura organizzata, su una qualsiasi questione di sua competenza; … un “tribunale” si caratterizza per il potere di riformulare completamente, in fatto ed in diritto, la decisione emessa da un’autorità amministrativa; … infine, il potere di emettere una decisione obbligatoria, che non può essere modificata da un’autorità non giudiziaria a 25

Cfr. la precedente nota 23.

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discapito di una parte, è intrinseco alla nozione stessa di “tribunale”» 26. In terzo luogo, la Corte, ricollegandosi a quanto appena affermato sul significato del termine “tribunale”, aggiunge che «non si tratta di imporre agli Stati un dato modello costituzionale che regoli in un modo o in un altro i rapporti e l’interazione tra i vari poteri statali; la scelta del legislatore italiano di preservare l’autonomia e l’indipendenza del Parlamento, riconoscendogli l’immunità di fronte alle giurisdizioni ordinarie, non potrebbe costituire di per sé oggetto di contestazione di fronte alla Corte». Inoltre, riferendosi alla già citata sentenza della Corte di cassazione, «ricorda di non avere il compito di sostituirsi alle giurisdizioni interne nell’interpretazione della legislazione interna, né quello di esaminare in abstracto la legislazione e la prassi interne pertinenti». «Peraltro, la Corte non può non tener conto del fatto che l’autonomia normativa del Parlamento italiano persegue lo scopo di proteggere il potere legislativo da ogni ingerenza esterna, ivi compreso da parte dell’Esecutivo, il che non può essere giudicato contrario al testo o allo spirito dell’art. 6, par. 1, della Convenzione, come indicato dalla giurisprudenza della Corte». Tutto ciò premesso, la Corte ritiene di doversi limitare a verificare se la Commissione e la Sezione, alle quali da quanto precede non può negarsi la qualifica di “tribunali”, siano anche tribunali «costituiti per legge, indipendenti e imparziali». Quanto al primo aspetto, la Corte riconosce che il Regolamento per la tutela giurisdizionale dei dipendenti della Camera dei deputati, pur non essendo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, presenta, nei fatti, caratteristiche di accessibilità e di prevedibilità tali da soddisfare il primo requisito (“tribunale costituito per legge”) richiesto dall’art. 6, par. 1. Quanto al secondo aspetto, la Corte ritiene che «il semplice fatto che i membri dei due organi giurisdizionali della Camera dei deputati siano scelti tra i deputati medesimi – di per sé – non può far sorgere dubbi in merito all’indipendenza di tali giurisdizioni. Tuttavia, la Corte non può ignorare il fatto che la Sezione, organo d’appello che delibera in modo definitivo, è interamente costituita da membri dell’Ufficio di Presidenza, ossia dall’organo della Camera dei deputati competente per regolare le principali questioni amministrative della Camera, ivi comprese quelle riguardanti la compatibilità e l’organizzazione dei concorsi per il reclutamento del personale». Tenuto conto di tali conclusioni, la Corte ritiene «che i timori nutriti dai ricorrenti sull’indipendenza e sull’imparzialità della Sezione giurisdi26

Cfr. Valutazioni della Corte, parr. 73 e 74.

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zionale della Camera dei deputati siano oggettivamente giustificati» e che pertanto vi sia stata violazione dell’art. 6, par. 1, della Convenzione. Conseguentemente, la Corte condanna lo Stato italiano al pagamento di € 10.000 a ciascun ricorrente a titolo di rimborso di costi e spese. La sentenza della Corte europea rafforza e consolida il principio di autodichia, anche se nella fattispecie oggetto dei ricorsi accoglie questi ultimi sulla base di un argomento oggettivamente identitario: i membri della Sezione giurisdizionale della Camera dei deputati (organo giudicante in appello) sono anche membri dell’Ufficio di Presidenza (organo che ha adottato i provvedimenti impugnati). Donde la sicura carenza dei requisiti della indipendenza e della imparzialità richiesti dall’art. 6, par. 1, della Convenzione. Il rafforzamento del principio di autodichia operato dalla Corte deriva da un obiter dictum contenuto nella sentenza, laddove si afferma che «il semplice fatto che i membri dei due organi giurisdizionali della Camera dei deputati siano scelti tra i deputati medesimi – di per sé – non può far sorgere dubbi in merito all’indipendenza di tali giurisdizioni». L’espressione “di per sé”, contenuta nel passo citato, è la chiave di volta in grado di produrre conseguenze rilevanti sui meccanismi concreti nei quali si articola il funzionamento del principio di autodichia nell’ordinamento italiano. Alla stregua del suddetto principio, infatti, sarebbero pienamente legittimi gli organi di autodichia, di primo e secondo grado, del Senato 27 e quello di primo grado della Camera dei deputati. Inoltre, legittime sarebbero anche le nuove disposizioni introdotte nel 2009 dalla Camera proprio a seguito della sentenza della Corte europea, quali quelle contenute nell’art. 12, co. 6, reg. Camera 28 e quelle, conseguenti, contenute nei regolamenti minori 29, che sostituiscono, quale organo di secondo grado, la precedente Sezione giurisdizionale dell’Ufficio di Presidenza con il nuovo “Collegio d’Appello”, disponendo esplicitamente che di tale organo non possono far parte i deputati membri dell’Ufficio di Presidenza. 27 Nonché quelli, egualmente di primo e secondo grado, della Corte costituzionale, ad eccezione del caso in cui la Corte giudichi in appello ricorsi contro provvedimenti adottati dalla stessa Corte in composizione plenaria. 28 La disposizione di cui al testo recita: «Con regolamento approvato dall’Ufficio di Presidenza sono istituiti gli organi interni di primo e di secondo grado che giudicano in via esclusiva sui ricorsi di cui alla lett. f) del co. 3. I componenti dell’Ufficio di Presidenza non possono far parte di tali organi». 29 Cfr. le modiche ai regolamenti per la tutela giurisdizionale dei dipendenti e dei terzi non dipendenti introdotte con le deliberazioni dell’Ufficio di Presidenza 6 ottobre 2009, nn. 77 e 78, pubblicate sulla G.U. 19 ottobre 2009, n. 243.

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Dopo la sentenza della Corte europea i possibili sviluppi della questione “autodichia” a livello giurisdizionale sembrarono molto limitati. Da un lato, i giudici italiani, già bloccati dalla più volte citata sent. n. 154 della Corte costituzionale e comunque tendenti ad uniformarsi all’illustrato indirizzo giurisprudenziale della Corte di cassazione, lo sarebbero stati ancora di più alla luce della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Dall’altro, lo stimolo a nuovi ricorsi alla Corte europea venne frenato non soltanto dalla suddetta sentenza ma anche, più in generale, dal fatto che le sentenze della Corte europea non possono attribuire al ricorrente vittorioso il ripristino del diritto negatogli dall’amministrazione ma soltanto condannare lo Stato al risarcimento del danno, ove riconosciuto, oppure, come nel caso in oggetto, al semplice rimborso di costi e spese. Tutti elementi che contribuirono in qualche modo, se non a dissuadere, quantomeno a non incoraggiare nuovi ricorrenti. A questo punto, restarono aperte due strade: una più ristretta, l’altra più ampia. La prima possibilità d’intervento sussisterebbe quando disposizioni contenute nei regolamenti parlamentari e, a maggior ragione, nei regolamenti minori relativi alla tutela giurisdizionale dei dipendenti camerali o di terzi, contrastino con norme europee direttamente applicabili. In questo caso, in conformità a una ferma giurisprudenza della Corte di giustizia europea alla quale si è dovuta adeguare la Corte costituzionale italiana, la competenza non spetta a quest’ultima ma ad ogni giudice mediante la disapplicazione della norma interna contrastante con la norma europea. Tuttavia, poiché la prevalenza del diritto europeo sul diritto interno è stata riconosciuta dalla Corte costituzionale ad eccezione dei cosiddetti “controlimiti” – vale a dire quei principi supremi ed immodificabili che caratterizzano l’ordinamento giuridico italiano – il giudice che si trovi a decidere sulla disapplicazione della norma interna dovrà pur sempre valutare se quest’ultima costituisce o no esecuzione di una norma costituzionale contenente un principio supremo. E dunque, anche per questa via, si ritornerebbe al problema della qualificazione o meno del principio dell’autonomia di ciascuna Camera, contenuto nell’art. 64 Cost., come uno dei principi supremi dell’ordinamento italiano. La seconda possibilità d’intervento sussisterebbe qualora un giudice, investito del ricorso proposto da dipendenti della Camera, del Senato o della Presidenza della Repubblica contro eventuali decisioni negative degli organi di autodichia, sollevasse di fronte alla Corte costituzionale un conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, sostenendo l’illegittimità delle disposizioni che disciplinano la giurisdizione esclusiva dei suddetti organi

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e dunque la violazione della propria competenza in materia giurisdizionale concretamente determinata dalla decisione finale dell’organo camerale. In tal modo si aggirerebbe il blocco posto dalla sent. n. 154, poiché sembra da ammettersi la possibilità che i regolamenti parlamentari siano oggetto di un conflitto tra poteri dello Stato radicato mediante l’impugnazione dell’atto adottato in esecuzione di una disposizione regolamentare. Tale seconda possibilità è stata in concreto suggerita dalla stessa Corte costituzionale con la sent. n. 120/2014. La Corte, pur avendo ritenuto inammissibile la questione di legittimità costituzionale delle norme dei regolamenti parlamentari, ha tuttavia colto questa occasione per indicare espressamente la strada alternativa del ricorso al conflitto tra poteri dello Stato. Il ricorso sarebbe possibile, secondo la Corte, quando un organo del potere giurisdizionale si ritenga leso nella propria competenza dalle norme dei regolamenti di ciascuna Camera nella parte in cui disciplinano in via esclusiva e definitiva la tutela giurisdizionale dei propri dipendenti in ordine al loro stato giuridico ed al loro trattamento economico. Tale conflitto è stato poi effettivamente sollevato dalla Corte di cassazione nei confronti del Senato e della Presidenza della Repubblica 30 ed il relativo ricorso è stato rigettato dalla Corte costituzionale con la sent. n. 262/2017. La Corte parte dalla premessa secondo cui l’autonomia costituzionale attribuita alle Camere dall’art. 64 Cost. – e “da un implicito fondamento costituzionale” al Presidente della Repubblica – non si risolve esclusivamente nell’autonomia normativa in senso stretto poiché quest’ultima «logicamente investe anche gli aspetti organizzativi, ricomprendendovi ciò che riguarda il funzionamento degli apparati amministrativi “serventi”, che consentono agli organi costituzionali di adempiere liberamente, e in modo efficiente, alle proprie funzioni costituzionali». Nei suddetti aspetti orga-

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Cfr. Corte di Cassazione sezioni unite civili, ordinanza n. 26934/2014 e Tribunale ordinario di Roma, sezione seconda lavoro, ordinanza depositata in cancelleria il 18 dicembre 2015. I conflitti sono stati sollevati nei confronti rispettivamente del Senato e della Camera e sono stati ritenuti ammissibili dalla Corte costituzionale con le ordinanze n. 137/2015 e n. 91/2016. La Corte di cassazione ha successivamente sollevato un ulteriore conflitto di attribuzioni nei confronti della Presidenza della Repubblica ed anche in questo caso il ricorso è stato ritenuto ammissibile con l’ordinanza n. 138/2015. La Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 57/2017, ha infine dichiarato improcedibile per motivi esclusivamente processuali il ricorso sollevato dal Tribunale di Roma nei confronti della Camera dei deputati Sono rimasti pertanto in piedi soltanto i due conflitti sollevati dalla Corte di cassazione nei confronti del Senato e della Presidenza della Repubblica.

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nizzativi rientra anche «l’affidamento a collegi interni del compito di interpretare e applicare le norme relative al rapporto di lavoro dei dipendenti con gli organi costituzionali di cui si tratta, nonché la sottrazione delle decisioni di tali collegi al controllo della giurisdizione comune». Inoltre, la Corte sottolinea «la circostanza che le fonti interne approvate dalle Camere e dal Presidente della Repubblica hanno dato vita ad organi di autodichia i quali, benché “interni” ed estranei all’organizzazione della giurisdizione, risultano costituiti secondo regole volte a garantire la loro indipendenza ed imparzialità, come del resto, in relazione alla funzione del giudicare, impongono i principi costituzionali ricavabili dagli artt. 3, 24, 101 e 111 Cost. e come ha richiesto la Corte europea dei diritti dell’uomo, in particolare nella sent. 28 aprile 2009, Savino e altri contro Italia. Le fonti di autonomia delle Camere assicurano attualmente idonee incompatibilità, volte ad impedire che il medesimo soggetto possa contemporaneamente far parte dell’organo amministrativo che assume i provvedimenti relativi al personale (Consiglio di Presidenza del Senato e Ufficio di Presidenza della Camera) e degli organi di autodichia in primo e secondo grado. Inoltre, pur prevedendo che i componenti di tali ultimi organi siano scelti in larga parte fra i parlamentari, le medesime fonti richiedono che costoro possiedano determinate competenze tecniche, sul corretto presupposto che la loro qualificazione professionale possa favorire un esercizio indipendente della funzione. Per parte sua, il Presidente della Repubblica ha istituito organi di primo e secondo grado, composti solo da magistrati, nominati con suo decreto, su proposta del Segretario generale, previa designazione dei Presidenti dei rispettivi organi giudiziari». «Né è da trascurare che, presso entrambi gli organi costituzionali, i giudizi si svolgono, in primo e in secondo grado, secondo moduli procedimentali di natura sostanzialmente giurisdizionale, idonei a garantire il diritto di difesa e un effettivo contraddittorio». «Tutto ciò ulteriormente conferma che la deroga alla giurisdizione qui in discussione, di cui costituisce riflesso la connessa limitazione del diritto al giudice, non si risolve in un’assenza di tutela. Tale limitazione, infatti, risulta compensata dall’esistenza di rimedi interni affidati ad organi che, pur inseriti nell’ambito delle amministrazioni in causa, garantiscono, quanto a modalità di nomina e competenze, che la decisione delle controversie in parola sia assunta nel rispetto del principio d’imparzialità, e al tempo stesso assicurano una competenza specializzata nella decisione di controversie che presentano significativi elementi di specialità». «Si può quindi affermare che gli organi di autodichia sono chiamati a dirimere, in posizione super partes, controversie tra l’amministrazione dell’organo costituzionale e i suoi dipendenti secondo moduli procedimentali

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di carattere giurisdizionale, e dunque a svolgere funzioni obiettivamente giurisdizionali per la decisione delle controversie in cui siano coinvolte le posizioni giuridiche soggettive dei dipendenti». Infine, la Corte precisa che «se è consentito agli organi costituzionali disciplinare il rapporto di lavoro con i propri dipendenti, non spetta invece loro, in via di principio, ricorrere alla propria potestà normativa, né per disciplinare rapporti giuridici con soggetti terzi, né per riservare agli organi di autodichia la decisione di eventuali controversie che ne coinvolgano le situazioni soggettive (si pensi, ad esempio, alle controversie relative ad appalti e forniture di servizi prestati a favore delle amministrazioni degli organi costituzionali). Del resto, queste ultime controversie, pur potendo avere ad oggetto rapporti non estranei all’esercizio delle funzioni dell’organo costituzionale, non riguardano in principio questioni puramente interne ad esso e non potrebbero perciò essere sottratte alla giurisdizione comune». In sintesi, la Corte, dopo aver premesso il rapporto esistente tra l’art. 64 e l’autodichia, afferma che gli organi interni camerali, pur non potendo essere qualificati soggettivamente come giudici, esercitano tuttavia funzioni giurisdizionali secondo procedimenti anch’essi di carattere giurisdizionale e possiedono i requisiti della terzietà e dell’imparzialità tali da assicurare una tutela effettiva che pertanto esclude la violazione degli artt. 3, 24, 111 e 113 Cost. Correttamente la Corte aggiunge che tutto ciò non può valere nei confronti di rapporti giuridici con soggetti terzi, trattandosi di questioni esterne rispetto all’ambito parlamentare. L’argomento principe sulla base del quale la Corte salva la legittimità dell’autodichia consiste nel fatto che, a seguito della riforma introdotta nel 2009 al Senato ed alla Camera, i membri degli organi interni giudicanti devono essere rispettivamente senatori 31 e deputati che non facciano parte dell’organo parlamentare 32 che ha adottato il provvedimento contro cui il dipendente ricorre. Tale argomento, tuttavia, è molto debole perché, anche se esso è forse accettabile in via puramente astratta, non tiene in alcun conto l’ambito 31

Al Senato, dell’organo di primo grado, denominato Commissione contenziosa, fanno parte anche un consigliere parlamentare e un dipendente, nominati all’inizio di ogni legislatura dal Presidente del Senato. 32 Alla Camera l’Ufficio di presidenza; al Senato l’incompatibilità è più ampia e riguarda i componenti del Consiglio di Presidenza, i componenti del Consiglio dell’Amministrazione, del Consiglio di garanzia e del Consiglio di disciplina, i dipendenti assegnati al Servizio del Personale, nonché agli Uffici di segreteria della Commissione contenziosa e del Consiglio di garanzia.

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concreto nel quale operano i parlamentari. Ambito che è squisitamente politico e, in quanto tale, suscettibile di determinare situazioni e comportamenti non inquadrabili in rigidi meccanismi giuridici. In poche parole, chi può realisticamente escludere che, soprattutto a fronte di controversie potenzialmente implicanti pesanti conseguenze finanziarie per l’amministrazione in caso di sconfitta, tale situazione non determini, in tutta buona fede, un inevitabile condizionamento dei parlamentari giudicanti? E che dire, parlando di condizionamenti, della situazione ancor più delicata nella quale possono trovarsi al Senato i due dipendenti che fanno parte dell’organo di primo grado 33? In realtà, il condizionamento deriva da un dato oggettivo: l’appartenenza, sia pure a diverso titolo, dei soggetti giudicanti all’Istituzione che adotta i provvedimenti suscettibili d’impugnazione da parte dei dipendenti. La sola possibilità che il condizionamento si possa realizzare esclude l’indipendenza e l’imparzialità degli organi giudicanti. La conclusione sarebbe diversa se gli organi camerali di autodichia, pur rimanendo organi interni aventi giurisdizione esclusiva, fossero composti da soggetti, aventi gli stessi requisiti tecnici già richiesti dai regolamenti minori del Senato e della Camera, che non facciano parte ad alcun titolo delle Camere e che con esse non abbiano, né possano in futuro avere, alcun rapporto professionale. Come prevede, in maniera esemplare, il D.P.R. n. 34/2008 in ordine alla composizione degli organi della Presidenza della Repubblica, di primo e secondo grado, che giudicano i ricorsi presentati dai dipendenti dell’amministrazione del Quirinale. Tali organi, infatti, sono composti soltanto da magistrati, nominati con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Segretario generale, previa designazione dei Presidenti dei rispettivi organi giudiziari. E non è un caso che, proprio a causa di tale composizione, che viene soltanto citata nella sentenza in esame, la Corte non si occupa minimamente del conflitto sollevato nei confronti della Presidenza della Repubblica, dando implicitamente per scontata la sussistenza dei requisiti della terzietà e della imparzialità. La riprova o la smentita di quanto appena sostenuto si avrà probabilmente tra breve quando gli organi di autodichia del Senato e della Camera dovranno prendere posizione sugli innumerevoli ricorsi già presentati da senatori e deputati contro le deliberazioni adottate dai due rami del Parlamento nei confronti dei loro vitalizi. Qualora i suddetti organi si ritenga33

Ovviamente, quanto sostenuto nel testo non vale per la Corte costituzionale poiché essa non è, a differenza delle Camere, organo politico.

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no competenti a giudicare ricorsi presentati non già da dipendenti ma da parlamentari – il che non è affatto scontato – la tenue diversità tra soggetto giudicante e soggetto ricorrente, sulla base della quale la Corte ha giustificato la terzietà e l’imparzialità del primo nei confronti del secondo, verrebbe a cadere. Si determinerebbe, infatti, una singolare commistione della qualificazione dei soggetti componenti gli organi che hanno adottato i provvedimenti sui vitalizi, i soggetti componenti gli organi giudicanti e i soggetti ricorrenti: tutti quanti accomunati dal fatto di essere parlamentari! Tale circostanza, a mio giudizio, dovrebbe consigliare ai suddetti organi di autodichia di dichiararsi incompetenti, lasciando così via libera al ricorso al giudice naturale. Né, per uscire da tale impasse, sarebbe più agevole la diversa soluzione in base alla quale gli organi di autodichia, pur dichiarandosi competenti, rinviassero, in quanto giudici a quibus, la questione di legittimità alla Corte costituzionale. Quest’ultima, infatti, per potersi a sua volta dichiarare competente dovrebbe verificare se gli atti adottati dal Consiglio di Presidenza del Senato e dall’Ufficio di Presidenza della Camera siano o meno atti con forza di legge: questione d’incerta soluzione e che, in caso di valutazione negativa, determinerebbe l’inevitabile ritorno di fronte agli organi di autodichia. In tal modo chiudendosi il cerchio e riproponendosi tutti i dubbi qui avanzati sulla terzietà ed imparzialità di tali organi. A questo punto resterebbe soltanto la strada, già percorsa dalla Cassazione e che ha portato alla sent. n. 262/2017, del conflitto tra poteri dello Stato mediante gli ormai noti passaggi: reiezione dei ricorsi da parte degli organi di autodichia, ricorso al giudice competente che, ritenendo lesa la propria competenza, solleva il conflitto di fronte alla Corte. E allora si vedrà se quest’ultima, a fronte di una fattispecie diversa sotto il profilo soggettivo (parlamentari e non dipendenti delle Camere) ma uguale nella sostanza (terzietà e imparzialità degli organi di autodichia?), confermerà o meno quanto deciso con la sent. n. 262.

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CAPITOLO 4 LO STATUS DEL PARLAMENTARE SOMMARIO: 1. Il divieto del mandato imperativo. – 2. L’immunità di carattere assoluto prevista dall’art. 68, co. 1, Cost., per le opinioni espresse e per i voti dati nell’esercizio della funzione parlamentare: la prassi delle Camere, la giurisprudenza della Corte costituzionale sul cosiddetto “nesso funzionale” e la L. di attuazione n. 140/2003. – 3. Le immunità di carattere relativo previste dall’art. 68, co. 2 e 3, Cost. e l’obbligo di richiedere l’autorizzazione alla Camera di appartenenza; in particolare, la disciplina delle intercettazioni dirette ed indirette nei confronti di parlamentari stabilita dalla L. n. 140/2003. La procedura per la concessione o il diniego dell’autorizzazione. L’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della L. n. 140/2003. – 4. L’immunità della sede. Irrilevanza della diversa terminologia presente nell’art. 69 reg. Senato e nell’art. 62 reg. Camera. – 5. L’indennità parlamentare. – 6. L’autorizzazione a procedere nei confronti di parlamentari che rivestono, o hanno rivestito, la carica di Ministro.

1. Il divieto del mandato imperativo L’art. 67 Cost., affermando che «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato», chiarisce innanzi tutto che il singolo parlamentare non rappresenta i propri elettori bensì tutto il paese, inteso come complesso degli interessi politici generali. Da questa rappresentanza generalizzata scaturisce il divieto del mandato imperativo che è formalizzato nella seconda parte dell’articolo in esame. Con tale divieto si vuole intendere che il parlamentare è libero di attuare la propria azione politica anche prescindendo dal programma elettorale a suo tempo enunciato, ossia senza essere vincolato giuridicamente a rispettare quanto promesso in sede di campagna elettorale e, quindi, senza poter essere colpito da un voto di revoca del corpo elettorale, che il nostro ordinamento coerentemente non prevede. In questi casi, la sola forma di responsabilità che potrà essere fatta valere dal corpo elettorale sarà quella politica, attraverso la mancata rielezione del parlamentare qualora egli decidesse di ricandidarsi.

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Il divieto del mandato imperativo comporta anche l’autonomia del parlamentare rispetto al partito politico che ha appoggiato la sua candidatura. Sono, pertanto, illegittime le dimissioni in bianco, ossia quegli impegni, previamente sottoscritti da ciascun candidato, che prevedono l’obbligo di dimettersi su richiesta del proprio partito; né il parlamentare decade dal suo ufficio in caso di espulsione dal partito di appartenenza. Un’ulteriore conseguenza dell’autonomia che scaturisce dal divieto del mandato imperativo è nota come “fenomeno del transfugismo”, ossia il passaggio di un parlamentare dal partito politico che ne ha sostenuto la candidatura ad un altro e, quindi, da un Gruppo parlamentare ad altro Gruppo, sia esso il Gruppo misto o il Gruppo facente capo ai parlamentari eletti nelle liste di un diverso partito politico. Tuttavia, da un punto di vista sostanziale su tale autonomia incide in misura considerevole la disciplina di partito. I partiti politici, presenti in Parlamento attraverso i Gruppi parlamentari, dettano, infatti, le direttive guida al cui rispetto i parlamentari sono politicamente, anche se non giuridicamente, tenuti. Non si può realisticamente ignorare che i partiti politici, potendo infliggere al loro interno sanzioni disciplinari nei confronti dei propri membri fino ad arrivare all’espulsione, dispongono di strumenti che sono in grado di disincentivare comportamenti devianti sul piano politico. La Corte costituzionale si è pronunciata sul divieto del mandato imperativo in una sola occasione, a proposito della questione di legittimità costituzionale sollevata nei confronti della L. 6 dicembre 1962, n. 1643, per essere stata quest’ultima approvata con i voti di parlamentari che avevano dichiarato di votare favorevolmente soltanto per disciplina nei confronti delle direttive impartite dai loro partiti politici. Dichiarando infondata la questione con la sent. n. 14/1964, la Corte ha precisato che l’art. 67 non spiega efficacia ai fini della validità delle deliberazioni camerali ma è rivolto ad assicurare la libertà dei membri del Parlamento. Il divieto del mandato imperativo – prosegue la Corte – comporta che il parlamentare è libero di votare secondo le indicazioni del suo partito ma è anche libero di discostarsene: nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del proprio partito.

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2. L’immunità di carattere assoluto prevista dall’art. 68, co. 1, Cost., per le opinioni espresse e per i voti dati nell’esercizio della funzione parlamentare: la prassi delle Camere, la giurisprudenza della Corte costituzionale sul cosiddetto “nesso funzionale” e la L. di attuazione n. 140/2003 A garanzia dell’autonomia e della funzionalità delle assemblee, l’art. 68 Cost. disciplina l’istituto delle immunità o prerogative parlamentari. Tali immunità, anche se immediatamente riferibili ai singoli parlamentari, sono in realtà strumentali alla garanzia dell’indipendenza del Parlamento, consentendo al parlamentare la massima libertà nell’esercizio delle sue funzioni. Esse devono, comunque, essere bilanciate con il rispetto degli altri principi costituzionali, primo fra tutti il principio di eguaglianza. La prerogativa dell’irresponsabilità giuridica (civile, penale, amministrativa e disciplinare) per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle funzioni parlamentari è disciplinata dall’art. 68, co. 1, Cost., secondo il quale «I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni». Il carattere assoluto di tale prerogativa esclude l’antigiuridicità del fatto (voto dato o opinione espressa), impedendo che il parlamentare, una volta scaduto dal suo mandato, possa essere sottoposto ad azioni giudiziarie per quello stesso fatto. L’oggetto della prerogativa in questione sembra essere tassativo e pertanto non vi rientra nessun altro atto o comportamento diverso dai voti dati e dalle opinioni espresse. Al riguardo la Corte costituzionale, con riferimento ad una perquisizione operata nella sede di un partito politico, ha precisato (sent. n. 137/2001) che non vi rientrano i comportamenti materiali, qualificati come resistenza a pubblico ufficiale, in quell’occasione tenuti da alcuni parlamentari; aggiungendo, altresì, che la prerogativa ex art. 68 non può neanche essere estesa sino a comprendere gli insulti, nella stessa occasione rivolti alle forze dell’ordine che stavano procedendo alla perquisizione, solo perché collegati con le battaglie condotte da esponenti parlamentari in favore delle loro tesi politiche. La disposizione di cui all’art. 68, co. 1, Cost., è stata oggetto di numerose pronunce della Corte costituzionale volte a definirne l’ambito di applicazione, ossia l’individuazione degli atti che, potendosi ricondurre tra le funzioni parlamentari, sono immuni dall’esperimento di azioni giudiziarie, con particolare riferimento alle opinioni espresse all’esterno della sede parlamentare. A fronte di una prassi parlamentare favorevole ad un’interpretazione

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quanto mai estensiva e benevola della norma in oggetto, volta ad impedire l’ingerenza dell’autorità giudiziaria, la Corte costituzionale, adita più volte in sede di conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, ha delimitato notevolmente la portata dell’irresponsabilità. In una prima fase, la Corte si limita a valutare la congruità delle motivazioni addotte dalle Camere nelle proprie deliberazioni relative alla sussistenza dell’immunità, nonché la non arbitrarietà e la non irragionevolezza delle stesse, in tal modo operando un sindacato che può definirsi formale. La Corte afferma, inoltre, che il concetto di immunità parlamentare, nel suo concreto svolgimento, va bilanciato con altri principi costituzionali posti a tutela del cittadino, quali, soprattutto, il principio di eguaglianza ed il pari diritto a difendersi in giudizio. Successivamente, la Corte arriva a compiere un vero e proprio sindacato sostanziale sulle delibere camerali, valutando autonomamente i presupposti materiali delle singole fattispecie sottoposte al suo esame ed arrivando ad enunciare le condizioni di fatto che giustificano l’operatività della prerogativa di cui all’art. 68, co. 1. La chiave di volta di tale sindacato sostanziale, secondo la Corte, è rappresentata dalla nozione di “nesso funzionale”, dal rapporto, cioè, che deve sussistere tra le opinioni espresse e l’attività parlamentare affinché l’immunità sia resa operativa. In altre parole, l’insindacabilità non copre l’intera attività politica del parlamentare ovunque svolta – come invece affermato in alcune deliberazioni camerali – bensì soltanto quella che sia definibile come esercizio della funzione di membro del Parlamento. La delimitazione del concetto di nesso funzionale ha subito, nella giurisprudenza della Corte, diverse oscillazioni. Inizialmente, partendo dalla premessa secondo cui la funzione del parlamentare ha natura generale ed è libera nel fine, la Corte afferma, in particolare con riferimento alle opinioni espresse al di fuori delle sedi camerali, che esse devono ritenersi coperte da immunità non soltanto quando riproducono opinioni in precedenza manifestate in atti cosiddetti “tipici” (interrogazioni, interpellanze etc.), ma anche quando sussista un rapporto di conseguenzialità tra esse e l’esercizio della funzione parlamentare. In un secondo momento, la definizione del nesso funzionale si fa più rigida poiché, con le sentt. nn. 10 e 11/2000 (puntualmente confermate dalle sentt. nn. 56, 58 e 82 dello stesso anno, nn. 508 e 521/2002, nn. 347 e 348/2004, 28/2005), la Corte precisa che tale concetto deve qualificarsi «non come semplice collegamento di argomento o di contesto fra attività parlamentare e dichiarazione, ma come identificabilità della dichiarazione stessa quale espressione di attività parlamentare». Per quanto concerne, in

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particolare, le opinioni espresse al di fuori delle Camere, tale nesso sussiste soltanto quando sia riscontrabile una «identità sostanziale di contenuto fra l’opinione precedentemente espressa in sede parlamentare e quella manifestata nella sede “esterna”». Il nesso funzionale, pertanto, viene ancorato ad un parametro ben preciso: l’identità tra l’opinione espressa e quella in precedenza manifestata in atti tipici della funzione parlamentare. In altre sentenze, tuttavia, quest’ultimo collegamento non viene qualificato come l’unico strumento per l’operatività della prerogativa. La Corte (sentt. nn. 509/2002; 219 e 379/2003; 120/2004) afferma, infatti, che il nesso funzionale non opera soltanto nei confronti degli atti “tipici” ma anche nei confronti di atti cosiddetti “innominati” – e cioè non espressamente previsti dai regolamenti parlamentari – purché nella sostanza rientranti nell’ambito del diritto parlamentare e riconducibili all’esercizio di attribuzioni proprie dei parlamentari. È abbastanza evidente come questo secondo criterio, molto più elastico del primo, aumenti notevolmente la discrezionalità di giudizio della Corte nella valutazione sostanziale, caso per caso, dell’atto del parlamentare ai fini della sua riconducibilità o meno sotto l’ombrello dell’art. 68, co. 1. La L. 20 giugno 2003, n. 140, nel dare attuazione all’art. 68 Cost., ha innanzi tutto specificato (art. 3, co. 1) che il co. 1 della suddetta disposizione costituzionale «si applica in ogni caso per la presentazione di disegni o proposte di legge, emendamenti, ordini del giorno, mozioni e risoluzioni, per le interpellanze e le interrogazioni, per gli interventi nelle Assemblee e negli altri organi delle Camere, per qualsiasi espressione di voto comunque formulata, per ogni altro atto parlamentare, per ogni altra attività di ispezione, di divulgazione, di critica e di denuncia politica, connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori del Parlamento». La prima parte di tale disposizione si adegua perfettamente al criterio più rigido tra i due enunciati nelle ricordate decisioni della Corte costituzionale, specificando quali siano gli “atti tipici” espressione della funzione di parlamentare, che costituiscono la chiave per l’operatività all’esterno delle sedi delle Camere dell’immunità di cui all’art. 68, co. 1. Non altrettanto esplicita è l’ultima parte quando si limita a condizionare l’immunità per ogni altra attività di ispezione, di divulgazione, di critica e di denuncia politica, espletata anche fuori del Parlamento, alla sua connessione alla funzione di parlamentare. Tuttavia, proprio l’ultimo criterio d’identificazione del nesso funzionale in precedenza illustrato, che si richiama tanto agli atti “tipici” quanto agli atti “innominati”, ha consentito alla Corte (sent. n. 120/2004) di considerare non illegittimo, per questa parte, l’art. 3, co. 1, della L. n. 140.

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Nei successivi co. dell’art. 3 è stabilita la disciplina processuale relativa alla prerogativa in questione, comunemente nota come “pregiudiziale parlamentare”. Con riferimento, in estrema sintesi, ai soli aspetti principali di tale disciplina, il giudice (o l’autorità competente nel caso di procedimenti disciplinari), qualora ritenga sussistenti le condizioni per l’applicabilità dell’art. 68, co. 1, provvede con sentenza in ogni stato e grado del processo penale a norma dell’art. 129 c.p.p.; nel corso delle indagini preliminari pronuncia decreto di archiviazione ai sensi dell’art. 409 c.p.p.; nel processo civile pronuncia sentenza con i provvedimenti necessari alla sua definizione. Qualora non ritenga di accogliere l’eventuale eccezione concernente l’applicabilità dell’art. 68, co. 1, il giudice deve trasmettere copia degli atti alla Camera alla quale il parlamentare appartiene o apparteneva al momento del fatto; in tal caso il processo è sospeso fino alla deliberazione della Camera ma non oltre il termine di novanta giorni dalla ricezione degli atti da parte della Camera predetta, che può, tuttavia, disporre una proroga del termine non superiore a trenta giorni. La questione dell’applicabilità dell’art. 68, co. 1, può essere sottoposta alla Camera di appartenenza anche direttamente da chi assume che il fatto, per il quale è in corso un procedimento giurisdizionale di responsabilità nei suoi confronti, rientra nella previsione del co. 1 dell’art. 3 della L. n. 140. Nel caso di deliberazione favorevole alla prosecuzione del processo da parte della Camera investita della questione, il giudice adotta senza ritardo i provvedimenti di propria competenza in precedenza indicati. Nel caso opposto di deliberazione contraria, il giudice, qualora ritenga conforme a Costituzione la deliberazione camerale, dichiara cessata la materia del contendere; qualora, invece, non condivida tale deliberazione, può sollevare conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato di fronte alla Corte costituzionale. La Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) è intervenuta in due occasioni (sentenze Cordova c. Italia del 30 gennaio 2003 e sentenza De Jorio c. Italia del 3 giugno 2004), relativamente all’ipotesi di deliberazione contraria da parte della Camera o del Senato e di mancato ricorso da parte del giudice alla Corte costituzionale per conflitto di attribuzioni, affermando che in tal caso il soggetto ricorrente contro il parlamentare vede compresso in maniera illegittima il proprio diritto ad agire in giudizio, diritto solennemente proclamato dall’art. 6, co. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Tale compressione, di per sé non illegittima, lo diventa, a giudizio della Corte europea, quando il rapporto di proporzionalità, che deve sussistere tra lo scopo perseguito dall’immunità ed i mezzi apprestati per garantirlo, non sia ragionevole: in tal caso, la restrizione che ne deriva sul

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diritto a ricorrere in giudizio del cittadino è talmente forte da eliminare, nella sostanza, il diritto suddetto. È evidente come da tali premesse la Corte europea sia stata automaticamente costretta ad occuparsi di quello che la Corte costituzionale italiana chiama “nesso di funzionalità” e che la Corte europea chiama “rapporto di proporzionalità”. A prescindere dalla diversa terminologia, infatti, la questione è la stessa e riguarda i limiti che il principio dell’immunità parlamentare deve rispettare nei confronti dei diritti fondamentali del cittadino: limiti che, secondo la Corte europea, sono definiti dalla necessaria presenza di un legame “evidente” con la funzione rappresentativa del parlamentare. In mancanza di tale evidenza, prosegue la Corte, deve adottarsi un’interpretazione restrittiva del rapporto di proporzionalità tra scopi dell’immunità e mezzi per realizzarla.

3. Le immunità di carattere relativo previste dall’art. 68, co. 2 e 3, Cost. e l’obbligo di richiedere l’autorizzazione alla Camera di appartenenza; in particolare, la disciplina delle intercettazioni dirette ed indirette nei confronti di parlamentari stabilita dalla L. n. 140/2003. La procedura per la concessione o il diniego dell’autorizzazione. L’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della L. n. 140/2003 La seconda immunità o prerogativa è quella dell’inviolabilità della libertà personale, domiciliare, di corrispondenza e di comunicazione, disciplinata dall’art. 68, co. 2 e 3, Cost., secondo cui: «Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza. Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza». Tale prerogativa costituisce il risultato di una profonda modifica apportata nel 1993 all’art. 68 Cost. In passato, infatti, qualora l’autorità giudiziaria avesse voluto procedere penalmente nei confronti di un parlamentare, avrebbe necessariamente dovuto chiedere l’autorizzazione alla Camera di appartenenza che, con propria delibera, provvedeva o meno a concederla. L’autorizzazione era necessaria per evitare che il parlamentare fosse giudicato per reati di natura politica o fosse esposto all’eventuale azione perse-

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cutoria di qualche magistrato. Tuttavia, l’abuso che di tale prerogativa fecero le Camere le indusse, con la L. cost. n. 3/1993, a modificare l’art. 68 eliminando l’autorizzazione a procedere; attualmente, pertanto, l’autorità giudiziaria può aprire un procedimento penale nei confronti di un parlamentare negli stessi termini nei quali può procedere nei confronti di qualsiasi altro soggetto. Occorre, peraltro, ricordare che alcune forze politiche, adducendo ipotetici intenti persecutori da parte di alcuni settori della magistratura, hanno di recente più volte manifestato l’intenzione di reintrodurre l’istituto dell’autorizzazione per la sottoposizione a procedimento penale dei parlamentari. Attualmente, il meccanismo dell’autorizzazione sussiste ancora, anche se con una fisionomia diversa rispetto al passato (autorizzazione al provvedimento e non più al processo) e con una portata limitata all’adozione dei soli provvedimenti restrittivi delle libertà fondamentali indicati nell’art. 68, co. 2 e 3: perquisizione personale o domiciliare, arresto e qualsiasi altra limitazione della libertà personale, intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni, sequestro di corrispondenza. Inoltre, colui che, trovandosi in stato di detenzione in esecuzione di una sentenza non ancora definitiva, risulti eletto alla Camera o al Senato deve essere immediatamente rimesso in libertà in attesa dell’eventuale successiva autorizzazione da parte della Camera di appartenenza neo-eletta. Le due ipotesi previste nell’ultima proposizione del co. 3 costituiscono un’eccezione alla disciplina fin qui illustrata: non è necessaria una preventiva autorizzazione qualora, in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, si debba procedere ad una qualsiasi limitazione della libertà personale del parlamentare ovvero al mantenimento in stato di detenzione dello stesso; né tale autorizzazione è necessaria per arrestare il parlamentare che sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza. In quest’ultimo caso, tuttavia, l’autorizzazione deve essere subito richiesta al fine della convalida dell’arresto. Diversamente dal già ricordato valore assoluto della prerogativa di cui al co. 1, le prerogative di cui ai co. 2 e 3 hanno valore relativo: allo scadere del mandato esse non garantiranno più l’ex-parlamentare e dunque, qualora non sia intervenuta prescrizione, il parlamentare potrà essere arrestato o comunque privato della libertà personale, nonché di quella domiciliare e di comunicazione. Notevoli problemi sono sorti con particolare riferimento alla disciplina delle intercettazioni nei confronti dei parlamentari, stabilita dallo stesso art. 68, co. 3, e dalla successiva Legge di attuazione n. 140/2003. Da un lato, si è esattamente osservato come l’obbligo dell’autorizzazio-

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ne preventiva da parte della Camera di appartenenza, per poter procedere all’intercettazione nei confronti di un parlamentare (cosiddetta intercettazione “diretta”, prevista dall’art. 68, co. 3, e ribadita dall’art. 4, L. n. 140), vanifichi completamente la funzione dell’intercettazione, dal momento che la sua efficacia è indissolubilmente legata alla non conoscenza della stessa da parte del soggetto intercettato. Dall’altro lato, è stata contestata la legittimità costituzionale degli artt. 6 e 7 della L. n. 140 relativi alle cosiddette intercettazioni “indirette”, che ricorrono nel caso di conversazioni o comunicazioni, intercettate in qualsiasi forma nel corso di procedimenti riguardanti terzi, alle quali abbiano preso parte anche membri del Parlamento. L’art. 6, co. 1, impone al giudice, su istanza delle parti ovvero del parlamentare interessato, la distruzione dei verbali e delle registrazioni delle intercettazioni qualora ritenga queste ultime irrilevanti ai fini del procedimento. L’art. 6, co. 2, qualora il giudice ritenga necessario utilizzare le intercettazioni, gli impone di richiedere l’autorizzazione alla Camera alla quale il membro del Parlamento appartiene o apparteneva al momento in cui le conversazioni o le comunicazioni erano state intercettate; infine, secondo il co. 6 dello stesso articolo, se l’autorizzazione viene negata, la documentazione delle intercettazioni deve essere distrutta immediatamente e, comunque, non oltre dieci giorni dalla comunicazione del diniego. La Corte di cassazione, con ordinanza n. 10772/2004, ha rimesso alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale delle citate disposizioni (nonché, per connessione, di altre contenute nello stesso art. 6), non tanto per violazione dell’art. 68 Cost., quanto degli artt. 3, 24 e 112 Cost. La Cassazione ritiene, innanzi tutto, che il concetto d’intercettazione indiretta non sia di tipo letterale ma sostanziale, per cui sarebbero tali non soltanto quelle riguardanti le conversazioni alle quali prenda parte, direttamente e personalmente, il parlamentare, ma anche quelle (ricorrenti nella fattispecie) nelle quali il membro del Parlamento trasmetta il proprio pensiero per il tramite di diversa persona che, a sua volta, si limiti a trasmettere la volontà e le manifestazioni del pensiero del suddetto parlamentare. In secondo luogo, essa afferma che l’art. 68 disciplina le sole intercettazioni dirette, nulla potendosi in contrario argomentare dalle parole intercettazioni “in qualsiasi forma” contenute nel co. 3, poiché tali parole si riferiscono esclusivamente alle diverse modalità con le quali la captazione può avvenire e ai diversi mezzi di comunicazione intercettati (intercettazioni telefoniche, ambientali, di sistemi informatici e telematici ecc.): la “forma” costituisce, infatti, un aspetto oggettivo dell’intercettazione che non può essere confuso con i limiti riguardanti l’estensione soggettiva dei divieti.

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Ciò premesso, la Cassazione non ritiene, tuttavia, che l’estensione alle intercettazioni indirette della disciplina costituzionale delle intercettazioni dirette, compiuta dall’art. 6 della L. n. 140, sia di per sé illegittima: non è, infatti, inibito al legislatore ordinario di estendere l’ambito di applicazione di una norma costituzionale, che preveda speciali diritti o tutele, al di là dei limiti previsti, purché tale estensione, oltre a trovare giustificazione nella diversità delle situazioni, non si ponga in contrasto con diversi e rilevanti principi costituzionali, come invece si è verificato, a parere della Corte, nella fattispecie al suo esame con riferimento ai già citati artt. 3, 24 e 112 Cost. La Corte costituzionale, con la sent. n. 163/2005, non entra nel merita delle censure d’incostituzionalità prospettate dalla Cassazione, poiché dichiara inammissibile, per carenza del requisito della rilevanza, la questione di legittimità costituzionale sollevata. Tralasciando altri argomenti interpretativi di minore importanza ai quali si accenna nella sentenza, la Corte fondamentalmente non condivide la premessa sulla quale la Cassazione aveva basato la rilevanza della questione, e cioè l’assunto secondo cui la disciplina delle intercettazioni indirette, oggetto di censura, sarebbe applicabile non soltanto alle conversazioni o comunicazioni cui il membro del Parlamento partecipi personalmente, ma anche a quelle intrattenute da altro soggetto che si limiti a trasmettere la volontà e le manifestazioni del pensiero del parlamentare, quale semplice nuncius di quest’ultimo. Secondo la Corte, infatti, alla stregua del comune significato dell’espressione, “prende parte” ad una conversazione o comunicazione chi interloquisce in essa e non, invece, colui su mandato del quale uno degli interlocutori interviene, sia pure nella veste di mero portavoce. La sentenza della Corte fa chiarezza su un solo punto: le intercettazioni indirette ricorrono soltanto quando un parlamentare prenda parte, per così dire “fisicamente” e non per interposta persona, a conversazioni o comunicazioni con terzi, nei confronti dei quali la Magistratura abbia autorizzato l’intercettazione. Per il resto, la sentenza accenna – ma si tratta, per l’appunto, soltanto di un accenno e non di un’affermazione – ad un’interpretazione, che non appare particolarmente convincente, dell’espressione “in qualsiasi forma”, di cui al co. 3 dell’art. 68 Cost., tale da ricondurre nella previsione della citata norma costituzionale anche le intercettazioni indirette, così come in precedenza delimitate. Tuttavia, la Corte non va oltre, come invece sarà costretta a fare quando e se sarà investita della medesima questione di legittimità costituzionale, sollevata nel corso di un giudizio relativo ad intercettazioni avvenute nei confronti di conversazioni o comunicazioni alle quali abbia partecipato personalmente anche un parla-

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mentare. In tale ipotesi, la Corte non potrà più nascondersi dietro una pronuncia d’inammissibilità per carenza del requisito della rilevanza ma dovrà necessariamente prendere posizione in ordine alla possibilità o meno di ricomprendere anche le intercettazioni indirette tra le fattispecie riconducibili all’art. 68 Cost. e da esso tutelate. La procedura per la concessione o il diniego dell’autorizzazione, di cui all’art. 68, co. 2 e 3, Cost., è attualmente la stessa sia al Senato (artt. 19, co. 5 e 135), sia alla Camera (art. 18): in sintesi, la richiesta di autorizzazione viene esaminata preliminarmente da una Giunta (denominata diversamente alla Camera ed al Senato) che, udito il parlamentare al quale si riferisce la richiesta, propone all’Assemblea la concessione o il diniego; tale proposta viene votata a scrutinio palese (oppure a scrutinio segreto, su richiesta del prescritto numero di parlamentari e soltanto per le autorizzazioni relative a provvedimenti limitativi della libertà personale o domiciliare) e risulta approvata qualora sia raggiunta la maggioranza semplice (metà più uno dei presenti). Se è certo che questa sia la procedura attuale per il diniego o la concessione dell’autorizzazione in entrambe le Camere, sembrano necessarie alcune osservazioni per consentire l’interpretazione e l’applicazione nel senso indicato degli articoli dei regolamenti parlamentari in precedenza citati. Da un lato, infatti, tali articoli si riferiscono ancora alle autorizzazioni a procedere per i reati commessi da parlamentari, autorizzazioni che, come già detto, non sono più previste dall’art. 68 Cost.; le suddette disposizioni, pertanto, devono essere lette depurandole dai riferimenti ad un istituto che non esiste più. Dall’altro, il co. 2-bis dell’art. 18, reg. Camera, che era stato approvato nel 1993 per favorire le proposte della Giunta di concessione dell’autorizzazione a procedere, è stato superato dalla riforma dell’art. 68 Cost. e non trova più applicazione, se non, come si spiegherà qui di seguito, limitatamente alla sua parte finale. Il co. 2-bis, attualmente vigente quantomeno sotto il profilo formale, recita: «Fino alla conclusione della discussione in Assemblea, venti deputati possono formulare proposte motivate in difformità delle conclusioni della Giunta. Qualora la Giunta abbia proposto la concessione dell’autorizzazione e non siano state formulate proposte diverse, L’Assemblea non procede a votazioni, intendendosi senz’altro approvate le conclusioni della Giunta. L’Assemblea è sempre chiamata a deliberare sulle richieste di autorizzazione relative ai provvedimenti comunque coercitivi della libertà personale o domiciliare». La norma di cui al secondo periodo, così come definita residualmente dal combinato disposto con la norma di cui al terzo periodo, si riferisce soltanto alle autorizzazioni a procedere, stabilendo un’approvazione tacita

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delle proposte della Giunta favorevoli alla loro concessione, qualora venti deputati, ai sensi della norma di cui al primo periodo, non abbiano presentato una difforme proposta motivata. La norma di cui al terzo periodo, invece, obbliga l’Assemblea a deliberare comunque, indipendentemente dal contenuto, favorevole o contrario, della proposta della Giunta, qualora le richieste di autorizzazione siano relative ai provvedimenti comunque coercitivi della libertà personale o domiciliare. Poiché l’art. 68 Cost. non prevede più l’autorizzazione a procedere ma soltanto per i provvedimenti di cui ai co. 2 e 3 della stessa disposizione costituzionale, ne consegue che la norma di cui al secondo periodo non è più applicabile e che la sola norma applicabile risulta essere quella di cui al terzo periodo, interpretata estensivamente in quanto riferita non soltanto ai provvedimenti limitativi della libertà personale di cui al co. 2 dell’art. 68 ma anche a quelli di cui al co. 3 (intercettazioni e sequestro di corrispondenza). Se, dunque, alla luce dell’indicata interpretazione del co. 2-bis, anche alla Camera l’Assemblea deve votare sempre le proposte della Giunta, così come in maniera molto chiara stabilisce l’art. 135, co. 10, reg. Senato, resta da capire se si debba ritenere ancora vigente la norma di cui al primo periodo, ovvero la possibilità per venti deputati di presentare un proposta motivata difforme dalla proposta della Giunta. La risposta dovrebbe essere negativa se tale norma s’intende finalizzata esclusivamente ad obbligare l’Assemblea a deliberare anche nel caso di proposta di concessione dell’autorizzazione a procedere di cui alla norma del secondo periodo: l’inapplicabilità di quest’ultima, infatti, comporterebbe automaticamente l’inapplicabilità della prima. Al contrario, quella norma dovrebbe considerarsi ancora vigente qualora la si giudichi come una norma di carattere generale, relativamente alle autorizzazioni di cui all’art. 68 Cost., le cui finalità non si esauriscono in una funzione negativa (impedire un’approvazione senza votazione di determinate proposte della Giunta) ma hanno anche una valenza positiva, nel senso di consentire visibilità ad una forza politica di opposizione che può contrapporre motivatamente una propria proposta alla proposta approvata in Giunta dalla maggioranza. Tuttavia, la considerazione secondo cui i deputati che intendono votare contro una proposta della Giunta possono, in sede di dichiarazioni di voto, illustrare i motivi della loro contrarietà indebolisce notevolmente quest’ultima ricostruzione e fa, dunque, propendere il piatto delle bilancia a favore dell’inapplicabilità della norma di cui al primo periodo del co. 2-bis. Del resto, anche la prassi attuale sembra essere in questo senso, salvo restando l’auspicio che, a fini di chiarezza normativa, la Camera approvi un nuovo testo dell’art. 18 in generale e del co. 2-bis in particolare.

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Sempre in tema di immunità, la L. n. 140/2003, oltre a dare attuazione all’art. 68 Cost., aveva anche introdotto, all’art. 1, una particolare figura di immunità processuale penale che era sconosciuta al nostro ordinamento. Infatti, tale articolo disponeva che non possono essere sottoposte a processi penali le cinque più alte cariche dello Stato: il Presidente della Repubblica, il Presidente del Senato, il Presidente della Camera, il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Presidente della Corte costituzionale. La suddetta immunità operava per qualunque reato, anche qualora il fatto fosse stato commesso antecedentemente all’assunzione della carica o della funzione, e perdurava fino alla cessazione delle stesse. Tuttavia, lo stesso articolo prevedeva due eccezioni a tale regime. Da un lato, infatti, detta disciplina non si applicava al Presidente della Repubblica qualora si dovesse procedere nei suoi confronti per le due sole ipotesi nelle quali sussiste una sua responsabilità giuridica, ossia, ai sensi dell’art. 90 Cost., per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. Dall’altro lato, ugualmente tale disciplina non si applicava al Presidente del Consiglio qualora, ai sensi dell’art. 96 Cost., egli fosse responsabile penalmente per fatti commessi nell’esercizio delle sue funzioni. Inoltre, laddove vi fossero per tali cinque cariche dei processi penali pendenti, salvo sempre le ipotesi di cui agli artt. 90 e 96 Cost., essi erano sospesi. Tuttavia, al fine di evitare che la prescrizione determinasse l’estinzione del reato, si prevedeva la sospensione dei termini di decorrenza. La Corte costituzionale, investita dal Tribunale di Milano della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della L. n. 140/2003, ha dichiarato, con la sent. n. 24/2004, l’illegittimità costituzionale del suddetto articolo per contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost. Con la sent. n. 390/2007 la Corte è tornata sulla questione delle intercettazioni indirette, questa volta dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 6, co. 2, 5 e 6, della L. 20 giugno 2003, n. 140 nella parte in cui stabilisce che la disciplina ivi prevista si applica anche nei casi in cui le intercettazioni devono essere utilizzate nei confronti di soggetti diversi dal membro del Parlamento, le cui conversazioni o comunicazioni sono state intercettate.

4. L’immunità della sede. Irrilevanza della diversa terminologia presente nell’art. 69 reg. Senato e nell’art. 62 reg. Camera L’art. 69 reg. Senato e l’art. 62 reg. Camera disciplinano la cosiddetta immunità delle sedi parlamentari con una normativa pressoché eguale, ad eccezione di una norma – della quale si parlerà più avanti – presente nel regolamento della Camera (co. 4) ma non in quello del Senato.

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Tale immunità si riferisce ai due rami del Parlamento considerati nella loro materialità – la sede principale e le sedi decentrate degli organi e degli uffici delle Camere – ma opera altresì, automaticamente, nei confronti dei singoli parlamentari a condizione che si trovino all’interno di una sede camerale. Esemplificando, un ordine di custodia disposto dalla magistratura nei confronti di un parlamentare non potrà essere eseguito fintanto che il parlamentare si trovi all’interno della sede della Camera o del Senato ed il Presidente della rispettiva Assemblea non abbia concesso l’autorizzazione alla sua esecuzione, secondo quanto disposto dai citati articoli dei regolamenti parlamentari. L’immunità della sede può pertanto essere considerata anche come un’immunità “indiretta” nei confronti del singolo parlamentare, restandone così giustificata la trattazione nel presente capitolo relativo allo status del parlamentare. Le norme dei regolamenti parlamentari stabiliscono innanzi tutto che la forza pubblica, compresa la polizia giudiziaria, non può accedere alla sede della Camera o del Senato, né ad alcun locale in cui abbiano sede organi ed uffici camerali o che siano comunque nella loro disponibilità, se non per ordine o previa autorizzazione del rispettivo Presidente. Nel caso di locali nei quali abbiano sede organi parlamentari bicamerali, l’ordine o la previa autorizzazione di accesso viene data a seguito d’intesa tra i Presidenti dei due rami del Parlamento. A fronte di tale normativa di carattere generale, gli stessi articoli dei regolamenti parlamentari ne prevedono un’altra di carattere specifico e più stringente in relazione alla possibilità di accesso da parte della forza pubblica, compresa la polizia giudiziaria, nelle aule della Camera e del Senato, delle Giunte o delle Commissioni. In questo caso l’ordine di accesso da parte del Presidente della Camera o del Senato può essere dato soltanto dopo che sia stata sospesa o tolta la seduta; per le aule degli organi parlamentari bicamerali l’ordine viene dato a seguito d’intesa tra i Presidenti dei due rami del Parlamento. Un possibile problema interpretativo potrebbe sorgere alla luce di una differenza letterale riscontrabile dal raffronto tra i testi degli artt. 69 reg. Senato e 62 reg. Camera. Mentre la prima disposizione contiene sempre e soltanto la parola “ordine” del Presidente in riferimento ad ambedue le fattispecie illustrate, la seconda, distinguendo tra le due fattispecie, usa in relazione alla prima le parole “ordine” e “previa autorizzazione” ed in relazione alla seconda soltanto la parola “ordine”. Se l’espressione “ordine” venisse interpretata come caratterizzante un atto d’iniziativa del Presidente e l’espressione “previa autorizzazione” come caratterizzante un atto del Presidente che presuppone necessariamente la richiesta di un’altra autori-

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tà, le conseguenze sull’interpretazione delle citate disposizioni regolamentari sarebbero, sul piano sostanziale, le seguenti. Al Senato l’accesso da parte della forza pubblica sia nelle sedi parlamentari, sia nelle aule dei diversi organi parlamentari, potrebbe avvenire soltanto su iniziativa (“ordine”) del Presidente del Senato e non invece su richiesta di autorità esterne. Diversamente, alla Camera la soluzione sarebbe diversificata a seconda che l’accesso della forza pubblica si riferisca alle aule (soltanto su iniziativa – “ordine” del Presidente) ovvero alle sedi genericamente intese (previa autorizzazione o su ordine, a seconda che vi sia o meno una richiesta da parte di un’autorità esterna). Inoltre, tanto al Senato quanto alla Camera, nessuna autorità esterna sarebbe legittimata a richiedere l’accesso della forza pubblica alle aule parlamentari. Tuttavia, al di là dell’arbitraria ed irrazionale limitazione che si determinerebbe per qualsiasi autorità esterna nei confronti del Senato in modo assoluto e nei confronti della Camera in modo relativo, tali conseguenze non sono condivisibili poiché non sembra corretta la premessa che è alla loro base, e cioè il diverso significato che, come appena illustrato, avrebbero le parole “per ordine” e “previa autorizzazione”. In realtà, l’ordine del Presidente è sempre il provvedimento finale con il quale si concede l’accesso alla forza pubblica, mentre l’autorizzazione ne è soltanto un suo possibile e distinto presupposto esterno che non ne altera la natura, né tantomeno il significato sostanziale; a maggior ragione, poiché diversi sono i destinatari dei due provvedimenti: l’autorizzazione si riferisce all’autorità esterna che l’ha richiesta, mentre l’ordine si riferisce a coloro che, all’interno delle Camere, devono rendere in concreto possibile l’accesso della forza pubblica. In altre parole, l’esistenza di una previa autorizzazione significa che vi è stata una richiesta esterna ma non esclude affatto la necessità del successivo ordine: se così non fosse, la previa autorizzazione rimarrebbe un provvedimento sulla carta, come tale privo di qualsiasi efficacia. Concludendo in ordine all’interpretazione dei due articoli dei regolamenti parlamentari in esame, per i motivi suesposti non sembra che la diversità di espressioni in essi presenti determini conseguenze sostanziali tra loro difformi. Restando pertanto preferibile l’interpretazione secondo cui, tanto alla Camera quanto al Senato, l’accesso della forza pubblica, sia alle sedi parlamentari sia alle aule, possa essere ordinato dal Presidente autonomamente ovvero su richiesta di un’autorità esterna competente. L’art. 62, co. 4, reg. Camera, contiene un’ulteriore disposizione – non presente nel regolamento del Senato – secondo la quale gli atti e i provvedimenti di enti e organi estranei alla Camera, la cui esecuzione debba aver luogo all’interno di sedi o locali della Camera medesima o che comunque

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abbiano ad oggetto tali sedi o locali ovvero documenti, beni o attività di essa, non possono in alcun modo essere eseguiti se non previa autorizzazione del Presidente, che valuta gli effetti sulle attività istituzionali della Camera. Tale disposizione ha una portata amplissima e costituisce una sorta di norma di chiusura verso l’esterno delle sedi e dei locali della Camera soprattutto, anche se non soltanto, nei confronti della Magistratura: si pensi, a titolo di esempio, in ambito civilistico a provvedimenti di pignoramento o, in materia penale, a richieste di acquisizione di documenti necessari per lo svolgimento di indagini. Da qui la possibilità di frequenti conflitti di attribuzione di fronte alla Corte costituzionale tra Camera e Magistratura, che tuttavia potranno essere contenuti in misura accettabile qualora l’eventuale diniego dell’autorizzazione da parte del Presidente sia strettamente correlato ed adeguatamente motivato alla salvaguardia delle attività istituzionali della Camera. Peraltro, la norma in questione, contenuta nel testo dell’art. 62, co. 4, reg. Camera, riformato il 16 dicembre 1998, sembra essere seguita, nella prassi, anche al Senato, come confermato dalla sent. n. 231/1975, con la quale la Corte costituzionale, riferendosi agli artt. 62 reg. Camera e 69 reg. Senato, affermava che «da queste disposizioni, per lunga tradizione, si suole trarre la regola della cosiddetta “immunità della sede” (valevole anche per gli altri supremi organi dello Stato) in forza della quale nessuna estranea autorità potrebbe far eseguire coattivamente propri provvedimenti rivolti al Parlamento ed ai suoi organi. Di guisa che, ove gli organi parlamentari non vi ottemperassero, sarebbe unicamente possibile provocare l’intervento di questa Corte, in sede di conflitto d’attribuzione».

5. L’indennità parlamentare Ai sensi dell’art. 69 Cost. «I membri del Parlamento ricevono un’indennità stabilita dalla legge». La L. 31 ottobre 1965, n. 1261, dando attuazione alla suddetta disposizione costituzionale, ha previsto una retribuzione articolata: da un lato una somma fissa mensile e dall’altro una somma, a titolo di diaria-rimborso spese per il soggiorno a Roma, calcolata sulla base di quindici giorni di presenza al mese. Questa seconda somma è variabile nel suo importo poiché, ai sensi dell’art. 48-bis reg. Camera e della deliberazione del Consiglio di Presidenza del Senato dell’11 luglio 2002, può essere decurtata dall’Ufficio di presidenza di ciascuna Camera in proporzione al numero di assenze accertate per ciascun parlamentare dalle sedute dell’Assemblea, delle Commissioni e delle Giunte.

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I parlamentari, inoltre, godono di una serie di facilitazioni che sarebbe troppo lungo indicare compiutamente ma che, a puro titolo di esempio, vanno dalla libera circolazione sui treni italiani (il cosiddetto “permanente”), al rimborso di un determinato numero di biglietti aerei, ad una somma, erogata da ciascuna Camera, grazie alla quale il parlamentare stipula un contratto di collaborazione a tempo determinato (fino al termine del mandato dello stesso parlamentare) con un soggetto esterno. Un’indennità di funzione aggiuntiva è, infine, prevista in varia misura per i parlamentari che ricoprono alcune cariche all’interno di ciascuna Camera, quali Presidente di Assemblea o di commissione, membri dell’Ufficio di presidenza, questori, ecc.

6. L’autorizzazione a procedere nei confronti di parlamentari che rivestono, o hanno rivestito, la carica di Ministro La disciplina della responsabilità penale dei ministri è stata radicalmente modificata dalla L. cost. 16 gennaio 1989, n. 1. Prima della riforma, infatti, la Costituzione prevedeva che fosse il Parlamento in seduta comune a mettere in stato d’accusa il Presidente del Consiglio ed i ministri per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni e che spettasse poi alla Corte costituzionale in composizione integrata decidere su tali accuse (procedimento analogo a quello previsto per i reati di alto tradimento e attentato alla Costituzione commessi dal Presidente della Repubblica). La nuova formulazione dell’art. 96 Cost., introdotta dall’art. 1 della L. cost. 16 gennaio 1989, n. 1, stabilisce che «Il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei Deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale». L’art. 5 della citata legge costituzionale precisa che l’autorizzazione a procedere spetta alla Camera «cui appartengono le persone nei cui confronti si deve procedere, anche se il procedimento riguardi altresì soggetti che non sono membri del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati. Spetta al Senato della Repubblica se le persone appartengono a Camere diverse o si deve procedere esclusivamente nei confronti dei soggetti che non sono membri delle Camere». Tale disciplina è estesa dall’art. 10 alle autorizzazioni relative a «misure limitative della libertà personale, a intercettazioni telefoniche o sequestro o violazione di corrispondenza ovvero a perquisi-

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zioni personali o domiciliari»; l’autorizzazione non è necessaria se il parlamentare-ministro sia colto nell’atto di commettere un delitto (flagranza del reato) per il quale è obbligatorio il mandato o l’ordine di cattura. I reati commessi dai ministri nell’esercizio delle loro funzioni possono essere definiti come quelli nei quali l’atto o la condotta sono riconducibili alla competenza funzionale dell’autore del fatto. Ne consegue che la qualificazione soggettiva dell’autore del reato – il rivestire la carica di Ministro – non è di per sé sufficiente a definire il reato commesso come reato ministeriale. In questo senso si è pronunciata la Corte costituzionale con la sent. n. 87/2012, risolvendo un conflitto di attribuzioni sollevato dalla Camera dei deputati nei confronti della procura di Milano e del giudice per le indagini preliminari. La Corte ha inoltre chiarito che, a seguito della revisione costituzionale intervenuta con la L. cost. n. 1/1989, la qualificazione del reato (ministeriale o comune) spetta al pubblico ministero, mentre in capo alle Camere permane la sola valutazione delle condizioni per concedere, o negare, l’autorizzazione a procedere, laddove questa sia stata richiesta, per il tramite del Procuratore della Repubblica, dal tribunale dei ministri. Il cosiddetto tribunale dei ministri, competente per la fase istruttoria dei procedimenti per reati ministeriali, è istituito presso il tribunale del capoluogo di distretto di ogni Corte d’appello. Tale tribunale è un collegio composto di tre membri effettivi e tre membri supplenti estratti a sorte ogni due anni tra tutti i magistrati del distretto competente che hanno anzianità almeno quinquennale di magistrato di tribunale. Il tribunale dei ministri, una volta ricevuta la notizia di reato dal Procuratore della Repubblica, inizia le indagini preliminari, per lo svolgimento delle quali gode degli stessi poteri del pubblico ministero. Le indagini devono concludersi entro 90 giorni, al termine dei quali il tribunale può disporre l’archiviazione oppure chiedere l’autorizzazione a procedere alla Camera competente. Ai sensi dell’art. 9, co. 3, della L. cost. n. 1/1989, le Camere possono negare, con decisione insindacabile, l’autorizzazione a procedere a maggioranza assoluta (metà più uno dei componenti) ed esclusivamente nel caso in cui ritengano che l’inquisito abbia agito «per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo». Il diniego dell’autorizzazione a procedere comporta l’obbligo per il Tribunale dei ministri di disporre l’archiviazione. La concessione dell’autorizzazione, invece, comporta la prosecuzione del procedimento penale concernente i reati ministeriali dinnanzi al giudice ordinario. I regolamenti parlamentari (artt. 135-bis reg. Senato e 18-bis, ter e quater reg. Camera) si sono adeguati alla nuova disciplina costituzionale dei

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reati ministeriali. È previsto l’intervento istruttorio della Giunta che, sentito l’interessato, propone all’Assemblea la concessione o il diniego dell’autorizzazione a procedere; fino alla conclusione della discussione possono essere formulate (da almeno venti senatori o da venti deputati o, soltanto alla Camera, da uno o più Presidenti di Gruppi che, separatamente o congiuntamente, risultino di almeno pari consistenza numerica) proposte in difformità dalle conclusioni della Giunta, mediante la presentazione di appositi ordini del giorno motivati. Qualora la Giunta abbia proposto la concessione dell’autorizzazione e non siano state formulate proposte diverse, l’Assemblea non procede a votazioni, intendendosi senz’altro approvate le conclusioni della Giunta; qualora, invece, siano state presentate proposte di diniego dell’autorizzazione, dalla stessa Giunta o dai soggetti di cui sopra, tali proposte sono poste in votazione e s’intendono respinte qualora non abbiano conseguito il voto favorevole della maggioranza assoluta dei componenti l’Assemblea; qualora sia stata richiesta l’autorizzazione a procedere contro più soggetti indicati come concorrenti in uno stesso reato, l’Assemblea delibera separatamente nei confronti di ciascuno di tali soggetti. Infine, l’Assemblea è sempre tenuta a votare sulle conclusioni formulate dalla Giunta quando si tratti di autorizzazioni ai provvedimenti restrittivi nei confronti di parlamentari-ministri, di cui all’art. 10 della L. cost. n. 1/1989 (artt. 135-bis, co. 10, reg. Senato e 18-quater, co. 4, reg. Camera).

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CAPITOLO 5 IL FUNZIONAMENTO DELLE CAMERE SOMMARIO: 1. Il funzionamento delle Camere: la convocazione delle Camere e delle Commissioni; la documentazione dei lavori parlamentari; sedute pubbliche e sedute segrete; il numero legale; i tipi di maggioranza e loro determinazione; forme e modi di votazione. – 2. La programmazione dei lavori. – 3. La sessione di bilancio. – 4. L’ostruzionismo parlamentare. – 5. L’attività delle Camere in periodo di crisi di Governo.

1. Il funzionamento delle Camere: la convocazione delle Camere e delle Commissioni; la documentazione dei lavori parlamentari; sedute pubbliche e sedute segrete; il numero legale; i tipi di maggioranza e loro determinazione; forme e modi di votazione Secondo quanto disposto dall’art. 62 Cost. le Camere si riuniscono di diritto il primo giorno non festivo di febbraio e di ottobre. Ciascuna Camera può tuttavia essere convocata in via straordinaria per iniziativa del suo Presidente o del Presidente della Repubblica o di un terzo dei suoi componenti. In tale ipotesi, è convocata di diritto anche l’altra Camera. La convocazione di ciascuna Camera spetta ai rispettivi Presidenti di Assemblea mediante la diramazione dell’ordine del giorno della seduta successiva, al Senato (art. 52, co. 1, reg. Senato), e l’annuncio, prima di chiudere la seduta, dell’ordine del giorno e l’ora delle due sedute successive, alla Camera (art. 26, co. 1, reg. Camera). Quando il Parlamento si riunisce in seduta comune, esso è presieduto dal Presidente della Camera dei deputati il quale si avvale a tal fine del proprio Ufficio di presidenza (art. 63, co. 2, Cost.). Poiché i regolamenti parlamentari (art. 35 reg. Camera e artt. 64, co. 1, e 65 reg. Senato) prevedono che alle riunioni del Parlamento in seduta comune si applica il regolamento della Camera 1, 1

L’art. 65 reg. Senato non esclude tuttavia la possibilità che il funzionamento del Par-

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spetterà al Presidente di quest’ultima la convocazione dello stesso 2. La convocazione di ciascuna Camera può essere ordinaria, straordinaria o di diritto. La convocazione ordinaria avviene mediante annuncio al termine della seduta o comunicazione al domicilio dei parlamentari dell’ordine del giorno della seduta successiva, al Senato, e delle due sedute successive, alla Camera, nel rispetto delle previsioni contenute nel calendario dei lavori (art. 26, co. 1, reg. Camera; art. 56, co. 1, reg. Senato). Quest’ultimo, tuttavia, viene derogato, ai sensi del combinato disposto dell’art. 77 Cost., dell’art. 96-bis, co. 1, reg. Camera e dell’art. 78, co. 1, reg. Senato, nell’ipotesi di presentazione da parte del Governo di un disegno di legge di conversione di un decreto-legge. In tal caso, il Presidente di ciascuna Camera ha l’obbligo di convocare immediatamente l’Assemblea affinché questa si riunisca entro cinque giorni, anche se entrambe le Camere siano sciolte. Egualmente, nell’ipotesi di cui all’art. 94, co. 3, Cost., la data di convocazione delle Camere è stabilita d’intesa tra i due Presidenti, che convocano le rispettive Assemblee per procedere al dibattito sulla fiducia al nuovo Governo entro dieci giorni dalla sua formazione (art. 29, co. 2, reg. Camera; art. 52, co. 4, reg. Senato). L’art. 62 Cost. non specifica le ipotesi nelle quali i soggetti ivi indicati possono richiedere la convocazione straordinaria di una Camera. È peraltro evidente che a tale convocazione si ricorrerà per la discussione di questioni di particolare rilevanza ed urgenza. L’art. 52, co. 2, reg. Senato, stabilisce espressamente che nella relativa richiesta di convocazione deve essere indicato l’argomento da porre all’ordine del giorno. Inoltre, il co. 3 della medesima disposizione prevede che la convocazione in via straordinaria possa avvenire anche in regime di prorogatio. Il regolamento della Camera non contiene le due citate disposizioni anche se la prassi è in tal senso. Ai sensi del co. 3 dell’art. 62 Cost., la convocazione di diritto di una Camera avviene quando l’altra sia stata convocata con la procedura straordinaria stabilita dal co. 2 del medesimo articolo 3. lamento in seduta comune possa essere regolato da un’autonoma disciplina, attraverso la creazione di regole ad hoc. 2 Del resto, tale interpretazione risulta confermata dall’art. 85, co. 2, Cost. ai sensi del quale, entro trenta giorni prima che scada il termine di sette anni, spetta al Presidente della Camera dei deputati convocare il Parlamento in seduta comune ed i delegati regionali, per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. 3 Cfr. art. 29, co. 1, reg. Camera; nel regolamento del Senato manca una disposizione che riproduca quanto stabilito dall’art. 62, co. 3, Cost.

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In entrambe le Camere, le Commissioni permanenti sono convocate dai Presidenti di Assemblea per la prima volta, all’inizio della legislatura, per procedere alla loro costituzione e, dopo il primo biennio, in occasione del loro rinnovo. Successivamente la loro convocazione spetta ai rispettivi Presidenti con la diramazione dell’ordine del giorno (art. 29, co. 1, reg. Senato; artt. 20, co. 1, e 21, co. 1, reg. Camera). Il Presidente di Commissione, infatti, al termine di ciascuna seduta, annuncia la data, l’ora e l’ordine del giorno della seduta successiva, ai sensi dell’art. 29, co. 3, reg. Senato, e dei due giorni successivi di lavoro, a norma dell’art. 26, co. 1, reg. Camera. In particolare, ai sensi dell’art. 29, co. 4, reg. Senato, delle convocazioni non comunicate al termine della seduta precedente deve essere dato avviso, mediante pubblicazione e spedizione dell’ordine del giorno, ai componenti delle Commissioni, almeno ventiquattro ore prima della riunione. Il termine è invece di quarantotto ore per le sedute delle Commissioni in sede deliberante o redigente. Per prassi, tuttavia, in caso d’urgenza, è possibile derogare a questi limiti temporali previa autorizzazione del Presidente e comunicazione all’Assemblea. Secondo quanto previsto dai co. 5 e 7 della medesima disposizione, nei periodi di aggiornamento dei lavori, la convocazione delle Commissioni in sede deliberante e redigente viene comunicata mediante annuncio della data e dell’ordine del giorno delle sedute delle Commissioni stesse, dal Presidente del Senato in Assemblea nell’ultima seduta prima dell’aggiornamento o mediante invio dell’ordine del giorno stesso a tutti i senatori, di norma, almeno tre giorni prima della data di riunione. Inoltre, durante i suddetti periodi di aggiornamento dei lavori, la convocazione delle Commissioni per la discussione di determinati argomenti può essere richiesta anche da un terzo dei componenti delle Commissioni stesse. In tale ipotesi, la convocazione deve avvenire entro il decimo giorno dalla richiesta. Ai sensi dell’art. 30, co. 1 e 2, reg. Camera, le Commissioni sono convocate per mezzo del Segretario generale della Camera, con richiesta diramata, di norma, almeno quarantotto ore prima delle riunioni. L’art. 26, co. 1, reg. Camera, nel disciplinare le modalità di convocazione delle Commissioni e dell’Assemblea, fa salvo il termine di cui al co. 2 dell’art. 82 del medesimo regolamento, ai sensi del quale, salvo diverso accordo tra i Gruppi o ragioni d’urgenza, l’ordine del giorno, che stabilisce l’inizio dell’esame di un progetto di legge, deve essere annunciato almeno ventiquattro ore prima dell’avvio della discussione sulle linee generali del progetto stesso. Ai sensi del combinato disposto dei co. 3 e 4 dell’art. 30, reg. Camera, durante i periodi di aggiornamento dei relativi lavori, se un quinto dei

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componenti di una delle Commissioni permanenti ne richieda la convocazione per discutere determinati argomenti, il Presidente della Commissione provvede affinché essa si riunisca entro il decimo giorno da quello in cui gli sia pervenuta la richiesta, comunicando ai singoli componenti l’ordine del giorno, in modo che tra l’avviso di convocazione e il giorno della seduta decorrano almeno cinque giorni. Qualora ve ne sia la necessità, il Governo può chiedere che le Commissioni siano convocate per dar loro comunicazioni. Inoltre, il co. 5 della medesima disposizione stabilisce che, salvo autorizzazione espressa del Presidente della Camera, le Commissioni non possono riunirsi nelle stesse ore nelle quali si svolge la seduta dell’Assemblea. Diversamente, l’art. 29, co. 8, reg. Senato, impone tale divieto soltanto alle Commissioni in sede deliberante e redigente le quali, quando l’Assemblea è riunita, sono tenute a sospendere la seduta qualora lo richiedano il Presidente del Senato o un terzo dei senatori presenti in Commissione. Inoltre, quando sia necessario in relazione ai lavori dell’Assemblea, il Presidente della stessa, al Senato, può richiedere la revoca delle convocazioni, già disposte, delle Commissioni (art. 29, co. 6, ultimo periodo, reg. Senato) mentre, alla Camera, può sempre revocarle direttamente (art. 30, co. 5, ultimo periodo, reg. Camera). L’art. 29, co. 6, primo periodo, reg. Senato prevede che le Commissioni possono essere convocate in via straordinaria, per la discussione di determinati argomenti, qualora ne faccia richiesta il Presidente del Senato, anche su domanda del Governo; in senso analogo l’art. 25, co. 6, reg. Camera. L’attività svolta sia in Assemblea, sia in Commissione, è documentata principalmente da tre tipi di atti parlamentari: il verbale, che riporta esclusivamente gli atti e le deliberazioni svoltesi durante la seduta, indicando per ciascuna discussione l’oggetto ed i nomi di coloro che vi hanno partecipato (art. 60, co. 1, 2, 3 e 4, reg. Senato; art. 34 reg. Camera); il resoconto stenografico, che riproduce fedelmente, parola per parola, gli interventi dei parlamentari e le fasi procedurali nelle quali si è articolata la seduta; il resoconto sommario, che consiste in un riassunto, in forma discorsiva, dei dibattiti e delle deliberazioni (art. 60, co. 5, reg. Senato; art. 63, co. 2, reg. Camera). I resoconti, sia sommari sia stenografici, sono pubblicati sul Bollettino delle Giunte e delle Commissioni parlamentari. Mentre i lavori dell’Assemblea sono sempre documentati dalla redazione di tutti e tre i tipi di atti parlamentari ora ricordati (art. 60 reg. Senato; artt. 34, co. 1, e 63, co. 2, reg. Camera), i regolamenti parlamentari prescrivono la resocontazione stenografica soltanto per le sedute delle Commis-

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sioni in sede deliberante e redigente (art. 65, co. 2, reg. Camera; art. 33, co. 1, reg. Senato) e per le sedute delle Commissioni dedicate all’esame del bilancio di previsione dello Stato (art. 120, co. 8, reg. Camera; art. 126, co. 5, reg. Senato) nonché per quelle dedicate, al Senato, allo svolgimento di interrogazioni (art. 152, co. 6, reg. Senato) e, alla Camera, alle indagini conoscitive (art. 144, co. 4, reg. Camera). Tuttavia, nella prassi, è riconosciuta al Presidente di Assemblea la facoltà di autorizzare la redazione del resoconto stenografico anche per le sedute delle Commissioni diverse da quelle espressamente previste dal relativo regolamento parlamentare, su richiesta della stessa Commissione e per argomenti di particolare rilevanza. Alle tradizionali forme di pubblicità dei lavori parlamentari si aggiunge, per i dibattiti di maggior rilievo politico, la trasmissione radiotelevisiva. In particolare, la trasmissione televisiva diretta dei lavori dell’Assemblea può essere disposta dal Presidente della stessa ai sensi dell’art. 63, co. 1, reg. Camera; nel regolamento del Senato non esiste una disposizione analoga ma la prassi è nello stesso senso. In ogni caso, sia alla Camera, sia al Senato la trasmissione televisiva diretta avviene senza bisogno di particolari autorizzazioni in occasione del c.d. Question Time 4. Le forme di documentazione e di pubblicità dei lavori parlamentari rispondono principalmente ad esigenze di informazione e di controllo da parte dell’opinione pubblica sull’attività delle Assemblee elettive. Del resto, la stessa Costituzione prevede, all’art. 64 Cost., che le sedute sono pubbliche, fatta salva la facoltà di ciascuna Camera e del Parlamento in seduta comune di deliberare di riunirsi in seduta segreta 5. Ai sensi dell’art. 64 Cost., le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento non sono valide se non è presente la maggioranza dei loro componenti e se non sono adottate a maggioranza dei presenti, salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale. I membri del Governo, anche se non fanno parte delle Camere, hanno diritto, e se richiesti obbligo, di assistere alle sedute. Devono inoltre essere sentiti ogni volta che lo richiedono. Il numero legale, detto anche quorum, fissato dall’art. 64 Cost., si riferisce esclusivamente alle sedute dell’Assemblea, rispettivamente della Camera, del Senato e del Parlamento in seduta comune; il numero legale per la validità delle sedute delle Commissioni, variabile in relazione alle funzioni 4

Sul Question Time cfr. il successivo cap. 7, par. 1. Per le sedute dell’Assemblea cfr. artt. 57 e 165, co. 2, reg. Senato; artt. 34, co. 3, e 63, co. 1 e 3, reg. Camera. Per le sedute delle Commissioni cfr. artt. 31, co. 3, e 33, 2 e 3, reg. Senato; artt. 38, e 65, co. 3, reg. Camera. 5

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di volta in volta esercitate dalle Commissioni stesse, è invece stabilito dai regolamenti parlamentari. In questa sede ci si occuperà soltanto del primo tipo di numero legale. L’espressione “maggioranza dei componenti”, richiamata dall’art. 64 ai fini della determinazione del numero legale, è in realtà stata interpretata e codificata in vario modo dai regolamenti parlamentari. Sia alla Camera, sia al Senato, gli eventuali seggi vacanti non sono computati ai fini della determinazione del numero legale, perciò quest’ultimo non è individuato con riferimento agli artt. 56 e 57 Cost., secondo i quali i deputati sono seicentotrenta ed i senatori trecentoquindici, bensì con riferimento ai seggi effettivamente assegnati. Inoltre, al Senato non sono computati i senatori che rivestano la carica di ministro, nonché coloro ai quali sia stato concesso un congedo temporaneo o siano in missione fuori sede per incarico avuto dal Senato. Alla Camera, invece, sono computati come presenti i deputati che siano in missione fuori sede per incarico avuto dalla Camera ovvero, se membri del Governo, siano impegnati per ragioni del loro ufficio. È perciò quasi impossibile che il numero legale per una seduta della Camera, del Senato o del Parlamento in seduta comune sia in concreto coincidente con quello astrattamente determinabile (rispettivamente 316, 158 e 473) sulla base di quanto stabilito in Costituzione. I regolamenti parlamentari stabiliscono, inoltre, il principio secondo cui il numero legale è sempre presunto all’inizio di ogni seduta. La sua mancanza può emergere a seguito di una richiesta di verifica avanzata da un certo numero di parlamentari o (solo al Senato) disposta di ufficio dal Presidente ricorrendo determinati presupposti (art. 107, co. 3, reg. Senato). Una verifica automatica del numero legale si realizza, inoltre, nel caso di votazioni cosiddette formali o qualificate (a scrutinio segreto o per appello nominale), dalle quali risulta con precisione il numero dei favorevoli, dei contrari e degli astenuti. Ciò che non avviene, per contro, nel caso di votazioni cosiddette informali (per alzata di mano o per divisione) nelle quali non si procede alla conta dei singoli voti ma ci si limita ad accertare soltanto il risultato globale della votazione. La mancanza del numero legale determina conseguenze diverse a seconda che il relativo accertamento sia avvenuto a seguito di verifica automatica o a seguito di verifica su richiesta: nel primo caso, la conseguenza è l’invalidità della deliberazione adottata, come espressamente stabilisce l’art. 64; nel secondo, la conseguenza è il rinvio della seduta nei modi previsti dai regolamenti parlamentari. Le maggioranze necessarie per adottare una deliberazione sono di vario tipo: maggioranza semplice = metà più uno dei presenti; maggioranza assoluta = metà più uno dei componenti; maggioranza qualificata = ogni mag-

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gioranza superiore a quella assoluta (ad es. due terzi o tre quinti dei componenti). Le modalità per la determinazione della maggioranza semplice non erano in passato – prima della recente riforma del Regolamento del Senato – le stesse alla Camera ed al Senato a causa del diverso computo di coloro che si astengono dalla votazione. Alla Camera gli astenuti non vengono computati, ai sensi dell’art. 48, co. 2, reg. Camera, secondo il quale ai fini della determinazione della maggioranza dei presenti «sono considerati presenti coloro che esprimono voto favorevole o contrario». Al Senato, invece, gli astenuti venivano computati, ai sensi della diversa formulazione dell’art. 107, co. 1, reg. Senato, secondo il quale «ogni deliberazione del Senato è presa a maggioranza dei senatori che partecipano alla votazione». Il concetto di votanti in senso favorevole o contrario escludeva gli astenuti poiché essi, pur partecipando alla votazione, non esprimono alcuna volontà, favorevole o contraria, alla proposta in votazione. Tale diversa disciplina del computo degli astenuti produceva una conseguenza sostanziale, che poteva avere riflessi anche sul piano politico, poiché mentre alla Camera gli astenuti determinano un abbassamento della maggioranza necessaria per l’approvazione della proposta in votazione, al Senato ne determinavano l’innalzamento e dunque in questo secondo caso l’astensione, rendendo più difficile il raggiungimento della maggioranza, equivaleva nella sostanza ad un voto contrario. Perciò, i senatori che intendevano astenersi ma, allo stesso tempo, volevano evitare la suddetta conseguenza dovevano uscire dall’Aula dell’Assemblea: in tal modo, non essendo presenti non potevano evidentemente essere considerati come “partecipanti alla votazione” ai sensi dell’art. 107, co. 1. La diversa disciplina del computo degli astenuti, ai fini della determinazione della maggioranza semplice, di cui al regolamento della Camera ed al regolamento del Senato, è stata valutata dalla Corte costituzionale nel 1984. La Corte, investita della questione di legittimità costituzionale della L. 22 ottobre 1971, n. 865, per violazione dell’art. 64 Cost. in quanto la Camera aveva approvato la legge a maggioranza dei votanti ma non dei presenti, non essendo stati computati i deputati che si erano astenuti (ben centocinquantaquattro), ha ritenuto non fondata la questione, anche se con argomenti poco convincenti. Nella sent. n. 78/1984, la Corte, basandosi sull’autonomia regolamentare di ciascuna Camera stabilita dallo stesso art. 64, co. 1 e sulla competenza esclusiva in tema di procedimento legislativo attribuita ai regolamenti parlamentari dall’art. 72 Cost., ha innanzi tutto affermato una sorta di monopolio interpretativo a favore di ciascuna Camera per quanto attiene all’attuazione ed all’interpretazione delle dispo-

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sizioni della Costituzione in tema di procedimento legislativo, senza peraltro considerare che l’interpretazione di disposizioni costituzionali (di qualsiasi disposizione costituzionale e dunque anche di quelle relative al procedimento legislativo) non può non spettare alla stessa Corte e, in ultima battuta, ad eventuali leggi costituzionali d’interpretazione autentica. In secondo luogo, la Corte ha comunque pilatescamente assolto dai dubbi di costituzionalità ambedue le disposizioni regolamentari sulla base di un ragionamento di puro fatto: dichiarare di astenersi, come avviene alla Camera, e assentarsi dall’Aula, come avviene al Senato, sono manifestazioni di volontà formalmente diverse ma che concorrono allo stesso risultato sostanziale di evitare l’incidenza delle astensioni nella formazione della volontà collegiale dell’organo Camera o Senato. Ragionamento, quest’ultimo, ineccepibile in ordine all’identità del fine dei due meccanismi, anche se tralascia di considerare la diversa natura degli stessi, l’uno formalmente previsto da una norma regolamentare, l’altro semplice sotterfugio di fatto. Soprattutto, tale ragionamento non risolve ma semplicemente elude il quesito iniziale, vale a dire quale tra le due diverse disposizioni regolamentari sia conforme all’espressione “maggioranza dei presenti” di cui all’art. 64 Cost. Oggi la questione non si pone più perché il Senato, ai fini del computo degli astenuti, si è uniformato alla disciplina prevista dal Regolamento della Camera. L’art. 107 reg. Senato, dopo aver premesso al co. 1 che «Ogni deliberazione del Senato è presa a maggioranza dei Senatori presenti …», al co. 2-bis precisa che «Ai fini della verifica del numero legale, sono considerati presenti anche i Senatori che esprimono un voto di astensione …». Un altro problema riguarda la norma, anch’essa contenuta nell’art. 64, secondo cui la possibilità di stabilire maggioranze superiori a quella semplice per determinate deliberazioni sarebbe limitata alle ipotesi in tal senso previste dalla stessa Costituzione (artt. 64, 73, 79, 83, 90, 116, 138). In altre parole, l’art. 64 vieterebbe tale possibilità a qualsiasi altra fonte, ivi comprese le leggi ordinarie ed i regolamenti parlamentari, diversa dalla Costituzione o, com’è pacifico dato il loro grado gerarchico pari a quello della Costituzione, da leggi costituzionali. Sarebbero perciò illegittime, ad esempio, le disposizioni delle diverse leggi che prevedono maggioranze speciali per l’elezione dei cosiddetti membri laici del Consiglio superiore della magistratura da parte del Parlamento in seduta comune e per l’elezione dei componenti la delegazione italiana al Parlamento europeo ed al Consiglio d’Europa; egualmente illegittime, con riferimento ai regolamenti parlamentari, sarebbero le disposizioni che prevedono maggioranze speciali per l’elezione del Presidente del Senato, del Presidente della Camera e dei Pre-

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sidenti di Commissione; per discutere o deliberare su materie che non siano all’ordine del giorno dell’Assemblea; per l’approvazione dei regolamenti interni della Giunta per il regolamento e della Giunta delle elezioni alla Camera e del regolamento per la verifica dei poteri al Senato; per l’approvazione delle proposte di diniego dell’autorizzazione a procedere per i reati di cui all’art. 96 Cost. Alcune di queste catastrofiche conseguenze vengono, tuttavia, evitate sulla base della distinzione, oramai consolidata, tra deliberazioni (votazioni reali) ed elezioni (votazioni personali). Esse differiscono per l’oggetto, che nel primo caso è un provvedimento di qualsiasi natura e nel secondo la scelta tra più persone per una carica elettiva; per i presupposti, quali la proposta ed il procedimento, che sussistono nel primo ma non nel secondo caso; nell’effetto determinato dal mancato raggiungimento della maggioranza, che nelle deliberazioni è rappresentato da una decisione negativa (il rigetto del provvedimento) e nelle elezioni da una non decisione (nessuno dei candidati ha ottenuto la maggioranza). Circoscrivere in tal senso l’espressione “deliberazione” di cui all’art. 64 esclude ogni sospetto d’illegittimità nei confronti delle disposizioni, legislative e regolamentari, che prevedono maggioranze speciali per l’elezione di organi o di membri di organi, nonché nei confronti delle disposizioni regolamentari relative all’approvazione a maggioranza assoluta dei regolamenti di alcune Giunte. Il problema permarrebbe, invece, per quelle disposizioni dei regolamenti parlamentari, sinteticamente indicate più sopra, che si riferiscono ad altre questioni; tuttavia, il problema non ha alcuna rilevanza pratica alla luce della consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo cui i regolamenti parlamentari non possono essere oggetto del giudizio di legittimità costituzionale operato dalla stessa Corte. I regolamenti parlamentari (artt. 113-120 reg. Senato e artt. 49-57 reg. Camera) prevedono diverse modalità di votazione, nonché l’obbligo o il divieto di ricorrere a talune di esse a seconda dell’oggetto al quale si riferiscono. Esemplificando, le votazioni relative ad elezioni devono necessariamente svolgersi a scrutinio segreto, mediante schede sulle quali vengono indicati, a seconda del caso, i nomi (o il nome) dei candidati prescelti (o del candidato prescelto); le votazioni sulla fiducia devono svolgersi per appello nominale (art. 94 Cost.). Diversamente, l’art. 49, co. 1-bis, reg. Camera, cui corrisponde, sia pure prevedendo una disciplina più dettagliata, l’art. 113, co. 6, reg. Senato, vieta lo scrutinio segreto «nelle votazioni concernenti le leggi di bilancio, le leggi collegate ... e tutte le deliberazioni che abbiano comunque conseguenze finanziarie». Le votazioni possono suddistinguersi in votazioni a scrutinio palese ed a

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scrutinio segreto; le votazioni che comportano un’automatica verifica del numero legale vengono altresì definite come votazioni formali o qualificate. Le votazioni a scrutinio palese sono, tradizionalmente, quelle per alzata di mano, per divisione, per alzata e seduta, nominali e per appello nominale; queste ultime due sono, altresì, votazioni qualificate. Le votazioni a scrutinio segreto sono, per definizione, votazioni qualificate e, quanto alle modalità del loro svolgimento, possono avvenire mediante schede, mediante deposizione in un’urna di una pallina bianca (voto favorevole) o di una pallina nera (voto contrario), ovvero mediante procedimento elettronico 6. Quest’ultimo sistema, che assicura la massima celerità della votazione e della verifica dei suoi risultati, ha sostanzialmente sostituito il sistema delle palline (art. 55 reg. Camera e art. 117 reg. Senato). Ad esso si può ricorrere sia nelle votazioni a scrutinio segreto (il sistema registra i voti ma non i nomi dei votanti), sia nelle votazioni per appello nominale (il sistema registra sia i voti, sia i nomi dei votanti e degli eventuali astenuti). In questo secondo caso, ciascun parlamentare, chiamato per ordine alfabetico dal Presidente, oltre a dichiarare a voce il proprio voto o la propria astensione, preme il bottone corrispondente, determinando in tal modo la registrazione del suo voto e del suo nominativo. Il sistema di votazione mediante procedimento elettronico è altresì previsto (art. 54, co. 1, reg. Camera, e art. 115 reg. Senato) per le votazioni nominali cosiddette senza appello o a scrutinio simultaneo, che differiscono dalle precedenti in quanto i parlamentari non vengono chiamati per nome dal Presidente, né annunciano a voce il proprio voto o la propria astensione, ma si limitano ad azionare il dispositivo elettronico che, come nel caso della votazione per appello, registra sia i voti, sia i nominativi. I regolamenti parlamentari (art. 49, co. 1, reg. Camera, e art. 113, co. 2, reg. Senato) stabiliscono il principio generale secondo cui le Camere votano normalmente a scrutinio palese, salvi i casi, previsti dagli stessi regolamenti, nei quali la votazione deve (come nel caso di votazioni relative a persone) o può (su richiesta del prescritto numero di parlamentari) avvenire a scrutinio segreto. L’obbligo della votazione a scrutinio palese, in particolare, è stato previsto per la votazione finale dei progetti di legge che, invece, per lunga tradizione avveniva a scrutinio segreto. Tuttavia, su richiesta del prescritto numero di parlamentari, la votazione finale può avvenire a scrutinio segreto quando un progetto di legge verta prevalentemente su 6

Sul banco di ogni parlamentare sono presenti: una fessura per l’inserimento della scheda personale di votazione e tre bottoni di diverso colore corrispondenti, rispettivamente, ad un voto favorevole o contrario o di astensione.

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una delle materie indicate, in modo non del tutto coincidente, nell’art. 49, co. 1, reg. Camera, e nell’art. 113, co. 4, reg. Senato.

2. La programmazione dei lavori Il periodo di durata in carica delle Camere viene indicato con il termine «legislatura». Quest’ultima non è più divisa formalmente in sessioni come invece avveniva all’epoca dello Statuto Albertino con precisi effetti giuridici. Attualmente il termine «sessione» viene utilizzato per indicare determinati periodi di tempo nei quali i lavori della Camera o del Senato sono concentrati su un determinato argomento – è il caso della discussione della legge di bilancio e dei relativi documenti finanziari – con esclusione di ogni altra attività, fatte salve determinate eccezioni 7. Inoltre, in un significato atecnico, l’art. 53. co. 1, reg. Senato, usa l’espressione sessione in riferimento alla programmazione dei lavori che viene organizzata per «sessioni bimestrali». A riprova del significato meramente atecnico della suddetta espressione, per le medesime finalità di programmazione dei lavori, l’art. 23, co. 2, reg. Camera si riferisce ad un “periodo di almeno due mesi”. La programmazione dei lavori parlamentari, sia alla Camera sia al Senato, si articola su tre documenti fondamentali: a) il programma, che contiene l’elenco degli argomenti da discutere con l’indicazione dell’ordine di priorità e del periodo nel quale se ne prevede l’iscrizione all’ordine del giorno all’Assemblea; b) il calendario, che definisce per un determinato periodo (tre settimane alla Camera, un mese al Senato) le modalità ed i tempi di applicazione del programma; c) l’ordine del giorno, annunciato dal Presidente e, se vi è opposizione, deliberato dall’Assemblea, contiene l’elenco degli argomenti da discutere nelle sedute dell’Assemblea dei due giorni successivi, alla Camera, o nella seduta successiva al Senato. Come già detto, ai sensi dell’art. 53, reg. Senato, i lavori parlamentari sono organizzati secondo il metodo della programmazione per sessioni bimestrali sulla base di programmi, calendari e ordini del giorno. Il co. 2 del medesimo articolo riserva due settimane ogni mese, non coincidenti con i lavori dell’Assemblea, per le sedute delle Commissioni. Ai sensi del combinato disposto dei co. 1, 2, 3, 4 e 5 della stessa disposizione, il Presidente del Senato predispone ogni due mesi il programma dei lavori, prendendo gli opportuni contatti con il Presidente della Camera, con i Presidenti delle Commissioni permanenti e speciali e con il Governo, 7

Sul punto cfr. il par. 3 di questo stesso capitolo.

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e sottoponendolo all’approvazione da parte della Conferenza dei Presidenti dei Gruppi parlamentari, alla quale partecipano i Vice Presidenti del Senato ed il rappresentante del Governo. Assicura, inoltre, che il programma venga redatto tenendo conto delle priorità indicate dall’Esecutivo e delle proposte avanzate dai Gruppi parlamentari nonché dai singoli senatori, anche con riferimento alle funzioni di ispezione e di controllo, per le quali sono riservati tempi specifici ed adeguati. Il programma, se approvato all’unanimità dalla Conferenza dei Presidenti di Gruppo, diviene definitivo dopo la comunicazione all’Assemblea. In tale sede può essere aperta una discussione, su richiesta di un senatore o del rappresentante del Governo nella quale possono intervenire, oltre al richiedente, un oratore per Gruppo per non più di dieci minuti. Tale procedimento si applica anche per l’esame e l’approvazione di eventuali modifiche del programma dei lavori da parte dell’Assemblea. L’art. 54 reg. Senato prevede che, qualora la Conferenza dei Presidenti dei Gruppi parlamentari non raggiunga l’accordo sul programma, il Presidente predisponga uno schema dei lavori per il periodo di una settimana, tenuto conto delle indicazioni emerse nella Conferenza stessa. Anche in tale ipotesi lo schema è comunicato all’Assemblea e se non sono proposte modifiche, diviene definitivo; diversamente, l’Assemblea vota sulle singole proposte di modifica, previa un’unica discussione limitata a non più di un oratore per Gruppo e per non oltre dieci minuti ciascuno. Nel corso della settimana la Conferenza dei Presidenti dei Gruppi parlamentari è convocata per decidere sull’organizzazione dei lavori del periodo successivo. Allo scopo di determinare le modalità di attuazione del programma, il Presidente dell’Assemblea predispone, ai sensi dell’art. 55, co. 1 e 2, reg. Senato, il calendario dei lavori parlamentari, che di norma ha cadenza mensile e reca il numero, la data e gli argomenti delle singole sedute. Il co. 3 della medesima disposizione prevede che il calendario, se adottato all’unanimità dalla Conferenza dei Presidenti dei Gruppi, viene comunicato all’Assemblea e diviene definitivo; in caso contrario, sulle singole proposte di modifica del calendario decide l’Assemblea con votazione per alzata di mano, dopo una discussione limitata ad un oratore per Gruppo. Il calendario definitivo viene pubblicato e distribuito. Quest’ultimo può tuttavia essere modificato dal Presidente del Senato solo per inserirvi argomenti che, per disposizioni della Costituzione o del Regolamento, devono essere discussi e votati in una data ricadente in un periodo considerato dal calendario stesso. In tal caso, per l’esame e l’approvazione delle eventuali proposte di modifica, si applica la procedura prevista per l’approvazione dello stesso ai sensi del combinato disposto dei co. 4 e 6 dell’art. 55 reg. Senato.

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Inoltre, ai sensi del co. 7 della stessa disposizione, in caso di situazioni sopravvenute ed urgenti, l’Assemblea, al termine della seduta, può deliberare su proposta del Presidente o su domanda del Governo o di otto senatori, di inserire nel calendario argomenti anche non indicati nel programma, purché non ne rendano impossibile l’esecuzione, stabilendo, ove necessario, di tenere sedute supplementari per la loro trattazione. Secondo le stesse modalità, l’Assemblea può altresì invertire l’ordine degli argomenti fissati nel calendario. Le suddette deliberazioni sono adottate con votazione per alzata di mano dopo l’intervento di non più di un oratore per Gruppo e per non oltre dieci minuti ciascuno. Inoltre, la norma di cui al co. 5 dell’art. 55 reg. Senato prevede che, al fine di organizzare la discussione dei singoli argomenti iscritti al calendario, la Conferenza dei Presidenti dei Gruppi parlamentari stabilisca, di norma, il tempo complessivo da riservare a ciascun Gruppo, indicando la data entro cui gli argomenti iscritti nel calendario devono essere posti in votazione. Secondo quanto disposto dall’art. 56, co. 1 e 2, reg. Senato, in base al calendario, il Presidente dell’Assemblea apre le sedute e le chiude annunciando la data, l’ora e l’ordine del giorno della seduta successiva, salvo i casi di convocazione a domicilio. L’ordine del giorno è redatto in base al calendario o secondo lo schema dei lavori. Ai sensi dei co. 3 e 4 del medesimo articolo, l’inversione della trattazione degli argomenti iscritti all’ordine del giorno della seduta può essere disposta dal Presidente o proposta da otto senatori. In tale ipotesi, la votazione si svolge per alzata di mano dopo l’intervento di non più di un oratore contro e di uno a favore e per non oltre dieci minuti. Inoltre, per discutere o votare su argomenti che non siano all’ordine del giorno è necessaria una deliberazione del Senato adottata a maggioranza dei due terzi dei presenti, su proposta del Governo o del Presidente della Commissione competente o di otto senatori, da avanzarsi all’inizio della seduta o quando il Senato stia per passare ad altro punto dell’ordine del giorno. Alla Camera, il programma dei lavori, predisposto sulla base delle indicazione del Governo e dei Gruppi parlamentari, contiene l’elenco degli argomenti da trattare, con l’indicazione dell’ordine di priorità e del periodo nel quale se ne prevede l’iscrizione all’ordine del giorno dell’Assemblea. Esso è deliberato dalla Conferenza dei Presidenti di Gruppo per un periodo di almeno due mesi e, comunque, non superiore a tre mesi. Tale indicazione avviene in modo da garantire tempi congrui per l’esame in rapporto al tempo disponibile e alla complessità degli argomenti. Pertanto, si stabilisce preventivamente la ripartizione dei tempi di lavoro dell’Assemblea e delle Commissioni nel periodo considerato. In ogni mese, ad eccezione del periodo di tempo in cui si svolge la sessione di bilancio ai sensi dei co. 1 e

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2 dell’art. 119 Cost., una settimana di sospensione dei lavori della Camera è riservata allo svolgimento delle altre attività inerenti al mandato parlamentare (art. 23, co. 2, 4 e 10, reg. Camera). In particolare, ai sensi del combinato disposto dei co. 3, 6 e 7 dell’art. 23 reg. Camera, il Presidente della Camera convoca la Conferenza dei Presidenti di Gruppo, solo dopo aver preso gli opportuni contatti con il Presidente del Senato e con il Governo, che interviene alla riunione con un proprio rappresentante e che può comunicare al Presidente della Camera e ai Presidenti dei Gruppi le proprie indicazioni, in ordine di priorità, almeno due giorni prima della riunione della Conferenza. Entro lo stesso termine ciascun Gruppo può far pervenire le proprie proposte al Governo, al Presidente della Camera e agli altri Gruppi. Il programma è approvato con il consenso dei Presidenti di Gruppo la cui consistenza numerica sia complessivamente pari almeno ai tre quarti dei componenti della Camera. In tale ipotesi, il Presidente è tenuto a riservare comunque una quota del tempo disponibile agli argomenti indicati dai Gruppi dissenzienti, ripartendola in proporzione alla consistenza di questi. Nel caso in cui nella Conferenza dei Presidenti di Gruppo non si raggiunga la maggioranza richiesta, il programma è predisposto dal Presidente secondo i criteri di cui ai co. 4 e 5 del medesimo articolo, inserendo nel programma stesso le proposte dei Gruppi parlamentari, tenuto conto della riserva di tempi e di argomenti di cui all’art. 24, co. 3, secondo periodo, reg. Camera. Il programma, una volta approvato, diviene definitivo dopo la comunicazione all’Assemblea. Quest’ultimo viene aggiornato almeno una volta al mese, mediante il procedimento ora descritto, secondo quanto disposto dall’art. 23, co. 9, reg. Camera. Inoltre, il co. 8 della medesima disposizione prevede l’inserimento nel programma, al di fuori dei criteri di cui ai precedenti co. 3, 4, 5 e 6, dei progetti di legge collegati alla manovra di finanza pubblica da esaminare durante la sessione di bilancio, del disegno di legge europea e degli atti dovuti diversi dalla conversione in legge dei decretilegge 8. Ai sensi del co. 11 dell’art. 23 reg. Camera, tuttavia, qualora non si giunga alla predisposizione del programma si procederà a norma del co. 1 art. 26 del medesimo regolamento. 8

Per completezza si rammenta che, ai sensi dell’art. 23, co. 5, reg. Camera, i progetti di legge sono inseriti nel programma in modo tale da assicurare che la discussione in Assemblea abbia inizio quando siano decorsi i termini previsti dall’art. 81 del medesimo regolamento per la presentazione della relazione all’Assemblea. Può derogarsi a tali termini soltanto qualora la Commissione abbia già concluso l’esame, ovvero su accordo unanime della Conferenza dei Presidenti di Gruppo, nonché per i progetti di legge esaminati a norma degli artt. 70, co. 2, 71 e 99, reg. Camera.

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Ai sensi del combinato disposto dei co. 1 e 5 dell’art. 24 del reg. Camera, il calendario dei lavori copre invece un arco di tempo di tre settimane e definisce le modalità ed i tempi di applicazione del programma: in particolare, individua gli argomenti, stabilisce le sedute per la loro trattazione e determina i giorni destinati alla discussione e quelli nei quali l’Assemblea procederà a votazioni. A norma del co. 2 della stessa disposizione, il calendario, predisposto sulla base delle indicazioni del Governo e delle proposte dei Gruppi parlamentari, è approvato con il consenso dei Presidenti di Gruppo la cui consistenza numerica sia complessivamente pari almeno ai tre quarti dei componenti della Camera. Il calendario diviene definitivo con la comunicazione all’Assemblea e spetta al Presidente riservare comunque una quota del tempo disponibile agli argomenti indicati dai Gruppi dissenzienti, ripartendola in proporzione alla consistenza di questi. Nell’ipotesi in cui non si raggiunga tale maggioranza, il calendario è predisposto dal Presidente, il quale, ai sensi del co. 3 dell’art. 24 reg. Camera, ha il compito inserire nello stesso le proposte dei Gruppi di opposizione, nel rispetto della riserva di tempi e di argomenti prevista dal secondo periodo della medesima disposizione 9. Il calendario così formato diviene definitivo dopo la comunicazione all’Assemblea. Ai sensi dell’art. 24, co. 6, reg. Camera all’esame ed all’approvazione di eventuali proposte di modifica del calendario, indicate dal Governo o da un Presidente di Gruppo, si applica la stessa procedura prevista per la sua approvazione. Nell’ipotesi in cui si verifichino situazioni d’urgenza, possono essere inseriti nel calendario argomenti anche non compresi nel programma, purché non ne rendano impossibile l’esecuzione, stabilendo in caso di necessità sedute supplementari per la loro trattazione. Il successivo co. 7 dello stesso articolo attribuisce alla Conferenza dei Presidenti di Gruppo, con il consenso dei Presidenti di Gruppi la cui consistenza numerica sia complessivamente pari almeno ai tre quarti dei componenti della Camera, il compito di determinare il tempo complessivamente disponibile per la discussione degli argomenti iscritti nel calendario dei 9 In particolare, ai sensi del co. 3 dell’art. 24 reg. Camera, l’inserimento delle proposte dei Gruppi di opposizione nel calendario deve essere tale da garantire a questi ultimi un quinto degli argomenti da trattare ovvero del tempo complessivamente disponibile per i lavori dell’Assemblea nel periodo considerato. Di norma, gli argomenti, diversi dai progetti di legge, inseriti nel calendario su proposta di Gruppi di opposizione, sono posti al primo punto dell’ordine del giorno delle sedute destinate alla loro trattazione. All’esame dei disegni di legge di conversione dei decreti-legge è destinata non più della metà del tempo complessivamente disponibile.

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lavori dell’Assemblea, tenuto conto della loro complessità. Quest’ultima, dopo aver detratto i tempi per gli interventi dei relatori, del Governo e dei deputati del Gruppo misto, nonché quelli per lo svolgimento di richiami al regolamento e delle operazioni materiali di voto, deve provvedere a ripartire fra i Gruppi, per una parte in misura uguale e per l’altra in misura proporzionale alla consistenza degli stessi, i quattro quinti del tempo complessivamente disponibile per le diverse fasi di esame. Il tempo rimanente dopo tale ripartizione è riservato ai deputati che chiedano di intervenire a titolo personale, dandone comunicazione prima dell’inizio della discussione. Inoltre, il tempo assegnato al Gruppo misto è ripartito tra le varie componenti politiche in esso costituite, tenuto conto della loro consistenza numerica. Infine, per l’esame dei disegni di legge d’iniziativa del Governo, la Conferenza dei Presidenti di Gruppo attribuisce ai Gruppi di opposizione una quota del tempo disponibile maggiore rispetto a quella riservata ai Gruppi della maggioranza. Secondo quanto disposto dal co. 8 dell’art. 24 reg. Camera, nella suddetta ripartizione dei tempi è comunque assegnato a ciascun Gruppo, per la discussione in ordine alle linee generali dei progetti di legge, un tempo complessivo non inferiore a quello di trenta minuti previsto dall’art. 39, co. 1, reg. Camera. La disposizione ora citata non si applica, tuttavia, all’esame dei disegni di legge di autorizzazione a ratificare i trattati internazionali. A norma del co. 9 del citato art. 24 dello stesso regolamento, nell’ipotesi in cui non si raggiunga la maggioranza prevista dal precedente co. 7, alla determinazione ed alla ripartizione del tempo disponibile per la discussione deve provvedere il Presidente dell’Assemblea, in base ai criteri di cui ai co. 7 e 8 dell’art. 24 reg. Camera. Ai sensi del co. 10 del medesimo articolo, nella ripartizione di cui ai precedenti co. 7 e 9, il tempo riservato agli interventi dei relatori è stabilito distintamente per il relatore di maggioranza e per gli eventuali relatori di minoranza. In particolare, il tempo attribuito a questi ultimi è calcolato in proporzione alla consistenza dei Gruppi che essi rappresentano e in misura non inferiore ad un terzo di quello assegnato al relatore per la maggioranza. Come previsto dal successivo co. 12, tuttavia, per le fasi successive alla discussione sulle linee generali dei progetti di legge costituzionale e dei progetti di legge riguardanti prevalentemente una delle materie indicate dall’art. 49, co. 1, del medesimo regolamento, le disposizioni di cui al citato co. 7 si applicano soltanto su deliberazione unanime della Conferenza dei Presidenti di Gruppo ovvero nell’ipotesi in cui la discussione non si concluda e il progetto di legge sia iscritto in un successivo calendario. Il Presidente della Camera dispone che la disciplina in esame si applichi,

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qualora lo richieda un Gruppo parlamentare, per i progetti di legge riguardanti questioni di eccezionale rilevanza politica, sociale o economica riferite ai diritti previsti dalla prima parte della Costituzione. Ai sensi dell’ultimo co. della citata disposizione, le ripartizioni in quote di tempi e di argomenti sono computate con riferimento alle previsioni formulate all’atto della predisposizione del calendario. Come al Senato, ai sensi dell’art. 24, co. 4, reg. Camera, vi sono alcuni provvedimenti il cui inserimento nel calendario costituisce un atto dovuto, quali il disegno di legge di bilancio, il disegno di legge europea e gli atti diversi dalla conversione in legge, la cui deliberazione parlamentare deve avvenire nel rispetto di scadenze previste da norme costituzionali, internazionali, europee o dei regolamenti parlamentari. Stabilita l’organizzazione dei lavori dell’Assemblea, il Presidente forma l’ordine del giorno sulla base del programma e del calendario definitivi. Secondo quanto disposto dall’art. 27, co. 2, reg. Camera, in Assemblea per deliberare su argomenti non indicati nell’ordine del giorno è necessaria la deliberazione con votazione palese mediante procedimento elettronico con registrazione dei nomi e con la maggioranza dei tre quarti dei votanti. Soltanto all’inizio della seduta o quando stia per passare ad altro punto dell’ordine del giorno o quando la discussione sia stata sospesa, la relativa proposta può essere presentata da trenta deputati o da uno o più Presidenti di Gruppo che, separatamente o congiuntamente, risultino di almeno pari consistenza numerica. I metodi e le procedure di organizzazione dei lavori dell’Assemblea sono applicate anche ai lavori in Commissione con l’obbligo di coordinarli con l’attività della relativa Camera di appartenenza, espressamente previsto dai rispettivi regolamenti (art. 25, co. 2, reg. Camera; art. 53, co. 6, reg. Senato). In particolare, il Presidente di Commissione convoca l’Ufficio di Presidenza, integrato dai rappresentanti dei Gruppi parlamentari, per predisporre il programma ed il calendario, in modo da assicurare l’esame in via prioritaria dei progetti di legge e degli altri argomenti compresi nel programma e nel calendario dell’Assemblea (art. 29, co. 2, primo periodo, reg. Senato; art. 25, co. 1 e 2, primo periodo, reg. Camera). Al Senato, qualora la discussione di uno specifico argomento, anche non compreso nel programma dei lavori, venga richiesta da almeno un quinto dei componenti della Commissione, l’inserimento all’ordine del giorno è rimesso all’Ufficio di Presidenza della Commissione stessa (art. 29, co. 2, secondo periodo, reg. Senato). Il regolamento della Camera, a differenza di quello del Senato, contiene una disciplina più articolata in ordine all’organizzazione dei lavori in

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Commissione. Ai sensi del combinato disposto dei co. 2, 3, 4, 5 dell’art. 25 del suddetto regolamento, il programma ed il calendario sono predisposti nel rispetto dei criteri indicati nei precedenti artt. 23 e 24. In particolare, i progetti di legge inclusi nel programma dei lavori dell’Assemblea sono iscritti al primo punto dell’ordine del giorno della Commissione, in sede referente, nella prima seduta compresa nel calendario dei lavori della Commissione stessa, predisposto dopo la comunicazione all’Assemblea del programma. L’esame dei progetti di legge in sede legislativa e redigente è disciplinato dalle norme di cui ai co. 7, 8, 9, 11 e 12 dell’art. 24 reg. Camera. Inoltre, sia il programma sia il calendario di ciascuna Commissione sono predisposti in modo tale da garantire l’esame tempestivo degli atti e dei progetti di atti normativi europei di cui agli artt. 126-bis e 127 del medesimo regolamento. Le eventuali proposte di modifica del programma o del calendario dei lavori, presentate dal Governo o da un Presidente di Gruppo sono esaminate ed approvate con la medesima procedura prevista per la loro predisposizione. Sia alla Camera, sia al Senato, il coordinamento dei lavori delle Commissioni con quelli dell’Assemblea è garantito, oltre che dalla corrispondenza degli argomenti oggetto d’esame delle Commissioni stesse con le priorità del programma e del calendario dell’Aula (art. 29, co. 2, reg. Senato; art. 25, co. 2, reg. Camera), dai rispettivi Presidenti di Assemblea, i quali possono convocare appositamente i Presidenti delle Commissioni per armonizzare i lavori di queste ultime con l’attività dell’Aula (art. 53, co. 6 reg. Senato; art. 25, co. 6, reg. Camera).

3. La sessione di bilancio L’esame del disegno di legge di approvazione del bilancio di previsione, annuale e pluriennale, dello Stato e dei documenti relativi alla politica economica nazionale ed alla gestione del denaro pubblico, collegati alla presentazione dei suddetti disegni di legge, ha luogo nell’ambito di un periodo di tempo predeterminato che viene definito «sessione parlamentare di bilancio», la cui funzione è, da un lato, quella di scandire con certezza le varie fase dell’iter nelle Commissioni e in Assemblea per assicurarne la conclusione entro il termine di scadenza dell’esercizio finanziario annuale e, dall’altro, di permettere alle Commissioni di concentrare la loro attività sull’esame dei documenti di bilancio. Posto che il procedimento di formazione della legge di approvazione del bilancio dello Stato è oggetto di specifica trattazione nel capitolo 6,

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dedicato alla funzione legislativa, in questa sede è sufficiente mettere in luce le caratteristiche principali della sessione di bilancio con riferimento alle modifiche che quest’ultima determina nei confronti dell’organizzazione dei lavori sia dell’Assemblea, sia delle Commissioni. Ai sensi del combinato disposto dei co. 2 e 3 dell’art. 119 reg. Camera, la sessione ha la durata di quarantacinque giorni a decorrere dall’effettiva distribuzione dei testi dei disegni di legge e della relativa documentazione da parte del Governo. Quando questi ultimi, invece, sono presentati al Senato, la sessione, sempre alla Camera, dura trentacinque giorni a decorrere dalla trasmissione dei testi approvati e trasmessi dal Senato. Prima dell’inizio della sessione di bilancio, le Commissioni parlamentari devono esaminare gli stati di previsione del disegno di legge di bilancio di rispettiva competenza, senza procedere a votazione, acquisendo gli elementi conoscitivi necessari. A tal fine queste ultime deliberano, d’intesa con il Presidente della Camera, il programma delle audizioni. Durante la sessione di bilancio, numerose sono le limitazioni all’attività legislativa ordinaria, in quanto la programmazione dei lavori dell’Assemblea e delle Commissioni è finalizzata a consentire la conclusione dell’esame dei disegni di legge di cui al co. 1 dell’art. 119 reg. Camera, evitando la contemporaneità tra le sedute dell’una e le sedute delle altre. In particolare, è sospesa ogni deliberazione da parte dell’Assemblea e delle Commissioni in sede legislativa, sui progetti di legge che comportino nuove o maggiori spese o minori entrate. Secondo quanto disposto dal co. 4 della medesima disposizione, tuttavia, possono essere adottate le deliberazioni relative alla conversione di decreti-legge, ai progetti di legge collegati alla manovra contenuta nel documento di programmazione economico-finanziaria approvato dal Parlamento, nonché quelle concernenti i disegni di legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali e di ricezione e di attuazione di atti normativi dell’Unione europea, quando dalla mancata tempestiva approvazione dei medesimi possa derivare responsabilità dello Stato italiano per inadempimento di obblighi internazionali o europei. In tali ipotesi, possono essere disposte sedute supplementari per la discussione in Assemblea. Sebbene durante l’esame dei singoli stati di previsione sia sospesa ogni altra attività legislativa, l’art. 119, co. 6, ultimo periodo, reg. Camera consente, tuttavia, alle Commissioni di procedere all’esame di altri progetti di legge allorché abbiano integralmente esaurito il compito ad esse assegnato dal co. 3 dell’art. 120 del medesimo regolamento. La discussione in Assemblea deve concludersi nell’ambito della sessione di bilancio con le votazioni finali sul disegno di legge di approvazione del bilancio dello Stato.

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L’art. 126, co. 9, reg. Senato fissa dei termini diversi in riferimento alle singole fasi, stabilendo che, quando il disegno di legge di approvazione del bilancio di previsione dello Stato è presentato dal Governo, gli adempimenti previsti dai co. 6 e 8 del medesimo articolo devono essere espletati, rispettivamente, entro dieci giorni ed entro venticinque giorni dal deferimento del disegno di legge, e la votazione finale in Assemblea ha luogo entro i successivi quindici giorni. Quando, invece, il disegno di legge in questione è trasmesso dalla Camera dei deputati, i termini per i relativi adempimenti sono fissati dal Presidente dal Senato, in modo che la votazione finale in Assemblea abbia luogo entro trentacinque giorni dalla trasmissione. Anche al Senato, durante la sessione di bilancio, sono previsti limiti all’ordinaria attività parlamentare. Secondo quanto disposto dall’art. 126, co. 10, reg. Senato, ciascuna Commissione nel corso dell’esame, per le parti di propria competenza, del disegno di approvazione del bilancio dello Stato non può svolgere, in nessuna sede, altra attività. Tuttavia, per alcuni aspetti al Senato la normativa è più restrittiva e, allo stesso tempo, più elastica rispetto a quella della Camera: più restrittiva perché, ai sensi del co. 11 del suddetto art. 126, dalla data del deferimento del disegno di legge di bilancio e fino alla votazione finale dello stesso da parte dell’Assemblea, non possono essere iscritti all’ordine del giorno delle Commissioni permanenti e dell’Assemblea disegni di legge che comportino variazioni di spese o di entrate, né disegni di legge intesi a modificare la legislazione vigente in materia di contabilità generale dello Stato. Rimangono conseguentemente sospesi i termini per la presentazione delle relazioni e per l’espressione dei pareri sui disegni di legge anzidetti. Al contrario, sotto un altro profilo, il regolamento del Senato prevede una disciplina più elastica, perché tale divieto, ai sensi del co. 12 della medesima disposizione, oltre che all’esame dei disegni di legge di conversione di decreti-legge, non si applica all’esame di altri progetti di legge aventi carattere di assoluta indifferibilità, secondo le determinazioni adottate all’unanimità dalla Conferenza dei Presidenti dei Gruppi parlamentari.

4. L’ostruzionismo parlamentare L’ostruzionismo parlamentare viene tradizionalmente suddiviso in ostruzionismo fisico ed ostruzionismo tecnico. Il primo si basa sull’impiego di mezzi materiali o su comportamenti tali da disturbare, ritardare o interrompere i lavori parlamentari: esso è certamente illegittimo e come tale

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viene represso da parte del Presidente dell’Assemblea o della Commissione con gli strumenti disciplinari previsti dai regolamenti parlamentari. Il secondo, formalmente legittimo, consiste in un uso delle norme regolamentari diverso da quello normale e non corrispondente alle finalità per le quali tali norme sono state dettate, onde intralciare lo svolgimento dei lavori delle Assemblee legislative. Tradizionalmente, esso è lo strumento al quale ricorre, come ultimo rimedio, l’opposizione parlamentare nei confronti di proposte della maggioranza a forte valenza politica, ritenute illegittime o comunque sbagliate. Come esempi di ostruzionismo vengono ricordati, nella storia parlamentare italiana, quelli posti in essere nei confronti delle leggi di pubblica sicurezza presentate dal Governo Pelloux nel 1989, delle leggi tributarie proposte da Salandra nel 1914, della legge di autorizzazione alla ratifica del Patto atlantico nel 1949, della legge sulla difesa civile nel 1951, della legge elettorale maggioritaria (la cosiddetta legge “truffa”) nel 1953, della legge sulla elezione dei Consigli delle regioni ad autonomia ordinaria nel 1967, della legge di riforma del sistema radio-televisivo nel 1974, della legge sull’aborto nel 1978, della legge cosiddetta Reale-bis nel 1979. Gli strumenti classici per attuare l’ostruzionismo sono stati – e soltanto in minima parte lo sono tuttora, come si vedrà tra breve – svariati: la presentazione di un numero abnorme di ordini del giorno, emendamenti e di sub-emendamenti, comportanti il tempo necessario alla loro illustrazione, discussione e votazione; la richiesta continua di verifiche del numero legale e di richiami al regolamento; le iscrizioni a parlare in massa e la conseguente durata dei singoli interventi protratta fin quasi allo sfinimento fisico; la richiesta di votazioni per appello nominale, che comportano tempi considerevoli per il loro svolgimento; la richiesta, comunque, di votazioni cosiddette formali o qualificate (a scrutinio segreto o per appello nominale), che comportano una verifica automatica dell’eventuale mancanza del numero legale. I casi di ostruzionismo verificatisi nel periodo repubblicano hanno determinato, sia pure in modo graduale e con tempi diversi nei due rami del Parlamento, tutta una serie di modifiche dei regolamenti parlamentari, talvolta anticipate dalla prassi, tendenti a limitare e circoscrivere il fenomeno dell’ostruzionismo. Senza ripercorrere da un punto di vista cronologico tali passaggi, basterà ricordare le principali misure anti-ostruzionistiche attualmente vigenti. Una delle prime misure – alla quale oggi non si ricorre praticamente più, data l’esistenza di misure ancora più efficaci – fu quella della cosiddetta “seduta fiume”, consistente nella prosecuzione ininterrotta della seduta

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in corso, ad eccezione di brevi sospensioni per motivi tecnici (ad es. la pulizia dell’Aula o il controllo del funzionamento degli impianti di diffusione sonora), allo scopo d’impedire all’opposizione di presentare emendamenti entro un determinato lasso di tempo, previsto dai regolamenti, prima dell’inizio della seduta. Infatti, non presentando la seduta alcuna soluzione di continuità, veniva a mancare il presupposto indispensabile (l’inizio di una seduta) per la presentazione di nuovi emendamenti, salva restando soltanto la facoltà, ad opera di un determinato numero di parlamentari, di presentare sub-emendamenti agli emendamenti già proposti. Un’altra misura, sorta nella prassi e poi codificata negli artt. 85, co. 8, e 85-bis, co. 1, reg. Camera, consente la possibilità di votazioni cosiddette “a scalare” di emendamenti, sub-emendamenti e articoli aggiuntivi, nonché di votazioni “riassuntive” o “per principi”. Nel primo caso, tale possibilità è praticabile soltanto quando ad una stesso testo sia stata presentata una pluralità di emendamenti, sub-emendamenti o articoli aggiuntivi tra loro differenti esclusivamente per variazioni a scalare di cifre o dati o espressioni altrimenti graduate: il Presidente pone, quindi, in votazione l’emendamento che più si allontana dal testo originario e un determinato numero di emendamenti intermedi sino all’emendamento più vicino al testo originario, dichiarando assorbiti tutti gli altri. Nel secondo caso, i Gruppi possono segnalare, prima dell’inizio dell’esame degli articoli, gli emendamenti, i sub-emendamenti e gli articoli aggiuntivi da porre comunque in votazione; viene, conseguentemente garantita, con riferimento al progetto di legge nel suo complesso, la votazione di un numero di emendamenti, sub-emendamenti o articoli aggiuntivi, presentati dai deputati appartenenti a ciascuno dei Gruppi che abbiano provveduto a segnalarli, non inferiore, in media, per ciascun articolo, ad un decimo dei componenti del Gruppo stesso (quota elevata ad un quarto per i disegni di legge di conversione di decreti-legge). Attualmente, i regolamenti parlamentari hanno disciplinato con norme molto precise il numero e la durata degli interventi, sia nella discussione sulle linee generali, sia nella discussione e votazione degli articoli e dei relativi emendamenti e sub-emendamenti (cfr. ad es. gli artt. 83 e 85 reg. Camera); hanno notevolmente rafforzato i poteri dei Presidenti di Assemblea; hanno introdotto, oramai da parecchi anni, il meccanismo delle votazioni a scrutinio segreto mediante procedimento elettronico, molto più rapido del vetusto meccanismo della votazione mediante l’introduzione di palline (bianca per il voto favorevole e nera per il voto contrario) nell’urna. Ma, soprattutto, il vero ostacolo all’ostruzionismo è stato ed è rappresentato dal meccanismo della programmazione dei lavori parlamentari, ed in particolare dal contingentamento dei tempi che esso consente di adottare me-

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diante l’attribuzione di diversi monti-ore a disposizione della maggioranza e dell’opposizione. Come se ciò non bastasse, un ulteriore strumento anti-ostruzionistico a disposizione del Governo è sorto in via di prassi ed è usato con notevole frequenza. Si tratta della presentazione dei cosiddetti “maxi-emendamenti”, ciascuno dei quali rappresenta la riformulazione accorpata di tanti articoli, sui quali il Governo pone la questione di fiducia. In tal modo, invece di votare la fiducia per innumerevoli volte, tante quanti sono gli articoli originari, il numero di tali votazioni viene drasticamente ridotto a tutto vantaggio dei tempi di approvazione della legge. La posizione della questione di fiducia sul maxi-emendamento, interamente sostitutivo di uno, di alcuni o di tutti gli articoli di un progetto di legge, determina la priorità della sua votazione rispetto a tutti gli altri emendamenti, presentati ed illustrati, e la sua approvazione comporta la decadenza di questi ultimi 10. Rimane, pertanto, come misura ostruzionistica la frequente richiesta di verifica del numero legale che, tuttavia, non è di per sé qualificabile come tale poiché, al di là del principio secondo cui il numero legale è presunto, grava sulla maggioranza l’onere politico di assicurare l’effettiva sussistenza dello stesso. Non è casuale che spesso la richiesta di verifica del numero legale sia stata avanzata proprio da esponenti della maggioranza, quando le assenze in seno a quest’ultima avrebbero potuto portare alla bocciatura di proposte del Governo o di parlamentari della stessa maggioranza. Infine, un ulteriore e radicale strumento anti-ostruzionistico è la cosiddetta “ghigliottina” parlamentare. Da un punto di vista generale, essa può essere definita come un meccanismo parlamentare in base al quale, a fronte di imminenti scadenze previste dalla Costituzione per l’approvazione di un progetto di legge e di un perdurante ostruzionismo messo in atto dall’opposizione, il Presidente dell’Assemblea, a prescindere dallo stato in cui si trovi l’iter, può dichiarare chiusa la discussione ed indire la votazione finale sul suddetto progetto di legge. Tale meccanismo non è espressamente previsto dai regolamenti parlamentari, ma è stato applicato per la prima volta alla Camera dalla Presidente Laura Boldrini nella seduta del 29 gennaio 2014 in occasione della discussione del disegno di legge di conversione del D.L. 30 novembre 2013, n. 133, già approvato dal Senato, in prossimità della scadenza del termine di sessanta giorni previsto dall’art. 77 Cost. (il decreto-legge scadeva in quella giornata). 10

Cfr. in tal senso l’art. 116, co. 2, reg. Camera, ed il parere, d’identico contenuto, della Giunta per il regolamento del Senato del 19 marzo 1984.

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Il percorso logico per capire quale sia il fondamento della ghigliottina parlamentare nell’ordinamento italiano è abbastanza tortuoso. Occorre innanzitutto partire dall’art. 54 reg. Senato che disciplina la formazione e il calendario dei lavori dell’Assemblea ed in particolare il contingentamento dei tempi della discussione. La stessa disciplina è prevista dall’art. 24 reg. Camera, ma con una importante eccezione contenuta nell’art. 154, secondo il quale «In via transitoria non si applicano al procedimento di conversione dei decreti-legge le disposizioni di cui ai commi 7, 8, 9, 10, 11 e 12 dell’art. 24 …». Quest’ultima disposizione, non recando un termine finale relativo al regime transitorio da essa previsto, è tuttora vigente, come venne a suo tempo affermato dalla Giunta per il Regolamento nella seduta del 12 settembre 2001, «sia per ragioni di opportunità inerenti all’accordo politico dal quale aveva tratto origine la riforma stessa, sia perché era condivisa l’idea di non assecondare la tendenza ad un uso eccessivo della decretazione d’urgenza e si pensava di ricercare una soluzione che garantisse meglio anche questo aspetto del complessivo problema della disciplina dei disegni di conversione». Pertanto, mentre al Senato anche ai disegni di legge di conversione si applica il contingentamento dei tempi della discussione, ciò è escluso alla Camera dall’art. 154. Con la conseguenza che al Senato, anche nel caso di manovre ostruzionistiche, vi è certezza in ordine al momento in cui un disegno di legge di conversione verrà posto in votazione; diversamente, alla Camera un forte ostruzionismo può essere in grado d’impedire la votazione protraendo la discussione oltre la scadenza del termine di conversione di un decreto-legge. Per far fronte a tale situazione, il Presidente della Camera Violante, nella seduta dell’Assemblea dell’11 maggio 2000, aveva innanzitutto chiarito che, dopo la sent. Corte cost. n. 360/1996 che aveva dichiarato illegittima la prassi della reiterazione dei decreti-legge non convertiti, la mancata deliberazione finiva per assumere il sostanziale significato di definitiva reiezione del provvedimento. Nel caso, dunque, di comportamenti dilatori dell’opposizione tali da poter impedire la pronuncia sulla conversione di un decreto, la mancata adozione di adeguate contromisure comporterebbe l’accettazione che a deliberare sia la minoranza e ciò configurerebbe una violazione dell’art. 64 Cost., in base al quale le deliberazioni delle Camere sono adottate a maggioranza. Il Presidente dell’Assemblea, ove non intervenisse, «si renderebbe partecipe e corresponsabile di una scelta di merito avente effetti definitivi di rigetto sull’oggetto sottoposto all’esame della Camera». Da qui la nascita alla Camera della cosiddetta ghigliottina, così co-

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me confermato da successivi interventi di Presidenti della Camera nel corso delle legislature 11 e da due pronunce della Giunta per il regolamento del 29 ottobre 1996 e del 12 settembre 2001. In conclusione, nell’ordinamento italiano il meccanismo della ghigliottina parlamentare vige in via di prassi soltanto alla Camera dei deputati e si riferisce esclusivamente ai disegni di legge di conversione dei decreti-legge. Sarebbe peraltro auspicabile l’abrogazione dell’art. 154 reg. Camera, in tal modo estendendo anche ai disegni di legge di conversione dei decreti-legge la disciplina prevista dall’art. 24 sul contingentamento dei tempi della discussione e facendo cessare le ragioni che avevano condotto alla formazione della prassi giustificativa del meccanismo della cosiddetta ghigliottina.

5. L’attività delle Camere in periodo di crisi di Governo Il rapporto Parlamento-Governo è elemento fondamentale per il corretto funzionamento dell’ordinamento costituzionale vigente in Italia. Da un lato il Governo, con i diversi strumenti che gli competono, realizza l’indirizzo politico che le Camere hanno approvato all’atto del conferimento della fiducia; dall’altro, le Camere esercitano una funzione di controllo sull’attuazione da parte del Governo del suddetto indirizzo politico. Tale funzione di controllo, come si vedrà in dettaglio più avanti 12, viene esercitata con una serie di strumenti e, qualora essa dia luogo ad esiti negativi sotto il profilo politico, può condurre all’estremo rimedio del ritiro della fiducia al Governo. Da ciò consegue che l’attività dell’uno e dell’altro soggetto è strettamente interdipendente, per cui l’eventuale deminutio potestatis dell’uno si riflette sui poteri dell’altro e viceversa. Si è già visto come in periodo di prorogatio le Camere, non più rappresentative del popolo sovrano e nell’attesa delle scelte che quest’ultimo compirà attraverso le elezioni, abbiano poteri limitati all’approvazione degli atti urgenti e degli atti dovuti: tali limitazioni si riflettono sui poteri del Governo che, benché formalmente in carica sulla base della fiducia a suo tempo accordatagli, dovrà adottare soltanto gli atti rientranti nella competenza temporaneamente ridotta delle Camere. In periodi di crisi di Governo, vale a dire nel periodo compreso tra le dimissioni del precedente Governo e la fiducia al nuovo, la situazione si 11 Cfr. le sedute 19 dicembre 1996, 11 luglio 2000, 28 febbraio 2001, 21 maggio 2003, 23 luglio 2003, 14 ottobre 2004, 1° ottobre 2009 e 22 febbraio 2011. 12 Cfr. cap. 7.

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ribalta rispetto al caso precedente poiché, mentre le Camere permangono formalmente nella pienezza dei loro poteri, il Governo dimissionario non potrà adottare atti di esecuzione di un indirizzo politico che non sussiste più ma dovrà limitarsi ad adottare gli atti necessari ed urgenti e gli atti dovuti. La mancanza di un indirizzo politico e l’impossibilità di revocare la fiducia, poiché il Governo ha già dato le dimissioni e dunque non è più politicamente responsabile, si riflettono sui poteri delle Camere che, conseguentemente dovranno limitarsi, come nel caso precedente, all’approvazione degli atti necessari ed urgenti e degli atti dovuti. La prassi è in tal senso pur con qualche eccezione, come ad es. quella relativa all’approvazione in sede deliberante, il 26 gennaio 1972, da parte della Commissione Affari costituzionali della Camera, di una proposta di legge recante modifiche alla legge istitutiva dei T.A.R. Approvazione autorizzata dal Presidente della Camera, «in deroga eccezionale alla regola di correttezza costituzionale che impone la sospensione dell’attività legislativa durante la crisi di Governo», in considerazione della necessità, definita come straordinaria, obiettiva e pressante, di evitare la paralisi nella trattazione di un ampio campo di controversie amministrative. L’eccezione, tutto sommato, è relativa, poiché, alla luce della motivazione addotta, la discussione e l’approvazione della suddetta proposta di legge sono qualificabili come atti necessari ed urgenti. Un problema diverso è quello relativo all’ammissibilità di discutere, in periodo di crisi di Governo, progetti di legge di revisione costituzionale, come avvenuto al Senato il 29 aprile 1993, in seconda deliberazione, a proposito di un progetto tendente a conferire nuovi poteri alla Commissione bicamerale per le riforme istituzionali. Al di là del caso specifico, sembra in generale più corretta la soluzione di sospendere la discussione di qualsiasi legge di revisione costituzionale, data l’importanza di tali leggi sotto il profilo istituzionale e dati anche i tempi lunghi necessari alla loro approvazione, tali da sopportare il breve ritardo determinato dai tempi necessari alla soluzione della crisi di Governo. Da un punto di vista strettamente giuridico, è comunque da escludere la discussione di disegni di legge di revisione costituzionale presentati dal Governo ovvero di progetti di legge, sempre di revisione costituzionale, che, seppur presentati da parlamentari esponenti della maggioranza e non dal Governo in prima persona, siano stati da quest’ultimo inseriti formalmente o di fatto ricompresi nel proprio programma.

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CAPITOLO 6 LA FUNZIONE LEGISLATIVA SOMMARIO: 1. La legge nei regimi assolutistici e nei regimi democratici. La spinta alla delegificazione: tipi di delegificazione. La diversa posizione della legge negli ordinamenti a Costituzione flessibile e negli ordinamenti a Costituzione rigida. L’ambiguità dell’espressione “legge” e la necessità di distinguere tra leggi costituzionali, leggi ordinarie e leggi atipiche. – 2. Cenni sul concetto di procedimento giuridico nella dottrina processualistica e nella dottrina amministrativistica. Aspetti peculiari del procedimento legislativo: il suo fondamento costituzionale; la riserva in favore dei regolamenti parlamentari; la caratteristica della politicità come elemento di maggiore differenziazione tra il procedimento legislativo, il procedimento amministrativo ed il processo giurisdizionale. – 3. Il potere d’iniziativa legislativa: terminologia; la predisposizione e la presentazione degli atti d’iniziativa legislativa; la riserva di legge costituzionale ex art. 71 Cost.; il principio del pari valore formale, sotto il profilo soggettivo, degli atti d’iniziativa legislativa; i requisiti formali con particolare riferimento alla relazione illustrativa ed alla cosiddetta «relazione tecnica»; i soggetti titolari: l’iniziativa governativa, parlamentare, regionale, popolare, del CNEL; l’art. 133, co. 1, Cost.; iniziativa riservata e iniziativa vincolata. – 4. Il potere di ritiro: suo fondamento; casi nei quali è inammissibile; i soggetti titolari; la forma ed il termine per il suo esercizio; la prassi della richiesta da parte del Governo di trasferire un proprio disegno di legge da una Camera all’altra. Il principio della decadenza dei progetti di legge alla fine della legislatura. Le eccezioni a tale principio: i progetti di legge d’iniziativa popolare; i progetti di legge, già approvati dalle due Camere, rinviati dal Presidente della Repubblica per una nuova deliberazione a norma dell’art. 74 Cost.; i disegni di legge di conversione di decreti-legge. – 5. Gli effetti della presentazione dell’atto d’iniziativa: l’attivazione del procedimento; la predeterminazione della qualificazione giuridica dell’eventuale legge approvata; il limite stabilito dall’art. 79, co. 3, Cost. Il sindacato sull’atto d’iniziativa da parte del Presidente della Camera o del Senato: il sindacato per l’uso di espressioni sconvenienti; il sindacato nei casi di inesistenza e di illegittimità formale dell’atto; l’insussistenza del sindacato per vizi sostanziali; casi d’improcedibilità previsti dai regolamenti parlamentari e relative eccezioni. – 6. L’assegnazione dei progetti di legge. Le commissioni in sede consultiva: tipi di pareri e loro efficacia. Il procedimento normale: l’istituto della riserva di legge d’Assemblea stabilito dall’art. 72, co. 4, Cost.; l’intervento della commissione in sede referente, la discussione generale in Assemblea, la discussione e la votazione degli articoli, la votazione finale. Il procedimento speciale caratterizzato dall’intervento della commissione in sede legislativa o deliberante. Il procedimento speciale caratterizzato dall’intervento della commissione in sede redigente: le differenze tra il procedimento previsto dal regolamento del Senato e quello previsto dal regolamento della Camera. I procedimenti urgenti. – 7. Le caratteristiche che contraddistinguono il procedimento

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legislativo tipico. La facoltà, attribuita dalla Costituzione ai regolamenti parlamentari, di stabilire, nel rispetto delle suddette caratteristiche, varianti procedimentali per la discussione e l’approvazione di determinate leggi: a) le leggi di conversione dei decretilegge; b) le leggi rinviate alle Camere dal Presidente della Repubblica; c) la legge di approvazione del bilancio dello Stato; d) la legge di delegazione europea. – 8. Il procedimento di formazione delle leggi costituzionali. – 9. Il procedimento di formazione della legge di concessione dell’amnistia e dell’indulto.

1. La legge nei regimi assolutistici e nei regimi democratici. La spinta alla delegificazione: tipi di delegificazione. La diversa posizione della legge negli ordinamenti a Costituzione flessibile e negli ordinamenti a Costituzione rigida. L’ambiguità dell’espressione “legge” e la necessità di distinguere tra leggi costituzionali, leggi ordinarie e leggi atipiche La legge è sempre stata nei regimi parlamentari la fonte più diffusa, si potrebbe dire quasi la fonte per eccellenza. Storicamente, ciò dipende dal fatto che essa rappresenta il prodotto dell’esercizio della funzione legislativa, spettante al Parlamento quale organo direttamente rappresentativo del popolo e perciò contrapposto, sotto il profilo politico, a quegli organi che tale caratteristica non avevano o non hanno. La sconfitta dei regimi assolutistici e l’affermazione dei regimi parlamentari hanno avuto come conseguenza la sostituzione del monarca assoluto con organi eletti dal popolo (Assemblee o Parlamenti), nel ruolo di soggetti ai quali spettava il potere di assumere le scelte fondamentali per la nazione. Coerentemente a tale conseguenza, sul piano dell’esercizio della funzione legislativa il processo di democratizzazione si è sviluppato attraverso un progressivo e sempre più ampio esautoramento del monarca a favore del Parlamento. Si pensi, ad esempio, alla diversa partecipazione alla funzione legislativa del Capo dello Stato nell’attuale ordinamento giuridico italiano e nel precedente ordinamento monarchico: mentre allora lo Statuto albertino attribuiva al Re una partecipazione sostanziale alla formazione della legge attraverso gli strumenti della sanzione e della promulgazione, oggi gli artt. 73 e 74 Cost. attribuiscono al Presidente della Repubblica la sola promulgazione della legge con la limitata possibilità di rinviare quest’ultima alle Camere per una nuova deliberazione. Tuttavia, il progressivo consolidamento degli Stati a regime parlamentare, rendendo più salda la dialettica democratica tradizionale e forse meno attuale – augurandomi di non peccare di ottimismo – il rischio di rigurgiti

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assolutistici (quantomeno del tipo di quelli che erano stati sconfitti dalle grandi rivoluzioni liberali), ha influito direttamente sul ruolo del Parlamento ed indirettamente sulla produzione delle leggi da parte di quest’ultimo. Il Parlamento viene sempre di più visto come organo al quale dovrebbero competere soprattutto le grandi scelte politiche, da realizzarsi su un doppio binario: da un lato, un penetrante esercizio della funzione d’indirizzo e controllo nei confronti del Governo, peraltro ormai visto come organo espresso «dal e non contro il» Parlamento; dall’altro, un esercizio della funzione legislativa autocontenuto all’approvazione delle leggi di maggior rilievo politico. La trasformazione del ruolo della legge – da strumento per “tutti i giorni” a strumento per le grandi decisioni – è decisiva se si parte dalla premessa secondo la quale il Parlamento è l’organo centrale – il “motore”, per usare un’espressione che va di moda – dell’attuale ordinamento italiano. Sono infatti sbagliate, a giudizio di chi scrive, le affermazioni, peraltro molto diffuse in passato, secondo le quali «se si diminuiscono i poteri del Parlamento si riduce il ruolo di tale organo in favore di un potenziamento del Governo» e dunque «occorre mantenere inalterati i poteri del Parlamento se si vuole che tale organo continui ad essere l’organo centrale del sistema». L’equivoco nasce dalla genericità della premessa dalla quale muovono tali affermazioni perché la diminuzione dei poteri del Parlamento può essere intesa in senso qualitativo o in senso quantitativo: nel primo senso quelle affermazioni sono vere; nel secondo sono false. Nel primo senso è indubbio che il Parlamento, se si vuole che continui ad essere l’organo centrale del sistema, deve mantenere tutti i suoi poteri, soprattutto per quanto attiene alla funzione legislativa ed alla funzione d’indirizzo e di controllo nei confronti del Governo: privare le Camere anche di una sola di tali funzioni muterebbe gli attuali equilibri tra i poteri dello Stato. Nel secondo senso, la riduzione quantitativa dell’esercizio della funzione legislativa non sminuisce in alcun modo il ruolo delle Camere ma anzi lo potenzia. È del tutto evidente che un Parlamento, oberato dalla necessità di discutere un numero spropositato di progetti di legge riguardanti le questioni più disparate, ha meno tempo a propria disposizione per concentrarsi sulle grandi leggi di riforma e per attuare un controllo puntuale sul Governo. Ne deriva che la diminuzione del carico legislativo consentirebbe alle Camere di esercitare in modo più costruttivo sia la stessa funzione legislativa che la funzione d’indirizzo e di controllo. Né varrebbe sostenere che le Camere, essendo padrone del proprio ordine del giorno ed anzi oramai basando i propri lavori sul metodo della programmazione, possono da sole decidere di non discutere progetti di

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legge frutto d’interessi particolaristici o, quantomeno, di posporre la discussione di tali progetti a quella di altri progetti di più ampio respiro e di ben diversa rilevanza politica. Una tale affermazione è del tutto astratta perché avulsa dalla realtà quotidiana dei lavori parlamentari nella quale è quasi impossibile frenare le spinte provenienti da grovigli di micro-interessi trasversali, portati avanti, cioè, da parlamentari appartenenti a partiti diversi ma uniti nel sostegno di un particolare interesse (ad esempio, un interesse di tipo corporativo oppure un interesse di tipo locale). Parlamentari il cui obiettivo massimo è rappresentato dall’approvazione del progetto di legge da essi presentato o sostenuto ma il cui vero obiettivo, minimo ed irrinunciabile, è rappresentato dal fatto che il suddetto progetto di legge sia discusso nelle commissioni o addirittura in Assemblea in modo da poter dimostrare, esibendo la relativa documentazione parlamentare agli elettori, il proprio impegno politico nel sostegno degli interessi particolaristici degli stessi elettori. Lo strumento con il quale inizialmente si pensò di superare la situazione sin qui descritta fu quello della delegificazione, consistente nell’approvazione di alcune leggi che, relativamente a grandi gruppi di materie non coperte da riserva di legge, declassassero ad un rango inferiore le disposizioni legislative che tali materie disciplinavano, consentendo così l’eventuale successivo intervento del Governo mediante regolamenti amministrativi. La speranza di liberare spazi, intasati da leggi e leggine, in favore dei regolamenti amministrativi si rivelò quasi subito un’illusione perché il Parlamento non riuscì mai ad approvare leggi organiche di delegificazione. I motivi furono i più vari e di diverso peso: la ritrosia delle Camere a rinunciare ad esercitare, sia pure non in modo definitivo, la funzione legislativa su numerose materie; la diffidenza dell’opposizione parlamentare nei confronti di un aumento degli interventi normativi del Governo; l’inveterata abitudine di molti parlamentari di presentare, per evidenti motivi elettoralistici di basso profilo, progetti di legge vertenti su questioni d’interesse esclusivamente locale, progetti destinati, in caso di approvazione, ad infoltire la schiera delle cosiddette “leggine”. Il fallimento del progetto di una delegificazione preventiva ed “a tappeto” ha determinato l’introduzione di un diverso e più duttile meccanismo di delegificazione, attivabile caso per caso e ad effetto soltanto potenziale. L’art. 17, co. 2, della L. 23 agosto 1988, n. 400, recante «Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri», ha infatti attribuito al Governo la facoltà di adottare regolamenti amministrativi per la disciplina delle materie, non coperte da riserva assoluta di legge prevista dalla Costituzione, per le quali le leggi, autorizzando

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la potestà regolamentare del Governo, determinano le norme generali della materia e dispongono l’abrogazione delle norme vigenti, con effetto dall’entrata in vigore delle norme regolamentari. In base a tale norma, pertanto, la delegificazione delle disposizioni che disciplinano una data materia può essere disposta dalla legge ma tale delegificazione è soltanto potenziale dal momento che essa si verificherà soltanto se e quando il Governo adotterà un regolamento amministrativo per disciplinare ex novo quella materia. Paradossalmente, tuttavia, il modello di delegificazione testé illustrato ha rappresentato il primo passo per un’accentuazione della crisi della legge e per il fiorire di ulteriori, anomali, modelli di delegificazione. Da un lato, infatti, le Camere si sono attenute sempre meno ai requisiti previsti dall’art. 17, co. 2, per l’autorizzazione al Governo ad adottare regolamenti in delegificazione (ad es. indicando criteri estremamente vaghi ovvero non indicando affatto le norme legislative delle quali si disponeva l’abrogazione); dall’altro, il legislatore ha introdotto nuovi modelli di delegificazione come quello di cui al co. 4-bis del citato art. 17; ha previsto la possibilità di delegificazioni in favore di soggetti diversi dal Governo, quali, ad es., Comuni, Province, Università ed alcune autorità amministrative indipendenti; ha reso periodico il ricorso alla delegificazione mediante lo strumento della legge annuale di semplificazione introdotto dall’art. 20 della L. n. 59/1997; con L. n. 86/1989 (c.d. legge “La Pergola”) sono state disciplinate le modalità di attuazione in via delegificata del diritto europeo nelle leggi annuali, allora comunitarie oggi europee, dandosi vita ad una delegificazione “guidata” con specifiche condizioni sostanziali e procedurali. Quello che preme mettere qui in risalto è che con tali meccanismi la situazione non è affatto migliorata perché si è oramai di fronte ad una situazione normativa totalmente confusa, se non addirittura illegittima, nei rapporti tra la legge ed i regolamenti in delegificazione. Questi ultimi, infatti, pur essendo formalmente atti inferiori alla legge – finora la Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile il giudizio di legittimità costituzionale nei loro confronti – sono di fatto in grado, in molti casi, di determinarne l’abrogazione. Il problema, quindi, è oggi diverso rispetto a quello tradizionale di un Parlamento soffocato dalle proprie leggi e leggine: occorre al più presto ristabilire un minimo di chiarezza in tema di rapporti tra fonti primarie e secondarie, chiarezza che attualmente è totalmente mancante. In questa sede introduttiva occorre, comunque, ricordare, per quanto attiene ai rapporti tra le fonti, la mutata posizione della legge nell’attuale ordinamento giuridico rispetto al precedente. Mentre allora, in regime di Costituzione flessibile, la legge era per definizione la fonte suprema ed on-

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nipotente, almeno per coloro che non accettano il concetto dei limiti taciti della revisione costituzionale, oggi la legge da un lato è gerarchicamente subordinata alla Costituzione ed alle leggi costituzionali, dall’altro incontra una serie di limiti derivanti da riserve di competenza, stabilite da norme costituzionali in favore di fonti diverse: l’art. 64 Cost. per quanto attiene ai regolamenti parlamentari; l’art. 117 e le disposizioni contenute negli Statuti speciali per quanto attiene alle leggi regionali. Ancora, mentre in epoca statutaria tutte le leggi erano eguali sotto il profilo della loro formazione e della loro forza, nell’attuale ordinamento sono individuabili tipi diversi di leggi in relazione alla necessità che sussistano determinati presupposti del loro procedimento di formazione, ovvero in relazione ad una loro maggiore o minore forza attiva o passiva, ovvero ancora in relazione ad ambiti di competenza “specializzati”. In conclusione, l’espressione «legge», diffusamente e comunemente usata in passato per designare una fonte ben precisa, ha oggi un significato ambiguo, ricomprendendo fonti tra loro notevolmente diverse. Ecco perché è necessario usare espressioni differenziate: leggi costituzionali, leggi ordinarie e leggi atipiche.

2. Cenni sul concetto di procedimento giuridico nella dottrina processualistica e nella dottrina amministrativistica. Aspetti peculiari del procedimento legislativo: il suo fondamento costituzionale; la riserva in favore dei regolamenti parlamentari; la caratteristica della politicità come elemento di maggiore differenziazione tra il procedimento legislativo, il procedimento amministrativo ed il processo giurisdizionale È affermazione oramai pacifica che la nozione teorico-generale di procedimento giuridico ricorra, quantomeno nelle sue linee generali, anche nei confronti della formazione della legge. Anch’essa, infatti, si ritiene inquadrabile nell’ambito degli atti su procedimento, in quanto atto finale risultante da una sequenza predeterminata di atti rivolta al raggiungimento di un risultato finale unitario, per cui ogni atto (fase) della sequenza non può svolgersi se non si è concluso l’atto (la fase) precedente, e dunque il risultato finale non è raggiunto (o è invalido) se la sequenza non è stata rispettata. Del resto, l’applicazione all’esercizio della funzione legislativa della figura organizzativa in parola sembra inquadrarsi in quel generale sviluppo dello schema procedimentale che, come è stato posto in luce, trova la sua principale ragion d’essere nella struttura democratica degli ordina-

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menti contemporanei, tale da far generalmente asserire che quella procedimentale appaia, nei nostri tempi, come la forma tipica di azione dei pubblici poteri. È noto – ed in questa sede basteranno pertanto soltanto pochi cenni – che la teoria del procedimento è stata sviluppata soprattutto dalla dottrina amministrativistica, anche se essa, ben prima che con riferimento all’attività della Pubblica amministrazione, nacque sul diverso terreno dell’esercizio della funzione giurisdizionale, ove particolari esigenze di garanzia di posizioni giuridiche soggettive imponevano una sua specifica articolazione, positivamente formalizzata nel “processo”. Tuttavia, mentre l’approccio della dottrina processualistica, così come successivamente di quella costituzionalistica, è stato per lungo tempo impostato in chiave descrittiva ed esegetica del dato di diritto positivo, la scienza del diritto amministrativo si è per prima posta sulla via di una definizione del “concetto” di procedimento, inteso quale fenomeno unitario e strutturalmente autonomo. A ciò verosimilmente spinta, a differenza della dottrina processualistica e costituzionalistica, dalla carenza di un compiuto ed organico sistema di legislazione positiva, realizzatosi soltanto con l’approvazione della L. n. 241/1990. Essenziale passaggio di tale elaborazione appare senza dubbio l’affermarsi della c.d. teoria formalistica del procedimento, definita tale in contrapposizione alla precedente teoria sostanzialistica. Se quest’ultima, considerando la serie procedimentale come unitariamente costitutiva dell’effetto ascritto all’atto finale, riconduceva il fenomeno del procedimento nella categoria dell’atto (l’atto-procedimento), l’impostazione formalistica, invece, concentra l’attenzione non già sulla serie materiale di atti che si susseguono nella dinamica che porta all’adozione dell’atto terminale, ma piuttosto sul modo del loro susseguirsi, con riguardo, quindi, ai nessi interni che legano insieme gli atti predetti. Ne deriva la nota e mai più discussa scansione in “fasi” del procedimento, nonostante permangano diversità di opinioni sul loro numero complessivo e sulla configurazione propria di ciascuna di esse. Tuttavia, una sequenza tipica abbastanza convincente sembra essere la seguente: fase dell’iniziativa, fase preparatoria o istruttoria, fase della decisione, fase integrativa dell’efficacia. Si è altresì aggiunto, a maggiore specificazione del concetto di procedimento, che gli atti che lo compongono devono essere legati tra di loro da un nesso d’implicazione non soltanto “necessaria” ma anche “necessitante”, nel senso che il compimento di ciascun atto della sequenza, oltre che porsi come condizione indispensabile per il compimento dell’atto successivo, determina anche un obbligo in tal senso. La trasposizione dei concetti fin qui illustrati nei confronti del proce-

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dimento di formazione della legge è possibile soltanto in parte, sia perché non tutti gli elementi che caratterizzerebbero i procedimenti giuridici si ritrovano nel procedimento legislativo, sia perché quest’ultimo presenta taluni aspetti peculiari. Come già accennato all’inizio, è fuori discussione che il procedimento legislativo sia costituito da una sequenza predeterminata di atti volta alla formazione dell’atto finale “legge”; così come è fuori discussione che tale procedimento si articoli in fasi, secondo lo schema tipico che si è in precedenza ritenuto d’individuare (fase dell’iniziativa, fase istruttoria, fase deliberativa, fase integrativa dell’efficacia), e che la conclusione di ciascuna fase costituisca il presupposto della successiva. Esemplificando e come si vedrà meglio più avanti 1, l’esame in sede referente di un progetto di legge non può svolgersi se tale progetto non è stato presentato da uno dei soggetti titolari del potere d’iniziativa legislativa; la discussione e la votazione in Assemblea del progetto non possono avvenire se non è stato concluso l’esame in sede referente da parte della competente commissione; il Presidente della Repubblica non può promulgare la legge se il progetto non è stato approvato dalle due Camere in un identico testo; il Ministro della Giustizia non può procedere alla pubblicazione della legge se essa non è stata promulgata. Tuttavia, la conclusione di una fase non determina alcun obbligo giuridico a procedere alla fase successiva poiché tanto l’inizio dell’esame di un progetto di legge quanto il suo seguito dipendono interamente dalle scelte politiche delle maggioranze parlamentari, libere di “insabbiare” il progetto lasciandolo iscritto all’ordine del giorno senza discuterlo, oppure di arrivare alla sua votazione finale. Ed in ciò risiede la prima differenza tra il procedimento legislativo ed i procedimenti amministrativi e giurisdizionali, essendo questi ultimi caratterizzati da un effettivo obbligo a procedere a seguito del perfezionarsi della fase introduttiva. Le differenze ulteriori tra il procedimento legislativo ed i procedimenti amministrativi e giurisdizionali riguardano innanzitutto le fonti che li disciplinano. Mentre i secondi sono disciplinati dalla legge, il primo è disciplinato dalla Costituzione (direttamente dagli artt. 71, 72, 73 e 74; indirettamente dall’art. 64) e dai regolamenti parlamentari. L’art. 72, in particolare, detta alcuni principi fondamentali in ordine alle possibili articolazioni del procedimento legislativo, stabilendo che, accanto ad un procedimento cosiddetto “normale” caratterizzato dall’intervento delle commissioni in sede referente, i regolamenti parlamentari possono stabilire non soltanto

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Cfr. i paragrafi successivi di questo stesso capitolo.

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procedimenti “abbreviati” per i progetti di legge dichiarati urgenti ma anche procedimenti “speciali”, caratterizzati dall’intervento delle commissioni con poteri deliberanti nei confronti del progetto di legge nel suo complesso ovvero nei confronti del solo articolato dello stesso. L’art. 72, affidando ai regolamenti parlamentari l’esecuzione e l’attuazione delle norme in esso contenute, nonché la loro integrazione ove necessaria, ribadisce e specifica con riferimento al procedimento legislativo la generale «riserva di regolamento parlamentare» stabilita dall’art. 64; riserva che esclude l’intervento di qualsiasi altra fonte, compresa la stessa legge ordinaria, diversa dalla legge costituzionale o dai regolamenti parlamentari. La riserva di regolamento parlamentare comporta ulteriori peculiarità del procedimento legislativo rispetto agli altri procedimenti giuridici. In tal senso va soprattutto messa in luce la circostanza secondo cui spetta agli stessi organi che esercitano la funzione legislativa la competenza esclusiva a fissare le regole di tale esercizio; circostanza rafforzata dalla consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale che, a partire dalla sent. n. 9/1959, ha sancito la sindacabilità della legge per vizi formali soltanto per violazione diretta delle norme costituzionali sul procedimento legislativo e non anche per violazione delle norme dei regolamenti parlamentari. Ne consegue una sorta di cedevolezza di queste ultime norme non soltanto, in via di fatto ed a causa della illustrata mancanza di etero-controlli, nel caso della loro inosservanza a seguito di deliberazioni adottate a maggioranza, ma anche, sulla base di un principio consuetudinario del diritto parlamentare, nel caso della loro disapplicazione per singole fattispecie qualora nessuno dei parlamentari presenti vi si opponga (nemine opponente). Tutte le peculiarità del procedimento legislativo fin qui illustrate sono riconducibili a quella che è la caratteristica principale di tale procedimento: l’essere per definizione un procedimento di tipo politico destinato, cioè, a produrre atti che sono il frutto delle scelte politiche di organi anch’essi politici, quali sono le Camere. Mentre i procedimenti giurisdizionali hanno come finalità quella di produrre atti che costituiscono (o almeno dovrebbero sempre costituire) il frutto dell’applicazione di norme giuridiche – e lo stesso è a dirsi, fatto salvo il principio della discrezionalità amministrativa, per gli atti adottati sulla base di procedimenti amministrativi – la funzione legislativa è una funzione libera nel fine: ogni legge è un atto a contenuto libero con il solo limite negativo del rispetto delle norme poste da fonti di grado superiore o da fonti a competenza riservata. Conseguentemente, il procedimento legislativo non può che essere un procedimento disciplinato da poche norme inderogabili, quali sono quelle contenute negli articoli della Costituzione in precedenza richiamati, e da molte disposi-

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zioni elastiche nella loro applicazione, quali sono quelle contenute nei regolamenti parlamentari. In conclusione, è proprio il carattere della politicità, quale elemento peculiare tanto della funzione legislativa quanto della natura dell’organo parlamentare cui essa è imputata, a rappresentare la principale ragione della riconducibilità soltanto parziale del procedimento legislativo negli schemi elaborati sia in sede di teoria generale, che con più diretto riferimento alla funzione amministrativa ed a quella giurisdizionale.

3. Il potere d’iniziativa legislativa: terminologia; la predisposizione e la presentazione degli atti d’iniziativa legislativa; la riserva di legge costituzionale ex art. 71 Cost.; il principio del pari valore formale, sotto il profilo soggettivo, degli atti d’iniziativa legislativa; i requisiti formali con particolare riferimento alla relazione illustrativa ed alla cosiddetta «relazione tecnica»; i soggetti titolari: l’iniziativa governativa, parlamentare, regionale, popolare, del CNEL; l’art. 133, co. 1, Cost.; iniziativa riservata e iniziativa vincolata Il potere d’iniziativa legislativa può essere definito come il potere, attribuito a determinati soggetti dalla Costituzione o da leggi costituzionali, di presentare disegni, proposte o progetti di legge all’una o all’altra Camera. Tali soggetti, come si vedrà in dettaglio più oltre, sono il Governo, il popolo, ciascun membro delle Camere, i consigli regionali ed il CNEL 2. Sia la Costituzione che i regolamenti parlamentari usano promiscuamente i termini «disegno», «proposta» e «progetto» di legge ma tale diversità terminologica non comporta una differenza sostanziale, alla luce dell’art. 72 Cost. che con l’espressione «disegni di legge» indubbiamente si riferisce a qualsiasi progetto di legge. Per completezza si può ricordare che: la Costituzione parla all’art. 71 di progetto di legge, agli artt. 72, 79 e 87 di disegno di legge, all’art. 121 di proposta di legge; il regolamento del Senato qualifica come disegno di legge qualsiasi atto d’iniziativa; nella prassi della Camera si qualificano come disegni di legge gli atti d’iniziativa del Governo, come proposte di legge gli atti d’iniziativa parlamentare e come progetti di legge tanto gli atti d’iniziativa degli altri soggetti quanto, in senso più generico ed onnicomprensivo, tutti gli atti d’iniziativa legislativa. 2

L’iniziativa dei Comuni di cui all’art. 133, co. 1, Cost. non sembra invece configurabile come iniziativa. Al riguardo si rinvia più oltre allorché verrà esaminato l’argomento della titolarità dell’iniziativa legislativa.

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Dalla indicata definizione del potere d’iniziativa legislativa si evince che il suo esercizio si realizza in due momenti distinti ma collegati tra loro: il momento della predisposizione dell’atto da parte del soggetto competente ed il momento della presentazione di tale atto all’una o all’altra Camera. Tali momenti non hanno evidentemente la stessa importanza da un punto di vista sostanziale, essendo di gran lunga prevalente il primo (nel quale si realizza la scelta di proporre alle Camere una determinata disciplina di una determinata materia) rispetto al secondo (nel quale si realizza soltanto l’atto materiale della presentazione del testo all’una o all’altra Camera). Tuttavia, da un punto di vista formale, è soltanto quest’ultimo che determina da un lato la qualificazione soggettiva dell’atto d’iniziativa in sede parlamentare e dall’altro l’attivazione del procedimento legislativo. Di solito è il singolo proponente che provvede sia alla predisposizione che alla presentazione dell’atto. Non mancano tuttavia casi nei quali le due operazioni sono compiute disgiuntamente da due diversi titolari del potere d’iniziativa legislativa: in tali casi la qualificazione soggettiva dell’atto d’iniziativa, diversamente da quanto avviene normalmente, resta fissata con riferimento al soggetto che ha predisposto l’atto, a nulla rilevando sotto questo profilo l’intervento puramente materiale del soggetto che presenta l’atto all’una o all’altra Camera. Inoltre, alla luce del fatto che la Costituzione considera il potere d’iniziativa legislativa come un potere soggettivamente unitario, sembra preferibile condizionare la legittimità dell’intervento del secondo soggetto ad una mera esecuzione delle disposizioni date dal primo soggetto in ordine sia al quando della presentazione del progetto di legge, che alla scelta del ramo del Parlamento nei confronti del quale effettuare tale presentazione 3. La riserva di legge costituzionale di cui all’art. 71 Cost. («L’iniziativa delle leggi appartiene … ed agli organi ed enti ai quali sia conferita da legge costituzionale») è per un verso pleonastica poiché, anche in sua assenza, sarebbe del tutto evidente l’illegittimità di una legge ordinaria che volesse privare del potere d’iniziativa legislativa alcuni dei soggetti ai quali tale potere è attribuito dalla Costituzione. Per altro verso, quella riserva ha l’importante significato di rendere tassativa l’elencazione dei soggetti titolari 3

In proposito cfr. gli artt. 26, co. 3, St. Friuli Venezia Giulia, e 35 St. Trentino Alto Adige, secondo i quali i progetti di legge approvati dal Consiglio regionale vengono inviati dal Presidente della Giunta regionale al Governo, affinché questi provveda alla presentazione del progetto al Parlamento. Qualora il titolare dell’atto d’iniziativa non dia alcuna disposizione al presentatore, quest’ultimo può scegliere la Camera alla quale presentare il progetto ma ha l’obbligo di effettuare la presentazione tempestivamente e comunque senza ritardi ingiustificati.

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del potere d’iniziativa legislativa di cui agli artt. 71, 99 e 121 Cost. e quindi vincolato il ricorso alla legge costituzionale qualora tale titolarità si volesse estendere ad altri soggetti 4. Poiché non tutto ciò che non è espressamente previsto dalla Costituzione deve perciò solo ritenersi vietato alla legge ordinaria, se l’art. 71 non avesse previsto una riserva di legge costituzionale si sarebbe potuto quantomeno discutere in ordine alla possibilità o impossibilità per la legge ordinaria d’istituire nuovi soggetti titolari del potere d’iniziativa legislativa in aggiunta a quelli già previsti dalla Costituzione. Il potere d’iniziativa legislativa configurato dalla Costituzione italiana (artt. 71, 99 e 121) non è soltanto un potere a titolarità diffusa ma anche un potere basato sul principio della parità formale (o, con altre parole, del pari valore giuridico) dei singoli atti che ne sono concreta espressione, indipendentemente dal soggetto che di volta in volta quel potere abbia esercitato. Tale principio è implicitamente contenuto nell’art. 72 Cost., nella parte in cui, ai fini delle possibili varianti del procedimento legislativo 5, si riferisce ad ogni disegno di legge non importa da quale soggetto presentato. Da esso consegue che sarebbe incostituzionale da parte dei regolamenti parlamentari stabilire che ai soli progetti di legge presentati da uno o da alcuni dei soggetti titolari della potestà d’iniziativa legislativa siano riservati procedimenti speciali di approvazione, per la sola ragione della loro provenienza da quel determinato soggetto o ente. La possibilità che i regolamenti parlamentari prevedano, rispetto agli archetipi procedimentali di cui all’art. 72 Cost., procedimenti più agili (le «corsie preferenziali», come sono comunemente chiamati) ovvero, inversamente, procedimenti più complessi (ad esempio per la discussione della legge di bilancio o della legge di delegazione europea) deve pertanto ammettersi soltanto ratione materiae e non invece in relazione al proponente. Al di là della diversa terminologia, promiscuamente usata in Costituzione e nei regolamenti parlamentari nei confronti degli atti d’iniziativa legislativa, questi ultimi sono atti scritti il cui testo deve essere suddiviso in articoli. Tale obbligo è stabilito dalla Costituzione: esplicitamente dall’art. 71, co. 2, per quanto concerne i progetti di legge d’iniziativa popolare 6; 4

Con esclusione, pertanto, di ogni possibilità d’intervento al riguardo da parte di altre fonti, quali la legge ordinaria o i regolamenti parlamentari. 5 Sulle quali cfr. diffusamente il par. 6 di questo capitolo. 6 «Il popolo esercita l’iniziativa legislativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli». Tale norma è ribadita, a livello di legge ordinaria, dall’art. 49, co. 1, della L. 25 maggio 1970, n. 352, riportato più avanti nel testo.

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implicitamente, per tutti i progetti di legge senza distinzione, dall’art. 72, co. 1, secondo cui «ogni disegno di legge» deve essere approvato dalla Camera «articolo per articolo» e con votazione finale 7. Sulla base di una prassi risalente al periodo albertino e confermata in epoca repubblicana, tutti i progetti di legge sono accompagnati da una relazione scritta, inserita nell’atto d’iniziativa prima dell’articolato, che ne illustra l’oggetto e le finalità. Tale adempimento, peraltro, è espressamente previsto soltanto nei confronti degli atti d’iniziativa popolare dall’art. 49, co. 1, della L. 25 maggio 1970, n. 352 8, secondo cui «la proposta deve contenere il progetto redatto in articoli, accompagnato da una relazione che ne illustri le finalità e le norme». Non sembra si possa dubitare della legittimità costituzionale di tale disposizione, sostenendosi che la riserva di regolamento parlamentare coprirebbe anche la fase della formazione dell’atto d’iniziativa, talché la fonte legge non sarebbe legittimata ad intervenire su tale oggetto; oppure, che la previsione di tale requisito soltanto per l’iniziativa popolare violerebbe il principio dell’eguale valore giuridico dei singoli atti d’iniziativa. Quanto al primo argomento, è opinione concorde che il procedimento di formazione dell’atto d’iniziativa sia liberamente disciplinabile dalla legge dal momento che, sulla base dell’art. 72, co. 1, Cost., la riserva di regolamento parlamentare riguarda soltanto le fasi della presentazione, della discussione e della votazione dei progetti di legge. Quanto al secondo, la presunta violazione del principio dell’eguale valore dei singoli atti d’iniziativa non sembra sussistere qualora si dimostri che la relazione scritta, illu-

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Ciò non vale, per evidenti ragioni di economia dei lavori, quando si tratti di disegni di legge che constano di un articolo unico. In tal caso si applicano gli artt. 87, co. 5, reg. Camera e 120, co. 2, reg. Senato. Che la disposizione di cui all’art. 72, co. 1, Cost. (approvazione del testo “articolo per articolo”) costituisca riprova della necessità che ogni progetto di legge debba essere redatto in articoli trova conferma in tutte le disposizioni dei regolamenti parlamentari relative alla discussione dei progetti di legge da parte delle commissioni in sede legislativa ed in sede redigente. Per quanto attiene all’esame in sede referente, la necessità della redazione in articoli è implicitamente confermata dall’art. 79 reg. Camera al co. 3 («Dopo aver proceduto all’esame preliminare del progetto e a conclusione di esso, la Commissione può nominare un Comitato ristretto, composto in modo da garantire la partecipazione proporzionale delle minoranze, al quale affida l’ulteriore esame per la formulazione delle proposte relative al testo degli articoli») e al co. 6 («Qualora un progetto di legge sia approvato integralmente da una Commissione permanente ad unanimità, tanto nelle sue disposizioni quanto nella motivazione della sua relazione, la Commissione stessa può proporre all’Assemblea che si discuta sul testo del proponente adottandone la relazione»). 8 Recante «Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo».

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strativa del contenuto e delle finalità di un progetto di legge, è elemento necessario di tutti gli atti d’iniziativa legislativa e non soltanto di quelli d’iniziativa popolare. Tale dimostrazione scaturisce, in primo luogo, dalla tesi secondo cui la prassi costante della relazione illustrativa dei progetti di legge avrebbe dato ormai luogo al sorgere di una vera e propria norma consuetudinaria. In secondo luogo, dalla circostanza secondo cui i regolamenti parlamentari in taluni casi e per determinati fini presuppongono l’esistenza della relazione illustrativa: un esempio è costituito dall’art. 79, co. 6, reg. Camera, secondo il quale «Qualora un progetto di legge sia approvato integralmente da una commissione permanente ad unanimità, tanto nelle sue disposizioni quanto nella motivazione della sua relazione, la commissione stessa può proporre all’Assemblea che si discuta sul testo del proponente adottandone la relazione». In terzo luogo, dall’applicazione alla fattispecie dell’iniziativa legislativa del principio generale della necessità di motivazione degli atti diretti a tutelare pubblici interessi. Una sottospecie molto particolare di relazione illustrativa è stata introdotta nell’ordinamento italiano dall’art. 7 della L. 23 agosto 1988, n. 362 (successivamente modificato dalla L. 25 giugno 1999, n. 208), che ha aggiunto un art. 11-ter nella L. 5 agosto 1978, n. 468 9, in attuazione dell’art. 81, co. 4, Cost., secondo il quale ogni legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte. L’articolo suddetto stabilisce, al co. 2, che i disegni di legge, gli schemi dei decreti legislativi e gli emendamenti d’iniziativa governativa, che comportino conseguenze finanziarie, devono essere corredati da una relazione tecnica, predisposta dalle amministrazioni competenti e verificata dal Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica sulla quantificazione delle entrate e degli oneri recati da ciascuna disposizione, nonché delle relative coperture. Il co. 4 stabilisce che i disegni di legge d’iniziativa regionale e del CNEL devono essere corredati, a cura dei proponenti, da una relazione tecnica formulata nei modi previsti dal co. 2. Il co. 3 stabilisce, infine, che le commissioni parlamentari competenti possono richiedere al Governo la relazione di cui al co. 2 per tutte le proposte legislative e gli emendamenti al loro esame ai fini della verifica tecnica della quantificazione degli oneri da essi recati. In attuazione delle citate norme, che a loro volta si ricollegano all’art. 81, co. 4, Cost., l’art. 76-bis reg. Senato stabilisce che non possono essere assegnati alle competenti commissioni permanenti i disegni di legge d’ini9

«Riforma di alcune norme di contabilità generale dello Stato in materia di bilancio».

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ziativa governativa, d’iniziativa regionale o del CNEL che comportino nuove o maggiori spese oppure diminuzione di entrate e non siano corredati dalla relazione tecnica, conforme alle prescrizioni della legge, sulla quantificazione degli oneri recati da ciascuna disposizione e delle relative coperture. Inoltre, sono improponibili gli emendamenti d’iniziativa governativa che comportino nuove o maggiori spese oppure diminuzioni di entrate e non siano corredati dalla relazione tecnica redatta nei termini di cui sopra. Infine, le commissioni competenti per materia e, in ogni caso, la V commissione permanente (Bilancio e Programmazione economica) possono richiedere al Governo la relazione tecnica per i disegni di legge d’iniziativa popolare o parlamentare e per gli emendamenti di iniziativa parlamentare al loro esame, ai fini della verifica tecnica della quantificazione degli oneri da essa recati. La relazione deve essere trasmessa dal Governo nel termine di trenta giorni dalla richiesta. Al Senato la relazione tecnica costituisce, pertanto, una condizione di procedibilità dei progetti di legge per i quali è prevista, dal momento che l’art. 76-bis non esclude la ricevibilità da parte del Presidente del Senato degli atti d’iniziativa privi della relazione tecnica bensì ne vieta l’assegnazione alle commissioni competenti da parte dello stesso Presidente. Nel regolamento della Camera non vi è una disposizione analoga all’art. 76-bis; tuttavia, è da ritenere che il controllo sulla sussistenza della relazione tecnica rientri nel più generale potere di controllo del Presidente della Camera sulla ammissibilità e sulla procedibilità dei documenti a lui presentati 10. Del resto, l’esigua prassi parlamentare finora sviluppatasi in relazione ai progetti di legge d’iniziativa regionale che comportino onere finanziario 11 è per il momento uniforme in ambedue i rami del Parlamento, anche se in termini ribaltati rispetto a quanto finora illustrato: sia alla Camera che al Senato, infatti, tali progetti sono stati assegnati alle commissioni competenti malgrado fossero privi della relazione tecnica 12. 10

Sui poteri dei Presidenti delle due Camere ai quali si accenna nel testo, cfr. in modo specifico più avanti il par. 5 di questo capitolo. 11 I progetti di legge d’iniziativa regionale rappresentano finora l’unico test significativo ai fini dell’applicazione o non applicazione dell’art. 11-ter in sede parlamentare, dal momento che, dal 1988 ad oggi, il CNEL non ha presentato alcun progetto di legge ed il Governo, dal canto suo, ha sempre allegato la relazione tecnica ai propri disegni di legge comportanti onere finanziario, a prescindere dalla circostanza che il disegno di legge fosse stato presentato alla Camera o al Senato. Per un esempio di relazione tecnica cfr. il d.d.l. n. 3947 «Conversione in legge del decreto-legge 25 marzo 1996, n. 154, recante misure urgenti per il rilancio economico ed occupazionale dei lavori pubblici e dell’edilizia privata». 12 Alla Camera cfr. ad esempio la p.p.l. n. 333 «Esclusione dell’applicazione dell’impo-

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Le norme – legislative e regolamentari – che impongono l’obbligo della relazione tecnica per i soli progetti di legge del Governo, dei consigli regionali e del CNEL non contrastano con il principio del pari valore dei diversi atti d’iniziativa legislativa. Non sembra, infatti, che l’art. 11-ter, co. 4, possa interpretarsi nel senso che il potere di predisporre la relazione tecnica sia, anche per le proposte di legge d’iniziativa regionale o del CNEL, un potere riservato al Governo, residuando alle Regioni ed al CNEL il solo obbligo formale di allegare successivamente tale relazione ai propri progetti di legge prima della loro presentazione all’una o all’altra Camera; configurandosi in tal modo un illegittimo potere d’intervento preventivo da parte di uno dei soggetti titolari del potere d’iniziativa legislativa – il Governo – nei confronti dell’esercizio dello stesso potere da parte di altri soggetti – Regioni e CNEL. Al contrario, dai lavori preparatori dell’art. 11-ter, oltreché dalla sua formulazione letterale 13, si evince piuttosto chiaramente che spetta in prima persona alle Regioni ed al CNEL predisporre la relazione tecnica. Né il principio del pari valore dei diversi atti di iniziativa legislativa risulta violato sotto un altro possibile profilo, argomentandosi dal fatto che l’obbligo della formulazione della relazione tecnica è stabilito soltanto per le proposte di alcuni soggetti (Governo, Regioni e CNEL) e non anche per le proposte di altri (parlamentari e popolo): da ciò derivando un’ingiustificata disparità di trattamento, che favorirebbe i secondi rispetto ai primi. È sta sul valore aggiunto (IVA) sulle imposte relative al consumo di gas metano», d’iniziativa del Consiglio regionale del Veneto, presentata il 22 aprile 1994 ed assegnata in sede referente alla commissione VI Finanze con il parere della commissione V Bilancio. Al Senato cfr. i d.d.l., d’iniziativa di vari Consigli regionali, nn. 85, 2383, 2440, 1268 e 274 assegnati in sede referente alle competenti commissioni con il parere della V commissione Programmazione economica e Bilancio. 13 Cfr. il co. 4 dell’art. cit.: «I disegni di legge di iniziativa regionale e del CNEL devono essere corredati, a cura dei proponenti, da un relazione tecnica formulata nei modi previsti dal comma 2». Per quanto concerne i lavori preparatori (cfr. Senato della Repubblica – Assemblea – Resoconto stenografico del 27 luglio 1988, 50-57), occorre ricordare che, nella formulazione originaria del co. 4, l’obbligo della relazione tecnica era previsto non soltanto per i progetti di legge d’iniziativa regionale e del CNEL ma anche per quelli d’iniziativa parlamentare e popolare. Il comma venne poi approvato eliminando il riferimento a questi ultimi due tipi d’iniziativa, dal momento che il popolo ed i parlamentari non avrebbero avuto a propria disposizione i mezzi tecnici necessari per la redazione della relazione (cfr. gli interventi del senatore Maffioletti, del relatore Cortese e del Sottosegretario Gitti). Nei riguardi dei progetti di legge d’iniziativa regionale e del CNEL, il Sottosegretario Gitti affermò che: «... non vedo per quale motivo essi non debbano essere corredati da una relazione, giacché sia le Regioni che il CNEL sono in possesso di tutti i dati necessari per formularla».

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invece vero esattamente l’inverso: la disparità di trattamento si verificherebbe qualora l’obbligo della predisposizione della relazione tecnica fosse previsto indistintamente per tutti i soggetti titolari del potere d’iniziativa legislativa, dal momento che ben diverse sono le risorse tecnico-amministrative di soggetti burocraticamente strutturati, quali il Governo, le Regioni ed il CNEL, rispetto a quelle di soggetti che tale struttura non hanno, quali i singoli parlamentari ed il popolo. Inoltre, l’illustrata diversità soggettiva della disciplina della relazione tecnica sfuma, sul piano sostanziale, nel corso del procedimento legislativo alla luce del co. 3 dell’art. 11-ter secondo il quale le commissioni parlamentari competenti possono comunque richiedere al Governo la relazione tecnica per tutte le proposte di legge al loro esame ai fini della verifica della quantificazione degli oneri da esse recati. L’iniziativa legislativa governativa, pur se giuridicamente di pari valore rispetto all’iniziativa degli altri soggetti, ha in teoria una valenza ben maggiore sul piano politico poiché il Governo, in quanto organo che ha come finalità istituzionale quella di realizzare il programma illustrato al momento della sua presentazione alle Camere, dispone in Parlamento di una maggioranza precostituita, che dovrebbe pertanto assicurare ai disegni di legge governativi notevoli probabilità di approvazione. Nella pratica, invece, la formazione di governi politicamente non omogenei – pluripartitici come era in passato o appoggiati da composite coalizioni elettorali come avviene attualmente – tende a favorire le divisioni all’interno della maggioranza parlamentare che appoggia il Governo e quindi a ridurre la sua capacità deliberativa Ne deriva una sempre maggiore difficoltà per il Governo di fare approvare i propri disegni di legge ed un crescente ricorso a strumenti o meccanismi alternativi, quali l’uso spropositato del decreto-legge o la prassi di leggi-omnibus 14. Spesso tali strumenti, come ci si comincia a rendere conto anche in sede politica, si sono risolti in un’ulteriore causa d’impedimento per le Camere a decidere sui disegni di legge del Governo, diversi da quelli di conversione dei decreti-legge, poiché la discussione su questi ultimi – giunti oramai a numeri spropositati – rende quasi material14 Con questa espressione ci si riferisce a leggi che contengono un coacervo di disposizioni tra loro non omogenee in ordine alle materie che intendono disciplinare. L’esempio tipico è stato in passato costituito dalla legge finanziaria (in seguito denominata legge di stabilità) che ogni anno le Camere dovevano approvare insieme al bilancio dello Stato: poiché tale legge era tra le poche sulle quali il Governo riusciva a compattare la maggioranza (per lo più ponendo la questione di fiducia), era invalsa la cattiva abitudine d’inserire nel relativo disegno di legge tutte quelle disposizioni, non importa se assolutamente eterogenee, che altrimenti il Governo non sarebbe riuscito a far approvare.

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mente impossibile – per mancanza di tempo – la discussione sui primi. Gli atti di iniziativa legislativa del Governo sono il frutto di uno specifico procedimento di formazione: proposta in Consiglio dei ministri di un testo redatto in articoli da parte di uno o più ministri, deliberazione del Consiglio, decreto del Presidente della Repubblica di autorizzazione alla presentazione del disegno di legge alle Camere. Per quanto attiene ai poteri del Presidente della Repubblica in sede di autorizzazione alla presentazione dei disegni di legge governativi, occorre distinguere varie ipotesi. Quando l’atto d’iniziativa manchi dei requisiti essenziali per la sua stessa esistenza – e cioè quando non sia nemmeno riconoscibile come atto d’iniziativa – ovvero il suo contenuto concreti per il Capo dello Stato le fattispecie dell’attentato alla Costituzione o dell’alto tradimento di cui all’art. 90 Cost., il Presidente della Repubblica può rifiutarsi in modo definitivo di concedere l’autorizzazione. Quando il Capo dello Stato non condivida, in tutto o in parte, il contenuto dell’atto d’iniziativa per valutazioni di merito, può soltanto invitare il Governo ad un riesame dell’atto, salvo a dover concedere l’autorizzazione qualora il Governo, mediante una nuova delibera del Consiglio dei ministri, insista sul mantenimento del testo originario Poiché il concetto di “merito” viene inteso in senso residuale rispetto al concetto di legittimità – è di merito ogni valutazione che non scaturisce da un raffronto tra norme – la richiesta di riesame da parte del Presidente della Repubblica deve essere esercitata con estrema prudenza, limitandola ad alcuni motivi di merito (ad es. l’erronea o poco chiara formulazione tecnica di talune disposizioni) ed escludendola per altri. Tra questi ultimi vanno senza dubbio ricomprese le valutazioni in ordine all’opportunità politica dell’atto d’iniziativa, o di alcune delle disposizioni in esso contenute, poiché tali valutazioni rientrano nel potere d’indirizzo politico riservato al Governo. Quando il dissenso del Capo dello Stato si basi su motivazioni di illegittimità costituzionale, è controverso se egli debba limitarsi, come nell’ultimo caso, ad una richiesta di riesame del testo da parte del Governo ovvero se possa, come nei primi due casi illustrati, giungere ad un rifiuto assoluto dell’autorizzazione. La prima soluzione sembra preferibile perché il potere d’iniziativa legislativa è un potere proprio in via esclusiva del Governo; perché l’eventuale modifica delle disposizioni ritenute incostituzionali dal Presidente della Repubblica può essere sempre deliberata dalle Camere nel corso del successivo procedimento legislativo; perché il Presidente della Repubblica ha pur sempre un’ulteriore possibilità d’intervento in sede di promulgazione della legge.

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Il potere governativo d’iniziativa legislativa incontra limiti peculiari dipendenti dalle possibili situazioni nelle quali può trovarsi il Governo con riferimento al suo «stato di salute» nei confronti del Parlamento. Si tratta perciò di vedere quanto la mancanza della fiducia parlamentare – sia per la perdita (Governo dimissionario) che per la non ancora perfezionata acquisizione della stessa (Governo in attesa della fiducia) – incida in concreto sull’esercizio di quel potere. Per la verità, tale problema non si porrebbe neppure qualora si rifletta sul fatto che la limitazione dei poteri del Governo è posta a tutela delle possibili maggioranze parlamentari e che l’iniziativa produce un effetto di mero impulso procedimentale: poiché l’iter di un disegno di legge dipende interamente proprio da quelle maggioranze che si vogliono tutelare, ne conseguirebbe l’ammissibilità di qualsiasi atto d’iniziativa legislativa del Governo, indipendentemente dallo stato del rapporto fiduciario tra quest’ultimo e le Camere. Tuttavia, a quella osservazione – di per sé esatta e comunque tale da ridurre fortemente l’impatto concreto del problema – se ne devono aggiungere altre, relative sia alle possibili classificazioni degli atti d’iniziativa governativa, sia alle posizioni, non esattamente coincidenti, del Governo che ha perduto la fiducia e del Governo che non ha ancora ricevuto la fiducia. In ordine al primo punto e come si vedrà meglio più avanti 15, se normalmente gli atti d’iniziativa legislativa del Governo sono frutto di scelte politiche discrezionali e si pongono quindi come atti di esecuzione dell’indirizzo politico che lo stesso Governo si è impegnato a realizzare, non mancano casi nei quali l’atto d’iniziativa, più o meno politicamente neutro, è un atto dovuto: gli esempi più evidenti sono rappresentati dal disegno di legge di conversione di un decreto-legge e dal disegno di legge di approvazione del bilancio dello Stato. In ordine al secondo punto, occorre tenere presente che, mentre nel caso del Governo dimissionario è ragionevolmente 16 certo che esso non goda più della fiducia delle Camere, nel caso del Governo in attesa della fiducia la certezza riguarda soltanto la circostanza che il Governo non ha ancora la fiducia, senza che ciò escluda la possibilità di ottenerla: per farla breve, la differenza, sul piano logico, è tra ciò che non c’è più e ciò che non c’è ancora. 15

Cfr. più avanti in questo stesso paragrafo. Ragionevolmente ma non assolutamente poiché, nel caso di crisi extra-parlamentari, non si può escludere che, a seguito dell’eventuale rinvio alle Camere del Governo compiuto dal Presidente della Repubblica, queste ultime confermino la fiducia che il Governo riteneva invece di avere perso. 16

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Tenendo conto di tali osservazioni, le conclusioni sembrano essere le seguenti: gli atti d’iniziativa cosiddetti dovuti devono ritenersi comunque ammissibili; tutti gli altri atti d’iniziativa devono ritenersi preclusi al Governo dimissionario, in quanto quest’ultimo ha ormai rinunciato all’attuazione del proprio programma politico, ed invece consentiti al Governo in attesa della fiducia nella misura in cui essi rappresentano per quest’ultimo uno strumento tendente a meglio chiarire ed anticipare alcuni aspetti del programma politico che verrà successivamente illustrato all’inizio del dibattito parlamentare sulla fiducia. L’iniziativa legislativa parlamentare è quella che, secondo l’art. 71 Cost., appartiene a «ciascun membro delle Camere». Tale iniziativa non pone problemi particolari sotto il profilo giuridico. È perciò sufficiente limitarsi ad osservare che tale potere è oggi attribuito al singolo parlamentare (o a gruppi di parlamentari) e non più a «ciascuna delle due Camere», come invece stabiliva l’art. 10 dello Statuto albertino. Inoltre, l’iniziativa dei parlamentari, a differenza dell’iniziativa degli altri soggetti titolari, non consente la scelta del ramo del Parlamento al quale presentare la proposta di legge: i deputati possono presentare proposte di legge soltanto alla Camera, mentre i senatori possono presentare proposte di legge soltanto al Senato. Il fondamento di tale limitazione non è rintracciabile in alcuna norma scritta: non nella formula del tutto priva di limitazioni contenuta nell’art. 71 Cost., né tanto meno nei regolamenti parlamentari. L’incontestabile esistenza di una duratura prassi in tal senso, senza eccezione alcuna, spinge, pertanto, a ritenere oramai sorta una vera e propria norma consuetudinaria. Occorre altresì ricordare che attualmente non esiste più l’istituto della «presa in considerazione», nato in epoca statutaria e successivamente previsto in epoca repubblicana dal solo regolamento della Camera. Se originariamente esso era giustificato dal fatto che il potere d’iniziativa era attribuito dall’art. 10 dello Statuto non ai singoli parlamentari bensì a ciascuna delle due Camere – talché queste ultime, votando la presa in considerazione, facevano proprie le proposte avanzate dai primi – successivamente gli artt. 133 e 134 reg. Camera hanno limitato l’applicazione dell’istituto alle sole proposte di legge d’iniziativa parlamentare comportanti onere finanziario. Tali proposte – e per prassi successiva anche le proposte di legge presentate dalle Regioni e dal CNEL – non potevano essere assegnate alla commissione competente se la Camera, sentito il parere del Governo, non avesse preliminarmente deliberato la loro presa in considerazione. I dubbi sulla costituzionalità dell’istituto in relazione all’art. 72 Cost. e comunque la sua riduzione ad un cerimoniale meramente simbolico hanno opportunamente condotto all’abrogazione delle due citate disposizioni del regolamento della Camera.

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Statisticamente, le proposte di legge d’iniziativa parlamentare sono sempre più numerose, anche se risulta molto bassa la loro percentuale di approvazione. Tale situazione si spiega in parte con il fatto che tali proposte, a differenza dei disegni di legge governativi, non hanno in partenza il sostegno di una maggioranza parlamentare precostituita; in parte sulla base delle diverse motivazioni che stanno alla loro origine. Talvolta le proposte d’iniziativa parlamentare, tanto se provenienti da settori della maggioranza, quanto da settori dell’opposizione, tendono a tutelare interessi particolari, spesso circoscritti all’area geografica dove il parlamentare è stato eletto; altre volte le proposte d’iniziativa parlamentare – in questo caso presentate quasi esclusivamente 17 da parlamentari dell’opposizione su argomenti politicamente rilevanti sul piano generale – tendono, a seconda dei casi, a stimolare le decisioni della maggioranza o a contrapporsi ad esse; altre volte, infine, le proposte, d’iniziativa di parlamentari appartenenti sia alla maggioranza che all’opposizione, vertono su argomenti sui quali il Governo, per scelta politica, volutamente si astiene dal presentare proprie proposte: l’esempio tipico è rappresentato dal tema delle riforme istituzionali e delle relative proposte di legge costituzionale. L’iniziativa legislativa del CNEL (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) è disciplinata dall’art. 99, co. 3, Cost., il quale consente alla legge di fissare i principi ed i limiti entro i quali quel potere può essere esercitato. L’art. 10, co. 1, lett. i), della L. 30 dicembre 1986, n. 936, attualmente in vigore, prevede, tuttavia, il potere d’iniziativa legislativa del CNEL senza avvalersi della facoltà di cui sopra. Si deve pertanto ritenere che l’iniziativa del CNEL sia oggi un’iniziativa del tutto libera, così come lo sono quelle degli altri soggetti, diversamente da quanto avveniva sulla base della precedente L. 5 gennaio 1957, n. 33 18. L’iniziativa popolare è disciplinata in primo luogo dall’art. 71, co. 2,

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Il “quasi” si riferisce alla eventualità, rara ma da non escludere in assoluto, che proposte alternative rispetto a quelle del Governo siano presentate da parlamentari in dissenso con le scelte della maggioranza della quale pur fanno parte. 18 Espressamente abrogata dall’art. 26 della citata L. n. 936. I limiti precedentemente fissati dagli artt. 10 e 11 della L. n. 33 erano di vario tipo: a) limiti procedurali: la presentazione all’una o all’altra Camera dei progetti di legge del CNEL doveva necessariamente avvenire attraverso il Presidente del Consiglio; b) limiti di materia: il CNEL non poteva esercitare l’iniziativa legislativa relativamente a leggi costituzionali, leggi di bilancio, leggi tributarie, leggi di delegazione legislativa e leggi di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali; c) limiti temporali: il CNEL non poteva esercitare l’iniziativa legislativa sopra un oggetto sul quale una Camera o il Governo avevano già chiesto il parere al Consiglio, oppure sul quale il Governo aveva già presentato un proprio disegno di legge.

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Cost., secondo il quale «Il popolo esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli». Tale disposizione è stata attuata dalla L. 25 maggio 1970, n. 352 19. L’art. 49 della legge citata, come già visto in precedenza, all’obbligo della redazione in articoli del progetto d’iniziativa popolare aggiunge l’obbligo per i proponenti di allegare al testo una relazione che ne illustri le finalità e le norme. L’art. 48 stabilisce che il progetto, corredato dalle firme degli elettori proponenti, sia presentato al Presidente di una delle due Camere e che alla Camera adita spetti il compito di provvedere alla verifica ed al computo delle firme dei richiedenti al fine di accertare la regolarità della richiesta. Se si prescinde dal problema, essenzialmente di tipo definitorio, della qualificazione o meno dell’iniziativa popolare come istituto di democrazia diretta, le questioni sollevate in dottrina riguardano, da un lato, l’individuazione di eventuali limiti sostanziali specifici di tale tipo d’iniziativa e, dall’altro, la sua particolare efficacia sul piano procedimentale rispetto agli atti d’iniziativa legislativa degli altri soggetti titolari, consistente nell’obbligo per la Camera adita di deliberare sul progetto d’iniziativa popolare. Quanto ai limiti – di volta in volta indicati per analogia, totale o parziale, con quelli stabiliti dall’art. 75 Cost. per il referendum abrogativo ovvero individuati con riferimento alle leggi meramente formali ed in particolare alle leggi di autorizzazione – si può osservare che sia l’art. 71, co. 2, Cost., sia la L. n. 352, non contengono alcun accenno in proposito e che ben diversi, in termini di definitività, sono gli effetti del referendum abrogativo e dell’iniziativa legislativa: mentre nel primo caso la volontà popolare ha un valore decisivo in ordine all’abrogazione della legge, nel secondo al popolo spetta soltanto il potere di attivare un procedimento la cui eventuale conclusione dipende esclusivamente dalle Camere. Ne consegue la legittimità di qualsiasi intervento da parte dell’iniziativa popolare, con l’unica eccezione dei casi di iniziativa riservata. Quanto all’obbligo, che graverebbe sulla Camera adita, di deliberare sul progetto d’iniziativa popolare, non sembra che sussistano sufficienti ragioni per ricostruire l’effetto procedimentale prodotto da tali progetti in modo diverso dall’effetto proprio di tutti gli altri atti d’iniziativa legislativa, effetto che si concretizza non nell’obbligo di deliberare ma, più limitatamente, in quello di dare inizio al procedimento legislativo. Contro la tesi, 19

Risulta così superato il problema, dibattuto prima dell’entrata in vigore di tale legge, relativo al se l’art. 71, co. 2, fosse immediatamente applicabile o richiedesse apposite norme di attuazione.

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che costituisce la premessa di quel presunto effetto particolare, secondo cui la preminenza dell’iniziativa legislativa popolare si baserebbe sul principio della sovranità popolare, vale, tra gli altri, il seguente rilievo concreto: dato il numero di firme non particolarmente elevato richiesto dalla Costituzione, non è da escludere l’eventualità che su uno stesso oggetto possano essere presentate più proposte di legge d’iniziativa popolare, recanti disposizioni diverse, «senza che nessuna possa evidentemente essere considerata come l’autentica espressione della volontà del popolo». Insomma, a differenza di quanto avviene nel momento in cui è senza dubbio “il popolo” ad eleggere i propri rappresentanti, l’iniziativa legislativa, al di là dell’espressione letterale usata dall’art. 71, co. 2, Cost., rimane nella sostanza un potere non del “popolo” ma di una o più frazioni di esso. Sul piano operativo, si può osservare che il ricorso all’iniziativa popolare avviene di solito ad opera di partiti o movimenti che non sono rappresentati in Parlamento – ed è in questo senso che dell’iniziativa popolare può propriamente parlarsi come di un istituto di democrazia diretta – ovvero come strumento sostitutivo dell’iniziativa parlamentare. In questo secondo caso il motivo è di carattere esclusivamente politico, ritenendosi che un’iniziativa popolare, in quanto sottoscritta da almeno cinquantamila elettori, abbia una valenza politica, di freno o di stimolo, nei confronti della maggioranza e del Governo superiore a quella che potrebbe avere una corrispondente iniziativa parlamentare. Infine, per i progetti di legge d’iniziativa popolare non vale il principio della decadenza, al termine della legislatura, degli atti d’iniziativa legislativa che non siano stati ancora approvati definitivamente dalle due Camere. L’art. 107, co. 4, reg. Camera 20, stabilisce infatti che per i progetti di legge d’iniziativa popolare non è necessaria la loro ripresentazione. Quando tali progetti siano stati approvati dalla Camera nella precedente legislatura o il loro esame sia stato esaurito in commissione, si applicano, se vi è richiesta del Governo o di un Presidente di Gruppo, le disposizioni previste dai precedenti commi dello stesso art. 107; diversamente, i progetti stessi sono nuovamente deferiti alle commissioni competenti per materia, secondo la procedura ordinaria. La ratio di tale norma risiede, presumibilmente, soltanto nella difficoltà materiale di raccogliere nuovamente le cinquantamila firme necessarie alla ripresentazione nella nuova legislatura del progetto d’iniziativa popolare, difficoltà che non sussiste per gli altri atti d’iniziativa. L’art. 121, co. 2, Cost., attribuisce il potere d’iniziativa legislativa alle Regioni, senza fissare alcun limite al riguardo e limitandosi a specificare 20

Nello stesso senso l’art. 74, co. 2, reg. Senato.

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che il relativo esercizio spetta al Consiglio regionale. La citata norma costituzionale è d’immediata applicazione e da ciò consegue che ciascuna Regione, non importa se ad autonomia ordinaria o speciale, può in concreto esercitare il potere d’iniziativa legislativa, indipendentemente dal fatto che quest’ultimo sia previsto dallo Statuto 21. Gli Statuti di alcune Regioni ad autonomia speciale – che, ai sensi dell’art. 116 Cost., rivestono la forma di leggi costituzionali – limitano l’iniziativa delle suddette Regioni alle materie di «particolare interesse» per la Regione 22. Si tratta perciò di vedere se tale limite valga soltanto per i casi indicati, nei quali esso è espressamente previsto, ovvero se debba ritenersi per analogia esteso agli atti d’iniziativa legislativa di tutte le Regioni, non importa se ad autonomia speciale o ordinaria. In passato, le risposte che si sono tentate di dare hanno avuto come premessa tacita una determinata concezione del rapporto Stato-Regione, tendente a privilegiare il ruolo dell’uno o dell’altro soggetto. Così, si è esclusa l’applicazione analogica di quel limite, sostenendosi che l’iniziativa legislativa regionale può avere ad oggetto l’indirizzo politico generale dello Stato, salva la facoltà delle Camere di trasformare o meno la proposta regionale in legge dello Stato; all’inverso, tale applicazione si è affermata partendo dall’idea che l’iniziativa legislativa delle Regioni abbia soltanto il fine di contribuire al raccordo tra legislazione statale ed autonomia regionale. L’argomento più convincente per scegliere tra le due possibili soluzioni sembra tuttavia di altro genere e riguarda il rapporto tra l’autonomia delle Regioni a Statuto speciale e l’autonomia delle Regioni a Statuto ordinario: la specialità dell’autonomia delle prime, affermata dall’art. 116 Cost., si concretizza, come unanimemente si ritiene in dottrina, in una sua maggiore ampiezza rispetto all’autonomia delle seconde. Sarebbe del tutto contraddittorio nei confronti di tale principio ritenere che la situazione si ribalti a proposito di uno solo dei poteri nei quali si realizza l’autonomia regionale, il potere d’iniziativa legislativa. La necessità di evitare tale contraddizione consiglia pertanto di accettare la soluzione secondo cui anche tutte le Regioni a Statuto ordinario possono esercitare l’iniziativa legislativa soltanto su materie di particolare interesse per la Regione, pur nella consapevolezza 21

Non accettandosi, pertanto, la tesi secondo cui hanno iniziativa legislativa soltanto quelle Regioni alle quali tale potere sia attribuito dai rispettivi statuti. Conseguenza di tale tesi sarebbe la negazione del potere d’iniziativa legislativa della Regione Trentino Alto Adige, il cui Statuto nulla stabilisce in proposito. 22 Cfr. gli artt. 18 St. Sicilia, 51 St. Sardegna, 26 St. Friuli Venezia Giulia e 35 T.U. St. Trentino Alto Adige.

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dell’ambiguità del termine «interesse regionale» e delle difficoltà a verificarne il rispetto in sede parlamentare. Le proposte di legge regionali devono essere approvate dal Consiglio regionale e successivamente presentate dal Presidente della Giunta al ramo del Parlamento indicato dal Consiglio nella sua deliberazione o, in mancanza, scelto dallo stesso Presidente della Giunta. Come già visto in precedenza, tale procedura subisce una prima deroga ad opera degli artt. 26 St. Friuli Venezia Giulia e 35 T.U. St. Trentino Alto Adige, secondo i quali i progetti di legge approvati dal Consiglio regionale vengono inviati dal Presidente della Giunta regionale al Governo, affinché questi provveda alla presentazione del progetto al Parlamento: in questo caso si verifica una diversificazione tra il soggetto titolare dell’atto d’iniziativa – che però rimane comunque tale – ed il soggetto al quale spetta la mera presentazione al Parlamento di tale atto. L’art. 133, co. 1, Cost. stabilisce che «Il mutamento delle circoscrizioni provinciali e l’istituzione di nuove Provincie nell’ambito di una Regione sono stabiliti con leggi della Repubblica, su iniziativa dei Comuni, sentita la stessa Regione». In passato si pose il problema d’interpretare il significato dell’espressione «su iniziativa dei Comuni», trattandosi di stabilire se con tale espressione i costituenti avessero voluto attribuire ai Comuni un potere d’iniziativa legislativa in senso proprio, ovvero un semplice potere di richiesta, analogo a quello previsto per altri fini dai co. 1 e 2 dell’art. 132 Cost., come condizione per l’esercizio di atti d’iniziativa da parte di altri soggetti. Preso atto della scarsa persuasività degli argomenti a suo tempo addotti a sostegno dell’una o dell’altra interpretazione, occorre innanzi tutto ricordare che finora i Comuni non hanno mai tentato di esercitare al riguardo il potere d’iniziativa legislativa, con ciò probabilmente mostrando di non credere essi stessi alla propria titolarità di tale potere. Tuttavia, tale circostanza rappresenta un mero indizio di fatto e non certamente un argomento decisivo per la soluzione del problema poiché il mancato esercizio di un potere, qualora non sia previsto un termine di decadenza, non dimostra, di per sé, l’insussistenza di quest’ultimo bensì soltanto la volontà del titolare di non averlo voluto esercitare fino a quel momento; salva restando, pertanto, la possibilità di esercitarlo per il futuro. La chiave per una soluzione è però rintracciabile nello stesso testo del co. 1 dell’art. 133, qualora esso sia considerato, come punto di partenza del ragionamento, non tanto in ordine al tipo di potere attribuito ai Comuni (potere d’iniziativa legislativa o potere di semplice richiesta) bensì in ordine alla sua qualificazione o meno come potere riservato ad un soggetto specifico (i Comuni). Sotto questo profilo è indubbio che il co. 1, per il

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senso palese delle espressioni in esso contenute, attribuisce ai Comuni un potere riservato; in altre parole, è certo che le Camere non potrebbero approvare una legge per il mutamento di una circoscrizione provinciale o per l’istituzione di una nuova Provincia in mancanza di un intervento preliminare della maggioranza dei Comuni interessati, sia che tale intervento si individui nella presentazione della relativa proposta di legge, sia che lo si individui in una semplice richiesta. Immaginiamo adesso, sia pur soltanto come premessa del tutto ipotetica e non dimostrata, che il co. 1 attribuisca ai Comuni il potere d’iniziativa legislativa. Poiché abbiamo appena accertato che il co. 1 attribuisce un potere che va qualificato come riservato, la proposizione che ne risulta sarà la seguente: se il co. 1 attribuisce un potere d’iniziativa legislativa, dovrà necessariamente trattarsi di un potere d’iniziativa legislativa riservato. Da cui la seguente ulteriore proposizione: se si dimostra che altri soggetti, diversi dai Comuni, possono presentare proposte di legge per gli effetti di cui al co. 1 dell’art. 133, si sarà dimostrato non soltanto che non si tratta di un caso di iniziativa riservata ma anche, necessariamente, che non si tratta di un caso di attribuzione del potere d’iniziativa legislativa. In sintesi: se è iniziativa, è iniziativa riservata; se non è riservata, non è nemmeno iniziativa. Una prassi parlamentare ormai consolidata e priva di eccezioni dimostra l’ammissibilità di atti d’iniziativa legislativa per l’istituzione di nuove Provincie proposti da soggetti diversi dai Comuni. Basti ricordare le numerosissime proposte di legge, d’iniziativa parlamentare e dei consigli regionali, che si sono succedute negli anni in ordine alla istituzione di nuove Provincie; i decreti legislativi, previsti dall’art. 63, co. 2, della L. n. 142/1990 23, con i quali il Governo ha istituito le Provincie di Biella, Cro23

La legge citata, attuando ed integrando l’art. 133, co. 1, Cost., ha fissato, all’art. 16, una serie di criteri ai quali i Comuni devono attenersi. Essa stabilisce che ciascuna circoscrizione provinciale deve corrispondere ad un’area territoriale omogenea per sviluppo sociale, culturale ed economico e deve avere una dimensione idonea a consentire una programmazione dello sviluppo che favorisca il riequilibrio complessivo del territorio; l’intero territorio di ogni Comune deve far parte di una sola Provincia e la popolazione delle Province risultanti dalle modificazioni territoriali non deve, di norma, essere inferiore a 200.000 abitanti; l’iniziativa dei Comuni deve conseguire l’adesione della maggioranza dei Comuni dell’area interessata che rappresentino, comunque, la maggioranza della popolazione complessiva dell’area stessa; l’adesione di ciascun Comune deve essere deliberata dal consiglio comunale a maggioranza assoluta dei suoi componenti; tuttavia, la deliberazione contraria da parte di uno o più Comuni, che comunque non rappresentino la maggioranza della popolazione interessata, non impedisce l’inserimento del Comune nell’ambito di una nuova Provincia, essendo tale scelta rimessa al legislatore (cfr. in tal senso, anteriormente alla L. n. 142, l’esempio della L. n. 171/1968 con la quale vennero inseriti nella nuova Pro-

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tone, Lecco, Lodi, Prato, Rimini, Verbania e Vibo Valentia; la reiezione da parte del Senato, nella seduta del 6 marzo 1958, della pregiudiziale del senatore Carlo De Luca tendente ad affermare che l’art. 133, co. 1, Cost. prevedrebbe un’iniziativa legislativa riservata dei Comuni. Infine, la Corte costituzionale, nella sent. n. 347/1994, ha affermato che l’art. 133, co. 1, non esclude che l’istituzione di una nuova Provincia – o la modifica della circoscrizione di una Provincia esistente – possa essere effettuata, oltre che con legge formale delle Camere, anche mediante il ricorso ad una delega legislativa; né vi sono ostacoli di natura costituzionale che impediscano che gli adempimenti procedurali destinati a «rinforzare» il procedimento (e consistenti nell’iniziativa dei Comuni e nel parere della Regione) possano intervenire, oltre che in relazione alla fase di formazione della legge di delegazione, anche successivamente alla stessa, con riferimento alla fase di formazione della legge delegata. È pertanto da ritenere che l’art. 133, co. 1, attribuisca ai Comuni non un potere d’iniziativa legislativa bensì un potere di semplice richiesta, il cui esercizio, secondo prassi parlamentari ondivaghe, è stato considerato alla stregua di una condizione necessaria talvolta per l’assegnazione alle competenti commissioni delle proposte di legge aventi ad oggetto il mutamento delle circoscrizioni provinciali o l’istituzione di nuove Provincie, talvolta per l’ulteriore corso delle stesse in seno al suddette commissioni 24. Se di regola il potere d’iniziativa legislativa è un potere cosiddetto libero in ordine ai suoi possibili oggetti 25, esistono casi nei quali esso può essere vincia di Pordenone Comuni che avevano adottato delibere in senso contrario). L’art. 63, co. 2, della L. n. 142, che ha delegato il Governo ad adottare, nel termine di due anni, decreti legislativi per l’istituzione di nuove Province, ha previsto una particolare procedura per l’esercizio della suddetta delega. Il Governo, verificato lo stato delle procedure in atto mediante l’acquisizione delle delibere comunali e dei pareri regionali, deve predisporre gli schemi di decreti legislativi da inviare alle Regioni interessate ed alle competenti commissioni parlamentari le quali, nel termine di sei mesi, devono esprimere il loro parere. I decreti legislativi istitutivi delle nuove Province devono rispettare i principi ed i criteri direttivi stabiliti dall’art. 16. 24 Cfr. la lettera, in data 21 luglio 1988, del Presidente della Camera, Nilde Iotti, in risposta ad un quesito sollevato nella commissione Affari costituzionali dal deputato Valensise in relazione alla propria proposta di L. n. 2459, tendente ad istituire la Provincia di Crotone, in Circolari e disposizioni interpretative del regolamento emanate dal Presidente della Camera (1979-1992), a cura della Segreteria generale della Camera, Roma 1994, 205 ss. Cfr. pure, ibidem, 206, la nota senza numero a piè di pagina nella quale si ricorda che «una nuova procedura di assegnazione delle proposte di legge istitutive di nuove province ha innovato, dall’inizio della XI legislatura, la prassi che il Presidente della Camera confermava nella lettera di risposta al deputato Valensise». 25 Nel rispetto, evidentemente, degli eventuali limiti positivamente stabiliti nei confronti

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esercitato soltanto da uno o più soggetti determinati. In tali casi si parla di «iniziativa riservata» ed il problema che subito si pone riguarda la definizione dei criteri per individuare le singole fattispecie nelle quali tale figura ricorre. Un tentativo di definire un criterio di carattere generale è quello secondo cui sarebbe riservata al Governo l’iniziativa di tutte le leggi di autorizzazione e di approvazione, in quanto tali leggi presuppongono l’atto di un organo diverso dal Parlamento da autorizzare o da approvare. L’argomento non è tuttavia probante poiché il mero presupposto della necessaria esistenza di un atto di un organo diverso dal Parlamento da autorizzare o da approvare non esclude di per sé che un soggetto diverso dal Governo possa avere la disponibilità di tale atto e che pertanto decida, in caso d’inerzia del Governo, di presentare un proprio atto d’iniziativa legislativa. Si pensi, come si è già verificato nella prassi, ad un atto d’iniziativa parlamentare per una legge di autorizzazione alla ratifica di un trattato internazionale, ai sensi dell’art. 80 Cost., qualora sia disponibile il testo del trattato sottoscritto dal Governo e quest’ultimo non abbia presentato un proprio disegno di legge. In realtà e come si vedrà meglio più avanti, perché si possa parlare d’iniziativa riservata al Governo, quando vi sia un atto di quest’ultimo da autorizzare o da approvare con legge, occorre che tale atto si trovi nella disponibilità del solo Governo e non anche in quella degli altri titolari del potere d’iniziativa legislativa; e non è affatto detto che tale presupposto sussista necessariamente in tutti i casi di leggi di autorizzazione o di approvazione. Inoltre, l’attuale Costituzione italiana – diversamente dallo Statuto albertino – attribuisce l’iniziativa legislativa ai singoli parlamentari ed in tal modo consente all’opposizione di esercitare un ruolo attivo non solo di controllo ma anche di stimolo politico nei confronti del Governo, ruolo che non sembra escludere la possibilità di sottoporre alle Camere la decisione su eventuali autorizzazioni al Governo, anche quando quest’ultimo non abbia manifestato alcuna volontà di adottare una atto per l’appunto soggetto ad autorizzazione. Si pensi, come si è già verificato anche in questo caso nella prassi, ad un atto d’iniziativa parlamentare per una legge di autorizzazione alla vendita di beni immobili demaniali – nei casi nei quali la legge è necessaria – benché il Governo non abbia manifestato alcuna volontà di procedere a tale vendita. L’individuazione dei casi d’iniziativa legislativa riservata deve compiersi di taluno dei titolari. Si pensi, ad esempio, al limite del «particolare interesse regionale» per gli atti d’iniziativa delle Regioni.

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innanzi tutto sulla base del diritto positivo e, più specificamente, con riguardo alle disposizioni formalmente costituzionali che riservano ad uno o più soggetti l’esercizio del potere d’iniziativa legislativa su determinati oggetti. L’esigenza che tali disposizioni abbiano natura formalmente costituzionale è intuitiva: ogni caso di riserva dell’iniziativa in favore di un soggetto costituisce automaticamente una limitazione del potere d’iniziativa degli altri soggetti titolari; potere che, essendo ad essi attribuito in modo pieno da disposizioni costituzionali, può essere validamente limitato soltanto da disposizioni di pari grado. Pertanto, eventuali disposizioni di legge ordinaria – o comunque di fonti non aventi grado costituzionale – che stabiliscano iniziative legislative riservate, devono considerarsi illegittime, a meno che non sia possibile interpretarle riduttivamente come disposizioni che si limitano a ribadire ed esplicitare nei confronti di determinati titolari del potere d’iniziativa legislativa una competenza che tuttavia resta propria anche di tutti gli altri titolari. Un esempio di quanto appena affermato ricorreva a proposito dell’iniziativa per le leggi ordinarie di approvazione o di modifica degli Statuti delle Regioni ad autonomia ordinaria, con riferimento all’art. 6, co. 1 e 4, della L. 10 febbraio 1953, n. 62 ed agli artt. 74 St. Lombardia, 86 St. Umbria, 52 St. Emilia-Romagna, 70 St. Campania e 75 St. Abruzzo. Le citate disposizioni, pena la loro illegittimità, dovevano essere interpretate come non escludenti, di per sé, la possibilità che l’iniziativa per la modifica degli statuti in questione potesse essere assunta anche da soggetti diversi dal Governo o dalle Regioni. Problema diverso era quello relativo al se tali soggetti avessero poi, in fatto, la possibilità concreta di predisporre i relativi atti d’iniziativa legislativa poiché, dal momento che a questi ultimi doveva essere allegato il testo del nuovo Statuto approvato dal Consiglio regionale, la soluzione dipendeva dal grado di conoscibilità legale di tale testo da parte di quei soggetti. Soluzione che non poteva essere univoca poiché era legata a quanto era in proposito stabilito dai singoli statuti e dai singoli regolamenti consiliari. Si ha iniziativa riservata, in primo luogo, quando la riserva è espressamente stabilita da una disposizione costituzionale. Tale ipotesi ricorre nel caso dell’art. 81, co. 1, Cost., secondo il quale «Le Camere approvano ogni anno i bilanci e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo»; dell’art. 77, co. 2, Cost., secondo il quale «Quando … il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere …»; dell’art. 54, co. 4, St. Sardegna che, stabilendo la modificabilità con legge ordinaria delle disposizioni in materia di finanza regionale contenute nel titolo III

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dello Statuto, riserva la relativa iniziativa legislativa al Governo e alla Regione; dell’analoga disposizione di cui all’art. 63, co. 2, St. Friuli Venezia Giulia che riserva la relativa iniziativa legislativa a ciascun membro delle Camere, al Governo e alla Regione 26-27. Nella dizione «bilanci e rendiconto consuntivo», di cui all’art. 81, devono intendersi ricompresi i disegni di legge relativi al bilancio di previsione, annuale e pluriennale, ed al rendiconto generale, nonché il disegno di legge per l’assestamento del bilancio dello Stato. Più dubbio è il caso dei disegni di legge cosiddetti «collegati» alla manovra di finanza pubblica, poiché se da un lato è certo che il Governo è obbligato a presentarli, in quanto elencati nel documento di economia e finanza approvato con risoluzione parlamentare ai sensi degli artt. 118-bis, co. 2, reg. Camera e 125bis, co. 4, reg. Senato, dall’altro non si può in via di principio escludere che proposte di legge d’iniziativa parlamentare vertenti sulle stesse materie vengano presentate o siano già state presentate; in tal caso dovendosi procedere, secondo il principio dell’abbinamento stabilito in via generale dai regolamenti parlamentari e contro l’applicazione del quale alla fattispecie in esame non sembrano sussistere validi argomenti, ad un esame abbinato dei disegni di legge e delle proposte di legge, con assorbimento delle se-

26 La previsione, da parte di disposizioni contenute in una fonte di grado costituzionale, della possibilità che altre disposizioni, contenute nella stessa fonte, siano modificabili con legge ordinaria viene di solito definita con il termine “decostituzionalizzazione”. 27 Non contiene, invece, una riserva espressa o implicita l’art. 104, T.U. Trentino Alto Adige, co. 1 (in riferimento alle disposizioni del titolo VI ed all’art. 13) e co. 2 (in riferimento agli artt. 30 e 49), secondo il quale tali disposizioni «possono essere modificate con legge ordinaria dello Stato su concorde richiesta del Governo e, per quanto di competenza, della Regione o delle due Province» (o della sola Provincia di Bolzano per quanto attiene alle modifiche degli artt. 30 e 49). Nella fattispecie ci si trova di fronte ad un aggravamento del procedimento ordinario di formazione della legge, costituito dalla necessità di una «concorde richiesta dello Stato e della Regione (o delle due province o della sola Provincia di Bolzano)» che si pone come condizione preliminare per l’esercizio del relativo atto d’iniziativa legislativa. È da escludere, infatti, che la norma suddetta si riferisca all’iniziativa legislativa, nel senso che essa debba essere esercitata congiuntamente dal Governo e dalla Regione o dalla Provincia, poiché le disposizioni costituzionali relative al potere d’iniziativa legislativa, attribuendo tale potere a specifici soggetti, escludono forme miste di esercizio dello stesso. Da tali considerazioni deriva che, una volta realizzatasi la condizione della “concorde richiesta” mediante deliberazioni pubbliche dei competenti organi statali, regionali o provinciali, almeno in teoria tutti i titolari del potere d’iniziativa legislativa possono presentare progetti di legge per la modifica delle suindicate disposizioni dello St. Trentino Alto Adige. In pratica, invece, è molto più probabile che le proposte di modifica dello Statuto vengano presentate da uno dei soggetti che hanno formulato la “concorde richiesta”.

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conde a seguito dell’eventuale approvazione dei primi. Pertanto, l’iniziativa dei disegni di legge «collegati» sarebbe un’iniziativa vincolata per il Governo ma non ad esso riservata. Nei soli casi di riserva espressa, la tassatività della norma che tale riserva stabilisce sembra essere tale da escludere comunque ogni altro possibile argomento tendente, in caso d’inerzia del soggetto competente ad esercitare l’iniziativa, a consentire interventi sostitutivi da parte di altri soggetti titolari del potere d’iniziativa legislativa. Ciò vale in particolare per la presentazione del disegno di legge di conversione di un decreto-legge, che l’art. 77 Cost. riserva al Governo. A fronte di tale previsione espressa, nell’ipotesi in cui il Governo non adempisse al proprio obbligo, la circostanza della conoscibilità del testo del decreto-legge derivante dalla sua pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale non è in questo caso argomento sufficiente a consentire ad altri soggetti la presentazione di un progetto di legge per la conversione del decreto. Si ha iniziativa riservata, in secondo luogo, quando la riserva sia implicitamente ricavabile dal testo di una disposizione costituzionale. In questo senso deve ritenersi riservata al Governo l’iniziativa delle leggi regolatrici dei rapporti tra lo Stato italiano e le confessioni religiose diverse dalla cattolica, dal momento che, prescrivendo l’art. 8, co. 3, Cost., come presupposto della suddetta iniziativa, l’intesa tra le rappresentanze di tali confessioni e lo Stato, soltanto il Governo è l’organo competente, in quanto rappresentante dello Stato, a negoziare e concludere l’intesa; intesa, inoltre, che resta nella esclusiva disponibilità del Governo e che diventa ufficialmente conoscibile per i terzi soltanto nel momento in cui viene allegata al disegno di legge. Infine, si ha iniziativa riservata, sia pure in senso atecnico e soltanto in via di fatto, quando, in assenza di disposizioni costituzionali disciplinanti l’eventuale riserva, la predisposizione di un progetto di legge su un determinato oggetto presuppone nel soggetto proponente la conoscenza e la disponibilità di specifici dati e documenti. Esemplificando, anche se l’art. 81 non riservasse al Governo l’iniziativa delle legge di approvazione del bilancio dello Stato, egualmente tale iniziativa dovrebbe considerarsi riservata al Governo poiché soltanto quest’ultimo dispone dei dati e degli strumenti tecnici necessari per la predisposizione del bilancio. Lo stesso vale per l’iniziativa delle leggi previste dall’art. 8, co. 3, Cost. In applicazione del criterio di cui sopra non sono, invece, classificabili come iniziative riservate quelle relative: alla legge di approvazione dell’esercizio provvisorio del bilancio, di cui all’art. 81, co. 5, Cost., poiché tale legge si limita a consentire al Governo, per un periodo non superiore a

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quattro mesi, di riscuotere e spendere somme, in ciascuno dei mesi per i quali l’esercizio provvisorio è stato concesso, per un importo pari al dodicesimo di quelle previste nel bilancio in discussione; alla legge di delegazione europea, dal momento che tutte le direttive europee, nonché le raccomandazioni, devono essere pubblicate per notizia sulla Gazzetta ufficiale e dunque sono ufficialmente conoscibili da parte di chiunque. Un discorso più ampio è necessario per l’iniziativa delle leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali di cui all’art. 80 Cost., poiché in passato vi è stata una divisione piuttosto netta in dottrina in ordine alla qualificazione o meno di tale iniziativa come riservata al solo Governo. Gli argomenti a sostegno della tesi affermativa erano due: l’uno, di carattere generale, derivante dal principio secondo cui l’autorizzazione può essere richiesta soltanto dal soggetto titolare del diritto o della potestà di compiere l’atto soggetto ad autorizzazione; l’altro, derivante dal dato di fatto secondo cui soltanto il Governo, in quanto soggetto che ha negoziato il trattato, ha la conoscenza legale del testo di quest’ultimo, da allegare al disegno di legge con il quale si chiede l’autorizzazione alla ratifica. Se contro il primo argomento valgono le osservazioni in precedenza compiute in ordine alla possibilità che, nel rapporto Governo-Parlamento, l’iniziativa in tema di autorizzazioni possa prescindere da una richiesta del primo nei confronti del secondo, contro il secondo stanno oramai una serie di dati di fatto univoci. Nel caso specifico di trattati multilaterali, il testo di un trattato può essere conosciuto da tutti i soggetti titolari del potere d’iniziativa o perché esso è stato predisposto da un’organizzazione internazionale o perché si configura come un trattato aperto, già in vigore tra altri Stati. Ancora, il testo di un trattato – non importa se bilaterale o multilaterale – è certamente noto a tutti quando esso sia stato allegato ad un disegno di legge di autorizzazione alla ratifica presentato dal Governo e decaduto per fine legislatura: in questo caso nulla impedisce che, nelle more della ripresentazione dello stesso disegno di legge da parte del Governo nella nuova legislatura, qualsiasi titolare del potere d’iniziativa legislativa anticipi l’atto governativo presentando un proprio progetto di legge d’identico contenuto 28. Infine, ai sensi dell’art. 4 della L. 11 dicembre 1984, n.

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Per un esempio del caso ipotizzato nel testo cfr. i d.d.l. nn. 666, 668 e 675, presentati al Senato dal senatore Migone il 6 giugno 1996, relativi alla ratifica ed all’esecuzione di alcuni trattati internazionali per i quali i d.d.l. in precedenza presentati dal Governo erano decaduti per la fine della legislatura; a seguito della successiva ripresentazione di tali d.d.l. ad opera del nuovo Governo, il Senato approvava gli uni e gli altri in un testo unificato nella seduta del 2 agosto 1996.

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839 29, tutti i trattati – siano o meno soggetti a legge di autorizzazione alla ratifica – ai quali la Repubblica italiana si obbliga nelle relazioni internazionali devono essere comunicati alle Presidenze delle due Camere a cura del Ministero degli affari esteri non oltre un mese dalla loro sottoscrizione 30-31: derivando da quest’ultima norma la concreta possibilità di conoscere il testo di qualsiasi trattato soggetto a legge di autorizzazione alla ratifi-

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Attualmente recepito nell’art. 13, co. 2, del T.U. approvato con D.P.R. 28 dicembre 1985, n. 1092. 30 Per un esempio cfr. l’annuncio in Assemblea, compiuto il 3 marzo 1997 da parte della Presidenza della Camera dei deputati, di un elenco di otto atti internazionali trasmesso dal Ministero degli affari esteri. In tale elenco sono compresi anche due trattati per i quali si specifica la necessità della legge di autorizzazione alla ratifica (cfr. il «Protocollo sull’interdizione o la limitazione d’impiego di mine, trappole ed altri dispositivi, come modificato il 3 maggio 1996, annesso alla Convenzione sull’interdizione o la limitazione di certe armi classiche aventi effetti eccessivamente traumatizzanti o che colpiscono senza discriminazione (Ginevra 3 maggio 1996)» ed il «trattato tra Italia e Croazia sul diritto delle minoranze (Zagabria 5 novembre 1996)»). 31 Occorre osservare che l’art. 13 del citato T.U. disciplina, al co. 1 ed al co. 2, due diverse pubblicazioni sulla Gazzetta ufficiale relative ad atti internazionali. Il co. 1 si riferisce alla pubblicazione nella prima parte della Gazzetta ufficiale e recita come segue: «Nella prima parte della Gazzetta ufficiale si pubblicano nel testo integrale gli accordi ai quali la Repubblica si obbliga nelle relazioni internazionali, quando non si debba provvedere alla loro ratifica previa autorizzazione legislativa oppure alla loro esecuzione mediante decreto del Presidente della Repubblica». Per quanto qui interessa, il co. 1 distingue, dunque, tra trattati soggetti a legge di autorizzazione alla ratifica (che non devono essere pubblicati) e trattati non soggetti a tale autorizzazione (che devono essere pubblicati). Il co. 2 si riferisce, invece, alla pubblicazione trimestrale in apposito supplemento della Gazzetta ufficiale e recita come segue: «A cura del Servizio del contenzioso diplomatico, trattati e affari legislativi del Ministero degli affari esteri sono trasmessi, per la pubblicazione trimestrale in apposito supplemento della Gazzetta ufficiale, tutti gli atti internazionali ai quali la Repubblica si obbliga nelle relazioni estere, trattati, convenzioni, scambi di note, accordi ed altri atti comunque denominati, che sono altresì comunicati alle Presidenze delle assemblee parlamentari. La trasmissione avviene non oltre un mese dalla sottoscrizione dell’atto con cui la Repubblica si obbliga». Il co. 2, diversamente dal co. 1, non distingue tra trattati soggetti e trattati non soggetti a legge di autorizzazione, né distingue tra i due adempimenti (pubblicazione trimestrale sulla Gazzetta ufficiale e trasmissione alle Presidenze delle due Camere) posti a carico del Ministero degli affari esteri. Ne dovrebbe conseguire che tutti i trattati, al fine di porre il Parlamento in grado «di esercitare pienamente la sua compartecipazione alla stipulazione dei trattati ex art. 80» devono essere pubblicati trimestralmente in apposito supplemento della Gazzetta ufficiale e trasmessi alle Presidenze delle due Camere. Inspiegabilmente, invece, il Ministero degli affari esteri, nei soli confronti dei trattati soggetti a legge di autorizzazione alla ratifica, tiene un comportamento differenziato, procedendo alla loro trasmissione alle Presidenze dei due rami del Parlamento e non procedendo, invece, alla loro pubblicazione trimestrale sull’apposito supplemento della Gazzetta ufficiale.

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ca, direttamente da parte dei singoli parlamentari ed indirettamente, per il tramite di questi ultimi, da parte degli altri soggetti titolari del potere d’iniziativa legislativa. Oltre ai casi d’iniziativa riservata, esistono altri casi nei quali l’iniziativa legislativa è qualificabile come vincolata o dovuta, nel senso che un determinato atto d’iniziativa relativo ad un determinato oggetto deve necessariamente essere presentato in Parlamento, talvolta anche entro un termine specifico 32, sulla base di quanto disposto da norme giuridiche. Esempi di tali casi sono: i disegni di legge di conversione dei decreti-legge, i disegni di legge di approvazione del bilancio preventivo e del rendiconto consuntivo dello Stato, il disegno di legge di concessione dell’esercizio provvisorio del bilancio dello Stato, il disegno di legge di delegazione europea, e, in senso lato, tutti gli atti d’iniziativa legislativa relativi a leggi che la Costituzione definisce necessarie per la propria attuazione. Controversa è la qualificazione come atto d’iniziativa vincolata del disegno di legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali di cui all’art. 80 Cost. La tesi affermativa spiega la doverosità di tale atto d’iniziativa sulla base di una norma del diritto internazionale – consuetudinaria o, in casi specifici, pattizia 33 – in base alla quale gli Stati, i cui plenipotenziari abbiano concluso un trattato, sono tenuti a manifestare la propria volontà in ordine al trattato, autorizzando o negando la ratifica; da ciò discendendo l’obbligo di diritto interno, nei confronti dell’organo competente, di attivare il procedimento attraverso cui si manifesta la volontà dello Stato: nella specie l’obbligo per il Governo di esercitare l’ini32

L’art. 1-bis, lett. b), della L. 5 agosto 1978, n. 468, stabilisce che il d.d.l. di approvazione del bilancio annuale e del bilancio pluriennale a legislazione vigente dello Stato deve essere presentato entro il 31 luglio di ogni anno. Gli artt. 17 e 21 della stessa legge stabiliscono che il d.d.l. di approvazione dell’assestamento degli stanziamenti di bilancio ed il d.d.l. di approvazione del rendiconto generale dello Stato devono essere presentati entro il mese di giugno di ogni anno. L’art. 2 della L. 9 marzo 1989, n. 86, stabilisce che il d.d.l. comunitaria deve essere presentato entro il 1° marzo di ogni anno. È comunque pacifico in dottrina e nella prassi che tali termini non hanno valore perentorio, salva restando la eventuale responsabilità politica del Governo. 33 La norma internazionale consuetudinaria, immessa automaticamente nel nostro ordinamento secondo il meccanismo previsto dall’art. 10, co. 1, Cost. è quella che stabilisce il dovere di comportarsi secondo “buona fede” per i soggetti internazionali che stiano trattando un accordo. Un esempio di norma internazionale pattizia è quella di cui all’art. 19 della costituzione dell’OIL (Organizzazione internazionale del lavoro), secondo cui i progetti di convenzioni internazionali adottati a maggioranza di 2/3 dei delegati presenti vengono comunicati a tutti i membri dell’organizzazione che, entro un anno dalla chiusura della conferenza, hanno l’obbligo di sottoporre il progetto all’organo legislativo o ad altra autorità interna competente.

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ziativa legislativa onde consentire alle Camere di pronunciarsi sulla autorizzazione alla ratifica del trattato. La tesi contraria, dopo avere ridimensionato la significatività delle eventuali norme pattizie richiamate, ritiene che l’obbligo previsto dalla norma internazionale consuetudinaria di cui sopra – la cui esistenza non viene peraltro data per pacifica – può essere comunque soddisfatto da una tempestiva comunicazione del Governo alla controparte internazionale di non voler più addivenire alla ratifica del trattato; il riconoscimento di tale facoltà del Governo, senza bisogno di attivare il procedimento legislativo di autorizzazione alla ratifica, non può, infatti, essere considerato in contrasto con l’art. 80 Cost. poiché tale norma imporrebbe l’intervento ed il consenso delle Camere solo ai fini dell’instaurazione di un vincolo pattizio per lo Stato italiano e non richiederebbe invece una decisione parlamentare anche per la rinuncia a aderire ad un accordo. Tale argomento, che rappresenta il vero presupposto della tesi che nega la doverosità dell’iniziativa legislativa per le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati di cui all’art. 80 Cost., non sembra però conciliarsi con il tipo di rapporti che, secondo la citata disposizione costituzionale, devono intercorrere in questo caso tra Governo e Parlamento. L’intervento parlamentare, infatti, non ha soltanto la funzione di controllare l’operato del Governo ma è anche volto ad evitare che dall’azione o dall’inerzia di quest’ultimo possano derivare sul piano della politica estera conseguenze definitive per lo Stato italiano nei confronti degli altri soggetti internazionali, come inevitabilmente avverrebbe se si ammettesse che il Governo, dopo avere concluso un trattato, fosse poi libero di non esercitare la relativa iniziativa legislativa. Del resto, qualora il mutato scenario internazionale consigliasse il Governo a non ratificare più un trattato già sottoscritto, lo stesso Governo, dopo avere correttamente presentato il disegno di legge di autorizzazione alla ratifica alle Camere, potrebbe illustrare di fronte a queste ultime i motivi per i quali preferirebbe non essere autorizzato alla ratifica di quel trattato. Diversamente da quanto affermato nei riguardi dell’iniziativa riservata, le norme che prevedono, espressamente o implicitamente, ipotesi d’iniziativa vincolata non devono necessariamente essere contenute in disposizioni formalmente costituzionali poiché in questi casi non si verifica la limitazione in precedenza illustrata del potere d’iniziativa legislativa di taluni dei suoi titolari; né, sotto un diverso aspetto, l’ulteriore qualificazione di tale potere come potere-dovere sembra contrastare con le disposizioni costituzionali che disciplinano l’iniziativa legislativa. Non vi è una necessaria specularità di tipo logico-giuridico tra iniziativa riservata e iniziativa vincolata. Non nel senso secondo cui ogni ipotesi

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d’iniziativa vincolata dovrebbe considerarsi anche come riservata: si veda l’iniziativa della legge di delegazione europea, l’iniziativa della legge di concessione dell’esercizio provvisorio del bilancio e l’iniziativa delle leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali come esempi d’iniziative vincolate ma non riservate. Né vi è specularità in senso inverso rispetto al precedente, poiché la coincidenza tra il carattere riservato e quello vincolato di un atto d’iniziativa legislativa sembra sussistere esclusivamente quando tale coincidenza sia positivamente stabilita da una norma: come avviene per il caso dei disegni di legge di conversione dei decretilegge in virtù dell’art. 77, co. 2, Cost. e per il caso dei disegni di legge di approvazione del bilancio preventivo e del rendiconto consuntivo in virtù dell’art. 81, co. 4, Cost.

4. Il potere di ritiro: suo fondamento; casi nei quali è inammissibile; i soggetti titolari; la forma ed il termine per il suo esercizio; la prassi della richiesta da parte del Governo di trasferire un proprio disegno di legge da una Camera all’altra. Il principio della decadenza dei progetti di legge alla fine della legislatura. Le eccezioni a tale principio: i progetti di legge d’iniziativa popolare; i progetti di legge, già approvati dalle due Camere, rinviati dal Presidente della Repubblica per una nuova deliberazione a norma dell’art. 74 Cost.; i disegni di legge di conversione di decreti-legge Per lungo tempo è stata diffusamente condivisa in dottrina l’affermazione secondo cui, anche qualora non vi sia una norma che espressamente preveda il potere di ritiro dei progetti di legge da parte dei rispettivi proponenti, il suddetto potere costituirebbe sempre e comunque il necessario corrispettivo dell’iniziativa. In realtà, la correlazione tra iniziativa e ritiro va precisata nel senso che la possibilità di esercitare quest’ultimo potere è subordinata all’esistenza nell’atto d’iniziativa di una sfera, sia pur minima, di libertà di scelta per il soggetto proponente; libertà di scelta che può suddistinguersi a seconda che si riferisca all’esercizio dello stesso potere d’iniziativa, o all’oggetto dell’iniziativa o, infine, alla regolamentazione che di tale oggetto si vuole proporre. Pertanto, mentre la mancanza di tutte e tre le suindicate libertà di scelta determina l’inammissibilità del potere di ritiro, la presenza anche solo di una di esse ne consente l’esercizio. In concreto, nell’attuale ordinamento italiano la carenza totale di libertà di scelta per i proponenti sembra sussistere nei confronti dei disegni di legge di conversione dei decreti-legge, di approvazione del rendiconto consuntivo

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dello Stato e di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali: tali disegni di legge, quindi, non possono essere ritirati. In ordine al disegno di legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, va precisato che il potere di ritiro risorge quando sia venuto meno il dovere dello Stato di pronunciarsi sulla ratifica, come avviene nel caso in cui l’altro Stato contraente si rifiuti di ratificare ovvero nel caso in cui ambedue i contraenti decidano di comune accordo di non dare più attuazione al trattato. La possibilità di esercitare il ritiro risorge, altresì, quando, qualora sia stabilito espressamente nel trattato un termine tassativo per la sua entrata in vigore, il disegno di legge di autorizzazione non sia stato approvato alla scadenza di quel termine, poiché tale ritardo equivale a mancata ratifica. Dalla premessa secondo cui il potere di ritiro trova il suo fondamento in un minimo di libertà contenuto nel potere d’iniziativa legislativa deriva che, in via di principio, titolari del primo sono gli stessi soggetti titolari del secondo. Per quanto attiene al potere di ritiro del Governo, qualche precisazione è necessaria circa la possibilità che esso venga esercitato dal Governo dimissionario e dal Governo nominato ma ancora in attesa della fiducia. Nel primo caso, l’esercizio del potere di ritiro deve essere ritenuto ammissibile poiché il Governo, ritirando i propri disegni di legge giacenti in Parlamento, non riafferma, inammissibilmente, un programma politico da presumere ormai bocciato bensì procede ad eliminare, in sede parlamentare, le tracce ed i residui di quel programma. Nel secondo caso, occorre distinguere tra il ritiro dei propri disegni di legge che il Governo in attesa della fiducia avesse presentato alle Camere onde meglio chiarire il proprio programma politico ed il ritiro di disegni di legge presentati dal precedente Governo. Nella prima ipotesi il ritiro deve ritenersi ammissibile poiché, così come i disegni di legge presentati tra la nomina e la fiducia valevano a chiarire il programma che il Governo avrebbe esposto alle Camere, allo stesso modo il loro ritiro può essere determinato dalla volontà sopravvenuta di modificare tale programma prima del dibattito sulla fiducia ovvero da possibili dubbi circa la scarsa chiarezza dei disegni di legge presentati in ordine alla individuazione ed alla specificazione del programma originario. Comunque, l’eventuale ritiro dei disegni di legge presentati dal Governo in attesa della fiducia ed i motivi che tale ritiro hanno determinato costituiscono, così come gli atti d’iniziativa esercitati, elementi di giudizio per le Camere onde meglio valutare, ai fini del conferimento o del diniego della fiducia, la portata del programma politico ad esse sottoposto e la volontà del Governo di darvi attuazione.

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Nella seconda ipotesi, invece, il potere di ritiro è probabilmente inammissibile in base al principio generale secondo il quale al Governo privo della fiducia non può ritenersi consentito di adottare atti che, allo stesso tempo, costituiscano attuazione di un programma politico e dipendano, quanto alla realizzazione dell’effetto che intendono conseguire, dalla esclusiva volontà del titolare di quel programma politico. Tale soluzione, del resto, trova conferma nella prassi poiché, in genere, il Governo, all’atto delle proprie dichiarazioni programmatiche che introducono il dibattito sulla fiducia, è solito annunciare non già quali dei disegni di legge del precedente Governo intenda ritirare bensì quali intenda «fare propri», comunicando in tal modo alle Camere di essere politicamente interessato a che soltanto alcuni dei disegni di legge giacenti in Parlamento proseguano nel loro iter legislativo. La formula di cui sopra adempie efficacemente alla duplice funzione di chiarire il programma del Governo prima della fiducia e, nell’ipotesi che quest’ultima sia stata concessa, di produrre nei confronti dei disegni di legge «non fatti propri» gli stessi effetti pratici del ritiro: l’eventuale maggioranza parlamentare favorevole al Governo, infatti, farà in modo che tali disegni di legge non vengano più esaminati nelle competenti sedi parlamentari, vengano cioè «insabbiati». Titolare del potere di ritiro di una proposta di legge d’iniziativa parlamentare è il singolo parlamentare; qualora l’iniziativa sia stata esercitata da più parlamentari, il potere di ritiro è condizionato alla volontà concorde di tutti i proponenti poiché il dissenso anche di uno solo di essi farebbe venire meno il presupposto del potere di ritiro, e cioè l’identità tra il soggetto esercitante il ritiro ed il soggetto che ha esercitato la corrispondente iniziativa legislativa. Dal principio secondo cui il ritiro non è mai automatico ma scaturisce necessariamente da un atto esplicito consegue che, in caso di decesso del parlamentare che abbia presentato una proposta di legge, tale proposta non decade né s’intende tacitamente ritirata; la stessa soluzione vale, altresì, per le proposte di legge presentate da parlamentari l’elezione dei quali non sia stata convalidata. Quest’ultima affermazione presuppone evidentemente che il potere di ritiro possa legittimamente essere esercitato da parte dei parlamentari anche antecedentemente alla convalida della loro elezione, come è confermato dal principio in base al quale i parlamentari entrano immediatamente nel pieno esercizio delle loro funzioni con la proclamazione della loro elezione, elezione il cui successivo eventuale annullamento non ha per di più effetto retroattivo. Quanto al ritiro dei progetti di legge d’iniziativa popolare, il principio della corrispondenza tra il soggetto che ha esercitato l’atto d’iniziativa legislativa ed il soggetto che esercita il ritiro di tale atto comporta che un pro-

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getto d’iniziativa popolare può essere ritirato soltanto ad opera della volontà unanime degli stessi 50.000 o più firmatari di quel progetto. La diversa tesi, secondo la quale sarebbe sufficiente il ritiro di un numero di firme tale da ridurre al di sotto di 50.000 il numero dei firmatari del progetto di legge, non sembra accettabile sia perché non tiene conto del rilievo secondo cui il ritiro non è mai automatico, sia perché determinerebbe l’inaccettabile conseguenza di consentire indirettamente il ritiro di un progetto di legge ad opera di soggetti numericamente inferiori a quelli che avevano sottoscritto quel progetto di legge. Neppure può parlarsi, invece che di ritiro, di decadenza del progetto di legge per il venire meno di una condizione essenziale per la sua validità, poiché un progetto di legge, una volta presentato da un soggetto a ciò competente, rimane validamente iscritto all’ordine del giorno dell’una o dell’altra Camera per forza propria ed indipendentemente dalle vicende che possono coinvolgere il proponente, come è in concreto dimostrato dalla circostanza che permangono iscritti all’ordine del giorno della Camera o del Senato tanto i disegni di legge di governi non più in carica, quanto – come si è visto in precedenza – le proposte di legge presentate da parlamentari deceduti o l’elezione dei quali sia stata annullata. Infine, il ritiro di atti d’iniziativa legislativa rispetto ai quali sussiste una dissociazione tra il soggetto titolare dell’atto ed il soggetto al quale spetta la materiale presentazione alle Camere di tale atto deve avvenire anch’esso secondo il medesimo schema dissociato: l’atto di ritiro può essere deciso soltanto dal primo soggetto e, senza ritardi e senza alcuna discrezionalità al riguardo, deve essere trasmesso dal secondo soggetto al Presidente del ramo del Parlamento presso cui era stato presentato il progetto di legge. La corrispondenza tra iniziativa e ritiro implica, ancora, che l’atto di ritiro debba rivestire la stessa forma dell’antecedente atto d’iniziativa, la vincolatività della forma garantisce, infatti, che il soggetto autore dell’atto di ritiro sia lo stesso soggetto che ha proposto l’atto d’iniziativa. Nei soli confronti del ritiro dei disegni di legge del Governo si è ravvisata un’eccezione al principio dell’identità di forma, sostenendosi la non necessarietà dell’autorizzazione del Presidente della Repubblica; autorizzazione che, invece, sarebbe indispensabile soltanto per il ritiro di quei disegni di legge la cui presentazione debba obbligatoriamente essere effettuata entro un certo termine, poiché in questi casi il ritiro potrebbe configurarsi come un espediente per aggirare le disposizioni che quegli obblighi stabiliscono. Tuttavia, tale eccezione non sembra condivisibile poiché, dal momento che l’intervento del Presidente della Repubblica ha una funzione di controllo quantomeno sulla regolarità del procedimento di formazione dell’atto di

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ritiro, l’autorizzazione presidenziale attesta che l’atto di ritiro è stato effettivamente deliberato dal Consiglio dei ministri. Inoltre, l’esistenza di casi nei quali non sussiste il potere di ritiro giustifica che all’intervento del Presidente della Repubblica si attribuisca una funzione di controllo anche in ordine a tale circostanza. Infine, la prassi è sempre stata nel senso della necessità del decreto di autorizzazione. La soluzione è invece diversa per quei casi, già esaminati in precedenza, nei quali il Governo non esercita il proprio potere d’iniziativa ma deve soltanto presentare all’una o all’altra Camera progetti di legge d’iniziativa di altri soggetti. Poiché in tali casi il Governo non può autonomamente procedere al ritiro del progetto di legge se non abbia prima acquisito il consenso del titolare ovvero se non sia stato da quest’ultimo sollecitato in tal senso, l’atto di ritiro, in quanto formalmente trasmesso dal Governo ma sostanzialmente deciso da un soggetto diverso, viene direttamente comunicato dal Presidente del Consiglio alla Camera o al Senato senza bisogno della deliberazione del Consiglio dei ministri e del decreto di autorizzazione del Presidente della Repubblica. Un’ulteriore questione a proposito del potere di ritiro riguarda la determinazione del momento entro il quale esso può essere esercitato. Anche se tale termine non è indicato da nessuna disposizione del nostro ordinamento, la prassi è nel senso che il ritiro di un progetto di legge è ammissibile purché avvenga prima della sua approvazione finale da parte della Camera alla quale è stato presentato l’atto d’iniziativa 34. La dottrina prevalente concorda su tale soluzione, anche se occorre ricordare due tesi diverse sia pure nei soli confronti del ritiro operato dal Governo; tesi che ritenevano ammissibile il ritiro di un disegno di legge del Governo finché non fosse intervenuta la sanzione del Capo dello Stato, oppure finché tale progetto non fosse stato approvato definitivamente da ambedue le Camere. Nessuna delle due tesi è però convincente. La prima tesi, per la verità sostenuta soltanto in relazione alla sanzione reale prevista dallo Statuto albertino e non anche nei confronti dell’odierna promulgazione della legge da parte del Presidente della Repubblica, urta comunque contro il rilievo secondo cui il potere di ritiro, per il suo collegamento con il potere d’iniziativa legislativa, può essere esercitato soltanto nei confronti delle Camere e non anche di altri organi. La seconda tesi non tiene conto del fatto che l’approvazione di un disegno di legge 34

Qualche precedente difforme esiste, invece, per il ritiro di disegni di legge del Governo, ritiro che è stato talvolta ammesso anche di fronte alla Camera che esaminava per seconda il disegno di legge.

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da parte della Camera alla quale è stato presentato l’atto d’iniziativa interrompe il collegamento tra la volontà del proponente ed il disegno di legge, rendendo quest’ultimo ormai indisponibile per esso. In altri termini, l’atto del proponente diviene, a seguito della sua approvazione, atto della Camera, come è altresì provato dal fatto che il disegno di legge approvato non è presentato dal Governo alla seconda Camera – potendosi, al limite, addurre in questo caso tale iniziativa come fondamento del successivo potere di ritiro – bensì è trasmesso direttamente dalla Camera che lo ha già approvato. Occorre ricordare, infine, una prassi 35, sorta alla fine degli anni cinquanta e tuttora seguita, relativa all’esercizio da parte del Governo di un potere che, pur presentando alcune analogie con il potere di ritiro, se ne distacca tuttavia per caratteristiche sostanziali e formali. Si allude alla richiesta da parte del Governo, nei confronti della Camera alla quale è stato presentato un disegno di legge, di trasferire quest’ultimo all’altra Camera, di solito per ragioni di connessione della materia con altri disegni di legge oppure per motivi d’urgenza in relazione alla programmazione dei lavori parlamentari predisposta da ciascuna Camera. Il disegno di legge di cui si richiede il trasferimento viene quindi restituito al Governo per essere presentato all’altro ramo del Parlamento ed è contestualmente cancellato dall’ordine del giorno della Camera che ha provveduto alla restituzione. Inizialmente la restituzione veniva deliberata dall’Assemblea; attualmente la prassi è ormai consolidata nel senso che il Presidente dell’Assemblea si limita a dare comunicazione del provvedimento di restituzione già attuato: pertanto, la richiesta del Governo produce effetti automatici e non vi è più alcuna discrezionalità da parte dell’Assemblea. Come balza agli occhi dalla prassi illustrata, vi è un’evidente discrepanza tra ciò che il Governo richiede (il trasferimento del disegno di legge presso l’altro ramo del Parlamento) e ciò che la Camera concede (la restituzione del disegno di legge). Tale discrepanza è solo in parte spiegabile sulla base del rilievo, peraltro incontestabile, secondo cui la Camera adita non potrebbe operare essa stessa il trasferimento poiché la sola possibilità di relazione tra le due Camere, nell’ambito del procedimento legislativo, è quella che si attua mediante la trasmissione dall’uno all’altro ramo del Parlamento di progetti di legge già approvati da uno dei rami suddetti. Non si vede, infatti, per quale motivo non si sia finora razionalizzata la formula 35

I primi precedenti risalgono al 21 gennaio 1959 e al 2 agosto 1960 alla Camera; al 1° dicembre 1959 al Senato. Per alcuni esempi più attuali cfr. le sedute della Camera del 9 e del 22 maggio 1996.

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usata dal Governo nel senso di richiedere direttamente «la restituzione del disegno di legge onde ripresentarlo all’altra Camera». Né tale formula potrebbe essere interpretata come equivalente ad un atto di ritiro poiché, come già accennato, esistono differenze sia sostanziali che formali tra tale atto e la richiesta di restituzione di un disegno di legge, onde presentarlo all’altro ramo del Parlamento: prima fra tutte quella secondo cui mentre il ritiro pone nel nulla il precedente atto d’iniziativa, la richiesta di trasferimento implica soltanto la revoca della presentazione di tale atto. Alla dimostrazione dell’assunto secondo cui la revoca della presentazione non implica automaticamente la revoca dell’atto d’iniziativa si può giungere in due modi. Da un punto di vista generale, accettando la tesi secondo la quale per gli atti ricettizi – e tali sono gli atti d’iniziativa legislativa – la comunicazione è soltanto elemento di efficacia dell’atto, talché la sua revoca non determina la revoca di quest’ultimo ma, più limitatamente, gli impedisce di produrre effetti. Da un punto di vista più specifico, tenendo conto del fatto che il decreto del Presidente della Repubblica non autorizza la presentazione del disegno di legge governativo ad una Camera in particolare bensì al Parlamento senza ulteriori specificazioni. Ne consegue che la scelta della specifica Camera alla quale presentare il disegno di legge resta fuori dal procedimento di formazione dell’atto d’iniziativa ed è rimesso alla discrezionalità del Governo. Quando perciò quest’ultimo s’impegna nei confronti di una Camera a presentare, subito dopo la restituzione, il disegno di legge all’altra Camera, tale impegno, costituendo esplicazione di una libertà di scelta attribuita al Governo in proprio, non implica alcun rapporto con il precedente atto d’iniziativa bensì un rapporto soltanto nei confronti della Camera che ha provveduto alla restituzione e che potrà far valere eventuali conseguenze politiche qualora il Governo non rispetti l’impegno che si è assunto. Si giustifica così la procedura finora seguita nella prassi per la richiesta di trasferimento di un disegno di legge da parte del Governo, in particolare per quanto concerne la non necessarietà della ripetizione del procedimento di formazione dell’atto d’iniziativa. Trattandosi, infatti, di rinnovo non dell’atto d’iniziativa ma soltanto della presentazione dello stesso, non è necessaria né la deliberazione del Consiglio dei ministri, né l’autorizzazione del Presidente della Repubblica, bastando la sola richiesta del Presidente del Consiglio d’intesa con il Ministro proponente. Inoltre, è possibile richiedere il trasferimento anche nelle ipotesi nelle quali non sussiste il potere di ritiro, dal momento che gli argomenti che spingevano ad escludere la possibilità di esercitare il potere di ritiro non valgono per la richiesta di trasferimento: quest’ultima, infatti, da un lato non è condizionata dalla

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mancanza o dalla presenza nell’atto d’iniziativa di una dose di libertà e dall’altro non ha come fine quello d’interrompere lo svolgersi del procedimento legislativo bensì quello, molto più limitato, di determinare una variazione in ordine alla «sede» (un ramo del Parlamento diverso rispetto a quello originariamente adito) nella quale il procedimento comincerà a svolgersi. Nella prassi non pare che richieste di trasferimento di progetti di legge siano mai state avanzate da soggetti diversi dal Governo. Qualora una tale eventualità si verificasse, la soluzione dovrebbe certamente essere negativa in caso di richieste avanzate da parlamentari dal momento che, potendo questi ultimi presentare proposte di legge soltanto alla Camera della quale fanno parte, verrebbe a mancare il presupposto per avanzare la richiesta di trasferimento, e cioè la capacità di presentare atti d’iniziativa legislativa sia all’una che all’altra Camera. Il discorso è più complesso per gli altri soggetti titolari del potere d’iniziativa legislativa poiché nei loro confronti evidentemente non vale l’argomento addotto per escludere la richiesta di trasferimento da parte di parlamentari. Qualche barlume può forse trarsi dalla considerazione secondo la quale la richiesta di trasferimento da parte del Governo è in qualche modo espressione della funzione d’indirizzo politico che compete a tale organo e non anche agli altri soggetti titolari del potere d’iniziativa legislativa. Riprova di ciò può rinvenirsi nell’evoluzione della prassi in ordine agli effetti della richiesta di trasferimento: effetti che, come si è visto in precedenza, sono ormai automatici e dunque non dipendono più da una deliberazione dell’Assemblea. Il contraltare di tale automatismo risiederebbe nella responsabilità politica del Governo in ordine al mantenimento dell’impegno (l’immediata presentazione del disegno di legge all’altro ramo del Parlamento) che costituisce la motivazione della richiesta di trasferimento, responsabilità politica che ciascuna Camera può successivamente far valere con i numerosi strumenti a propria disposizione. Dal momento che il rapporto tra le Camere e gli altri titolari del potere d’iniziativa legislativa è del tutto diverso da quello appena descritto, verrebbero a mancare i presupposti (la responsabilità politica e gli strumenti per farla valere in sede parlamentare) per avanzare richieste di trasferimento da parte di questi ultimi. Analogamente a quanto affermato in ordine al potere di ritiro di quei progetti di legge per i quali grava sul Governo un obbligo di mera presentazione, anche il potere di richiederne la restituzione per ripresentarli presso l’altro ramo del Parlamento subisce la limitazione del previo accordo tra il Governo ed il soggetto che ha predisposto quello specifico atto d’iniziativa legislativa. Tale limite è simile ma non identico al precedente poiché

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mentre allora il Governo (in quanto mero tramite passivo di decisioni altrui) era obbligato a seguire le indicazioni del proponente in ordine all’eventuale ritiro, nel caso in esame il Governo (in quanto esercitante un potere esclusivo dal quale scaturisce un impegno sanzionabile sotto il profilo della responsabilità politica) potrebbe legittimamente rifiutarsi di accedere alla richiesta del proponente di trasferire il progetto di legge presso l’altra Camera. Si può pertanto parlare di parere vincolante nel primo caso e di accordo necessario nel secondo o, con altre parole, di un contesto nel quale è prevalente la volontà del soggetto titolare dell’atto d’iniziativa rispetto a quella del soggetto che tale atto presenta e di un contesto nel quale la posizione dei due soggetti è paritaria. La sorte finale dei progetti legge può essere di vario tipo. Positiva, qualora il progetto di legge risulti approvato in un identico testo dalle due Camere al termine del procedimento: in tal caso, come si vedrà più oltre, la legge è trasmessa, per il tramite del Governo, al Presidente della Repubblica per la promulgazione e successivamente al Ministro di Grazia e Giustizia per la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale. Negativa, qualora il progetto di legge sia respinto dall’una o dall’altra Camera: in tal caso il progetto di legge viene cancellato dall’ordine del giorno della Camera che lo ha bocciato. Interlocutoria, qualora il progetto di legge non venga mai esaminato in sede parlamentare oppure venga esaminato, ed eventualmente anche approvato da una Camera, ma non si giunga all’approvazione finale da parte delle due Camere: in tal caso il progetto di legge resta iscritto all’ordine del giorno della Camera che lo sta esaminando o che dovrebbe esaminarlo. Tuttavia, tale iscrizione all’ordine del giorno non è a tempo indeterminato poiché, alla scadenza della legislatura e con l’inizio della nuova, si verifica la decadenza di tutti gli atti non definitivamente approvati (progetti di legge, interrogazioni, interpellanze, mozioni, petizioni, proposte d’inchieste parlamentari, domande di autorizzazione a procedere). Il suddetto principio, da ritenere oramai di natura consuetudinaria in quanto frutto di una prassi risalente al Parlamento albertino 36 e confermata in epoca repubblicana, non sembra riallacciarsi al principio della rappresentatività politica delle assemblee parlamentari, che ad ogni rinnovo elettorale potrebbero esprimere orientamenti politici diversi e che per tale ragione non devono essere in alcun modo vincolate da atti precedentemente compiuti dalle vecchie Camere. Infatti, se nelle Camere neoelette la 36

Per l’esattezza, poiché i lavori del Parlamento albertino erano organizzati in sessioni, quel principio operava al termine di ciascuna sessione. Nel Parlamento repubblicano, non esistendo le sessioni, il principio è stato applicato alle legislature.

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maggioranza, sotto il profilo politico, risultasse essere la stessa di quella formatasi nelle vecchie Camere, non vi sarebbe alcun problema per tale maggioranza nel continuare l’esame, iniziato nella precedente legislatura, di determinati progetti di legge. Nell’ipotesi opposta, non vi sarebbe ugualmente alcun problema per la nuova maggioranza nel non riprendere l’esame di quei progetti di legge che erano sostenuti dalla precedente maggioranza. Quel principio, pertanto, sopperisce piuttosto all’esigenza, essenzialmente di ordine pratico, di evitare ingolfamenti dell’attività parlamentare a seguito della sopravvivenza delle già tanto numerose iniziative legislative. In parole povere: «si svuota il magazzino» per consentire di accogliervi senza confusione il nuovo materiale. Il principio della decadenza di tutti gli atti non definitivamente approvati dalle Camere è stato oggetto di un vivace dibattito politico-dottrinale alla fine degli anni sessanta, tendente a contestarne non tanto la legittimità, dal momento che esso non contrasta con alcuna norma scritta, quanto la sopravvivenza nell’attuale ordinamento giuridico. In realtà, poiché tale dibattito tendeva soprattutto a salvare o a recuperare, nel passaggio dalla vecchia alla nuova legislatura, determinati atti che, ancorché non definitivamente approvati, lo fossero stati almeno da una Camera 37, gli argomenti addotti per raggiungere quella finalità erano essenzialmente due: la dimostrazione che il principio della decadenza degli atti non definitivamente approvati dalle due Camere non ha rango costituzionale e che, conseguentemente, la disciplina degli effetti della fine della legislatura è rimessa a fonti di grado inferiore, nella specie ai regolamenti parlamentari in via esclusiva sulla base della riserva di competenza stabilita dagli artt. 64 e 72 Cost. I due argomenti sono condivisibili, oggi come allora, ma con una precisazione: se è esatto che nessuna disposizione o principio costituzionale disciplina gli effetti della fine della legislatura rispetto agli atti non definitivamente approvati dalle due Camere e che tali effetti possono liberamente essere disciplinati dai regolamenti parlamentari, non è esatto che la 37

Si veda, infatti, la proposta di modifica del regolamento della Camera dei deputati presentata dai deputati La Malfa, Montanti e Melis il 15 febbraio 1968 (cfr. Atti parlamentari Camera, V legislatura, doc. X, n. 14) tendente ad inserire i due seguenti articoli. Art. 65-bis: «La Camera, udito il Governo e dichiaratane l’urgenza, può deliberare, sentito un oratore per gruppo, di trasmettere al Senato, entro un anno dalla prima riunione della Camera, i progetti di legge già approvati dall’Assemblea o da una Commissione in sede legislativa nel corso della precedente legislatura». Art. 30-ter: «Ciascuna Commissione, udito il Governo, può deliberare, entro 180 giorni dalla prima riunione della Camera, di riferire all’Assemblea senza nuovo esame sui progetti di legge già approvati dalla Commissione stessa in sede referente nel corso della precedente legislatura».

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riserva in favore di quest’ultima fonte stabilita dalla Costituzione escluda comunque il formarsi di norme consuetudinarie derivanti da comportamenti uniformi e costanti nel tempo tenuti dalle stesse Camere. È vero, invece, che l’esclusione riguarda le consuetudini contrarie a norme regolamentari ma non quelle esecutive di tali norme o quelle sorte in mancanza di queste ultime. È perciò da ritenere che il principio del quale si sta discutendo abbia natura consuetudinaria e sia tuttora vigente, come dimostrato dai fatti; peraltro, nulla impedisce che i regolamenti parlamentari stabiliscano un principio diverso sia in generale, sia, come in effetti è avvenuto, nei confronti di fattispecie specifiche. Attualmente, infatti, il principio della decadenza per fine legislatura dei progetti di legge non definitivamente approvati dalle due Camere non vale in tre casi. Il primo è quello relativo ai progetti di legge d’iniziativa popolare presentati nella precedente legislatura per i quali, ai sensi degli artt. 107, co. 4, reg. Camera e 74, co. 2, reg. Senato, non è necessaria la ripresentazione all’inizio della nuova legislatura 38. Il secondo è quello relativo ai progetti di legge approvati dalle due Camere ma ad esse rinviati da parte del Presidente della Repubblica per una nuova deliberazione a norma dell’art. 74 Cost. Questo secondo caso non è previsto da una specifica norma dei regolamenti parlamentari ma è fondato sul seguente parere, concordato tra le Giunte per il regolamento della Camera e del Senato e da queste separatamente espresso l’11 marzo 1992 39: «Al fine di consentire la conservazione nella prossima legislatura dei provvedimenti legislativi “rinviati” dal Capo dello Stato alle Camere a norma dell’art. 74 Cost., e considerato che si tratta di provvedimenti già approvati da entrambi i rami del Parlamento, la Giunta esprime il parere che ai provvedimenti stessi – per i quali le Camere sciolte, che pur ne hanno la facoltà e l’hanno esercitata, non abbiano proceduto ad una “nuova deliberazione” – sia applicabile il combinato disposto degli articoli 74, comma 2, e 81, comma 3, del regolamento del Senato» 40. Ciò comporta che il provvedimento legislativo rinviato dal Capo dello Stato, qualora nella precedente legislatura abbia iniziato il proprio iter in Senato, non dovrà essere ripresentato bensì soltanto nuovamente assegnato alle Commissioni com38 Cfr., per esempio, la seduta della Camera del 9 maggio 1996 per l’annuncio da parte del Presidente del mantenimento all’ordine del giorno di proposte di legge d’iniziativa popolare presentate nella XII legislatura. 39 Per brevità si riporta soltanto il parere della Giunta del Senato, limitatamente alle parti che interessano in questa sede. 40 Sostanzialmente corrispondenti all’art. 107 reg. Camera.

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petenti per materia, ferma restando la procedura di cui all’art. 136, comma 2, del regolamento del Senato 41. Il terzo caso è quello relativo ai disegni di legge di conversione dei decreti-legge, anche in questo caso come nel precedente, non in applicazione di una specifica norma regolamentare bensì sulla base di una prassi risalente all’epoca statutaria; già allora si riteneva, infatti, che non si dovesse applicare ai disegni di legge di conversione dei decreti-legge il principio della generale decadenza dei progetti di legge pendenti e non ancora approvati. Il punto era affrontato e risolto dalla stessa L. 31 gennaio 1926, n. 100 – prima fonte di disciplina positiva dell’istituto del decreto-legge nel nostro ordinamento – che all’art. 3 disponeva espressamente: «In caso di chiusura della sessione, all’apertura della nuova sessione, il disegno di legge per la conversione si ritiene ripresentato dinanzi alla Camera, presso cui era pendente per l’esame». Attualmente, l’annuncio del mantenimento all’ordine del giorno dei suddetti disegni di legge nella nuova legislatura viene fatto dal Presidente della Camera (o del Senato) con una formula certamente più lineare della precedente («mantenimento all’ordine del giorno» invece di «ripresentazione automatica») ma che presenta un aspetto poco chiaro: «A norma dell’art. 77, secondo comma, della Costituzione, sono mantenuti all’ordine del giorno i seguenti disegni di legge di conversione di decretilegge presentati o trasmessi alla Camera (o al Senato) nella precedente legislatura, relativamente ai quali i termini di conversione non sono ancora scaduti» 42. Francamente, non si riesce a capire da quale norma contenuta nel richiamato art. 77 Cost. si possa ricavare il principio della permanenza nella nuova legislatura dei disegni di legge in questione. Tuttavia, prima di cercare d’individuare i motivi che stanno alla base di quest’ultimo caso e degli altri due precedentemente illustrati, occorre precisare che comunque non sembrano sussistere dubbi in ordine alla loro legittimità. Non sul piano dei rapporti tra fonti data la già ricordata capacità dei regolamenti parlamentari di abrogare le norme consuetudinarie sorte sulla base del comportamento dell’una o dell’altra Camera, oppure di derogare ad esse per fattispecie specifiche; talché, sotto questo profilo, l’individuazione dei motivi che stanno alla base dei tre casi illustrati soddisfa una curiosità di tipo razionale ma è del tutto ininfluente, dal punto di vista strettamente giuridico, per quanto riguarda l’eventuale questione della loro legittimità. Non per quanto attiene ad una possibile violazione del principio della pari efficacia formale della presentazione dei progetti di legge da 41 42

Corrispondente all’art. 71 reg. Camera. Cfr. la seduta della Camera del 9 maggio 1996.

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parte dei diversi titolari dell’iniziativa, poiché gli effetti procedimentali – sia che si segua il procedimento normale, sia che si segua, a richiesta, il procedimento abbreviato previsto in questi casi dalle ricordate norme dei regolamenti parlamentari – non variano a seconda del soggetto che ha in concreto esercitato l’iniziativa legislativa. Il mantenimento all’ordine del giorno dei disegni di legge di conversione dei decreti-legge può solo in parte dipendere dall’esigenza di non dover rinnovare tutto il lavoro parlamentare al riguardo eventualmente compiuto dalle vecchie Camere, sottraendo così tempo prezioso alle nuove Camere ai fini della conversione. Infatti, il giorno stesso della convocazione delle Camere neo-elette, il Governo potrebbe ripresentare il disegno di legge e contestualmente richiedere l’applicazione del procedimento abbreviato previsto dagli artt. 107 reg. Camera e 81 reg. Senato, qualora ricorrano i presupposti fissati da tali disposizioni, e cioè che il disegno di legge sia già stato approvato dalla Camera oppure che l’esame in sede referente da parte della commissione si sia anch’esso già concluso con l’approvazione della relazione. È tuttavia probabile che all’origine il motivo sia stato proprio quello illustrato – non esistendo ancora disposizioni regolamentari analoghe a quelle appena citate – e che la prassi così formatasi sia stata in seguito mantenuta anche dopo l’approvazione degli artt. 107 e 81. Piuttosto, occorre osservare che tale prassi rappresenta un freno obiettivo ad eventuali tentativi del Governo di aggirare il principio della inammissibilità del ritiro del disegno di legge di conversione. Qualora si ritenesse, infatti, diversamente dalla prassi seguita, che tale disegno di legge decada con lo scadere della legislatura e che dunque la sua ripresentazione nella nuova legislatura dipenda dal Governo, quest’ultimo, se non avesse più interesse alla conversione del decreto, potrebbe eludere il tacito divieto di ritirare il disegno di legge di conversione semplicemente non ripresentandolo più. Il motivo del mantenimento all’ordine del giorno dei progetti di legge d’iniziativa popolare è, come risulta dai lavori preparatori delle citate disposizioni regolamentari, semplicemente quello della difficoltà di raccogliere nuovamente le cinquantamila firme richieste dalla Costituzione. Si può aggiungere che il limitato numero di progetti di legge d’iniziativa popolare fin qui presentati nelle diverse legislature rappresenta un ulteriore motivo di quella scelta, dal momento che non sussistono rischi d’ingolfamento dei lavori parlamentari. I motivi che stanno alla base del mantenimento all’ordine del giorno delle leggi rinviate dal Capo dello Stato alle Camere per una nuova deliberazione sono più consistenti dei precedenti. Innanzitutto, in questo caso non si tratta di progetti di legge ancora all’esame delle Camere ma di una

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legge vera e propria, in quanto risultante dall’approvazione di un identico testo da parte della Camera e del Senato, anche se ancora inefficace per la mancanza della promulgazione e della pubblicazione. In secondo luogo, la possibilità di consentire che la nuova deliberazione sulla legge rinviata sia compiuta dalle nuove Camere si riflette per certi aspetti sull’ammissibilità del potere di rinvio da parte del Presidente della Repubblica. Poiché il rinvio presidenziale, sulla base dell’art. 74 Cost., non può trasformarsi da impedimento temporaneo in veto assoluto, il suo esercizio deve ritenersi inammissibile tutte le volte che esso, non consentendo una nuova deliberazione delle Camere, comporta la caducazione della legge: perciò, è inammissibile l’eventuale rinvio della legge alle Camere prorogate compiuto il giorno antecedente alla prima riunione delle Camere neo-elette, o comunque in un momento tale da non lasciare ragionevolmente alle Camere prorogate la possibilità materiale di riapprovare la legge. Il mantenimento all’ordine del giorno delle nuove Camere della legge rinviata dal Capo dello Stato rende, invece, ammissibile l’esercizio del potere di rinvio anche nei tempi suindicati poiché l’impossibilità materiale di rideliberare sulla legge da parte delle Camere prorogate è del tutto controbilanciata dal fatto che tale possibilità hanno invece le Camere neo-elette. La soluzione prescelta dalle Giunte per il regolamento di Camera e Senato è perciò da condividere poiché essa salvaguarda le Camere nei confronti di possibili atti illegittimi del Presidente della Repubblica, consentendo allo stesso tempo a quest’ultimo di esercitare in modo pieno il proprio potere di rinvio della legge.

5. Gli effetti della presentazione dell’atto d’iniziativa: l’attivazione del procedimento; la predeterminazione della qualificazione giuridica dell’eventuale legge approvata; il limite stabilito dall’art. 79, co. 3, Cost. Il sindacato sull’atto d’iniziativa da parte del Presidente della Camera o del Senato: il sindacato per l’uso di espressioni sconvenienti; il sindacato nei casi di inesistenza e di illegittimità formale dell’atto; l’insussistenza del sindacato per vizi sostanziali; casi d’improcedibilità previsti dai regolamenti parlamentari e relative eccezioni La presentazione di un atto d’iniziativa legislativa ad una delle due Camere produce una serie di effetti, tra i quali innanzitutto quello di determinare l’attivazione del procedimento legislativo: la presentazione di un progetto di legge, come si vedrà meglio tra breve, comporta il suo annun-

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cio in Assemblea da parte del Presidente della stessa, la sua stampa e distribuzione, la sua assegnazione alla commissione competente per materia. La diversa tesi, secondo la quale la presentazione determinerebbe l’obbligo a carico della Camera adita di giungere comunque ad una deliberazione definitiva, non importa se favorevole o contraria, sul progetto di legge, non sembra accettabile per diversi motivi: essa non trova riscontro nel concreto andamento dei lavori parlamentari, secondo cui la maggior parte dei progetti di legge, soprattutto quelli d’iniziativa parlamentare, non solo non vengono deliberati dall’Assemblea ma restano addirittura iscritti all’ordine del giorno della commissione competente, senza essere da questa esaminati, fino al termine della legislatura (fenomeno del cosiddetto “insabbiamento”); non tiene conto del fatto che le Camere sono organi collegiali squisitamente politici ed in quanto tali libere di scegliere i testi da approvare e quelli da mettere da parte dopo un primo esame, soprattutto alla luce del sistema pluralistico e paritario dell’iniziativa legislativa accolto dalla Costituzione; contrasta con le disposizioni dei regolamenti parlamentari che, prevedendo meccanismi di programmazione dei lavori 43, per ciò solo presuppongono la possibilità di scegliere, tra i molti progetti di legge, quali discutere prima, quali dopo e quali – anche se soltanto residualmente – mai; non giocano a suo favore le disposizioni dei regolamenti parlamentari che fissano termini all’attività referente delle commissioni, dal momento che il non rispetto dei suddetti termini al Senato determina soltanto la presa in considerazione del progetto di legge in sede di programmazione dei lavori ed alla Camera comporta l’iscrizione all’ordine del giorno generale dell’Assemblea del progetto di legge, iscrizione che non comporta affatto, in concreto, l’obbligo dell’Assemblea di deliberare al riguardo 44. Un altro effetto prodotto dalla presentazione di un atto d’iniziativa legislativa è quello di predeterminare la qualificazione giuridica (legge ordinaria o legge costituzionale) dell’eventuale legge approvata al termine del procedimento. Il mettere in luce tale effetto potrebbe sembrare una banalità, tanto sembra ovvio che da un progetto di legge ordinaria non possa nascere che una legge ordinaria, così come da un progetto di legge costituzionale una legge costituzionale. Così non è perché nella prassi il principio in questione ha subito deroghe in una duplice direzione: nel corso del procedimento, progetti di legge ordinaria si sono trasformati in progetti di legge costituzionale e, all’inverso, progetti di legge costituzionale sono stati “declassati” a progetti di legge ordinaria. In un caso si è addirittura tentato 43 44

Cfr. artt. 23-26 reg. Camera e 53-56 reg. Senato. Cfr. artt. 44, co. 4, reg. Senato e 81, co. 4, reg. Camera.

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– fortunatamente senza esito – di declassare un progetto di legge costituzionale durante la seconda delle due deliberazioni previste dall’art. 138 Cost.; tentativo palesemente illegittimo sia perché la nuova qualificazione del progetto sarebbe dovuta avvenire dopo una deliberazione conforme delle due Camere, sia perché la seconda deliberazione si era resa necessaria proprio in dipendenza del fatto che si trattava di un progetto di legge costituzionale 45. In altri casi il mutamento della qualificazione giuridica del progetto di legge è avvenuto talvolta in seno alla commissione in sede referente; talvolta in un momento successivo, quando il progetto era in discussione in Assemblea, e senza rinvio dello stesso in commissione per un nuovo esame, sul presupposto che il mutamento della qualificazione giuridica del progetto non inficiasse la validità della discussione in precedenza svoltasi in commissione. Non sembra che in tali casi si possa parlare, come invece nel caso precedente, di procedure illegittime. La circostanza secondo cui il successivo mutamento della qualificazione del progetto porrebbe nel nulla una scelta riservata al soggetto titolare dell’atto d’iniziativa legislativa non sembra essere un argomento condivisibile poiché non tutte le scelte implicate dall’atto d’iniziativa hanno lo stesso valore vincolante. Infatti, mentre la scelta della materia rappresenta un limite obiettivo per la successiva attività delle Camere – in particolar modo per l’esercizio del potere di emendamento – la scelta della forma dell’atto d’iniziativa si pone come un limite soggettivo dipendente dalla volontà del soggetto proponente il quale, se non consente al successivo mutamento di forma, ha a propria disposizione un mezzo efficace e di effetto immediato quale il potere di ritiro del progetto di legge; il mancato ritiro, perciò, costituisce la prova della volontà implicita del proponente di acconsentire al mutamento della qualificazione giuridica in itinere del progetto di legge. Né maggiormente convincente sembra essere la più specifica obiezione, in quanto riferita esclusivamente ai disegni di legge del Governo, secondo cui il mutamento in itinere della loro qualificazione impedirebbe al Presidente della Repubblica d’intervenire in sede di autorizzazione alla presentazione, come invece sarebbe avvenuto se il Governo, per realizzare quel 45

Tale declassamento fu invano tentato al Senato nella seduta dell’11 novembre 1958 nei confronti del disegno di legge costituzionale recante norme transitorie per l’elezione del Senato nei Comuni di Trieste … e nel Molise, disegno di legge che per di più era già stato trasformato da ordinario in costituzionale in prima deliberazione nella seduta del Senato dell’11 dicembre 1957.

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mutamento, avesse dovuto procedere alla presentazione di un nuovo disegno di legge. Il problema non si pone nel caso di trasformazione del disegno di legge da ordinario in costituzionale poiché i poteri del Presidente della Repubblica, già esercitati al momento dell’autorizzazione alla presentazione del disegno di legge ordinario, sono in questo caso più ampi rispetto a quelli ad esso spettanti nei confronti dell’autorizzazione alla presentazione dei disegni di legge costituzionale: vale, pertanto, il principio secondo cui il meno è necessariamente ricompreso nel più. Nell’ipotesi inversa di trasformazione di un disegno di legge da costituzionale in ordinario, l’impossibilità di esercitare i più ampi poteri che in questo caso sarebbero spettati al Presidente della Repubblica in sede di autorizzazione alla presentazione è sufficientemente controbilanciata dalla successiva possibilità per il Presidente della Repubblica di esercitare, in sede di promulgazione della legge, il potere di chiedere alle Camere una nuova deliberazione sulla legge ai sensi dell’art. 74 Cost., potere che invece non gli spetterebbe se si trattasse della promulgazione di una legge costituzionale. Un ulteriore effetto derivante dalla presentazione di un atto d’iniziativa – questa volta non di tipo procedimentale come quelli appena illustrati bensì di tipo sostanziale – è quello stabilito dall’art. 79, co. 3, Cost. secondo cui «In ogni caso l’amnistia e l’indulto non possono applicarsi ai reati commessi successivamente alla presentazione del disegno di legge». Prima dell’annuncio in Assemblea dell’avvenuta presentazione di un progetto di legge e, conseguentemente, della sua stampa, distribuzione ed assegnazione alla commissione competente, il Presidente dell’Assemblea deve preliminarmente compiere alcuni controlli sull’atto d’iniziativa, l’esito positivo dei quali rappresenta la condizione indispensabile per poter procedere alla serie di operazioni di cui sopra. L’art. 8 reg. Senato attribuisce espressamente al Presidente il potere di «giudicare della ricevibilità dei testi»; nel regolamento della Camera manca una disposizione equivalente ma non vi è alcun dubbio sulla spettanza al Presidente della Camera del suddetto potere, sia sulla base di una prassi univoca in tal senso, sia sulla base di un’interpretazione analogica dell’art. 89 reg. Camera 46, secondo il quale «Il Presidente ha facoltà di negare l’accettazione e lo svolgimento di ordini del giorno, emendamenti o articoli aggiuntivi che siano formulati con frasi sconvenienti …». L’esito del controllo presidenziale sull’eventuale carattere sconveniente dei testi nei quali si concretizza l’atto d’iniziativa legislativa in senso stretto (l’articolato) ed in senso lato (l’articolato e la relazione illustrativa dello 46

Al quale corrisponde, nella sostanza, l’art. 97, co. 1, reg. Senato.

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stesso) incide certamente sulla ricevibilità dell’atto: ciò significa che il Presidente, a suo insindacabile giudizio, non deve accettare ma restituire ai proponenti progetti di legge che, tanto nel testo dell’articolato quanto in quello della relazione 47, presentino i caratteri negativi di cui sopra. Molto più complicato e d’incerti risultati appare, invece, l’eventuale tentativo di qualificare, come condizione di ricevibilità o come condizione di improcedibilità, i requisiti di legittimità formale dell’atto d’iniziativa poiché in questo caso la situazione tende a diventare confusa sia nei suoi presupposti che nelle sue conseguenze. Da un lato, infatti, è estremamente problematica la distinzione tra illegittimità formale ed inesistenza dell’atto, distinzione dalla quale potrebbe forse farsi discendere nel primo caso l’improcedibilità dell’atto d’iniziativa e nel secondo la sua irricevibilità; dall’altro, è incerto lo stesso concetto d’improcedibilità dal momento che esso in concreto può ricostruirsi tanto, in modo più rigido, come divieto per il Presidente di assegnare il progetto di legge alla competente commissione, quanto, in modo più elastico, come divieto per la commissione alla quale il progetto è stato assegnato di concludere l’esame, in caso di assegnazione in sede referente, o di approvare lo stesso, in caso di assegnazione in sede legislativa, fin tanto che la situazione d’improcedibilità non si sia risolta positivamente 48. Si aggiunga che, all’esterno del procedimento legislativo, la 47

In questo caso l’espressione “relazione” deve intendersi comprensiva sia della normale relazione illustrativa del progetto di legge, che della cosiddetta relazione tecnica, dal momento che il controllo sull’eventuale carattere sconveniente delle espressioni usate riguarda qualsiasi testo presentato alla presidenza della Camera o del Senato. 48 Questo concetto più elastico d’improcedibilità è stato applicato soprattutto quando la condizione di procedibilità da soddisfare era costituita dall’acquisizione in sede parlamentare di pareri, richieste o proposte di soggetti estranei al procedimento legislativo, come nei casi previsti dagli artt. 132 e 133 Cost., oppure in quei casi nei quali alcuni Statuti delle Regioni ad autonomia speciale consentivano la modifica di alcune loro parti non mediante leggi costituzionali bensì mediante leggi ordinarie “sentita la Regione”. Cfr. al riguardo la lettera del Presidente della Camera del 30 settembre 1993 al Presidente della I commissione Affari costituzionali con la quale, in riferimento all’assegnazione alla suddetta commissione della p.p.l. n. 3116 dei deputati Asquini ed altri («Modifica all’art. 49 della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 – Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia»), si comunicava di avere dato notizia dell’avvenuta presentazione della proposta di legge al Presidente della Regione interessata al fine dell’eventuale emissione del parere previsto dall’art. 63 della predetta legge costituzionale; la lettera così concludeva: «Non appena pervenuto alla Presidenza, il testo del parere regionale sarà immediatamente trasmesso alla commissione da Lei presieduta per consentire l’ulteriore corso del provvedimento». Negli stessi termini è la lettera del Presidente del Senato del 16 settembre 1993 al Presidente della I commissione in riferimento all’assegnazione alla suddetta commissione del d.d.l. n. 1514 del senatore Rinaldo Bosco.

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distinzione tra irricevibilità ed improcedibilità ha scarso rilievo pratico dal momento che, di regola, non esistono termini di decadenza o di prescrizione per l’esercizio dell’iniziativa legislativa, diversamente da quanto avviene in campo processualistico, e che, laddove tali termini siano previsti, il loro valore è soltanto dispositivo. Infine, ad ulteriore complicazione, la prassi parlamentare talvolta disattende perfino le poche norme dei regolamenti che prevedono fattispecie inequivocabili. Valga per tutti l’esempio dell’art. 76-bis reg. Senato che, vietando l’assegnazione alle competenti commissioni dei disegni di legge del Governo, delle Regioni e del CNEL privi della relazione tecnica, prevede senza ombra di dubbio un caso d’improcedibilità, definendo altresì con precisione in che cosa consiste tale improcedibilità: ebbene, come già visto in precedenza, al Senato si sono verificati casi di assegnazione alle commissioni di disegni di legge privi della necessaria relazione tecnica. All’opposto, per quanto attiene alla presentazione di progetti di legge privi della normale relazione illustrativa – che dovrebbero essere ritenuti improcedibili e non irricevibili poiché la mancanza della relazione costituisce sì un vizio formale dell’atto d’iniziativa ma non tale da rendere quest’ultimo irriconoscibile e quindi inesistente – la prassi è nel senso della loro irricevibilità. La mancanza di norme regolamentari certe nella maggior parte delle fattispecie, il conseguente rilevante ruolo delle prassi parlamentari, la loro variabilità nel tempo, la loro possibile diversità a seconda che si formino nell’uno o nell’altro ramo del Parlamento, la difficoltà di ricostruire e distinguere i concetti d’inesistenza e d’invalidità formale dell’atto, sono tutti elementi che consigliano di procedere con prudenza, rinunciando a classificazioni rigide ed operando invece empiricamente caso per caso. Allo stato e sulla base della prassi vigente, sono ritenuti irricevibili per mancanza di requisiti formali oggettivi i progetti di legge orali, quelli scritti ma il cui testo non sia redatto in articoli e quelli privi della relazione illustrativa. Lo stesso dovrebbe dirsi, per mancanza di requisiti formali soggettivi, per i progetti di legge presentati da: un soggetto non ricompreso tra quelli previsti dalla Costituzione; un soggetto titolare che non sia però competente a proporre quel particolare atto d’iniziativa in quanto riservato ad un altro soggetto specifico (iniziativa riservata); un parlamentare la cui identità personale non sia verificabile con sicurezza; un numero di cittadini inferiore a 50.000 49. Infine, irricevibili sarebbero anche i progetti di legge 49

L’art. 48 della L. 25 maggio 1970, n. 352, e l’art. 74, co. 1, reg. Senato attribuiscono alle Presidenze delle Camere il compito di provvedere alla verifica ed al computo delle firme dei richiedenti al fine di accertare la regolarità della richiesta. Nel regolamento della

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delle Regioni che non risultino approvati dai rispettivi Consigli regionali ed i disegni di legge del Governo non approvati dal Consiglio dei ministri o privi del decreto del Presidente della Repubblica di autorizzazione alla presentazione. In quest’ultimo caso, tuttavia, soltanto la mancanza del decreto di autorizzazione rende irricevibile il disegno di legge poiché, laddove tale decreto vi sia, esso attesta la regolarità del procedimento di formazione del disegno di legge e rende pertanto inammissibili ulteriori accertamenti da parte delle Presidenze delle due Camere in ordine alla sussistenza o alla regolarità della deliberazione del Consiglio dei ministri. È invece dubbio se debbano considerarsi come casi di irricevibilità oppure di improcedibilità tutte quelle fattispecie nelle quali un progetto di legge deve essere accompagnato da pareri, richieste o proposte di soggetti diversi dal proponente: la prassi attuale, diversamente da quella anteriore, sembra orientata verso l’improcedibilità. Dubbi analoghi sussistono anche per i casi nei quali un progetto di legge deve contenere in allegato un testo al quale fa riferimento l’articolato del progetto stesso: il testo del decretolegge allegato al disegno di legge di conversione, il testo del trattato internazionale allegato al disegno di legge di autorizzazione alla ratifica, il testo degli accordi di cui all’art. 7 Cost. ed il testo delle intese di cui all’art. 8 Cost. In favore della tesi della improcedibilità sta il fatto che tutti i disegni di legge citati, quand’anche e del tutto improbabilmente venissero presentati senza i testi allegati ai quali si riferiscono, sarebbero certamente atti inutili a causa della loro incompletezza – salvo il caso del disegno di legge di conversione poiché il testo del decreto-legge è già pubblicato in Gazzetta ufficiale – ma non giuridicamente inesistenti, trattandosi di atti concretamente riconoscibili sulla sola base del loro articolato. Del resto, ammettere la loro accettazione da parte del Presidente dell’Assemblea non produce effetti sconvolgenti o pericolosi poiché il Presidente si limita a “tenerli nel cassetto” senza assegnarli alle competenti commissioni (improcedibilità rigida), ovvero procede all’assegnazione invitando la commissione a non dare corso all’esame (improcedibilità elastica). Così come effetti sconvolgenti non deriverebbero, all’inverso, nemmeno da un’eventuale dichiarazione di irricevibilità da parte del Presidente, poiché i proponenti dovrebbero semplicemente ripresentare il progetto, allegandovi i testi ai quali esso fa riferimento. Come si vede e come si è già avuto modo di affermare in precedenza, il problema di distinguere i casi di irricevibilità dai casi di improcedibilità ha Camera manca una norma come quella contenuta nel regolamento del Senato ma la prassi è nello stesso senso.

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scarsa rilevanza pratica rispetto agli atti d’iniziativa legislativa. Il discorso al riguardo può perciò tranquillamente chiudersi qui, fatta salva un’unica avvertenza. Il Presidente dell’Assemblea deve esercitare i propri poteri di controllo fin qui illustrati con la massima prudenza ed imparzialità, sottoponendo senza esitazioni al voto dell’Assemblea tutti i casi per i quali egli nutra dubbi sulla soluzione da adottare. È da escludere, invece, qualsiasi tipo di sindacato da parte del Presidente dell’Assemblea sulla legittimità sostanziale delle disposizioni contenute negli atti d’iniziativa legislativa. In primo luogo, perché esistono organi interni delle due Camere specificamente competenti a valutare la legittimità dei progetti di legge: le commissioni Affari costituzionali per quanto attiene in generale agli aspetti di legittimità costituzionale e le commissioni Bilancio per quanto attiene in particolare al rispetto dell’obbligo della copertura finanziaria previsto dall’art. 81, co. 3, Cost. per i progetti di legge che comportino nuove o maggiori spese. In secondo luogo, perché ciascun parlamentare può proporre nei confronti di un progetto di legge la questione pregiudiziale di costituzionalità che, qualora venga approvata dall’Assemblea, fa sì che il progetto di legge non venga più discusso 50. In terzo luogo, perché le Camere sono assemblee di natura squisitamente politica le cui decisioni sul merito di un progetto di legge devono poter essere assunte dalle stesse in piena autonomia, senza che tale capacità decisionale possa essere esclusa o anche soltanto limitata da precedenti decisioni di propri organi, soprattutto di organi monocratici quali sono i loro Presidenti 51. Oltre alla già ricordata ipotesi d’improcedibilità di cui all’art. 76-bis reg. Senato – norma, peraltro, finora disapplicata nella prassi 52 – un secondo caso d’improcedibilità è stabilito dagli artt. 72, co. 2, reg. Camera e 76 reg. Senato, secondo i quali non possono essere assegnati alle commissioni pro-

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La questione pregiudiziale, quella cioè che un dato argomento non debba discutersi, e la questione sospensiva, quella cioè che la discussione debba rinviarsi al verificarsi di scadenze determinate, sono previste dagli artt. 40 reg. Camera e 93 reg. Senato. Esse possono proporsi per i motivi più vari; quando la motivazione attiene alla legittimità costituzionale del progetto di legge, si parla comunemente di pregiudiziale di costituzionalità. Mentre l’art. 40, co. 4, reg. Camera contiene un espresso riferimento alla possibilità che la questione pregiudiziale sia sollevata per motivi di costituzionalità, tale riferimento manca nell’art. 93 reg. Senato; tuttavia anche al Senato la prassi è univoca nel senso indicato. 51 Come si vedrà più avanti, anche gli interventi delle commissioni Affari costituzionali e Bilancio, rispettivamente per gli aspetti della legittimità costituzionale e del rispetto dell’obbligo di copertura finanziaria, pur estrinsecantisi in pareri vincolanti nei confronti delle altre commissioni, possono essere sempre superati dalle deliberazioni dell’Assemblea. 52 Cfr. supra in questo stesso paragrafo.

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getti di legge che riproducano sostanzialmente il contenuto di progetti precedentemente respinti, se non siano trascorsi sei mesi dalla data della reiezione 53. La ragione di tale norma risiede nell’opportunità di evitare che le Camere ridiscutano continuamente un argomento già deciso in senso negativo – vieppiù ingolfando i propri lavori già di per sé abbastanza ingolfati – se non dopo un lasso di tempo tale da far presumere almeno la possibilità teorica di un mutamento della volontà politica delle Camere al riguardo. La suddetta causa d’improcedibilità non opera, tuttavia, nei confronti di tutti i progetti di legge: ai sensi dell’art. 106, co. 3, reg. Camera 54 sono esclusi i disegni di legge di approvazione degli Statuti (e delle relative modifiche) delle Regioni ad autonomia ordinaria. Devono altresì ritenersi implicitamente esclusi i disegni di legge di conversione di decreti-legge che riproducano il contenuto di precedenti progetti di legge respinti dalle Camere, poiché in questo caso il principio del ne bis in idem deve ritenersi superato dalla necessità per le Camere di potersi pronunciare su un complesso di disposizioni che, pur essendo già state respinte dalle stesse, sono tuttavia addirittura vigenti in virtù del loro recepimento in un decretolegge. Analoga esclusione vale, infine, per i progetti di legge che intendano regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti, anche qualora si tratti di una sanatoria per così dire integrale 55 ed a prescindere dalla causa della decadenza del decreto-legge (scadenza del termine di sessanta giorni, reiezione esplicita del disegno di legge di conversione nel merito o per mancanza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza): la norma contenuta nell’art. 77, co. 3, Cost. («Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti»), proprio in quanto avente grado costituzionale, non può evidentemente essere limitata sotto alcun aspetto da una norma dei regolamenti parlamentari.

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Si può ricordare che i vecchi regolamenti parlamentari consideravano la fattispecie di cui al testo come un’ipotesi d’irricevibilità (cfr. il vecchio testo dell’art. 68 reg. Camera: «Un progetto respinto dalla Camera non potrà essere ripresentato se non dopo sei mesi»). La diversa formulazione attuale elimina i problemi interpretativi che la vecchia norma aveva all’epoca posto. 54 Il regolamento del Senato non contiene una norma analoga. La citata norma del reg. Camera è ormai inapplicabile a causa del nuovo procedimento di formazione degli statuti ordinari previsto dall’art. 123 Cost. 55 Per sanatoria integrale s’intende qui una sanatoria che faccia salvi tutti i rapporti giuridici sorti sulla base del decreto-legge non convertito. Per i problemi relativi alla conversione dei decreti-legge si rimanda comunque al cap. 4, par. 5.

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6. L’assegnazione dei progetti di legge. Le commissioni in sede consultiva: tipi di pareri e loro efficacia. Il procedimento normale: l’istituto della riserva di legge d’Assemblea stabilito dall’art. 72, co. 4, Cost.; l’intervento della commissione in sede referente, la discussione generale in Assemblea, la discussione e la votazione degli articoli, la votazione finale. Il procedimento speciale caratterizzato dall’intervento della commissione in sede legislativa o deliberante. Il procedimento speciale caratterizzato dall’intervento della commissione in sede redigente: le differenze tra il procedimento previsto dal regolamento del Senato e quello previsto dal regolamento della Camera. I procedimenti urgenti Dopo che il Presidente dell’Assemblea ha sottoposto alle verifiche fin qui illustrate il progetto di legge, quest’ultimo viene annunciato nella prima seduta dell’Assemblea, inserito nell’ordine del giorno generale, stampato e distribuito nel più breve tempo possibile e quindi assegnato alla commissione competente. Al Senato l’assegnazione dei progetti di legge è una competenza esclusiva del Presidente che si limita a darne comunicazione all’Assemblea 56. Alla Camera la situazione è diversa e varia altresì a seconda che si tratti di assegnazione in sede referente, in sede legislativa o in sede redigente: nel primo caso la decisione spetta al Presidente ma essa può essere ribaltata dall’Assemblea 57; negli ultimi due, invece, il Presidente ha soltanto un potere di proposta nei confronti dell’Assemblea, anche se le modalità procedurali variano a seconda che si tratti di assegnazione in sede legislativa o in sede redigente 58. Dal momento che l’individuazione della commissione avviene ratione materiae, a seconda che l’oggetto del progetto di legge sia più o meno omogeneo l’assegnazione può avvenire nei confronti di una sola delle commissioni permanenti esistenti presso i due rami del Parlamento (è il caso più frequente); ovvero di due di tali commissioni (assegnazione a commissioni riunite), quando non sia possibile individuare una competenza prevalente di una sola commissione; ovvero ad una commissione speciale istituita per l’occasione, ove se ne ravvisi l’opportunità. Gli eventuali conflitti di competenza tra commissioni (di solito positivi, raramente negativi), deri56

Cfr. artt. 34, 35 e 36 reg. Senato. La novità nell’assegnazione introdotta dal co. 1-bis del citato art. 34 verrà esaminata più avanti in questo stesso capitolo. 57 Cfr. art. 72, co. 1, reg. Camera. 58 Cfr., rispettivamente, artt. 92, co. 1, e 96 reg. Camera.

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vanti da una determinata assegnazione del progetto di legge, sono risolti dal Presidente dell’Assemblea, tanto alla Camera quanto al Senato 59. L’atto di assegnazione ha pertanto una duplice funzione: individuare la commissione (o le commissioni) competente per materia e decidere in quale sede (referente, legislativa o redigente) la commissione dovrà procedere all’esame. Tuttavia, ambedue le scelte suindicate possono risultare non definitive: la prima a seguito di eventuali conflitti di competenza tra commissioni, la risoluzione dei quali comporti un’assegnazione diversa da quella iniziale; la seconda a seguito dei possibili trasferimenti di sede che nel corso del suo iter un progetto di legge può subire. Il trasferimento dalla sede referente alla sede legislativa o alla sede redigente può avvenire su richiesta della commissione che esamina il progetto di legge in sede referente 60, con l’assenso del Governo 61 ed alle ulteriori condizioni fissate dai regolamenti parlamentari in modo diversificato alla Camera ed al Senato 62. Il trasferimento dalla sede legislativa alla sede referente avviene nei casi di cosiddetta rimessione del progetto di legge all’Assemblea 63: su richiesta del Governo o di un decimo dei membri dell’Assemblea o di un quinto della commissione 64; ovvero quando la commissione di merito intenda proseguire nella discussione, disattendo i pareri di altre commissioni ai quali i regolamenti parlamentari attribuiscono efficacia vincolante 65. 59

Sia pure con procedure non identiche. Cfr. art. 34, co. 4 e 5, reg. Senato e art. 72, co. 4, reg. Camera. 60 L’art. 37, co. 1, reg. Senato prevede che la richiesta sia deliberata dalla commissione all’unanimità. Diversamente, l’art. 92, co. 6, reg. Camera parla di «richiesta unanime dei rappresentanti dei Gruppi nella commissione o di più dei quattro quinti dei componenti la commissione stessa». 61 Il regolamento della Camera (cfr. art. 96, co. 2), a differenza di quello del Senato, non richiede l’assenso del Governo per il trasferimento dalla sede referente alla sede redigente. 62 Tali ulteriori condizioni si riferiscono ai pareri che altre commissioni devono esprimere sul progetto di legge. Mentre l’art. 37, co. 2, reg. Senato stabilisce che il trasferimento non può avvenire se le commissioni Affari costituzionali e Bilancio abbiano espresso parere contrario, il regolamento della Camera (art. 92, co. 6, per la sede legislativa e art. 96, co. 2, per la sede redigente) si limita a condizionare il trasferimento all’effettiva espressione dei pareri (non importa, quindi, se favorevoli o contrari) da parte delle commissioni indicate dalle citate disposizioni. 63 Mentre il regolamento del Senato prevede la richiesta di rimessione all’Assemblea, nei casi illustrati nel testo, per i progetti di legge assegnati tanto in sede legislativa quanto in sede redigente, il regolamento della Camera esclude tale possibilità nei riguardi della sede redigente. 64 Cfr. art. 72, co. 3, Cost., artt. 35 e 36 reg. Senato e art. 92, co. 4, reg. Camera. 65 Cfr. art. 40, co. 5 e 6, reg. Senato (per i pareri delle commissioni Affari costituzionali

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Molto spesso, all’atto dell’assegnazione di un progetto di legge alla commissione competente, il Presidente dell’Assemblea può decidere che su tale progetto debba essere acquisito il parere di altre commissioni: ciò avviene quando, pur essendo chiaro a quale commissione spetti la competenza primaria, il contenuto del progetto di legge presenti aspetti che rientrano – sia pure in modo non determinante, altrimenti si dovrebbe procedere a commissioni riunite – nella competenza di altre commissioni. La fissazione di un parere su un progetto di legge può anche avvenire successivamente all’atto di assegnazione, previo assenso del Presidente, qualora ciò sia richiesto dalla stessa commissione competente nel merito 66 oppure da altra commissione 67. I pareri espressi dalle commissioni vengono suddistinti in pareri facoltativi, obbligatori e vincolanti. Tuttavia, il significato di tali termini non è del tutto coincidente con quello che ad essi viene tradizionalmente attribuito nel diritto pubblico, laddove per parere facoltativo s’intende il parere che un soggetto può liberamente richiedere ad un altro soggetto; per parere obbligatorio il parere di un soggetto che una norma giuridica impone ad un altro soggetto di acquisire ma non necessariamente di rispettare; per parere vincolante il parere che un soggetto deve acquisire ed al quale deve uniformarsi, salva la possibilità di rinunciare ad adottare l’atto di sua competenza. Nel diritto parlamentare soltanto il concetto di parere obbligatorio è identico a quello appena illustrato: obbligatori sono, infatti, tutti quei pareri che il Presidente dell’Assemblea è tenuto a prevedere, sulla base di una norma del regolamento, all’atto dell’assegnazione di un progetto di legge alla commissione competente nel merito, e che quest’ultima deve acquisire. Il concetto di parere facoltativo coincide quando il parere è richiesto dalla commissione di merito ad altra commissione; non coincide quando la previsione del parere è stabilita dal Presidente in base ad una propria valutazione discrezionale poiché in questo caso il parere non è richiesto dal soggetto competente nel merito (la commissione) ma da un soggetto terzo (il Presidente). Anche per quanto riguarda i pareri vincolanti e Bilancio) e art. 93, co. 3 e 3-bis, reg. Camera (anche per i pareri della commissione Lavoro e per quei pareri di altre commissioni ai quali il Presidente della Camera assegni valore vincolante) secondo i quali, qualora la commissione che discute il progetto di legge in sede legislativa non ritenga di aderire al parere espresso dalle suddette commissioni (e, solo alla Camera, queste vi insistano), il progetto di legge è rimesso all’Assemblea. 66 Cfr. art. 73, co. 1, reg. Camera e art. 38 reg. Senato. 67 Cfr. art. 38 reg. Senato; nel regolamento della Camera non vi è una norma analoga.

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sussistono differenze. Premesso che di pareri vincolanti non può parlarsi nei confronti dei progetti di legge assegnati in sede referente, poiché qualsiasi parere può essere superato da una decisione dell’Assemblea 68, le commissioni in sede legislativa o redigente sono tenute ad uniformarsi al parere ma, qualora se ne vogliano dissociare, le conseguenze possono essere varie: la commissione può semplicemente rinunciare al seguito della discussione con conseguente “insabbiamento” del progetto di legge; se, invece, la commissione intende procedere comunque nella discussione, disattendendo il parere contrario, il progetto è automaticamente rimesso all’Assemblea ed il procedimento legislativo si trasforma da speciale in ordinario con conseguente mutamento dell’assegnazione del progetto alla commissione non più in sede legislativa o redigente bensì in sede referente 69. Con le precisazioni appena compiute in ordine alla possibile diversa efficacia dei pareri alla Camera ed al Senato, pareri obbligatori e vincolanti sono quelli delle cosiddette commissioni-filtro, di quelle commissioni, cioè, che devono controllare determinati aspetti dei progetti di legge, ritenuti particolarmente importanti dai regolamenti parlamentari: le commissioni Affari costituzionali, Bilancio e Lavoro (quest’ultima soltanto alla Camera). Pareri facoltativi ma anch’essi vincolanti (definiti nella prassi come pareri “rinforzati” 70) sono quelli introdotti nel 1987 nel solo regolamento della 68

Cfr. gli artt. 75, co. 2, reg. Camera e 40, co. 7, reg. Senato secondo i quali i pareri di determinate commissioni (l’indicazione delle quali non è la stessa alla Camera ed al Senato) sono stampati e allegati alla relazione scritta che la commissione, al termine dell’esame in sede referente, presenta all’Assemblea. 69 Quest’ultima ipotesi non vale alla Camera per le sole commissioni in sede redigente poiché l’art. 96, co. 4, reg. Camera prevede che, qualora vi sia stato un parere negativo della commissione Affari costituzionali, della commissione Bilancio o della commissione Lavoro, anche su singole parti o articoli del progetto di legge, e la commissione di merito non vi si sia uniformata, il Presidente della commissione che ha dato parere negativo ne fa illustrazione all’Assemblea subito dopo il relatore del progetto di legge e presenta un apposito ordine del giorno, sul quale l’Assemblea delibera. Alla luce della citata disposizione non sembra perciò che ai suddetti pareri, espressi su progetti di legge assegnati in sede redigente, possa attribuirsi efficacia vincolante. Comunque, il motivo di tale diversa disciplina alla Camera, dipende dal fatto che, dovendo il progetto di legge essere comunque sottoposto al voto dell’Assemblea, si è preferito non prevedere la richiesta di rimessione ma consentire la conclusione della fase in sede redigente e far risolvere il contrasto sul parere direttamente dall’Assemblea. 70 Cfr., ad esempio, l’uso di tale espressione nella circolare del Presidente della Camera, Nilde Iotti, del 4 maggio 1988, in Circolari e disposizioni interpretative del regolamento emanate dal Presidente della Camera (1979-1992), a cura della Segreteria generale della Camera, Roma 1994, 296. Occorre aggiungere che, alla Camera, sono sempre considerati

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Camera e previsti dall’art. 93, co. 3-bis: nell’ipotesi in cui un progetto di legge, assegnato ad una commissione in sede legislativa, contenga disposizioni che investono in misura rilevante la competenza di altra commissione, il Presidente della Camera può stabilire (donde il carattere facoltativo del parere, nel senso in precedenza specificato) che il parere di quest’ultima abbia un’efficacia vincolante identica a quella dei pareri espressi dalle commissioni-filtro. Infine, i pareri vincolanti fin qui illustrati devono essere espressi, con la medesima efficacia e relativamente agli stessi aspetti 71, non soltanto nei confronti dei progetti di legge ma anche sugli emendamenti presentati in commissione. Concludendo sulle commissioni in sede consultiva, occorre ricordare che i regolamenti parlamentari prevedono dei termini per l’espressione dei pareri, nonché la possibilità della loro proroga da parte della commissione di merito 72. Il decorso del termine senza che il parere sia stato espresso consente alla commissione di merito di procedere 73: al Senato tale principio viene applicato senza eccezioni ed a prescindere dalla sede nella quale il progetto di legge viene esaminato, ritenendosi, alla luce della formulazione dell’art. 39, co. 2, che la scadenza dei termini faccia presumere la volontà della commissione di non esprimere alcun parere; alla Camera, invece, il principio non viene ritenuto applicabile per quanto concerne i pareri vincolanti espressi su progetti di legge all’esame delle commissioni in sede legislativa. Malgrado l’inequivocabile combinato disposto degli artt. 93, co. 1, e 73, co. 2, reg. Camera, si è ormai consolidata una prassi priva di eccezioni, in base alla quale le commissioni non possono comunque procedere all’approvazione di progetti di legge in sede legislativa se non abbiano acquisito il parere favorevole di quelle commissioni i cui pareri hanno efficacia vincolante, derivando da ciò la non perentorietà dei termini fissati per l’espressione dei suddetti pareri. Come è stato esattamente osservato, un’ulteriore conseguenza di tale difformità di disciplina nei due rami del Parlamento consiste nel fatto che, mentre al Senato le commissioni titolari di un potere consultivo vincolante possono condizionare soltanto il contecome rinforzati i pareri espressi dalla XIV commissione Politiche dell’Unione europea ai sensi dell’art. 126, co. 2, punto b), reg. Camera. Cfr. in proposito le circolari del Presidente della Camera n. 3/1966, 9, e n. 1/1997, 13. 71 Cfr. gli artt. 94, co. 3, reg. Camera e 41, co. 5, reg. Senato, che non sono però del tutto uguali per quanto attiene all’elencazione degli aspetti che richiedono l’espressione obbligatoria e vincolante di pareri da parte delle commissioni-filtro. 72 Cfr. artt. 73, co. 2, reg. Camera e 39, co. 1 e 2. 73 Cfr. le disposizioni citate nella nota precedente.

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nuto dei progetti di legge, alla Camera tali commissioni possono condizionare anche i tempi della loro approvazione. I regolamenti prevedono, altresì, che il parere, oltre che espresso con la formula «nulla osta all’ulteriore corso del progetto», possa assumere una delle formulazioni seguenti: parere favorevole, contrario, favorevole con osservazioni, favorevole condizionatamente a modifiche specificamente formulate 74. La differenza tra le due ultime formulazioni consiste nel fatto che, mentre nel primo caso la commissione di merito è libera di recepire o meno le osservazioni formulate nel parere, nel secondo essa è vincolata all’accoglimento delle modifiche che la commissione consultata ha posto come condizioni del parere favorevole. Il procedimento legislativo “normale” – così come è definito dall’art. 72, co. 4, Cost. – è quello disciplinato nelle sue linee generali dallo stesso art. 72, co. 1, secondo cui «ogni disegno di legge, presentato ad una Camera è, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una commissione e poi dalla Camera stessa, che l’approva articolo per articolo e con votazione finale». È bene precisare che l’aggettivo “normale” corrisponde alle espressioni “di norma” o “di regola” e non equivale, invece, ad “obbligatorio”, nel senso che la prima assegnazione alla commissione competente di ogni disegno di legge debba necessariamente avvenire in sede referente. Come è provato dall’art. 92, co. 1, reg. Camera, che consente al Presidente di proporre all’Assemblea l’assegnazione diretta in sede legislativa di un progetto di legge che riguardi questioni che non hanno speciale rilevanza di ordine generale. E come molto di più ed in modo decisivo è provato dal nuovo co. 1-bis inserito nell’art. 34 reg. Senato, secondo cui «i disegni di legge sono di regola assegnati in sede deliberante ai sensi dell’art. 35 o in sede redigente ai sensi dell’art. 36». Tale norma, introdotta nel dicembre 2017 dal Senato nell’ambito della riforma del proprio regolamento, ribalta il criterio, fino ad allora seguito con una prassi costante nei due rami del Parlamento, secondo cui la prima assegnazione di un disegno di legge avveniva di regola in sede referente. Così come non si è mai dubitato della legittimità dell’art. 92, co. 1, reg. Camera, altrettanto sembra potersi affermare per il nuovo co. 1-bis introdotto dal Senato poiché entrambe le due disposizioni, nonostante la prima stabilisca un’eccezione e la seconda una regola, sono espressione dell’ampia autonomia attribuita dall’art. 72 Cost. ai regolamenti parlamentari in tema di procedimento legislativo. Tanto ciò è vero che lo stesso art. 72, 74

Cfr. art. 73, co. 3, reg. Camera.

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quando ha voluto rendere obbligatoria «la procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera» lo ha disposto espressamente all’ultimo comma per i cosiddetti casi di riserva di legge di Assemblea: disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale, di delegazione legislativa, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, di approvazione di bilanci e consuntivi. L’istituto della “riserva di legge d’Assemblea” – così viene correntemente definito e non va confuso con l’istituto della “riserva di legge” – ha in passato posto qualche problema in ordine all’interpretazione delle fattispecie alle quali esso deve applicarsi, con particolare riferimento all’espressione «disegni di legge in materia costituzionale». Tale espressione è stata infatti interpretata in tre modi diversi a seconda che la si intendesse riferita soltanto a leggi ordinarie caratterizzate da un particolare contenuto materialmente costituzionale, oppure a tali leggi ed alle leggi formalmente costituzionali previste dall’art. 138 Cost., oppure soltanto a queste ultime. Quest’ultima tesi è oramai prevalente sia per le difficoltà che si frappongono ad una determinazione ragionevolmente sicura della “materia costituzionale”, sia per la dimostrazione dell’inesattezza dell’argomento secondo cui, a ritenere che le leggi in materia costituzionale siano soltanto le leggi formalmente costituzionali, l’art. 72, co. 4, sarebbe una disposizione inutile, in quanto ripetitiva di una norma già implicitamente contenuta nell’art. 138. Inoltre, la tesi in oggetto è stata fatta propria dalla Corte costituzionale con la sent. 23 dicembre 1963, n. 168. Per quanto attiene alle altre fattispecie previste dall’art. 72, co. 4, occorre innanzitutto osservare che il divieto di approvazione in sede legislativa o redigente di un progetto di legge sussiste non soltanto quando il progetto nel suo complesso riguardi una delle suddette fattispecie ma anche quando ciò si verifichi per una singola disposizione del progetto stesso. L’esempio più frequente è rappresentato dai progetti di legge cosiddetti di delegazione “mista”, in quanto contenenti sia disposizioni d’immediata applicazione, sia disposizioni che prevedono una delega legislativa al Governo ai sensi dell’art. 76 Cost.: l’assegnazione di tali progetti di legge alle commissioni in sede legislativa o redigente è possibile soltanto previo “stralcio” del secondo tipo di disposizioni dal testo del progetto di legge. Più precisamente, lo stralcio consiste nell’estrapolazione dal testo di un progetto di legge di alcune disposizioni che vanno a costituire un nuovo progetto di legge. Occorre altresì osservare che l’espressione «leggi in materia elettorale» ricomprende qualsiasi legge che si riferisca ad elezioni, non importa se si tratti di elezioni politiche o amministrative. Infine, alla luce delle disposizioni, legislative e regolamentari, che at-

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tualmente disciplinano le procedure di discussione ed approvazione del bilancio dello Stato, l’espressione «bilanci e consuntivi» deve intendersi comprensiva anche del disegno di legge di concessione dell’esercizio provvisorio e del disegno di legge per l’assestamento del bilancio dello Stato 75. I casi di riserve di legge d’Assemblea non sono soltanto quelli previsti dall’art. 72, co. 4, Cost. poiché tale disposizione è stata costantemente interpretata, sia dalla dottrina che dalla stessa Corte costituzionale 76, come prescrivente non già un limite massimo bensì un limite minimo, tale, cioè, da consentire ai regolamenti parlamentari la possibilità di ampliare la gamma dei casi previsti dalla citata norma costituzionale. La suddetta interpretazione si desume dal combinato disposto dei co. 3 e 4 dell’art. 72 Cost. poiché, se i regolamenti parlamentari, ai sensi del co. 3, possono in positivo «stabilire in quali casi e forme l’esame e l’approvazione dei disegni di legge sono deferiti a commissioni …», si deve ritenere che tale facoltà ricomprenda anche la possibilità di stabilire, in negativo, in quali casi tale deferimento è escluso. Occorre pertanto esaminare se, in quale misura ed in quale modo (tacito o espresso), i regolamenti parlamentari abbiano ampliato i casi di riserve di legge d’Assemblea. L’art. 35, co. 1, reg. Senato, nel testo novellato, pur richiamando la formulazione dell’art. 72, co. 4, Cost., prevede tuttavia in modo espresso tre casi ulteriori di riserve di legge d’Assemblea: i disegni di legge di conversione dei decreti-legge, i disegni di legge rinviati alle Camere dal Presidente della Repubblica ai sensi dell’art. 74, co. 1, Cost., ed i disegni di legge collegati alla manovra di finanza pubblica di cui all’art. 126-bis dello stesso regolamento. L’art. 92, co. 2, reg. Camera si limita invece a ripetere senza alcuna modifica la formulazione del citato art. 72 Cost., essendo stato abrogato il riferimento ai progetti di legge in materia tributaria che era contenuto nel regolamento vigente fino alla riforma del 1971. Tuttavia, anche alla Camera i disegni di legge di conversione dei decreti-legge ed i disegni di legge rinviati dal Presidente della Repubblica devono essere esaminati secondo il procedimento normale: ciò si desume implicitamente dagli artt. 71, co. 2, e 96-bis, co. 1, reg. Camera che impongono l’assegnazione in sede referente dei suddetti disegni di legge. L’art. 92, co. 1, reg. Camera contiene implicitamente una norma di carattere generale in tema di riserva di legge d’Assemblea. Come già visto, esso stabilisce, infatti, che «quando un progetto di legge riguardi questioni 75 76

Sulla legge di bilancio cfr. in modo specifico più oltre in questo stesso capitolo, par. 7. Cfr. la sent. Corte cost. n. 9/1959.

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che non hanno speciale rilevanza di ordine generale il Presidente può proporre alla Camera che il progetto sia assegnato a una commissione permanente o speciale, in sede legislativa, per l’esame e l’approvazione». La disposizione citata, da un lato aggiunge alla categoria dei progetti di legge riservati all’Assemblea quelli «riguardanti questioni che hanno particolare rilevanza di ordine generale», dall’altro attribuisce al Presidente della Camera l’importante potere di stabilire quando un progetto di legge abbia ad oggetto questioni del tipo suddetto e dunque non possa essere assegnato in sede legislativa. C’è da osservare, tuttavia, che finora la norma è rimasta sulla carta dal momento che il Presidente della Camera non ha mai esercitato il potere da essa previsto. Tra i casi di progetti di legge riservati all’Assemblea dai regolamenti parlamentari deve annoverarsi anche il disegno di legge di delegazione europea, e cioè quel disegno di legge che, come si vedrà in modo specifico più avanti, dà attuazione, con cadenza annuale, agli obblighi di tipo normativo derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea. Tali obblighi consistono nell’attuazione a livello interno delle cosiddette direttive europee, attuazione che avviene, per lo più, tramite delegazione legislativa. A seguito delle modifiche apportate al regolamento del Senato, l’esame del disegno di legge di delegazione europea (e della legge europea, come meglio si spiegherà più avanti, cfr. par. 7), si svolge nei due rami del Parlamento secondo un analogo procedimento (art. 126-ter reg. Camera; art. 144-bis reg. Senato). Il disegno di legge di delegazione europea e quello della legge europea sono assegnati in sede referente alla commissione “Politiche dell’Unione europea” e, per l’esame delle parti di rispettiva competenza, alle commissioni competenti per materia. Queste ultime, entro quindici giorni dall’assegnazione, concludono il proprio esame approvando una relazione e nominando un relatore che riferisce su di essa alla commissione “Politiche dell’Unione europea”. Entrambi i regolamenti parlamentari prevedono l’inammissibilità degli emendamenti e degli articoli aggiuntivi, eventualmente introdotti dalle commissioni, che riguardino materie estranee all’oggetto proprio della legge di delegazione europea, come definito dalla legislazione vigente. Tuttavia, mentre alla Camera gli emendamenti che ciascuna commissione può approvare relativamente alle materie di propria competenza si ritengono accolti dalla commissione “Politiche dell’Unione europea” salvo che questa non li respinga per motivi di incompatibilità con la normativa europea o per esigenze di coordinamento generale, al Senato non è previsto che le commissioni di merito possano approvare emendamenti.

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Decorsi quindici giorni dall’assegnazione alle commissioni competenti per materia, la commissione “Politiche dell’Unione europea”, alla quale vengono trasmesse le relazioni approvate dalle suddette commissioni e le eventuali relazioni di minoranza, nei successivi trenta giorni conclude l’esame del disegno di legge, predisponendo una relazione generale per l’Assemblea, alla quale sono allegate le relazioni di maggioranza delle altre commissioni. Al Senato, il Presidente dell’Assemblea può dichiarare inammissibili, oltre agli emendamenti estranei all’oggetto della legge di delegazione, anche disposizioni del testo proposto dalla commissione all’Assemblea. Inoltre, mentre alla Camera non è prevista alcuna limitazione in ordine alla possibilità di presentare emendamenti in Assemblea, al Senato è consentito ripresentare in Assemblea soltanto gli emendamenti respinti dalla commissione “Politiche dell’Unione europea”. La successiva fase in Assemblea, ove la discussione sulle linee generali del disegno di legge di delegazione avviene congiuntamente con l’esame della relazione annuale sulla partecipazione dell’Italia all’Unione europea, si svolge senza ulteriori variazioni rispetto al procedimento “normale”. Un ultimo caso di disegno di legge riservato all’Assemblea, ulteriore rispetto a tutti gli altri casi previsti sia dall’art. 72, co. 4, Cost., sia dai regolamenti parlamentari, sembra essere quello del disegno di legge per la concessione dell’amnistia e dell’indulto disciplinato dall’art. 79 Cost. Occorre preliminarmente ricordare che, con L. cost. 6 marzo 1992, n. 1, il testo dell’art. 79 è stato radicalmente mutato nel suo nucleo normativo: la norma secondo cui «L’amnistia e l’indulto sono concessi dal Presidente della Repubblica su legge di delegazione delle Camere» è stata sostituita dalla seguente «L’amnistia e l’indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale» 77. Pertanto, oggi non vale più l’argomento in base al quale tutti i disegni di legge per la concessione dell’amnistia e dell’indulto erano stati in passato discussi o approvati secondo il procedimento cosiddetto normale: la loro assimilazione, peraltro abbastanza acritica, ai progetti di legge di delegazione in ossequio al dato formale ricavabile dal vecchio testo dell’art. 79. La conclusione secondo cui il disegno di legge di concessione dell’amnistia e dell’indulto, anche a fronte del nuovo testo dell’art. 79, dovrebbe rientrare tra i progetti di legge riservati all’Assemblea sembra dimostrabile

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La legge di concessione dell’amnistia e dell’indulto verrà esaminata in dettaglio più avanti.

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sulla base di due argomenti. In primo luogo, perché quando la Costituzione prescrive che determinate deliberazioni debbano essere adottate dalle Camere con maggioranze qualificate – derogando alla regola generale, stabilita dall’art. 64, co. 3, Cost., secondo cui le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento sono adottate a maggioranza dei presenti – deve ritenersi implicitamente, sulla base dei termini letterali nei quali la disposizione è formulata, che tali deliberazioni siano necessariamente quelle delle rispettive assemblee 78. In secondo luogo, il vincolo della riserva d’Assemblea deriva, nel caso specifico, dal ritenere che l’elencazione di cui all’art. 72, co. 4, Cost. possa essere integrata sulla base dell’applicazione analogica del principio dell’importanza politica della materia, quale si desume per l’appunto dalla citata disposizione costituzionale. È infatti indubbia l’estrema rilevanza politica della legge di concessione dell’amnistia e dell’indulto poiché la maggioranza qualificata necessaria per la sua approvazione comporta, verosimilmente, la conclusione di un accordo politico tra maggioranza ed opposizione, accordo tanto più delicato in quanto necessario non soltanto per l’approvazione della legge nel suo complesso ma altresì per l’approvazione dei singoli articoli dei quali essa si compone. Il procedimento normale si articola in una fase preparatoria, che si svolge nella competente commissione, ed in una fase deliberativa, che si svolge in Assemblea. I regolamenti parlamentari prevedono il caso che progetti di legge vertenti sullo stesso oggetto siano stati presentati tanto alla Camera quanto al Senato. Poiché sarebbe del tutto contrario ad un elementare principio di economicità dei lavori consentire che una Camera esamini contemporaneamente all’altra progetti di legge aventi oggetti uguali o tra loro strettamente connessi, gli artt. 51, co. 3, reg. Senato e 78 reg. Camera stabiliscono che i Presidenti dei due rami del Parlamento raggiungano le possibili intese per decidere presso quale Camera l’esame debba cominciare. A differenza del regolamento del Senato, il regolamento della Camera, all’art. 16-bis, ha introdotto un nuovo organo permanente, denominato Comitato per la legislazione che è composto di dieci deputati, scelti dal 78 Un esempio è rappresentato dall’art. 138, co. 1, Cost. Mentre la formulazione usata per la seconda deliberazione delle Camere («Le leggi di revisione … sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione») viene diffusamente interpretata come implicante una riserva di Assemblea, altrettanto non si ritiene possibile desumere per la prima deliberazione. Tanto è vero che, in questo caso, il vincolo della riserva di Assemblea per la prima deliberazione delle Camere trova il proprio fondamento non nell’art. 138 ma nell’espressione “leggi in materia costituzionale” (queste ultime identificate con le leggi costituzionali) di cui all’art. 72, co. 4, Cost.

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Presidente della Camera in modo da garantire la rappresentanza paritaria della maggioranza e delle opposizioni. Esso è presieduto, a turno, da uno dei suoi componenti, per la durata di sei mesi ciascuno. Qualora ne sia fatta richiesta da almeno un quinto dei loro componenti, le commissioni trasmettono al Comitato i progetti di legge affinché esso esprima parere sulla qualità dei testi legislativi, con riguardo alla loro omogeneità, alla semplicità, chiarezza e proprietà della loro formulazione, nonché all’efficacia di essi per la semplificazione e il riordinamento della legislazione vigente. Il parere è richiesto non prima della scelta del testo adottato come base per il seguito dell’esame e, qualora venga espresso nei confronti di una commissione in sede referente, è stampato ed allegato alla relazione per l’Assemblea. Su richiesta di uno o più membri del Comitato che abbiano espresso opinioni dissenzienti, il parere dà conto di esse e delle loro motivazioni. Qualora le commissioni che procedono in sede referente non intendano adeguare il testo del progetto di legge alle condizioni contenute nel parere del Comitato, debbono indicarne le ragioni nella relazione per l’Assemblea. Ove il progetto di legge sia esaminato in sede legislativa o redigente, si applicano, rispettivamente, le disposizioni degli artt. 93, co. 3, e 96, co. 4. Il Presidente della Camera, qualora ne ravvisi la necessità, può convocare congiuntamente il Comitato e la Giunta per il Regolamento. Dalle nuove disposizioni fin qui illustrate, emerge che il Comitato per la legislazione, in dipendenza dei compiti che gli sono attribuiti e che attengono alla formulazione dei testi legislativi, è stato concepito come un organo fondamentalmente tecnico, come è dimostrato dal fatto che la sua composizione non rispecchia le proporzioni esistenti tra i Gruppi parlamentari ma è invece ispirata al diverso principio della parità tra maggioranza ed opposizione. Natura tecnica che è ribadita dalla ulteriore circostanza secondo la quale il Comitato non è presieduto da un deputato eletto dalla maggioranza – così come avviene nelle commissioni e nelle giunte – ma da uno dei suoi componenti, a turno e per la durata di sei mesi ciascuno. La commissione interviene in sede referente, intendendosi con tale espressione l’esame da parte della commissione del singolo progetto di legge ad essa assegnato oppure di più progetti di legge aventi lo stesso oggetto; in questo secondo caso l’esame deve essere abbinato, deve cioè avvenire congiuntamente 79. L’esame in sede referente avviene senza partico79

Cfr. art. 77 reg. Camera e art. 51 reg. Senato. Questa seconda disposizione contiene una disciplina dell’abbinamento molto più articolata rispetto a quella stabilita dall’art. 77 reg. Camera.

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lari formalità per due motivi: perché il compito della commissione è soltanto quello di preparare il lavoro che successivamente si svolgerà, con ben altro rigore procedurale, in Assemblea; perché, conseguentemente, nessuna delle deliberazioni della commissione sui testi al proprio esame ha carattere definitivo, dal momento che l’Assemblea è libera di modificare tutto ciò che ritiene opportuno. Alla Camera l’art. 79, relativo all’esame in sede referente dei progetti di legge, è stato integrato da una serie di disposizioni specifiche tendenti a migliorare la qualità e l’efficacia dei testi legislativi. A tal fine la commissione provvede ad acquisire gli elementi di conoscenza necessari, dal Governo e secondo le procedure di cui al capo XXXIII ed agli artt. 146 e 148, in relazione ai seguenti aspetti: a) la necessità dell’intervento legislativo, con riguardo alla possibilità di conseguirne i fini mediante il ricorso a fonti diverse dalla legge; b) la conformità della disciplina proposta alla Costituzione, la sua compatibilità con la normativa dell’Unione europea e il rispetto delle competenze delle Regioni e delle autonomie locali; c) la definizione degli obiettivi dell’intervento e la congruità dei mezzi individuati per conseguirli, l’adeguatezza dei termini previsti per l’attuazione della disciplina, nonché gli oneri per la Pubblica amministrazione, i cittadini e le imprese; d) l’inequivocità e la chiarezza del significato delle definizioni e delle disposizioni, nonché la congrua sistemazione della materia in articoli e commi. Inoltre, la commissione deve introdurre nel testo norme per il coordinamento della disciplina da esso recata con la normativa vigente, curando che siano espressamente indicate le disposizioni conseguentemente abrogate. Infine, le relazioni per l’Assemblea danno conto delle risultanze dell’istruttoria legislativa, di cui sopra, svolta dalla commissione. La discussione in sede referente è introdotta dal Presidente della commissione o, più frequentemente, da un relatore da lui incaricato. In ragione del carattere informale dell’esame svolto dalla commissione, eccezioni pregiudiziali, sospensive o dirette al fine del non passaggio agli articoli, o comunque volte ad impedire il compimento dell’obbligo della commissione di riferire all’Assemblea, non possono essere poste in votazione; di esse dovrà però farsi menzione nella relazione della commissione 80. Dopo aver proceduto ad un esame preliminare del progetto di legge nel suo complesso, la commissione passa all’esame ed alla votazione dei singoli ar80

Cfr. art. 79, co. 2, reg. Camera. L’art. 43, co. 3, reg. Senato stabilisce, con una formula diversa, che le suddette questioni «ove siano avanzate e la commissione sia ad esse favorevole, sono sottoposte, con relazione, all’Assemblea».

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ticoli, nonché degli eventuali emendamenti presentati dai componenti della commissione o anche da parlamentari che non ne facciano parte; la commissione può nominare un comitato ristretto, composto in modo da garantire la partecipazione proporzionale delle minoranze, al quale affida l’ulteriore esame per la formulazione delle proposte relative al testo degli articoli. Nell’ipotesi di esame abbinato di diversi progetti di legge, la necessità di avere un unico testo di riferimento ai fini della votazione degli articoli e degli emendamenti viene soddisfatta dalla cosiddetta scelta del testo-base, che viene compiuta dalla commissione al termine dell’esame preliminare e prima dell’esame degli emendamenti: testo-base che può essere quello di uno dei progetti di legge ovvero un testo unificato di tutti i progetti di legge, elaborato dal relatore o, più frequentemente, dal comitato ristretto. L’esame in sede referente si conclude con la votazione di un testo per la successiva discussione in Assemblea (il cosiddetto “testo della commissione”), dando mandato al relatore di predisporre una relazione scritta (la relazione di maggioranza) che verrà stampata e distribuita, insieme alle eventuali relazioni di minoranza. Il documento che la commissione trasmette all’Assemblea è pertanto un documento complesso, composto dal testo della commissione, dal testo in allegato dei progetti di legge abbinati (beninteso ove ve ne siano), dalla relazione di maggioranza e dalle eventuali relazioni di minoranza, dal testo dei pareri espressi da altre commissioni; tale documento, tuttavia, non conterrà le relazioni scritte nell’ipotesi in cui, su richiesta della stessa commissione, i relatori siano stati autorizzati dall’Assemblea, per motivi di urgenza, a riferire oralmente. La commissione nomina altresì un comitato (denominato sottocommissione al Senato), composto da nove membri alla Camera e da non più di sette al Senato 81 in modo da garantire la partecipazione proporzionale delle minoranze, per la discussione davanti all’Assemblea ed in particolare per esprimere il proprio parere sugli emendamenti che in tale sede saranno presentati. L’esame in Assemblea dei progetti di legge licenziati dalle commissioni in sede referente è minuziosamente disciplinato dai regolamenti parlamentari; in questa sede, tuttavia, ci si limiterà ad un’esposizione per sommi capi. L’esame in Assemblea avviene secondo l’ordine di priorità stabilito in sede di programmazione dei lavori parlamentari 82 e comprende la discus81 Mentre l’art. 79, co. 4, reg. Camera impone alla commissione la nomina del comitato dei nove, tale nomina è soltanto facoltativa ai sensi dell’art. 43, co. 5, reg. Senato. 82 Sarebbe troppo lungo illustrare in questa sede i metodi di programmazione dei lavori

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sione sulle linee generali del progetto di legge e la discussione degli articoli. La discussione sulle linee generali (“discussione generale” al Senato), che può essere variamente limitata nei tempi e nel numero degli interventi, verte sul progetto di legge nel suo complesso ed in essa intervengono i relatori, il rappresentante del Governo ed i singoli parlamentari; al termine della discussione i relatori ed il Governo possono replicare. Tuttavia, la discussione non può avere luogo o deve essere rinviata in caso di approvazione della questione pregiudiziale, quella cioè che un dato argomento non debba discutersi, o della questione sospensiva, quella cioè che la discussione debba rinviarsi al verificarsi di determinate scadenze. Tali questioni possono essere proposte dai parlamentari prima che si entri nella discussione oppure, a determinate condizioni stabilite in modo diversificato dai regolamenti della Camera e del Senato, anche nel corso della discussione. Le suddette questioni hanno carattere incidentale e la discussione non può proseguire se non dopo che l’Assemblea si sia pronunziata su di esse 83. Nel concorso di più questioni pregiudiziali – e tra esse vi può essere anche la pregiudiziale di costituzionalità, quella cioè che motiva la richiesta di non discutere un determinato testo sulla base della sua incostituzionalità – ha luogo un’unica discussione. Quanto alla votazione, al Senato essa è unica anche se la questione pregiudiziale sia stata sollevata con più proposte diversamente motivate; alla Camera, invece, si svolge prima una votazione sull’insieme delle questioni pregiudiziali sollevate per motivi di costituzionalità e poi una votazione sull’insieme delle questioni pregiudiziali sollevate per motivi di merito. Nel concorso di più questioni sospensive, dopo lo svolgimento di un’unica discussione, il meccanismo di votazione è lo stesso sia alla Camera che al Senato: prima si vota sulla sospensione e poi, se la sospensiva risulta approvata, sulla sua durata. Possono essere presentati ordini del giorno recanti istruzioni nei confronti del Governo in ordine al contenuto del progetto di legge. Malgrado le differenze che sussistono alla Camera ed al Senato in ordine al momento della loro presentazione e della loro votazione, elementi comuni sono i seguenti: gli ordini del giorno vengono svolti dai proponenti; su di parlamentari in vigore alla Camera ed al Senato. Si rimanda pertanto alle relative disposizioni dei regolamenti parlamentari (artt. 53-56 reg. Senato e 23-28 reg. Camera). 83 Ciò vale ai sensi dell’art. 93, co. 2, reg. Senato. Diversamente, l’art. 40, co. 2, reg. Camera stabilisce che le suddette questioni «sono discusse e poste in votazione prima che abbia inizio la discussione sulle linee generali, se preannunziate nella conferenza dei presidenti di Gruppo contestualmente alla predisposizione del relativo calendario; negli altri casi, sono discusse e votate al termine della suddetta discussione».

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essi esprimono il proprio parere il relatore ed il rappresentante del Governo; quest’ultimo può dichiarare di accogliere o di non accogliere l’ordine del giorno, ovvero di accoglierlo come semplice raccomandazione; il proponente può rinunciare alla votazione oppure insistere per il suo svolgimento. Il regolamento della Camera non prevede più gli ordini del giorno di non passaggio agli articoli, a seguito dell’abrogazione dell’art. 84. L’art. 96 reg. Senato, pur non parlando di ordini dl giorno, prevede la proposta, da parte di un senatore per ciascun Gruppo, di non passaggio agli articoli. Chiusa la discussione sulle linee generali, si passa alla discussione degli articoli, che consiste nell’esame di ciascun articolo e del complesso degli emendamenti e degli articoli aggiuntivi ad esso proposti; possono, altresì, essere presentati sub-emendamenti e cioè emendamenti ad emendamenti. Il potere di presentare o di ritirare emendamenti e sub-emendamenti spetta a ciascun parlamentare ed al Governo; gli emendamenti o gli articoli aggiuntivi che comportino nuove spese o diminuzioni di entrate devono essere preliminarmente trasmessi alla commissione Bilancio affinché essi siano valutati nelle loro conseguenze finanziarie; i relatori ed il Governo esprimono il loro parere sugli emendamenti prima che siano posti in votazione. Le votazioni si svolgono prima sugli emendamenti proposti al singolo articolo e poi sull’intero articolo, nel testo risultante dalle eventuali modifiche approvate. Quando sia stato presentato un solo emendamento e questo sia soppressivo di un intero articolo, si pone ai voti il mantenimento del testo: questa norma tende a favorire il presentatore dell’emendamento soppressivo poiché qualsiasi proposta, per risultare approvata, deve ottenere la metà più uno dei voti. In caso di parità di voti, pertanto, la proposta posta in votazione risulterà respinta: nella specie, risulterà respinto il mantenimento dell’articolo ed approvato l’emendamento soppressivo. Il risultato sarebbe stato l’inverso se fosse stato posto in votazione l’emendamento soppressivo. Qualora siano stati presentati più emendamenti ad uno stesso testo, essi sono posti in votazione cominciando da quelli che più si allontanano dal testo originario: prima quelli interamente soppressivi, poi quelli parzialmente soppressivi, quindi quelli modificativi ed infine quelli aggiuntivi; gli emendamenti ad un emendamento sono votati prima di quello principale. Quando il testo da mettere ai voti contenga più disposizioni o si riferisca a più argomenti o sia comunque suscettibile di essere distinto in più parti aventi ciascuna un proprio significato logico ed un proprio valore normativo, può essere richiesta la votazione per parti separate sulla quale decide l’Assemblea.

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Dopo l’approvazione degli articoli ed una volta concluse le eventuali dichiarazioni di voto, ha luogo la votazione finale sul progetto di legge. Tale votazione, che rappresenta, insieme all’intervento delle commissioni ed alla votazione degli articoli, uno dei pochi passaggi obbligati del procedimento legislativo fissati dall’art. 72 Cost., ha un’importante rilevanza politica poiché consente di valutare se la maggioranza che si era di volta in volta formata per l’approvazione dei singoli articoli sussiste anche per l’approvazione del progetto nel suo complesso. La votazione finale, tanto al Senato quanto alla Camera, sia pure con modalità diverse, avviene a scrutinio palese; tuttavia, qualora ne sia fatta richiesta dal prescritto numero di senatori o di deputati, alcune leggi sono votate a scrutinio segreto. Le leggi per le quali, sia il regolamento del Senato che il regolamento della Camera 84, ammettono la possibilità della votazione a scrutinio segreto sono quelle che incidono sui principi e sui diritti di libertà di cui agli artt. 6, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 24, 25, 26, 27, 29, 30, 31 e 32, co. 2, Cost. L’art. 49, co. 1, reg. Camera aggiunge le «leggi ordinarie relative agli organi costituzionali dello Stato (Parlamento, Presidente della Repubblica, Governo, Corte costituzionale) ed agli organi delle regioni», nonché le leggi elettorali. La citata disposizione, con una formulazione poco chiara per la sua genericità, stabilisce, inoltre, che può essere richiesta la votazione a scrutinio segreto anche «sull’istituzione di commissioni parlamentari d’inchiesta». Dal momento che tali commissioni possono essere istituite su deliberazione della singola Camera, nel caso delle commissioni monocamerali previste dall’art. 82 Cost., ovvero con lo strumento della legge, nel caso delle commissioni bicamerali, non si capisce bene se l’art. 49 abbia inteso riferirsi a tutte e due le ipotesi (come, nel dubbio, sembra forse preferibile) o soltanto alla prima. Va aggiunto che, nei casi di progetti di legge a contenuto misto, e cioè in parte riguardanti le materie per le quali può essere richiesta la votazione a scrutinio segreto ed in parte riguardanti materie estranee, il solo regolamento del Senato attribuisce al Presidente un giudizio sulla prevalenza delle une o delle altre ai fini della decisione sull’ammissibilità della suddetta richiesta. Prima della votazione finale, un passaggio molto delicato del procedimento è costituito dall’eventuale coordinamento del testo approvato, consistente nella verifica della correttezza formale delle disposizioni approvate, della loro compatibilità reciproca, nonché della loro conciliabilità con lo scopo della legge 85. La necessità del coordinamento non richiede parti84 85

Cfr. art. 49, co. 1 e 1-quater, reg. Camera e art. 113, co. 4 e 7, reg. Senato. Cfr. la formulazione più esplicita dell’art. 103 reg. Senato rispetto a quella dell’art.

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colari spiegazioni, soprattutto per il caso di leggi molto complesse, politicamente controverse, ed il cui testo sia la risultante dell’approvazione di molti emendamenti. Il coordinamento, sollecitato da una serie di soggetti previsti dai regolamenti parlamentari e che si svolge secondo modalità non sempre uguali, avviene comunque prima della votazione finale e consiste fondamentalmente nell’approvazione da parte dell’Assemblea delle modifiche rese necessarie dall’opera di coordinamento. Il regolamento della Camera, a differenza di quello del Senato 86, prevede un secondo tipo di coordinamento, molto diverso da quello fin qui illustrato. L’art. 90, co. 2, stabilisce, infatti, che «L’Assemblea può, se occorre, autorizzare il Presidente al coordinamento formale del testo approvato». Questo tipo di coordinamento differisce, pertanto, rispetto al precedente per le seguenti caratteristiche: a) si tratta di un coordinamento non preventivo ma successivo rispetto alla votazione finale del progetto di legge; b) le modifiche al testo non vengono deliberate dall’Assemblea ma vengono decise autonomamente dal solo Presidente della Camera in virtù di una generica autorizzazione dell’Assemblea; c) le modifiche devono rigorosamente consistere in mere correzioni di forma, senza alcuna incidenza sul significato sostanziale delle disposizioni corrette. È evidente come il punto c) rappresenti la conseguenza dei punti a) e b) poiché, se le correzioni determinassero modifiche del contenuto del progetto di legge, si avrebbe una duplice illegittimità: l’illegittimità delle disposizioni introdotte non a seguito della loro approvazione da parte dell’Assemblea; l’illegittimità complessiva della legge in quanto il testo approvato dall’Assemblea sarebbe diverso dal testo trasmesso, a seconda del caso, al Senato o al Presidente della Repubblica 87. Il progetto di legge s’intende approvato quando esso, ai sensi dell’art. 64, co. 3, Cost., sia stato adottato a maggioranza dei presenti 88. Tuttavia, la determinazione di tale maggioranza non avveniva allo stesso modo nei due rami del Parlamento a causa del diverso meccanismo di computo di coloro che 90, co. 1, reg. Camera che parla soltanto di “correzioni di forma”. Nella prassi, tuttavia, anche alla Camera il coordinamento si svolge nella stessa misura prevista dal regolamento del Senato. 86 Anche se la prassi al Senato coincide con il disposto dell’art. 90, co. 2, reg. Camera. 87 La Corte costituzionale (sentt. nn. 9/1959, 134/1969 e 292/1984) ha affermato, in linea di principio, la legittimità del coordinamento preventivo e, con le limitazioni di cui al testo, quella del coordinamento successivo; riservandosi, comunque, di valutare caso per caso la corrispondenza tra testi votati e testi coordinati. 88 Sempre secondo la citata disposizione costituzionale, per la validità della seduta deve comunque essere presente la maggioranza dei componenti.

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si astengono dalla votazione: alla Camera gli astenuti non vengono computati ai fini della determinazione del quorum di maggioranza, ai sensi dell’art. 48, co. 2, reg. Camera secondo il quale «Ai fini del comma 1 sono considerati presenti coloro che esprimono voto favorevole o contrario»; al Senato, invece, gli astenuti venivano computati. La conseguenza pratica era che al Senato le astensioni elevavano il quorum di maggioranza e dunque ne rendevano più difficile il raggiungimento; per evitare tale conseguenza, i senatori che intendevano astenersi abbandonavano l’aula al momento della votazione 89. Il nuovo art. 107 reg. Senato ha oggi uniformato la disciplina del computo degli astenuti, ai fini della determinazione del quorum di maggioranza, alla disciplina al riguardo stabilita dal Regolamento della Camera di cui sopra. Il co. 1 stabilisce, infatti, che «ogni deliberazione del Senato è presa a maggioranza dei senatori presenti … sono considerati presenti coloro che esprimono voto favorevole o contrario». Restano pertanto implicitamente esclusi dal calcolo del quorum di maggioranza coloro che, astenendosi, non esprimono un voto favorevole o contrario. Inoltre, il co. 2-bis, analogamente all’art. 46, co. 3, reg. Camera, specifica che, al diverso fine della verifica del numero legale, “sono considerati presenti anche i senatori che esprimono un voto di astensione”. Il progetto di legge approvato viene trasmesso dal Presidente all’altro ramo del Parlamento mediante un messaggio, un documento, cioè, che attesta solennemente che il progetto è stato approvato in quel determinato testo e la cui funzione è quella di rendere possibile il seguito del procedimento presso la seconda Camera. Qualora quest’ultima approvi il progetto senza apportarvi modifiche, la legge viene trasmessa, anche in questo caso con messaggio, dal Presidente della Camera in questione al Governo, che a sua volta la trasmette al Presidente della Repubblica per la promulgazione. Qualora, invece, la seconda Camera introduca delle modifiche, il progetto ritorna alla prima Camera e non è escluso che, in caso di ulteriori modifiche introdotte da quest’ultima, il progetto debba ancora proseguire nella sua corsa tra le due stazioni rappresentate dalla Camera e dal Senato: nella prassi, infatti, tale fenomeno si definisce non a caso con il termine navette. Tuttavia, un modesto argine al manifestarsi di tale fenomeno – modesto perché quest’ultimo dipende evidentemente da fattori politici, permanen89

La questione del computo degli astenuti non era nuova ma risaliva addirittura all’epoca dello Statuto albertino in ordine all’interpretazione da dare alla disposizione dell’art. 54 dello Statuto secondo cui «Le deliberazioni non possono essere prese se non alla maggiorità dei voti». La Corte costituzionale, con la sent. n. 78/1984, aveva giustificato i diversi meccanismi all’epoca vigenti alla Camera ed al Senato, rifacendosi al «margine piuttosto ampio» che l’art. 64 lascerebbe a ciascuna Camera per la propria attuazione.

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do i quali è difficile che la situazione si sblocchi – è posto dai regolamenti parlamentari (artt. 104 reg. Senato e 70, co. 2, reg. Camera), secondo i quali nel corso dell’esame in “seconda lettura” le deliberazioni possono riguardare soltanto le disposizioni modificate dall’altra Camera e gli emendamenti, ad esse conseguenti, che fossero eventualmente proposti; inoltre, si procede alla votazione finale ma non alla votazione degli articoli non modificati dall’altra Camera. Ulteriori emendamenti “non conseguenziali” possono comunque rendersi necessari – ed in questo caso vanno ritenuti ammissibili – in situazioni particolari. Un esempio classico in tal senso riguarda i progetti di legge che comportano oneri finanziari: qualora nelle more del loro procedimento sia stata approvata una nuova legge di bilancio che abbia mutato i termini di riferimento per la spesa, occorrerà necessariamente modificare la disposizione di copertura contenuta nel progetto di legge, malgrado essa sia già stata approvata dalle due Camere. Infine, va notato che non esiste un principio di corrispondenza procedimentale in ordine all’esame del progetto di legge da parte delle due Camere. Ciascuna di esse è libera di seguire il procedimento normale o un procedimento speciale a prescindere dalle scelte al riguardo compiute dall’altra Camera; egualmente, la Camera che riesamina in seconda lettura il progetto di legge è libera di adottare lo stesso procedimento seguito in prima lettura oppure un procedimento diverso. Il primo procedimento legislativo speciale o decentrato è quello caratterizzato dall’intervento delle commissioni in “sede legislativa o deliberante”. Tale procedimento si svolge in tutte le sue fasi all’interno della commissione competente con esclusione dell’intervento dell’Assemblea; mentre nel procedimento normale vi è una ripartizione di compiti tra la commissione (che istruisce) e l’Assemblea (che delibera), nel procedimento in questione si ha una vera e propria sostituzione integrale della commissione nei confronti dell’Assemblea. In seno alla commissione si snodano le stesse fasi in precedenza illustrate (discussione generale, discussione e votazione degli articoli, votazione finale) ed è possibile proporre gli stessi strumenti procedurali (ordini del giorno, questioni pregiudiziali e sospensive, emendamenti); inoltre, anche nei confronti delle commissioni in sede legislativa possono o, a seconda dei casi, debbono essere espressi pareri da parte delle commissioni in sede consultiva. Non è questa la sede per entrare nel dettaglio delle limitate varianti previste dai regolamenti parlamentari, talvolta in modo differenziato, per il procedimento in sede legislativa rispetto al procedimento normale 90; è necessario, invece, evidenziare quali limiti incontra 90

Una di tali varianti è, ad esempio, quella, prevista dal solo regolamento della Camera

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l’intervento delle commissioni in sede legislativa ed in quali modi tale intervento può essere attivato. Cominciando dal secondo punto, si può avere un’assegnazione iniziale di un progetto di legge alla competente commissione in sede legislativa oppure un’assegnazione successiva, a seguito della richiesta di trasferimento di sede avanzata dalla commissione alla quale il progetto di legge era stato originariamente assegnato in sede referente. Alla Camera 91 il trasferimento è deliberato dall’Assemblea, su proposta del Presidente preceduta dalla richiesta unanime dei rappresentanti dei gruppi parlamentari in commissione o di più dei quattro quinti dei componenti la commissione stessa, dall’assenso del Governo e dai pareri, effettivamente espressi, delle commissioni Affari costituzionali, Bilancio e Lavoro, nonché dei pareri “rinforzati”. Al Senato 92 il trasferimento è deciso dal Presidente senza bisogno di consultare l’Assemblea, su richiesta unanime della commissione, con l’assenso del Governo ed a condizione che le commissioni “filtro” abbiano espresso parere favorevole sul progetto di legge. Quanto ai limiti dell’intervento delle commissioni in sede legislativa, essi possono suddistinguersi in limiti di materia ed in limiti procedurali. I primi sono stati ampiamente illustrati in precedenza a proposito dell’istituto della riserva di legge d’Assemblea previsto tanto dall’art. 72, co. 4, Cost., quanto dai regolamenti parlamentari: i progetti di legge vertenti sulle materie di cui alle citate disposizioni non possono essere assegnati in sede legislativa alle commissioni, né queste ultime ne possono richiedere il trasferimento. I limiti procedurali consistono nella facoltà, attribuita dall’art. 72, co. 3, Cost., al Governo, ad un decimo dei componenti di ciascuna Camera o ad un quinto della commissione, di chiedere che un progetto di legge, assegnato alla commissione in sede legislativa o anche in sede redigente al Senato, sia trasferito alla stessa in sede referente, determinandosi in tal modo il passaggio dal procedimento speciale al procedimento normale in precedenza illustrato. La suddetta richiesta (denominata nella prassi “richiesta di rimessione all’Assemblea”) può essere avanzata in seno alla commissione fino al momento della votazione finale ed ha valore vincolante, nel senso che il Presidente del ramo del Parlamento in questione deve immedia(art. 49, co. 1-ter), secondo la quale nelle commissioni hanno luogo a scrutinio segreto soltanto le votazioni riguardanti persone. Pertanto, la votazione finale dei progetti di legge nelle commissioni in sede legislativa avviene necessariamente in modo palese. 91 Cfr. art. 92, co. 6, reg. Camera. 92 Cfr. art. 37 reg. Senato.

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tamente provvedere alla nuova assegnazione in sede referente. La rimessione all’Assemblea avviene, inoltre, del tutto automaticamente, e cioè senza bisogno di alcuna richiesta, qualora la commissione in sede legislativa non ritenga di aderire ai pareri espressi, sia sul progetto di legge che sugli emendamenti, dalle commissioni “filtro” o, soltanto alla Camera, ai pareri “rinforzati” 93. Occorre, infine, ricordare che, mentre secondo il regolamento della Camera la rimessione all’Assemblea di un progetto di legge comporta la ripresa fin dall’inizio dell’intero procedimento normale ad esso relativo, l’art. 35, co. 2, reg. Senato, ripetendo alla lettera la disposizione di cui all’art. 72, co. 3, Cost., prevede due possibilità in ordine al contenuto della richiesta di rimessione: che il progetto di legge sia discusso e votato dall’Assemblea – ed in tal caso si ha una perfetta coincidenza con la soluzione accolta dal regolamento della Camera – oppure che esso sia sottoposto all’Assemblea esclusivamente per la sua approvazione finale con sole dichiarazioni di voto. In questo secondo caso si realizza una ripartizione di competenza tra commissione ed Assemblea in ordine alla fase della decisione sul progetto di legge, spettando alla prima il potere di deliberare in via definiva sui singoli articoli ed alla seconda il potere di deliberare sul progetto nel suo complesso. Come si vedrà tra poco, tale procedimento misto coincide, almeno in parte, con il secondo procedimento speciale, quello caratterizzato dall’intervento delle commissioni “in sede redigente”. Prima di esaminare quest’ultimo procedimento speciale, va posto in luce il significato politico della richiesta di rimessione all’Assemblea. È indubbio che essa, in virtù del suo valore vincolante, costituisce una sorta di “potere di veto” attribuito dalla Costituzione a soggetti portatori d’interessi diversi nell’ambito del procedimento legislativo, quali sono da un lato il Governo e dall’altro le minoranze parlamentari (quantificate dall’art. 72 Cost. in un minimo di un decimo dei deputati o dei senatori e di un quinto dei componenti la commissione). La valenza politica del “potere di veto”, che la richiesta di rimessione all’Assemblea comporta, varia a seconda che la richiesta sia avanzata dal Governo o dalle minoranze, l’uno e le altre essendo interessati ad introdurre nel progetto di legge contenuti diversi, se non addirittura contrapposti. Quando la bilancia comincia a pendere troppo decisamente da una parte, gli scenari possibili sono due: o la minaccia della richiesta di rimessione riporta la bilancia in equilibrio, attraverso un compromesso tra le posizioni del Governo e della maggioranza che lo sostiene e le posizioni delle opposizioni, oppure, in caso contrario, 93

Cfr. artt. 40, co. 5 e 6, e 41, co. 5, reg. Senato; artt. 93, co. 3, 3-bis e 4, e 94, co. 3, reg. Camera.

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la richiesta di rimessione rappresenta l’ultimo strumento per ritardare l’approvazione del progetto. Da quanto detto, emerge che la richiesta di rimessione è uno strumento che tende a favorire la possibilità d’intese tra maggioranza e opposizione, qualora vi sia interesse ad arrivare all’approvazione del progetto di legge in sede legislativa, invece di percorrere la strada più lunga e più incerta del procedimento normale. Il secondo ed ultimo procedimento speciale è caratterizzato dall’intervento della commissione “in sede redigente”. Si tratta di un procedimento, indirettamente previsto dall’art. 72, co. 3, Cost., nel quale si realizza una ripartizione di competenza tra commissione ed Assemblea: alla prima spetta la formulazione dei singoli articoli, alla seconda la votazione degli stessi e la votazione finale con sole dichiarazioni di voto. Su questo punto fondamentale il nuovo testo dell’art. 36, co. 1, reg. Senato si è adeguato a quanto già stabilito dall’art. 96, co. 1, reg. Camera. Tuttavia, sussistono ancora importanti diversità procedurali tra la disciplina prevista dai regolamenti parlamentari, la principale delle quali è rappresentata dal fatto, già illustrato in precedenza, che mentre l’assegnazione diretta in sede redigente è il procedimento che di regola viene seguito al Senato, diversamente alla Camera, essendo l’assegnazione in sede referente il procedimento normale, l’intervento della commissione in sede redigente è per definizione successivo ed a richiesta. Per una migliore comprensione di tali diversità procedurali sembra utile partire dalla disciplina concreta dell’istituto della sede redigente. L’art. 36 reg. Senato, nei co. 1 e 3, dispone che un progetto di legge può essere assegnato ad una commissione in sede redigente per la deliberazione dei singoli articoli, riservandosi all’Assemblea la votazione finale con sole dichiarazioni di voto, secondo le stesse modalità e negli stessi limiti previsti per le assegnazioni in sede legislativa. Inoltre, il co. 2 dispone a sua volta che entro otto giorni dalla comunicazione al Senato dell’avvenuta assegnazione in sede redigente e su proposta di otto senatori, l’Assemblea può discutere ed approvare un apposito ordine del giorno contenente i criteri informatori ai quali la commissione dovrà attenersi nella formulazione del testo. I limiti di cui al co. 1 sono quelli, in precedenza illustrati, determinati dai casi di riserva di legge d’Assemblea e dalla richiesta di rimessione all’Assemblea (co. 3); è inoltre ammessa (art. 37) la possibilità del trasferimento di un progetto di legge dalla sede referente alla sede redigente, secondo la stessa disciplina prevista per il trasferimento alla sede legislativa. Alla Camera la disciplina regolamentare della sede redigente differisce da quella appena illustrata per i seguenti punti. L’assegnazione alla commissione di un progetto di legge in sede redigente non è mai un’assegnazione ini-

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ziale poiché essa presuppone comunque che sia in corso il procedimento legislativo normale. Il passaggio al procedimento in sede redigente può infatti avvenire 94: a) qualora l’Assemblea decida, prima di passare all’esame degli articoli, di deferire alla competente commissione la formulazione, entro un termine determinato, degli articoli di un progetto di legge, riservando a sé medesima l’approvazione senza dichiarazioni di voto dei singoli articoli, nonché l’approvazione finale del progetto di legge con dichiarazioni di voto; all’atto del deferimento l’Assemblea può anche stabilire, con apposito ordine del giorno presentato dalla commissione ma emendabile da parte dell’Assemblea, criteri e principi direttivi per la formulazione del testo degli articoli; b) su richiesta unanime dei rappresentanti dei gruppi in commissione o di più dei quattro quinti dei componenti la commissione medesima, accompagnata dai pareri, effettivamente espressi, delle commissioni Affari costituzionali, Bilancio e Lavoro, nonché dai pareri “rinforzati”. Qualora la commissione non si adegui ai pareri espressi dalle commissioni “filtro”, il Presidente della commissione che ha dato parere negativo lo illustra all’Assemblea e presenta un apposito ordine del giorno sul quale l’Assemblea delibera; in caso di approvazione, la commissione di merito riesamina il progetto di legge per uniformarlo al parere della commissione “filtro” e il procedimento in Assemblea ha inizio nella seduta successiva 95. Infine, l’art. 96, co. 6, esclude il ricorso alla sede redigente nei casi di riserva di legge d’Assemblea. Riassumendo, il procedimento in sede redigente alla Camera differisce rispetto a quello vigente al Senato per i seguenti aspetti principali: a) l’assegnazione del progetto di legge in sede redigente è sempre successiva e mai iniziale; b) non è previsto l’assenso del Governo per la richiesta di trasferimento in sede redigente del progetto di legge da parte della commissione che lo sta esaminando in sede referente; c) non è prevista la facoltà da parte di alcun soggetto di richiedere la rimessione in Assemblea del progetto di legge assegnato in sede redigente. Al di là dei dubbi sulla legittimità costituzionale di alcuni aspetti della disciplina camerale illustrata, quale soprattutto l’esclusione della richiesta di rimessione all’Assemblea espressamente prevista dall’art. 72, co. 3, Cost., è evidente che da essa scaturisce un procedimento macchinoso, oramai piombato in uno stato di semiabbandono e di rarissima utilizzazione. Molto meglio sarebbe, qualora lo si volesse mantenere, omologarlo in tutto e per tutto al procedimento disciplinato dal regolamento del Senato, più agile e certamente più conforme al disposto dell’art. 72 Cost. 94 95

Cfr. art. 96, co. 1 e 2, reg. Camera. Cfr. art. 96, co. 4, reg. Camera.

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L’art. 72, co. 2, Cost. prevede, infine, che i regolamenti parlamentari stabiliscano procedimenti abbreviati per i progetti di legge dei quali è dichiarata l’urgenza. Va chiarito subito che tale dichiarazione d’urgenza non ha nulla a che vedere con l’altra dichiarazione d’urgenza prevista dall’art. 73, co. 2, Cost., secondo il quale «Se le Camere, ciascuna a maggioranza assoluta dei propri componenti, ne dichiarano l’urgenza, la legge è promulgata nel termine da essa stabilito». Diverse sono, infatti, tanto le finalità quanto le modalità procedurali delle due dichiarazioni: la prima tende ad abbreviare i tempi del procedimento legislativo all’interno di una singola Camera ed è un atto monocamerale deliberato a maggioranza semplice dall’Assemblea 96; la seconda tende ad abbreviare il termine di promulgazione della legge, senza incidere sulle precedenti fasi del procedimento che si sono svolte all’interno delle due Camere, ed è un atto bicamerale che deve essere approvato a maggioranza assoluta da ciascuna Assemblea 97. L’attuazione che i regolamenti parlamentari hanno dato all’art. 72, co. 2, Cost. non suscita particolare interesse, né pone particolari problemi, poiché i procedimenti urgenti non sono stati costruiti, in sede regolamentare, come procedimenti strutturalmente diversi dai tre procedimenti previsti dall’art. 72 (sede referente, sede legislativa, sede redigente) ma soltanto come procedimenti abbreviati. I meccanismi per velocizzare i procedimenti dichiarati urgenti sono fondamentalmente basati sulla riduzione dei termini previsti dai regolamenti – ad esempio, sono ridotti alla metà i termini per l’esame in sede referente e per l’espressione dei pareri e sono previste specifiche ed articolate riduzioni per i progetti di legge già esaminati nella precedente legislatura – ma, qualora manchi l’accordo tra i gruppi parlamentari, raramente risultano efficaci. Poiché l’argomento è, dal punto di vista scientifico, tra i meno esaltanti, sembra consentito rinviare alle disposizioni dei regolamenti parlamentari che lo disciplinano.

96 L’art. 69, co. 2, reg. Camera prevede, invece, che la dichiarazione d’urgenza possa essere adottata dalla Conferenza dei presidenti di Gruppo con il consenso dei presidenti di Gruppi la cui consistenza numerica sia complessivamente pari almeno ai tre quarti dei componenti la Camera. Qualora non si raggiunga tale maggioranza, sulla richiesta di dichiarazione d’urgenza delibera l’Assemblea. 97 Il regolamento della Camera non disciplina la dichiarazione d’urgenza di cui all’art. 73, co. 2, Cost. L’art. 82 reg. Senato stabilisce, invece, che l’Assemblea deve votare prima la proposta relativa alla dichiarazione d’urgenza e successivamente, qualora tale proposta sia stata approvata a maggioranza assoluta, la disposizione della legge che stabilisce il termine di promulgazione. Se viene dichiarata l’urgenza, il Presidente del Senato ne fa espressa menzione nel messaggio alla Camera o al Governo.

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7. Le caratteristiche che contraddistinguono il procedimento legislativo tipico. La facoltà, attribuita dalla Costituzione ai regolamenti parlamentari, di stabilire, nel rispetto delle suddette caratteristiche, varianti procedimentali per la discussione e l’approvazione di determinate leggi: a) le leggi di conversione dei decreti-legge; b) le leggi rinviate alle Camere dal Presidente della Repubblica; c) la legge di approvazione del bilancio dello Stato; d) la legge di delegazione europea È ormai possibile, sulla base di quanto finora illustrato, individuare le caratteristiche che contraddistinguono il procedimento legislativo “tipico” che si svolge all’interno di ciascuna Camera. Tali caratteristiche si desumono in modo diretto dall’art. 72 Cost. ed in modo indiretto dall’art. 64 Cost. Secondo l’art. 72, che si riferisce in modo esclusivo al procedimento legislativo, vi deve essere: a) la presentazione di un progetto di legge; b) l’intervento di una commissione nell’esercizio di una delle competenze (referente, legislativa, redigente) in precedenza illustrate; c) la discussione del progetto di legge in commissione o in Assemblea; d) la votazione articolo per articolo; e) la votazione finale del progetto di legge nel suo complesso. Secondo l’art. 64, co. 3, che si riferisce a tutte le deliberazioni che ciascuna Camera può assumere e dunque soltanto indirettamente alle votazioni riguardanti il contenuto di un progetto di legge, tali deliberazioni non sono valide se non è presente la maggioranza dei componenti di ciascuna Camera e se non sono adottate a maggioranza dei presenti, salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale. Nel rispetto delle suddette caratteristiche, l’art. 72 attribuisce e riserva nel modo più pieno ai regolamenti parlamentari il compito di fissare le ulteriori modalità di svolgimento del procedimento legislativo, come si desume dall’espressione rinvenibile nel co. 1 della suddetta disposizione costituzionale secondo cui «Ogni disegno di legge, presentato ad una Camera è, secondo le norme del suo regolamento …». Tale espressione non soltanto rafforza la riserva di regolamento parlamentare in via generale stabilita dall’art. 64, co. 1, ma specifica anche gli spazi d’intervento dei regolamenti parlamentari nella disciplina del procedimento legislativo, spazi che incontrano il solo limite del rispetto delle norme fissate dalla Costituzione, direttamente dallo stesso art. 72 ed indirettamente dall’art. 64. Nulla impedisce, pertanto, che i regolamenti parlamentari, oltre alla normativa esaminata nei paragrafi precedenti ed applicabile in via di principio alla discussione di qualsiasi progetto di legge, stabiliscano norme particolari per la discussione di determinati e specifici progetti di legge. In tali

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casi non si è di fronte a procedimenti “atipici” e, in caso di approvazione dei progetti di legge in questione, a leggi “atipiche”, poiché le varianti procedimentali stabilite dai regolamenti parlamentari sono tali soltanto nei confronti della disciplina da essi stessi stabilita in via generale e non anche nei confronti delle caratteristiche del procedimento legislativo tipico, stabilite dalla Costituzione. Inoltre, qualora si volesse successivamente abrogare la legge approvata nel modo illustrato, non vi sarebbe alcun obbligo giuridico di approvare la legge abrogante secondo le stesse modalità procedurali seguite per l’approvazione della legge abroganda, dal momento che, come già visto in precedenza, il mancato rispetto della norma regolamentare non determina l’illegittimità della legge così approvata. Infine, per questo stesso motivo, non si può neanche affermare che, per la disciplina di determinate materie, sussiste una riserva di competenza in favore di leggi approvate secondo determinate modalità procedurali. Vengono pertanto a mancare i tre elementi che sembrano caratterizzare il concetto di fonte “atipica”: la presenza di una variante, interna o esterna, del procedimento tipico; una variazione, in più o in meno, della forza attiva o passiva di tale fonte; una competenza non più tendenzialmente generale ma “specializzata”. I regolamenti parlamentari prevedono variazioni procedimentali nei confronti dei disegni di legge di conversione dei decreti-legge, delle leggi rinviate alle Camere per una nuova deliberazione dal Presidente della Repubblica, del disegno di legge di approvazione del bilancio dello Stato, del disegno di legge di delegazione europea. a) L’art. 77, co. 2, Cost. prescrive che il Governo, una volta adottato un decreto-legge, deve il giorno stesso presentarlo per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni. In realtà, poiché la presentazione del decreto-legge alle Camere tende al raggiungimento del fine della sua conversione in legge, l’atto che il Governo presenta non è il decreto-legge in quanto tale bensì un disegno di legge, redatto in un articolo unico che dispone la conversione, al quale viene allegato il testo del decreto-legge. Sul necessario ricorso al procedimento legislativo cosiddetto “normale” con termini abbreviati si rinvia a quanto già detto in precedenza. L’art. 96-bis reg. Camera, che prevedeva una procedura analoga a quella di cui al vecchio testo dell’art. 78 reg. Senato, sia pure con riferimento ai soli presupposti della necessità ed urgenza, è stato modificato nel 1997 mediante la sostituzione della suddetta procedura con la facoltà, attribuita ad un Presidente di Gruppo o a venti deputati, di presentare una questione pregiudiziale, riferita al contenuto del disegno di legge di conversione o

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del relativo decreto-legge, che deve essere votata dall’Assemblea. La modifica introdotta all’art. 96-bis dipende dalla scarsa efficacia del meccanismo di controllo originariamente previsto da tale disposizione e dall’art. 78 reg. Senato, poiché molto spesso Camera e Senato hanno adottato decisioni squisitamente politiche di sostegno tattico delle scelte governative in ipotesi nelle quali i «casi straordinari di necessità ed urgenza» erano una pia illusione. Né tali risultati destano alcuna sorpresa se si tiene conto del fatto che il controllo sulla decisione del Governo di adottare un determinato decreto-legge è in definitiva attribuita alla stessa maggioranza parlamentare che appoggia quel Governo. Perciò, quel controllo, che avrebbe dovuto funzionare come un controllo di legittimità, si è risolto di fatto in un controllo soltanto politico, tanto più frequentemente quanto più saldo è stato il rapporto che ha legato ciascun Governo alla propria maggioranza parlamentare. Una differenza procedimentale, rispetto al Senato, è stabilita dall’art. 96-bis reg. Camera secondo il quale i disegni di legge di conversione sono altresì assegnati al Comitato per la legislazione di cui all’art. 16-bis (organo non previsto dal regolamento del Senato), che, nel termine di cinque giorni, esprime parere alle commissioni competenti, anche proponendo la soppressione delle disposizioni del decreto-legge che contrastino con le regole sulla specificità e omogeneità e sui limiti di contenuto dei decretilegge, previste dalla vigente legislazione. Il nuovo testo dell’art. 78 reg. Senato, adeguandosi nella sostanza a quanto già previsto dall’art. 96-bis reg. Camera, stabilisce che il disegno di legge di conversione è assegnato alla commissione competente lo stesso giorno della presentazione o della trasmissione. Il Presidente, all’atto del deferimento, apprezzate le circostanze, fissa i termini relativi all’esame del disegno di legge stesso. Entro cinque giorni dall’annuncio all’Assemblea della presentazione o della trasmissione al Senato del disegno di legge di conversione, un Presidente di Gruppo o dieci Senatori possono presentare in Assemblea una proposta di questione pregiudiziale ad esso riferita. A differenza di quanto previsto dal citato art. 96-bis reg. Camera, che ammette soltanto proposte di questioni pregiudiziali, il Presidente del Senato può ammettere la presentazione anche di proposte di questione sospensiva, ove ritenute compatibili con i termini di conversione del decreto-legge. L’Assemblea si pronunzia con votazione nominale sul complesso delle questioni pregiudiziali o sospensive presentate. Poiché il disegno di legge di conversione consta di un articolo unico, nei suoi confronti è prevista soltanto la votazione finale. Tuttavia, prima di quest’ultima sono votati gli eventuali emendamenti proposti agli articoli

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del decreto-legge allegato; emendamenti che, a pena d’inammissibilità dichiarata dal Presidente, devono essere strettamente attinenti alla materia del decreto-legge, così come stabilito dall’art. 96-bis reg. Camera, con specifico riferimento ai disegni di legge di conversione, e, più in generale, dall’art. 97 reg. Senato. Ai sensi dei co. 5 e 6 dell’art. 15 della L. n. 400/1988, le modifiche eventualmente apportate al decreto-legge in sede di conversione hanno efficacia dal giorno successivo a quello della pubblicazione della legge di conversione, salvo che quest’ultima non disponga diversamente. Esse sono elencate in allegato alla legge. Il Ministro della giustizia cura che del rifiuto di conversione o della conversione parziale, purché definitiva, nonché della mancata conversione per decorrenza del termine, sia data immediata pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. b) Passando ad esaminare la fase del riesame parlamentare della legge rinviata dal Presidente della Repubblica, occorre innanzi tutto osservare che la nuova deliberazione non costituisce per esse un obbligo bensì un semplice onere. Tale soluzione, che ha trovato conferma nella prassi parlamentare, deriva dalla circostanza secondo cui le Camere si pongono nei confronti della legge rinviata esattamente come si pongono nei confronti di qualsiasi altro progetto di legge: così come in questo secondo caso ciascuna Camera è libera di approvare o respingere il progetto di legge, ovvero di non deliberare su di esso, altrettanto può avvenire nel primo caso. A riprova di ciò sta il fatto che l’art. 71, co. 2, reg. Camera e l’art. 136, co. 2, reg. Senato stabiliscono che il riesame delle leggi rinviate dal Presidente della Repubblica debba avvenire ab initio con il procedimento legislativo normale (riserva di “legge di Assemblea”), nell’ambito del quale nessuna limitazione specifica viene posta alle Camere. In particolare, la norma, contenuta in ambedue le citate disposizioni, secondo cui la Camera o il Senato possono e non debbono «limitare la discussione alle parti che formano oggetto del messaggio», diversamente da quanto stabilito dagli artt. 70, co. 2, reg. Camera e 104 reg. Senato per il riesame di progetti di legge approvati da una Camera e modificati dall’altra, consente, com’è anche confermato da una prassi costante, la presentazione e l’eventuale approvazione di emendamenti non necessariamente collegati alle modifiche suggerite dal Presidente della Repubblica. Nel caso d’introduzione nel testo della legge di disposizioni nuove rispetto a quelle contenute nel testo originariamente approvato è da ritenere che il Presidente della Repubblica non sia obbligato a promulgare la legge ma possa rinviarla nuovamente alle Camere. c) Prima di esaminare le varianti procedimentali relative alla legge di bi-

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lancio, occorre ricordare che l’art. 81 Cost. è stato oggetto di una significativa revisione costituzionale ad opera della L. cost. 20 aprile 2012, n. 1. Nella sua formulazione originaria, infatti, l’art. 81 Cost. si limitava a stabilire che le Camere approvano ogni anno i bilanci ed il rendiconto consuntivo presentati dal Governo; che l’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi; che con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese e che ogni altra legge che comportasse nuove o maggiori spese avrebbe dovuto indicare i mezzi per farvi fronte. Inoltre, la legislazione di contabilità pubblica aveva istituito la “legge finanziaria”, successivamente denominata “legge di stabilità”, per superare il divieto, posto dal citato art. 81, co. 3, alla legge di bilancio, di modificare la legislazione di entrata e di spesa: la legge di bilancio, per tale motivo, veniva definita in dottrina come una legge meramente formale. La riforma costituzionale del 2012 è stata adottata per rendere più aderente la manovra di bilancio ai nuovi vincoli europei sottoscritti nel 2012 tramite il c.d. Fiscal Compact e per imporre il controllo del debito sovrano di alcuni Paesi europei trai quali figurava e figura anche l’Italia. La grave crisi finanziaria che ha investito, verso la fine del primo decennio del nuovo millennio, le economie di alcuni Stati membri, ha messo discussione la sostenibilità dei loro debiti pubblici. Tale emergenza finanziaria ha indotto diversi paesi europei alla formalizzazione a livello costituzionale del principio del pareggio di bilancio e ad un maggior rigore nelle procedure di spesa pubblica. Per quanto riguarda l’esperienza italiana, la nuova disciplina costituzionale ha così previsto all’art. 81, co. 1, Cost., che lo Stato assicuri l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico mentre l’art. 81, co. 2, consente il ricorso all’indebitamento finanziario al solo fine di considerare gli effetti del ciclo economico. Resta sostanzialmente immutata la disciplina costituzionale che impone a ciascuna legge, dalla quale derivino nuovi o maggiori oneri, di provvedere ai mezzi per farvi fronte (art. 81, co. 3); quella che prevede l’obbligo in capo alle Camere di approvare con legge il bilancio ed il rendiconto consuntivo (art. 81, co. 4) nonché quella relativa all’esercizio provvisorio del bilancio (art. 81, co. 5). Da segnalare invece l’art. 81, ult. co., il quale prevede che il «contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali ed i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei principi definiti con legge costituzionale».

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La legge di bilancio rappresenta uno dei momenti della più complessiva manovra di bilancio. L’insieme delle regole sulla contabilità pubblica, più in generale, ha conosciuto nel tempo numerose modifiche legislative che ne hanno, di volta in volta, ridisegnato la fisionomia, sino a giungere all’attuale assetto che scandisce il complessivo ciclo di bilancio in una serie di passaggi procedimentali i quali, in una prospettiva di programmazione pluriennale, sono proiettati al rispetto degli obiettivi di stabilità economicofinanziaria fissati a livello europeo, tenendo conto del contesto macroeconomico e dell’andamento del ciclo economico. La manovra di bilancio si avvia con l’approvazione del Documento di economia e finanza (DEF), da presentare alle Camere entro il 10 aprile di ogni anno, per giungere alla nota di aggiornamento da presentare entro il 20 settembre di ogni anno e quindi alla presentazione del disegno di legge del bilancio di previsione dello Stato entro il 20 ottobre di ogni anno. Il bilancio dello Stato, predisposto su base annuale e pluriennale, sia in termini di competenza che di cassa, rappresenta quindi il principale documento contabile per la gestione delle risorse finanziarie dello Stato. Inoltre, con la legge di bilancio il Parlamento autorizza il Governo a prelevare ed utilizzare le risorse pubbliche necessarie per l’esecuzione delle politiche pubbliche e delle attività amministrative dello Stato. A partire dalla legge di bilancio per il triennio 2017-2019, tale legge assume natura di legge sostanziale, essendo stato rimosso il divieto (“Con legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese”) che figurava nella vecchia formulazione dell’art. 81, co. 3, Cost. Per tale motivo oggi non sussiste più la necessità di preventive leggi sostanziali di spesa e di entrata (denominate prima “legge finanziaria” e poi “legge di stabilità”), in passato giustificate dal carattere puramente formale che la legge di bilancio aveva ai sensi del citato co. 3. d) Prima d’illustrare il contenuto della “legge di delegazione europea”, alla luce delle evoluzioni normative e delle variazioni al suo procedimento di formazione stabilite dai regolamenti parlamentari, occorre brevemente ricordare che l’Unione europea, della quale l’Italia è membro, emana norme direttamente obbligatorie nei singoli Stati membri. Quando queste ultime vengono adottate con lo strumento del “regolamento”, esse si applicano automaticamente negli Stati membri; quando, invece, sono adottate con lo strumento della “direttiva”, la loro applicazione è condizionata all’attuazione che ciascuno Stato membro è tenuto ad assicurare nel proprio ambito interno. In questo secondo caso, le direttive non contengono vere e proprie norme ma tendono piuttosto a vincolare gli Stati membri nel “ri-

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sultato” da raggiungere, lasciandoli liberi di adottare le misure di attuazione più consone all’ordinamento giuridico di ciascuno Stato membro. Del diritto dell’Unione europea fanno altresì parte le cosiddette “direttive dettagliate”, da ritenersi auto-applicative, e dunque assimilabili per quest’aspetto ai regolamenti, in ragione del loro contenuto estremamente preciso e quando risulti scaduto il termine per il loro recepimento da parte degli Stati membri. Dei regolamenti e delle direttive dettagliate si parlerà più avanti nel capitolo X, dedicato ai problemi sollevati nell’ordinamento italiano dalle fonti dell’Unione europea direttamente applicabili. La “legge di delegazione europea”, a dispetto di tale definizione, non è una fonte appartenente all’ordinamento dell’Unione europea ma una legge dello Stato italiano, istituita dalla L. 9 marzo 1989, n. 86, originariamente definita “legge comunitaria”, meglio nota come “legge La Pergola”, dal nome dell’allora Ministro per il Coordinamento delle Politiche Comunitarie. Tale legge, modificata prima dalla L. 4 febbraio 2015, n. 11 e da ultimo dalla L. 24 dicembre 2012, n. 234 dà, con cadenza annuale, attuazione alle direttive. Prima dell’ultima modifica normativa, siffatta attuazione avveniva con vari strumenti normativi: normazione diretta, delega legislativa, delegificazione, attuazione in via amministrativa e, nelle materie di competenza regionale, indicazione delle disposizioni di principio non derogabili da parte delle leggi delle Regioni ad autonomia ordinaria. La caratteristica principale di tale legge era senza dubbio – e rimane tutt’oggi – quella della sua annualità: ogni anno il Governo, dopo avere effettuato una ricognizione della normativa non auto-applicabile e non ancora attuata, presentava alle Camere il disegno di legge di delegazione europea. Tuttavia, la mancanza di un obbligo giuridicamente sanzionato in ordine all’approvazione della legge entro la fine dell’anno e l’assenza in sede parlamentare di una sessione analoga a quella prevista per l’esame della manovra finanziaria, hanno fortemente ridotto la capacità di tale legge di dare un’attuazione tempestiva e coordinata alle direttive. Al fine di accelerare i tempi di approvazione, dunque, la L. 24 dicembre 2012, n. 234 ha introdotto significative novità sia in merito agli strumenti di adeguamento agli obblighi europei, sia per rafforzare la partecipazione dei parlamenti nazionali nella fase ascendente del diritto dell’Unione. In primo luogo, la novella legislativa del 2012 ha previsto uno sdoppiamento della legge comunitaria, obbligando il Governo, entro il 28 febbraio di ogni anno, a presentare il disegno di legge di delegazione europea, volto a garantire una tempestiva attuazione alle sole direttive e decisioni quadro da recepire a livello nazionale e, se necessario, il disegno di legge europea, per dare attuazione a tutte le altre fonti dell’Unione europea non diretta-

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mente applicabili e per disporre l’abrogazione o la modifica delle disposizioni statali in contrasto con gli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea (art. 30, L. 24 dicembre 2012, n. 234). Entro il 31 luglio di ogni anno, il Governo può poi presentare, se opportuno, un secondo disegno di legge di delegazione europea e/o singoli disegni di legge per il recepimento di atti di particolare importanza politica, economica e sociale. Quanto al secondo aspetto, la novella legislativa ha fortemente incrementato la partecipazione delle Camere e delle autonomie locali nella fase di formazione delle norme europee, introducendo numerosi e più stringenti obblighi informativi a carico del Governo (artt. 4-9, L. 24 dicembre 2012, n. 234). Particolare rilievo assume poi la novità introdotta con riguardo alla c.d. riserva di esame parlamentare, attivata su richiesta delle Camere o del Governo stesso. Ciascuna Camera può infatti chiedere al Governo di apporre in sede europea la riserva di esame parlamentare sul progetto dell’atto in discussione in sede europea, al fine di sospendere la partecipazione governativa alla formazione dell’atto, in attesa della decisione parlamentare. Oppure è il Governo stesso che, in casi di particolare importanza politica, economica e sociale, può apporre di propria iniziativa la riserva di esame parlamentare. In entrambi i casi, però, per evitare l’eventuale paralisi del procedimento, decorsi trenta giorni dalla comunicazione alle Camere della apposizione della riserva, il Governo può riprendere la sua azione in sede europea (art. 10, L. 24 dicembre 2012, n. 234). Anche i regolamenti parlamentari prevedono speciali procedure di collegamento con l’attività di organismi europei ed internazionali per consentire un’incisiva partecipazione delle Camere nella fase ascendente del diritto dell’Unione europea. A tal fine, oltre alle commissioni di merito che intervengono limitatamente alle materie di propria competenza, sono state appositamente istituite, presso Camera e Senato, le commissioni, ormai divenute permanenti 98, “Politiche dell’Unione europea”. Le commissioni “Politiche dell’Unione europea” hanno competenza generale sugli aspetti ordinamentali dell’attività e dei provvedimenti dell’Unione europea e dell’attuazione degli accordi europei ed esercitano, entro tale ambito materiale, funzioni consultive, conoscitive e legislative. La funzione legislativa esercitata dalle commissioni “Politiche dell’Unione europea”, coadiuvate dalle commissioni competenti per materia, è di fatto circoscritta all’esame della legge di delegazione europea e della legge 98

Cfr. artt. 126 reg. Camera e 23, 144 reg. Senato.

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europea. L’esame di tali leggi e della relazione annuale sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea si svolge nei due rami del Parlamento secondo un analogo procedimento speciale (art. 126-ter reg. Camera; art. 144-bis reg. Senato). Il disegno di legge di delegazione europea e quello della legge europea sono assegnati in sede referente alla commissione “Politiche dell’Unione europea” e, per l’esame delle parti di rispettiva competenza, alle commissioni competenti per materia. Queste ultime, entro quindici giorni dall’assegnazione, concludono il proprio esame approvando una relazione e nominando un relatore che riferisce su di essa alla commissione “Politiche dell’Unione europea”. Entrambi i regolamenti parlamentari prevedono l’inammissibilità degli emendamenti e degli articoli aggiuntivi, eventualmente introdotti dalle commissioni, che riguardino materie estranee all’oggetto proprio della legge di delegazione europea, come definito dalla legislazione vigente. Tuttavia, mentre alla Camera gli emendamenti che ciascuna commissione può approvare relativamente alle materie di propria competenza si ritengono accolti dalla commissione “Politiche dell’Unione europea” salvo che questa non li respinga per motivi di incompatibilità con la normativa europea o per esigenze di coordinamento generale, al Senato non è previsto che le commissioni di merito possano approvare emendamenti. Decorsi quindici giorni dall’assegnazione alle commissioni competenti per materia, la commissione “Politiche dell’Unione europea”, alla quale vengono trasmesse le relazioni approvate dalle suddette commissioni e le eventuali relazioni di minoranza, nei successivi trenta giorni conclude l’esame del disegno di legge, predisponendo una relazione generale per l’Assemblea, alla quale sono allegate le relazioni di maggioranza delle altre commissioni. Al Senato, il Presidente dell’Assemblea può dichiarare inammissibili, oltre agli emendamenti estranei all’oggetto della legge di delegazione, anche disposizioni del testo proposto dalla commissione all’Assemblea. Inoltre, mentre alla Camera non è prevista alcuna limitazione in ordine alla possibilità di presentare emendamenti in Assemblea, al Senato è consentito ripresentare in Assemblea soltanto gli emendamenti respinti dalla commissione “Politiche dell’Unione europea”. La successiva fase in Assemblea, ove la discussione sulle linee generali del disegno di legge di delegazione avviene congiuntamente con l’esame della relazione annuale sulla partecipazione dell’Italia all’Unione europea, si svolge senza ulteriori variazioni rispetto al procedimento “normale”.

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8. Il procedimento di formazione delle leggi costituzionali L’art. 138 Cost. stabilisce che «Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera. Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi. Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti». La mancata previsione nell’art. 138 Cost. di disposizioni relative al procedimento da seguirsi nell’ambito delle due deliberazioni da parte di ciascuna Camera sta a significare che, in via di principio, il procedimento di formazione delle leggi costituzionali segue la disciplina prevista dalla Costituzione e dai regolamenti parlamentari per il procedimento di formazione delle leggi ordinarie. Tale conclusione è del resto esplicitamente confermata dai regolamenti parlamentari: una prima volta quando gli artt. 97, co. 1, reg. Camera e 121, co. 1, reg. Senato stabiliscono che in prima deliberazione si applicano le procedure stabilite per i progetti di legge ordinaria; una seconda volta quando gli artt. 99 reg. Camera e 123 reg. Senato si limitano a stabilire quali delle disposizioni previste per il procedimento legislativo ordinario non siano applicabili in seconda deliberazione. L’analisi del procedimento di formazione delle leggi costituzionali può perciò limitarsi all’esame delle differenze, positivamente previste o implicitamente ricavabili, che intercorrono tra esso ed il procedimento legislativo ordinario. Per quanto attiene all’iniziativa delle leggi costituzionali, la tesi che essa spetti a tutti i soggetti titolari dell’iniziativa legislativa ordinaria, con le stesse modalità e con gli stessi limiti eventualmente previsti per quest’ultima, si ricava sia dalla terminologia usata in Costituzione che, riferendosi alle “leggi” senza ulteriori specificazioni, non esclude le “leggi” costituzionali; sia dai lavori preparatori, poiché nella redazione definitiva dell’art. 138 non compare una disposizione, inizialmente contenuta nell’art. 130 del progetto di Costituzione, secondo cui l’iniziativa delle leggi di revisione costituzionale sarebbe spettata soltanto al Governo ed alle Camere. Sul punto occorre soltanto ricordare che la L. 30 dicembre 1986, n. 936, recante «Norme sul Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavo-

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ro», ha abrogato l’art. 10, co. 2, della precedente L. 5 gennaio 1957, n. 3, secondo il quale «l’iniziativa legislativa del Consiglio non può essere esercitata per le leggi costituzionali, né per le leggi tributarie, di bilancio, di delegazione legislativa, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali». Attualmente, quindi, il CNEL ha la piena titolarità del potere d’iniziativa, sia nei confronti delle leggi ordinarie che delle leggi costituzionali, fatti salvi i limiti derivanti dai casi di iniziative legislative “riservate” ad altri soggetti. La fase della prima deliberazione da parte di ciascuna Camera non pone problemi particolari poiché si applicano tutte le norme che disciplinano il procedimento legislativo ordinario, ivi compresa quella ricavabile dall’art. 72, co. 4, Cost. relativa all’obbligo di seguire la procedura normale di esame e di approvazione (quella, cioè, caratterizzata dall’intervento della commissione in sede referente). In particolare, è da ammettere la possibilità di deliberare la dichiarazione d’urgenza di una legge costituzionale, tanto nella veste prevista dall’art. 73, co. 2, Cost. ai fini della riduzione del termine di promulgazione (deliberazione a maggioranza assoluta da parte di ciascuna Camera ed indicazione nel testo della legge del ridotto termine di promulgazione), quanto nella veste disciplinata dal regolamento del Senato ai fini della riduzione dei termini per la presentazione della relazione da parte della commissione in sede referente e per l’espressione dei pareri vincolanti da parte di altre commissioni (deliberazione a maggioranza semplice da parte dell’Assemblea). L’art. 69, co. 3, reg. Camera, invece, vieta la dichiarazione d’urgenza dei progetti di legge costituzionale e dei progetti di legge riguardanti questioni di eccezionale rilevanza politica, sociale o economica riferite ai diritti previsti dalla prima parte della Costituzione. Occorre precisare che la dichiarazione d’urgenza adottata in prima deliberazione non deve essere necessariamente rinnovata in seconda deliberazione poiché l’art. 138 Cost. prevede una doppia deliberazione da parte di ciascuna Camera sul progetto di legge costituzionale e non anche sulle forme che può assumere il procedimento di formazione di quest’ultimo. Una differenza sussiste, comunque, tra le due specie di dichiarazioni d’urgenza. Mentre quella prevista dall’art. 73, co. 2, Cost., è un atto delle due Camere destinato a valere verso l’esterno nei confronti del Presidente della Repubblica, la seconda specie di dichiarazione d’urgenza, risolvendosi in un atto destinato ad avere effetti soltanto all’interno della singola Camera che l’ha deliberato, vale esclusivamente per la fase alla quale si riferisce e non esplica alcun effetto, qualora non venga rinnovata, sulla fase successiva. La formula usata nell’art. 138 Cost., relativamente all’intervallo non mi-

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nore di tre mesi che deve intercorrere tre la prima e la seconda deliberazione, viene interpretata dagli artt. 97 reg. Camera e 121 reg. Senato in applicazione del principio della “alternatività” delle deliberazioni di ciascuna Camera e dunque abbandonando l’opposto principio, in precedenza seguito, della “consecutività” delle citate deliberazioni. Tale interpretazione è preferibile non soltanto perché più conforme dell’altra al principio della parità dei due rami del Parlamento, in base al quale sembra più corretto che una Camera non proceda alla seconda deliberazione senza che si conosca l’orientamento dell’altra, ma anche perché consente di evitare taluni rilevanti inconvenienti propri della tesi della consecutività. Innanzitutto, il raddoppio del termine di tre mesi che, oltre a diluire eccessivamente nel tempo l’approvazione delle leggi costituzionali, contrasterebbe con i lavori preparatori, nel corso dei quali si ridusse l’originario termine di sei mesi perché ritenuto troppo lungo. In secondo luogo, nell’ipotesi in cui la seconda Camera respinga in prima deliberazione il testo approvato con duplice deliberazione dall’altra Camera (ipotesi possibile qualora si applichi il principio della consecutività), si avrebbe non soltanto uno spreco di tempo del tutto ingiustificato – poiché la Camera intervenuta per prima avrebbe inutilmente atteso tre mesi per procedere alla propria seconda deliberazione – ma anche l’anomala conseguenza per cui il mancato raggiungimento della maggioranza semplice nel corso della prima deliberazione della Camera intervenuta per seconda priverebbe di effetti due deliberazioni, di cui una a maggioranza qualificata, della Camera intervenuta per prima. Il termine dal quale comincia a decorrere l’intervallo di tre mesi per ciascuna Camera è quello della prima deliberazione definitiva della singola Camera. Questo vuol dire che, qualora vi siano più d’una “prima” deliberazione a causa della introduzione di emendamenti da parte della Camera intervenuta per seconda, il termine iniziale per ciascuna Camera decorre dal momento della propria “ultima”, e perciò definitiva, deliberazione. Diversamente, a ritenere che il termine a quo decorra comunque dalla deliberazione iniziale, senza tenere conto delle altre eventualmente intervenute, ne conseguirebbe la violazione dell’obbligo dell’intervallo di tre mesi per quelle disposizioni non approvate nella deliberazione iniziale ma introdotte successivamente a seguito di emendamenti. La seconda deliberazione ha una fisionomia diversa da quella della prima poiché essa non è la sede per valutazioni sulle singole disposizioni del progetto di legge costituzionale, ma ha la funzione di assicurare la necessaria ponderatezza all’approvazione di un atto di estremo rilievo, qual è sempre qualsiasi legge costituzionale, e contemporaneamente di verificare,

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a distanza di tempo dalla prima deliberazione, che la maggioranza allora formatasi non era occasionale. Conseguenza di tale fisionomia particolare sono le norme, ricavabili dagli artt. 99 reg. Camera e 123 reg. Senato, che limitano il compito della commissione competente al riesame del progetto soltanto nel suo complesso; che escludono, nella successiva fase dell’esame in Assemblea, l’ammissibilità di emendamenti, ordini del giorno e richieste di stralcio di una o più norme; che, sempre in relazione a tale fase, stabiliscono che, dopo la discussione sulle linee generali, si passa direttamente alla votazione finale del progetto di legge senza procedere alla discussione ed alla votazione degli articoli. Ad una ratio diversa si ispira invece il divieto, contenuto anch’esso nelle citate disposizioni regolamentari, di proporre la questione pregiudiziale o quella sospensiva: esso, infatti, tende ad impedire l’uso di strumenti procedurali in grado di ritardare la conclusione del già di per sé lungo e complesso procedimento di formazione delle leggi costituzionali. Il raggiungimento in seconda deliberazione della maggioranza dei due terzi dei componenti, di cui il Presidente della Camera o del Senato deve fare espressa menzione nel messaggio all’altra Camera o al Governo, determina l’approvazione della legge costituzionale ed esclude la possibilità di richiedere l’indizione del referendum popolare. La legge così approvata viene quindi promulgata dal Presidente della Repubblica e successivamente pubblicata. Nel caso di approvazione a maggioranza assoluta, invece, la legge costituzionale non viene promulgata, bensì direttamente pubblicata ai fini della decorrenza del termine di tre mesi entro il quale può essere richiesta l’indizione del referendum da parte di un quinto dei membri di ciascuna Camera, di cinquecentomila elettori o di cinque Consigli regionali. La promulgazione seguirà soltanto qualora l’esito del referendum sia stato favorevole all’approvazione, ovvero il citato termine di tre mesi sia decorso inutilmente.

9. Il procedimento di formazione della legge di concessione dell’amnistia e dell’indulto La nuova disciplina per l’approvazione della legge di concessione dell’amnistia e dell’indulto, di cui all’art. 79 Cost., è già stata illustrata in precedenza 99, nelle sue grandi linee, a proposito delle leggi per le quali deve intendersi obbligatorio il ricorso al procedimento legislativo cosiddetto or99

Cfr. questo stesso capitolo, par. 5.

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dinario. In questa sede è pertanto sufficiente soffermarsi su alcuni problemi di tipo squisitamente procedurale, problemi che sorgono dal fatto che, per la prima volta nella discussione di un progetto di legge, sia ordinario sia costituzionale, viene stabilito che ciascuno dei singoli articoli del quale esso si compone debba essere approvato non a maggioranza semplice bensì a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera. A fronte di ciò, quali maggioranze debbono raggiungersi per l’approvazione di emendamenti ad un articolo? La risposta non può essere unica poiché occorre distinguere a seconda dei diversi tipi di emendamenti. Per quanto riguarda gli emendamenti modificativi di un articolo, la prassi è che si svolgano prima le votazioni dei singoli emendamenti e successivamente la votazione dell’articolo nel suo complesso, nel testo risultante a seguito degli emendamenti approvati. Essendovi votazioni distinte, rispettivamente per i singoli emendamenti e per l’articolo nel suo complesso, non vi è la necessità di maggioranze particolari per l’approvazione degli emendamenti: questi dovranno essere approvati a maggioranza semplice, mentre l’articolo nel suo complesso dovrà essere approvato con la maggioranza dei due terzi dei componenti. Per quanto riguarda gli emendamenti interamente sostitutivi di un articolo non vi sono, invece, due votazioni, come avveniva nel caso precedente, poiché l’approvazione dell’emendamento equivale all’approvazione dell’articolo. Per tale motivo, alla votazione dell’emendamento si dovranno necessariamente applicare i principi fissati dall’art. 79 Cost. per la votazione degli articoli; in altre parole, un emendamento interamente sostitutivo di un articolo dovrà essere approvato a maggioranza dei due terzi dei componenti. La medesima soluzione vale anche, per identiche ragioni, tanto per gli emendamenti che propongono di aggiungere nel progetto di legge nuovi articoli, quanto per gli emendamenti che propongono la soppressione di uno o più articoli dello stesso. Se i motivi della soluzione proposta per il primo tipo di emendamenti dovrebbero essere sufficientemente chiari (l’approvazione di un emendamento che propone di aggiungere un nuovo articolo equivale all’approvazione dell’articolo stesso), qualche chiarimento ulteriore va dato in ordine al secondo tipo di emendamenti poiché bisogna distinguere tra il caso in cui ad un articolo sia stato presentato un solo emendamento soppressivo ed il caso in cui ad uno stesso articolo siano stati presentati anche altri emendamenti, oltre a quello soppressivo. Quando viene presentato un solo emendamento soppressivo di un articolo, i regolamenti parlamentari, come già visto in precedenza, prescrivono di porre in votazione non l’emendamento soppressivo bensì il manteni-

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mento dell’articolo 100, con la conseguenza che l’approvazione della proposta posta in votazione determina da un lato la reiezione dell’emendamento e dall’altro l’approvazione dell’articolo. Ed allora, anche il mantenimento dell’articolo, equivalendo ad approvazione dell’articolo stesso, dovrà, ai sensi dell’art. 79 Cost., essere approvato con la maggioranza dei due terzi dei componenti. Qualora, invece, siano stati presentati più emendamenti ad uno stesso articolo, la regola sopra enunciata non vale più e la votazione deve cominciare dagli emendamenti che più si allontanano dal testo originario. In questo secondo caso, pertanto, dopo la votazione a maggioranza semplice di tutti gli emendamenti presentati, ivi compreso quello soppressivo, si dovrà votare con la maggioranza dei due terzi dei componenti soltanto l’articolo nel suo complesso, nel testo originario o nel testo risultante dagli eventuali emendamenti approvati. Le ricordate norme regolamentari sulla votazione di emendamenti soppressivi di un articolo sembrano essere ancor più giustificate proprio nel caso di esame di un progetto di legge di concessione dell’amnistia e dell’indulto. S’immagini che ad un articolo di tale progetto sia stato presentato un solo emendamento e che tale emendamento proponga di sopprimere il suddetto articolo: che senso avrebbe, dal punto di vista sostanziale, il far svolgere non una ma due votazioni, la prima a maggioranza semplice sull’emendamento e la seconda, in immediata successione, a maggioranza dei due terzi sull’articolo? I casi, infatti, possono essere soltanto due: o c’è una maggioranza politica dei due terzi dei componenti che vuole l’approvazione di quell’articolo oppure non c’è. In ambedue i casi la via di una doppia votazione con maggioranze diverse rappresenterebbe soltanto un’inutile perdita di tempo, priva di alcun effetto sostanziale di differenziazione, rispetto alla via di un’unica votazione a maggioranza dei due terzi sul mantenimento dell’articolo.

100

Cfr. art. 87, co. 2, reg. Camera e art. 102, co. 2, reg. Senato.

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CAPITOLO 7 LA FUNZIONE DI INDIRIZZO E CONTROLLO SOMMARIO: 1. La funzione di indirizzo e controllo nei confronti del Governo: interrogazioni, interpellanze, mozioni, risoluzioni, ordini del giorno e pareri. – 2. Le Commissioni d’inchiesta.

1. La funzione di indirizzo e controllo nei confronti del Governo: interrogazioni, interpellanze, mozioni, risoluzioni, ordini del giorno e pareri Le Camere esercitano la funzione d’indirizzo e controllo nei confronti del Governo mediante una serie di strumenti, tra loro diversamente graduati in termini d’efficacia, quali le interrogazioni, le interpellanze, le mozioni, le risoluzioni, gli ordini del giorno, le indagini conoscitive, le inchieste parlamentari e varie procedure di attività informativa. Le interrogazioni consistono in una semplice domanda, rivolta per iscritto al ministro competente da uno o più parlamentari, per sapere se un fatto sia vero, per avere informazioni o spiegazioni su un oggetto determinato, per sapere se e quali provvedimenti siano stati adottati o s’intendano adottare in relazione all’oggetto medesimo, se alcuna informazione sia giunta al Governo o sia esatta, se il Governo intenda comunicare alla Camera documenti o notizie (artt. 128 reg. Camera e 145 reg. Senato). Le interrogazioni possono essere a risposta scritta, a risposta orale, a risposta in commissione invece che in Assemblea, a risposta immediata con ripresa televisiva diretta in Assemblea (il cosiddetto Question Time disciplinato dagli artt. 151-bis reg. Senato e 135-bis reg. Camera) ovvero con ripresa televisiva a circuito chiuso in commissione. Il Governo può rispondere all’interrogazione o può differire la risposta entro un determinato termine ovvero può dichiarare di non poter rispondere, indicandone il motivo. Al termine della risposta del Governo, l’interrogante ha facoltà di dichiararsi soddisfatto o insoddisfatto.

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Le interpellanze consistono in una domanda, rivolta per iscritto al Governo da uno o più parlamentari ed illustrata oralmente, circa i motivi o gli intendimenti della sua condotta su questioni di particolare rilievo o di carattere generale, ovvero riguardanti determinati aspetti della sua politica (artt. 136 reg. Camera e 154 reg. Senato). Il comportamento del Governo nei confronti della risposta da dare ad un’interpellanza è sostanzialmente uguale a quello previsto per le interrogazioni, sia pure con qualche differenza di natura procedurale. Al termine della risposta, l’interpellante ha diritto ad una replica di durata variabile a seconda dell’importanza dell’argomento e, qualora si dichiari insoddisfatto, può (ma soltanto alla Camera, non al Senato) presentare una mozione, per promuovere una discussione da parte dell’Assemblea sulle spiegazioni date dal Governo, con relativa votazione sulla mozione stessa. L’elemento comune alle interrogazioni ed alle interpellanze consiste nel fatto che tali strumenti sono e restano di tipo individuale: titolari dell’atto ne sono i rispettivi presentatori ed il rapporto che s’instaura nei confronti del Governo rispondente permane esclusivamente nei loro confronti, senza che ciò implichi in alcun modo una partecipazione dell’organo collegiale (Assemblea o commissione) del quale fanno parte i suddetti interroganti o interpellanti. Diversamente da quanto avviene, come si vedrà tra breve, per altri strumenti, quali le mozioni, le risoluzioni e gli ordini del giorno, che devono essere votati e che, se approvati, diventano atti imputabili, sotto il profilo della loro titolarità, all’organo collegiale che tale approvazione ha adottato. Le diversità sostanziali – oltre a quelle procedimentali (le interpellanze possono essere presentate soltanto in Assemblea e non in commissione, sono illustrate oralmente, possono essere trasformate in mozioni, sia pure soltanto alla Camera) – attengono non soltanto, come invece tradizionalmente si afferma, alla valenza statica o dinamica dei due strumenti (il primo prevalentemente acquisitivo di fatti, spiegazioni, informazioni; il secondo di carattere valutativo dei motivi e degli intendimenti della condotta del Governo) ma anche all’importanza politica dell’argomento, minore e circoscritto nel caso d’interrogazioni (“un oggetto determinato”), di più ampio respiro nel caso d’interpellanze (“questioni di particolare rilievo o di carattere generale”). Il Presidente di ciascuna Camera esercita un controllo sull’ammissibilità della presentazione delle interrogazioni e interpellanze, sia in ordine alla correttezza dei termini nei quali sono formulate, sia in ordine alla circostanza che la relativa risposta sia effettivamente di competenza del Governo. L’eventuale inammissibilità per prassi non viene comunicata all’Assemblea, né viene in alcun modo resa pubblica. Un’unica eccezione a tale prin-

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cipio è costituita dal comunicato stampa della Presidenza della Camera del 10 marzo 2005, con il quale s’informava che il Presidente Casini aveva dichiarato inammissibili le interrogazioni presentate da alcuni deputati in relazione alle vicende giudiziarie che avevano coinvolto il medico sportivo della Juventus, in quanto le suddette interrogazioni «non rientrano nella competenza e nella responsabilità del Governo come sarebbe, invece, richiesto dal regolamento per la loro ammissibilità». Le mozioni sono atti scritti, presentati in Assemblea da almeno otto senatori al Senato e da almeno dieci deputati o da un Presidente di Gruppo parlamentare alla Camera, al fine di promuovere una deliberazione dell’Assemblea su un determinato argomento. Esse sono, quindi, qualificabili come atti introduttivi di un dibattito, con l’unica eccezione della mozione di fiducia che è presentata al termine della discussione sulle comunicazioni di un nuovo Governo nominato dal Presidente della Repubblica. La discussione delle mozioni, nel corso della quale possono essere presentati emendamenti ed ordini del giorno, si svolge secondo le disposizioni che disciplinano la discussione dei progetti di legge: come già accennato in precedenza, le mozioni approvate diventano atti imputabili, rispettivamente, alla Camera o al Senato; pertanto, quando l’argomento oggetto della mozione riguarda il Governo (in pratica è sempre così), il rapporto che s’instaura è tra quest’ultimo ed il ramo del Parlamento che ha approvato la mozione. Secondo quanto prevede l’art. 94 Cost. «Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere. Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale. Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia. Il voto contrario di una o d’entrambe le Camere su una proposta del Governo non importa obbligo di dimissioni. La mozione di sfiducia deve essere firmata da almeno un decimo dei componenti della Camera e non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione». Sia la proposta di conferimento della fiducia, sia quella di sfiducia, costituiscono, dal punto di vista formale, il contenuto di mozioni che hanno in comune tre elementi: deve trattarsi di mozioni motivate, non è consentita la votazione per parti separate né la presentazione di ordini del giorno, la votazione deve avvenire per appello nominale. Quest’ultimo elemento gioca, evidentemente, a favore del potere politico di controllo dei Gruppi parlamentari nei confronti dei propri iscritti i quali, dovendo votare in modo palese, subiranno le conseguenze politiche che ciascun Gruppo riterrà di adottare in caso di voto difforme da quello deliberato dall’Assemblea del Gruppo.

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Gli elementi di differenziazione sono, invece, i seguenti. La mozione di fiducia, diversamente da quanto avviene per tutte le altre mozioni, non è l’atto introduttivo del dibattito sulle dichiarazioni con le quali il Governo illustra il proprio programma politico, poiché viene presentata soltanto al termine della discussione sulle suddette dichiarazioni. Mentre il numero minimo di parlamentari necessario per la presentazione della mozione di fiducia è quello previsto normalmente dai regolamenti parlamentari per la presentazione delle mozioni, la mozione di sfiducia deve essere presentata da almeno un decimo dei componenti della Camera o del Senato: tale requisito ha la funzione di evitare il ricorso troppo frequente alla mozione di sfiducia, escludendone la presentazione da parte di singoli Gruppi di opposizione la cui consistenza numerica sia inferiore al decimo dei componenti di ciascuna Camera e consentendola soltanto ai Gruppi più grandi, ovvero a coalizioni estemporanee tra i Gruppi minori. Infine, la mozione di sfiducia, a differenza di quella di fiducia, non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione. Quest’ultima norma è a garanzia del Governo e della maggioranza parlamentare che lo appoggia perché esclude la possibilità di “agguati” da parte dell’opposizione: infatti, poiché per l’approvazione della mozione di sfiducia è sufficiente la maggioranza semplice, in mancanza della norma suddetta la minoranza, approfittando di eventuali assenze nelle file della maggioranza, potrebbe presentare una mozione di sfiducia, chiederne l’immediata discussione e votazione e procedere quindi alla sua approvazione, obbligando il Governo alle dimissioni. Oltre alla mozione di sfiducia al Governo, prevista dalla Costituzione, nella prassi si sono avute mozioni di sfiducia individuali, vale a dire tendenti a richiedere le dimissioni non del Governo nel suo complesso ma di un singolo ministro, alle quali sono state applicate in sede parlamentare le disposizioni che disciplinano le mozioni di sfiducia al Governo. Nonostante i dubbi espressi a suo tempo da una parte della dottrina in ordine alla legittimità di tali mozioni, esse hanno trovato riconoscimento in due pareri della Giunta per il regolamento del Senato (24 ottobre 1984 e 26 luglio 1995), in una disposizione (peraltro di dubbia interpretazione) introdotta il 7 maggio 1986 nell’art. 115 reg. Camera (co. 3 e 4) e, soprattutto, nella sentenza della Corte costituzionale n. 7/1996. Con tale sentenza la Corte ha altresì affermato che spetta al Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio, revocare e sostituire il ministro nei cui confronti una Camera abbia approvato una mozione di sfiducia, qualora quest’ultimo (come nel caso deciso) si sia rifiutato di dimettersi. Il regolamento della Camera (in senso analogo v. il parere della Giunta

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per il regolamento del Senato del 19 marzo 1984), codificando una prassi costante, ha esteso l’ambito di applicazione dell’istituto della fiducia, attribuendo al Governo il potere di porre la cosiddetta questione di fiducia sull’approvazione o reiezione di emendamenti ad articoli di progetti di legge, di ordini del giorno, di mozioni, di risoluzioni ovvero, quando un progetto di legge consti di un solo articolo, sull’approvazione o reiezione dell’articolo suddetto, salva la votazione finale del progetto. Lo strumento in questione è in un certo senso il contraltare della norma di cui al penultimo comma dell’art. 94 Cost. secondo cui il voto contrario di una o di entrambe le Camere su una proposta del Governo non importa obbligo di dimissioni: se, invece, il Governo ha posto la questione di fiducia, la reiezione della proposta lo obbliga a dimettersi. Comunque, il ricorso alla questione di fiducia serve al Governo per ricompattare la propria maggioranza parlamentare, qualora tema che vi siano divisioni all’interno di quest’ultima in ordine a votazioni su argomenti specifici che il Governo ha, invece, forte interesse a vedere approvati o respinti: la posizione della questione di fiducia, infatti, trascende la valenza politica del singolo argomento poiché l’eventuale esito della votazione difforme dalle indicazioni date dal Governo non significa soltanto il rifiuto di tali indicazioni sotto il profilo politico ma, come già detto, ha anche e soprattutto la ben più grave conseguenza dell’obbligo giuridico di dimissioni del Governo. In alcuni casi, la posizione della questione di fiducia ha anche una funzione antiostruzionistica, poiché la sua approvazione determina la decadenza degli eventuali emendamenti presentati dall’opposizione in gran numero proprio a fini ostruzionistici 1. Infine, i regolamenti parlamentari escludono la posizione della questione di fiducia da parte del Governo su una serie di argomenti: al Senato, sulle proposte di modifica del regolamento ed in generale su quanto attenga alle condizioni di funzionamento interno del Senato; alla Camera, anche su proposte d’inchieste parlamentari, su interpretazioni del regolamento e su richiami allo stesso, su autorizzazioni a procedere e verifica delle elezioni, nomine, fatti personali e sanzioni disciplinari. Mentre le mozioni sono uno strumento tradizionale del diritto parlamentare e come tali sono da sempre presenti nei regolamenti della Camera e del Senato, le risoluzioni sono state introdotte nei suddetti regolamenti con la riforma del 1971, allo scopo di predisporre uno strumento procedurale tale da permettere a ciascuna commissione di promuovere una delibe-

1

Cfr. cap. 5, par. 4.

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razione negli affari di propria competenza per i quali la stessa commissione non debba riferire all’Assemblea. Almeno inizialmente, pertanto, le risoluzioni, per quanto attiene al loro contenuto, costituiscono nelle commissioni il corrispondente delle mozioni in Assemblea; anche sotto il profilo procedurale, le risoluzioni sono discusse e votate secondo le stesse norme che disciplinano le mozioni, fatta salva la possibilità per il Governo (ed anche per un terzo dei membri della commissione al Senato) di ottenere il trasferimento della risoluzione dalla commissione all’Assemblea, in analogia a quanto previsto per i progetti di legge dall’art. 72, co. 3, Cost. Nel tempo, tuttavia, i regolamenti parlamentari hanno a più riprese allargato il campo d’impiego delle risoluzioni, non più ristretto all’ambito delle commissioni, così determinando una poca logica sovrapposizione con le mozioni: risoluzioni possono essere presentate in Assemblea al termine di discussioni introdotte da una mozione o da comunicazioni del Governo (ad eccezione, come già rilevato, delle comunicazioni fatte dal Governo in attesa della fiducia), nonché per l’approvazione del documento di programmazione economico-finanziaria e della relazione annuale sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea. Successivamente, forse in analogia all’illustrata funzione attribuita alle risoluzioni in Assemblea, i regolamenti parlamentari hanno altresì previsto la possibilità che le risoluzioni in commissione, oltre che introduttive di un dibattito, siano anche presentate e votate al termine di quest’ultimo (cfr. artt. 109, 124, 125 e 150 reg. Camera; artt. 132, 138 e 139 reg. Senato). Gli ordini del giorno sono atti scritti che, su proposta di ogni parlamentare, possono essere votati dalle commissioni o dall’Assemblea per le finalità più disparate: ad esempio, in materia di elezioni contestate o di autorizzazioni a procedere a norma dell’art. 96 Cost. 2 per proporre conclusioni diverse da quelle avanzate, rispettivamente, dalla Giunta delle elezioni e dalla Giunta per le autorizzazioni; in riferimento alla materia oggetto di una mozione, ad eccezione delle mozioni di fiducia e di sfiducia; nel corso del procedimento legislativo, per dare istruzioni al Governo in ordine al contenuto ed all’attuazione del progetto di legge in esame. Soltanto in quest’ultimo caso – e parzialmente nel precedente, quando la mozione sia rivolta al Governo – gli ordini del giorno rientrano tra gli atti d’indirizzo politico nei confronti del Governo. Spesso essi derivano dal ritiro di emen2 Art. 96: «Il Presidente del Consiglio dei ministri ed i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale».

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damenti non accolti dal Governo e dalla ripresentazione di questi ultimi per l’appunto sotto forma di ordini del giorno. Il Governo esprime il proprio parere sugli ordini del giorno dichiarando di non accoglierli o di accoglierli o di accoglierli come semplice raccomandazione; il proponente può insistere per la votazione o rinunciarvi. Una disposizione comune alle mozioni, alle risoluzioni ed agli ordini del giorno è quella (art. 143 reg. Camera; art. 46 reg. Senato) secondo cui ciascuna commissione, nelle materie di propria competenza, può richiedere ai rappresentanti del Governo di riferire, anche per iscritto, in merito all’attuazione data ai suddetti atti d’indirizzo politico. Rientra tra gli strumenti di controllo politico, inoltre, il potere delle commissioni parlamentari di chiedere l’intervento dei ministri e dei dirigenti preposti a settori della pubblica amministrazione – ma può essere lo stesso Governo a chiedere che le commissioni siano convocate per dar loro comunicazioni (art. 30 reg. Camera; art. 30 reg. Senato) – per domandare loro chiarimenti su questioni di amministrazione e di politica in rapporto alle materie di loro competenza; nonché il potere di esprimere il proprio parere nei casi in cui il Governo sia tenuto per legge a richiedere un parere parlamentare su atti che rientrano nella sua competenza. Oggetto di tali pareri sono le proposte di nomina di alcuni alti dirigenti, come già visto in precedenza 3; gli schemi di decreti legislativi nei casi previsti dalle singole leggi di delegazione e dall’art. 14, co. 4, della L. 23 agosto 1988, n. 400; gli schemi di regolamenti amministrativi previsti dalla legge annuale di semplificazione, da singole leggi di delegificazione e dalla legge annuale di delegazione europea, ove disponga l’attuazione di norme europee mediante regolamenti.

2. Le Commissioni d’inchiesta L’istituto dell’inchiesta parlamentare è previsto dall’art. 82 Cost., secondo il quale, «Ciascuna Camera può disporre inchieste su materie di pubblico interesse. A tale scopo nomina fra i propri componenti una commissione formata in modo da rispecchiare la proporzione dei vari Gruppi. La commissione d’inchiesta procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria». L’inchiesta parlamentare ha sempre avuto ad oggetto situazioni fortemente caratterizzate sotto il profilo dell’importanza politica o sociale (tra le 3

Cfr. cap. 1, par. 4.

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Capitolo 7

tante, basti citare le inchieste sulla mafia, sul delitto Moro, sulla loggia massonica P2, sui limiti alla concorrenza, sulla disoccupazione, sulla condizione giovanile, sul terrorismo e le stragi ecc.), con la finalità di cercare d’individuare ad ogni livello le responsabilità per le suddette situazioni. Come espressamente dispone il citato art. 82, la commissione procede alle indagini ed agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria. Va precisato che i poteri sono soltanto quelli di natura istruttoria spettanti ad ogni giudice (interrogare testimoni, acquisire documenti, disporre perquisizioni, sequestri, confronti, ecc.), poiché la commissione non esercita funzioni giudicanti e dunque non può irrogare sanzioni né tantomeno emanare sentenze: come stabiliscono i regolamenti parlamentari, la commissione conclude i propri lavori con la presentazione di una o di più relazioni, di maggioranza e di minoranza. Quanto alle limitazioni, le principali sono quelle previste dal codice di procedura penale e consistono nella facoltà di rifiutarsi di rispondere a domande della commissione opponendo il segreto di ufficio, il segreto di Stato o il segreto professionale: vale a dire, affermando trattarsi d’informazioni acquisite da ogni dipendente pubblico nell’esercizio delle proprie competenze o da ogni libero professionista nell’esercizio della propria professione, ovvero trattarsi d’informazioni coperte dal segreto di Stato. Oltre alle commissioni d’inchiesta previste dall’art. 82 – denominate commissioni monocamerali in quanto istituite da una singola Camera e composte soltanto da parlamentari appartenenti alla stessa – nella prassi si è frequentemente proceduto all’istituzione di commissioni d’inchiesta attraverso l’approvazione di una specifica legge ovvero, in un solo caso, mediante due deliberazioni conformi di Camera e Senato: si parla, perciò, di commissioni d’inchiesta bicamerali, i cui componenti sono sia deputati, sia senatori. La legittimità di tali commissioni non è mai stata posta in dubbio sull’esatto presupposto che l’art. 82 non disciplina in modo esclusivo il potere d’istituire commissioni d’inchiesta ma ha, invece, la funzione di determinarne l’ambito (su “materie di pubblico interesse”) e le modalità di esercizio (con “gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria”), nonché di attribuirne la titolarità anche alla singola Camera oltre che alle due Camere nell’esercizio della funzione legislativa. Se per quanto riguarda i poteri delle commissioni bicamerali è sempre stato pacifico che essi sono gli stessi (poteri esclusivamente istruttori) delle commissioni monocamerali, delicate questioni sono sorte a proposito delle limitazioni, poiché in molti casi le singole leggi istitutive ne hanno rimosse alcune, escludendo la possibilità di opporre taluni dei segreti previsti dal c.p.p.: si veda la L. 23 novembre 1979, n. 597, istitutiva di una commissio-

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ne d’inchiesta sulla strage di Via Fani e sull’assassinio di Moro e della scorta, che ha escluso l’opponibilità del segreto di ufficio, del segreto di Stato e del segreto bancario; nonché la L. 23 settembre 1981, n. 27, sulla loggia massonica P2, che ha escluso anche l’opponibiltà del segreto professionale, sia pure con l’eccezione di quello relativo al rapporto tra avvocato difensore e cliente. L’esclusione di tali limitazioni non è giustificabile sostenendo che essa si configura come una normale deroga operata dalla legge nei confronti di un atto anteriore pariordinato, quale il codice di procedura penale, poiché così ragionando non si tiene conto del fatto che il necessario parallelismo tra limiti per l’autorità giudiziaria e limiti per le commissioni d’inchiesta è stabilito da una norma di grado superiore quale l’art. 82; per cui, ogni deroga rispetto al suddetto parallelismo operata da una legge ordinaria costituisce una violazione della norma costituzionale. Il principio del parallelismo non risulterebbe, invece, leso a fronte di modifiche apportate in via generale dalla legge alle disposizioni del c.p.p. che disciplinano le varie specie di segreto, perché l’eventuale riduzione dei limiti così stabilita nei confronti dell’autorità giudiziaria varrebbe automaticamente, in conformità all’art. 82, anche nei confronti delle singole commissioni d’inchiesta, non importa se monocamerali o bicamerali. In questa direzione, peraltro, si è già mosso il Legislatore, come dimostra la nuova disciplina del segreto di Stato, meno rigida della precedente, prevista dall’art. 202 del nuovo codice di procedura penale e quella del segreto di ufficio introdotta dalla L. 7 agosto 1990, n. 241.

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Capitolo 7

Le altre funzioni delle Camere

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CAPITOLO 8 LE ALTRE FUNZIONI DELLE CAMERE SOMMARIO: 1. La richiesta di informazioni e le indagini conoscitive. – 2. L’esame delle petizioni. – 3. La deliberazione dello stato di guerra.

1. La richiesta di informazioni e le indagini conoscitive Un potere che non rientra propriamente nei poteri d’indirizzo e controllo politico ma che è strumentale al loro esercizio («se non so, non posso controllare né indirizzare») è il potere di richiedere informazioni e documenti ad organi estranei alla Camere. Le commissioni e la stessa Assemblea possono richiedere informazioni, nel senso lato del termine e secondo le specifiche modalità previste dai regolamenti parlamentari, alla Corte dei conti, al CNEL e all’ISTAT. A titolo di esempio e limitandosi al solo regolamento della Camera, al quale del resto corrisponde per quest’aspetto abbastanza fedelmente il regolamento del Senato, basti pensare all’art. 143, co. 2, secondo il quale ciascuna commissione parlamentare, previa intesa con il Presidente della Camera, ha facoltà di chiedere che i ministri competenti dispongano l’intervento dei dirigenti preposti a settori della pubblica amministrazione e ad enti pubblici per fornire chiarimenti su questioni di amministrazione in rapporto alla materia di competenza della commissione; all’art. 145, in base al quale l’Assemblea e le commissioni possono chiedere che il Presidente della Camera inviti, tramite il Governo, l’ISTAT a compiere rilevazioni, elaborazioni e studi statistici, previa definizione dell’oggetto e delle finalità; agli artt. 146 e 147 che prevedono, rispettivamente, il potere dell’Assemblea o delle commissioni di chiedere che il Presidente della Camera inviti il CNEL ad esprimere il parere sull’oggetto della discussione ovvero a compiere studi od indagini, previa definizione dell’oggetto e delle finalità; all’art. 148, secondo il quale un Presidente di commissione, per la materia

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Capitolo 8

di competenza di questa, o un Presidente di Gruppo possono, tramite il Presidente della Camera, avanzare richiesta d’informazioni ed elementi di giudizio sulla gestione degli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria e sui decreti registrati con riserva trasmessi dalla Corte dei conti al Parlamento; all’art. 127-ter, secondo il quale le commissioni, in rapporto a questioni di loro competenza e previa intesa con il Presidente della Camera, possono invitare membri del Parlamento europeo e della Commissione europea a fornire informazioni sugli aspetti attinenti rispettivamente alle attribuzioni e alle attività delle istituzioni dell’Unione ed alle politiche poste in essere. Uno strumento più articolato per assumere informazioni e dati è quello delle indagini conoscitive. Le commissioni, nelle materie di loro competenza, possono disporre, previa intesa con il Presidente della Camera o con il Presidente del Senato, indagini conoscitive dirette ad acquisire notizie, informazioni e documenti utili all’attività della Camera o del Senato. Nelle sedute dedicate a tali indagini le commissioni possono invitare qualsiasi persona in grado di fornire elementi utili ai fini dell’indagine, fermo restando che gli invitati sono liberi di rifiutare l’invito o, in caso di partecipazione, di rifiutare di rispondere a singole domande rivolte loro dai commissari. Nello svolgimento dell’indagine le commissioni non possono esercitare alcun sindacato politico, né adottare direttive di qualsiasi genere, né procedere ad imputazioni di responsabilità. L’indagine si conclude con l’approvazione di un documento che dia conto dei risultati acquisiti.

2. L’esame delle petizioni Secondo quanto prevede l’art. 50 Cost., «Tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità». L’istituto della petizione rientra tra quelli cosiddetti di democrazia diretta, vale a dire istituti che consentono interventi diretti dei cittadini a livello istituzionale senza passare attraverso i loro rappresentanti. In realtà, la petizione è uno strumento sui generis di democrazia diretta, poiché se è vero che esso spetta a ciascun cittadino, è anche vero che esso ha come destinatari proprio i rappresentanti degli stessi cittadini ai quali, come testualmente recita l’art. 50, si chiedono provvedimenti legislativi o si espongono comuni necessità. La petizione si distingue dall’iniziativa legislativa popolare perché si tratta di uno strumento, attribuito al singolo cittadino, esercitabile senza

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particolari formalità, mentre l’iniziativa legislativa comporta la presentazione ad un ramo del Parlamento di un progetto di legge, redatto in articoli, da parte di almeno cinquantamila elettori; inoltre, mentre l’esercizio dell’iniziativa legislativa determina l’inizio del procedimento legislativo, la petizione ha il diverso scopo di sollecitare l’approvazione di progetti di legge già all’esame della Camera o del Senato ovvero di esporre comuni necessità. La disciplina delle petizioni è prevista, con qualche differenza non particolarmente significativa, dal regolamento della Camera (artt. 33 e 109) e dal regolamento del Senato (artt. 140 e 141). In ambedue i casi le petizioni sono assegnate alle commissioni competenti per materia e discusse congiuntamente agli eventuali progetti di legge all’ordine del giorno della commissione. Alla Camera l’esame in commissione può concludersi con una risoluzione diretta ad interessare il Governo alle necessità esposte nella petizione; qualora, invece, sia stata presentata una mozione su una o più petizioni, il testo della petizione è stampato e distribuito congiuntamente al testo della mozione relativa. Al Senato, delle petizioni che non attengano a progetti di legge all’ordine del giorno della commissione quest’ultima può deliberare, previa nomina di un relatore, la presa in considerazione o l’archiviazione; nel primo caso la petizione è trasmessa a cura del Presidente del Senato al Governo con l’invito a provvedere. Occorre, tuttavia, sottolineare che l’istituto della petizione, residuo di epoche passate, quando il ruolo del popolo era ben diverso da quello attuale, è notevolmente obsoleto e non determina, salvo casi eccezionali, alcun seguito a livello parlamentare: quasi sempre le petizioni rimangono iscritte all’ordine del giorno della commissione competente senza essere discusse per poi decadere al termine della legislatura. Del resto, le ricordate disposizioni regolamentari prevedono una mera facoltà per la commissione competente («la commissione può ...») e non un già un obbligo di attivare nei confronti delle petizioni la disciplina sopra illustrata.

3. La deliberazione dello stato di guerra A seguito delle recenti crisi internazionali, particolare attenzione merita l’art. 11 Cost. quanto al significato da attribuire al valore della pace ed al ripudio della guerra. Innanzi tutto, lo Stato italiano non rifiuta in assoluto la guerra, ossia l’uso della forza armata. La guerra illegittima è la guerra di aggressione, mentre l’uso della forza armata è consentito nei casi di necessaria risposta armata ad un attacco altrui (legittima difesa), conformemente a quanto previsto dall’art. 51 dello Statuto dell’ONU. Che in determinate

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Capitolo 8

ipotesi il ricorso alla guerra sia ammesso si desume anche da altre disposizioni costituzionali quali gli artt. 78 e 87, co. 9, che disciplinano il procedimento di instaurazione dello stato di guerra. A rigore, stando alla lettera della Costituzione, il procedimento prescritto dovrebbe essere seguito solo a fronte di una guerra in senso tecnico, come definita a livello internazionale, con esclusione di tutti quei fatti che non possano essere qualificati tali. In ogni caso, nel valutare la legittimità di un qualsivoglia uso della forza armata non si potrà prescindere dal rispetto del valore costituzionale della pace. Sennonché, l’art. 78, secondo il quale «Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari», non è mai stato applicato, nonostante l’Italia abbia preso parte, dal secondo dopoguerra ad oggi, a diverse operazioni militari internazionali (Golfo Persico I e II, Kosovo, Afghanistan, Iraq). In tali vicende, l’utilizzo della forza armata (bombardamenti, occupazioni, blocchi aerei e/o navali) è stato giustificato in quanto finalizzato a consentire azioni d’intervento umanitario o al ristabilimento, imposizione o mantenimento delle condizioni di pace (peace-keeping, peace-enforcing, peace-making, peace-building operations). Vicende che, considerate prive dei caratteri della guerra nella sua accezione tradizionale e fatte rientrare, anzi, nella seconda parte dell’art. 11, non hanno comportato la delibera parlamentare dello stato di guerra e di quanto ne consegue. Durante le trascorse crisi internazionali, infatti, la prassi seguita dal Governo è stata quella di aprire un dibattito in Parlamento per verificarne il sostegno, ricorrendo, il più delle volte, allo strumento del decreto-legge. Recentemente, però, la dottrina non ha mancato di rilevare come la nozione classica di guerra sia stata messa in crisi negli ultimi anni e che, quindi, essa andrebbe rivista in un modo più rispondente alla realtà, anche al fine di disporre di un parametro più rigoroso per valutare l’opportunità e la legittimità della partecipazione italiana nei casi di crisi internazionali.

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CAPITOLO 9 PARLAMENTO E UNIONE EUROPEA SOMMARIO: 1. Le procedure parlamentari di collegamento con l’Unione europea. – 2. Dalla legge comunitaria alla legge di delegazione europea e alla legge europea. – 3. Il ruolo del Parlamento nel processo di formazione delle decisioni europee.

1. Le procedure parlamentari di collegamento con l’Unione europea I regolamenti parlamentari prevedono speciali procedure di collegamento con l’attività di organismi europei ed internazionali per consentire un’incisiva partecipazione delle Camere non solo nella fase discendente, ovvero di attuazione e recepimento delle norme dell’Unione europea, ma anche nella fase ascendente e quindi di formazione delle norme stesse. A tal fine, oltre alle commissioni di merito che intervengono limitatamente alle materie di propria competenza, sono appositamente istituite, presso Camera e Senato, le Commissioni, ormai divenute permanenti 1, “Politiche dell’Unione europea”. Tali commissioni hanno competenza generale sugli aspetti ordinamentali dell’attività e dei provvedimenti dell’Unione europea e dell’attuazione degli accordi europei ed esercitano, entro tale ambito materiale, funzioni consultive, conoscitive e legislative (art. 126 reg. Camera e artt. 23 e 144 reg. Senato). Quanto alla funzione consultiva, tali commissioni esprimono pareri, osservazioni e proposte sui progetti di legge e sugli schemi degli atti normativi del Governo, concernenti l’applicazione e l’eventuale modifica e integrazione del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) e del Trattato sull’Unione europea (TUE), sui progetti di legge e sugli schemi degli atti normativi del Governo relativi all’attuazione delle norme europee 1

Cfr. art. 22 reg. Camera e art. 22 reg. Senato.

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e, in generale, su tutti i progetti di legge, qualora presentino profili di compatibilità con la normativa europea (art. 126 reg. Camera e artt. 23 e 144 reg. Senato). In particolare, il regolamento del Senato prevede che, al termine di tale esame, le Commissioni possano votare risoluzioni volte ad indicare i principi e le linee che debbono caratterizzare la politica italiana nei confronti dell’attività preparatoria all’emanazione degli atti europei (art. 144, co. 6, reg. Senato). I regolamenti parlamentari prevedono, inoltre, che le commissioni “Politiche dell’Unione europea” e le commissioni competenti per materia, alle quali sono inviate le sentenze di maggior rilievo della Corte di giustizia dell’Unione europea, esaminino le relative questioni con l’intervento di un rappresentante del Governo e di un relatore designato dalla Commissione “Politiche dell’Unione europee”, al fine di esprimere il proprio avviso sulla necessità di iniziative e adempimenti da parte delle autorità nazionali (art. 127-bis reg. Camera e art. 144-ter reg. Senato). Per quel che concerne le funzioni conoscitive, le commissioni “Politiche dell’Unione europea” svolgono indagini, aprono dibattiti, esercitano poteri di indirizzo, richiedono informazioni a componenti di istituzioni europee, procedono ad audizioni di ministri e funzionari pubblici, votano risoluzioni. In particolare, in rapporto a questioni di loro competenza e previo consenso del Presidente, tali commissioni, oltre alle commissioni di merito, possono invitare membri del Parlamento europeo e componenti della Commissione europea per acquisire elementi informativi sugli aspetti attinenti alle attribuzioni e alle attività delle istituzioni europee ed in ordine alle politiche dell’Unione europea (art. 127-ter reg. Camera e art. 144-quater reg. Senato). Al Senato la Commissione “Politiche dell’Unione europea” e alla Camera l’omonima commissione e le commissioni competenti per materia possono disporre che si svolga un dibattito, con l’intervento del ministro competente, in relazione a proposte della Commissione europea e in previsione dell’inserimento delle proposte stesse o di determinate materie all’ordine del giorno del Consiglio delle Comunità europee o in ordine ad affari attinenti alle attività dell’Unione e dei suoi organi (art. 126-bis reg. Camera e art. 142 reg. Senato). I regolamenti parlamentari prevedono, inoltre, che in seno alle Commissioni “Politiche dell’Unione europea” e alle commissioni competenti per materia si possa aprire un dibattito sulle risoluzioni votate dal Parlamento europeo, nonché sulle decisioni o raccomandazioni adottate da Assemblee internazionali alle quali partecipano delegazioni parlamentari italiane (art. 125 reg. Camera e art. 143 reg. Senato).

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2. Dalla legge comunitaria alla legge di delegazione europea e alla legge europea La funzione legislativa esercitata dalle Commissioni “Politiche dell’Unione europea”, coadiuvate dalle commissioni competenti per materia, è di fatto circoscritta all’esame della legge comunitaria. La “legge comunitaria”, a dispetto di tale definizione, è una legge dello Stato italiano, istituita dalla L. 9 marzo 1989, n. 86, meglio nota come “legge La Pergola” 2, modificata con L. 4 febbraio 2005, n. 11 e successivamente “sdoppiata” in legge di delegazione europea e legge europea con la L. 24 dicembre 2012, n. 234. Dal 1990 al 2012, ci si è avvalsi, per il recepimento delle norme non direttamente applicabili, della “legge comunitaria”, vale a dire di uno strumento normativo annuale, ricalcato sulla falsariga della legge finanziaria e volto a garantire la regolarità e la tempestività dell’adeguamento. Tale strumento, però, è stato solo in parte un provvedimento attuativo di obblighi comunitari, disponendo sì attuazioni dirette, ma gestendo anche l’attuazione con una serie di procedimenti “a cascata”, coinvolgendo – a seconda dei casi – l’autonomia legislativa delegata del Governo, l’autonomia amministrativa regolamentare e l’autonomia legislativa regionale. Indubbiamente, il sistema creato dalla legge “La Pergola” ha consentito al nostro Paese di recuperare quasi subito i notevoli arretrati che ne penalizzavano fortemente il ruolo in Europa. Tuttavia, a ben vedere, la «legge comunitaria» molto spesso non ha garantito il diretto recepimento delle disposizioni comunitarie, ma ha determinato solo uno spostamento cronologico e una dispersione dei centri di imputazione dell’attuazione. I tempi medi di adozione degli atti governativi di recepimento sono risultati troppo lunghi, superando in genere ampiamente l’anno, per cui la «legge comunitaria» spesso ha creato un periodo di vacatio della normazione comunitaria piuttosto lunga. Peraltro, la mancanza di un obbligo giuridicamente sanzionato in ordine all’approvazione della legge entro la fine dell’anno e l’assenza in sede parlamentare di una sessione tecnicamente strutturata come quella prevista per l’esame della manovra finanziaria, hanno fortemente ridotto la capacità della legge comunitaria di dare un’attuazione tempestiva e coordinata alle direttive. A fronte di tali difficoltà, il legislatore ha apportato significative novità con la L. 24 dicembre 2012, n. 234. In primo luogo, per accelerare i tempi e migliorare la funzionalità del sistema di recepimento, si è introdotto uno 2

Dal nome dell’allora Ministro per il coordinamento delle politiche comunitarie.

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sdoppiamento della legge comunitaria annuale, prevedendo che, entro il 28 febbraio di ogni anno, il Governo si impegna a presentare il disegno di legge di delegazione europea, per l’attuazione delle sole direttive e decisioni quadro da recepire a livello nazionale e, se necessario, il disegno di legge europea, contenente invece disposizioni modificative o abrogative di disposizioni statali vigenti in contrasto con gli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea e/o l’indicazione di altri strumenti normativi volti a dare attuazione ad altri atti europei non direttamente applicabili, a trattati internazionali conclusi nel quadro delle relazioni esterne dell’Unione europea. Entro il 31 luglio di ogni anno, il Governo può poi presentare, se opportuno, un secondo disegno di legge di delegazione europea, nonché specifici disegni di legge per garantire l’attuazione di singoli atti europei di particolare importanza politica, economica e sociale. A seguito delle modifiche apportate al regolamento del Senato, prima nel 2003, poi nel 2017, l’esame della legge prima comunitaria, poi di delegazione europea, si svolge seguendo un analogo procedimento speciale (art. 126-ter reg. Camera; art. 144-bis reg. Senato). Il disegno di legge è assegnato in sede referente alla Commissione “Politiche dell’Unione europea” e, per l’esame delle parti di rispettiva competenza, alle commissioni competenti per materia. Queste ultime, entro quindici giorni dall’assegnazione, concludono il proprio esame approvando una relazione e nominando un relatore che riferisce su di essa alla Commissione “Politiche dell’Unione europea”. Entrambi i regolamenti parlamentari prevedono l’inammissibilità degli emendamenti e degli articoli aggiuntivi, eventualmente introdotti dalle commissioni, che riguardino materie estranee all’oggetto proprio della legge europea e della legge di delegazione europea, come definito dalla legislazione vigente. Tuttavia, mentre alla Camera gli emendamenti che ciascuna commissione può approvare relativamente alle materie di propria competenza si ritengono accolti dalla Commissione “Politiche dell’Unione europea” salvo che questa non li respinga per motivi di compatibilità con la normativa europea o per esigenze di coordinamento generale, al Senato non è previsto che le commissioni di merito possano approvare emendamenti. Decorsi quindici giorni dall’assegnazione alle commissioni competenti per materia, la Commissione “Politiche dell’Unione europea”, alla quale viene trasmessa la relazione di tali commissioni, nei successivi trenta giorni conclude l’esame del disegno di legge, predisponendo una relazione generale per l’Assemblea, alla quale sono allegate le relazioni di maggioranza delle altre commissioni. Al Senato, il Presidente dell’Assemblea può dichiarare inammissibili, oltre agli emendamenti estranei all’oggetto della

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legge, anche disposizioni del testo proposto dalla Commissione all’Assemblea. Inoltre, mentre alla Camera non è prevista alcuna limitazione in ordine alla possibilità di presentare emendamenti in Assemblea, al Senato è consentito ripresentare in Assemblea soltanto gli emendamenti respinti dalla Commissione “Politiche dell’Unione europea”.

3. Il ruolo del Parlamento nel processo di formazione delle decisioni europee Le disposizioni generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi europei sono state modificate prima dalla L. n. 11/2005, poi dalla L. n. 234/2012 che, sostituendo la precedente regolamentazione, «disciplina il processo di partecipazione dell’Italia alla formazione delle decisioni e alla predisposizione degli atti dell’Unione europea e garantisce l’adempimento degli obblighi e l’esercizio dei poteri derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, in coerenza con gli articoli 11 e 117 della Costituzione, sulla base dei principi di attribuzione, di sussidiarietà, di proporzionalità, di leale collaborazione, di efficienza, di trasparenza e di partecipazione democratica» (art. 1). Le modifiche e le innovazioni rispetto alla precedente disciplina riguardano sia la fase (ascendente) di formazione che quella (discendente) di attuazione delle norme europee. Oltre alle significative e rilevanti novità volte a garantire un miglior livello di coinvolgimento delle Regioni, degli enti locali e delle parti sociali, tale legge introduce nuove procedure concernenti la partecipazione del Parlamento al processo di formazione delle decisioni dell’Unione europea. Rispetto alla precedente disciplina è prevista una migliore regolamentazione del rapporto Governo-Parlamento, tale da garantire una maggiore efficienza in materia di coordinamento e trasmissione delle informazioni. In particolare, per garantire alle Camere un effettivo esercizio del potere di indirizzo e di controllo politico nei confronti del Governo (anche in ordine alla formazione di atti europei (e per attenuare i destabilizzanti effetti del c.d. “deficit democratico”, vengono introdotti numerosi obblighi informativi a carico del Governo. Tra i progetti degli atti europei che l’Esecutivo deve inviare alle Camere, con l’indicazione della data presunta per la loro discussione o adozione, sono compresi anche i documenti di consultazione, ovvero i libri bianchi 3, 3

Si tratta di documenti che contengono proposte di azioni comunitarie in settori politici specifici.

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verdi 4 e tutte le comunicazioni predisposti dalla Commissione delle Comunità europee, di cui il Governo assicura non solo un’informazione qualificata e tempestiva ma anche un costante aggiornamento, consentendo, in tal modo, al Parlamento di disporre degli strumenti necessari per partecipare alla formazione degli atti europei. A tal fine, il Presidente del Consiglio dei Ministri, o il Ministro per le politiche europee, è tenuto ad informare tempestivamente le Camere delle proposte e materie inserite all’ordine del giorno delle riunioni del Consiglio dei ministri dell’UE. Inoltre, il Governo, prima dello svolgimento delle riunioni del Consiglio europeo, di propria iniziativa o su richiesta delle Camere, riferisce ai competenti organi parlamentari la posizione che intenderà assumere in ordine all’adempimento degli obblighi europei; illustra semestralmente alle Camere e, entro quindici giorni dallo svolgimento delle riunioni del Consiglio dei Ministri dell’UE, ai competenti organi parlamentari, i temi di maggior interesse decisi o in discussione e gli esiti delle riunioni tenute in ambito europeo. Il Parlamento, al fine di formulare osservazioni e adottare atti di indirizzo al Governo, può richiedere al Presidente del Consiglio dei Ministri o al Ministro per le politiche europee una relazione tecnica illustrativa dello stato dei negoziati, dell’impatto dei progetti degli atti europei sull’ordinamento, sulla pubblica amministrazione e sulle attività dei cittadini e delle imprese. Successivamente, la L. n. 234/2012 ha incrementato le forme di coinvolgimento diretto dei Parlamenti nazionali in alcuni aspetti del funzionamento dell’Unione e, in particolare, nel rispetto del principio di sussidiarietà. A tal fine, i progetti di atti normativi dell’Unione devono essere tempestivamente sottoposti all’esame delle Camere. Vincoli ancor più stringenti vengono poi previsti sugli accordi che prevedono l’introduzione o il rafforzamento di regole in materia finanziaria o monetaria o determinanti comunque conseguenze rilevanti sulla finanza pubblica, venendo precisato che, in tal caso, qualora il Governo non dovesse conformarsi agli atti di indirizzo del Parlamento, dovrà dare adeguata spiegazione alle Camere (art. 5, L. n. 234/2012). Quanto alle procedure, fondamentale, al fine di garantire un peculiare rafforzamento del ruolo del Parlamento, è la disciplina relativa alla c.d. “riserva di esame parlamentare”. Si tratta di un istituto, già previsto e disci4 Sono documenti di riflessione su un tema specifico pubblicati dalla Commissione per promuovere una consultazione a livello europeo. Precedono, in genere, la pubblicazione dei libri bianchi e, in alcuni casi, costituiscono il primo passo di sviluppi legislativi successivi.

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plinato in altri Stati membri, come in Danimarca, Inghilterra, Francia e Germania, tramite il quale viene riconosciuta una funzione decisiva agli orientamenti parlamentari espressi in sede di formazione della posizione italiana nel contesto europeo. La L. n. 234/2012 prevede che la riserva di esame parlamentare è attivabile su iniziativa di una delle Camere o del Governo, su ogni progetto o atto dell’UE per cui è previsto l’obbligo di trasmissione alle Camere da parte del Governo. Nel primo caso, qualora le Camere ne facciano richiesta, il Governo deve apporre in sede di Consiglio la riserva d’esame parlamentare e può procedere alle attività di propria competenza per la formazione dei relativi atti soltanto a conclusione dell’esame parlamentare e comunque decorso il termine di trenta giorni dalla comunicazione alle Camere dell’apposizione della riserva. Nel secondo caso, è invece il Governo ad apporre di propria iniziativa una riserva d’esame parlamentare su un progetto di atto o su una o più parti di esso, dandone comunicazione alle Camere. Anche in tale ipotesi, decorso il termine di trenta giorni, il Governo può procedere anche in mancanza della pronuncia parlamentare.

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CAPITOLO 10 IL PARLAMENTO IN SEDUTA COMUNE SOMMARIO: 1. Struttura e funzioni del Parlamento in seduta comune. – 2. La messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica: la definizione dei reati di alto tradimento e di attentato alla Costituzione; le tesi d’ispirazione penalistica e quelle d’ispirazione costituzionalistica. – 3. Cenni procedurali: l’istruttoria parlamentare e la votazione dell’atto di accusa.

1. Struttura e funzioni del Parlamento in seduta comune Il Parlamento in seduta comune è un organo collegiale composto dai parlamentari di entrambe le Camere. Secondo quanto previsto dall’art. 55, co. 2, Cost., esso si riunisce in seduta comune nei soli casi stabiliti dalla Costituzione stessa o, secondo l’opinione che sembra preferibile, da leggi costituzionali. Il Parlamento in seduta comune è presieduto dal Presidente della Camera dei deputati – che si avvale a tal fine del proprio Ufficio di presidenza (art. 63, co. 2, Cost.) – si riunisce presso la sede della Camera e le sue sedute sono pubbliche, salva la possibilità di deliberare di adunarsi in seduta segreta (art. 64, co. 2, Cost.). Le deliberazioni del Parlamento in seduta comune non sono valide, ai sensi dell’art. 64, co. 3, Cost., se non è presente la maggioranza dei componenti delle due Camere. I regolamenti parlamentari (art. 35 reg. Camera e art. 65 reg. Senato) prevedono che alle riunioni del Parlamento in seduta comune si applichi il regolamento della Camera, anche se il regolamento del Senato non esclude la possibilità che il suo funzionamento sia regolato da un’autonoma disciplina, attraverso l’approvazione da parte dello stesso Parlamento in seduta comune di regole ad hoc. Quest’ultima disposizione desta qualche perplessità poiché non è per nulla certo che il Parlamento in seduta comune abbia il potere di darsi un proprio regolamento. Da un lato, infatti, l’art. 64, co. 1, Cost., che pure nei

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successivi co. 2 e 3 si riferisce anche al Parlamento in seduta comune, attribuisce esclusivamente a ciascuna Camera il potere di darsi a maggioranza assoluta un proprio regolamento. Dall’altro, il regolamento parlamentare per i procedimenti di accusa, che disciplina una delle principali funzioni del Parlamento in seduta comune, non è stato approvato da quest’ultimo bensì dal Senato e dalla Camera, in uno stesso testo, con due deliberazioni distinte e separate (rispettivamente il 7 giugno ed il 28 giugno 1989). Comunque, anche ad ammettere una limitata capacità regolamentare del Parlamento in seduta comune, essa non potrebbe mai dar luogo a disposizioni parificate a quelle contenute nei regolamenti di Camera e Senato: si tratterebbe, perciò, di disposizioni che potrebbero soltanto integrare e specificare queste ultime, senza alcuna possibilità di derogarvi pena la loro illegittimità. Il Parlamento in seduta comune non esercita funzioni legislative, né possiede funzioni potenzialmente indeterminate, poiché i casi nei quali può esercitare le proprie attribuzioni sono indicati tassativamente dalle norme costituzionali. Le competenze che la Costituzione attribuisce ad esso in modo esclusivo possono essere suddivise in funzioni di natura elettorale, di accertamento e di natura accusatoria. Le prime consistono nell’elezione di alte cariche dello Stato. Il Parlamento in seduta comune elegge, innanzi tutto, il Presidente della Repubblica (art. 83 Cost.), e in questo caso la sua composizione è integrata da tre delegati per ogni Regione (salvo la Valle d’Aosta, che ne ha uno solo), designati dai rispettivi Consigli regionali. Elegge, inoltre, cinque giudici della Corte costituzionale (art. 135 Cost.) e un terzo dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura, ossia otto membri, che si aggiungono ai sedici membri togati dell’organo (art. 104 Cost.). Da ultimo, approva ogni nove anni la lista dei nominativi dei soggetti, aventi i requisiti per l’eleggibilità a senatore, da cui estrarre i sedici giudici aggregati che integrano la composizione della Corte costituzionale nei giudizi in materia penale 1. Una funzione di accertamento sussiste quando (art. 91 Cost.) il Presidente della Repubblica presta, dinanzi al Parlamento in seduta comune, il giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione. Infine, rientra nelle funzioni di natura accusatoria la messa in stato di accusa di fronte alla Corte costituzionale del Presidente della Repubblica per alto tradimento o attentato alla Costituzione. La qualificazione del Parlamento in seduta comune è molto incerta: se1

Per l’ammissibilità, in relazione all’art. 64, co. 3, Cost., di maggioranze superiori a quella semplice, previste da leggi ordinarie (com’è il caso, ad es. delle leggi per l’elezione dei giudici costituzionali e dei membri del CSM), cfr. cap. 5, par. 1.

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condo una prima tesi, si tratterebbe di una particolare modalità di riunione delle Camere, senza che si configuri un organo collegiale nuovo e distinto da esse; diversamente, partendo dal presupposto che si tratti di un terzo organo a sé stante, una seconda tesi pone il problema relativo alla possibilità di attribuire ad esso la natura di collegio perfetto – inteso come collegio che può discutere oltre che deliberare – ovvero imperfetto, ossia abilitato alle sole deliberazioni. Al di là della qualificazione del Parlamento in seduta comune, che costituisce prevalentemente una questione teorica, il problema concreto al quale si è accennato non sembra potersi risolvere in via generale bensì con riferimento alle singole competenze che gli sono attribuite dalla Costituzione. In tal senso, quando si tratta della messa in stato di accusa del Capo dello Stato, certamente è ammissibile la fase della discussione, poiché si tratta di valutare da parte dei parlamentari la sussistenza o meno degli elementi di fatto che giustificano la deliberazione, favorevole o contraria, alla proposta di messa in stato di accusa. Quando, invece, il Parlamento in seduta comune funziona come collegio elettorale, deve in linea di principio escludersi la possibilità di qualsiasi intervento, ad eccezione dei richiami al regolamento relativi alle modalità di convocazione e di svolgimento della riunione, comunque proposti prima dell’inizio delle votazioni. La stessa soluzione dovrebbe valere, sia pure per ragioni diverse, anche per il giuramento di fedeltà che il Presidente della Repubblica compie all’inizio del suo mandato, perché in questo caso il Parlamento in seduta comune assume la veste di organo, per così dire, “ricettizio”, vale a dire di organo che non svolge alcuna funzione attiva ma che si pone, allo stesso tempo, come sede materiale all’interno della quale avviene il giuramento e come organo che ne certifica tacitamente l’avvenuto svolgimento. La prassi è nel senso di escludere la possibilità di interventi quando il Parlamento in seduta comune funziona come collegio elettorale, in particolare gli interventi tendenti a proporre ed illustrare candidature. Tuttavia, il Presidente della Camera, Ingrao, in una comunicazione resa nella seduta del Parlamento in seduta comune, svoltasi dal 29 giugno all’8 luglio 1978, in risposta ad una lettera del Presidente del Gruppo radicale, on. Emma Bonino, pur ribadendo la prassi sempre seguita, affermava comunque che «Per tali motivi, in questa seduta potrò concedere la parola soltanto per segnalazioni, richieste di chiarimento od osservazioni, formulate in maniera succinta, sulla regolarità procedurale delle votazioni e degli scrutini. Il Presidente, doverosamente, ove siano formulate tali domande e segnalazioni, ascolta, risponde, decide, agendo egli come garante della regolarità della decisione».

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2. La messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica: la definizione dei reati di alto tradimento e di attentato alla Costituzione; le tesi d’ispirazione penalistica e quelle d’ispirazione costituzionalistica L’art. 90 Cost. dispone che «Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri». La definizione delle fattispecie che integrano i reati di alto tradimento e di attentato alla Costituzione è problema che non ha ancora una soluzione sicura, a causa della diversità di opinioni che al riguardo sono state avanzate in dottrina e, soprattutto, della totale mancanza di una giurisprudenza della Corte costituzionale, che finora mai si è trovata a giudicare su accuse mosse dal Parlamento in seduta comune nei confronti di un Presidente della Repubblica. Il dato certo – dal quale nascono tutti i problemi – è costituito dal fatto che l’art. 90, riferendosi ai reati di alto tradimento e di attentato alla Costituzione, non fornisce alcun elemento in ordine ai comportamenti concreti in presenza dei quali si possano ritenere commessi i reati suddetti da parte del Presidente della Repubblica. L’art. 90 si riferisce, dunque, a due scatole vuote, a due contenitori senza contenuto; in termini giuridici, con più eleganza ma con identica mancanza di costrutto, si tratterrebbe di reati cosiddetti a fattispecie indeterminata. Ma in tal modo s’imbocca una strada senza uscita perché, se si vuole continuare a parlare di reati così come da sempre definiti dalla dottrina e dalla giurisprudenza penalistica, si deve osservare che le leggi penali vigenti nel nostro ordinamento, se in qualche raro caso prevedono reati a fattispecie delineata in termini soltanto generici (reati a forma libera), mai prevedono reati a fattispecie totalmente carente. D’altra parte, disposizioni siffatte sarebbero incostituzionali per violazione dell’art. 25 Cost. (principio di legalità dei reati e di irretroattività della legge penale) e dunque si può concludere che, penalmente parlando, un reato a fattispecie indeterminata non è nemmeno qualificabile come reato. Un primo tentativo per risolvere il problema posto dall’art. 90 è stato compiuto dalla dottrina prevalentemente penalistica, affermandosi che la suddetta disposizione costituzionale contiene in realtà una tacita norma di rinvio a disposizioni penali vigenti, individuate secondo taluni nell’art. 283 c.p. (che prevede il reato di attentato alla Costituzione) 2 e nell’art. 77 c.p. 2

«Chiunque commette un fatto diretto a mutare la Costituzione dello Stato, o la forma

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mil. di pace (che prevede il reato di alto tradimento, anche se soltanto nella sua intitolazione) 3; secondo altri, più estensivamente, il rinvio sarebbe a tutte quelle disposizioni penali che prevedono e puniscono reati contro la personalità interna o internazionale dello Stato. Le tesi suddette non sono oggi prevalenti in dottrina per una serie di obiezioni che sono state avanzate nei loro confronti. Contro il rinvio all’art. 77 c.p. mil. di pace (a parte la stranezza di un rinvio ad una disposizione anch’essa di rinvio, qual è l’art. 77) si è osservato che l’eventuale abrogazione dell’articolo suddetto, realizzabile con lo strumento della legge ordinaria, avrebbe paradossalmente l’effetto di privare totalmente di contenuto la norma relativa all’alto tradimento contenuta in Costituzione; inoltre, la disposizione citata è troppo riduttiva poiché rinvia non a tutte ma soltanto ad alcune delle disposizioni del c.p. che prevedono reati contro la personalità interna o internazionale dello Stato. Contro il rinvio all’art. 283 c.p. si è osservato che le fattispecie da esso previste (mutamento della Costituzione o della forma di Governo con mezzi illeciti) non esauriscono i possibili comportamenti in presenza dei quali si deve parlare di attentato alla Costituzione, rientrando tra questi ultimi anche tutti quei comportamenti volti non tanto al mutamento della forma di Governo, quanto ad ostacolarne o a condizionarne il corretto funzionamento (ad esempio, servendosi a tale scopo di attività deviate dei servizi segreti). Questa stessa obiezione è altresì rivolta contro il rinvio a tutte quelle disposizioni penali che prevedono e puniscono reati contro la personalità interna o internazionale dello Stato perché, se tale rinvio può essere accettabile per quanto attiene all’alto tradimento, nel reato di attentato alla Costituzione, come si cercherà di esemplificare tra poco, vanno ricompresi anche comportamenti del Capo dello Stato particolarmente illegittimi ma non necessariamente rivolti contro la personalità interna o internazionale dello Stato. Preferibili appaiono, dunque, altre tesi, d’ispirazione costituzionalistica, che cercano d’individuare i contenuti dei due reati di cui all’art. 90 Cost. non soltanto con riferimento a norme penali vigenti ove applicabili – in del Governo, con mezzi non consentiti dall’ordinamento costituzionale dello Stato, è punito con la reclusione non inferiore a dodici anni». 3 L’art. 77 c.p. mil. di pace, infatti, si riferisce al reato di alto tradimento soltanto nella sua intitolazione, mentre nella parte normativa si limita a comminare pene più severe per alcuni reati, qualora siano commessi da militari, tra quelli previsti dal codice penale come reati contro la personalità interna o internazionale dello Stato. La differenza con la seconda tesi sta nel fatto che in quel caso il rinvio deve intendersi nei confronti di tutte le disposizioni che prevedono reati contro la personalità interna o internazionale dello Stato, mentre il rinvio operato dall’art. 77 è soltanto nei confronti di alcune delle suddette disposizioni.

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questo senso ci si riferisce abbastanza concordemente alle disposizioni in precedenza citate che prevedono e puniscono reati contro la personalità interna o internazionale dello Stato – ma anche e soprattutto con riferimento alle norme ed ai principi del nostro sistema costituzionale. Si è pertanto ritenuto che il reato di alto tradimento sussista anche in tutte le ipotesi nelle quali il Capo dello Stato violi il dovere di fedeltà nei confronti della Repubblica in positivo o addirittura, secondo taluni, in negativo per omessa vigilanza nella difesa delle istituzioni. Per quanto concerne il reato di attentato alla Costituzione, oltre alle ipotesi limite di cui all’art. 283 c.p., vanno considerati tutti quei comportamenti del Presidente della Repubblica che determinano violazioni di norme costituzionali tali da produrre conseguenze più gravi della semplice illegittimità costituzionale: è il caso di violazioni ripetute di una stessa norma costituzionale (una sorta di recidiva), così come di violazioni, anche soltanto singole, di norme costituzionali fondamentali per la ricostruzione della figura, dei poteri e dei limiti del Capo dello Stato nel nostro ordinamento. In casi del genere, sarà rimessa alla discrezionalità delle eventuali controparti statali la decisione se reagire con uno strumento di minore o maggiore gravità (ad esempio, conflitto tra poteri oppure attivazione del procedimento di messa in stato di accusa) nei confronti del Presidente della Repubblica. Discrezionalità che, a ben vedere, ha alla sua base una scelta squisitamente politica qual è quella relativa alla volontà di rimuovere o no il Presidente della Repubblica dalla sua carica.

3. Cenni procedurali: l’istruttoria parlamentare e la votazione dell’atto di accusa Il giudizio sulle accuse nei confronti del Presidente della Repubblica e di ogni altro eventuale coimputato, per connessione con i reati di cui all’art. 90 Cost., viene compiuto dalla Corte costituzionale in una particolare composizione allargata. Ai quindici giudici ordinari si aggiungono i sedici giudici aggregati – tratti a sorte dall’elenco di cittadini aventi i requisiti per l’eleggibilità a senatore che il Parlamento compila ogni nove anni. Per quanto riguarda la fase della messa in stato di accusa, i rapporti, i referti e le denunzie concernenti i reati di cui all’art. 90 Cost., presentati al Presidente della Camera, sono da quest’ultimo trasmessi ad un Comitato parlamentare, formato dai componenti della Giunta del Senato e da quelli della Giunta della Camera competenti per le autorizzazioni a procedere in base ai rispettivi regolamenti. Il Comitato espleta le proprie indagini, an-

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che nei confronti di qualsiasi soggetto che abbia concorso nei reati di cui all’art. 90 Cost., con i poteri spettanti al Pubblico ministero ed al giudice per le indagini preliminari, entro il termine massimo di cinque mesi, prorogabile per una sola volta per un periodo non superiore a tre mesi. Di particolare rilevanza è la norma secondo cui nei procedimenti in questione non sono richieste le autorizzazioni previste dai co. 2 e 3 dell’art. 68 Cost., né possono essere opposti il segreto di Stato ed il segreto d’ufficio. A conclusione dei propri lavori, il Comitato: a) dichiara la propria incompetenza, ove ritenga che il reato sia diverso da quelli previsti dall’art. 90 Cost.; b) dispone con ordinanza motivata l’archiviazione degli atti del procedimento, ove ravvisi la manifesta infondatezza della notizia di reato; c) in ogni altra ipotesi presenta una relazione al Parlamento in seduta comune. Nei primi due casi, tuttavia, almeno un quarto dei componenti del Parlamento può chiedere che il Comitato presenti comunque la relazione di cui al terzo caso. La fase successiva si svolge di fronte al Parlamento in seduta comune ove, dopo la discussione, si procede alla votazione a scrutinio segreto della messa in stato di accusa che risulta approvata se viene raggiunta la maggioranza assoluta dei componenti; l’atto di accusa deve contenere l’indicazione degli addebiti e delle prove su cui l’accusa si fonda. Il Parlamento in seduta comune, nel porre in stato di accusa il Presidente della Repubblica, elegge, anche tra i suoi componenti, uno o più commissari per sostenere l’accusa; questi ultimi esercitano davanti alla Corte costituzionale le funzioni di pubblico ministero e hanno facoltà di assistere a tutti gli atti istruttori.

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Bibliografia

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BIBLIOGRAFIA AVVERTENZA. La presente bibliografia, suddivisa per capitoli e per argomenti, per evidenti ragioni di spazio non è completa. In tal senso, si è cercato di privilegiare i lavori monografici e gli articoli, limitando, quando possibile, la citazione di note a sentenza; inoltre, nel caso di più lavori da parte dello stesso Autore sullo stesso o analogo argomento, si è citata soltanto l’opera più ampia o più recente. D’altra parte, a parziale scusante delle consapevoli o colpevoli omissioni, per comprendere la vastità della letteratura relativa al Diritto parlamentare, è sufficiente riferirsi all’opera “Bibliografia del Parlamento repubblicano 1948-2000”, nonché ai successivi aggiornamenti, pubblicata dalla Camera dei deputati nel 2002, che consta di più di 900 pagine. L’opera è altresì consultabile via Internet al sito http://bpr.camera.it. Un’altra opera molto utile, per le norme ivi raccolte relative al Parlamento, è il “Manuale delle norme per l’attività parlamentare (XIII legislatura)” pubblicato nel 1996 dalla Camera dei deputati. Infine, si segnala il volume “I regolamenti interni dell’Amministrazione della Camera dei deputati”, pubblicato nel 2004 a cura della Segreteria generale della Camera dei deputati.

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Indice analitico

INDICE ANALITICO

assegnazione dei progetti di legge 196 ss. assemblea – computo degli astenuti 119 s. – convocazione 114 ss. – numero legale (vedi) astenuti (v. assemblea) autodichia 12 s., 19, 77 ss. autonomia contabile 76 autorizzazione a procedere 99 ss., 109 ss.

– in sede referente 206 ss. conferenza dei Presidenti di Gruppo 70, 124 ss. consuetudini – costituzionali 31 ss. – facoltizzanti 32 s. contingentamento dei tempi (v. programmazione dei lavori) convenzioni costituzionali 35 ss. coordinamento del testo approvato 212 s. Corte europea dei diritti dell’uomo 82 ss.

B

D

A

bicameralismo 51 bilancio (legge di) 130 ss., 224 ss. bipartitismo 43 s. bipolarismo 44 s.

decadenza dei progetti di legge (principio della) 182 ss. decreto legge (procedimento di conversione) 185 s., 222 ss. documentazione dei lavori parlamentari 116 s.

C calendario (v. programmazione dei lavori) comitato parlamentare per i procedimenti di accusa 264 s. comitato per la legislazione 206 s. commissioni d’inchiesta 243 ss. commissioni parlamentari 66 s., 68 – bicamerali 69 – in sede consultiva 198 ss. – in sede deliberante o legislativa 215 ss. – in sede redigente 217 ss.

E elettorato attivo (v. voto, diritto di) elettorato passivo 55 s. F fiducia (v. mozioni) forma di Governo 39 ss. – modificazioni tacite della 41 ss. forza di legge 12 ss.

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Indice analitico

G Gruppi parlamentari 67 s. guerra (stato di) 249 s. I immunità – assoluta 95 ss. – della sede 105 ss. – relativa 99 ss. incandidabilità 57 ss. inchiesta (commiss. di) 243 ss. incompatibilità 59 ss. indagini conoscitive 247 s. indennità parlamentare 108 s. indipendenza guarentigiata delle Camere 20 ss. ineleggibilità 56 s. iniziativa legislativa – del CNEL 159 – del Governo 155 ss. – improcedibilità dell’atto di 190 ss. – irricevibilità dell’atto di 190 ss. – pari valore formale (principio del) 150 – parlamentare 158 s. – popolare 159 ss. – regionale 161 ss. – riservata 166 ss. – vincolata 172 ss. intercettazioni – dirette 101 – indirette 101 s. interpellanze 218 ss. interrogazioni 218 ss.

– di approvazione del bilancio (v. bilancio) – di autorizzazione alla ratifica dei Trattati internazionali 172 s., 202 ss. – di concessione di amnistia e indulto 233 ss. – di conversione dei decreti legge (v. decreto-legge) – europea e di delegazione europea 204 s., 226 ss., 253 ss. – finanziaria 225 s. – rinviata alle Camere dal Presidente della Repubblica 224 M maggioranza 117 ss. mandato imperativo (divieto di) 67 s. materia costituzionale (leggi in) 202 messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica 262 s. mozioni 239 – di fiducia e sfiducia 239 s. – di sfiducia individuale 240 N numero legale 117 s. O ordini del giorno 242 ordine del giorno della seduta (v. programmazione dei lavori) ostruzionismo 132 ss.

L P legge – comunitaria 253 s. – costituzionale 230 ss.

parametricità dei regolamenti parlamentari 16 ss.

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pareri 98 ss. – facoltativi 198 – obbligatori 198 s. – rinforzati 199 – vincolanti 199 parlamento in seduta comune 259 ss. – potestà regolamentare 233 s. partiti politici 40 ss. petizione 248 s. prassi 37 s. precedenti 37 s. prerogative (v. Immunità) Presidenti delle Camere 59 s., 158 s., 162 s., 212 s. preclusione 182 presa in considerazione 143 procedimento legislativo 136 ss. – abbreviato 192 – di revisione costituzionale 204 ss. – normale 169 ss. – speciale 186 ss. – tipico 192 s. – urgente 191, 194 s. programma (v. programmazione dei lavori) programmazione dei lavori – dell’Assemblea 123 ss. – delle Commissioni 129 s. proroga 71 prorogatio 71

regolamenti parlamentari – generali 4 ss. – minori 27 ss. relazione illustrativa 151 s. relazione tecnica 152 ss. rimessione all’Assemblea 197 ss. riserva di legge di assemblea 202 ss. riserva di regolamento parlamentare 11 ss. risoluzioni 241 s. ritiro (potere di) 174 ss. S scioglimento delle Camere – anticipato 72 ss. – tecnico 74 senatori a vita – di diritto 63 ss. – di nomina presidenziale 63 ss. sessione di bilancio 130 ss. sfiducia (v. mozione di) sindacabilità dei regolamenti parlamentari – in sede di conflitto tra poteri dello Stato 87 ss. – in sede di giudizio di legittimità costituzionale 16 ss. sistemi elettorali 52 ss. status del parlamentare (v. immunità)

Q U questione pregiudiziale 210 questione sospensiva 210 R reati del Presidente della Repubblica – di alto tradimento 262 ss. – di attentato alla Costituzione 262 ss. reati ministeriali 109 ss.

Unione europea 251 ss. V valore di legge 20 s. verifica dei poteri 60 ss. videocrazia 48 votazioni 121 ss. voto (diritto di ) 54 s.

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Finito di stampare nel mese di marzo 2019 nella Stampatre s.r.l. di Torino via Bologna, 220

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