Il governo parlamentare in Italia 9788892105478, 8892105477

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Il governo parlamentare in Italia
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Indice
Capitolo Primo Lo Statuto Albertino, legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della monarchia
Capitolo Secondo La forma di governo nella Costituzione repubblicana (1943-2001)
Capitolo Terzo La forma di governo italiana. Gli organi e le funzioni del governo. Gli articoli 92 e 95 della Costituzione e la loro attuazione. La legge 23 agosto 1988, n. 400 ed il D.P.C.M. 10 novembre 1993 (regolamento del consiglio dei ministri)
Capitolo Quarto La forma di governo italiana ed i problemi della transizione fra prima e seconda Repubblica
Capitolo Quinto I partiti, il parlamento e il governo nel cosiddetto «modello bipolare» (1996-2008). I partiti «maggioritari» e quelli «carismatici» fra le elezioni del 2008 e la crisi politica del 2010: dal modello bipolare al neo trasformismo depretisiano?
Capitolo Sesto Gli sviluppi della forma di governo nella XVII legislatura
Capitolo Settimo La prospettiva delle riforme istituzionali (2005-2016)

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IL GOVERNO PARLAMENTARE IN ITALIA

STEFANO MERLINI - GIOVANNI TARLI BARBIERI

IL GOVERNO PARLAMENTARE IN ITALIA Seconda edizione

G. Giappichelli Editore

© Copyright 2017 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100

http://www.giappichelli.it ISBN/EAN 978-88-921-0547-8

Stampa: Stampatre s.r.l. - Torino

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/ fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

Indice

pag.

Capitolo Primo Lo Statuto albertino, legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della monarchia 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13.

Lo Statuto come Costituzione ottriata e la discussione sui «modelli» La forma di Stato, la forma di governo e le «costituzioni» dell’Italia liberale Il «Re Costituzionale», la prerogativa regia e il sistema parlamentare La prerogativa regia: la nomina e la revoca dei ministri Il comando delle forze armate e le relazioni internazionali Convocazione delle camere, «discorso della corona», proroga e chiusura delle sessioni, scioglimento della camera dei deputati Gli istituti della difficile evoluzione parlamentare: il governo Il parlamento ed il suo rapporto con il governo Le trasformazioni del sistema delle fonti in epoca statutaria: la disciplina degli atti normativi del governo Il parlamento: il bicameralismo. Il problema del senato L’avvento del regime fascista: la legge 24 dicembre 1925, n. 2263 Segue: i poteri normativi del governo nella legge 31 gennaio 1926, n. 100 Lo sviluppo della forma di governo dopo le «leggi fascistissime» del 1925-’26

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Capitolo Secondo La forma di governo nella Costituzione repubblicana (1943-2001) 1. 2.

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Il regime della transizione. La «costituzione provvisoria» L’Assemblea costituente, il «compromesso costituzionale» e la forma di governo repubblicana 2.1. Le scelte dell’Assemblea costituente in materia elettorale La forma di governo nella prima legislatura repubblicana: un premierato ante litteram?

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VI

Il governo parlamentare in Italia

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La forma di governo nel periodo 1953-1981: le coalizioni come «necessità istituzionale» 4.1. Segue: il governo dei partiti nella c.d. «prima Repubblica» 4.2. Segue: l’esperienza del c.d. «pentapartito» Verso la democrazia maggioritaria? I referendum elettorali ed il problema delle riforme istituzionali: la commissione bicamerale De Mita-Jotti I governi Amato e Ciampi come «governi di transizione». Lo scioglimento anticipato del 1994 e il ruolo del presidente della Repubblica La forma di governo dopo la riforma elettorale del 1993: la XII e la XIII legislatura 7.1. Le proposte della commissione D’Alema I governi politici nati in parlamento nella XIII legislatura: i due governi D’Alema ed il II governo Amato

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Capitolo Terzo La forma di governo italiana. Gli organi e le funzioni del governo. Gli articoli 92 e 95 della Costituzione e la loro attuazione. La legge 23 agosto 1988, n. 400 ed il D.P.C.M. 10 novembre 1993 (regolamento del consiglio dei ministri) 1. 2.

3. 4.

La legge n. 400 del 1988 e la novazione delle fonti sul governo. La legge n. 400 come legge a contenuto costituzionalmente vincolato La struttura e le funzioni del governo secondo la legge n. 400: a) la struttura del governo fra Costituzione e legge b) Segue: le funzioni del governo e quelle proprie dei suoi organi c) Segue: gli organi e le funzioni del governo in base al nuovo regolamento del consiglio dei ministri del 10 novembre 1993 d) Segue: la politica generale e l’unità di indirizzo politico e amministrativo del governo. Il presidente del consiglio, il consiglio dei ministri e la determinazione ed attuazione dell’indirizzo di governo e) Segue: l’organizzazione del governo (d.lgs. nn. 300 e 303 del 1999) La responsabilità dei ministri alla luce della sent. n. 7 del 1996 della corte costituzionale Gli organi non necessari del Governo tra legge n. 400 del 1988 e prassi

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Indice

VII pag.

Capitolo Quarto La forma di governo italiana ed i problemi della transizione fra prima e seconda Repubblica 1. 2. 3. 4. 5. 6.

La formazione del governo prima e dopo la svolta del 1993 Il programma di governo, l’art. 94 Cost. e la legge n. 400 del 1988. Dai governi di coalizione alla ricerca della democrazia immediata Il programma e la formula di governo: i «governi amministrativi». Il governo e le riforme istituzionali La formula ed il programma di governo nei «governi tecnici» di G. Amato, di C.A. Ciampi, di L. Dini e di M. Monti Crisi di governo e «succedanei» delle situazioni di crisi Lo scioglimento anticipato delle camere dopo la svolta del 1993

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Capitolo Quinto I partiti, il parlamento e il governo nel cosiddetto «modello bipolare» (1996-2008). I partiti «maggioritari» e quelli «carismatici» fra le elezioni del 2008 e la crisi politica del 2010: dal modello bipolare al neo trasformismo depretisiano? 1. 2.

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8.

Presidente del consiglio, partiti, ministri, ministeri e capo dello Stato nella formazione dei governi dal 1996 al IV governo Berlusconi Il governo ed il suo indirizzo politico. L’indirizzo politico, i partiti, il parlamento ed il governo. La crisi della «prima Repubblica» e la nascita del «modello bipolare» nelle elezioni del 1996 La svolta compiutamente bipolare (2001-2008): le elezioni politiche del 13 maggio 2001 e la formazione del II governo Berlusconi La XV legislatura: la forma di governo in un contesto di «bipolarismo» di coalizione «frammentato» La XVI legislatura, ovvero la svolta mancata: le elezioni del 2008 e la scesa in campo dei partiti «a vocazione maggioritaria». La struttura interna dei partiti politici. La democrazia nei partiti; i diritti degli associati, la maggioranza, la minoranza ed il problema del dissenso politico delle minoranze Segue: la formazione del quarto governo Berlusconi Il «bipolarismo rigido» nella XVI legislatura. I programmi elettorali, il presidente del consiglio, la fiducia parlamentare e la legge elettorale n. 270 del 2005. Bipolarismo e collegialità del governo. Il primo ministro e l’indirizzo politico del governo. Il nodo della politica economica e finanziaria Il sistema bipolare e la democrazia dei partiti. Il «partito carismatico» e il problema delle minoranze interne. La crisi del luglio 2010 e la dissoluzione della maggioranza di legislatura del 2008

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Il governo parlamentare in Italia

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Il complesso andamento della XVI legislatura: la crisi della maggioranza di governo ed i due voti di fiducia del 29 settembre e del 14 dicembre 2010. La maggioranza nuova e le mancate dimissioni del IV governo Berlusconi. Dalla crisi della maggioranza alla crisi del modello bipolare. Le crisi politiche della maggioranza ed il ruolo del parlamento 10. Le dimissioni del IV governo Berlusconi e la nascita di un nuovo governo «tecnico»: il governo Monti

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Capitolo Sesto Gli sviluppi della forma di governo nella XVII legislatura 1.

2. 3. 4.

5.

6.

L’inizio della XVII legislatura. I risultati delle elezioni del 23 e 24 febbraio 2013 e la fine del «bipolarismo». Il semestre bianco e la crisi di governo. La «commissione dei dieci» La «storica» rielezione del presidente Napolitano La formazione del governo Letta. Il ruolo del capo dello Stato. L’incarico, le trattative, il programma e la fiducia La fiducia al governo Letta. Il disegno di legge costituzionale di «deroga» all’art. 138 Cost. La nomina della «commissione per le riforme costituzionali». La crisi della «grande coalizione». La nascita del nuovo centro destra e le dimissioni del governo Le consultazioni e la formazione del governo Renzi. Il nuovo governo ed il discorso programmatico del nuovo presidente del consiglio. La composizione del governo. Il presidente della Repubblica, il governo ed il problema delle riforme istituzionali Il governo Renzi e l’attuazione del suo programma. Le dimissioni di Napolitano e la elezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica. Il «patto del Nazareno» e l’eclissi della forma di governo parlamentare

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Capitolo Settimo La prospettiva delle riforme istituzionali (2005-2016) PARTE I – IL DIBATTITO SULLE RIFORME COSTITUZIONALI (2005-2014) 1.

2. 3. 4.

Il testo di revisione della seconda parte della Costituzione approvato nella XIV legislatura e respinto nel referendum costituzionale nel giugno 2006 La legge cost. 20 aprile 2012, n. 1 («Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale») Le proposte del “gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali” istituito dal presidente della Repubblica il 30 marzo 2013 I lavori della commissione “Quagliariello”

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Indice

IX pag.

PARTE II – IL

TORMENTATO PERCORSO DI RIFORMA DELLE LEGGI ELETTORALI

PER IL PARLAMENTO NAZIONALE

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A monte della “rivoluzione” del 2014: l’eterno dibattito sulla riforma elettorale (1993-2013) 6. Segue: la svolta costituita dalla sent. n. 1 del 2014 della corte costituzionale 7. Il sistema elettorale per il senato risultante dalla sent. n. 1 del 2014 8. L’italicum: un sistema elettorale per la sola camera dei deputati 9. Segue: l’italicum: svolta o porcellum-bis? 10. Conclusioni: la necessità di un ripensamento globale della legislazione elettorale nel contesto di una forma di governo in discussione 11. La nuova disciplina del finanziamento dei partiti politici

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PARTE III – LA PROPOSTA DI REVISIONE COSTITUZIONALE “RENZI-BOSCHI”

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12. Il d.d.l. “Renzi-Boschi” ed il metodo delle riforme costituzionali. L’art. 138 della Costituzione. Il problema della revisione della Costituzione e quello delle “grandi riforme”. Le “grandi riforme” ed il referendum costituzionale previsto dal comma 2 dell’art. 138 con i due diversi quorum da esso previsti 13. I contenuti del testo di revisione costituzionale: il superamento del bicameralismo paritario e la riduzione del numero dei parlamentari 14. La nuova disciplina del procedimento legislativo 15. Altri contenuti della riforma: elezione del capo dello Stato; impugnazione delle leggi elettorali per i due rami del parlamento; modifiche agli istituti di democrazia diretta 16. Riforma “Renzi-Boschi” e sviluppi della forma di governo: la questione del “combinato disposto” tra revisione costituzionale e italicum 17. La revisione del titolo V della parte II della Costituzione

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PARTE IV – LA FORMA DI GOVERNO ITALIANA: PROBLEMI E PROSPETTIVE

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18. Introduzione: la “presidenzializzazione” degli esecutivi nelle democrazie contemporanee 19. Reinterpretazione o revisione degli artt. 92 e 95 Cost.? L’art. 8 della legge Madia

 

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Il governo parlamentare in Italia

Capitolo Primo

Lo Statuto Albertino, legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della monarchia SOMMARIO: 1. Lo Statuto come Costituzione ottriata e la discussione sui «modelli». – 2. La forma di Stato, la forma di governo e le «costituzioni» dell’Italia liberale. – 3. Il «Re Costituzionale», la prerogativa regia e il sistema parlamentare. – 4. La prerogativa regia: la nomina e la revoca dei ministri. – 5. Il comando delle forze armate e le relazioni internazionali. – 6. Convocazione delle camere, «discorso della corona», proroga e chiusura delle sessioni, scioglimento della camera dei deputati. – 7. Gli istituti della difficile evoluzione parlamentare: il governo. – 8. Il parlamento ed il suo rapporto con il governo. – 9. Le trasformazioni del sistema delle fonti in epoca statutaria: la disciplina degli atti normativi del governo. – 10. Il parlamento: il bicameralismo. Il problema del senato. – 11. L’avvento del regime fascista: la legge 24 dicembre 1925, n. 2263. – 12. Segue: i poteri normativi del governo nella legge 31 gennaio 1926, n. 100. – 13. Lo sviluppo della forma di governo dopo le «leggi fascistissime» del 1925-’26.

1. Lo Statuto come Costituzione ottriata e la discussione sui «modelli» È consuetudine, metodologicamente giustificata, che ogni analisi, breve o più approfondita, sulla forma di governo nel periodo di vigenza dello Statuto, inizi con una riflessione sulle modalità della sua adozione. Lo Statuto albertino entrò in vigore il 4 marzo del 1848 «di nostra certa scienza, Regia autorità», come si espresse, nel preambolo, il re Carlo Alberto: utilizzando, anche se per l’ultima volta, «l’antica formula dei governi assoluti» (E. CROSA, La monarchia nel diritto pubblico italiano, Torino, Bocca, 1922). Tuttavia, come per smentire interpretazioni troppo radicali della ampiezza della «concessione» regia della Costituzione piemontese, nel testo dello stesso preambolo appare il richiamo al «parere del nostro consiglio»: ovvero, all’intervento, nella realtà determinante, dei sette ministri del re, durante i tumultuosi avvenimenti del febbraio, provocati dalla notizia della promulgazione a Napoli, il 12 di quel mese, della Costituzione di Ferdinando di Borbone, esemplata su quella francese del 1830. La preziosa testimonianza dei verbali del «consiglio di conferenza», pubblicati nel 1898 e commentati, fra i primi, da F. Racioppi e I. Brunelli

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Il governo parlamentare in Italia

(in Commento allo Statuto, Torino, Utet, 1909) e da Crosa (E. CROSA, La concessione dello Statuto: Carlo Alberto e il ministro Borelli «redattore» dello statuto, Torino, Istituto giuridico della regia Università, 1936), consente di ritenere che l’iniziativa politica dei ministri (ed, in particolare del ministro dell’interno Borelli, che era, in realtà, il primo dei ministri) fu del tutto determinante: sia nel convincere il re che la concessione di una Costituzione era inevitabile, sia nella formazione del testo del nuovo Statuto. Nella decisiva riunione del 3 febbraio, Borelli, dopo essersi richiamato alla superiore virtù di quel regime assolutista-moderato al quale egli e gli altri ministri sentivano di appartenere, fece presente che la domanda «per una forma rappresentativa di governo» era ormai così forte, che solo una risposta positiva avrebbe potuto «evitare una crisi». Per rendere più chiaro il suo pensiero, e parlando a nome di tutti i ministri, dei quali egli era, nei fatti, il primus inter pares, Borelli concludeva, poco dopo, che, se questo avviso non fosse stato seguito, i ministri avrebbero visto «con il più vivo dolore, la necessità di pregare il Re di scegliersi altri consiglieri». Questo passo è illuminante perché dimostra che l’evoluzione della forma di governo pre-statutaria aveva condotto, nel Regno di Sardegna, ad un sistema di responsabilità ministeriale per la quale i ministri già sentivano il dovere politico-costituzionale di «coprire la corona», sostanzialmente inabilitata a governare da sola, indipendentemente o contro il parere del suo governo. Al di là delle note discussioni sul carattere e sulle opinioni di Carlo Alberto, sembra emergere, allora, in primo piano, l’importanza, anche in questa fase, di quella classe dirigente piemontese che, fondamentalmente omogenea, seppe governare il passaggio pacifico da un regime formalmente assoluto ad un altro più vicino alle richieste dell’opinione pubblica. È in questa prospettiva che appare, allora, importante anche il «Proclama» dell’8 febbraio: anzitutto (e rispetto alla procedura di adozione dello Statuto) la pubblicazione del proclama veniva incontro alle pressanti richieste del movimento liberale attraverso l’offerta a questo di una sorta di patto, per il quale il «consiglio di conferenza», che risulta aver anche materialmente redatto il documento, garantiva i principi fondamentali che avrebbero ispirato la nuova Costituzione, mentre i liberali rinunciavano alla mobilitazione della piazza. Da questo punto di vista, si attenuano, allora, anche senza scomparire del tutto, le critiche che sono state rivolte allo Statuto come «testo dinastico», arretrato, anche rispetto alla sua procedura di adozione, rispetto alla Costituzione francese del 1830 ed a quella belga del 1831 (U. ALLEGRETTI, Profilo di storia costituzionale italiana, Bologna, Il Mulino, 1989, pp. 373 ss.). Le carte del «consiglio di conferenza» sembrano dimostrare, infatti, l’esistenza di canali di comunicazione molto attivi ed efficienti fra il nucleo di ministri che preparò e redasse la riforma statutaria e quei gruppi dirigenti liberali (D’Azeglio, Cavour) che furono poi, non a caso, chiamati

Lo Statuto Albertino, legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile

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dallo stesso Borelli a partecipare alla redazione delle prime, e fondamentali, leggi attuative dello Statuto: quella sulla stampa e quella elettorale. La perpetuità e l’irrevocabilità della Costituzione piemontese debbono, allora, essere lette nel contesto di questo passaggio. Anche prima della concessione dello Statuto, la monarchia sabauda poteva governare solo attraverso ministri che si assumevano la responsabilità degli atti di governo e, dunque, la concessione di una Costituzione liberale fu imposta dai gruppi dirigenti liberali a Carlo Alberto, a pena della retrocessione (storicamente impensabile) del Regno di Sardegna in una situazione giuridicopolitica paragonabile a quella degli inizi del secolo. La minaccia di dimissioni del consiglio dei ministri avrebbe, infatti, obbligato il re a nominare ministri gli esponenti degli isolati e screditati gruppi reazionari. Una sorta di «rivoluzione liberale» fu, dunque, presente nel processo di adozione dello Statuto ed il regime monarchico-costituzionale rappresentativo, che alla fine caratterizzò la carta piemontese, fu, anche senza Assemblea costituente, il contenuto minimo di un patto politico esplicitamente stretto fra la corona e tutto il movimento liberale, al di là delle differenziazioni in esso presenti. In questo senso vanno, dunque lette le interpretazioni sulla «irrevocabilità» dello Statuto molto frequenti nei testi di diritto costituzionale del secolo scorso e degli inizi del nostro. Significativamente, Arcoleo (G. ARCOLEO, Diritto costituzionale, Milano, Mondadori, 1935, pp. 164 ss.) contrappone il «valore ristretto» delle costituzioni di Prussia (1850) e d’Austria (1867), vere «concessioni della corona», alla limitazione dei poteri regi che è nello Statuto. Il processo attraverso il quale lo Statuto era stato concesso escludeva, anzitutto, che rimanesse nei poteri politici e giuridici del re la revoca pura e semplice dello Statuto. Dal punto di vista politico, in primo luogo, per l’esistenza del già sottolineato «patto», rafforzato, secondo alcuni, successivamente, dai plebisciti; tutti promossi dai governi provvisori per chiedere l’annessione alla monarchia o al re costituzionale. Dal punto di vista giuridico, in secondo luogo, perché la corona aveva già esaurito, con la promulgazione dello Statuto, l’originario potere costituente, attribuendo l’esercizio di tutti i poteri dello Stato ad organi e procedure «costituiti»: modificabili, perciò, solo nei modi ivi costituzionalmente previsti. In realtà, dunque, il problema della irrevocabilità dello Statuto si poneva soltanto in relazione alle modalità di esercizio di quei poteri che la Costituzione piemontese attribuiva al re, sia come detentore del potere esecutivo (art. 5), sia come «compartecipe» all’esercizio degli altri poteri. In effetti, come sarà meglio chiarito approfondendo lo sviluppo della forma di governo statutaria, la corona fu attenta, fino al fascismo, a non annullare del tutto, attraverso «ritorni all’indietro» (F. RACIOPPI, I. BRUNELLI, Commento, cit.), i limiti fondamentali alle prerogative regie garantiti dallo Statuto: e ciò anche nei momenti più drammatici della storia na-

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Il governo parlamentare in Italia

zionale. In un contesto storico molto diverso, Bismarck avrebbe controfirmato nel 1882 la celebre ordinanza del re di Prussia al suo governo, nella quale il sovrano interpretava la esistenza, secondo Costituzione, di ministri responsabili, riaffermando «il diritto costituzionale mio e dei miei successori di dirigere personalmente la politica del mio governo» e si riferiva agli atti del governo come ad atti propri della corona, dotati del «carattere di Reali Risoluzioni indipendenti». La discussione sulla irrevocabilità e sulla perpetuità dello Statuto ha, quindi, un senso, da un punto di vista giuridico e politico, solo se ci si riferisce alle possibili interpretazioni dei poteri della corona da parte dello stesso re; dato che uno dei non minori problemi della forma di governo statutaria fu, appunto, quello dell’ampiezza interpretativa consentita dalle norme che riguardavano le «reali prerogative». Su questi punti, come si dirà, le divergenze furono ampie e costanti; diversa fu la prassi dei diversi sovrani e dei governi e mancò, come fu rilevato da quasi tutti i costituzionalisti, quel ruolo fondamentale dell’interpretazione per via di consuetudine che era stato, invece, determinante nella progressiva limitazione dei poteri della corona britannica. È vero, tuttavia, che il tema dell’irrevocabilità-perpetuità dello Statuto ha assunto, durante il periodo della sua vigenza, anche un altro significato. Come è noto, la Costituzione del Regno di Sardegna fu, da subito, qualificata come Costituzione flessibile, in quanto in essa non erano previsti né procedimenti aggravati di revisione costituzionale (come, ad esempio, non solo nella lontana Costituzione degli Stati Uniti, ma nella vicinissima Costituzione belga del 1831), né si prevedeva uno speciale organo dotato del potere di revisione, né, infine, organi ai quali fosse attribuito un potere specifico di controllo di costituzionalità degli atti (sul punto, per tutti, M. FIORAVANTI, Costituzione e legge fondamentale, in Dir. pubbl., 2006, pp. 467 ss.; R. BIN, Che cos’è la Costituzione?, in Quad. cost., 2007, pp. 11 ss.). Dopo l’emanazione dello Statuto fu concordemente ritenuto che il re, avendo conferito al parlamento la potestà legislativa, avesse del tutto perduto non solo il potere di revoca, ma anche quello di revisione della Costituzione. Il parlamento, si intende anche attraverso la partecipazione del re alla funzione legislativa con la sanzione delle leggi, rimaneva, dunque, il solo organo abilitato alle modifiche costituzionali; esso poteva essere qualificato «Costituente perpetua», in base al principio cardine di tutto il sistema liberale: quello dell’«onnipotenza parlamentare» (F. RACIOPPI, I. BRUNELLI, Commento, cit., I, pp. 191 ss.; per una radicale negazione di questa tradizionale impostazione ed a favore della tesi secondo la quale lo Statuto fu concepito come assolutamente rigido e quindi immodificabile, cfr. le importanti, anche se non del tutto convincenti, argomentazioni di A. PACE, La causa della rigidità costituzionale, Padova, Cedam, 1996, partic. pp. 70 ss.). In effetti, proprio gli stretti rapporti che legano questa concezione assolutista del potere legislativo alle idee di rappresentanza politica basate sulla

Lo Statuto Albertino, legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile

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capacità (e quindi sul censo) spiegano l’abbandono delle prospettive di convocazione di un’Assemblea costituente che, convocata «col mezzo del suffragio universale», avrebbe dovuto discutere e stabilire «le basi e le forme di una nuova monarchia costituzionale, con la dinastia dei Savoia», secondo quanto disponeva l’articolo unico della legge 11 luglio 1848, n. 747. I drammatici eventi del 1848-49 (che si conclusero con la disfatta di Novara e l’abdicazione di Carlo Alberto) causarono, invece, ripetute dimissioni di governi, e profondi ed insanabili contrasti fra la camera e la corona per la conduzione, da parte di questa, della guerra, dell’armistizio e della pace con l’Austria. Come si vedrà esaminando i problemi della forma di governo, quegli avvenimenti, e soprattutto i due scioglimenti anticipati del 1849 deliberati da Vittorio Emanuele II, furono destinati ad influenzare profondamente le istituzioni italiane. Per quanto riguarda l’Assemblea costituente, la definitiva sconfitta della maggioranza democratica nel parlamento subalpino e l’affermazione dei moderati non potevano che portare al suo definitivo abbandono. Anche dopo la ripresa dell’iniziativa politico-militare per l’unificazione nazionale sembrò più coerente con il principio del parlamento «Costituente perpetua» procedere, come ricordato, attraverso i plebisciti e la rapida integrazione nel parlamento subalpino delle popolazioni «annesse»; integrazione che avveniva, ovviamente, in base a quel criterio di capacità-rappresentanza politica che fu la Grundnorm delle istituzioni della destra storica (G. PERTICONE, Il regime parlamentare nella storia dello Statuto albertino, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1970, p. 79). La flessibilità consentì dunque nella prassi, sia modifiche alla carta statutaria con legge ordinaria, sia una sua eventuale integrazione su base consuetudinaria, sia, infine, «la possibilità di una sua interpretazione in modo difforme dallo stretto rigore delle norme originarie» (C. GHISALBERTI, Storia costituzionale d’Italia 1848/1948, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 49). Secondo alcuni, questa concezione e questa prassi della flessibilità, permisero «il pacifico adattamento dello Statuto albertino da un paese modesto, com’era il Piemonte, ad uno Stato ampio qual’è il Regno d’Italia» (F. RACIOPPI, I. BRUNELLI, Commento, cit., I, p. 193; ma nello stesso senso, Arcoleo, Palma, Arangio-Ruiz; sul problema della continuità o meno tra il Regno di Sardegna e il Regno d’Italia e sul connesso problema della novazione dello Statuto dopo i plebisciti, cfr., da ultimo, M. DOGLIANI, Un peccato originale del costituzionalismo italiano: incertezze e silenzi sulla novazione dello Statuto dopo i plebisciti, in Dir. pubbl., 2010, pp. 509 ss.). Secondo altri, invece, l’idea liberale della flessibilità avrebbe condotto ad un esito paradossale, perché l’onnipotenza parlamentare sarebbe stata utilizzata non nel senso della revisione esplicita dello Statuto, ma per variarlo, attraverso riforme legislative indirette, «per lo più in senso retrivo o involutivo (impedendo) una pacifica evoluzione verso la democrazia» (U. ALLEGRETTI, Profilo, cit., p. 407).

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A dire il vero, al problema della flessibilità dello Statuto, visto in questa prospettiva, sembra che possano darsi due risposte diverse. Anzitutto, il fatto che la Costituzione sardo-piemontese fosse, come fonte del diritto, una legge ordinaria del tutto parificabile, in quanto alla sua forza, a tutte le altre leggi ordinarie successive, contribuì indubbiamente a molte delle «degenerazioni del parlamentarismo», secondo l’espressione usata nell’o.d.g. Perassi, che fu posto, come si vedrà, dall’Assemblea costituente alla base della costruzione della forma di governo repubblicana. Tuttavia, non occorre, certo, arrivare all’epoca del post-fascismo per incontrare valutazioni anche radicalmente critiche della flessibilità statutaria. Nel più volte citato «Commento allo Statuto del Regno» di Racioppi e Brunelli, pubblicato nel 1909, si può leggere, ad esempio, un’acuta analisi di questo problema nelle considerazioni che deprecano una Costituzione così debole da essere posta «alla quotidiana disposizione del legislativo» e, cosa ancora più grave, nelle mani dei governi, visti «dalla maggioranza della camera “onnipotente”» come «il suo comitato esecutivo», cosicché «anche l’Esecutivo diviene insensibile ai propri limiti ed usurpa in pratica l’onnipotenza del parlamento» (F. RACIOPPI, I. BRUNELLI, Commento, cit., I, rispettivamente pp. 196 e 197). Da questo punto di vista, sembra, dunque, che si possa registrare una sostanziale concordia delle analisi sul fatto che le già deboli garanzie statutarie divennero ancora più evanescenti attraverso le norme restrittive delle libertà civili e politiche introdotte da maggioranze occasionali o, per decreto, dai governi in situazioni definite «eccezionali», spesso con il parlamento chiuso per proroga o scioglimento. Tutto questo si ripeté regolarmente fino al fascismo quando, come si dirà, la flessibilità statutaria servì ad instaurare un compiuto regime totalitario nel segno di una pretesa continuità della forma di governo. È anche vero, però, che da parte di scrittori liberali sono stati rilevati, almeno fino al fascismo, anche i vantaggi della «Costituzione flessibile». Nel periodo delle annessioni e della unificazione amministrativa, la flessibilità avrebbe, anzitutto, consentito di superare le difficoltà di impianto di un ordinamento unitario, che sarebbero risultate altrimenti insormontabili (in questo senso, M.S. GIANNINI, Parlamento e amministrazione, ora in S. CASSESE, a cura di, L’amministrazione pubblica in Italia, Bologna, Il Mulino, 1974, pp. 276-277; da ultimo Giuseppe VOLPE, L’Italietta (1861-1915), Torino, Giappichelli, 2009). In effetti, si può ritenere utopistica l’idea della convocazione di un’Assemblea costituente per decidere, al momento della formazione dell’unità nazionale, dell’ordinamento del Regno. Troppo diverse apparivano, infatti, le condizioni politico-sociali degli Stati annessi; mentre, d’altra parte, i tempi molto rapidi dell’unificazione, almeno fra il 1859 e il 1866, difficilmente avrebbero consentito (anche per i condizionamenti internazionali dell’unità) le dilazioni e gli incerti esiti di una Costituente.

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Se si accetta questa impostazione del problema, occorre almeno prendere atto anche delle modificazioni introdotte in positivo nell’ordinamento statutario, ovviamente fino al fascismo, grazie alla sua flessibilità: da quelle più remote, come il progressivo superamento dell’art. 1 sulla «sola Religione dello Stato» ed i rapporti fra Stato e Chiesa, alle norme riguardanti le funzioni del parlamento (ad esempio in materia di poteri di inchiesta) fino al notevole allargamento delle libertà di riunione e di associazione dell’epoca giolittiana. È pero altrettanto vero che la flessibilità statutaria non poté impedire «ritorni all’indietro» che a più riprese si manifestarono, in particolare con riferimento alla tutela dei diritti di libertà (si pensi, solo per citare un esempio, alla legislazione di fine secolo alla quale si accennerà nel par. 2). La questione principale è, però, un’altra e, tutto sommato, più complessa. Occorre chiedersi, infatti, quale sarebbe stata l’evoluzione della stessa forma di governo statutaria se la Costituzione sardo-piemontese fosse stata rigida come quella belga del 1831, in relazione alla discussione sui principi giuridici in base ai quali il fondamentale art. 67, riguardante la responsabilità dei ministri di fronte al re, poté evolversi in una norma in grado di instaurare una forma di governo di tipo parlamentare. Come è noto, la risposta tradizionale, e più diffusa, al problema delle modalità del passaggio dal governo costituzionale a quello (come vedremo, solo tendenzialmente) parlamentare ha individuato nella consuetudine la fonte del diritto in base alla quale si sarebbe operata la «trasformazione» dell’art. 67 dello Statuto. Questa tesi si scontra, però, contro due obiezioni difficilmente superabili: per la prima, la consuetudine non avrebbe potuto operare contro quelle norme statutarie (artt. 5, 65) che attribuivano esplicitamente al re la titolarità del potere esecutivo; per la seconda, l’instaurazione della responsabilità ministeriale di fronte al parlamento si sarebbe instaurata così sollecitamente da escludere il requisito della costante ripetizione di un comportamento nel tempo, che è carattere ineliminabile della consuetudine stessa. In conseguenza, l’opinione oggi più accreditata tende a far risalire l’instaurazione della responsabilità parlamentare all’istituto della convenzione (esemplato su quello britannico delle conventions of the Constitution); convenzione che avrebbe riguardato i rapporti instauratisi fra tre organi costituzionali: il re, il governo ed il parlamento. In realtà, la nascita di convenzioni in senso parlamentare non fu, però, in grado di modificare la lettera statutaria sulla responsabilità governativa: il che spiega le divergenti interpretazioni della prerogativa regia da parte dei costituzionalisti dell’800 ed i frequenti appelli per un «ritorno allo Statuto» da parte dei politici. Infatti, la dottrina della convenzione (proposta da G.U. RESCIGNO, La responsabilità politica, Milano, Giuffrè, 1967, pp. 13 ss.) si attaglia bene al

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solo rapporto fra parlamento e governo, che si instaurò in concreto, e per mutuo consenso, fino dal 1848, come testimoniano dibattiti parlamentari e dichiarazioni di governi. Più difficile risulta, invece, provare l’esistenza di una simile convenzione sul fronte dei rapporti fra la corona ed i governi, stante la tradizionale riservatezza dei rapporti fra questi due organi costituzionali. Da questo punto di vista, allora, si spiega, come si vedrà, il perdurare di equivoci, di tensioni, di veri e propri «ritorni all’indietro», anche se i «governi del re» cercarono di irrigidire alcune di quelle convenzioni con la corona attraverso quel controverso corpo di norme che, da D’Azeglio in poi, ebbe ad oggetto l’organo costituzionale governo. È evidente, comunque, che questo difficile cammino ebbe alla base il principio della flessibilità statutaria, in assenza della quale la forma di governo sarebbe stata destinata a rimanere legata ai principi della monarchia costituzionale.

2. La forma di Stato, la forma di governo e le «costituzioni» dell’Italia liberale Il tema della flessibilità dello Statuto albertino è strettamente legato ad un’altra questione, che non sembra priva di rilievo sia in sede giuridica che in sede storica. È noto che M.S. Giannini propose, nel suo già citato studio degli inizi degli anni ’60, di rileggere la storia dello Stato italiano degli ultimi cento anni, suddividendo la Costituzione liberale (considerata, tradizionalmente, continuativamente in vigore dal 1848 fino all’affermazione del regime fascista nel 1925) in due distinte costituzioni. La prima, liberale secondo lo Statuto ma «oligarchica» secondo la legge elettorale (e la conseguente attribuzione dei diritti politici), perché in essa «il ceto degli abbienti è l’unico detentore del potere» o, più precisamente, del potere di governo. La seconda, tendenzialmente «democratica», caratterizzata dall’introduzione del suffragio universale, dalla «presenza in parlamento dei rappresentanti di altri ceti e di tutte le classi» e dalla emersione, nella sfera pubblica, di nuovi interessi, di nuovi indirizzi politici dello Stato. In definitiva, dunque, in base a questa ricostruzione, si sarebbero succedute nella storia dell’Italia unita (ed a parte quelle «provvisorie») quattro costituzioni: le due dell’epoca liberale, quella fascista e quella repubblicana. È evidente, anzitutto, che un problema interpretativo di questo tipo si può porre solo nell’ambito di vigenza di una Costituzione flessibile. Lo Statuto come Costituzione fu integrato, infatti, da una pluralità di leggi ordinarie che possono essere considerate oggettivamente attinenti alla materia costituzionale (da quelle elettorali a quelle sulla libertà di riunione e di associazione; da quelle sulle amministrazioni locali a quelle sulla

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amministrazione centrale): cosicché rimane apertissimo il giudizio sul risultato complessivo di tali integrazioni nei diversi momenti della storia statutaria. Il suggerimento ricostruttivo di Giannini sembra importante, tuttavia, soprattutto da un altro punto di vista. Giudicare una stessa Costituzione scritta, oligarchica o democratica in base all’effettivo godimento da parte di tutti i cittadini (in questa prospettiva solo quelli di sesso maschile) dei diritti politici, sottolinea che è fuorviante qualsiasi ricostruzione della forma di governo che tenda a prescindere dalla qualificazione della corrispondente forma di Stato. Riferirsi alla forma di Stato significa, però, prendere in considerazione non soltanto l’estensione dei diritti politici attribuiti ai cittadini, ma il complesso di tutti i diritti di libertà che sono riconosciuti dallo Stato. Significativamente, commentando l’art. 24 dello Statuto, dedicato al principio di eguaglianza, Racioppi e Brunelli scrivevano nel 1909: «La parola libertà implica veramente l’affermazione di una legge di tendenza, cui vogliamo che lo Stato s’ispiri nel segnare con le leggi gli indispensabili limiti delle varie attività private di fronte ai vari interessi pubblici [...] lo Stato non deve concedere al governo se non quel tanto ch’è strettamente necessario alla salvaguardia dei generali interessi» (F. RACIOPPI, I. BRUNELLI, Commento, cit., II, p. 10). La qualificazione della forma di Stato dipende, allora, dal risultato dell’equilibrio che è, in concreto, stabilito dai poteri politici fra la libertà dei singoli e dei gruppi e gli interessi generali intesi come limite ai diritti fondamentali. Da questo punto di vista, la distinzione fra una Costituzione liberale-oligarchica ed una liberale-democratica può essere compiuta a condizione di non limitarsi ad esaminare le leggi elettorali ed al diritto di voto, ma di estendere l’esame anche a tutte le libertà che costituiscono «garanzie della partecipazione dell’individuo alla vita politica della comunità» (P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 13 ss.), e, quindi, al «bilanciamento» effettivo fra le fondamentali libertà (quella di manifestazione del pensiero e di stampa; quella religiosa; quella di riunione; quella di associazione) ed i limiti che furono loro posti dalle leggi o direttamente dal potere esecutivo. In questa prospettiva più complessa, appare difficile assegnare alla legge elettorale (ed alla questione, certamente cruciale, dell’allargamento del diritto di voto) un ruolo assolutamente qualificante del nomen e del contenuto delle costituzioni liberali. Al contrario, si può osservare che l’allargamento del corpo elettorale che si ebbe nel 1882 non condusse certo ad un diretto allargamento dell’esercizio delle altre libertà fondamentali. È vero, infatti, che nel 1889 il governo Crispi approvò con decreto legislativo delegato il nuovo codice penale, elaborato da Zanardelli, che è concordemente definito, in contrapposizione ai precedenti, un codice di ispirazione realmente liberale in molte sue parti. Non si deve dimenticare, tuttavia,

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l’ambiguità con la quale quel codice regolava alcuni fondamentali diritti (alcuni non riconosciuti, come lo sciopero; altri apparentemente garantiti, come la libertà di associazione, che rimaneva, però, affidata al possibile intervento repressivo del governo, quando si svolgesse «in modo pericoloso per la pubblica tranquillità»). D’altra parte, come è stato rilevato da chi si è occupato in sede storica delle libertà fondamentali, è indubitabile che queste, nello Stato liberale, risultarono molto più soggette ai testi unici di pubblica sicurezza o ai ricorrenti «stati d’assedio» che ai principi dello Statuto e dei codici penali. Da questo punto di vista, allora, e continuando a parlare dell’ultimo decennio del secolo, così importante nella definizione di questi problemi, la dichiarazione dello stato d’assedio in Sicilia del 1890; l’approvazione del T.U. di P.S. crispino del 1893 (che prevedeva la facoltà di assegnare al domicilio coatto anche coloro che avessero manifestato anche il semplice proposito «di commettere vie di fatto contro gli ordinamenti sociali»); le norme più restrittive sulla apologia di reati commessi a mezzo della stampa, consentirono l’ultima crociata repressiva di Crispi, con lo scioglimento dei circoli socialisti e l’assegnazione al confino «dei pochi deputati» di quel partito (G. ARANGIO-RUIZ, Storia costituzionale del Regno d’Italia, rist., Napoli, Jovene, 1985, p. 514). La «svolta autoritaria di fine secolo» di Pelloux, con i disegni di legge presentati alla camera il 4 febbraio 1899, risulta, dunque, espressione di uno storico contrasto, da sempre esistente nella classe dirigente liberale, e riguardante, appunto, l’interpretazione della forma di Stato introdotta in Italia attraverso lo Statuto. È vero, infatti, che la bandiera dell’interpretazione garantista dello Statuto era già stata assunta da Turati nel 1896 (G. PERTICONE, Il regime parlamentare, cit., p. 132); tuttavia, il successo dell’ostruzionismo parlamentare contro i disegni di legge, prima, e, poi, la forte mobilitazione contro i decreti legge di Pelloux furono dovuti alla convergenza di socialisti e radicali con quei «liberali di sinistra» (principalmente, Zanardelli e Giolitti) che avevano, da sempre, proposto in sede politica, prima che teorica, la conciliabilità di una lettura espansiva delle libertà fondamentali con la difesa degli interessi generali, quali l’ordine pubblico e la pace sociale. Sarebbe, però, fuorviante concludere, in base a questi motivi, che un’idea «tendenzialmente democratica» dello Statuto si sia definitivamente affermata dopo il governo Zanardelli e, poi, con il terzo e il quarto governo Giolitti. Anzitutto, la legge sul suffragio «quasi universale» del 1912 non fu seguita da riforme legislative in materia di libertà, cosicché sciopero, associazione, riunione rimasero quasi «libertà di fatto», affidate alla discrezionalità del potere esecutivo (U. ALLEGRETTI, Profilo, cit., pp. 416 ss.). Tuttavia, se così è, occorrerebbe, allora, ripensare alle troppo strette correlazioni che sono state stabilite, per questo periodo storico, fra l’allargamento del suffragio, la partecipazione popolare al governo dello Sta-

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to e l’output in termini di definitivo consolidamento della democrazia. Anche se il tema non riguarda l’oggetto di questo scritto, si può pensare che con «quella legge, non richiesta, anzi considerata con diffidenza dai partiti (potenzialmente) di massa» (G. PERTICONE, Il regime parlamentare, cit., p. 209), «definitivamente si rinunciò a ogni proposito o speranza di un processo educativo che potesse, se non precedere, almeno accompagnare l’allargamento della base elettorale» (G. MARANINI, Storia del potere in Italia, ristampa, Firenze, Nuova Guaraldi, 1983, p. 231). In definitiva, se è vero che l’allargamento del suffragio portò i partiti politici «ad organizzarsi o a costituirsi come partiti organizzati» (M.S. GIANNINI, Parlamento e amministrazione, cit.), bisogna, però, riconoscere che questo fatto rimase privo di stabili conseguenze sul piano della forma di governo, come sarà dimostrato, allo scoppio della guerra europea, dai rapporti del ministero Salandra con il parlamento e con la corona. Questo punto sarà preso in esame più avanti, a proposito dei più generali problemi della forma di governo. Per quanto riguarda la forma di Stato, non si può fare a meno di concludere che il «processo educativo», che avrebbe dovuto accompagnare le riforme elettorali, avvenne, poi, attraverso tre anni di guerra sanguinosa, ma con modalità tali da condurre, dopo il suffragio davvero universale (maschile) e la proporzionale del 1919, direttamente al fascismo.

3. Il «Re Costituzionale», la prerogativa regia e il sistema parlamentare Nella sua preziosa monografia «La concessione dello Statuto» (1935), Emilio Crosa concludeva il suo acuto giudizio sul fondamentale contributo di Giacinto Borelli alla determinazione statutaria, lodando l’abilità con la quale il ministro degli interni di Carlo Alberto aveva saputo conciliare il nuovo sistema rappresentativo con l’istituzione monarchica, che sarebbe rimasta «circondata dalle più ampie guarentigie» e trasferita «nella sua integrità giuridica nel novus ordo». È molto significativo che un giudizio come questo venisse espresso nel momento della più larga affermazione del regime fascista da un costituzionalista di matrice liberale. Non si trattava, d’altra parte, di improvvisazione, perché quella idea della collocazione della corona nella forma di governo statutaria seguiva una tradizione interpretativa che, da Borelli, avrebbe, poi, proseguito con Casanova, Palma, Sonnino, Minghetti, Arcoleo, Mosca e V.E. Orlando: per ricordare soltanto il versante conservatore-liberale di questa tradizione, che ebbe anche un’ala più francamente reazionaria, impersonificata da Solaro della Margherita e da Pasquale Turiello. In effetti, prima di esaminare l’ampiezza e l’effettiva attribuzione dei singoli poteri della corona, conviene cercar di capire il senso politico-costituzionale del dibattito sulla funzione complessiva dell’istituzione mo-

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narchica nello Statuto albertino. Da questo punto di vista, l’attenzione già dedicata al tema della flessibilità dello Statuto consente di capire facilmente i motivi per i quali la difesa della massima estensione della flessibilità statutaria (e, quindi, del peso della consuetudine e delle convenzioni costituzionali) sia stato appannaggio dei costituzionalisti e dei politici interessati ad un’interpretazione progressiva della Costituzione sardo-piemontese. Il conte Borelli aveva, infatti, perfettamente ragione nel ritenere che il suo Statuto avesse sancito una forma di governo monarchico-costituzionale-rappresentativa; il che spiega i motivi del suo rifiuto ad accettare la nomina a senatore, propostagli, nel 1849, dal governo D’Azeglio, dal ministero, cioè, che avrebbe «traghettato» definitivamente nel parlamentarismo il nuovo regime costituzionale. Da questo punto di vista, ciò che divideva profondamente il conte Borelli (e molti degli altri sopra nominati) dai sostenitori del governo parlamentare non era affatto, come si è spesso indotti a pensare, la questione dell’autonomia politica del governo rispetto alla corona. Come è stato già sottolineato, le modalità di adozione dello Statuto sono indizio del fatto che la responsabilità autonoma dei ministri esisteva, in Piemonte, almeno dall’Editto del 1847. D’altra parte, l’inserimento nello Statuto dell’art. 67, primo e secondo comma, conferma che, attraverso la controfirma ministeriale, gli autori dello Statuto intendevano già giungere alla separazione del potere di governo dal re, affidandolo all’iniziativa di ministri responsabili. Salvo che nelle sue espressioni più estreme, l’opinione politico-dottrinale che si richiamava alla lettera dello Statuto non intese, perciò, mai affermare che l’appartenenza al re del potere esecutivo, nel senso dell’art. 5 dello Statuto, potesse significare, come nel già ricordato modello prussiano, la permanenza nella corona del relativo potere di indirizzo politico. La «piena appartenenza al re» di quel potere significava, invece, anche nel sonniniano «Torniamo allo Statuto» del 1897, la necessaria riaffermazione di un esclusivo rapporto di responsabilità fra il re ed il suo governo, con la conseguente eliminazione del deprecato istituto della fiducia parlamentare. In effetti, la costante lamentazione dei danni del «parlamentarismo» in Palma, Minghetti, Mosca, come in altri nemici del governo di gabinetto, risulta costantemente legata alla rilevazione dei danni (alcuni incontestabili, altri opinabili) che risulterebbero causati dalla «confusione» del potere legislativo e di quello esecutivo, che è tipica del governo parlamentare: da qui, la generale richiesta di un rigoroso rispetto della prerogativa regia, in materia di responsabilità del governo, al fine di reintrodurre nell’ordinamento costituzionale il principio della rigida separazione dei poteri. Secondo la tradizione conservatrice, quel principio non svolgeva, infatti, una ineliminabile funzione garantista soltanto nei confronti delle libertà

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individuali, ma estendeva la sua essenziale funzione anche nei confronti della forma di governo, impedendo la prevaricazione di un potere ai danni degli altri e costringendo ognuno di essi a svolgere bene e responsabilmente le funzioni singolarmente attribuitegli dalla Costituzione. Il modello teorico di questa ricostruzione era, come è chiaro, la monarchia costituzionale. Singolarmente, però, quelle aspirazioni si rivelavano anche perfettamente conciliabili con la forma di governo presidenziale (cosicché non si può fare a meno di notare una singolare coincidenza con le motivazioni che vengono addotte, oggi, da alcuni partiti politici a favore del presidenzialismo). Da questo punto di vista, si comprende, allora, perché nel dibattito politico-costituzionale di quegli anni sia frequente il riferimento a «The English Constitution» di W. Bagehot. Pubblicato nel 1867, questo libro costituì, come è noto, un fondamentale contributo alla definitiva affermazione in Gran Bretagna della forma di governo parlamentare, o del Cabinet Government. È notevole la circostanza che la parte più (o quasi esclusivamente) citata e discussa del libro, sia stata, in Italia, il secondo capitolo, dedicato ai poteri della corona. Una più attenta lettura del saggio avrebbe messo in risalto che gran parte del primo capitolo, intitolato al Cabinet e dedicato ad una aperta polemica contro il sistema presidenziale degli Stati Uniti, aveva, in realtà, come vero obiettivo, la separazione rigida dei poteri che era stata fondamento anche della monarchia costituzionale inglese. Quando Bagehot scriveva che l’efficiente segreto della Costituzione inglese, nella sua versione parlamentare, poteva essere descritto: «As the near union, the near complete fusion, of the executive and legislative powers», poneva il fondamentale problema politico e costituzionale della forma di governo parlamentare; ed era consapevole del fatto che, sia sul piano teorico che su quello del funzionamento pratico, quella forma di governo non sarebbe stata difendibile se quella fusione avesse, però, significato «the absorption of the executive power by the legislative power». La teoria dei «pesi e contrappesi» di Bagehot si differenzia, infatti, sensibilmente dai Checks and Balances della tradizione perché è affidata del tutto all’equilibrio fra gli organi di derivazione democratica: camera dei comuni e Cabinet. In base al rapporto di fiducia, il Cabinet si presenta come il «committee of the legislative body» e lo stesso primo ministro può essere considerato «elected by the representatives of the people». Il rischio insito nel pieno dispiegarsi del principio rappresentativo è, però, secondo Bagehot, l’assorbimento del potere esecutivo da parte del legislativo. Perché questo rischio sia evitato, il nuovo bilanciamento dei poteri impone che tutti i poteri di prerogativa della corona incidenti sul legislativo (e, fra questi, soprattutto il «suspensive veto» e lo scioglimento anticipato) siano considerati di appartenenza del Cabinet. In tal modo, il sostanziale equilibrio fra il governo e l’assemblea potrà

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portare a quella equilibrata «fusione politica» fra i due poteri che costituisce l’essenza del governo parlamentare. In questa visione, che è quella di una democrazia pienamente realizzata (anche se con i limiti «oligarchici», secondo la definizione di Giannini, di un sistema elettorale ancora limitato), il ruolo della corona risulta essere quel «transcendent element»; quell’«Extra» della Costituzione così difficilmente comprensibile ai non inglesi. Questa lunga digressione sul testo che fondò, nel secolo scorso, i principi del governo parlamentare sembra opportuna perché, anche per ciò che riguarda il ruolo della corona, i limiti della forma di governo italiana appaiono ancor meglio per differenza rispetto ad un modello, quello inglese, che la maggior parte dei politici e dei costituzionalisti amavano considerare all’origine del nostro. La dottrina e la prassi favorevoli ad una lettura conservatrice dello Statuto, apparvero, infatti, nettamente prevalenti, per ciò che riguarda, anzitutto, i poteri del re. Mentre i Checks and Balances del sistema parlamentare inglese si muovevano all’interno di una logica totalmente ancorata alla democrazia rappresentativa, Luigi Palma poteva ancora scrivere, nel 1883, che «il Re, meglio rappresentando l’interesse generale a fronte dei partiti che si disputano il potere» mantiene, perciò, un generale «diritto di vera e propria approvazione» delle proposte governative. Privato del diritto di iniziativa politica, che spetta al gabinetto, egli può, tuttavia, «rifiutare» gli atti contrari alla Costituzione ed alle leggi e «rigettare» le proposte «che a lui paiano contrarie al bene pubblico» (L. PALMA, Corso di diritto costituzionale, Firenze, Pellas, 1883, p. 547). Il sistema rappresentativo (del quale fanno parte la camera elettiva ed il governo responsabile anche di fronte ad essa) è, in definitiva, sottoposto ad una generale tutela regia, in quanto partiti politici, parlamento e governo, in una parola le istituzioni della democrazia, sono naturalmente portatrici di interessi contrari a quello generale. Parlando della sanzione regia delle leggi, di un istituto, cioè, del tutto al di fuori della logica parlamentare, Palma ne giustifica la permanenza, in quanto «senza di essa si ha il volere di una maggioranza parlamentare, cioè di un partito, non il volere dello Stato». In quest’ottica, dunque, e secondo questa dottrina, mentre l’art. 67 dello Statuto avrebbe il fine, attraverso la controfirma, di spostare la «appartenenza del potere esecutivo» (art. 5 Statuto) dal re al suo governo, lasciando al sovrano solo quella funzione di generale tutela sul governo sopra descritta, negli atti di «regia prerogativa» si esprimerebbe, invece, «un diritto proprio e più ampio» della corona. Nomina dei ministri (art. 65 Statuto); «dissoluzione» della camera (art. 9 Statuto); sanzione regia delle leggi (artt. 3 e 56 Statuto) sono, dunque, i tre atti nei quali, nella forma di governo statutaria, non si esprime nessun principio democratico (L. PALMA, Corso, cit., p. 448).

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A differenza della forma di governo inglese, proposta da Bagehot, la democrazia rappresentativa italiana trovava, perciò, in questa partecipazione del re al potere esecutivo ed a quello legislativo un limite insuperabile.

4. La prerogativa regia: la nomina e la revoca dei ministri Anche il procedimento di formazione dei governi dimostra quanto sia errato il luogo comune per il quale la forma di governo parlamentare si sarebbe stabilita in Piemonte fino dall’indomani della concessione dello Statuto. In realtà, al momento della nomina del governo Balbo, le condizioni politiche ed istituzionali del Regno di Sardegna non avrebbero potuto essere più lontane dalla forma di governo propria del Cabinet Government. L’editto elettorale non era ancora stato approvato e la mancanza della camera elettiva non consentiva di sapere quale fosse la consistenza dei «partiti» che, pure, si erano già dimostrati attivi nei giorni che avevano preceduto la concessione dello Statuto. Mancavano del tutto, quindi, i due prerequisiti posti da Bagehot alla base del governo parlamentare: anzitutto, la esistenza di un partito predominante in grado di indicare al sovrano, con un’indicazione considerata tassativa, il primo ministro. In secondo luogo, un parlamento (in realtà, una camera elettiva) dove lo stesso partito avesse selezionato quel «Charmed Circle» dal quale il primo ministro avrebbe potuto, e dovuto, scegliere gli altri membri del governo. Infatti, Carlo Alberto nominò il primo governo del nuovo regime, scegliendo non uno, ma due leaders di due partiti diversi: il moderato Cesare Balbo ed il democratico Lorenzo Pareto. Il primo di questi non ebbe un portafoglio ma la presidenza del consiglio. Il secondo fu nominato ministro degli esteri. Il rifiuto di fondare il governo sul dominio di un solo partito e di un solo leader si protrasse anche dopo le elezioni. Prima delle dimissioni del governo Balbo (presentate formalmente per un voto della camera contrario ad un emendamento governativo sul disegno di legge per l’unione con la Lombardia, in realtà per i dissensi fra i due partiti di governo), Carlo Alberto «aveva incaricato i ministri Balbo e Ricci della composizione di una nuova amministrazione» (G. ARANGIO-RUIZ, Storia costituzionale, cit., p. 17). Ancora, dopo le dimissioni del governo Casati e la nomina del nuovo governo Alfieri di Sostegno, le dimissioni del nuovo presidente del consiglio (causate da un importante contrasto costituzionale con il re: la titolarità del comando supremo dell’esercito) non portarono anche alle dimissioni del gabinetto, ma alla semplice sostituzione del presidente con il Perrone; a dimostrazione del fatto che l’unità politica del governo e la responsabilità di essa da parte del presidente erano sostanzialmente rifiutate dalla corona.

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Altamente significativa di un’interpretazione tutta sbilanciata a favore della corona del procedimento di formazione del governo risulta, dopo le dimissioni di Perrone per l’armistizio firmato fra Carlo Alberto e Radetsky, la nomina del governo De Launay: primo di una serie di veri «governi del re», in quanto nominato non soltanto al di fuori della camera, ma addirittura contro di essa. Anche la nomina del I governo D’Azeglio da parte del nuovo sovrano, Vittorio Emanuele II, dimostra il consolidarsi di una prassi che prescindeva del tutto dal consenso preventivo di una maggioranza parlamentare. Quel governo fu, infatti, nominato a camere sciolte, dopo le dimissioni di De Launay. Di più, a dimostrazione che la nomina del governo non solo prescindeva dal presunto favore della camera, ma era stata compiuta addirittura contro la sua maggioranza, il sovrano, con la controfirma di un governo che non poteva definirsi altro che «governo del re», emanò il proclama del 3 luglio, con il quale si appellava agli elettori perché questi ribaltassero la maggioranza democratica della camera. Come è noto, quel primo appello non ebbe successo, ma il governo D’Azeglio non si dimise, neppure dopo l’elezione del democratico Pareto alla presidenza della camera. Inoltre, a causa dell’ostilità della maggioranza del parlamento al contenuto del trattato di pace con l’Austria, il governo del re decise, quattro mesi dopo l’inizio della III legislatura, un secondo scioglimento anticipato. Lo scioglimento fu seguito dal «Proclama di Moncalieri», al centro del quale il re pose, come condizione per il mantenimento dello Statuto, il rispetto, da parte della camera, della «reciproca indipendenza dei tre poteri», che sarebbe stata violata dalla pretesa della maggioranza di porre «condizioni» alla ratifica del trattato di pace. È evidente, dunque, che fino alla IV legislatura, è del tutto fuori luogo parlare, per il Regno di Sardegna, di una forma di governo parlamentare. Il primo ministro non risulta affatto essere il supremo magistrato dello Stato (secondo la definizione di Bagehot del Prime minister), perché egli è tributario della propria nomina nei confronti del re, non della camera. Il governo non ha, inoltre, quei caratteri di unità ed omogeneità che gli derivano dal fatto di essere «comitato esecutivo della maggioranza parlamentare»; in conseguenza, lo stesso principio di responsabilità parlamentare è del tutto evanescente (salvo che nei confronti della corona) e risulta, infatti, variamente interpretato dai governi che, tumultuosamente, si succedono da Balbo a D’Azeglio. Se si approfondisce, poi, l’esame del procedimento di formazione dei governi, appare molto chiaramente che il potere del re nella nomina del primo e degli altri ministri si muove del tutto al di fuori degli schemi parlamentari. Fin dall’inizio dell’esperienza statutaria, il procedimento di formazione del governo usava aprirsi con le «consultazioni» da parte del re: consultazioni che, più che chiudersi, trovavano un primo esito in un «privato» atto

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di incarico, conferito, di solito, con «lettera autografa» del sovrano (M. MANCINI, U. GALEOTTI, Norme ed usi del parlamento italiano, Roma, Camera dei deputati, 1887, p. 613). Come si è già accennato, il carattere «privato» dell’atto consentiva al sovrano di conferire l’incarico anche a più persone contemporaneamente; di porre condizioni, che potevano riguardare la composizione o il carattere politico del ministero; di revocare liberamente l’incarico conferito. La prassi del «doppio incarico», che non si chiuse nemmeno dopo l’epoca di Cavour (si ricordano, infatti, le dichiarazioni di Lanza alla camera, nel 1869, relative al doppio incarico conferito a lui ed a Sella contemporaneamente), è di per sé dimostrativa della grande riluttanza della corona a riconoscere nel primo ministro il responsabile unico e definitivo della composizione e della politica generale del governo. La revoca, nemmeno motivata, dell’incarico fu, inoltre, una prassi costante durante la vigenza dello Statuto. A titolo di esempio, si può ricordare la revoca dell’incarico conferito, nel 1867, al generale Cialdini, in quella crisi, tutta antiparlamentare, che, apertasi con la revoca regia del governo Rattazzi, si chiuse con un altro «governo del re», quello di Menabrea. Ma è nel procedimento di nomina dei ministri che si dimostra, ancora più chiaramente, l’importanza politico-istituzionale di questa anomalia «procedurale». Ricevuto l’incarico, il presidente incaricato iniziava una, di solito faticosa, ricerca di alleanze politico-personali, stante l’assenza di un sistema politico strutturato, che gli permettessero di poter contare su una maggioranza nella camera dei deputati. Il decreto di nomina da parte del re interveniva solo nel momento in cui l’incaricato fosse in grado di presentare al sovrano la lista di ministri. È del tutto evidente che il rilievo giuridicamente nullo dell’incarico, la conseguente, totale, «riserva regia» sugli sbocchi politici della crisi ponevano il re perfettamente in grado di condizionare il decreto di nomina anche ad una attribuzione dei dicasteri che fosse gradita alla corona. È in tal modo che si spiega, ad esempio, perché il re abbia potuto sempre imporre i propri uomini nei ministeri della guerra e della marina e sia stato, ugualmente, in grado di subordinare almeno al proprio gradimento la nomina del titolare degli esteri, e ciò, anche nei governi più «parlamentari» del periodo statutario. Questo modo di formazione dei governi può essere definito aparlamentare ed esso, insieme alle condizioni politiche del paese, consentì la facile instaurazione di governi che, in momenti di crisi del sistema, furono governi del re in senso proprio, in quanto si considerarono validamente costituiti in base alla sola nomina regia, anche se, poi, alcuni di essi si adoperarono per guadagnarsi una maggioranza in parlamento. Fra questi, ho appena ricordato il governo De Launay ed il I governo D’Azeglio; tuttavia, nello stesso modo debbono essere qualificati il gover-

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no La Marmora del luglio 1859, nato dopo la pace di Villafranca e la revoca di Cavour, il II governo La Marmora, nominato dal re dopo la revoca di Minghetti nel 1864, ed il governo Menabrea dell’ottobre 1867, insediato dopo la revoca regia del governo Rattazzi. È, tuttavia, vero che sono stati qualificati come «governi del re» altri governi originariamente nati come governi orientati in senso parlamentare. È, questo, il caso del II governo Pelloux, presentatore dei già ricordati disegni di legge liberticidi del ’99. In quel caso, infatti, l’appoggio della corona risultò ugualmente determinante, in quanto essa consentì che un rimpasto del governo nascondesse, nella realtà, un radicale cambiamento di uomini e di linea politica. Come si dirà, un procedimento di formazione del governo quale quello descritto, che era in grado di prescindere, come di fatto spesso prescindeva, dalla preventiva esistenza del consenso fra l’incaricato ed una definita maggioranza parlamentare, fu determinante nel permettere al re, nel 1922, la nomina al governo di Mussolini. Non sembra, dunque, che abbia raggiunto esiti di accettabile democratizzazione di questo processo una innovazione, introdotta da Umberto I nel 1896, quando, in occasione della formazione del secondo ministero Di Rudinì, egli procedette all’attribuzione dell’incarico non più con atto privato, ma con regio decreto (L. ELIA, Appunti sulla formazione del governo, in Giur. cost., 1957, I, p. 1172). In realtà, quella innovazione rispondeva ad esigenze del tutto formali, che erano state sottolineate alla camera, un decennio prima, da Francesco Crispi, in coincidenza con la crisi dell’ultimo governo Depretis. Crispi aveva sostenuto, contro la tradizione precedente, che l’incarico non poteva essere conferito che per decreto, per rispettare, così, il principio della controfirma, che doveva essere apposta dal presidente del consiglio uscente. Ma era evidente che, malgrado la controfirma, il primo ministro uscente non diventava il soggetto al quale era attribuito il potere di risolvere la crisi e non poteva essere considerato il vero «proponente» dell’atto: l’innovazione, quindi, lasciava del tutto aperto quel fondamentale problema mai definitivamente risolto durante il periodo statutario, ovvero l’ampiezza dei poteri del re nella scelta del primo ministro. Tale problema sarebbe stato risolto soltanto se il re si fosse sentito vincolato a nomine che fossero rigorosamente rispettose del principio della maggioranza parlamentare. Dal punto di vista del procedimento di formazione del governo, una vera, non formale, innovazione avrebbe potuto consistere nell’obbligare il re ad emanare decreti non di incarico, ma di nomina del presidente del consiglio. Questa innovazione avrebbe impedito alla corona di continuare ad esercitare, nella risoluzione delle crisi di governo, quei «liberi» e sostanziali poteri sopra indicati, ed avrebbe attribuito al presidente nominato un rilievo ed un’autonomia senz’altro più consonanti con la forma di governo parlamentare. Il presidente del consiglio, infatti, e non il re, sarebbe divenuto il solo

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responsabile giuridico ed il centro motore di tutto il processo di formazione del governo: dalla sua composizione, alla sua formula politica, fino al suo programma. In una situazione parlamentare e politica spesso fortemente frammentata, questo avrebbe contribuito a rafforzare la sua debole posizione di fronte ai partiti. Dal punto di vista giuridico, una soluzione di questo tipo (più vicina al modello britannico) non avrebbe, neppure, posto gravi problemi per ciò che riguardava il problema della continuità dei poteri fra il vecchio ed il nuovo governo. Il re avrebbe, infatti, firmato i decreti di nomina dei ministri su proposta del presidente già nominato. Subito dopo, avrebbe potuto firmare il decreto di accettazione delle dimissioni del governo cessante, mentre, all’atto del suo giuramento, il nuovo governo sarebbe entrato giuridicamente in carica. Fu, questa, una strada che non si volle seguire nell’epoca statutaria, così come non sarebbe stata seguita, come vedremo, dopo la Costituzione repubblicana. Anche sotto questo profilo, si sarebbe realizzata, dunque, una sostanziale continuità fra le due epoche storiche. È vero, però, che nelle discussioni politiche e costituzionali che si svilupparono fra gli anni di Cavour ed i primi due decenni del nostro secolo proprio questo modo di formarsi dei governi fu accettato e giustificato, da quella scuola liberale che è stata richiamata sopra, in base a due principali esigenze. Per la prima, di ordine garantista, l’utilizzazione non simbolica della prerogativa regia nella nomina dei ministri avrebbe evitato che il governo potesse trasformarsi da comitato esecutivo della maggioranza in un comitato fornito dei pieni poteri, dunque in un organo «democratico», ma tendenzialmente assolutista. Questi timori risultavano collegati, in Italia, principalmente al deprecato fenomeno della accentuata «fusione» (che giungerà alla non distinguibilità) fra legislativo ed esecutivo; di meno, ad un modo di agire del governo parlamentare, che aveva, invece, preoccupato gli inglesi: la segretezza dei suoi processi decisionali. Proprio, e soltanto, da questo punto di vista, invece, la Costituzione inglese ed i fondatori della teoria del governo di gabinetto non avevano mai ritenuta decaduta quella funzione della corona che si sostanziava nel suo potere di controllo, variamente strutturato, su tutti gli atti del governo, ritenendosi che solo in base ad esso si poteva salvare, insieme, la riservatezza del governo (necessaria per la sua unità ed omogeneità politica) e la segretezza non assoluta dei suoi atti, sempre conoscibili, infatti, da un organo di controllo neutrale rappresentato, appunto, dal sovrano. Proprio l’esempio inglese, dunque, avrebbe dovuto far capire che la permanente esigenza del controllo del capo dello Stato per evitare che la maggioranza pervenisse, attraverso il suo governo, ad una dittatura, anche se democraticamente instaurata, non doveva essere confusa con la partecipazione del re al potere esecutivo. Ugualmente infondata si dimostrò l’altra giustificazione dell’ingerenza regia nella formazione dei governi: quella per la quale la tutela del re, an-

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che se poco consona al principio democratico, avrebbe, però, giovato al rafforzamento dell’organo-governo; rafforzamento reso necessario a causa della frammentazione e della debolezza dei partiti parlamentari. Al contrario, esistono buoni motivi per pensare che i governi siano stati nel nostro paese, più deboli proprio a causa dell’ingerenza della corona nel potere esecutivo. Abbiamo già messo in rilievo, anzitutto, come il presidente del consiglio sia stato lontano da quella centralità nel processo di formazione dei governi, che appariva, altrove, pienamente acquisita. A questa debolezza originaria si aggiunse, inoltre, l’insicurezza che derivava ai governi dal mai definitivamente tramontato potere di revoca del presidente del consiglio ed anche dei singoli ministri da parte del re. Quest’ultimo fenomeno appare essere stato particolarmente rilevante anche perché, mentre la dottrina liberale più avanzata cercò, soprattutto dalla fine del secolo, di circondare di cautele la prerogativa regia nella nomina dei governi (ed il passaggio al decreto di incarico può essere sintomatico di questa nuova sensibilità), incontrastate rimasero, invece, la teoria e la prassi della revocabilità dei ministri da parte della corona. Dal punto di vista della prassi, i testi del secolo scorso rilevarono l’esistenza di una revoca regia dell’intero gabinetto nel 1859 (governo Cavour), nel 1864 (governo Minghetti) e nel 1867 (governo Rattazzi). Questi tre casi appaiono, infatti, certamente esemplari, anche perché essi si riferiscono, tutti, a revoche causate da un solo motivo: l’insuperabile contrasto fra due politiche estere, quella del gabinetto e quella del re, destinata a divenire, attraverso le revoche, quella alla fine prevalente. Cavour, fu, difatti, costretto a dimettersi quando il 12 luglio 1859 Vittorio Emanuele II e Napoleone III firmarono a Villafranca una pace con l’Austria che il primo ministro giudicò inaccettabile. Minghetti si dimise il 24 settembre del 1864, «avendo S.M. stimato conveniente che il ministero attuale desse le sue dimissioni» (come annunziò la Gazzetta ufficiale di quel giorno) a causa dei moti di Torino, conseguenti all’annunciato trasferimento della capitale a Firenze, «pegno» della rinuncia a Roma. Rattazzi, si dimise il 22 ottobre del 1867, a causa dell’appoggio dato dal suo governo alla spedizione di Garibaldi per la conquista di Roma; impresa che incontrò la netta opposizione del re, garante dello status quo nei confronti di Napoleone III. Notevole è il fatto che la revoca (anche se sub forma di dimissioni) compaia esplicitamente solo nell’episodio del 1864. Negli altri casi, l’insanabile contrasto fra il re ed il governo rimane coperto da quella riservatezza di rapporti che sempre accompagnò le relazioni fra il gabinetto e la corona. Tuttavia, e proprio a causa di questa riservatezza, si può ritenere che altre dimissioni di governi siano state, in realtà, revoche che né il re, né il presidente dimissionario ebbero interesse a rendere pubbliche. Esemplari, in questo senso, le dimissioni presentate dallo stesso Cavour il 27 aprile del 1855, formalmente a causa del disegno di legge limitativo dei

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diritti delle corporazioni religiose ma, in realtà, per gli insanabili contrasti con il re che non voleva lasciare al governo la piena competenza di indirizzo nella materia dell’art. 1 dello Statuto: la «religione dello Stato». Occorre sottolineare, però, che l’istituto della revoca regia non fu mai inteso come riferibile solo al governo nel suo complesso (magari attraverso la revoca del solo presidente del consiglio), ma anche ai singoli ministri. Di questi, alcuni (Esteri, Difesa, Marina) erano nominati, come detto, su indicazione o con l’assenso del sovrano e quindi, essi sentivano di essere principalmente responsabili di fronte alla corona; tutto ciò spiega perché nessun presidente del consiglio sia stato in grado di svolgere, in Italia, una politica estera difforme dai desideri del re. Tuttavia al di là della particolare fedeltà alla corona di alcuni ministri, nessuno mise mai in dubbio che «se il re può dimettere tutto intero il gabinetto, a maggior ragione può licenziare un sol ministro» (F. RACIOPPI, I. BRUNELLI, Commento, cit., III, p. 305). Nella prassi, si ricorda, in periodo statutario, il solo caso del ministro crispino delle finanze Seismit-Doda, revocato con decreto del re, su proposta del presidente del consiglio, il 14 settembre 1890 per aver assistito, senza protestare, ad un banchetto irredentista, anti-austriaco e, perciò, compromettente per la politica «triplicista» di Umberto I e di Crispi. È comprensibile che di questi poteri della corona, di per sé non compatibili né con i principi del governo di gabinetto, né con una forma di governo democratica, sia stata tentata una limitazione agli inizi del secolo, quando, nell’età giolittiana, il sistema costituzionale si comportò, come si dirà, come un sistema parlamentare. Tuttavia, anche in quell’epoca non si riuscì ad andare al di là della lettera dell’art. 65 dello Statuto, anche se si disse che il diritto di revoca dei governi da parte del re si accompagnava, comunque, ad «una remora», consistente nel fatto che, «licenziando i suoi ministri, la corona deve contemporaneamente (trovarne altri) i quali siano disposti ad assumere verso il parlamento la responsabilità della propria nomina e, quindi, del licenziamento dei predecessori»: cosicché le camere avrebbero dovuto, alla fine, «giustificare» l’operato del re (F. RACIOPPI, I. BRUNELLI, Commento, cit., III, p. 301). In realtà, come meglio si vedrà quando si parlerà del rapporto fiduciario fra parlamento e governo, la forma di governo italiana si resse, per la maggior parte del periodo statutario, su un sistema non di fiducia preventiva, ma di non sfiducia. Alla revoca regia dei governi poté, allora, seguire la costituzione di «governi del re» che, una volta nominati ed insediati nelle loro funzioni, furono perciò in grado di influire profondamente nella politica e negli equilibri parlamentari del paese.

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5. Il comando delle forze armate e le relazioni internazionali La forte presenza della corona nel potere esecutivo, che si configura, come si è detto, come un vero e proprio limite dello sviluppo democratico italiano, fu certamente determinata da quello stato quasi permanente di guerra che si protrasse dal 1848 alla presa di Roma. Stato di guerra e funzionalizzazione della politica estera alle alleanze militari determinarono l’affermazione di una prerogativa regia anche in queste materie. Quella prerogativa non trova, però, riscontro nelle altre forme di governo parlamentari monarchiche anche contemporanee allo Stato sabaudo, ad eccezione della Prussia, mentre l’attribuzione del comando delle forze armate e delle relazioni internazionali al capo dello Stato fu, ed è, caratteristica delle forme di governo presidenziali. Sono state già ricordate le dimissioni del governo De Launay, che avrebbe voluto subito affermare il principio della sostanziale responsabilità governativa anche in quel comando di tutte le forze di terra e di mare che l’art. 5 dello Statuto attribuiva letteralmente al re. Invece, e contro gli orientamenti del governo, nelle guerre del 1848 ed in quelle della seconda guerra di indipendenza, il re esercitò l’effettivo comando delle forze armate. Sensibile fu, poi, l’influenza regia nella terza guerra d’indipendenza del 1866, della quale fu detto essere stata condotta da due governi, l’uno a Firenze, l’altro, al campo, con Vittorio Emanuele e La Marmora (G. ARANGIO-RUIZ, Storia costituzionale, cit., p. 190). Ancora, nella condotta della prima guerra mondiale sono stati frequentemente sottolineati la debolezza dei governi ed il forte ruolo di Vittorio Emanuele III e dei suoi generali. Questa situazione, destinata a protrarsi fino alla seconda guerra mondiale, era determinata, dal punto di vista costituzionale, da un’ambigua sistemazione del ruolo e delle responsabilità giuridiche del re, del governo e del capo di stato maggiore nel comando delle forze armate in caso di guerra. Dopo i primi disastri del 1848, infatti, già il governo del generale Chiodo aveva provveduto, con R.D. 15 febbraio 1849, a nominare (nella persona di Chrzanowski) un «comandante in capo dell’esercito». Scopo della riforma era quello di consentire al governo la nomina di un vertice della conduzione tecnica delle operazioni militari, responsabile di fronte allo stesso governo e destinato, anche, a «coprire» la presenza del re al campo. Come si è già sottolineato, la crisi del governo De Launay dimostra la non accettazione, da parte di Carlo Alberto, di uno schema che intendeva far dipendere dall’indirizzo del governo anche il supremo comando militare. D’altra parte, identico a quello di Carlo Alberto si dimostrò l’atteggiamento di Vittorio Emanuele II. Non a caso, il R.D. 16 settembre 1866, n. 460 («Regolamento di servizio in guerra»), emanato in coincidenza con la terza guerra di indipendenza, ma destinato ad aver vigore per molti decenni, divideva la responsabilità della condotta della guerra tra un «comandante

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in capo» ed un «capo di Stato maggiore» dell’esercito; tuttavia, precisava che al primo il comando era «affidato» dal re, qualora questi «non assuma personalmente il comando». Norme come queste erano scritte più per confondere che per chiarire il problema del potere e della responsabilità nella condotta della guerra. Apparentemente, esse creavano una situazione favorevole al governo perché, sottraendo questa materia dal circuito della responsabilità politica, ponevano l’esecutivo al riparo da un ingombrante controllo parlamentare. In realtà, come fu chiaro anche nel corso della prima guerra mondiale, il prezzo che il governo pagò per questa sottrazione fu molto alto. Durante il dibattito svolto in parlamento nel dicembre 1917 l’on. Sanarelli, illustrando il suo ordine del giorno favorevole ad una ripresa del controllo parlamentare sulla condotta della guerra dopo la rotta di Caporetto, ebbe a ripetere il giudizio di Arangio-Ruiz sulla guerra del 1866. Affermò, infatti, Sanarelli che si era costituito, in Italia, «uno Stato nello Stato, un governo sopra il governo; ad una capitale politica si era sovrapposta una capitale militare a Udine» (cfr. in G. PERTICONE, Il regime parlamentare, cit., p. 220). D’altra parte, quanto il parlamento sia stato considerato estraneo al diritto della pace e della guerra, risulta anche dall’interpretazione data costantemente dai governi a proposito del potere di dichiarare la guerra, attribuito anch’esso al re dall’art. 5 dello Statuto. È vero che i testi di diritto costituzionale dell’epoca statutaria distinguono fra la dichiarazione della guerra, spettante al governo del re, ed il potere di deliberarla, che si dichiara spettare al parlamento. È anche vero, però, che nella prassi statutaria la «deliberazione di guerra» fu intesa, soltanto, come il dovere del governo di informare «direttamente o indirettamente» il parlamento il quale solo con l’approvazione dei «provvedimenti legislativi indispensabili per provvedere alle supreme contingenze della guerra» (spese di bilancio) giudicava sul corretto uso della prerogativa reale (M. MANCINI, U. GALEOTTI, Norme ed usi, cit., p. 658). In realtà, il cuore dei rapporti fra governo e parlamento in questa materia sembra essere stato in quella «concessione dei pieni poteri» al governo a causa della guerra, che dal 1848 accompagnò ogni dichiarazione di guerra, escluse quelle coloniali. A volte, e singolarmente, la concessione dei pieni poteri al governo precedette addirittura la dichiarazione della guerra: così accadde nel maggio del 1915, quando il governo Salandra riuscì, come è noto, mobilitando la piazza, a far approvare dal parlamento un disegno di legge sui poteri straordinari del governo «in caso di guerra»; guerra che poi, e non a caso, il governo poté davvero dichiarare. Riflessioni non diverse da quelle appena fatte possono essere compiute per ciò che riguarda l’esercizio della prerogativa regia in materia di politica estera. D’altra parte, come si è detto, la politica estera italiana ha coinciso, fino a tutto il fascismo, con la politica delle alleanze militari e di

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guerra, cosicché si ha quasi sempre l’impressione di trovarci, su questo terreno, di fronte non a due distinte, ma ad una sola materia. Non a caso, anche dal punto di vista giuridico-costituzionale, i due poteri, quello di guerra e quello di «conchiudere trattati e convenzioni internazionali», erano posti dallo Statuto sostanzialmente sullo stesso piano, in quanto il relativo potere era attribuito dall’art. 5 al re, salvo il dovuto assenso delle camere per quei trattati «che importassero un onere alle finanze o variazioni di territorio dello Stato». Il punto di coincidenza fra il potere di guerra e quello relativo alle relazioni internazionali era, ovviamente, massimo nel caso di trattati di pace. Sono stati già richiamati, a questo proposito, i durissimi scontri fra la corona ed il governo durante la prima, la seconda guerra d’indipendenza e la conquista di Roma, quando la corona si considerò sempre depositaria del potere di concludere i trattati che derivavano dalle guerre e di quello di interpretare gli impegni contratti con gli altri capi di Stato a seguito di quegli stessi trattati. Sul fronte del parlamento, la corona trovò, per ciò che riguarda la conclusione dei trattati, una remissività almeno pari a quella dei governi. Esemplare, a questo proposito, il dibattito parlamentare del 18 gennaio 1850, importante anche perché destinato a costituire un precedente nella giurisprudenza del parlamento in materia. In quel caso, la commissione del senato, incaricata di esaminare il controverso trattato di pace con l’Austria, affermò che, quando il Re nella pienezza delle facoltà attribuitegli dallo Statuto appone una sua firma su un trattato, questo «è un atto compiuto che vincola le parti contraenti, che fa legge da per sé». Il parlamento, in conseguenza, è chiamato non a sanzionare l’intero trattato, ma soltanto ad approvare, ed a dare esecuzione, a quelle parti che interessino il territorio o le finanze. Esiste, tuttavia, un secondo momento di totale coincidenza fra il potere di guerra e quello relativo alle relazioni internazionali, quando ci si trovi di fronte a trattati che prevedano che un paese entri in guerra al verificarsi di determinati fatti, considerati rilevanti da parte dello stesso trattato internazionale. Questo è, ad esempio, ciò che accadde a seguito del trattato di Londra, sottoscritto, in segreto, dal governo Salandra nel 1915. L’accordo prevedeva l’impegno dell’Italia ad entrare in guerra a fianco della Gran Bretagna e della Francia, se i contrasti fra queste due nazioni e gli «imperi centrali» non avessero potuto essere altrimenti risolti. Nelle «memorie» di Giolitti (G. GIOLITTI, Memorie della mia vita, Milano, F.lii Treves, 1922, pp. 509 ss.) sono contenute pagine illuminanti sull’inutilità della battaglia parlamentare, condotta, nel maggio del 1915, da una maggioranza convinta che gli interessi dell’Italia potessero essere meglio tutelati da una dichiarazione di neutralità. Quella battaglia fu, invece, perduta perché il governo ed il re ritenevano che il nostro paese si fosse già politicamente e giuridicamente impegnato nel senso della guerra, indipendentemente dal consenso del parlamento.

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In questo, come in altri, episodi è difficile dire se il governo avrebbe potuto superare la contraria opinione della maggioranza parlamentare senza l’appoggio della corona al proprio indirizzo politico. In una forma di governo di tipo parlamentare, il re non avrebbe dovuto appoggiare nessuna delle due possibili opzioni (quella favorevole alla guerra o l’altra a favore della neutralità) ma avrebbe dovuto, anzi, garantire il libero affermarsi della volontà della maggioranza parlamentare, tenendo, in altre parole, un comportamento opposto a quello tenuto durante le «radiose giornate» del maggio 1915. In conclusione, e per quanto riguarda la politica estera, se è difficile dire, come ha dimostrato Chabod (F. CHABOD, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari, Laterza, 1965, part. pp. 714 ss.), quanto della politica estera italiana sia stato direttamente determinato dalla corona (anche perché il giudizio deve variare in relazione ai diversi re ed ai diversi periodi storici), sembra, però, che si possano, fondamentalmente, distinguere due diversi momenti: quello della destra storica e quello che seguì alla «rivoluzione parlamentare» del 1876. Mentre nel primo periodo è prevalente il conflitto-competizione fra la competenza governativa e quella regia, dopo il 1876 i rapporti fra la corona ed i governi sembrano farsi, in questa materia, meno conflittuali rispetto al passato. Infatti, i governi della sinistra (a cominciare da Depretis) si appoggiano spesso, per quanto riguarda le relazioni internazionali, all’autorità del re contro il parlamento spesso recalcitrante di fronte alla politica estera governativa. Il coinvolgimento della corona nella politica estera cambia, dunque, di segno: diviene da personale (Les ministres passent, le Roi reste) governativo. Rimane, tuttavia, il significato sostanzialmente antiparlamentare della presenza del re in una materia dalla quale, come si è detto, nelle contemporanee forme di governo parlamentari la corona si era già del tutto ritratta, affidandone la determinazione alla dialettica cooperazione-contrapposizione fra governo e parlamento.

6. Convocazione delle camere, «discorso della corona», proroga e chiusura delle sessioni, scioglimento della camera dei deputati Si è già ricordato come nel 1883, sette anni dopo la «rivoluzione parlamentare» del 1876, Luigi Palma sostenesse con convinzione che «il diritto più chiaro e proprio della corona, checché ne abbia detto il Bagehot, è quello personale del Re di sciogliere la camera e di appellarsi al paese» (L. PALMA, Corso, cit., p. 551). In realtà, la polemica contro Bagehot, che aveva sostenuto il già avvenuto passaggio al governo del potere di iniziativa per lo scioglimento anticipato, era infondata e pretestuosa. La non fondatezza era dovuta all’irrilevanza dell’invocato precedente del rifiuto della regina Vittoria di pro-

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cedere allo scioglimento anticipato nel 1873 dato che, in quella occasione la richiesta di scioglimento era stata avanzata alla regina dall’incaricato (poi rinunciatario) Disraeli e non da Gladstone che era il primo ministro in carica. La pretestuosità era evidente nel fatto che l’arbitraria ricostruzione del funzionamento del sistema britannico serviva, in realtà, a Palma, come a tutti i costituzionalisti conservatori, per affermare l’esistenza in tutti i regimi monarchici di alcuni limiti «naturali» del sistema rappresentativo; limiti consistenti, appunto, nell’esistenza di un’iniziativa politica propria («personale») del re in tutte le materie coperte dalla prerogativa regia. Una non strumentale lettura dell’esperienza politica e costituzionale dell’Inghilterra avrebbe, invece, condotto a meditare sul fatto che anche lo scioglimento anticipato poneva in risalto, per le diverse condizioni nelle quali esso si svolgeva in Italia, le strutturali divergenze delle due forme di governo. Fra la riforma elettorale del 1832 e quella, fortemente ampliativa del suffragio, del 1867, il parlamento inglese ebbe, infatti, «l’effettiva direzione politica» del sistema (G. GUARINO, Lo scioglimento delle assemblee parlamentari, Napoli, Jovene, 1948, p. 73). Tuttavia, deve essere precisato che, in realtà, il parlamento non svolse, in quel periodo, in proprio e direttamente, una funzione di indirizzo politico. Il rischio dell’assemblearismo fu, invece, evitato perché il grande prestigio del parlamento fu utilizzato per esercitare una costante approvazione ed un attento controllo sull’iniziativa politica che vide il governo come protagonista quasi assoluto. In questo quadro, nel quale il parlamento si sentiva sufficientemente garantito nei confronti del governo dall’esistenza del rapporto fiduciario, apparve preferibile, anche per lo stesso parlamento, che il governo si impadronisse di tutti quei poteri di prerogativa regia (scioglimento anticipato; assenso alle leggi; nomina dei Lords) che erano stati utilizzati, nel passato, dal re come strumenti anti-parlamentari. Appare, dunque, comprensibile come in questa fase del parlamentarismo inglese il passaggio al governo dell’iniziativa dello scioglimento anticipato servisse davvero, ad evitare, come aveva ritenuto Bagehot, il rischio (possibile anche in un sistema quale quello inglese) di velleità assembleari. In compenso, non era, però, consentito al governo di prevaricare, attraverso questo strumento, sul parlamento, in quanto una convenzione rigorosamente rispettata fino al 1867 riconduceva le cause di scioglimento anticipato a situazioni parlamentari determinate: voti di sfiducia; mancata approvazione di importanti misure governative; difficoltà del governo nell’attuare il proprio indirizzo politico (G. GUARINO, Lo scioglimento, cit., p. 76). In questa situazione, come si comprende facilmente, il ruolo della corona nello scioglimento non poteva essere che di controllo sul rispetto delle regole, convenzionali, del gioco, anche se è vero che, in qualche occasione, i governi lasciarono alla corona la scelta fra l’accettazione delle loro

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dimissioni e lo scioglimento anticipato. Ancora più ristretto appare, poi, il ruolo della corona dopo la riforma elettorale del 1867 e la formazione dei grandi partiti politici organizzati. La direzione delle competizioni elettorali fu progressivamente assunta da questi ultimi, cosicché, malgrado il forte radicamento nel parlamento dei partiti inglesi, il programma politico del governo, la definizione della leadership governativa, la stessa decisione dello scioglimento anticipato non furono più la conseguenza della dialettica governo-parlamento all’interno delle Assemblee, ma furono riconosciuti quali poteri del partito vittorioso nelle elezioni e, più in particolare, del primo ministro «eletto» dal corpo elettorale. Lo scioglimento anticipato nel sistema italiano non assomiglia, invece, a quello britannico, né prima della rivoluzione parlamentare del 1876, né successivamente ad essa. Anzitutto, una fondamentale differenza riguarda, come già accennato, il ruolo della corona. A meno di non voler annullare del tutto il principio di rappresentatività della camera dei deputati, il potere di scioglimento di essa, attribuito al re dall’art. 9 dello Statuto, non poteva certo significare che attraverso quel potere il re avrebbe potuto sindacare le scelte politiche compiute, attraverso le elezioni, dal corpo elettorale. Eppure, questo fu esattamente quello che avvenne nel 1849 attraverso il già ricordato «Proclama di Moncalieri», quando la camera venne sciolta da Vittorio Emanuele II per due volte consecutivamente, finché gli elettori non si piegarono all’indirizzo regio nelle trattative di pace con l’Austria. Questo lontano episodio (la cui sostanziale contrarietà allo Statuto è, per inciso, riconosciuta da quasi tutti i costituzionalisti del periodo liberale) apparirebbe quasi trascurabile se esso non avesse profondamente segnato il modo di essere della corona e dei governi negli scioglimenti anticipati che si susseguirono costantemente dal 1849 al 1919; sicché si può dire che nel periodo liberale nessuna legislatura si concluse per la sua naturale scadenza. Il fatto è che l’art. 9 dello Statuto, non soltanto attribuiva al re il potere di sciogliere la camera dei deputati, ma anche quello di convocare le camere e di «prorogarne le sessioni». Fra il potere di convocazione e quello di proroga è vero che originariamente quello di convocazione era senz’altro il più rilevante, in quanto il decreto di convocazione (emanato con controfirma del ministro dell’interno, udito il consiglio dei ministri) consentiva l’apertura delle sessioni parlamentari con il «discorso della corona», attraverso il quale il re, originariamente, pretendeva di «fissare alle camere gli oggetti dei quali esse avrebbero potuto e dovuto unicamente occuparsi» (F. RACIOPPI, I. BRUNELLI, Commento, cit., III, p. 440). Dopo l’emanazione dello Statuto, il potere di fissazione dell’ordine del giorno delle camere venne correttamente ritenuto una manifestazione della loro autonomia ed il regolamento della camera del 1863 lo attribuì, anche formalmente, al presidente dell’assemblea. L’esistenza, fra gli altri, di un

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potere così rilevante nelle mani del presidente spiega perché, fino dalle prime legislature, l’elezione di un proprio uomo alla presidenza della camera sia stata considerata irrinunciabile per la maggioranza di governo. Inoltre, ed in base ad un’interpretazione questa volta corretta dei principi del governo parlamentare, lo stesso regolamento del 1863 e, più incisivamente, la consuetudine parlamentare (M. MANCINI, U. GALEOTTI, Norme ed usi, cit., p. 133) considerarono «indubitato che l’o.d.g. delle due camere deve essere concordato col governo, il quale ha la responsabilità dell’andamento del lavoro legislativo». Ugualmente, la «essenza medesima del governo parlamentare» condusse ad attribuire al governo sia il potere di convocazione del parlamento che quello di determinare il contenuto del discorso della corona; discorso nel quale il governo esponeva il suo indirizzo in relazione alla sessione che si apriva. In Italia, però, a differenza della consuetudine stabilitasi in Gran Bretagna, la camera dei deputati, a partire dal 1849, non volle far seguire al discorso della corona un dibattito, inevitabilmente inerente ai contenuti dell’indirizzo di governo, fra maggioranza ed opposizione. In conseguenza, l’indirizzo di risposta, puramente formale, fu prima affidato al più giovane dei deputati, poi, con il regolamento del 1863, ad una commissione composta dal presidente e da cinque deputati eletti a maggioranza assoluta. Venne meno fin dall’inizio, così, la possibilità di qualsiasi discussione parlamentare dell’indirizzo di governo, anche perché, come si dirà, almeno fino al 1892 la camera non usò discutere nemmeno il programma politico dei nuovi governi. Inoltre, altra grave conseguenza della mancata discussione sul discorso della corona fu una quasi totale assenza di un costante, programmato confronto fra maggioranza ed opposizione sugli indirizzi politici generali del governo; il che spiega, fra gli altri motivi, una delle caratteristiche storiche del parlamentarismo italiano, ovvero la difficoltà di distinguere attraverso i programmi la maggioranza dall’opposizione. Tuttavia, è nel potere attribuito al sovrano dall’art. 9 dello Statuto di prorogare le sessioni delle camere che si sviluppò un rapporto fra re e governo, da un lato, e fra governo e parlamento, dall’altro, che si rivelerà del tutto in contraddizione con i principi della forma di governo parlamentare. Anche in teoria, infatti, l’istituto della proroga delle sessioni (che aveva come effetto quello di interrompere o di impedire la convocazione delle sedute delle camere), così come quello, ben più radicale, della «chiusura» delle stesse, si presentavano come difficilmente compatibili con un sistema di tipo parlamentare, in quanto condizionavano al placet dell’esecutivo l’esercizio dei poteri sovrani propri del parlamento. In Gran Bretagna, la proroga delle sessioni (che, però, aveva effetti simili alla nostra «chiusura») era stata utilizzata, dopo l’affermazione del sistema parlamentare, unicamente per consentire ad un nuovo governo di far decadere il programma dei lavori parlamentari impostato dal governo uscente e consentire, così, la nascita di un’agenda parlamentare del tutto nuova.

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Non furono queste le finalità che caratterizzarono l’uso dei due istituti, da parte del governo e della corona, in Italia. La proroga (che era disposta con decreto reale controfirmato dal ministro dell’interno) non conteneva, spesso, nemmeno l’indicazione del giorno della riconvocazione, lasciando, così, volutamente, le camere nell’incertezza su quando esse avrebbero potuto proseguire i loro lavori. Questa situazione, di indebito vantaggio, consentiva al governo di utilizzare la proroga o per mettere a tacere l’opposizione, soprattutto quando il dibattito parlamentare inclinava a sfavore delle posizioni governative (così come accadde, ad opera del governo Pelloux il 22 giugno 1899, a causa dell’opposizione e dell’ostruzionismo della minoranza sulle «leggi liberticide» che il governo approvò, poi, per decreto), oppure quando la funzione di controllo parlamentare risultava particolarmente sgradita al governo. A quest’ultimo proposito, si deve ricordare, ad esempio, la proroga decisa durante il terzo ministero Crispi, il 15 dicembre del 1894, per «neutralizzare» la deliberazione con la quale la camera aveva disposto di discutere il giorno successivo la relazione della «commissione dei cinque» sullo scandalo della banca romana, che investiva il presidente del consiglio: «Il giorno di poi si seppe che la sessione era stata prorogata. La corona reputava si dovesse, con la sua prerogativa, coprire il primo ministro sospettato, e al tempo medesimo troncare un dibattito di indole morale e personale» (G. ARANGIO-RUIZ, Storia costituzionale, cit., p. 518). Ancora, la proroga fu spesso utilizzata per consentire al governo di prendere decisioni che si sapeva essere fortemente avversate nella camera, come avvenne il 26 gennaio 1896, quando il governo Crispi, che aveva prorogato la sessione il 12 dello stesso mese, dichiarò lo stato di guerra in Eritrea. In tutti questi casi, come si vede, la prerogativa regia fu effettivamente esercitata dal governo. Tuttavia, il fatto del passaggio dal re al governo dei relativi poteri non significò affatto l’affermazione dei corretti principi della forma di governo parlamentare. Il passaggio dell’iniziativa di quelle attribuzioni al governo non avrebbe dovuto, infatti, significare rinuncia del capo dello Stato all’esercizio del potere di controllo sul corretto uso di quei poteri. Invece, la frequente violazione, ad opera del governo, delle fondamentali regole del regime parlamentare: e, dunque, la mancata opposizione della corona ad esse equivalse, nella sostanza, alla assunzione di responsabilità politica anche da parte del re. Tuttavia, la fondamentale contrarietà del sistema liberale ad un uso corretto dei principi del governo parlamentare emerge ancora più chiaramente dall’utilizzazione che fu fatta, durante tutto quel periodo, di un istituto non previsto dallo Statuto: la chiusura delle sessioni parlamentari. Fino dal 1850 (III legislatura) fu introdotta la consuetudine di far spesso seguire alla proroga delle sessioni la «chiusura» delle stesse. Gli effetti della chiusura erano molto gravi, consistendo nella decadenza di tutti i progetti di legge pendenti in parlamento, nella cessazione della presidenza

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delle due camere, delle commissioni e degli uffici, nella sospensione delle guarentigie personali attribuite ai deputati dagli artt. 45 e 46 dello Statuto (ovvero, rispettivamente, necessità del consenso della camera per l’arresto di un deputato fuori del caso di flagrante delitto o per la traduzione in giudizio in materia penale e impossibilità di esecuzione di un mandato di cattura per debiti). Si capisce, dunque, come molto frequentemente i governi abbiano fatto ricorso alla chiusura della sessione anche per raggiungere indirettamente la sostituzione di un presidente sgradito o la persecuzione giudiziaria di deputati dell’opposizione particolarmente ostili al governo. Al di là di questo, la chiusura delle sessioni parlamentari entrò però in una radicale contraddizione con il corretto funzionamento del regime parlamentare, ancor più perché, sommando proroghe e chiusure di sessioni, il parlamento fu, frequentemente, posto per mesi nell’impossibilità di esercitare le proprie funzioni. Nell’epoca crispina, ad esempio, nella tormentata XVIII legislatura, Crispi prorogò, come si è già detto, la sessione il 22 gennaio 1894; la chiuse il 23 luglio; riconvocò le camere per il 3 dicembre; prorogò la sessione il 15 dicembre; chiuse nuovamente la sessione il 13 gennaio 1895; sciolse la camera dei deputati l’8 maggio, convocando la XIX legislatura al 10 giugno. Non si deve credere, tuttavia, che un comportamento quale quello decritto sia stato tipico solo dell’autoritarismo crispino. Esso fu, anzi, largamente usato da molti governi dell’età liberale, prima e dopo il 1876. Nel 1865, ad esempio, il II governo La Marmora prorogò la sessione il 14 maggio fino al 7 settembre, sciolse la camera quello stesso giorno, convocando la nuova per il 18 novembre; tuttavia, all’inizio del nuovo anno, il governo prorogò di nuovo due volte la sessione, la chiuse il 30 ottobre e riconvocò le camere per il 15 dicembre. Questo modo di intendere l’esercizio delle funzioni parlamentari (che si accentuava nei periodi di guerra) non consentì né al parlamento di esercitare correttamente il suo controllo fiduciario sui governi (poiché è evidente che proroghe e chiusure erano frequentemente usate dall’esecutivo proprio per decidere su questioni controverse), né ai governi di poter contare su maggioranze stabili e convinte. Racioppi e Brunelli hanno scritto, a questo proposito, pagine esemplari sul comportamento della maggioranza durante l’ostruzionismo del maggio 1899 e sulla decisione del governo Pelloux di adottare le misure restrittive delle libertà per decreto legge: decisione determinata, soprattutto, dall’assenteismo, dal disinteresse ad intervenire nel dibattito, dalla non disponibilità alle sedute c.d. «notturne» dei deputati di maggioranza. Quel che è più grave, tuttavia, è che proroga e chiusura delle sessioni furono costantemente utilizzate come misure prodromiche allo scioglimento anticipato, al punto che la storia di questo istituto nell’età liberale non può essere ben compresa quando, come frequentemente accade, non sia collegata alla proroga ed alla chiusura delle sessioni. Dal 1850 fino all’inizio dell’età giolittiana, la proroga o la chiusura delle

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sessioni (ma, più frequentemente, la proroga seguita da chiusura) precedettero sempre il decreto di scioglimento anticipato della camera dei deputati. La ragione di questa costante consecutio è più che evidente: proroga e chiusura avevano anche il fine di premere, in maniera del tutto incostituzionale, sui parlamentari, tenendoli sotto la costante minaccia dello scioglimento anticipato. Quanto questo modo di intendere e di praticare il rapporto fra governo e parlamento abbia influito sulla nascita e sullo sviluppo delle istituzioni italiane è dimostrato dalla constatazione che, per trovare traccia di un primo decreto di scioglimento non preceduto da proroga o chiusura, occorre arrivare al 18 ottobre 1904, con il II governo Giolitti. È vero, allora, soprattutto tenendo conto di quanto appena detto, che non appare avere grande importanza un dato formale che, visto da solo, apparirebbe, invece, di grande rilievo (L. CARLASSARE, Art. 88, in Commentario della Costituzione – Il presidente della Repubblica, Bologna-Roma, Zanichelli-Il foro italiano, 1983, pp. 20 ss.): il fatto cioè, che, a partire dallo scioglimento anticipato del 20 novembre 1849, tutti i decreti di scioglimento del periodo monarchico furono emanati previa delibera del consiglio dei ministri (che veniva richiamata nel testo del decreto), accompagnata da una relazione contenente le motivazioni politiche della richiesta di scioglimento e gli orientamenti politici con i quali il governo intendeva affrontare le elezioni. Di più, anche se la formale proposta di scioglimento proveniva, sempre nello stesso periodo, dal consiglio dei ministri, sembra certo che la decisione sostanziale fosse da attribuire al primo ministro (G. GUARINO, Lo scioglimento, cit., p. 99), anche se, in verità, si può dire che il presidente del consiglio fu, forse, in grado di decidere da solo esclusivamente dopo il 1876. Solo apparentemente, dunque, la procedura dello scioglimento anticipato nell’età monarchica sembra assomigliare a quella britannica posteriore al 1867, dove il relativo potere e la relativa responsabilità ricadono sul governo (anzi, sul primo ministro) ed i motivi che conducono a sciogliere possono riguardare sia difficoltà che si manifestano in parlamento, sia problemi politici extra-parlamentari. In ogni caso, il corpo elettorale viene chiamato a giudicare sull’operato del governo e sui suoi dichiarati intendimenti. Quanto si è richiamato sopra a proposito della proroga e della chiusura evidenzia, invece, l’esistenza, in Italia, di un procedimento reale di scioglimento delle camere, che si contrapponeva al procedimento formale. Il primo non aveva affatto natura parlamentare (come, invece, ebbe quello inglese, almeno fino alla grande riforma elettorale): esso appariva, anzi, rivolto ad evitare il confronto in parlamento fra l’indirizzo del governo e quello dell’opposizione. I motivi dello scioglimento non potevano, dunque, identificarsi con quelli codificati dalla consuetudine britannica: sfiducia, rigetto di un’importante misura proposta dal governo, prolungate difficoltà parlamentari del governo (G. GUARINO, Lo scioglimento, cit., p. 76). La sfiducia era, certo, come vedremo, possibile. Tutta-

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via, le amplissime possibilità di manovra offerte ai governi da proroghe e chiusure erano, in fondo, principalmente volte ad evitare, insieme, voti di sfiducia o voti del parlamento contrari ad importanti proposte governative. L’accurata analisi di Racioppi e Brunelli sulle cause delle crisi di governo dal 1848 al 1906 testimonia che, su 55 ministeri caduti in questo periodo, solo 13 caddero in seguito ad un formale voto di sfiducia della camera (secondo gli autori i casi sarebbero 15, ma essi vi comprendono anche due casi di elezione alla presidenza della camera di candidati avversi al governo) (F. RACIOPPI, I. BRUNELLI, Commento, cit., III, p. 317). D’altra parte, in un corretto regime parlamentare, il vantaggio del governo di decidere sull’an dello scioglimento non avrebbe potuto cumularsi con quello di imporre prolungate «vacanze» del parlamento. Queste, impedendo il confronto nelle camere delle diverse posizioni del governo e delle opposizioni, finivano, infatti, per dare alle consultazioni elettorali un carattere plebiscitario (a favore o contro il governo), in maniera del tutto avulsa da un giudizio sulla concretezza degli avvenimenti politici e sui programmi. Quanto detto finora, rende, nei limiti di questo lavoro, sostanzialmente superflua un’accurata elencazione dei motivi che furono formalmente addotti dai governi del periodo monarchico per richiedere lo scioglimento anticipato della camera dei deputati. Oltretutto, un’esemplare analisi di tali motivazioni è stata compiuta da Lorenza Carlassare nel suo già citato saggio. Tuttavia, conviene richiamare, brevemente, alcuni di quei motivi, in quanto da essi traspaiono alcuni problemi tipici della nostra storia istituzionale. Anzitutto, il contrasto fra le due camere fu, in Italia come in Gran Bretagna, una delle cause di scioglimento anticipato. Il fatto, però, che il più grave contrasto fra le camere (meglio, fra la maggioranza di governo e la maggioranza del senato) sia avvenuto in epoca remota (nel novembre 1853, a causa delle leggi Siccardi), non consentì, come invece avvenne in Inghilterra con gli scioglimenti anticipati del 1909 e del 1910 (causati dalla mancata approvazione del bilancio da parte dei Lords), che da quella crisi potesse nascere una riforma del sistema bicamerale. Ancora, allo spirare dell’epoca cavouriana, notevole è l’esempio del sesto scioglimento anticipato che fu ottenuto da Cavour il giorno stesso della sua nomina (21 gennaio 1860), essendo state le camere già state chiuse il 17 dicembre 1859 dal precedente governo La Marmora. Anche in un caso come questo si dovrebbe, dunque, parlare di uno scioglimento anticipato deciso da un classico «governo del re» (perché privo in radice del gradimento parlamentare). Invece, nella sostanza, lo scioglimento fu imposto da Cavour alla corona, perché al primo premeva di avere, contro la seconda, un esplicito appoggio alla sua politica di unità nazionale, dopo Villafranca (L. CARLASSARE, Art. 88, cit., p. 26). L’intervento del re nello scioglimento anticipato non è ben valutabile, come si è detto, se non nel quadro dell’appoggio, e, talvolta, dei condizio-

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namenti, offerti dalla corona ai governi nei decreti di proroga e chiusura delle sessioni. Tuttavia, ed al di là di questo, debbono essere citati almeno due episodi di scioglimento anticipato nei quali il ruolo del re, Umberto I, risultò sicuramente contrario ai suoi fondamentali doveri di garante dei diritti del parlamento, cosicché la corona, schierandosi illegittimamente dalla parte del governo, finì per assumersi gravi responsabilità politiche. Il primo di questi episodi, riguarda lo scioglimento richiesto da Crispi l’8 maggio 1895, per impedire, come si è già ricordato, l’esercizio del controllo parlamentare sul suo coinvolgimento nello scandalo della banca romana. Il secondo, almeno altrettanto grave, è quello dello scioglimento dell’8 maggio 1900, richiesto da Pelloux dopo il lungo braccio di ferro con l’opposizione, incominciato nel maggio dell’anno precedente, e che si concluse con la grave pretesa del governo, alla fine soddisfatta, di entrare direttamente nel merito degli interna corporis parlamentari, imponendo una modifica del regolamento della camera dei deputati restrittiva dei diritti dell’opposizione. Ma il cuore delle motivazioni e delle finalità dello scioglimento anticipato sta, certamente, nei rapporti fra il governo ed il parlamento. D’altra parte, i dati, già ricordati, sull’eccezionale instabilità governativa fra il 1848 e l’età giolittiana (13 dimissioni per sfiducia; ben 31 a causa di dimissioni del governo) provano che in quel rapporto irrisolto si pongono i motivi per i quali in epoca statutaria lo scioglimento anticipato delle legislature fu la regola assoluta, mentre la loro scadenza naturale fu la assoluta eccezione. Un giudizio deve essere, però, espresso sui motivi che, contenuti o meno nella «relazione» al sovrano, determinarono gli scioglimenti anticipati motivati da un contrasto fra il governo e la camera dei deputati. Anche nel periodo della destra storica, il comportamento dei governi e della corona fu da questo punto di vista contraddittorio. Ad esempio, il motivo dello scioglimento del 13 febbraio 1867 fu l’approvazione alla camera di una risoluzione che censurava il comportamento illiberale del governo in materia di libertà di riunione. In seguito al voto, il governo correttamente si dimise. Vittorio Emanuele II respinse, però, le dimissioni ed il governo poté ottenere lo scioglimento anticipato contro la camera che gli aveva votato la sfiducia. Questa soluzione appariva, come si vede, difficilmente compatibile con il sistema parlamentare, nel quale lo scioglimento anticipato non potrebbe mai essere usato come sanzione contro una camera «colpevole» di aver usato dello strumento fiduciario. Inoltre, ed in ogni caso, le dimissioni di un governo colpito da sfiducia (nel secolo diciannovesimo non si dava significato all’istituto parlamentare usato, mozione, risoluzione, ordine del giorno, ma al fine proprio di questo) avrebbero dovuto essere considerate obbligatorie, e per questo non soggette all’accettazione discrezionale del capo dello Stato. Sempre in tema di rapporti fra camera e governo appare corretto il comportamento del I gover-

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no Depretis (L. CARLASSARE, Art. 88, cit., p. 29), il quale, dopo la caduta parlamentare della Destra Storica, ottenne il 3 ottobre 1876 uno scioglimento anticipato «motivato dalla opportunità di confermare il consenso dell’elettorato al mutamento che aveva seguito la caduta della destra e portato la sinistra al potere» (L. CARLASSARE, Art. 88, cit.). A questo proposito, ci sarebbe, semmai, da rilevare che la consultazione elettorale fu convocata troppo tardivamente, essendo entrato in carica il governo Depretis il 25 marzo di quello stesso anno. Dunque, il più radicale cambiamento politico dall’epoca di D’Azeglio e di Cavour, avvenuto, come è noto, quasi incidentalmente, anche se in una questione importante come quella ferroviaria, fu sottoposto all’approvazione degli elettori ben otto mesi dopo l’insediamento del nuovo governo. Quest’ultimo episodio testimonia del fatto che, in realtà e come si è già sottolineato a proposito del «procedimento reale» di scioglimento della camera, gli interessi particolari del governo erano, nella decisione di scioglimento, quelli assolutamente determinanti. Il che non sarebbe stato in sé né scandaloso né contrario a quanto avveniva nella patria del parlamentarismo, se la corona avesse esercitato un controllo sui modi e sulle condizioni della decisione governativa. È vero, d’altra parte, che il controllo si presentava molto difficile, soprattutto nelle condizioni che furono tipiche dei partiti politici e dei governi dopo l’affermazione del trasformismo depretisiano. Da questo punto di vista, sarebbe riuscito, spesso, anche difficile distinguere un interesse del governo, inteso come entità politica unitaria ed omogenea. Lo sviluppo delle fazioni all’interno della maggioranza governativa rese spesso incomprensibile al corpo elettorale quali fossero i motivi politici degli scioglimenti, che erano, infatti, determinati dallo scopo di premiare o di abbattere le fortune parlamentari di questa o di quella fazione, senza che potesse apparire nell’appello al corpo elettorale «una piattaforma elettorale (o un) criterio politico» (G. ARANGIO-RUIZ, Storia costituzionale, cit., p. 411). La prevalenza del presidente del consiglio nella decisione di scioglimento anticipato, che è già stata ricordata, assume, allora, contenuti assai diversi dalla parallela evoluzione inglese dopo gli anni ’70. La differenza fondamentale stava nel fatto che in Italia «i governi manovravano attivamente le elezioni e non avevano, perciò, a temere dei risultati» (G. GUARINO, Lo scioglimento, cit., p. 100). Ciò, consentì a Depretis ed a Crispi, così come a Giolitti nel 1904 e nel 1913, di usare gli scioglimenti anticipati per costruirsi maggioranze di governo attraverso operazioni chirurgicamente mirate ad abbattere gruppi e persone avverse o a favorire fazioni alleate. Come fu detto nel culmine di questo periodo da Gaetano Arangio-Ruiz, la degenerazione del sistema parlamentare italiano trovava, in queste pratiche, la sua più triste espressione.

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7. Gli istituti della difficile evoluzione parlamentare: il governo L’avere ripetutamente sottolineato le divergenze, spesso la lontananza, della forma di governo italiana da una forma di governo parlamentare democratica o monista (nella quale la volontà del corpo elettorale è destinata, alla fine, a prevalere, anche se secondo regole e procedure di garanzia) non significa certo voler sottovalutare l’evoluzione compiuta dal 1848 all’avvento del fascismo da quegli istituti (principalmente, il parlamento ed il governo) che o si trovavano, come nel caso della camera dei deputati, direttamente collegati al corpo elettorale o che scelsero, come accadde con il governo, di collegarsi, anche se indirettamente, al principio di democrazia rappresentativa. La lunga storia dei rapporti fra governo e parlamento è, anche dal nostro punto di vista, importante, perché le originarie funzioni e l’originaria struttura dei due organi si modificarono proprio in funzione di quel rapporto. Ad esempio, il parlamento avrebbe dovuto esercitare, secondo lo Statuto, essenzialmente la funzione legislativa e solo secondariamente una funzione di controllo in materie determinate (trattati internazionali; bilancio; imposte). Invece, l’affermazione, come si è visto di natura convenzionale, di un rapporto fiduciario fra il governo ed il parlamento rovesciò quell’originario rapporto, nel senso che il governo, considerandosi il comitato esecutivo non solo della sua maggioranza, ma di tutto il parlamento, si impadronì sostanzialmente del potere legislativo (attraverso l’attribuzione dei pieni poteri; lo sviluppo della legislazione delegata e dei decreti legge). D’altra parte, però, si assiste, in questo stesso periodo, al tentativo del parlamento, anche se non compiutamente sviluppato, di affinare quella funzione di controllo che lo Statuto non prevedeva come funzione generale delle camere. La nascita delle commissioni di inchiesta e di alcune «commissioni di vigilanza» parlamentari in delicate materie testimoniano questo sforzo di sviluppo delle funzioni parlamentari in rapporto alla nuova forma di governo; sforzo che, tuttavia, non giunse a positivi risultati a causa di quel distorto rapporto fra l’organo controllante e quello controllato che si è appena ricordato nel paragrafo precedente (I. STOLZI, Le inchieste parlamentari. Un profilo storico-giuridico (Italia 1861-1900), Milano, Giuffrè, 2015). Parlamento e governo, comunque, cambiarono profondamente funzioni e struttura dopo la nascita e durante lo sviluppo di quella problematica forma di governo parlamentare che fu propria dell’Italia monarchica. Dunque, se si vogliono capire i caratteri più profondi del regime politico-costituzionale italiano, sarà opportuno cercare di vedere più da vicino, prima di parlare nel dettaglio del rapporto fiduciario, quale fu lo sviluppo della struttura e delle funzioni del governo e del parlamento. I cambiamenti che si produssero nella struttura del governo rappresentano, da questo punto di vista, uno specchio fedele delle capacità di evolu-

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zione del sistema, ma anche dei suoi insuperabili limiti. Esaminando il ruolo della corona nella formazione e nella revoca dei governi, si è già rilevato quanto questo procedimento rendesse difficile e problematica l’affermazione nel governo di un organo dotato di poteri e di responsabilità paragonabili al primo ministro britannico. Se si guarda, adesso, all’evoluzione normativa dei rapporti fra presidente del consiglio, consiglio dei ministri e ministri, si ha la conferma di quanto lenta e contraddittoria sia stata in Italia l’affermazione dei basilari principi del governo di gabinetto. Il presidente del consiglio dei ministri, anzitutto, non seguì affatto nell’evoluzione dei suoi poteri un percorso lineare e coerente. È vero, infatti, come ricordano Predieri e Rotelli nelle due migliori indagini dedicate all’argomento (A. PREDIERI, Lineamenti della posizione costituzionale del presidente del consiglio dei ministri, Firenze, Barbera, 1951; E. ROTELLI, La presidenza del consiglio dei ministri: il problema del coordinamento dell’amministrazione centrale in Italia, Milano, Giuffrè, 1972), che la mancata definizione normativa delle attribuzioni del presidente del consiglio corrispondeva alla consuetudine inglese (A. PREDIERI, Lineamenti, cit., p. 42; E. ROTELLI, La presidenza, cit., p. 35). È anche vero, però, che nel sistema britannico non esistevano soggetti politici o costituzionali che si opponessero ad uno sviluppo per via consuetudinaria dei poteri del primo ministro. Anzi, i partiti politici, il parlamento e la corona collaborarono sostanzialmente ad un deciso sviluppo delle responsabilità politiche del Prime minister. In Italia, al contrario, come si è visto, Carlo Alberto, prima, e Vittorio Emanuele II, poi (fino dal primo e secondo governo D’Azeglio), manifestarono tutta la loro ostilità all’affermazione, dentro il consiglio dei ministri, di un soggetto in grado di assumere la direzione del governo, sia dal punto di vista della determinazione dell’indirizzo politico, sia dal punto di vista della sua coerente attuazione da parte di tutti i ministri. Rimangono, allora, da capire i motivi del comportamento di Cavour, il quale, essendo riuscito, dopo il «connubio» con Rattazzi, a creare, sul piano politico, le condizioni per l’affermazione di una figura di primo ministro coerente con il governo di gabinetto, non volle, poi, definire sul terreno normativo quei poteri del presidente del consiglio che la corona continuava, invece, ad osteggiare. La morte prematura di Cavour è, probabilmente, in sé una spiegazione, se considerata insieme alle condizioni del raggiungimento dell’unità nazionale che Cavour considerava inevitabili. Fra queste, in primo piano, stava il ruolo politico (in quanto perno dell’unità dei partiti moderati) e quello «simbolico» (in rapporto alle guerre ed alle relazioni internazionali) della corona e della dinastia sabauda. In altre parole, si può ritenere che Cavour fosse del tutto consapevole che, finché l’unità italiana non fosse stata raggiunta, le istituzioni avrebbero continuato a vivere in una situazione di permanente eccezionalità, nella quale il re avrebbe avuto un «di più» di potere difficilmente regolabile, e comprimibile, per via giuridica. Per questo, è difficile dire se Cavour con-

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siderasse soddisfacente in prospettiva l’equilibrio dei rapporti che si era stabilito fra corona e presidente del consiglio. A giudicare da quanto egli fece per affermare sul piano puramente politico la sua supremazia, in quanto presidente del consiglio, c’è da ritenere di no. Su quel piano, infatti, egli si comportò davvero come un Prime minister: «non solo chiamando a far parte del gabinetto persone di sua fiducia, ma riservandosi i posti chiave [...] e quando egli si dimetterà il ministero lo seguirà compatto» (A. PREDIERI, Lineamenti, cit., pp. 40, 41). Di più, si può dire che Cavour si comportò in coerenza con il modello britannico anche nei confronti del parlamento: anzitutto, e come è già stato detto, a proposito delle decisioni di scioglimento anticipato, nelle quali fu sua la decisione politica sull’an e sul quando; in secondo luogo, a proposito delle modalità del confronto fra l’indirizzo politico del governo e quello del parlamento. Durante la sua presidenza del consiglio, la posizione della questione di fiducia di fronte alle camere fu saldamente nelle sue mani. Anzi, singolarmente, Cavour innovò, su questo punto, contro se stesso, in quanto il 5 febbraio 1852, quando egli era ministro delle finanze, della marina e dell’agricoltura nel II governo D’Azeglio, aveva posto la questione di fiducia sulla legge sulla stampa, senza autorizzazione del presidente del consiglio (M. MANCINI, U. GALEOTTI, Norme ed usi, cit., p. 451). In base a questi precedenti, sembra allora fondata la tesi, accennata da Predieri (Lineamenti, cit., p. 43), per il quale «proprio la posizione di Cavour renderà alla sua morte la monarchia desiderosa di riprendere l’iniziativa nell’indirizzo e nella composizione del governo», imponendo le dimissioni di Ricasoli nel 1862 e quelle, già ricordate, di Minghetti nel 1864. Il fatto che fra governo e corona si sia giocata in quegli anni una durissima partita è dimostrato, d’altra parte, dal tentativo di Ricasoli, alla fine della sua seconda esperienza di governo, di «normativizzare» le attribuzioni del presidente del consiglio dei ministri con un decreto (decreto 28 marzo 1867, n. 3629) che, sebbene abrogato dal governo Rattazzi appena un mese dopo, conteneva principi di grande importanza, tali da sopravvivere all’abrogazione ed essere, poi, ripresi da Depretis nel 1876, per pervenire, infine, parzialmente, nella stessa Costituzione della Repubblica. In base al decreto Ricasoli (art. 5), il presidente del consiglio «rappresenta il gabinetto, mantiene l’unità di indirizzo politico e amministrativo di tutti i ministeri (principio che troveremo ripetuto quasi letteralmente dall’art. 95 Cost.) e cura l’adempimento degli impegni presi dal governo nel discorso della corona, nelle sue relazioni con il parlamento e nelle manifestazioni fatte al paese». L’intento della norma era evidente: attribuire al presidente del consiglio il potere di promuovere un indirizzo politico (espressione che compare per la prima volta in un testo normativo) unitario del governo. Tutto ciò, attraverso il riconoscimento di una speciale responsabilità del presidente all’interno del governo (unità di indirizzo dei ministeri); nei confronti della corona (che doveva prendere atto del-

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l’esistenza di questo indirizzo unitario nel discorso della corona); nei confronti del parlamento (che avrebbe dovuto riconoscere, in tutte le sue relazioni con il governo, il presidente del consiglio come unico interprete autentico dell’indirizzo governativo); ed infine nei confronti del corpo elettorale, ritenendo Ricasoli, come i suoi contemporanei Disraeli e Gladstone (A. PREDIERI, Lineamenti, cit., p. 8), che al primo ministro e non al sovrano spettasse il potere di manifestare (esternare, diremmo oggi) gli intendimenti del governo. Si trattava, come si vede, di una vera «grande riforma», che avrebbe, però, richiesto, per essere attuata, l’esistenza di una leadership di governo quale era stata quella di Cavour. Ricasoli, invece, adottò il decreto n. 3629 pochi giorni dopo l’apertura della X legislatura, che seguiva allo scioglimento anticipato delle camere. Quello scioglimento era stato chiesto da Ricasoli dopo una grave sconfitta parlamentare del suo governo, che aveva portato alle sue dimissioni, respinte dal re con discutibile decisione. Debolezza parlamentare e debolezza nei confronti della corona si sommavano per il governo: le elezioni del marzo aggiunsero a questa fragilità l’insuccesso elettorale. È del tutto comprensibile, dunque, che il governo Rattazzi, che nasceva in una situazione altrettanto precaria, si sia piegato al re: decidendo la formale abrogazione del contrastato decreto, Rattazzi avrebbe pagato la sua debolezza nei confronti della corona con la sua revoca nell’ottobre di quello stesso anno, il 1867. Quella revoca confermava che il processo di unificazione nazionale guidato dalla corona era interpretato dal re come una ragione sufficiente a giustificare il rifiuto di una normalizzazione, in senso irrevocabilmente parlamentare e democratico, delle istituzioni italiane. Dopo la parentesi di Menabrea e la conquista di Roma, gli ultimi due governi della destra storica, trascurarono di riprendere di nuovo, ad unità compiuta, il problema politico e costituzionale sollevato da Ricasoli (quello dell’unità e dell’omogeneità politica dei governi, sotto la responsabilità del presidente del consiglio dei ministri) e si resero, così, responsabili di un grave errore politico. Solo dopo la caduta della destra storica, il I governo Depretis si riappropriò, con poche modifiche, del decreto Ricasoli, riproponendolo con R.D. 25 agosto 1876, n. 3289. Le modifiche introdotte nel decreto andavano, però, tutte in senso favorevole alle prerogative della corona. Fra queste, ad esempio, appare di grande rilievo quella che modificava l’art. 8 del decreto Ricasoli, il quale, con formula simile a quella dell’art. 92 Cost., stabiliva che il presidente del consiglio controfirmava i decreti di nomina dei ministri (ma anche del presidente e del vice-presidente del senato) «che egli propone». Nel decreto Depretis quest’ultimo inciso cadde per la riluttanza del re ad accettare un non marginale mutamento normativo nel procedimento di nomina del governo che, come già sottolineato, consentiva alla monarchia di intervenire nel merito della scelta dei ministri. Ancora, i poteri del presidente del consiglio risultarono ridotti per la cancella-

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zione della sua personale controfirma nei decreti di convocazione, proroga, chiusura delle sessioni e nel decreto di scioglimento anticipato delle camere (E. ROTELLI, La presidenza, cit., p. 73). Probabilmente, anche grazie a queste modifiche il decreto non incontrò le critiche che aveva sollevato quello di Ricasoli, accusato di concezione autoritaria del potere, anche se nella stampa conservatrice furono comunque denunciati rischi di «abbuiamento» della responsabilità individuale dei ministri, impliciti nel decreto (E. ROTELLI, La presidenza, cit., p. 83). In effetti, a parte il tema dell’indebita riduzione della prerogativa regia, le critiche conservatrici ai tentativi di condurre la forma di governo italiana verso un modello più vicino a quello del governo di gabinetto si fondavano su una concezione, e su una prassi parlamentare, della responsabilità politica tutta centrata sulla responsabilità individuale del singolo ministro che, inevitabilmente, tendeva ad esaltare la sola responsabilità amministrativa, trascurando, invece, del tutto quella politica generale del governo. Da questo punto di vista, allora, sia il decreto Ricasoli che quello Depretis segnavano, invece, un notevole avanzamento nella concezione del governare, in quanto in essi il presidente del consiglio era posto in grado di promuovere e raggiungere un unitario indirizzo di governo, non attraverso una sua burocratica sovra-ordinazione agli altri ministri (il che sarebbe stato contrario all’art. 67 dello Statuto e più vicino al sistema di cancellierato), ma attraverso, invece, un potenziamento della collegialità del governo. In altre parole, nei due decreti il presidente del consiglio era posto in grado di dirigere e coordinare i ministri attivando la decisionalità collegiale del consiglio dei ministri. Il dovere dei ministri di comunicare al presidente i propri decreti e di informarlo su tutti i propri atti che impegnassero «l’indirizzo del governo» ed il potere del presidente di sospendere le proposte ministeriali, deferendone l’esame al consiglio, individuavano nella collegialità del governo il centro dell’indirizzo politico; indirizzo, della cui esistenza e della cui efficienza il presidente del consiglio si rendeva garante e responsabile. Si trattava, come si vede, di una variante di non poco conto rispetto al modello britannico del Prime minister, che, come sottolineato più volte, stava conoscendo in quegli anni una svolta verso un principio di direzione individuale del governo. Tuttavia, anche se con queste differenze, la «variante italiana» della forma di governo parlamentare avrebbe, teoricamente, potuto segnare, se posta in grado di funzionare, un deciso avanzamento rispetto al sistema precedente. Invece, già i motivi politici per i quali Depretis decise di riadottare il decreto (e che consistevano nel tentativo di imbrigliare la pericolosa concorrenza del suo ministro degli interni, Nicotera) erano indizio della difficoltà, se non della impossibilità, di far funzionare in senso collegiale, e con un’unitaria direzione, il sistema italiano di governo. Il «ministerialismo» (cioè, la conduzione della politica dei singoli ministeri in maniera avulsa da un indirizzo generale di governo ed in

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base agli interessi politici del ministro) era prepotentemente riemerso dopo la caduta della destra storica (cfr., a questo proposito, G. MOSCA, Teorica dei governi e governo parlamentare, rist. Milano, Giuffrè, 1968; M. MINGHETTI, I partiti politici e l’ingerenza loro nella politica e nell’amministrazione, rist. Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1992). D’altra parte, quel sistema sembrava assolutamente necessario per fungere da collante al «trasformismo» di Depretis e per consentire al nuovo governo di impossessarsi della pubblica amministrazione a fini di partito. A questo proposito è illuminante la pagina dedicata da Arangio-Ruiz alle elezioni del 1876. Come già si è già detto, sarebbe stato da attendersi che uno storico rivolgimento parlamentare, come quello avvenuto il 18 marzo 1876, fosse stato seguito da immediate elezioni. Il governo Depretis poté, e volle, invece, attendere più di sette mesi prima di convocare i comizi, cosicché «tramutamenti di magistrati giudicati inamovibili», mutamenti o messa in aspettativa o in disponibilità di «poco meno che tutti i sessantanove prefetti» consentirono al nuovo governo una grande affermazione, al prezzo di aver posto la mano nelle elezioni «come mai non fu visto sotto i precedenti governi» (G. ARANGIO-RUIZ, Storia costituzionale, cit., pp. 299, 300). D’altra parte, quanto la disponibilità di un ministero, del suo bilancio, del potere sulla burocrazia fosse considerato prevalente di fronte al potere d’indirizzo politico generale, è dimostrato dal fatto che quasi tutti i primi ministri si mostrarono poco convinti del fatto che la loro superiorità politica all’interno del governo potesse essere affidata solo a quella supremazia normativa del presidente del consiglio ora descritta. In conseguenza (ma fino dall’epoca precedente a Cavour), si stabilì una significativa consuetudine, per la quale i presidenti del consiglio usarono attribuirsi, per mezzo dell’interim, alcuni importanti ministeri. Molto frequentemente quello degli interni (che consentiva loro di controllare, attraverso i prefetti, tutto l’intervento dell’amministrazione nelle province), spesso gli esteri (ma, in questo caso, anche per compensare l’indebita ingerenza del re in questa materia), non di rado le finanze o qualche ministero economico. A volte (come nel caso di Cavour e di Depretis, di Crispi e di Giolitti, per finire a Mussolini) i primi ministri moltiplicarono gli interim, attribuendosi una pluralità di ministeri, fino al primato di Mussolini, che giunse ad assommarne fino a sette nelle sue mani. Al di là di questo, era, però, la fragilità politica ed organizzativa dei partiti che rendeva poco realistico il funzionamento del governo in maniera coerente con il modello collegiale di Ricasoli e Depretis. Malgrado la controfirma del presidente del consiglio sui decreti di nomina dei ministri, la scelta di questi ultimi non poteva, certo, essere compiuta tenendo presente, in primo luogo, il fine di un governo solidale ed omogeneo rispetto al suo indirizzo. I ministri, scriveva G. Mosca, debbono essere, anzitutto, «dei deputati influenti, dei vecchi parlamentari, dei capi gruppo che portino, ognuno per la sua parte, un contingente di amici de-

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voti in sostegno del ministero» (G. MOSCA, Teorica, cit., p. 158). Così stando le cose, la preminenza del presidente del consiglio e, attraverso di questo, del consiglio dei ministri era politicamente impossibile, perché ogni ministro si sentiva anzitutto responsabile verso «la consorteria», come fu detto, che lo aveva espresso ed i cui interessi egli doveva tutelare. Da questo punto di vista, la distanza dalla lettera dello Statuto era, in effetti, grandissima, in quanto l’art. 66 dello Statuto, disponendo che i ministri avessero voto deliberativo nelle camere solo se ne fossero membri e disponendo che le camere dovevano sempre consentire loro l’ingresso e sentirli quando lo richiedessero, ipotizzava che il re potesse nominare ministri anche non parlamentari. Il cursus parlamentare non appariva, anzi, originariamente, né requisito, né preferenza per la nomina. La legge 17 dicembre 1860, n. 4513 introdusse, anzi, in questa materia un principio di incompatibilità, stabilendo la decadenza dal mandato legislativo per i deputati nominati ministri. Dunque, finché questa norma non fu abrogata con la legge crispina 14 luglio 1887, n. 4711, i ministri furono sempre soggetti, dopo la nomina, alla rielezione da parte dei loro collegi. La diretta investitura popolare, finiva, però, per rafforzare politicamente la loro posizione, il che spiega (al di là della dovuta modernizzazione) l’abrogazione della legge da parte di Crispi. In effetti, la strategia istituzionale della sinistra fu, anche dal punto di vista della struttura e delle funzioni del governo, a dir poco contraddittoria. Il II governo Depretis istituì nel dicembre 1877 (per la tenace iniziativa del ministro degli interni Crispi) con decreto, anziché con disegno di legge, il ministero del tesoro, sopprimendo contemporaneamente quello dell’agricoltura, industria e commercio. Il problema del numero e delle attribuzioni dei ministeri aveva a lungo impegnato governi e parlamento ed era stato risolto dalla destra storica (con Cavour, nel 1860 e con Ricasoli nel 1866) nel senso della competenza delle camere a deliberare in materia. La contraria affermazione della competenza governativa, che si affermò, invece, nel 1877 e, poi, più organicamente, con la legge crispina 12 febbraio 1888, n. 5195 (il cui primo articolo stabiliva che il numero e le attribuzioni dei ministeri erano determinati con decreto reale) aveva, ovviamente, l’intento primario di ridurre il temuto «governo delle assemblee» ed evitare la «usurpazione dei diritti» dell’esecutivo, come ebbe a dichiarare Crispi durante il dibattito parlamentare sulla legge. In realtà, come meglio si dirà oltre, il vizio dell’assemblearismo, del quale senza dubbio soffriva il parlamento italiano, non derivava certo dalla «pretesa» delle camere di determinare la struttura fondamentale dello Stato. Dopo l’abrogazione, nel 1904, con la legge n. 372, ad opera del II governo Giolitti, della legge del 1888, si osservò, giustamente, che «l’ordinamento dei ministeri è l’ordinamento stesso dello Stato. Sarà dunque consentito all’Esecutivo, cioè ad ogni presidente del consiglio, il determinare secondo le convenienze proprie il numero e le competenze dei suoi colleghi, il numero dei membri del consiglio dei ministri, l’attività dei

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consiglieri responsabili della corona? [...] Quale regime costituzionale è mai quello in cui l’Esecutivo può a suo piacimento fare e disfare le pubbliche amministrazioni?». (F. RACIOPPI, I. BRUNELLI, Commento, cit., III, pp. 327-328). In realtà, al di là del problema, non certo secondario, del rapporto fra governo e parlamento, la legge crispina, oltre ad avere per la prima volta previsto in via generale i sottosegretari di Stato (art. 2), aveva posto anche il problema dell’assetto costituzionale del governo e del rapporto politico fra il presidente del consiglio ed i ministri. È, non a caso, in questo periodo che si incomincia a parlare dei pericoli che possono derivare dalla concentrazione dei poteri in un uomo solo: il presidente del consiglio (si veda, a questo proposito, l’accurata ricostruzione della discussione parlamentare sul disegno di legge di Crispi, riportata da E. ROTELLI, La presidenza, cit., pp. 154 ss.). Queste preoccupazioni toccheranno, poi, il culmine fra il secondo ed il terzo governo Crispi, quando il presidente del consiglio revocherà, come già accennato, con decreto reale 19 settembre 1890, il suo ministro delle finanze Seismit-Doda o quando, fra il 1894 e il 1895 (in quell’anno nel quale il governo tenne aperte le camere per undici giorni complessivi), il presidente del consiglio governerà, in pratica, anche senza il consiglio dei ministri, che fu frequentemente posto di fronte al fatto compiuto «di decisioni essenziali per la gestione del potere», prese direttamente da Crispi «senza nemmeno consultare i colleghi di gabinetto» (C. GHISALBERTI, Storia costituzionale, cit., p. 239). Fu questo, probabilmente, il periodo nel quale la forma di governo italiana si avvicinò di più al cancellierato Bismarckiano (R. ROMANELLI, L’Italia liberale (1861-1900), Bologna, Il Mulino, 1979, p. 349): revoche di ministri; mancate convocazioni delle camere e del consiglio dei ministri potevano avvenire, in realtà, soltanto in base ad un’univoca concezione politica e delle istituzioni da parte del presidente del consiglio e della corona. Le norme fondamentali sul governo rimanevano, infatti, quelle degli artt. 5 e 65-67 dello Statuto; norme che la consuetudine, o meglio le convenzioni fra gli organi costituzionali, avevano, oltretutto, interpretato, almeno fino a Depretis, in un senso assai diverso dal modo crispino di intendere la vigente forma di governo. Ecco perché avrebbe assunto un grande significato politico il decreto 14 novembre 1901, n. 466, che il governo Zanardelli deliberò dopo la conclusione della prima grave crisi dello Stato liberale alla fine del secolo precedente. Come è stato detto, tra i numerosi aspetti costituzionali del provvedimento, i più importanti riguardarono, insieme, la riduzione delle prerogative della corona ed una più rigorosa affermazione dei principi del sistema parlamentare (E. ROTELLI, La presidenza, cit., p. 204). La riduzione delle prerogative del re era evidente nell’art. 2, che attribuiva al consiglio dei ministri il potere di nominare, e di revocare, tutti i grands commis dello Stato: dal presidente del senato ai senatori; dal ministro della Real Casa ai consiglieri di Stato e della corte dei conti; dagli ambasciatori e

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ministri plenipotenziari ai comandanti di corpo d’armata ed al capo di stato maggiore; dai presidenti di sezione di corte di cassazione e di appello, ai procuratori generali; dai prefetti fino al direttore generale della Banca d’Italia. Si trattava di un complesso di nomine rispetto a molte delle quali la corona aveva preteso nel passato un’ingerenza nel merito. Affermare, dunque, la competenza del consiglio dei ministri rispetto ad esse, voleva significare la riconduzione della «politica delle nomine» ad unità di indirizzo, evitando, insieme, il ministerialismo clientelare e l’ingerenza regia. Rimanevano, tuttavia, gli equivoci di una concezione che non era in grado di operare una svolta in senso del tutto liberale del potere, cosicché il governo, anche se unitariamente inteso, pretendeva di subordinare al proprio indirizzo politico la magistratura ordinaria, quella amministrativa e persino l’organo destinato ad esercitare il controllo sulla legittimità degli atti del potere esecutivo e sul bilancio (corte dei conti). Malgrado questi evidenti limiti, il decreto Zanardelli operò, tuttavia, una svolta in senso liberale rispetto alla generale forma di governo. Ad esempio, affermare la competenza del consiglio dei ministri in tema di deliberazione dei decreti legislativi, dei decreti legge, dei disegni di legge governativi e del loro ritiro, significava affermare il principio che il governo, inteso in maniera unitaria, era l’interlocutore del parlamento nel procedimento legislativo. Parallelamente, la figura di presidente del consiglio, che emergeva dal decreto, era assai lontana dalle suggestioni crispine. Il decreto, infatti, dava al presidente qualche potere in più rispetto al decreto di Depretis, consentendogli un più ampio controllo sulla fase di attuazione delle deliberazioni collegiali da parte dei ministri: l’art. 6 affermava, in generale, che «il presidente del consiglio dei ministri rappresenta il gabinetto, mantiene l’unità d’indirizzo politico ed amministrativo di tutti i ministeri e cura l’adempimento degli impegni presi dal governo nel discorso della corona, nelle sue relazioni col parlamento e nelle manifestazioni fatte al paese», utilizzando quindi, nella prima parte, una formulazione che sarebbe stata fatta propria dall’art. 95 della Costituzione del 1948. Tra le competenze riconosciute al presidente del consiglio, oltre a quelle di convocazione, fissazione dell’ordine del giorno, e direzione delle riunioni del consiglio dei ministri (artt. 3 e 4), è da segnalare la possibilità di sospendere proposte ministeriali per deferirne l’esame al consiglio dei ministri (art. 8). Infine, similmente a quanto previsto nel decreto del 1876, non era codificata la proposta del presidente del consiglio in ordine alla nomina dei ministri: l’art. 10 prevedeva infatti che «il presidente del consiglio dei ministri controfirma i decreti di nomina dei ministri segretari di Stato, ed insieme ai ministri competenti quelli per i quali sia stata necessaria una deliberazione del consiglio dei ministri». Tuttavia, come nel decreto del 1876, l’indubitabile preminenza politica del presidente, che emergeva dal decreto Zanardelli, si fondava sulla reale

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capacità del primo ministro di ricondurre le disperse (e magari divergenti) politiche ministeriali all’unità collegiale del consiglio dei ministri. Rimaneva, in base all’art. 67 dello Statuto, che un decreto non poteva certo modificare il principio della responsabilità dei singoli ministri e, quindi, si respingeva ogni suggestione di gerarchia all’interno del governo. Il consiglio dei ministri diveniva, però, il solo organo competente a deliberare la politica generale del governo; politica generale della quale il primo ministro era considerato il promotore e il tutore. I principi stabiliti dal decreto Zanardelli furono effettivamente alla base dell’attività di governo nell’epoca giolittiana. È vero che si è discusso a lungo se la indiscutibile preminenza di Giolitti, come presidente del consiglio, non avesse assunto, in alcune occasioni, i caratteri di una «dittatura», anche se esercitata in nome del parlamento (così Salvemini, ma anche G. MARANINI, Storia, cit., p. 175). In realtà, tale conclusione confonde problemi diversi. Per quanto riguarda, anzitutto, l’azione di Giolitti all’interno del governo, è vero che egli amò considerarsi più come un Prime minister che come un presidente del consiglio. Come risulta dalle sue «Memorie», frequentemente citate a questo proposito, formazione dei governi, scioglimenti anticipati della camera, decisioni di politica estera sarebbero state assunte personalmente da Giolitti senza la partecipazione degli altri membri del governo (cfr., in questo senso, A. PREDIERI, Lineamenti, cit., p. 61; E. ROTELLI, La presidenza, cit., p. 241). Tuttavia, da un lato, le «memorie» giolittiane, che costituiscono la fonte alla base di tali conclusioni sono, ovviamente, parziali e discutibili; dall’altro, poi, studi più recenti hanno, invece, sottolineato il ruolo importante del consiglio dei ministri soprattutto nell’ultima fase dell’età giolittiana: ad esempio, per ciò che riguarda riforme di grande rilievo quali l’istituzione dell’INA (cfr. A. SCIALOJA, L’INA ed il progetto giolittiano di un monopolio di Stato delle assicurazioni sulla vita, in Quad. stor., 1971, pp. 971 ss.). Per quanto riguarda, invece, l’attuazione delle indicazioni del decreto Zanardelli in tema di rapporti con il parlamento, si può anticipare, rispetto a quanto si dirà fra breve, che le relazioni fra governo e parlamento furono assai contraddittorie. Tuttavia, per quanto riguarda l’esercizio della funzione di indirizzo politico da parte del governo, questa fu effettivamente esercitata attraverso l’iniziativa legislativa (con una significativa diminuzione della antica prassi dei pieni poteri e dei decreti legge). Come dimostra l’iter parlamentare del già citato progetto istitutivo dell’INA, non è, dunque, nemmeno esatto ritenere che, in quel periodo, il governo lasciasse, prevalentemente, al parlamento solo il compito di approvare le sue iniziative legislative (così, invece, C. GHISALBERTI, Storia costituzionale, cit., p. 282). Ciò detto, rimane, comunque, da precisare che sarebbe errato, seguendo, appunto la ricostruzione operata da Giolitti nelle sue memorie, ritenere che nell’Italia di quegli anni sia stata effettivamente vigente una forma di governo, vicina a quella inglese, del primo ministro e del governo di ga-

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binetto. La preminenza del primo ministro, la decisione collegiale dell’indirizzo di governo, la riduzione della prerogativa regia in base alla competenza del consiglio dei ministri erano principi affidati, come si è già osservato, al debole schermo di un decreto governativo che non aveva in alcun modo la forza giuridica di mutare i principi statutari. Il significato della svolta in senso (parzialmente) parlamentare della forma di governo nel periodo giolittiano fu, dunque, essenzialmente politico. La riprova della mancata stabilizzazione del regime in senso parlamentare fu data, infatti, dalla facilità con la quale durante il governo Salandra, nel maggio del 1915, furono ribaltati i principi del 1901. La nomina di Salandra alla presidenza del consiglio «contro la maggioranza della camera» (A. PREDIERI, Lineamenti, cit., p. 63), la pesante ingerenza della corona nella politica estera e nella decisione di guerra, quando il re, respingendo le dimissioni di Salandra, presentate come «una sfida e un atto di accusa contro il parlamento [...] si era messo dalla sua parte» (G. PERTICONE, Il regime parlamentare, cit., p. 215), l’approvazione il 22 maggio della legge che concedeva i pieni poteri al governo secondo la tradizione degli anni di Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele II: tutto questo dimostrava che la sostanza costituzionale della forma di governo italiana era rimasta immutata nei decenni. Non a caso, le modalità con le quali questo rivolgimento radicale si svolse si sarebbero ripetute sette anni dopo, all’avvento del fascismo, ivi compresa la nomina alla presidenza del consiglio di un’esponente della minoranza «designato» non dal parlamento ma dalla piazza. Fra il ritorno, realizzatosi nel ’15, ad una forma di governo «aparlamentare» e l’affermazione del fascismo, si collocano i cambiamenti avvenuti nel governo dopo l’approvazione della proporzionale nel 1919. L’analisi più lucida di quei mutamenti rimane un saggio di Ambrosini del 1922, da molti richiamato (G. AMBROSINI, La trasformazione del regime parlamentare e del governo di gabinetto, in Riv. trim. dir. pubbl., 1922, pp. 187 ss.). La tesi di Ambrosini era che l’introduzione della proporzionale e l’istituzione dei gruppi parlamentari alla camera avessero trasformato la forma di governo italiana da un governo di gabinetto ad un «governo dei gruppi parlamentari». I partiti si erano, infatti, sostituiti alle singole personalità parlamentari all’interno dei governi, ed essendo essi, evidentemente, più forti dei vecchi ministri, la figura del presidente del consiglio risultava indebolita. L’analisi era acuta e trovava corrispondenza nelle vicende dei debolissimi governi Nitti (1° e 2°), Giolitti e Facta, che si succedettero fra il 1919 ed il 1922; essa deve essere, comunque, ricordata perché da quel punto di arrivo riprese, all’Assemblea costituente, il discorso sulla forma di governo in Italia.

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8. Il parlamento ed il suo rapporto con il governo Il ruolo del parlamento è stato variamente definito da chi ha cercato di dare giudizi più approfonditi sulla forma di governo italiana nell’età della monarchia. Il contenuto di quei giudizi varia, tuttavia, in relazione alle epoche storiche ed alle fonti dalle quali proviene. In relazione alle epoche, ad esempio, si può ricordare che, mentre dall’età di Cavour al 1876 vi fu una sostanziale concordia nel ritenere pacifica l’evoluzione «parlamentare» del nostro sistema (il che significava, in sostanza, riconoscere la legittimità e l’opportunità dell’evoluzione delle funzioni parlamentari dal campo puramente legislativo a quello politico), l’avvento al potere della sinistra portò, come già ricordato, a negare anche in radice la costituzionalità di quella evoluzione, così come fu fatto da Sonnino nel gennaio del 1897, alla vigilia della prima grave crisi dello Stato liberale. Le definizioni del ruolo del parlamento risultano, oltretutto, più che varie, fortemente contraddittorie. Esse vanno, infatti, da un giudizio di piena realizzazione in Italia del parlamentarismo classico, dato, ad esempio, in piena epoca giolittiana, dai più volte ricordati Racioppi e Brunelli, alla più cauta sottolineatura dei necessari «temperamenti» dell’onnipotenza parlamentare dei costituzionalisti moderati, fino alla denuncia più dura delle «degenerazioni del parlamentarismo» di Mosca e di Turiello. Al centro di tutte queste discussioni e di quegli scontri politici si poneva sempre, comunque, il problema del rapporto fra il parlamento ed il governo, rispetto al quale è opportuno, dunque, cercare di chiarire meglio in che cosa consistesse quella «parlamentarizzazione» della forma di governo che era, di volta in volta, deprecata od esaltata. Ho già detto dei limiti dentro ai quali si può parlare dell’affermazione del governo parlamentare dalla IV legislatura in poi. Tuttavia, un altro punto deve essere sottolineato per ciò che riguarda il modo di instaurazione del rapporto fiduciario fra governo e parlamento. Se è vero, infatti, che, almeno dall’epoca di Cavour «i capi dei varii Gabinetti costituzionali italiani [...] non si dipartirono mai [...] dalla buona consuetudine, consacrata dagli usi di tutti i paesi che si reggono a governo parlamentare, quella che il primo ministro, presentandosi col gabinetto innanzi al parlamento, dia conto del programma del ministero» (così, M. MANCINI, U. GALEOTTI, Norme ed usi, cit., p. 742), è anche vero che il parlamento italiano, seguendo l’interpretazione data sul punto da Pitt nel 1784, non volle mai aprire una discussione su quelli che si usavano chiamare «gli intendimenti» del nuovo governo. Durante gli anni della destra storica, questo principio fu tenuto fermo, sino al punto da non consentire, in sede di presentazione del governo alle camere, non soltanto una discussione parlamentare sul programma, ma anche un dibattito sulle modalità politiche date alla soluzione della crisi, alla formazione del governo e alla sua composizione.

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La motivazione che veniva data, in parlamento e dalla dottrina, a questa grave auto-limitazione dei poteri parlamentari era che i governi «vanno giudicati dai loro atti, più che dalle loro parole», come affermò nel 1862 il senatore Di Revel. In realtà, come sottolineò Arcoleo (Diritto costituzionale, cit., p. 208), un’altra, e forse più importante, ragione impediva alle camere di dibattere sulle modalità di formazione del nuovo governo: il fatto, cioè, che in tal modo si sarebbe posta in discussione la prerogativa regia. Questo spiega perché, anche in occasione di crisi che ponevano in questione la natura parlamentare del governo, le camere, anche se sollecitate da deputati dell’opposizione, si rifiutarono sempre di aprire un dibattito dopo le dichiarazioni del presidente del consiglio. Dunque, come nel caso del I governo Rattazzi nel 1862, solo attraverso la presentazione di un’interpellanza si riuscì, a volte, ad ottenere una breve replica del primo ministro, ovviamente non seguita dal voto. A riprova della maggiore dialettica portata dagli avvenimenti del 1876 fra i poteri dello Stato, Depretis si dichiarò teoricamente disponibile, in occasione del passaggio fra il suo terzo ed il suo quarto governo, ad accettare «che nella camera stessa si faccia una mozione e si dichiari che essa non ha fiducia nel ministero ricomposto» (cfr., in M. MANCINI, U. GALEOTTI, Norme ed usi, cit., p. 744). Se a questa disponibilità del governo fossero seguiti atti concreti, si sarebbe trattato di un passaggio importante in direzione di un ruolo del parlamento non solo di maggior rilievo, quanto di maggiore responsabilità, dato che il procedimento ora descritto finiva per deresponsabilizzare del tutto le camere principalmente rispetto al programma. Il «sistema abituale di prevaricazione del governo sul parlamento», che, giustamente, si lamenta anche in relazione all’epoca della sinistra storica (così U. ALLEGRETTI, Profilo, cit., p. 441), affondava, dunque, le sue radici non soltanto nella limitatezza dell’elettorato, nella debolezza dei partiti e nelle consorterie, ma anche nell’incapacità dello stesso parlamento di porre a base della fiducia anzitutto un «patto programmatico», un confronto sulle cose da fare. Se è vero, infatti, che il sistema italiano era letteralmente identico al procedimento di instaurazione del rapporto fiduciario in uso in Gran Bretagna, non bisogna dimenticare che in quel paese il «discorso della corona» veniva discusso da un membro parlamentare della maggioranza e da uno della minoranza. Il confronto parlamentare sui programmi governativi avveniva, dunque, all’apertura di ogni sessione. Al contrario, in Italia, come già accennato, il discorso della corona, pur contenendo gli intendimenti del governo per la sessione che si apriva, non fu mai discusso. Anzi, come si è accennato, forzando il regolamento della camera del 1848, che prevedeva un «indirizzo di risposta» redatto da una commissione ed approvato a maggioranza assoluta, dal 1849 si usò affidare la «risposta», che divenne del tutto formale, al deputato più giovane d’età. Con il regolamento del 1863 questo uso mutò in peggio, in quanto l’art. 74 dispose che gli indirizzi di risposta fossero preparati da una

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commissione composta dal presidente della camera e da cinque deputati nominati a maggioranza assoluta. In tal modo, la maggioranza di governo finiva per rispondere a se stessa, monopolizzando la discussione sul programma di governo. Tuttavia, a riprova della scarsa sensibilità parlamentare su questi problemi, la riforma del 1863 fu approvata senza contrasti di rilievo (su questo punto, cfr. M. MANCINI, U. GALEOTTI, Norme ed usi, cit., pp. 618-632). Nel 1886, nel corso di un’imprevista discussione sul discorso della corona dell’ultimo governo Depretis, Crispi, pur concordando con la consuetudine, si rammaricò che «all’iniziarsi della legislatura» la camera non fosse chiamata a fare un’ampia discussione sulla politica interna ed estera del governo. Tuttavia, né nell’anno successivo, all’atto dell’insediamento del suo primo governo, né in occasione delle nomine dei suoi successivi governi, le camere discussero mai, né tantomeno votarono, sui programmi crispini. Ed infatti, accettare una discussione delle camere sugli indirizzi governativi ed un voto di fiducia preventivo su questi, avrebbe implicato una piena accettazione della parlamentarizzazione della forma di governo e, quindi, la possibilità, almeno teorica, di quella fusion fra i due poteri che era stata alla base del governo di gabinetto in Inghilterra. Tutto questo era fuori dei reali intenti e delle concezioni di Crispi. Non a caso, quindi, solo in occasione della presentazione alla camera dei deputati del I governo Giolitti, il 25 maggio 1892, «avvenne ciò di cui in addietro non è esempio in Italia. Non aveva esso finite le dichiarazioni alla camera [...] che fu chiesto di discuterne lì per lì» (G. ARANGIO-RUIZ, Storia costituzionale, cit., p. 482). Il governo non si oppose, anche se fu poi approvata, ma per soli quattro voti, una risoluzione del deputato di maggioranza Baccelli, che rinviava la discussione sulle proposte ministeriali ad un momento successivo. Nella sostanza, dunque, la possibilità della mozione preventiva di fiducia e della discussione preventiva sul programma di governo incomincia ad affermarsi all’annunciarsi dell’età giolittiana. Giolitti, infatti, nato come grand commis delle Finanze, e quindi come «tecnico», fu sempre molto attento alla qualificazione programmatica dei suoi governi: dai tre punti (pubblici servizi, bilancio, credito) del 1892, alle riforme «istituzionali» del suo terzo ministero (ordinamento giudiziario; legge sulle guarentigie; giustizia amministrativa e stato giuridico degli impiegati pubblici; riforma tributaria), fino al «programma nettamente avanzato» (C. GHISALBERTI, Storia costituzionale, cit., p. 302) del suo quarto governo, con le leggi sociali sul mezzogiorno, l’INA, il suffragio universale. Come già accennato a proposito dell’istituzione dell’INA, il rapporto con il parlamento di Giolitti fu, per ciò che riguardava il programma di governo, più duttile che autoritario; tuttavia, malgrado la scarsa compattezza della sua maggioranza parlamentare, punti importanti dell’indirizzo di governo furono realizzati attraverso l’ordinaria iniziativa legislativa del governo, il che rappresentò, senza dubbio, un progresso rispetto a tutta la tradizione di governo precedente. Rimane vero che il par-

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lamento fu «disattivato» anche da Giolitti nella materia dei rapporti internazionali, quando, attraverso la tradizionale utilizzazione della proroga, il governo, in coincidenza con la guerra italo turca, impedì al parlamento di riunirsi per ben sette mesi. La parlamentarizzazione della forma di governo rimaneva, come si vede, affidata alle valutazioni politiche del governo, anche se bisogna aggiungere che Giolitti non si spinse in questa materia fino al punto di attribuire al governo il potere di acquisire le colonie senza una legge di assenso delle camere, così come era, invece, accaduto con il decreto crispino del 1° gennaio 1890 che aveva costituito la colonia Eritrea (cfr. la conversione nella legge 25 febbraio 1912, n. 38 del decreto legge di annessione della Libia, in G. PERTICONE, Il regime parlamentare, cit., p. 200). In realtà, tutte le valutazioni che riguardano i ruoli rispettivi del governo e del parlamento, così come le vere o le presunte prevaricazioni del primo sul secondo, debbono tener conto del fatto che, mentre per quel che riguarda il governo era stato compiuto fra il 1867 (decreto Ricasoli) ed il 1901 (decreto Zanardelli) un tentativo di adeguamento della sua struttura alle diverse condizioni della «Costituzione materiale», la struttura ed il modo di funzionare del parlamento italiano erano rimasti, invece, sostanzialmente identici fra il 1848 ed i primi due decenni del nuovo secolo. Il procedimento legislativo, ad esempio, continuava a basarsi, ancora nell’età giolittiana, sul vetusto sistema degli uffici. Nel corso di ogni sessione i membri delle camere venivano ripartiti per sorteggio in cinque (senato) o nove (camera) uffici. Ogni ufficio era competente per esaminare i progetti di legge di iniziativa parlamentare o del governo. Dopo l’esame del progetto, gli uffici procedevano alla nomina di commissari che, riuniti insieme, formavano una commissione che aveva il compito di riferire alla camera sul merito del progetto di legge. Questo sistema, che era stato mutuato dalla Francia, intendeva, attraverso il sorteggio per brevi periodi, raggiungere insieme due finalità: «sgominare le piccole fazioni e camarille» (F. RACIOPPI, I. BRUNELLI, Commento, cit., III, p. 97) e dimostrare che ogni deputato o senatore era perfettamente in grado di valutare ogni proposta di legge, al di là ed al di sopra della sua competenza tecnica. In altri termini, il sistema presupponeva un’idea della rappresentanza parlamentare del tutto atomistica, atecnica e scissa, oltreché dalle fazioni e camarille, dalla presenza organizzata dei partiti in parlamento. Solo fra il 1868 e il 1873 la camera adottò il metodo inglese del «comitato privato», che aveva il potere di eleggere, per ogni progetto di legge, una commissione unica di sette membri. In Inghilterra, però, il sistema dei comitati funzionava, come funziona tuttora, in quanto maggioranza ed opposizione, dopo essersi confrontate in assemblea sulle linee generali del progetto, potevano anche collaborare, nella sede più ristretta del comitato, ad una migliore redazione legislativa del progetto, senza correre il rischio di equivoci compromessi. La mancanza di una distinzione sufficientemente precisa

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fra i partiti ed il fatto che questi fossero scarsamente radicati in parlamento come gruppi omogenei e disciplinati condusse in Italia al fallimento del nuovo sistema, cosicché, tornata la camera al metodo degli uffici, questi sopravvissero anche alla riforma regolamentare del 1900 ed il nostro parlamento affrontò il nuovo secolo con un procedimento legislativo che, rifiutando di prendere atto dell’esistenza dei partiti politici, finiva per rifiutare anche il principio della competenza dei parlamentari (casualmente raggruppati negli uffici). Inoltre, la mancanza di comitati o commissioni permanenti, privando il parlamento di sedi tecnicamente competenti, lo rendeva incapace di confrontarsi con il governo proprio su quel terreno dello sviluppo delle competenze tecniche ed amministrative che caratterizzò, invece, l’esperienza amministrativa italiana del primo ’900 (S. CASSESE, Il sistema amministrativo italiano, Bologna, Il Mulino, 1983, pp. 35 ss.). Dunque, al contrario di ciò che comunemente si crede, un saldo governo di gabinetto avrebbe avuto bisogno in Italia di un forte e capace parlamento. Forse anche in questa chiave può essere letto anche lo scontro fra Giolitti e la camera nel dicembre del 1909, quando il governo si dimise contestando il merito delle nomine, da parte degli uffici, dei commissari per l’esame del progetto governativo sulla riforma tributaria. In questo quadro, come si vede decisamente arretrato, scarso rilievo ebbero le poche commissioni permanenti costituite alla camera ed al senato. La maggior parte di queste, infatti, svolgevano un’attività che era di rilievo solo interno alle camere (regolamento, elezioni) e solo due, quella sul bilancio e sul rendiconto consuntivo alla camera (di finanza al senato) e quella per l’esame dei decreti registrati con riserva dalla corte dei conti, svolsero un’attività importante sul terreno dei rapporti fra governo e parlamento. La riforma del regolamento della camera del 1900 fu, dunque, notevole solo per la riaffermazione della libertà di discussione e di voto, messe in pericolo durante le giornate drammatiche del governo Pelloux, ma confermò l’orientamento assembleare del parlamento italiano (A. MANZELLA, Il parlamento, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 68). La «modernizzazione» parlamentare arrivò, dunque, molto più tardi, trascinata dalla riforma elettorale proporzionale con lo scrutinio di lista del 1919. Fra il 1920 ed il 1922 la camera decise, infatti, l’abolizione del metodo degli uffici, l’istituzione dei gruppi parlamentari e la costituzione di commissioni permanenti, composte da membri designati dai gruppi in ragione proporzionale alla loro consistenza. Esse divenivano competenti, al posto dei vecchi uffici, nel procedimento legislativo con funzioni referenti per l’assemblea. È stato detto che la trasformazione operata nel 1920-1922, per quanto inevitabile, si configurò come «il naturale strumento di controllo dei membri del parlamento da parte delle centrali extra-parlamentari di partito» (S. TOSI, Diritto Parlamentare, rist., Milano, Giuffrè, 1993, p. 154). In realtà, il difetto della riforma regolamentare del 1920 fu quello di essere giunta troppo

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tardi. Si può ritenere, infatti, che, se la costituzione di gruppi parlamentari avesse preceduto la riforma elettorale proporzionale, gli stessi partiti politici sarebbero stati spinti ad assumere, anche nei loro gruppi dirigenti, una natura più parlamentare, a somiglianza di quanto era accaduto in Gran Bretagna. Invece, lo sconvolgimento politico che derivò dalle elezioni del 1919, si sommò allo sconvolgimento che quelle elezioni determinarono nella classe dirigente italiana. Alla vecchia classe dirigente, di formazione parlamentare ma fondata sul notabilato, se ne sommò una nuova (quella dei partiti di massa) che era fondamentalmente estranea al parlamento ed alle sue logiche: da qui, la debolezza politica e l’impossibilità per i partiti non fascisti di opporsi efficacemente, anche in parlamento, alla nascita, prima, ed all’affermazione, poi, del regime fascista. Infine, è vero che le modifiche parlamentari del 1920-1922 furono, nella realtà, una modificazione dello Statuto operata attraverso il diritto parlamentare (A. MANZELLA, Il parlamento, cit., pp. 68-69). Tuttavia, come si è detto, lo stesso fenomeno era accaduto per il governo, che aveva «modernizzato» la sua struttura attraverso semplici decreti governativi. Questa incapacità di adeguare formalmente lo Statuto alla forma di governo parlamentare renderà più facile, come vedremo, l’adozione della «legge Rocco» nel dicembre 1925 e la cancellazione della «rivoluzione parlamentare» con l’approvazione, dopo le elezioni del 1924, di una semplice mozione abrogativa di tutte le norme relative ai gruppi parlamentari (S. TOSI, Diritto parlamentare, cit., p. 155).

9. Le trasformazioni del sistema delle fonti in epoca statutaria: la disciplina degli atti normativi del governo Come si è detto, la flessibilità delle disposizioni statutarie consentì la progressiva emersione di innovazioni in via di prassi anche sul terreno della produzione normativa. Tali innovazioni riguardarono in particolare gli atti normativi del governo, a proposito dei quali lo Statuto era sostanzialmente reticente, fatta eccezione per l’art. 6, a tenore del quale «il Re […] fa i decreti e regolamenti necessari per l’esecuzione delle leggi, senza sospenderne l’efficacia o dispensarne». Se quindi la disposizione in questione sembrava escludere la possibilità per il re (e quindi per l’esecutivo) di adottare atti con forza di legge, consentendo solo l’emanazione di fonti regolamentari di esecuzione, la prassi normativa andò in tutt’altra direzione. Infatti, al di fuori di una disciplina esplicita, si affermarono, già nei primi anni di vigenza dello Statuto, atti con forza di legge del governo, così come tipologie regolamentari diverse da quella di esecuzione testualmente prevista nell’art. 6 dello Statuto. Iniziando dagli atti con forza di legge, già a partire dal 1848 emerse,

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come si è già accennato, la prassi delle leggi attributive dei pieni poteri. Si trattava in sostanza di leggi con le quali il parlamento trasferì al governo la pienezza di poteri legislativi ed esecutivi per tutta la durata della guerra di indipendenza. Non si trattava quindi di deleghe puntuali ma di un vero e proprio trasferimento in bianco all’esecutivo della titolarità del potere legislativo, senza sostanziali limiti di contenuto (tranne il riferimento ambiguo e generico alla salvaguardia delle istituzioni costituzionali). Infatti, proprio attraverso le leggi di autorizzazione di questo tipo, furono varate riforme importanti e complesse, anche del tutto scollegate dalla regolazione dello stato di guerra. In non pochi casi, infatti, di fronte alle numerose incertezze di ordine politico-costituzionale che caratterizzavano l’ordinamento piemontese già agli albori dell’esperienza statutaria, i governi utilizzarono le deleghe in questione anche per aggirare gli ostacoli derivanti dai fragili equilibri parlamentari. Accanto all’istituto del conferimento dei pieni poteri, ed anzi in collegamento con esso, si sviluppò ben presto la delega legislativa, anche se in forme assai diverse da quelle dell’attuale art. 76 Cost.: si trattava infatti di leggi non solo prive di principi e criteri direttivi ma spesso caratterizzate da un oggetto assai ampio ed indeterminato: basti pensare, solo per citare un esempio, alle famose leggi nn. 2215 e 2248 del 1865 con le quali si completò l’unificazione amministrativa del Regno, già avviata con la legge n. 3345 del 1859 (di conferimento dei pieni poteri in occasione della seconda guerra d’indipendenza) e si delegò il governo ad adottare i codici civile, di procedura civile, di commercio e della marina mercantile. Peculiare risultò la delega in materia coloniale che, fino dalle origini, si atteggiò come una sorta di delega permanente, ed anzi come un vero e proprio trasferimento di poteri normativi primari, al governo (cfr. già la legge n. 857 del 1882 sulla colonia di Assab). Nonostante l’estraneità della delega legislativa a quanto stabilito dall’art. 6 dello Statuto, la giurisprudenza della cassazione affermò l’incompetenza del giudice ordinario a sindacare le scelte del legislatore anche nei casi in cui il decreto delegato violasse la legge di delega, trattandosi, in quest’ultimo caso, di un mero sindacato politico. Oltre alla delega, assai presto si sviluppò la prassi della decretazione d’urgenza che fu considerata legittima dalla dottrina maggioritaria, per alcuni sul presupposto della necessità come fonte del diritto, per altri sul presupposto della salus rei publicae che avrebbe legittimato il governo ad intervenire subito in nome di questo interesse supremo, per altri ancora sul presupposto di una consuetudine costituzionale che si sarebbe formata in materia. I decreti legge erano normalmente presentati alle camere per la conversione in legge; tuttavia, poiché essi si erano sviluppati nella prassi a prescindere da un espresso fondamento in una fonte sulla produzione, non

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era chiaro né il termine entro il quale sarebbe dovuta intervenire la legge di conversione (in alcuni casi essa interveniva a distanza di anni dall’entrata in vigore del decreto) né le conseguenze della mancata conversione. Peraltro, sia pure con alcune eccezioni, la giurisprudenza negò la possibilità di sindacare i decreti legge, ritenendo che la valutazione sulla effettiva necessità e urgenza spettasse solo al parlamento, trattandosi di un giudizio esclusivamente politico. Una species della decretazione d’urgenza era costituita dallo stato d’assedio che anzi costituì l’istituto dal quale essa si sviluppò. Lo stato d’assedio era dichiarato dal governo in occasione di tumulti o insurrezioni e in questo caso la dottrina rinvenne un fondamento costituzionale nell’art. 5 dello Statuto che attribuiva al re il potere di dichiarare la guerra. In una prima fase (approssimativamente fino alla fine del XIX secolo) il governo si limitava ad adottare il relativo decreto ed il parlamento si limitava a prendere atto, con ordini del giorno, sia della proclamazione che della revoca. Solo successivamente si affermò la prassi della convalida parlamentare dei provvedimenti assunti secondo il modello inglese del bill of indemnity, anche se il significato istituzionale di questa legge non era chiaro: per alcuni, infatti, l’intervento del parlamento era necessario per convalidare provvedimenti illegittimi, per altri esso era solo una sorta di presa d’atto dell’opportunità politica di atti adottati dal governo in un ambito di propria competenza. Di fatto, lo stato d’assedio costituì una misura attraverso la quale le libertà statutarie furono sistematicamente compresse nelle aree geografiche in cui esso era dichiarata. Anche per quanto riguarda il potere regolamentare, la prassi, come si è accennato, superò di gran lunga la previsione statutaria di cui all’art. 6. Tale disposizione, infatti, non avendo impedito l’affermarsi di atti governativi con forza di legge, tanto meno avrebbe potuto impedire che fonti normative secondarie dettassero disposizioni non direttamente finalizzate all’esecuzione delle leggi. Lo Statuto prevedeva poi alcune materie c.d. «di prerogativa regia», interpretate da alcuni come vere e proprie riserve di regolamento, in particolare in materia beneficiaria (art. 18), di istituzione di nuovi ordini cavallereschi e di determinazione dei loro statuti (art. 78), di conferimento di nuovi titoli di nobiltà (art. 79). Un vasto dibattito dottrinale sorse intorno al fondamento del potere regolamentare: mentre infatti per alcuni esso doveva rinvenirsi in un conferimento legislativo espresso, per altri esso era dato dal potere discrezionale dell’amministrazione o dalla posizione costituzionale del governo quale potere esecutivo, e quindi dotato di un potere normativo finalizzato istituzionalmente all’attuazione delle disposizioni legislative. Anche in questo caso, almeno in una prima fase, la prassi, confortata dalla giurisprudenza, assecondò una interpretazione della latitudine del

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potere regolamentare assai più vasta di quello che poteva desumersi dall’art. 6 dello Statuto. Si svilupparono quindi ampi fenomeni di deroga all’art. 6 almeno sotto tre profili: a) l’affermazione di nuove fonti secondarie quali, ad esempio, i regolamenti ministeriali; b) il ridimensionamento delle riserve di legge che finirono per coincidere con il mero principio di legalità, tanto che in non poche materie, pure riservate al legislatore, quest’ultimo si limitò ad autorizzare «in bianco» l’esercizio della potestà regolamentare; c) l’espansione delle tipologie regolamentari ben al di là di quanto previsto dallo Statuto. Su quest’ultimo punto, un vasto dibattito dottrinale sorse intorno alla tipologia dei regolamenti indipendenti, in particolare riguardo alla loro estensione, al fondamento, e, infine, ai loro rapporti con i regolamenti esecutivi. Alcuni ritenevano che i regolamenti indipendenti fossero chiamati a disciplinare le materie nelle quali il governo già avesse una potestà discrezionale, legislativamente fondata, di provvedere in via concreta. Altri, invece, ricostruivano tale categoria partendo dai regolamenti di prerogativa regia, sulla cui riconducibilità alle fonti secondarie, peraltro, non vi era unanimità di vedute. Si trattava quindi di due tesi diverse, anche se accomunate dal fatto di non concepire un’utilizzazione del potere regolamentare del tutto «sganciata» da una previsione normativa di rango superiore (legislativa o statutaria). Parallelamente, sorse la tipologia dei regolamenti c.d. delegati. Più in particolare, erano compresi in questa categoria: a) i regolamenti autorizzati a disporre su materie coperte da riserva di legge; b) i regolamenti autorizzati a disciplinare materie nelle quali il governo non aveva poteri discrezionali; c) i regolamenti autorizzati dalla legge a disciplinare un determinato ambito materiale anche in deroga a disposizioni legislative; d) i regolamenti autorizzati a intervenire su materie prima disciplinate dalla legge, regolandole diversamente (regolamenti di delegificazione). Tratto comune a queste diverse tipologie era quello di essere comunque necessariamente autorizzate dalla legge, trattandosi di fare «qualcosa di più di quel che può fare un comune regolamento» (V. CRISAFULLI, Manuale di diritto costituzionale, II,1, Padova, Cedam, 1993, p. 151). L’evoluzione della forma di governo in senso parlamentare dopo la crisi di fine secolo determinò un’ulteriore evoluzione nel senso della supremazia della legge, intesa quale fondamento e limite del potere regolamentare. Non a caso, come si è già accennato, proprio in quegli anni si assiste ad uno spostamento verso la legge anche della disciplina dell’organizzazione della pubblica amministrazione (legge n. 372 del 1904), in precedenza rimessa prevalentemente a fonti secondarie (si veda la legge n. 5195 del 1888 che rimetteva a regolamentari anche la disciplina del numero e delle attribuzione dei ministeri, oltre che della loro organizzazione), trattandosi

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di ambiti materiali che parte della dottrina riteneva di competenza del governo, ai sensi degli artt. 5 e 6 dello Statuto.

10. Il parlamento: il bicameralismo. Il problema del senato L’esistenza di una seconda camera, prevista dagli art. 33 ss. dello Statuto, avrebbe potuto, se letteralmente intesa, bloccare qualsiasi possibilità di evoluzione della forma di governo statutaria verso il modello parlamentare. L’art. 33, infatti, seguendo la Costituzione francese allora vigente, sceglieva un sistema bicamerale, con una seconda camera composta «in numero non limitato» di membri nominati a vita dal re e scelti in base alla loro appartenenza a 21 «categorie» meticolosamente descritte. Le ragioni di questa scelta furono essenzialmente due. Per la prima, dovendo il re «dividere la propria autorità», come disse il ministro Di Revel nel consiglio di conferenza, fu ritenuto preferibile che tale divisione avvenisse «non con un sol corpo, ma con due». Per la seconda, la nomina regia dei membri vitalizi del senato costituiva di per sé una forte attenuazione rispetto all’accettazione del principio della rappresentanza politica su base democratica che era rappresentato dalla camera elettiva. L’evoluzione della forma di governo statutaria in senso parlamentare (anche se molto problematica, come abbiamo visto) non poteva, ovviamente, non rendere la presenza del senato sempre più contraddittoria rispetto alle nuove tendenze. Se l’essenza del governo di gabinetto stava, infatti, nella creazione di un rapporto politico fiduciario fra il governo ed i rappresentanti del corpo elettorale, un senato di derivazione regia non avrebbe potuto, di conseguenza, pretendere di partecipare a quel rapporto, nato, appunto, per democratizzare il potere esecutivo, sottraendolo al monopolio monarchico. Fin dall’inizio della esperienza statutaria si pose, quindi, il problema dell’estensione del controllo politico del senato sul governo; problema che fu risolto nel senso di riconoscergli «ampiamente [...] il diritto di sindacato per tutto ciò che concerne la facoltà di impedire col suo voto che un provvedimento del governo dannoso o semplicemente inopportuno abbia seguito; o che un abuso rimanga senza censura». Tuttavia, questo «ampio» potere di sindacato politico non poteva spingersi fino ad ammettere anche il voto di fiducia, che doveva considerarsi come «una facoltà esclusiva della camera dei deputati» (M. MANCINI, U. GALEOTTI, Norme ed usi, cit., p. 442). In pratica, dunque, il senato ben poteva censurare la condotta o gli indirizzi del governo anche al di là della sua partecipazione alla funzione legislativa. In questo caso, però, il voto non obbligava il governo a dimettersi e rendeva, più limitatamente, opportuna una verifica della permanenza del rapporto fiduciario fra il governo stesso e la camera dei deputati. Questa impostazione dei rapporti fra senato, camera e governo

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(anch’essa di derivazione convenzionale, più che consuetudinaria) non venne mai messa in discussione, malgrado le ricorrenti tensioni fra senato e governo che caratterizzarono gran parte dell’età liberale. In effetti, la derivazione sostanzialmente governativa, come si dirà, della camera alta, l’esistenza di una responsabilità politica aggiuntiva del governo nei confronti del re, il netto rifiuto, almeno fino all’età giolittiana, anche di ipotizzare la fiducia preventiva ai governi, furono elementi fondamentali che concorsero a sdrammatizzare la negazione al senato dell’istituto della sfiducia. Il rapporto fra governo e camera alta fu, invece, molto contrastato sul fronte del potere legislativo, rispetto al quale l’art. 10 dello Statuto, ripetendo in questo l’antica tradizione britannica, poneva un limite alla competenza del senato, stabilendo che le leggi di imposizione dei tributi e quelle di approvazione dei bilanci e dei consuntivi dovessero essere presentati (e discussi) prima dalla camera dei deputati. A questo proposito, si posero subito, a partire dalla discussione sul regolamento del senato del 1848, due distinti problemi. Il primo, riguardò l’estensione della categoria delle «leggi di finanza» e fu causato dal fermo rifiuto del senato di accedere ad un’interpretazione per la quale la camera dovesse essere competente per prima su tutte le leggi che comunque, direttamente o indirettamente, portassero «sollievo o aggravio» ai contribuenti, dato che, in effetti, una interpretazione di questo genere avrebbe significato escludere il senato dalla prima lettura di quasi tutte le proposte o i disegni di legge. I contrasti furono, però, molto più profondi e persistenti a proposito del potere del senato di emendare le leggi di finanza e quelle di bilancio e si manifestarono fino dal 1851, dando luogo ad un vero e proprio braccio di ferro fra camera e senato a proposito di un disegno di legge in materia di successioni, radicalmente emendato dal senato. In quella occasione, il governo si tenne prudentemente fuori dalla disputa fra le due camere. Pochi mesi più tardi, tuttavia, toccò a Cavour, nella sua qualità di ministro delle finanze di D’Azeglio, prendere partito a nome del governo in una nuova querelle che riguardava, questa volta, una tassa annuale sui corpi morali e le mani-morte. La tesi di Cavour, destinata a costituire un importante precedente, fu che il potere del senato di emendare le leggi di finanza fosse costituzionale nei limiti in cui «le modificazioni introdotte (non) alterino il principio della legge stessa, (non) le conferiscano un carattere diverso». I principi fondamentali della legge erano, insomma, secondo Cavour, il limite della competenza del senato. La camera alta non accettò mai, tuttavia, l’impostazione di Cavour, cosicché il conflitto fra camera e senato rimase, in questa materia, costante e fu risolto, a partire dall’Unità, in modo più pragmatico: qualche volta con l’accettazione da parte dei deputati di parte degli emendamenti del senato; più spesso con la rinuncia del senato a protrarre la propria opposizione dopo una seconda approvazione del testo originario da parte della camera dei deputati.

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Questo modo di risoluzione dei conflitti, evitando di affrontare il problema di principio della competenza del senato, non poteva funzionare, però, in presenza di dissensi politici profondi sul merito delle leggi. Così, in una mutata situazione politica, durante il I governo Depretis il contrasto fra camera e senato riesplose a proposito della discussione che aboliva la tassa sul macinato (M. MANCINI, U. GALEOTTI, Norme ed usi, cit., pp. 328 ss.). Anche questa volta il dissenso coinvolse il governo che tentò, anche se con finezza minore di quella di Cavour, di riaffermare la limitazione dei poteri del senato in base al «criterio politico» di interpretazione dello Statuto. La stessa camera dei deputati apparve, però, riluttante ad accettare una lettura così poco motivata dell’art. 10 dello Statuto. In conseguenza, Depretis, che pure aveva posto la questione di fiducia su questa interpretazione del conflitto, fu clamorosamente sconfessato dalla camera e si dimise. I due successivi governi Cairoli non riuscirono a trovare un punto di intesa fra le camere e, dunque, lo scioglimento anticipato della XIII legislatura ebbe alla base un conflitto fra le camere che, al di là del merito, pur rilevante, dell’abolizione della «tassa iniqua», finiva per investire le competenze costituzionali del senato. La maggioranza degli elettori, dando, nel merito del contrasto, torto al senato, indusse quest’ultimo «usando con patriottismo del suo diritto costituzionale [...] ad inchinarsi davanti alla volontà della Nazione» (così come si espresse il relatore, sen. Saracco) e, dunque, la legge fu, infine, approvata nella formulazione originariamente voluta dalla camera. Il conflitto era stato, però, questa volta estremamente grave ed aveva finito per porre con evidenza, e di fronte alla stessa opinione pubblica, un problema sorto, in realtà, già all’indomani della concessione dello Statuto: quello, se non del bicameralismo, del sistema di composizione e del funzionamento del senato (E. LANCIOTTI, La riforma impossibile: idee, discussioni e progetti sulla modifica del senato regio e vitalizio (1848-1922), Bologna, Il Mulino, 1993, p. 7). L’affermazione, già in sede di prima attuazione dello Statuto, della responsabilità ministeriale anche per le nomine dei senatori, con una procedura che, partendo dal ministro degli interni, prevedeva il concerto del presidente del consiglio e la delibera del consiglio dei ministri (cfr. N. ANTONETTI, Gli invalidi della Costituzione: il senato del Regno, 1848-1924, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 93), non aveva, infatti, risolto il problema della legittimazione politica della camera alta. Questo sistema, se aveva evitato più clamorosi conflitti adeguando, di tanto in tanto, attraverso una pluralità di nomine governative (le c.d. infornate) la composizione politica del senato a quella prevalente nella camera, non aveva per questo rafforzato l’autorità del senato, posta in questione proprio per l’originaria derivazione dei suoi membri dal potere esecutivo. Inoltre, la procedura di nomina dei senatori era, in generale, criticata sia per la scarsa rappresentatività delle 21 categorie statutarie, sia (e più radicalmente) perché tale

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procedura sembrava in profonda contraddizione con i principi fondamentali del liberalismo in tema di rappresentanza politica. Per questo, fino dall’epoca di Cavour si incominciò a discutere della riforma del senato, non escludendo neppure la possibile elettività dei senatori. In generale, si può dire che ciò che non fu messo in discussione fu il principio bicamerale, ritenendosi che «i vantaggi della bipartizione appaiono preziosissimi», sia perché un duplice esame «da due punti di vista nettamente diversi» assicurerebbe maggiore ponderazione delle decisioni, sia perché il «duplice consenso» darebbe maggiori possibilità di intervento all’opinione pubblica, sia perché il doppio intervento, pur rallentando il procedimento legislativo, agirebbe da filtro contro «i bisogni immaturi o fittizi» (così, F. RACIOPPI, I. BRUNELLI, Commento, cit., II, p. 206). Sono, questi, giudizi importanti, anche perché alcuni fra questi sarebbero riapparsi alla Assemblea costituente nell’ambito della discussione sull’opportunità della soluzione monocamerale. Dato questo punto di partenza, si comprende come tutte le discussioni e le proposte di riforma del senato si siano concentrate essenzialmente sulle modalità di elezione dei senatori. Da questo punto di vista, lo scontro della XIII legislatura costituì, insieme all’allargamento del corpo elettorale del 1882 ed alle resistenze espresse dallo stesso senato in sede di convalida delle nomine in occasione delle «infornate», un forte incentivo ai progetti di riforma. Questi, concentrandosi, come detto, quasi essenzialmente, sul problema della nomina dei senatori, sorvolarono sulle cause dell’accertata scarsa produttività del senato, segnando, anche in questo, un precedente per le future discussioni alla Costituente. In generale, si può dire che, dalla relazione di Cambray-Digny del 1887 fino alle più complesse proposte della commissione presieduta da Giorgio Arcoleo nel 1910, le ipotesi di riforma si mossero rispettando, come scrisse lo stesso Arcoleo, i principi fondamentali statutari sul senato, ovvero l’inamovibilità dei suoi membri e la scelta all’interno di categorie predeterminate. Riaffermati questi principi, la relazione di Arcoleo tentava, però, di far compiere alla riforma del senato un non fittizio passo in avanti. Il problema fondamentale sembrava, infatti, quello di restituire dignità ad un organo svilito non soltanto dalla crescente quantità di nomine (il solo Giolitti nominò 266 senatori fra il 1903 ed il 1914) ma, soprattutto, dai criteri usati per esse: dalle nomine «premio» per i prefetti e gli ex deputati amici, alle nomine dei candidati avversari, compiute per togliere di mezzo pericolosi concorrenti. Il problema sembrava, ad Arcoleo, quello di «… fare del senato una rappresentanza delle forze sociali, dei grandi interessi economici, delle funzioni statali, civili, culturali» (così, E. LANCIOTTI, La riforma impossibile, cit., p. 260). Per questo, la commissione da lui presieduta immaginò di riportare le categorie statutarie in tre grandi raggruppamenti: il primo, di «esclusiva nomina regia» (ma, in realtà, del governo) comprendente le «alte funzioni (pubbliche), le rappresentanze locali, le pubbliche benemerenze»; il se-

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condo, destinato ad un «elettorato speciale per l’alta cultura» (università, accademie, istituti e consigli superiori); il terzo, riservato alle «forze vive» del paese, rappresentate, oltre che dagli ex deputati, dai più qualificati esponenti dell’industria, dell’agricoltura, del commercio. Non è questa la sede per approfondire la tecnica delle nomine o delle elezioni all’interno dei tre raggruppamenti (che appariva, in verità, assai complessa); quello che interessa di più è, invece, rilevare il senso politico più profondo della proposta: che era, d’altra parte chiaramente indicato nel corpo della stessa relazione. Il punto di partenza della riforma sembrava stare nella constatazione che «la prevalenza nel corpo elettorale della camera dei deputati (delle) classi più numerose, (della) minuta borghesia, (degli) interessi molteplici [...] (costringe) il ministero, quale organo della maggioranza, [...] ad anteporre non di rado ai grandi ideali dello Stato provvedimenti atti a distribuire il benessere alle varie classi, federazioni, partiti e regioni». Di fronte a questa situazione, un senato, espressione delle alte funzioni dello stato, della cultura, dell’aristocrazia del lavoro e del capitale, avrebbe rappresentato «un efficace temperamento» che avrebbe giovato al governo ed alla stessa «assemblea popolare, non sempre libera di fronte alle pressioni di grandi masse, di larghi comizi, di cozzanti interessi di gruppi o regioni». La camera avrebbe avuto, in altre parole, come «centro di gravità» i partiti, mentre il senato avrebbe avuto come centro di gravità lo Stato (cfr. G. ARCOLEO, La riforma del senato, in Diritto costituzionale, cit., pp. 440 ss., part. pp. 484-485). Abbiamo indicato sopra i motivi più generali per i quali le più limitate riforme parlamentari o del governo erano state realizzate attraverso decreti governativi o con riforme del regolamento della camera, senza toccare la struttura statutaria. Dunque, per le stesse ragioni, si rendeva impossibile una riforma costituzionale del senato che infatti non fu realizzata. Tuttavia, anche se questa riforma non sarà realizzata, molte delle suggestioni in essa contenute saranno destinate ad avere lunga vita e a riproporsi nei più diversi contesti: da quello della riforma corporativa del fascismo, anch’essa presentata, nella sua prima fase, come equilibrio fra rappresentanza politica e rappresentanza-conciliazione degli interessi di tutte le forze vive del lavoro e del capitale, fino alle proposte di alcuni qualificati esponenti cattolici alla Costituente in tema di nuovo bicameralismo. Anche qui, insomma, si può rilevare un’insospettata continuità nella storia politica italiana.

11. L’avvento del regime fascista: la legge 24 dicembre 1925, n. 2263 Dal 1848 all’avvento del fascismo, la forma di governo dell’età liberale aveva, dunque, dimostrato insieme grande flessibilità e grande rigidità. La flessibilità era, nella sostanza, consistita nel fatto che convenzioni, con-

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suetudini e fonti del diritto «minori» (nel senso di subordinate allo Statuto) avevano integrato la Costituzione vigente fino al limite della sua modifica (così come era accaduto per la fiducia parlamentare ed il governo di gabinetto). La rigidità si era, invece, manifestata nel fatto che, pur essendo lo Statuto una Costituzione flessibile, quindi facilmente modificabile attraverso leggi ordinarie, in realtà, per ciò che riguardava la forma di governo, una sorta di tacita convenzione ne aveva escluso la possibilità di formali modificazioni. Il risultato, che era probabilmente quello voluto, fu l’ambiguità del sistema parlamentare dell’epoca, interpretato a volte in senso sostanzialmente vicino al governo di gabinetto, altre volte in un senso più vicino ad un modello di cancellierato o, addirittura, alla monarchia costituzionale. Toccò a Giovanni Giolitti, con il suo quinto ministero nel 1920, scontrarsi, per ultimo, con l’impossibilità dell’auto-riforma del regime liberale. Il programma del suo quinto governo, che aveva alla base la modifica degli artt. 5 e 9 dello Statuto (per limitare sia la prerogativa regia nella politica estera, sia il potere dei governi di disporre della libertà di riunione del parlamento) ed una drastica limitazione dei decreti legge, individuava nella piena realizzazione della forma di governo parlamentare l’unica alternativa al crollo del sistema. Invece «il parlamento non comprese il piano giolittiano di un rilancio istituzionale, la corona non accettò il ridimensionamento delle sue attribuzioni» (così C. GHISALBERTI, Storia costituzionale, cit., p. 338) ed i due successivi governi Bonomi e Facta non poterono far altro che consegnare l’Italia al governo di Mussolini. Secondo gli storici del fascismo, Mussolini sarebbe «salito al governo con atto rivoluzionario», in seguito alla marcia su Roma del 28 ottobre 1922 (Gioacchino VOLPE, Fascismo, in Enc. it., XIV, Roma, Treccani, 1932, p. 867). Seguendo un celebre giudizio di Gobetti, molti storici e giuristi antifascisti hanno, invece, corretto l’apologetica affermazione di Volpe, ritenendo che nella crisi del governo Facta e nell’incarico a Mussolini si fosse manifestata una rottura della legalità statutaria anche da parte della monarchia, così da dover parlare di «colpo di Stato monarchico-fascista» (cfr., in questo senso, P. BARILE, Corso di diritto costituzionale, Padova, Cedam, 1964, p. 31). Opinioni più recenti hanno voluto, invece, sottolineare che gli avvenimenti dell’ottobre del 1922 si svolsero nel rispetto, anche se apparente, delle «forme costituzionali» e non dettero luogo, immediatamente, alla fine della forma parlamentare di governo (cfr., nel primo senso, C. GHISALBERTI, Storia costituzionale, cit., p. 342; nel secondo, L. PALADIN, Fascismo, in Enc. dir., Milano, 1967, XVI, p. 889 e, da ultimo, U. ALLEGRETTI, Storia costituzionale italiana. Popolo e istituzioni, Bologna, Il Mulino, 2014, pp. 77 ss.). In realtà, i comportamenti della corona e del partito fascista appaiono, se considerati secondo i parametri della forma di governo parlamentare,

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del tutto illegittimi. Non legale fu il rifiuto del re di firmare il decreto di stato d’assedio deliberato dal governo Facta per bloccare la sedizione armata delle squadre fasciste. Non legale fu l’attribuzione dell’incarico per la formazione del nuovo governo a Mussolini, leader di un partito di «minoranza assoluta in parlamento» (P. BARILE, Corso, cit.). Tuttavia, il giudizio può cambiare se si ritiene, seguendo la tesi proposta in questo scritto, che la forma di governo parlamentare si fosse, in realtà, realizzata in Italia in una variante di tipo monarchico che aveva, anche nel passato, consentito alla corona un’assunzione diretta di responsabilità di governo. Se si tiene presente che, appena sette anni prima, il re aveva affidato l’incarico di governo ad un altro esponente della minoranza (Salandra); che quel governo si era sul piano internazionale impegnato alla guerra contro la sicura volontà della maggioranza parlamentare; che la piazza, organizzata dal governo, aveva anche allora giocato un ruolo di primo piano rispetto alle decisioni delle camere, si dovrà concludere che il modello parlamentare era stato, come troppo tardivamente aveva compreso Giolitti, un modello molto più politico che giuridico, mentre le basi legali del regime non stavano nel parlamentarismo ma altrove, ovvero nella prerogativa regia, della quale i governi si erano, peraltro, largamente serviti. Mussolini comprese subito quanto utile potesse essergli utilizzare l’ambiguità della forma di governo vigente. Chiese infatti, ed ottenne, la fiducia preventiva per il suo primo governo (di coalizione), avvertendo, però, la camera che la vera fonte del suo potere stava nella fiducia del re e nella forza del suo partito (G. VOLPE, Fascismo, cit.). Fino alle «leggi fascistissime», seguite, nel 1925-1926, all’assassinio di Matteotti, il fascismo, pur intervenendo pesantemente sulla forma di Stato liberale (ad esempio con il R.D.L. 15 luglio 1923, n. 3288, gravemente limitativo della libertà di stampa), non toccò l’impianto della forma di governo, cercando, anzi, di accreditare la tesi che con il governo fascista si fosse realizzato un vero «ritorno allo Statuto» e restaurata l’autorità del «governo del re». Da questo punto di vista, però, non vi è dubbio che la riforma elettorale del 1923 (legge 18 novembre 1923, n. 2444, c.d. «legge Acerbo») che introdusse un consistente premio di maggioranza (2/3 dei seggi della camera dei deputati) alla lista più votata che avesse ottenuto almeno il 25% dei voti sul piano nazionale assunse un rilievo istituzionale determinante, che culminò nella vittoria del partito fascista nelle elezioni del 1924, svoltesi peraltro in un clima di violenze che pesò non poco sull’esito delle consultazioni. Ciò detto, la riforma costituzionale, invano ricercata dal sistema liberale, arrivò, invece, fra la fine del 1925 e gli inizi del 1926, con due leggi che innovarono, per la prima volta esplicitamente, la stessa fonte statutaria. La legge 24 dicembre 1925, n. 2263 (attribuzioni e prerogative del capo del governo) e la legge 31 gennaio 1926, n. 100 (sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche) furono presentate dal loro ideatore, il

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ministro della giustizia Alfredo Rocco, come un forte correttivo contro la «decadenza grave dell’organo costituzionale governo [...] segnata dall’introduzione della rappresentanza proporzionale [...] che, facendo della camera e del gabinetto una coalizione di minoranze», aveva minato l’unità e la omogeneità governativa e l’autorità del primo ministro (così, A. ROCCO, La trasformazione dello Stato, Roma, La Voce, 1927, p. 198). Secondo il loro proponente, dunque, le due leggi non miravano ad altro che a restaurare la più pura tradizione statutaria (quella dell’epoca crispina, esplicitamente richiamata) contro la degenerazione parlamentare successiva. In questa prospettiva, la legge sulle attribuzioni del capo del governo ridisegnava i rapporti fra ministri, consiglio dei ministri e primo ministro, dichiarando i primi «responsabili verso il re e verso il capo del governo di tutti gli atti e provvedimenti dei loro ministeri» ed il secondo, «responsabile verso il re dell’indirizzo generale politico del governo» e titolare di un potere di «direzione» nei confronti dei ministri. Queste tre innovazioni facevano del governo un organo a conduzione monocratica (ed è singolare che nel dibattito al senato Rocco sottolineasse che in tal modo si realizzavano, infine, in Italia i principi del governo di gabinetto inglese) grazie all’attribuzione al capo del governo, insieme alla responsabilità, del potere di decidere ed attuare l’indirizzo della politica governativa, in una logica che quindi rendeva il primo ministro (non a caso qualificato anche formalmente come tale) un superiore gerarchico rispetto ai ministri. Consiglio dei ministri e ministri perdevano, in sostanza, la antica qualità di organi costituzionali e divenivano, più modestamente, organi di collaborazione del capo del governo, anche perché i ministri potevano essere da lui esplicitamente revocati. Il primo risultato certo della legge fu quindi la scomparsa del principio collegiale dai principi organizzatori del governo: a tutto concedere, infatti, a seguito della legge del 1925 le disposizioni previgenti riguardanti il consiglio dei ministri rimanevano in vigore solo per quanto riguarda le funzioni di carattere strettamente amministrativo. L’impostazione «monocratica» della legge risultava, però, grandemente attenuata per ciò che riguardava il delicato rapporto fra il capo del governo ed il re. Dichiarare il capo del governo responsabile dell’indirizzo politico governativo significava, infatti, escludere il re dal potere di ingerirsi nella formazione e nella attuazione dell’indirizzo di governo, ma la legge, ribadendo il potere del re di nominare e di revocare il capo del governo, finiva per attribuire al capo dello Stato il giudizio ultimo sulla validità di quell’indirizzo. La norma fondamentale dello Statuto in tema di forma di governo, ovvero l’art. 65, rimaneva, dunque, fuori dalle immediate possibilità di riforma del regime fascista (non a caso, l’art. 1 della legge del 1925, in ossequio fondamentale allo Statuto, ribadiva che «il potere esecutivo è esercitato dal Re per mezzo del suo Governo»). Tale scelta, d’altra parte, era del tutto comprensibile, dato l’essenziale contributo della corona all’affermazione del fascismo. In questo senso, il

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tentativo posto in essere dal regime fu quello di una progressiva erosione delle prerogative regie, come è attestato, tra l’altro, dalla legge 8 giugno 1925, n. 866, che poneva sotto il diretto controllo del capo del governo il comando delle forze armate, ma fatta salva la potestà del re di assumere nominalmente la direzione dell’esercito in tempo di guerra (A. REPOSO, Lezioni sulla forma di governo italiana. Dalla monarchia statutaria al modello semipresidenziale, Torino, Giappichelli, 1997, p. 45). La forma di governo parlamentare fu, invece, l’obiettivo principale, anche se implicito, della legge sul governo. Esplicitamente, infatti, nulla si diceva nella legge a questo riguardo. Anzi, nella sua relazione al disegno di legge, Rocco volle sottolineare che, essendo i rapporti fra governo e parlamento «di carattere essenzialmente politico, essi sfuggono ad una definizione legislativa». La legge, dunque, abrogava tacitamente l’istituto della fiducia parlamentare, introdotto, come si è detto in via consuetudinaria nel sistema costituzionale pre-fascista, preannunciando, peraltro, un ruolo puramente «collaborativo» del parlamento con il governo attraverso la norma (art. 6) per la quale nessun oggetto poteva essere messo all’ordine del giorno delle camere senza l’adesione del capo del governo, cui erano altresì attribuiti ampi poteri relativamente all’iter di formazione delle leggi.

12. Segue: i poteri normativi del governo nella legge 31 gennaio 1926, n. 100 Questa impostazione dei rapporti fra governo e parlamento fu poi precisata dalla legge 31 gennaio 1926, n. 100 sui poteri normativi del governo. Come è stato detto, essa finiva per «smantellare [...] la fondamentale garanzia della divisione dei poteri» (così, P. CALAMANDREI, La funzione parlamentare sotto il fascismo, ora in Scritti e discorsi politici, Firenze, La nuova Italia, 1966, p. 349). La sistematica di tale legge desta curiosità nella misura in cui essa tratta prima il potere regolamentare (art. 1) e quindi gli atti con forza di legge (art. 3): tale inversione si spiega probabilmente con il fatto che il legislatore fascista puntava proprio sulla valorizzazione del potere regolamentare, in quanto fonte propria del governo. Ciò detto, riguardo al potere regolamentare, l’art. 1 della legge disciplinava espressamente il procedimento di adozione e le tipologie. Si trattò di un intervento legislativo di grande importanza perché, salvo alcune eccezioni, esso è rimasto vigente fino all’entrata in vigore della legge n. 400 del 1988. Tale disposizione prevedeva che fossero emanate con regio decreto, previa deliberazione del consiglio dei ministri, sentito il parere del consiglio di Stato, le norme giuridiche necessarie per disciplinare: a) l’esecuzione delle leggi; b) l’uso delle facoltà spettanti al potere esecutivo; c) l’organizzazione ed il funzionamento delle pubbliche amministrazioni, l’ordina-

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mento del personale ad esse addetto, l’ordinamento degli enti ed istituti pubblici (fatta eccezione per gli enti locali, le Ipab, le università e gli istituti di istruzione aventi personalità giuridica) «quand’anche si tratti di materie sino ad oggi regolate per legge» (comma 1). Il comma 2 poneva invece una sorta di «riserva di legge» in materia di bilancio nonché in materia di ordinamento giudiziario, di competenza dei giudici, di ordinamento del consiglio di Stato e della corte dei conti, nonché in materia di guarentigie dei magistrati e degli altri funzionari inamovibili. Un vasto dibattito dottrinale, che in questa sede può essere solo accennato, sorse soprattutto con riferimento ai regolamenti in materia di uso delle facoltà spettanti al potere esecutivo ed in materia di organizzazione e funzionamento delle pubbliche amministrazioni. I regolamenti relativi all’«uso delle facoltà spettanti al potere esecutivo» furono assimilati dalla dottrina maggioritaria a quelli indipendenti che si erano affermati nella prassi precedente, cosicché rimase minoritaria la tesi che riconduceva gli stessi ad una potestà propria dell’esecutivo, o comunque esercitabile anche nelle materie non previamente legificate. Del tutto nuova era invece la configurazione dei regolamenti di organizzazione, espressamente qualificati come delegificanti ma senza alcuna configurazione di principi e criteri direttivi. Non risultò però prevalente la tesi secondo cui la previsione in questione avrebbe istituito una sorta di «riserva di regolamento»: in effetti, l’interpretazione dominante, avallata dalla prassi, interpretò la delegificazione in questione come riferita alle sole leggi anteriori alla legge n. 100, presupponendo quindi la facoltà per il legislatore successivo non solo di intervenire in materia di organizzazione ma anche di rilegificare quanto già disciplinato dai regolamenti con l’effetto, in entrambi i casi, di inibire il successivo intervento delle fonti secondarie. Di tali possibilità la legge si servì ampiamente, se è vero che la legge 4 settembre 1940, n. 1547 estese la delegificazione anche alle leggi successive alla legge n. 100 del 1926. Tuttavia, si trattò di un intervento tardivo, intervenuto a guerra già iniziata e quindi destinato a trovare applicazioni solo sporadiche. Del resto, quelli descritti non erano i soli limiti dell’art. 1 della legge n. 100. Infatti, la disciplina in esso contenuta non si dimostrò né esaustiva (ad esempio, non si chiarivano i rapporti tra regolamenti governativi e regolamenti di altre autorità e nulla era previsto circa la validità e l’efficacia delle fonti regolamentari), né esclusiva (nella prassi, infatti, continuarono ad essere utilizzate tipologie ignorate dalla tale legge). Probabilmente, però, questi limiti si spiegano alla luce della ratio stessa della legge n. 100 del 1926 che era quella di legittimare a livello generale una competenza normativa del governo ormai radicata nella prassi statutaria, lasciando a livello di prassi quelle manifestazioni del potere regolamentare (ad esempio i regolamenti delegati e ministeriali) per le quali era ritenuta necessaria un’espressa autorizzazione legislativa.

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Di fatto, la «rivoluzione promessa» dalla legge del 1926 a proposito del potere regolamentare non si realizzò nella prassi: infatti, come accennato, nonostante l’art. 1 in questione fosse ispirato ad un chiaro favor nei confronti del potere regolamentare, la quantità di atti legislativi non diminuì in modo apprezzabile, e ciò probabilmente sia per le resistenze burocratiche rispetto all’utilizzazione del potere regolamentare, sia perché, con un parlamento ormai fascistizzato, il ricorso alle leggi ed agli atti con forza di legge era assai agevole. Non a caso, la legge n. 100 del 1926 non limitò affatto la proliferazione di regolamenti ministeriali, il cui iter di approvazione era senz’altro più celere e non soggetto al parere del consiglio di Stato. L’art. 3 disciplinava per la prima volta espressamente la delega legislativa e la decretazione d’urgenza. Per quanto riguarda la delega legislativa, la disposizione in esame, nella sua laconicità (si limitava infatti ad imporre che il governo adottasse il decreto delegato entro i limiti di una legge di delega), non faceva altro che codificare la prassi anteriore. Viceversa, più innovativa era la disciplina della decretazione d’urgenza, ispirata ad una ratio di favore per l’utilizzazione di questa fonte. In primo luogo, al fine di reagire ad una nota pronuncia giurisprudenziale, si prevedeva che «il giudizio sulla necessità e sull’urgenza non è soggetto ad altro controllo che a quello politico del parlamento» (art. 3, n. 2). In tal modo, la legge n. 100 intendeva troncare sul nascere il tentativo della giurisprudenza della cassazione di affermare la possibilità di sindacato dei decreti legge privi dei presupposti di necessità e urgenza. Non era previsto l’obbligo dell’immediata presentazione del decreto alle camere per la conversione (era infatti previsto l’obbligo di presentazione ad uno dei rami del parlamento non oltre la seduta dopo la sua pubblicazione). Il termine per la conversione in legge era assai lungo (ben due anni dalla pubblicazione) e la sanzione in caso di mancata conversione, per inutile decorso del termine o in caso di diniego di conversione, era la decadenza del decreto ma solo con efficacia ex nunc: in tal modo, il decreto legge diveniva una sorta di fonte legislativa solo condizionata da un termine di vigenza, decorso il quale si produceva solo una sorta di effetto abrogativo. Infine, era consentita la conversione con emendamenti, ma l’efficacia di questi decorreva dalla pubblicazione della legge di conversione (ma nulla era detto circa l’applicabilità o meno della vacatio). Nel complesso, la ratio della legge n. 100 del 1926 era quella di una razionalizzazione e di un rafforzamento dei poteri normativi del governo e in particolare del potere regolamentare e della decretazione d’urgenza. Ma essa non riuscì pienamente a realizzare questi due obiettivi. In particolare, la legge n. 100 del 1926 non riuscì nell’intento di disciplinare l’universo dei poteri normativi dell’esecutivo: rimasero infatti fuori

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atti assai rilevanti che la dottrina annoverava tra gli atti con forza di legge, quali i decreti di stato d’assedio che trovarono la loro disciplina nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (R.D. 18 giugno 1931, n. 773) e i bandi militari previsti dalla legislazione di guerra (R.D. 8 luglio 1938, n. 1415). Sul versante del potere regolamentare, l’art. 1 della legge si limitò, come detto, a disciplinare i soli regolamenti governativi ma ciò, come detto, non valse a limitare affatto una produzione ingente di regolamenti ministeriali o di autorità amministrative sottostanti al ministro.

13. Lo sviluppo della forma di governo dopo le «leggi fascistissime» del 1925-’26 Fermare l’attenzione solo sulle due, pur fondamentali, leggi del 1925-26 sarebbe fuorviante ai fini di un giudizio complessivo sulla prima fase della formazione del regime fascista. Il progetto di «abolizione delle garanzie statutarie simulando il rispetto dello Statuto» (P. CALAMANDREI, La funzione parlamentare, cit., p. 338) esigeva, infatti, ben altro. Sul terreno della forma di governo era necessario, anzitutto, «mettere fuorilegge l’opposizione», come fu detto ancora da Calamandrei. E questo avvenne non soltanto quando nel novembre del 1926 la maggioranza della camera approvò, del tutto illegittimamente, una mozione con la quale si dichiararono decaduti dal mandato parlamentare i 123 deputati aventiniani, ma anche, e sopratutto, quando la legge 17 maggio 1928, n. 1019 «trasformò le elezioni in plebiscito» attribuendo al gran consiglio del fascismo il potere di formare una lista di quattrocento deputati «designati» che l’elettore poteva solo o accettare o respingere per intero. Quanto accadeva alla forma di governo era, ovviamente, strettamente correlato alle trasformazioni in atto nella forma di Stato. Qui non si assisteva più, infatti, ad uno dei ricorrenti attacchi alle libertà di stampa, di riunione e di associazione che avevano caratterizzato anche nel passato l’esperienza statutaria. La già ricordata legge sulla stampa, la legge 25 novembre 1926, n. 2008, sulla istituzione del «tribunale speciale per la difesa dello Stato», le norme restrittive della libertà di riunione e di associazione contenute nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1926 (R.D. 6 novembre 1926, n. 1848), non erano, in realtà, fini a se stesse: esse erano tutte mirate alla realizzazione del partito unico e dell’unico sindacato fascista. Anche da questo punto di vista la «simulazione del rispetto dello Statuto» indusse il fascismo ad evitare leggi che ponessero direttamente fuori legge i partiti politici. Più pudicamente, questa incombenza venne affidata, dai testi unici di pubblica sicurezza del ’26 e del ’31, ai prefetti in base all’accertata contrarietà «all’ordine nazionale dello Stato» di quelle associazioni; cosicché solo nel 1938 lo Statuto del PNF dichiarava il partito fascista partito unico del regime. Parallelamente, nell’ottobre 1925 la

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firma a Palazzo Vidoni di un accordo fra la confederazione generale dell’industria italiana ed i rappresentanti delle corporazioni fasciste (in base al quale si riconosceva alle corporazioni «la rappresentanza esclusiva delle maestranze lavoratrici») fu seguita dalla legge 3 aprile 1926, n. 563, che riconosceva come legali soltanto quelle associazioni sindacali che dessero prova di perseguire anche scopi «di educazione nazionale e morale» degli associati. Anche qui, l’iniziale ipocrisia del regime convergeva però rapidamente verso esiti totalitari. Le aspirazioni totalitarie del fascismo si scontravano, però, con la ricordata presenza della corona, che non poteva essere direttamente messa fuori gioco senza contraddire la pretesa fascista di rappresentare la totalità dell’esperienza storica e nazionale italiana che Mussolini ribadiva nella sua «voce» sul fascismo nell’Enciclopedia italiana. La legge 9 novembre 1928, n. 2693 sull’ordinamento e sulle attribuzioni del gran consiglio del fascismo costituì l’originale tentativo del regime di rispondere a quel problema. In primo luogo, la legge sul gran consiglio cercò di rispondere ad una domanda non eludibile per un partito che si era posto decisamente sulla strada che conduceva al totalitarismo: quella di definire i rapporti fra il partito, di fatto già unico, e lo Stato, dentro al quale Mussolini intendeva risolvere il vecchio pluralismo liberale. A questo proposito, la legge istituì profonde e numerose connessioni fra il gran consiglio, il partito nazionale fascista ed il governo, così da rendere ardua la risposta al quesito se, in base a tale legge, lo Stato avesse assunto il controllo del partito o fosse accaduto il contrario. Se, infatti, la convocazione e l’ordine del giorno del gran consiglio erano nelle mani del capo del governo, che nominava anche con proprio decreto, su proposta del gran consiglio, tutti i membri del direttorio del PNF (il che faceva propendere per la tesi della «statalizzazione» del partito), era, però, anche vero che la maggior parte dei membri del gran consiglio erano tali ratione muneris, per le cariche che essi rivestivano nelle organizzazioni fasciste; inoltre, essi godevano delle immunità di voto e di parola che erano, un tempo, privilegio dei deputati, così da far ritenere che la libertà di pensiero e di parola fosse, ormai, appannaggio, nel regime in via di definizione, dei soli membri del gran consiglio del fascismo. Rimaneva, dunque, oggettivamente dubbio se la legge sul gran consiglio segnasse la prevalenza dello Stato (meglio, del capo del governo) sul partito o del partito sullo Stato, come sembrerebbe, invece, dall’art. 14 della legge che prevedeva la nomina con decreto del capo del governo, previa deliberazione del gran consiglio, del segretario del partito e degli altri organi dirigenti dello stesso, e la correlativa possibilità per quest’ultimo, su proposta del capo del governo, di partecipare alle sedute del gran consiglio. Tale sovrapposizione ebbe poi il suo culmine nel d.l. 11 gennaio 1937, n. 4, con il quale al segretario del partito fascista fu conferito il rango di Ministro (A. REPOSO, Lezioni, cit., p. 47).

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Viceversa, è chiaro che, attraverso la legge del 1928, il fascismo intendeva anche ridurre fortemente i poteri della corona. In base all’art. 12 della legge, infatti, diveniva obbligatorio il parere del gran consiglio su una serie di materie definite «questioni aventi carattere costituzionale». Per la verità, alcune di queste erano quelle materie, come i più rilevanti trattati internazionali, rispetto alle quali forte era stata, nel passato, la contrapposizione di competenza fra il re e il governo. Per le altre, però, il gran consiglio finiva per espropriare la più radicata delle prerogative del capo dello Stato: quella di porsi come arbitro e giudice degli atti e delle iniziative degli organi costituzionali e di rilievo costituzionale, interpretandoli alla luce della vigente costituzione. Affermare, invece, che le attribuzioni e le prerogative della stessa corona, quelle del capo del governo, la composizione ed il funzionamento del gran consiglio, del senato e della camera dei deputati fossero attribuite alla competenza, anche se consultiva, del gran consiglio, significava, nei fatti, spostare su questo organo il potere di interpretare quel che restava dello Statuto, integrandolo con la nuova costituzione fascista. Inoltre, in base all’art. 13, il gran consiglio doveva, su proposta del capo del governo, formare e tenere aggiornata «la lista dei nomi da presentare alla corona, in caso di vacanza, per la nomina del capo del governo». Il risultato finale, voluto da queste due norme, era quello di mettere la corona in condizioni di non nuocere, nel momento in cui il fascismo, dopo aver pagato, con la «legge Rocco», il necessario tributo alla collaborazione della corona, riteneva fosse giunto il momento di procedere alla costruzione di un regime del tutto diverso da quello statutario. La nuova costituzione, in effetti, si presentava dopo il 1928 come un regime monista, essendo del tutto scomparsa anche la possibilità di esercizio di poteri politici o di azionamento di responsabilità politiche da parte del re. Il nuovo capo dello Stato, da questo punto di vista, poteva essere considerato o lo stesso capo del governo (se si ritiene, come sembra più vicino al vero, che in questa carica si congiungessero, in una logica totalitaria, partito e Stato) o il gran consiglio, che sarebbe divenuto un originale capo dello Stato collegiale, se si ritiene (come ha ritenuto, ad esempio Calamandrei) che nel regime fascista il vero titolare dell’indirizzo politico generale fosse il PNF. Le «leggi fascistissime» in materia di libertà, le tre leggi costituzionali sul governo e sul gran consiglio, la legge istitutiva del tribunale speciale per la difesa dello Stato fondavano, dunque, un regime totalitario che fu definito, dai costituzionalisti dell’epoca, «regime del capo del governo» (così, S. ROMANO, Corso di diritto costituzionale, Padova, Cedam, 1940, p. 213). Tuttavia, la definizione del fascismo come regime totalitario ha bisogno di alcune precisazioni, dato che da tempo studiosi sicuramente critici del fascismo hanno posto in rilievo alcuni limiti di quella ambizione totalitaria. La persistenza della monarchia, le «autolimitazioni» assunte dallo Stato con il concordato del 1929, la presenza di un potere giudizia-

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rio almeno fino ad un certo periodo «separato ed indipendente» dal partito e dal governo, costituirebbero la prova che il totalitarismo non si sarebbe realizzato né di fatto, né di diritto (cfr., ad esempio, in questo senso, L. PALADIN, Fascismo, cit., pp. 897 ss.). In realtà, sembra che i veri limiti delle ambizioni totalitarie del regime non siano quelli sopra indicati, perché, come già accennato, la presenza della corona era svuotata di ogni significato politico (ed, infatti, sarebbe stata necessaria una guerra perduta per fargliene riacquistare una parte), mentre la magistratura rimaneva soggetta a pesanti interferenze del potere politico ed in più essa aveva perduto dal 1926 il potere di giudicare sui reati politici. Se a questo si aggiunge che il regime fu attento ad inserire nei patti lateranensi il limite della non ingerenza della chiesa e delle associazioni cattoliche nelle questioni politiche, si può concludere che, dal punto di vista dei principi, il totalitarismo si realizzava almeno come l’indiscutibile potere degli organi fascisti dello Stato di decidere ed attuare il generale indirizzo politico nazionale e locale. Altri e diversi limiti funzionarono, invece, nella costituzione fascista. Anzitutto, se il «totalitarismo» si riassumeva nel binomio capo del governo-duce del fascismo, si deve dire che il «regime del capo del governo» fu assai lontano dall’assumere quei caratteri che, pure, le leggi del 1925-26 astrattamente gli attribuivano. L’unitarietà dell’indirizzo politico generale del governo rimase sostanzialmente un mito. I ministri, anche se formalmente soggetti al potere gerarchico del capo del governo, svilupparono non solo loro politiche ma moltiplicarono i loro poteri (significativo, a questo proposito, come si è detto, il grande sviluppo dei regolamenti ministeriali nel ventennio fascista). In definitiva, la cancellazione del ruolo costituzionale del consiglio dei ministri finì per aggravare i problemi di coordinamento dei ministri, come, d’altra parte, si desume dall’inaudito accentramento di dicasteri nelle mani di Mussolini. La burocrazia ministeriale, ed in particolare i direttori generali, conobbero un accrescimento del loro potere. A riprova delle resistenze interne all’apparato governativo ad una unificazione reale degli indirizzi, si possono citare gli inutili tentativi di costituire non solo il ministero della presidenza del consiglio ma, addirittura, l’ufficio legislativo della presidenza stessa (E. ROTELLI, La presidenza, cit., pp. 373 ss.). È, comunque, il grande sviluppo delle c.d. «amministrazioni parallele», avvenuto durante gli anni ’30 (e, quindi, nel periodo di massima affermazione del fascismo), il fenomeno che più clamorosamente testimonia lo scarto fra la costituzione formale e quella materiale del fascismo. L’istituzione dell’IMI nel 1931 e dell’IRI nel 1933 non ebbe, è vero, originariamente, quelle finalità dirigistiche e programmatorie che erano proprie dello «Stato corporativo», essendo ispirate a finalità di più modesta «razionalizzazione del credito» per liberare le grandi banche dai rischi degli investimenti industriali dopo gli effetti della «grande depressione»

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(così, P. CALANDRA, Storia dell’amministrazione pubblica in Italia, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 302). Il risultato, tuttavia, fu una sempre più accentuata assunzione di compiti economici da parte dei nuovi soggetti pubblici: «Mentre gli ideologhi del regime cercavano di mettere in piedi l’apparato corporativo senza riuscire a farlo funzionare, i grands commis dello Stato si impadronivano del potere economico e lo estendevano progressivamente» (così, M. NIGRO, Profili pubblicistici del credito, Milano, Giuffrè, 1969, p. 276). Questo fenomeno si accentuò nella seconda metà degli anni ’30 grazie alla legge bancaria del 1936; legge la cui preparazione fu gestita, significativamente, non dagli organi dello Stato ma dalla banca d’Italia e dall’IRI (cfr., per tutti, S. CASSESE, La preparazione della legge bancaria in Italia, in Storia contemporanea, 1974, pp. 3 ss.). La legge bancaria è di grande importanza perché, facendo seguito alle difficoltà del governo fascista di raggiungere una politica monetaria unitaria (cfr. M. DE CECCO, Saggi di politica monetaria, Milano, Giuffrè, 1968, p. 38), creava un «ordinamento sezionale» del credito, governato non più in base ai principi della «legge Rocco», ma da un inedito comitato interministeriale e da un ispettorato per la difesa del risparmio e l’esercizio del credito, facente capo, nei fatti, alla banca d’Italia. Il comitato dei ministri per il credito e il risparmio era presieduto dal capo del governo e composto dai ministri delle corporazioni, delle finanze, dell’agricoltura. Al comitato la legge attribuiva, e qui stava la rilevante novità della legge, il compito di determinare l’indirizzo politico per il settore del credito attraverso direttive indirizzate all’ispettorato. Singolarmente, il capo del governo perdeva all’interno del comitato quei poteri gerarchici e di autonoma determinazione dell’indirizzo politico che gli erano stati attribuiti, invece, all’interno del governo, dalla «legge Rocco» (cfr. S. MERLINI, Struttura del governo e intervento pubblico nell’economia, Firenze, La nuova Italia, 1979, pp. 98 ss.); tuttavia, ancora più importante è il fatto che l’ispettorato assumeva, in base alla legge, «le funzioni esecutive ed istruttorie proprie di un ministero» (così, F. MERUSI, Le direttive governative nei confronti degli enti di gestione, Milano, Giuffrè, 1977, p. 110). Di più, l’estromissione della pubblica amministrazione diretta nel settore del credito divenne definitiva quando, per la mancata costituzione dell’ispettorato, le sue funzioni furono attribuite, attraverso il governatore, alla banca d’Italia. Invece dello Stato corporativo incominciava, in altri termini, a funzionare in Italia uno Stato che, attraverso il modello dell’amministrazione indiretta (della quale la banca d’Italia, nell’esercizio delle funzioni descritte, fu il grande capostipite), poneva i meccanismi fondamentali dello sviluppo economico nelle mani di una «tecnocrazia» posta al riparo delle dirette suggestioni della politica e legata al potere esecutivo da un rapporto di tipo personale, essenzialmente fiduciario. Questo nuovo modello, che comprendeva insieme l’IMI, l’IRI e il settore creditizio, non escludeva affatto l’interventismo pubblico nella sfera economica, ma lo conformava in

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modo tale da dare ad esso un significato sostanzialmente «tecnico» e comunque lontanissimo dall’ideologia politica del fascismo. Si può osservare, anzi, che, proprio per i motivi che stavano alla sua nascita (la «grande crisi» del 1929, con i suoi riflessi sull’economia mondiale), il nuovo interventismo italiano risultò tributario di modelli stranieri. Questi erano stati realizzati, a partire dalla fine degli anni ’20, proprio nei vituperati paesi della «plutocrazia», che avevano concentrato, per rispondere alla crisi dell’economia, grandi poteri normativi, e anche di diretto intervento amministrativo e finanziario, nelle mani dei governi e di istituzioni amministrative pubbliche indipendenti dall’indirizzo-controllo parlamentare (cfr. S. MERLINI, Struttura del governo, cit., pp. 110 ss.). In questo quadro, non ebbe nessun rilievo sostanziale l’ultima delle riforme costituzionali del fascismo, ovvero l’istituzione, con legge 19 gennaio 1939, n. 129, della «camera dei fasci e delle corporazioni», che abrogava, novanta anni dopo la concessione dello Statuto, la camera dei deputati. La nuova camera, composta non più da deputati ma da «consiglieri», prescindeva del tutto dall’esistenza di un sistema elettorale, in quanto era formata da membri che di essa facevano parte di diritto grazie alle cariche da loro ricoperte nel partito nazionale fascista o nel consiglio nazionale delle corporazioni. Nessuna indipendenza era, ovviamente, assicurata ai nuovi consiglieri, in quanto il capo del governo proponeva o approvava non soltanto le nomine dei «gerarchi» del partito, ma anche dei membri del consiglio nazionale delle corporazioni. In tal modo, dunque, Mussolini poteva tranquillamente revocare, privandoli della carica politica o sindacale, quei «consiglieri» che, per ipotesi, non si mostrassero sufficientemente disciplinati. La stessa durata della legislatura non era fissata ma rimessa ad un’apposita determinazione del capo del governo (art. 10, comma 1). Ad ulteriore dimostrazione del fatto che questa assemblea non fosse altro che un docile strumento nelle mani del capo del governo, si deve ricordare che la legge n. 129 del 1939 prevedeva che solo quest’ultimo poteva disporne la convocazione per l’esercizio dell’ordinaria funzione legislativa (art. 10, comma 3) e ad esso era rimessa la nomina del presidente (art. 11, comma 1). La camera dei fasci e delle corporazioni era quindi la tipica espressione dell’avversione della dittatura verso l’istituzione parlamentare: questa impostazione era chiaramente evidente nell’art. 2, che non riconosceva alle camere nemmeno la titolarità formale della funzione legislativa («Il senato del Regno e la camera dei fasci e delle corporazioni collaborano col governo per la formazione delle leggi»). La disciplina del procedimento legislativo era conseguente a questa ratio di fondo. L’art. 16 prevedeva che i progetti di legge fossero approvati direttamente dalle commissioni legislative delle due camere in un termine brevissimo (un mese dalla presentazione di ciascun disegno di legge, salvo

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proroga accordata dal capo del governo), trascorso il quale il governo era abilitato ad adottare un decreto legge (si trattava quindi di una fattispecie peculiare di decretazione d’urgenza: art. 18, comma 2). Facevano eccezione, e quindi erano approvati dalle due camere nella loro composizione plenaria, solo i disegni di legge di maggiore importanza sul piano istituzionale (art. 15) ma anche questi potevano essere approvati in commissione in caso di urgenza e su richiesta del governo (art. 17). Il combinato disposto degli artt. 15 e 16 della legge in questione deve essere ricordato poiché, come è noto, la procedura decentrata di approvazione delle leggi sarà mantenuta, ma solo come eccezione rispetto alla regola, anche nella Costituzione repubblicana. Anche al di là di queste considerazioni, il ruolo stesso della camera dei fasci e delle corporazioni risultò del tutto privo di importanza. Da un lato, infatti, era il gran consiglio del fascismo l’organo chiamato ad esercitare, quando se ne rilevasse la necessità, «la consulenza del governo in materia politica» (P. CALAMANDREI, La funzione parlamentare, cit., p. 361). Dall’altro, il governo aveva, ormai, assunto, come ricordato, la pienezza dei poteri normativi. In conclusione, come scrisse acutamente un osservatore esterno, il parlamento risultava, in Italia, alla fine del decennio, non soltanto «subordinated to the Executive», non soltanto organo consultivo dello stesso governo, ma era chiamato «to advise on details only» (così, B. KING, Goverment, Italy, in Enciclopedia of the Social Sciences, New York, 1944, ad vocem). Quanto è stato detto a proposito dei rapporti stabiliti fra il regime e la corona in seguito alla «legge Rocco» ed a quella istitutiva del gran consiglio, rende, probabilmente, superfluo un esame approfondito della questione se la revoca di Mussolini e la nomina di Badoglio, da parte del re, dopo la seduta del gran consiglio del 25 luglio 1943, abbiano rappresentato, rispetto al regime vigente, un nuovo «colpo di Stato» monarchico. È vero, infatti, che la revoca del capo del governo da parte del re era prevista dalla legge n. 2263 del 1925. È anche vero, però, che il nuovo capo del governo non era stato indicato alla corona dal gran consiglio, secondo quanto era prescritto l’art. 13 della legge n. 2693 del 1928. Venne meno, dunque, quella funzione del gran consiglio come «garante della perpetuità del regime» che era stata alla base della sua costituzionalizzazione. Tuttavia, l’approvazione dell’ordine del giorno Grandi da parte del gran consiglio in una forma tale da configurare sicuramente una «sfiducia» al capo del governo, peraltro non prevista dal regime vigente (il testo invitava, infatti, «la Maestà del Re […] affinché egli voglia, per l’onore e per la salvezza della Patria, assumere, – con l’effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5 dello Statuto del Regno, – quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono», pur affermando la necessità di un «immediato ripristino di tutte le funzioni statali attribuendo alla corona, al gran consiglio, al governo, al

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parlamento, alle corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statali e costituzionali»), nonché la mancata, volontaria, indicazione di un successore, si configurarono, più che come un colpo di Stato della monarchia, come un colpo di Stato tutto interno al regime. Un evento che rappresentò, come si è detto in precedenza, una circostanza eccezionale: la sola che poteva, al di là della forma di governo instaurata dal fascismo, restituire al re quella, provvisoria, dignità di capo dello Stato che egli, e per sua colpa, aveva perduto nel 1928.

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Capitolo Secondo

La forma di governo nella Costituzione repubblicana (1943-2001) SOMMARIO: 1. Il regime della transizione. La «costituzione provvisoria». – 2. L’Assemblea costituente, il «compromesso costituzionale» e la forma di governo repubblicana. – 2.1. Le scelte dell’Assemblea costituente in materia elettorale. – 3. La forma di governo nella prima legislatura repubblicana: un premierato ante litteram? – 4. La forma di governo nel periodo 1953-1981: le coalizioni come «necessità istituzionale». – 4.1. Segue: il governo dei partiti nella c.d. «prima Repubblica». – 4.2. Segue: l’esperienza del c.d. «pentapartito». – 5. Verso la democrazia maggioritaria? I referendum elettorali ed il problema delle riforme istituzionali: la commissione bicamerale De Mita-Jotti. – 6. I governi Amato e Ciampi come «governi di transizione». Lo scioglimento anticipato del 1994 e il ruolo del presidente della Repubblica. – 7. La forma di governo dopo la riforma elettorale del 1993: la XII e la XIII legislatura. – 7.1. Le proposte della commissione D’Alema. – 8. I governi politici nati in parlamento nella XIII legislatura: i due governi D’Alema ed il II governo Amato.

1. Il regime della transizione. La «costituzione provvisoria» Il governo Badoglio fu, più che un «governo dei tecnici», come fu anche allora chiamato, un vero governo della corona. Questa qualificazione gli derivava innanzitutto dalle modalità della sua nomina, caratterizzata da una «irrimediabile discontinutà» con la legalità costituzionale fascista (U. DE SIERVO, La transizione costituzionale (1943-1946), in Dir. pubbl., 1996, pp. 546 ss.), essendo avvenuta senza il rispetto né della legge n. 2693 del 1928 (che avrebbe richiesto la proposta del candidato primo ministro al sovrano da parte del gran consiglio del fascismo) né del R.D.L. n. 4 del 1937 (che, come si è ricordato, aveva imposto la presenza nel governo del segretario nazionale del PNF) e derivava altresì dal fatto che quel governo volle, in stretto collegamento con il re, procedere subito ad una, anche se ambigua, «riforma costituzionale». L’abrogazione, attraverso decreti legge, del PNF (R.D.L. 2 agosto 1943, n. 704) e del gran consiglio del fascismo (R.D.L. 2 agosto 1943, n. 706), lo scioglimento della camera dei fasci e delle corporazioni (R.D.L. 2 agosto 1943, n. 705) abbattevano, infatti, i pilastri istituzionali del regime fascista, lasciando tutto il potere politico e costituzionale alla corona ed al suo governo. Il fine di questa operazione

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era del tutto evidente: scindere le responsabilità della corona da quelle del fascismo e ripristinare una funzione «garantista» della monarchia (cfr. C. GHISALBERTI, Storia costituzionale, cit., p. 390), attestata anche dall’annuncio da parte del governo dello svolgimento di elezioni alla fine della guerra, insieme al ripristino delle guarentigie statutarie. Sul punto, il già ricordato R.D.L. n. 705 del 1943 prevedeva infatti che «sarà provveduto, nel termine di quattro mesi dalla cessazione dell’attuale stato di guerra, alla elezione di una nuova camera dei deputati e alla conseguente convocazione ed inizio della nuova legislatura», sul presupposto, quindi, del ripristino della legalità statutaria, nonostante il ventennio fascista. Ad ulteriore dimostrazione di questo discutibile disegno della monarchia e del nuovo governo, è da ricordare che la soppressione del partito fascista non si accompagnò all’abrogazione delle norme che avevano messo fuori legge gli altri partiti; ed anzi, l’immediata proclamazione dello stato di guerra sul territorio nazionale e l’affidamento alle autorità militari delle funzioni di controllo dell’ordine pubblico e di repressione penale di eventuali disordini, pur decisa per arginare il pericolo di manifestazioni fasciste, servì anche per reprimere le manifestazioni popolari contro il regime e contro la guerra. In tal modo, il re ed il governo speravano, con un atteggiamento equivoco, di essere liberi di gestire, contrattandola, la «fase di transizione» verso il recupero delle libertà politiche. Questa ambiguità di fondo trovò, d’altra parte, perfetta corrispondenza nella puerile doppiezza tenuta dal governo sul piano internazionale («la guerra continua» affermò, infatti, Badoglio dopo il 25 luglio) che condusse all’ulteriore tragedia dell’armistizio dell’8 settembre 1943, causa dello sfaldamento delle forze armate, della fuga del re e del suo governo a Brindisi (poiché non tutti i ministri avevano raggiunto la cittadina pugliese, con appositi decreti fu stabilita l’attribuzione ai sottosegretari della «trattazione e risoluzione» degli «affari dei vari dicasteri»; successivamente, con il trasferimento della sede del governo a Salerno i vecchi ministri furono considerati dimissionari e i sottosegretari furono nominati ministri), della totale e definitiva distruzione di quanto rimaneva del prestigio e dell’autorità dell’antico Stato nazionale. Fu in questa situazione che la «forma di Stato», che nel frattempo si era andata delineando, finì per prevalere sulla forma di governo: ciò nel senso che i partiti antifascisti, che si erano di fatto ricostituiti, raggruppandosi, poi, nei Comitati di liberazione nazionale, dopo aver rifiutato (congresso di Bari) di entrare a far parte del governo Badoglio, riuscirono ad imporre, con il «patto di Salerno» dell’aprile 1944, la loro soluzione istituzionale. Il «patto» fra la corona ed il CLN, che fu stipulato ovviamente con la mediazione ed il placet degli Alleati, prevedeva, dopo la liberazione di Roma, l’irrevocabile ritiro di Vittorio Emanuele III a vita privata, la nomina di suo figlio Umberto a «luogotenente del Regno» (carica fino a quel momento inedita), la convocazione, alla fine della guerra, di un’As-

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semblea costituente, che avrebbe avuto il potere di decidere non soltanto in merito ad una nuova Costituzione, ma anche sulla «forma istituzionale» (monarchia o repubblica) dello Stato. Fu solo in seguito a questo patto che i partiti antifascisti entrarono nel governo Badoglio e formarono, il 18 giugno 1944, dopo la liberazione di Roma, il primo governo di CLN, che fu presieduto da Ivanoe Bonomi. La costituzione del governo Bonomi innovò profondamente la forma di governo italiana, in quanto il Comitato centrale di liberazione nazionale si sostituì alla corona nella funzione di organo «rappresentativo dell’opinione pubblica italiana» (P. BARILE, Corso, cit., p. 43), in quanto si assunse la funzione di designare, ed in maniera vincolante, al luogotenente il governo: dal presidente del consiglio ai singoli ministri. La «presunzione di rappresentatività» del popolo italiano da parte del CLN non poteva, tuttavia, basarsi che sull’ipotesi di una uguale rappresentatività dei sei partiti aderenti al CLN, fino allo svolgimento delle elezioni. Dunque, in base a questa situazione, la norma fondamentale di funzionamento del CLN fu quella dell’unanimità delle sue decisioni. Il principio di unanimità si riverbererà anche nei rapporti interni al governo: emblematico di tale assetto è la costituzione del consiglio di gabinetto, composto dal presidente del consiglio e dai leaders dei partiti del CLN entrati nel governo in qualità di ministri senza portafoglio, con il compito di mettere a punto e di coordinare l’indirizzo politico. Tale assetto risulta evidente nel II governo Badoglio e nel I governo Bonomi. Riproposto anche nei governi Bonomi II e Parri, il consiglio di gabinetto viene progressivamente meno. Questo spiega la concordia con la quale fu risolto il problema della «Costituzione provvisoria». Dopo che Umberto di Savoia era stato nominato luogotenente generale del Regno (R.D. 5 giugno 1944, n. 140), con il d.lgs.lgt. 25 giugno 1944, n. 151, il contenuto istituzionale del patto di Salerno ebbe veste giuridica; e, tuttavia, alla previsione della convocazione di un’Assemblea costituente dopo la liberazione del territorio nazionale (art. 1), si aggiunse nel decreto anche l’impegno del governo e del luogotenente a non compiere, fino ad allora, «atti che potessero pregiudicare la questione istituzionale» (art. 3) e l’attribuzione al governo della pienezza dei poteri normativi, nella forma dei decreti legislativi luogotenenziali (art. 4). In tal modo, quindi, la prospettiva di un ripristino della vecchia legalità statutaria era completamente abbandonata, tanto che lo stesso decreto abrogava espressamente il R.D.L. n. 705 del 1943 (art. 2). In questo contesto, si deve ricordare il R.D.L. 16 maggio 1944, n. 136 che eliminò la dizione «capo del governo», ripristinando il nome di «presidente del consiglio». Tale mutamento di denominazione non rispondeva ad una ratio di defascistizzazione, come invece il precedente R.D.L. n. 704 del 1943 il quale aveva soppresso la locuzione «duce del fascismo» che figurava negli atti normativi prima di «capo del governo». In realtà, il R.D.L. n. 136 del 1944 determinò una sostanziale innova-

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zione istituzionale, diretta conseguenza del c.d. «patto di Salerno»: il presidente del consiglio divenne infatti un primus inter pares, e fu pienamente ripristinato il principio di collegialità, ancorché ripartito in una prima fase tra consiglio dei ministri e consiglio di gabinetto (il principio collegiale trova espressione anche al momento delle dimissioni del governo, con l’affermazione del riferimento al «gabinetto presieduto da»: P. CALANDRA, I governi della Repubblica, Bologna, Il Mulino, 1996, p. 30). È solo infatti meramente formale la conservazione del titolo di «primo ministro segretario di Stato» che sarebbe venuta meno solo con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana. In realtà, infatti, il R.D.L. n. 136 del 1944 segna la tacita abrogazione della legislazione fascista sul capo del governo, e segnatamente, la legge n. 2263 del 1925. La natura costituzionale dei partiti in questa fase non può essere assimilata, come invece è stato sostenuto, ad una sorta di «dittatura del CLN», mentre appare più aderente alla realtà politica ed istituzionale del periodo la sua tendenziale (e solo tendenziale) configurazione come organo rappresentativo «supplente» delle assemblee parlamentari (per tutti, C. MORTATI, La Costituente: la teoria, la storia, il problema italiano, Roma, Darsena, 1945). Basti pensare, innanzitutto, ai condizionamenti che i governi subirono, sia formalmente, sia informalmente, dagli alleati: non solo, infatti, almeno fino al febbraio 1945 era necessario il previo assenso della commissione alleata di controllo su tutti gli atti amministrativi e legislativi nonché sulla stessa composizione del governo (A. REPOSO, Lezioni, cit., p. 57), ma anche successivamente l’assenso della commissione alleata, in forza delle clausole dell’armistizio concluso nel settembre 1943, rimase necessario, ad esempio, per la nomina dei ministri e degli altri funzionari in ambito militare e della sicurezza pubblica, così come rimasero obbligatorie numerose forme di consultazione e di consulenza per le questioni politiche ed amministrative più rilevanti (U. DE SIERVO, La transizione, cit., p. 557). Anche dal punto di vista interno, la tesi della «dittatura del CLN» non riesce a spiegare la formazione di governi nei quali non tutti i sei partiti del CLN accettarono di far parte (a partire già dalla formazione del II governo Bonomi nel dicembre 1944) né la nomina di presidenti del consiglio «indipendenti» (Parri), né la progressiva e non irrilevante espansione del ruolo del luogotenente del Regno nella formazione dei governi (cfr. infra) né, infine, la creazione della consulta nazionale e la parallela, formale, ricostituzione delle presidenze delle camere, decise proprio per allargare la base di consenso dei partiti del CLN, accusati dalle destre ma anche dal PRI di aver dato vita ad un assetto dittatoriale (E. BETTINELLI, La formazione dell’ordinamento elettorale nel periodo precostituente. All’origine della democrazia dei partiti (1944-46), in E. CHELI, a cura di, La fondazione della Repubblica. Dalla Costituzione provvisoria alla Assemblea costituente, Bologna, Il Mulino, 1979, p. 155).

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La concordia di azione dei partiti del CLN si mantenne sostanzialmente intatta finché durò la guerra in Italia. Anzi, il d.lgs.lgt. 28 febbraio 1945, n. 73, segnò, probabilmente, il momento più alto di quella concordia, in quanto attraverso di esso il governo attribuì al comitato di liberazione nazionale alta Italia due compiti di rilievo costituzionale: quello di rappresentare il governo nella lotta di resistenza contro i nazisti e contro i fascisti della «Repubblica sociale italiana» e quello di predisporre le zone liberate alla vita politica (P. BARILE, Corso, cit., p. 42). Le differenziazioni fra i partiti politici si manifestarono, invece, più ampie quando dopo la definitiva liberazione dell’Italia si fecero più forti in alcuni partiti gli orientamenti politici più radicali propri del CLN alta Italia (L. BASSO, Il Principe senza scettro, Milano, Feltrinelli, 1958, p. 102). Frutto di questa stagione di tensioni e di divisione all’interno del CNL furono il debole governo Parri che, costituitosi il 19 giugno 1945, fu costretto a dimettersi nel novembre di quell’anno, ed il d.lgs.lgt. 16 marzo 1946, n. 98 (deliberato dal I governo De Gasperi) che innovò non marginalmente la Costituzione provvisoria. Tale decreto limitava i poteri della futura Assemblea costituente, sottraendo ad essa, e demandandolo, invece al corpo elettorale, quello di decidere sulla scelta fra monarchia e repubblica. La scelta del «referendum istituzionale» fu dovuta a De Gasperi (che non voleva impegnare preventivamente la democrazia cristiana a favore della repubblica) ed agli Alleati (principalmente agli inglesi), che erano timorosi della scomparsa del potere moderato e moderatore della monarchia. Sempre ispirata ad una ratio di limitazione dei poteri della Costituente era la previsione contenuta nell’art. 3, comma 1, che lasciava nelle mani del governo il potere legislativo «salva la materia costituzionale […], ad eccezione delle leggi elettorali e delle leggi di approvazione dei trattati internazionali, le quali saranno deliberate dall’assemblea» (il successivo comma 2 precisava che «il governo potrà sottoporre all’esame dell’assemblea qualunque altro argomento per il quale ritenga opportuna la deliberazione di essa») (per quanto riguarda la disciplina dei rapporti tra la Costituente e il governo cfr. infra, par. 2). Tuttavia, la rottura della «tregua istituzionale» con la abdicazione di Vittorio Emanuele III e l’assunzione della corona da parte di Umberto, le stesse pressioni degli Alleati sui partiti, la spaccatura in due del Paese non furono sufficienti né a superare la rottura che si era consumata fra la corona e l’opinione pubblica a causa degli eventi del 1922 e dell’8 settembre del 1943 (cosicché l’opzione repubblicana prevalse nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946 per circa due milioni di voti), né a rompere l’unità dei partiti del CLN sia nel maggio 1946 (allorché prevalse saggiamente la proposta di non reagire all’abdicazione di Vittorio Emanuele III) sia nelle difficili giornate successive all’ufficializzazione dei risultati del referendum, in attesa della definitiva proclamazione della corte di cassazione, quando il consiglio dei ministri decise di trasferire le funzioni di capo provvisorio dello Stato ai sensi dell’art. 2 del d.lgs.lgt. n. 98 del 1946

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al presidente del consiglio dei ministri, inducendo il sovrano a lasciare definitivamente il territorio nazionale.

2. L’Assemblea costituente, il «compromesso costituzionale» e la forma di governo repubblicana Il 2 giugno 1946 il corpo elettorale scelse la Repubblica ed elesse anche, per la prima volta a suffragio universale, un’Assemblea costituente. Il sistema elettorale che era stato prescelto (II governo Bonomi) per l’elezione dell’Assemblea costituente era un sistema proporzionale con liste concorrenti nei diversi collegi elettorali plurinominali. La proporzionalità del sistema risultava, inoltre, accentuata dalla previsione di un collegio unico nazionale nel quale si sarebbero attribuiti i seggi residui in rapporto ai voti non utilizzati. La scelta di una così accentuata proporzionalità della rappresentanza politica sarebbe stata, come si dirà, determinante per le scelte istituzionali future. A favore di questa opzione si erano dichiarati concordemente tutti i partiti del CLN, anzitutto perché essa era perfettamente coerente con il modello di «una coalizione di partiti soggetta alle regole della pariteticità e della unanimità» (L. BASSO, Il Principe, cit., p. 102) nella quale nessun partito era sicuro del consenso elettorale che avrebbe ricevuto in futuro. Inoltre, questo sistema elettorale sembrava, proprio per la sua accentuata proporzionalità, del tutto rispondente alla elezione di un’Assemblea costituente: di un organo, cioè, che, dovendo scegliere sia la forma istituzionale dello Stato sia la sua struttura costituzionale, doveva necessariamente risultare quanto più rappresentativo possibile di tutte le opinioni politiche rappresentate nel paese. L’Assemblea costituente che uscì dalle elezioni del 2 giugno trovò già compiuta dagli elettori la scelta a favore della Repubblica, cosicché dovette, dopo la proclamazione dei risultati del referendum, procedere, secondo quanto previsto dal decreto n. 98, all’elezione del «Capo provvisorio dello Stato». A questa carica risultò eletto Enrico De Nicola, che era stato uno dei principali protagonisti del patto di Salerno. Per quanto riguarda la composizione della Assemblea, si può sicuramente dire che gli elettori si orientarono, nella stragrande maggioranza, a favore dei partiti del CLN, operando, però, una scelta che favorì, all’interno della coalizione, i tre «partiti di massa»: la democrazia cristiana (35,2% e 207 seggi), il partito comunista (18,9% e 104 seggi), il partito socialista (20,7% e 115 seggi). Questi tre partiti ottennero complessivamente quindi ben 426 seggi su 556, mentre gli altri tre partiti del CLN raccolsero insieme appena poco più di quaranta seggi. I partiti non si erano, in generale, molto preparati per l’appuntamento con la Costituente, anche perché essi avevano dedicate molte delle loro energie per battersi nel referendum a favore della repubblica o della mo-

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narchia. Forse, non a caso, il partito che era rimasto ufficialmente «neutrale» in questo scontro, la democrazia cristiana, risultò essere quello che aveva dedicato (in particolare, con la relazione Gonella ed il progetto di Costituzione, approvati dal congresso dell’aprile del 1946) maggiore attenzione al problema. In generale, tuttavia, si può dire che i partiti avevano idee sufficientemente chiare a proposito della forma di Stato. Ciò nel senso che l’esperienza della dittatura fascista e della Resistenza avevano sviluppato una forte sensibilità al tema delle libertà. In questa direzione, sia le tradizionali libertà dell’individuo, care alla tradizione liberale, sia le più nuove libertà dei gruppi (quella di associazione, sindacale, di partito, religiosa) erano riconosciute essere, da tutti i partiti antifascisti, il fondamento del futuro Stato. Inoltre, e sempre per ciò che riguarda la forma di Stato, esisteva anche nei documenti dei partiti redatti per preparare la Costituente una larga concordanza sul fatto che lo Stato nuovo avrebbe dovuto intervenire attivamente (e, qui, a differenza del vecchio Stato liberale) per affermare e tutelare i nuovi «diritti sociali»: al lavoro, all’istruzione, al riposo, alla previdenza sociale. Molto meno precise, e più discordanti, apparivano, invece, le posizioni dei partiti relativamente alla forma di governo. La «sovranità popolare» veniva, ovviamente, posta da tutti al centro del sistema, in una forma che era, in genere, già vicina alla futura formula costituzionale dell’appartenenza al popolo (e solo al popolo) della sovranità. Significative differenze si manifestavano, però, fra l’impostazione del «progetto» della DC, e della già ricordata relazione Gonella, e la risoluzione adottata dal comitato centrale del PCI nell’aprile del 1946. Per la DC, ad esempio, l’esercizio della sovranità popolare non spettava per intero al parlamento, dato che nel «progetto» si prevedeva già l’istituzione della corte costituzionale e del referendum popolare. Inoltre, il progetto e la relazione Gonella sembravano voler riservare un ruolo importante alle autonomie locali («Vogliamo un’esperienza che sia l’opposto del centralismo statale»), anche se le regioni, dichiarate «autonome», avrebbero dovuto rappresentare sia interessi politici territoriali che professionali. Nella risoluzione approvata dal comitato centrale del PCI nell’aprile del 1946, troviamo, invece, maggior prudenza nella rivendicazione del principio di autonomia locale (soprattutto in relazione all’autonomia regionale), mentre il parlamento sembra acquisire un ruolo del tutto preponderante («I comunisti propongono che la Repubblica sia organizzata sulla base parlamentare»). Fra i grandi partiti, appare sommario anche il lavoro preparatorio del PSI (allora, partito socialista di unità proletaria), che non risulta aver approvato documenti ufficiali sul tema della riforma costituzionale (L. BASSO, Il Principe, cit., p. 121). Infine, fra i «partiti di opinione» solo il partito d’azione si presentò alla Costituente con un programma assai articolato che si basava, per quanto riguarda la forma di governo, su una rigorosa separazione dei poteri, e che poneva al centro un «potere esecutivo, assiduamente controlla-

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to dagli organi rappresentativi, [...] che dovrà godere di autorità e stabilità tali (da) evitare ogni ritorno a situazioni di crisi permanente, risultati fatali ai regimi parlamentari». In questa situazione, di consenso sui grandi principi ma di scarso approfondimento dell’assetto istituzionale futuro, risultò importante e positiva la decisione del presidente della Assemblea costituente (Giuseppe Saragat, che sarebbe stato, poi, sostituito da Umberto Terracini nel febbraio 1947) di costituire all’interno dell’Assemblea una commissione di 75 membri che, costituita proporzionalmente ai gruppi parlamentari, avrebbe dovuto elaborare un progetto di Costituzione da sottoporre, poi, al plenum dell’Assemblea. La «commissione dei 75», presieduta da Meuccio Ruini, si suddivise in tre sottocommissioni, che furono incaricate di elaborare, rispettivamente: i diritti ed i doveri dei cittadini; l’ordinamento della Repubblica; i diritti ed i doveri economico-sociali. Tupini (DC); Terracini (PCI) e Ghidini (PSLI) presiedettero le tre sottocommissioni. L’effetto positivo dell’aver affidato alla commissione dei 75 ed alle sottocommissioni l’elaborazione del progetto di Costituzione non fu soltanto quello, tecnico, di consentire una migliore elaborazione delle proposte. La lettura degli atti della commissione e delle sottocommissioni testimonia, infatti, che, al di là dell’approfondimento tecnico-giuridico, in quelle sedi, al riparo della pubblicità dell’assemblea, si realizzò fra i partiti un vero scambio di cultura istituzionale, cosicché risultarono spesso modificate le loro posizioni iniziali. Tutto ciò fu facilitato dal fatto che della commissione dei 75 facevano parte personalità della politica e della cultura (non soltanto giuridica) che erano, forse, quanto di meglio poteva offrire l’Italia di quegli anni (Ambrosini, Basso, Calamandrei, Di Vittorio, Dossetti, Einaudi, Fanfani, La Pira, Lussu, Marchesi, Moro, Mortati, Paratore, Pesenti, Taviani, Togliatti, Tosato, per ricordare solo alcuni fra i più noti). Inoltre, la commissione poté utilizzare gli eccellenti materiali di studio prodotti dal «Ministero per la Costituente» e, in particolare, quelli della «commissione Forti» per la riorganizzazione dello Stato. Nella discussione della commissione dei 75, delle sottocommissioni e, poi, nel «comitato di coordinamento» fra le sottocommissioni, che sarebbe divenuto «il vero organo motore della Costituente» (così, E. CHELI, Costituzione e sviluppo delle istituzioni in Italia, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 31), forte influenza ebbero, anche, alcuni modelli stranieri. Fra questi, prevalente risultò, alla fine, quello francese (cfr. U. DE SIERVO, Le idee e le vicende costituzionali in Francia e la loro influenza sul dibattito in Italia, in ID., a cura di, Scelte della Costituente e cultura giuridica. I. Costituzione italiana e modelli stranieri, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 293 ss.). Non marginale fu, anche, ed ovviamente, il riferimento al modello inglese, soprattutto per ciò che atteneva alla forma di governo; più problematici i riferimenti al sistema degli Stati Uniti, alla Costituzione di Weimar ed a quella austriaca precedente alla guerra, che riguardarono essenzialmente il tema, del tutto nuovo nella

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nostra tradizione, della giustizia costituzionale (cfr. S. BASILE, La cultura politico-istituzionale e le esperienze tedesche; S. VOLTERRA, La Costituzione italiana e i modelli anglosassoni, in U. DE SIERVO, a cura di, Scelte della Costituente, cit., pp. 45 ss. e 117 ss.). Prima di affrontare in maniera più specifica il contenuto del dibattito alla Costituente sulla forma di governo, occorre dire che, insediatasi l’Assemblea costituente, cambiò anche la forma di governo provvisoria. L’Assemblea, «affermando subito la pienezza della sua sovranità» (P. BARILE, Corso, cit., p. 48), dichiarò di assumere anche la potestà legislativa ordinaria, che invece il decreto n. 98 del 1946 aveva attribuito al governo fino all’elezione del primo parlamento del nuovo Stato. Tuttavia, «restrizioni fondamentali» ai poteri della Costituente rimasero, perché, salvo che per le leggi elettorali, per quelle di approvazione dei trattati internazionali e per le proposte rimesse dal governo, l’Assemblea, delegando all’esecutivo la potestà legislativa in astratto rivendicata, rimase esclusa dal governo di tutta la prima fase della ricostruzione (E. CHELI, Costituzione, cit., pp. 17-18). Si trattò peraltro di una scelta felice dal punto di vista istituzionale, poiché consentì di tenere distinti il piano della redazione della Costituzione da quello delle scelte politiche più contingenti che risentirono della rottura tra i partiti del CLN culminata nella formazione del IV governo De Gasperi nel maggio 1947 (cfr. infra). Per ciò che riguardava, invece, il rapporto politico con il governo, lo stesso decreto n. 98, precorrendo, significativamente, quanto sarà disposto dalla Costituzione, aveva stabilito che con l’elezione della Costituente il governo, cessando di essere responsabile nei confronti dei partiti di CLN, diveniva revocabile solo attraverso un’esplicita mozione di sfiducia, approvata (e qui a differenza di quanto sarà disposto dal secondo comma dell’art. 94 Cost.) dalla maggioranza assoluta dell’Assemblea (nel periodo costituzionale provvisorio, comunque, mozioni di sfiducia furono presentate unicamente contro il III governo De Gasperi, ma furono respinte nel settembre 1947, aprendo la strada al maxi-rimpasto del dicembre successivo ed al conseguente inizio della stagione del centrismo), mentre al capo dello Stato erano riconosciute prerogative in netta continuità con il regime statutario preesistente (V. ONIDA, Costituzione provvisoria, in Dig. disc. pubbl., IV, Torino, Utet, 1989, p. 344). La previsione di questo speciale quorum non impedì che nel corso del mandato della Costituente, con la crisi del maggio-giugno del 1947, avessero termine i governi di CLN; con la costituzione del IV governo De Gasperi, iniziò infatti la stagione degli esecutivi centristi. Quanto detto a proposito del lavoro sostanzialmente concorde svolto nella commissione dei 75, non intende certo sottovalutare i momenti di tensione e di rottura che si manifestarono fra i partiti durante l’elaborazione della Costituzione. Fra l’altro, tensioni e rotture furono molto più frequenti sulla parte riguardante la forma di governo; mentre, per ciò che

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riguarda la prima parte della Costituzione, dedicata ai principi fondamentali, ai diritti e doveri dei cittadini, le sole gravi fratture si ebbero fra la parte laica dell’Assemblea e quella cattolica (poi appoggiata, su alcuni punti, dal PCI) sui rapporti fra Stato e Chiesa (con il richiamo dei Patti lateranensi da parte dell’art. 7 Cost.), sulla scuola e la famiglia. Per ciò che riguarda la struttura dello Stato, invece, a parte gli «attacchi particolarmente duri» che vennero mossi da parte dei «grandi del passato» (Nitti, Orlando, Croce) che erano rimasti esclusi dalla commissione dei 75 (E. CHELI, Costituzione, cit., p. 33), più che di scontri, si può parlare di differenze, anche forti, che si ricomposero, però, in una sintesi che è stata definita, con giudizio divergente, «compromesso» oppure «equilibrio» costituzionale. Sul compromesso costituzionale, uno dei primi giudizi negativi fu dato da Piero Calamandrei, per il quale la Costituzione era risultata, alla fine «ispirata da quella politica di coalizione dei tre partiti “cosiddetti di massa” che nel periodo della Costituente fu la base del governo De Gasperi» (P. CALAMANDREI, Cenni sulla Costituente e i suoi lavori, in Commentario sistematico alla Costituzione italiana, 1950, ora in Scritti e discorsi politici, cit., p. 452). Questo giudizio di Calamandrei seguiva ad una sua vivace polemica con Togliatti che aveva, invece, definito il compromesso come la positiva confluenza del solidarismo cristiano e di quello marxista nella «Costituzione di tutti i lavoratori, di tutta la Nazione» (ora, in P. TOGLIATTI, Discorsi alla Costituente, Roma, Editori riuniti, 1973, p. 9). A quasi cinquanta anni da quel dibattito (che è del marzo 1947, prima della rottura del governo di CLN) le conclusioni di Calamandrei e Togliatti sembrano, ormai, entrambe parziali. Il «compromesso» aveva coinvolto, in realtà, e su punti non marginali, anche i partiti di ispirazione liberale. Il rispetto dell’unità nazionale e le norme riguardanti i diritti fondamentali rappresentano, da questo punto di vista, un obiettivo comune, e conseguito, delle «tre culture» (cattolica, marxista, liberale) della Costituente (E. CHELI, Costituzione, cit., pp. 44 ss.). In altri termini, il compromesso fu convinto e giunse a risultati eccezionalmente positivi per ciò che riguarda quasi tutta la prima parte della Costituzione. Diverse debbono essere, invece, le conclusioni per ciò che riguarda la seconda parte della carta costituzionale, quella dedicata all’ordinamento della Repubblica. Per questa parte, non si possono dimenticare, anzitutto, le divergenti posizioni assunte, nella prima fase della Costituente, proprio dai «partiti di massa». Nel dibattito generale sul progetto di Costituzione, Togliatti attaccò a fondo l’impianto generale della prevista forma di governo, richiamando la contrarietà dei comunisti al bicameralismo, alle limitazioni del voto di fiducia, al referendum, alla corte costituzionale (definita «quella bizzaria»), a tutto ciò, insomma, che avrebbe impedito «che tutte le trasformazioni sociali [...] vengano dibattute e risolte nell’assemblea (la sola camera dei deputati) e dalla assemblea» (P. TOGLIATTI, Discorsi, cit., p. 15).

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Il fatto è che l’assemblearismo comunista aveva trovato un accordo, sei mesi prima, con il parlamentarismo tradizionale della DC e dei liberali con l’approvazione dell’ordine del giorno Perassi, approvato dalla seconda sottocomissione della commissione dei 75 nella seduta del 5 settembre 1946 (con la significativa astensione dei commissari del PCI). In esso, respingendo implicitamente le proposte di Calamandrei (cfr. infra), sul presupposto che «né il tipo del governo presidenziale, né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana», si era proposto di fondare la forma di governo della Costituzione sul «sistema parlamentare da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo». Ad iniziare da questo, fondamentale, episodio, il «compromesso» che iniziò a delinearsi sulla forma di governo fu fortemente equivoco. Le cause delle «degenerazioni del parlamentarismo» erano, ad esempio, individuate dalla democrazia cristiana nel «regime di assemblea» e nella frequente formazione di «maggioranze fittizie» che avevano caratterizzato il regime liberale (cfr. Sintesi programmatica della Relazione Gonella, 1° congresso nazionale DC, 1946, in Atti e Documenti della democrazia cristiana, I, Roma, Cinque lune, 1968, p. 252). Da parte sua, Mortati già all’inizio dei lavori in seno alla seconda sottocommissione aveva messo in guardia contro una concezione della stabilità del governo intesa in senso puramente formale (ovvero dal semplice fatto della permanenza in carica per un certo periodo di tempo), poiché «è, invece, realizzata quando, attraverso tale permanenza, riesca a svolgersi e ad attuarsi l’indirizzo politico di cui quelle persone fisiche sono portatrici» (Assemblea costituente, II sottocommissione, 5 settembre 1946, res. somm., p. 127). In che modo questa concezione del regime parlamentare poteva connettersi con quella di Togliatti, fondata su un’idea così assoluta degli istituti rappresentativi da richiedere anche l’elettività della magistratura? È evidente che da idee così diverse sul ruolo del parlamento non potevano discendere che divergenti concezioni sul rapporto parlamento-governo e sulla struttura di quest’ultimo. Infatti, se la DC proponeva, fin dall’inizio, «speciali procedure cautelari» per sostenere la stabilità dei governi contro la facilità e casualità del voto di sfiducia, Togliatti replicava, nel suo già citato discorso sul progetto di Costituzione, che le proposte di «razionalizzazione» del voto di sfiducia contenute nell’art. 88 del progetto (e in particolare il comma 3 ai sensi del quale, dopo il voto di sfiducia di una delle camere, il governo, se non si fosse dimesso, avrebbe dovuto convocare l’assemblea nazionale, ovvero le camere riunite, che si sarebbe pronunciata su una mozione motivata), erano «una deviazione dal puro regime democratico di tipo parlamentare». Di fronte a posizioni in realtà così lontane sui fondamenti della forma di governo, c’è, dunque, da sospettare che la ragione del compromesso, raggiunto attraverso l’o.d.g. Perassi, fosse di altro tipo.

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Calamandrei, sostenendo in sede di seconda sottocommissione la forma di governo presidenziale, aveva voluto, come poco più tardi chiarirà lui stesso, non tanto sostenere «lo schema della repubblica presidenziale qual è in vigore in America», ma la nomina (anche parlamentare) del capo del governo in seguito all’approvazione da parte del corpo elettorale di un programma destinato a garantire la stabilità dell’esecutivo (P. CALAMANDREI, Valore e attualità della Repubblica presidenziale, in Italia Libera, IV, 1946). In altri termini, secondo Calamandrei era il sistema elettorale e non il parlamento che avrebbe dovuto evitare le «degenerazioni del parlamentarismo», consentendo la indicazione di programmi e di leaders alternativi. La riaffermazione della proporzionale era, dunque, il vero «compromesso» posto alla base dell’ordine del giorno Perassi. Ma quel compromesso coinvolgeva, al contrario di quanto riteneva Calamandrei, non soltanto i tre «partiti di massa», ma anche i partiti minori, che erano pronti a scambiare i principi della forma di governo con le garanzie di una loro, anche se modesta, rappresentanza in parlamento. Significativo è in questo senso il fatto che Mortati già nel settembre 1946, pur insistendo sulla rilevanza delle scelte in materia elettorale sul funzionamento della forma di governo, proponesse, in opposizione a Einaudi, l’adozione di un regime elettorale proporzionalistico per l’elezione delle camere, essendo «quello meglio rispondente ad abituare il popolo non solo alla migliore scelta degli uomini (esigenza anch’essa essenziale) ma alla valutazione e scelta dei programmi» (Assemblea costituente, seconda sottocommissione, 5 settembre 1946, cit., p. 128). I partiti politici erano, perciò, messi al centro della forma di governo italiana: il «vincolo di mandato», che nella nuova Costituzione non sarebbe stato di nuovo proponibile se posto a carico dei singoli rappresentanti del popolo, trovava nei partiti il vero destinatario (C. MORTATI, La costituente, cit., p. 54). Il parlamento era al centro di una forma di governo democratica se, ed in quanto, «le assemblee parlamentari siano la fotografia il più possibile fedele dei contrasti di opinione e di tendenze politiche che esistono nel paese» (L. BASSO, Il Principe, cit., p. 172). La concentrazione del mandato politico sui partiti e la contemporanea affermazione di un pluripartitismo quanto più ampio possibile posero, però, i costituenti di fronte a seri problemi. Quella parte dei partiti (tutti, ad esclusione dei comunisti e dei socialisti) che non voleva proseguire la coalizione di CLN (e non la considerava, perciò, parte della Costituzione materiale) doveva porsi la domanda se la quota di sovranità liberamente interpretata da ogni partito sarebbe mai riuscita a comporsi con le altre in una forma di governo dotata di stabilità, dato che sembrava profilarsi come «risultato fatale» un assetto permanente di governi di coalizione, con seri rischi proprio per la durata e per la coerenza dell’azione dei governi. Tutto il dibattito alla Costituente sulla forma di governo, successivo alla presentazione del progetto, ruota, in fondo, attorno a questa questione:

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con i comunisti, e spesso i socialisti, contrari ad ogni forma di stabilizzazione (nel presupposto, ormai smentito dai fatti, che sarebbe stato possibile e necessario recuperare la forma di governo del CLN) e gli altri partiti impegnati, invece, nella ricerca di istituti di stabilizzazione compatibili con il «multipartitismo estremo» (L. ELIA, Governo (forme di), in Enc. dir., XIX, Milano, Giuffrè, 1970, ad vocem) ormai consapevolmente introdotto nella Costituzione. È in questa chiave che può essere letta, ad esempio, la discussione sulla figura del capo dello Stato, che vide, da un lato, le sinistre nettamente ostili all’attribuzione ad esso di poteri significativi, dall’altro, i partiti di centro (e di centro destra) impegnati a fare proprio del presidente della Repubblica uno dei principali correttivi delle degenerazioni del parlamentarismo. Da questo punto di vista, forte fu l’opposizione comunista agli artt. 84 ed 86 del Progetto (oggi, artt. 88 e 92 Cost.) che attribuivano al presidente della Repubblica due degli antichi «poteri di prerogativa» della corona: lo scioglimento anticipato delle camere e la nomina del presidente del consiglio. Sul primo dei due poteri, Nobile (PCI), presentò un emendamento che mirava, a somiglianza di quanto era previsto nella Costituzione francese del 1946, a rendere possibile lo scioglimento solo al verificarsi di crisi reiterate, entro termini predeterminati e su proposta del consiglio dei ministri. Terracini ne presentò un altro, in base al quale il presidente della Repubblica non avrebbe potuto sciogliere le camere più di due volte nel corso del suo mandato. Gli emendamenti furono respinti perché in realtà, ed al di là delle motivazioni che furono date, le sinistre erano disposte ad accettare solo l’autoscioglimento delle Assemblee, mentre i partiti di centro intendevano utilizzare l’istituto proprio nel senso opposto: innanzitutto, per porre in grado il capo dello Stato di esercitare pressioni (sui partiti) nel caso, più che probabile, di sfaldamento delle maggioranze di governo; in secondo luogo, per evitare rischi di auto-governo delle Assemblee. Ancora più significativa fu, però, la discussione che si svolse sul secondo, vecchio potere di prerogativa: la nomina del presidente del consiglio e dei ministri. Su questo punto, le sinistre, che già avevano attaccato l’art. 86 del progetto per la parte relativa ai poteri del presidente del consiglio (come si dirà fra poco), presentarono un emendamento (La Rocca ed altri) secondo il quale il governo avrebbe dovuto essere costituito dal solo consiglio dei ministri, mentre i ministri sarebbero stati nominati dal presidente della Repubblica. Il fine dell’emendamento, come fu dichiarato dal proponente, era quello di «impedire che nel gabinetto venga a costituirsi una funzione staccata, preminente avulsa e del tutto indipendente dal ministero: quella del suo presidente» (cfr. La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, Roma, Camera dei deputati, 1972, AC, p. 3503). In realtà, al di là della figura del presidente del consiglio, questa impostazione finiva per modificare significativamente l’intero procedimento di nomina del governo. Il mancato riconoscimento costi-

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tuzionale del presidente del consiglio avrebbe dovuto, negli intenti della sinistra, mettere del tutto nelle mani dei partiti il processo di formazione dei governi, eliminando il tradizionale ruolo di mediazione del presidente incaricato. Tuttavia, i proponenti non si accorgevano che, così facendo, o si ipotizzava un governo assembleare anche nel suo procedimento di formazione, o si finiva per concentrare nel presidente della Repubblica quella funzione propositiva e mediatoria sottratta al primo ministro. Questa concezione non poteva che scontrarsi con le posizioni della DC, che aveva pienamente accettato il principio del multipartitismo estremo e, con esso, anche la perpetuazione della formula del governo di coalizione, ma voleva inserire nella Costituzione il riconoscimento della supremazia politica del partito che avrebbe rappresentato la maggioranza relativa dei suffragi. A Tosato (DC), relatore sull’art. 86 del progetto, come a Mortati, autorevole costituente di quello stesso partito, sembrò, in coerenza, indispensabile impegnarsi per affermare non solo la posizione costituzionalmente differenziata del primo ministro, ma anche il suo potere ex constitutione di «dirigere» la politica generale del governo e di esserne responsabile (su questi punti, cfr. E. ROTELLI, La presidenza, cit., pp. 435 ss.; S. MERLINI, Struttura del governo, cit., pp. 73 ss.). Da questo punto di vista, è utile ricordare un ordine del giorno, presentato da Tosato già in seno alla seconda sottocommissione il 5 settembre 1946, che proponeva l’introduzione di uno strumento di razionalizzazione della forma di governo assai simile alla sfiducia costruttiva che sarebbe poi stata fatta propria dalla Costituzione tedesca del 1949. Lo scontro fra le sinistre e la DC si chiuse, senza dubbio, con la sconfitta delle prime (anzi, nell’emendamento La Rocca, respinto con 258 voti contro 90, si verificò un loro grave isolamento). Tuttavia, le preoccupazioni dei partiti minori, politicamente alleati della DC, finirono per dare una mano alla sinistra, almeno in sede di definizione dei poteri del presidente del consiglio (art. 89 Progetto, oggi art. 95 Cost.). V.E. Orlando e L. Einaudi intervennero più volte per sbarrare la strada ai tentativi di Mortati di definire meglio, rispetto al progetto, i poteri del primo ministro, sostenendo, secondo la tradizione liberale, il rilievo solo politico, di primus inter pares, del presidente del consiglio. Dunque, il risultato finale fu quello di una sostanziale continuità, almeno rispetto al punto di arrivo della tradizione statutaria, ovvero il decreto Zanardelli. Al consiglio dei ministri fu riservata la deliberazione dell’indirizzo politico generale; al presidente del consiglio la sua direzione e responsabilità, insieme ai poteri di promozione e di coordinamento dell’attività dei ministri; ai ministri, la individuale responsabilità degli atti dei loro dicasteri. In conclusione, la struttura del governo, punto centrale del sistema costituzionale, veniva risolta allineando tre principi (collegialità; direzione individuale; responsabilità ministeriale) che non erano affatto, in realtà, conciliabili, anzi, presupponevano, ognuno, una forma di governo «materiale» diversa.

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Per questa parte della Costituzione, il «compromesso costituzionale», riaffermando una sostanziale continuità con il pre-fascismo, non portò affatto all’adozione di soluzioni idonee ad «evitare le degenerazioni del parlamentarismo», secondo quanto indicato nell’ordine del giorno Perassi. La figura del primo ministro, che avrebbe dovuto, nelle intenzioni della DC, riequilibrare le fragilità evidenti della struttura «coalizionale» del governo, riuscì, alla fine, molto debole. La sua nomina, anzitutto, era posta al riparo dalle indicazioni dell’elettorato e, quindi, nelle mani dei partiti. Il procedimento di nomina, descritto in modo volutamente sintetico dall’art. 92 Cost., avrebbe, poi, attribuito, anche per il modo della sua attuazione, identico a quello della tradizione liberale (incarico, seguito dalla nomina contemporanea del presidente del consiglio e dei ministri), un grande peso al presidente della Repubblica. Inoltre, il primo ministro risultava molto debole nel governo: ricevendo la fiducia insieme ai ministri, gli era preclusa, come decise da subito la maggioranza dei costituzionalisti, la possibilità di revocarli, mentre poco significativi erano i suoi poteri di coordinamento e di indirizzo. Paradossalmente, ma non tanto, molti dei poteri perduti dal primo ministro finivano per essere acquisiti dal presidente della Repubblica, che diveniva il mediatore di ultima istanza in tutte le questioni legate alla formazione dei governi (formula politica degli stessi; composizione; programma), mentre egli finiva per detenere, attraverso il potere di scioglimento anticipato delle camere a lui attribuito dall’art. 88 Cost., anche la chiave di volta del rapporto fra il governo ed il parlamento. Se a questo si aggiungono gli altri, significativi, poteri attribuiti al capo dello Stato (veto sospensivo delle leggi; messaggio alle camere; nomina di cinque dei giudici costituzionali), si ha l’impressione che i costituenti abbiano concentrato su questo organo la difesa ultima contro le prevedibili, forse previste, degenerazioni del parlamentarismo che si sarebbero perpetuate malgrado l’art. 94 Cost. Tutto questo avrebbe consentito al capo dello Stato, come si vedrà poi nella storia della Repubblica, di governare crisi pericolose, ma avrebbe anche suscitato serie domande sul tasso di democraticità del sistema, anche a causa dell’irresponsabilità politica del capo dello Stato (artt. 89 e 90). Se, dunque, il compromesso costituzionale risultava quantomeno problematico per ciò che riguardava i problemi ora descritti, risultati non migliori furono raggiunti sul fronte della stabilità dei governi, che avrebbe dovuto costituire il primo obiettivo da raggiungere in base all’ordine del giorno Perassi. Su questo punto, nell’Assemblea costituente furono messi a punto una serie di «correttivi» che miravano (artt. 87, 88 Progetto, oggi art. 94 Cost.) a dare stabilità al rapporto governo-parlamento, partendo, anzitutto, dal suo momento costitutivo. L’oscillante consuetudine statutaria riguardante la fiducia iniziale (affermatasi, come si è visto, solo nella fase finale del

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regime liberale), la tradizionale incertezza sulla «sfiducia implicita» in ogni voto parlamentare contrario alle proposte governative indussero i costituenti ad una regolamentazione assai accurata delle mozioni di fiducia e di sfiducia, sia in termini sostanziali che procedurali (motivazione della fiducia, voto per appello nominale per entrambe le mozioni, termini per la votazione della prima e della seconda). Nelle intenzioni dei costituenti questa regolamentazione, costringendo il parlamento ad assumersi un’aperta e motivata responsabilità sia in caso di fiducia che di sfiducia, avrebbe eliminato sia l’assemblearismo che il trasformismo del passato. L’assetto complessivo dei rapporti fra governo e parlamento contraddiceva, tuttavia, l’intento, implicito in questa strategia, di fare del governo un «comitato direttivo del parlamento», dotato di potere e di responsabilità. Al governo, infatti, la Costituzione finiva per attribuire troppo potere là dove non si sarebbe dovuto (ad esempio nei decreti legge) e troppo poco là dove si doveva: principalmente nella attuazione del programma concordato con il parlamento. Le norme costituzionali sul procedimento legislativo non hanno previsto, ad esempio, nessuna «corsia preferenziale» per i disegni di legge governativi, così come non si è voluto attribuire al parlamento un ruolo prevalente nella legislazione di indirizzo, riservando al governo la normazione di dettaglio. Su questo punto, anzi, la Costituente si è mossa in un senso contrario, introducendo nella Costituzione (art. 72) un principio che era giustificabile solo nella camera dei fasci e delle corporazioni, ovvero le commissioni in sede legislativa. Il corporativismo degli interessi di categoria, il consociativismo distruttore della distinzione fra maggioranza ed opposizione, la difficoltà del parlamento di sentirsi, anzitutto, il protagonista delle grandi riforme troveranno progressivamente esca in queste miopi soluzioni. Se a questo si aggiunge il fatto che la Costituente previde l’obbligatorietà del voto palese solo in relazione ai voti di fiducia e di sfiducia, si deve concludere che i correttivi introdotti nell’art. 94 per assicurare la stabilità dei governi sono risultati del tutto insufficienti. La stabilità, come insegnava l’esperienza storica, non poteva essere separata dall’efficienza del potere esecutivo, così come quest’ultima non doveva essere separata dalla responsabilità. Su questo fronte, l’accurata regolamentazione della mozione di sfiducia si sarebbe mostrata quasi del tutto inutile. Come nell’epoca liberale, la marcata instabilità dei governi repubblicani non avrebbe avuto niente a che vedere con il principio della responsabilità del governo di fronte al parlamento, così come codificato nell’art. 94 Cost. Non una delle oltre cinquanta crisi di governo che si sono susseguite dopo il 1948 sarà causata dalla approvazione di una mozione di sfiducia, mentre solo due governi cadranno a causa della reiezione della questione di fiducia posta dagli stessi. Anzi, la stessa presentazione di mozioni di sfiducia nei confronti dell’intero governo sarà infrequente. La forma di governo basata sul «multipartitismo estremo» produrrà governi di coali-

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zione instabili e poco efficienti. Le crisi di governo saranno, in conseguenza, tutte dovute a dimissioni spontanee dell’esecutivo. Grande sarà la riluttanza a «parlamentarizzare» persino le cause delle dimissioni. Anche da questo punto di vista, dunque, notevole sarà la continuità con quanto era accaduto durante il regime liberale sul terreno dei rapporti fra governo e parlamento. Il confronto con il regime liberale è, ovviamente, molto ravvicinato a proposito del bicameralismo e della nuova istituzione del senato. Come si è già accennato, mentre la sinistra (particolarmente il PCI) si dimostrava ostile all’accoglimento nella Costituzione dello stesso principio bicamerale, in quanto ciò avrebbe compromesso la «rapidità e l’energia» del potere decisionale dell’unica assemblea rappresentativa (P. TOGLIATTI, Discorsi, cit., p. 15), i partiti di centro e quelli di destra avevano, invece, imposto, già nel progetto di Costituzione, la ricostituzione, su nuove basi, del senato. L’art. 55 del progetto prevedeva, infatti, un senato «eletto a base regionale», con un numero di senatori posto in un rapporto fisso con la popolazione regionale (uno ogni duecentomila abitanti), più un numero fisso di cinque senatori per ogni regione. La vera novità rispetto al vecchio sistema era costituita dalla previsione dell’elezione di una parte dei senatori, così attribuiti alla regione, da parte del consiglio regionale, anche se per un solo terzo. Su questo punto la proposta sviluppava, integrandola con la prevista istituzione delle regioni, quelle idee di rappresentanza nel senato degli interessi locali e professionali che avevano già incominciato a circolare nei ricordati progetti di riforma dell’età liberale. Questa novità sarebbe stata davvero rilevante, ed avrebbe innovato profondamente la forma di governo repubblicana, se essa non fosse stata poco più che simbolica. La diretta rappresentanza degli interessi della regione, affidata al terzo dei senatori eletti dal consiglio regionale, si integrava, infatti, nel progetto di Costituzione con un singolare compromesso fra la rappresentanza politica e quella degli interessi di altra natura: professionale, culturale, sociale e statuale. I due terzi di senatori residui avrebbero dovuto essere eletti a suffragio universale e diretto dagli elettori che avessero superato i venticinque anni di età fra sette categorie di eleggibili che ricordavano molto da vicino quelle individuate nel 1910 dalla già richiamata commissione Arcoleo. La debolezza e l’arretratezza storica di questa parte del progetto portarono al suo abbandono ed all’approvazione del vigente art. 57 Cost. che ha parificato, sostanzialmente, i criteri di elezione del senato e della camera, facendo salva soltanto la «base regionale» dell’elezione del senato e la diversa durata della legislatura (sei anni per il senato; cinque per la camera dei deputati), prima «sterilizzata» dagli scioglimenti anticipati del solo senato nel 1953, 1958 e 1963 e quindi abbandonata in forza della legge cost. n. 2 del 1963. A questo proposito, è importante ricordare che nel lungo dibattito che si svolse alla Costituente sulle modalità di elezione del Senato, si verificò

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uno scontro drammatico fra la DC (che sosteneva un senato inteso come camera di rappresentanza dei consigli regionali e delle «comunità intermedie» della comunità regionale), le sinistre e i partiti laici, favorevoli, invece, all’elezione popolare diretta della seconda camera attraverso un sistema elettorale uninominale a base regionale che avrebbe messo in evidenza, secondo quanto sostenuto in un ordine del giorno Nitti, i candidati al di sopra dei partiti che li candidavano. Alla fine, l’ordine del giorno fu approvato dopo uno scontro che mise in pericolo la stessa permanenza del «patto costituente» fra i partiti del CLN ma la legge elettorale approvata dalla stessa Costituente, come si dirà (par. 2.1), indebolì fortemente il principio del collegio uninominale, pur sancito dall’Assemblea, prevedendo un obbligo di collegamento fra almeno tre candidati regionali e l’adozione di un sistema elettorale di tipo proporzionale qualora i candidati non avessero ottenuto il 65% dei voti: in tal modo, quindi, i sistemi elettorali per i due rami del parlamento risultarono molto simili. L’eguale, diretta, rappresentatività della sovranità popolare propria della camera e del senato, così definita, non poteva, però, che condurre ad una perfetta parità di funzioni fra le camere. Difficile era, a questo punto, giustificare l’esistenza della seconda camera come «contrappeso» della prima in funzione garantista (Tosato). L’identica derivazione della camera e del senato porterà, nella storia della Repubblica, a critiche diffuse sull’inutilità, anzi sulla dannosità, di una simile duplicazione della rappresentanza politica. In effetti, i vantaggi della «doppia riflessione» derivanti dal sistema sembreranno, a molti, inferiori rispetto alla moltiplicazione per due dei «vizi del parlamentarismo» che continueranno a permanere nel sistema repubblicano. Le vere novità della forma di governo introdotta dalla Costituzione vanno, allora, ricercate in quegli istituti che niente hanno a che vedere con i tradizionali rapporti fra parlamento, governo e capo dello Stato. L’istituzione della corte costituzionale, garante della rigidità della Costituzione e, quindi, dell’assoggettamento ad essa di tutte «le leggi e degli atti aventi forza di legge» (art. 134 Cost.), ha introdotto un vero, non fittizio, correttivo contro le degenerazioni non del solo parlamento ma anche del potere esecutivo. Le leggi eccezionali, le attribuzioni dei pieni poteri ai governi, le dichiarazioni degli «stati di emergenza», insomma tutti gli abusi di potere tradizionalmente commessi attraverso la complicità del legislativo e dell’esecutivo si rendevano impossibili nella nuova forma di governo. Di più: il parlamento ed il governo avrebbero trovato nel quotidiano esercizio delle loro funzioni normative il limite dell’interpretazione della Costituzione operata dalla corte costituzionale. Dal 1956, anno della sua, gravemente ritardata, entrata in funzione, la corte avrebbe, poi, grandemente sviluppato i suoi strumenti interpretativi, fino a porsi esplicitamente come organo dotato di un indirizzo politico proprio, anche se di diretta derivazione costituzionale.

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La seconda limitazione della tradizionale sovranità parlamentare era costituita, dopo l’introduzione della corte costituzionale, dal referendum abrogativo. I costituenti, però, non avevano affatto concepito il referendum come un istituto nato per inserire la democrazia diretta nella forma di governo. L’esclusione di altre forme di referendum (ad esempio il sospensivo), la sua limitazione alla puntuale abrogazione di leggi o atti aventi forza di legge, l’esclusione dalla sottoponibilità a referendum delle più importanti leggi aventi contenuto di indirizzo politico indicano chiaramente che, nell’intenzione dei costituenti, il referendum avrebbe dovuto costituire una sorta di straordinario appello popolare per leggi di rilevante interesse sociale. Il fatto che alle previsioni costituzionali in materia di referendum sia stata data attuazione solo nel 1970 (legge 25 maggio 1970, n. 352) è, però, indizio del fatto che la forma di governo effettivamente realizzatasi dopo la promulgazione della Costituzione, fondandosi, come si è detto, su una totalizzante mediazione del multipartitismo, non gradiva inserimenti di democrazia diretta, nemmeno se parziali. Questo spiega il doppio uso dello strumento referendario che si è sviluppato dal 1974: da un lato, si sono avuti, infatti, referendum, come quelli sul divorzio o quello sull’aborto, perfettamente in linea con la figura dell’istituto disegnata dalla Costituzione; d’altra parte, però, i limiti gravi che la forma di governo realizzata poneva ad una più diretta espressione della sovranità popolare hanno portato ad un «uso politico» del referendum che si è concretizzato o nella richiesta, politicamente mirata, di referendum plurimi, o nella proposizione, attraverso la tecnica del «ritaglio» normativo, di referendum di fatto propositivi. Sia la prima (soprattutto) che la seconda tendenza possono apparire non del tutto coerenti con le previsioni costituzionali. Non si può tacere, però, che la legge elettorale proporzionale (fondamento politico della forma di governo vigente dal 1946 al 1993) non avrebbe potuto essere abrogata che attraverso la via referendaria, come effettivamente è avvenuto con il referendum del 18 aprile 1993. 2.1. Le scelte dell’Assemblea costituente in materia elettorale A tale proposito, è da ricordare che l’Assemblea costituente, dopo l’adozione della Costituzione, fu chiamata ad approvare le leggi elettorali per i due rami del parlamento. Per le ragioni sopra ricordate la scelta cadde su sistemi di tipo proporzionale, i più congeniali rispetto quel modello di «Repubblica dei partiti» che nel periodo costituente si era già chiaramente evidenziato. Tuttavia, la proposta di costituzionalizzare il principio proporzionale fu respinta, stante la rilevata inopportunità di cristallizzare le scelte in questa materia. In effetti, in materia elettorale, la carta costituzionale, oltre a ribadire i principi di universalità, personalità, libertà, segretezza ed eguaglianza (art. 48), si limita a prevedere, quanto alla camera dei deputa-

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ti, la sua elezione a suffragio universale e diretto (art. 56, comma 1), l’elettorato passivo esteso a tutti i cittadini che abbiano compiuto i venticinque anni di età, la composizione (630 deputati, a partire dalla legge cost. n. 2 del 1963), la ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni in proporzione alla popolazione (art. 56, ultimo comma). Ciò detto, in Assemblea costituente l’accordo tra le forze politiche sull’adozione di un sistema proporzionale fu saldissimo per quanto riguarda la camera dei deputati fin dall’approvazione, in seno alla II sottocommissione, nella seduta dell’8 novembre 1946, di un ordine del giorno presentato da Cappi e successivamente ribadito nel plenum dall’on. Giolitti («L’Assemblea costituente ritiene che l’elezione dei membri della camera dei deputati debba avvenire secondo il sistema proporzionale») e quindi approvato nella seduta del 23 settembre 1947. La legge 20 gennaio 1948, n. 6 (confluita nel testo unico approvato con il D.P.R. 5 febbraio 1948, n. 26) delineava un modello ricalcato su quello previsto per l’elezione dell’Assemblea costituente; modello che, con poche variazioni, e salvo la parentesi costituita dalla legge n. 148 del 1953 (cfr. infra) è rimasto in vigore fino al 1993. In concreto, i seggi erano attribuiti in 32 circoscrizioni con il metodo del quoziente corretto (a partire dalla legge n. 493 del 1956, con il correttore «+2»: c.d. formula «Imperiali»). I seggi non assegnati nelle circoscrizioni con tale metodo erano distribuiti in un collegio unico nazionale tra le liste che avessero ottenuto almeno 300.000 voti a livello nazionale e almeno un eletto in una delle circoscrizioni. L’elettore aveva la possibilità di esprimere, a seconda dei seggi assegnati alle circoscrizioni, uno o più voti di preferenza. Si trattava quindi di un sistema elettorale assai poco selettivo, fatta eccezione per la necessità di conseguire almeno un seggio in una circoscrizione che in qualche caso fu fatale per alcune forze politiche minori (così nelle elezioni del 1972 il PSIUP, pur avendo ottenuto poco meno di 650 mila voti, non riuscì ad eleggere alcun deputato, non avendo ottenuto alcun eletto in una circoscrizione). Per quanto riguarda il senato, la Costituzione prevede: a) un corpo elettorale diverso (gli elettori sono individuati nei cittadini che abbiano compiuto i venticinque anni); b) l’eleggibilità in capo ai cittadini che abbiano compiuto i quaranta anni (art. 58); c) l’elezione a base regionale (art. 57), con l’assegnazione alle regioni di un numero di seggi proporzionale alla popolazione, ma con la garanzia che ad ogni regioni spettino una quota garantita di eletti (sette a seguito delle leggi cost. nn. 2 e 3 del 1963, tranne le due più piccole: al Molise spettano infatti due senatori, alla Valle d’Aosta, uno solo); d) il numero dei componenti (a partire dalla legge cost. n. 2 del 1963, 315 senatori elettivi). Il vincolo costituzionale più rilevante per il legislatore elettorale è sicuramente quello della «base regionale».

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Tale locuzione è rimasta nel testo della Costituzione quale espressione di un ambiguo compromesso tra la posizione della DC, favorevole ad affidare l’elezione quantomeno di una parte dei componenti del senato ai consigli regionali e quella dei partiti di sinistra (ma anche di esponenti liberali e conservatori) fautori dell’adozione del suffragio universale e diretto e dell’esclusione di particolari categorie eleggibili. La locuzione «base regionale» è stata quindi definita giustamente «generica, ambigua, polivalente» e «chiaramente frutto di un compromesso mal riuscito ed a fatica raggiunto dall’Assemblea costituente» (T. MARTINES, Artt. 56-58, in Commentario della Costituzione – Le Camere. Tomo I, Bologna-Roma, Zanichelli-Il foro italiano, 1984, p. 90); similmente, si è parlato di una locuzione «assolutamente incolore» (L. CARLASSARE, Un bicameralismo discutibile, in L. VIOLANTE, a cura di, Storia d’Italia – Annali 17. Il parlamento, Torino, Einaudi, 2001, p. 354, nt. 108) ovvero, ancora più nettamente, di una formula «priva di ogni reale contenuto» (N. OCCHIOCUPO, La «camera delle regioni», Milano, Giuffrè, 1975, p. 27). In effetti, l’art. 57 Cost. non può essere interpretato a prescindere dal complessivo quadro costituzionale, che ha fatto proprio un bicameralismo c.d. «perfetto» o «eguale», con il senato eletto a suffragio universale e diretto (art. 58, comma 1), pienamente inserito nel circuito fiduciario (art. 94) e nel procedimento legislativo (art. 70), ancorché eletto da un corpo elettorale diverso da quello della camera (art. 58, comma 1). Tali considerazioni sono suffragate dallo stesso dibattito in Assemblea costituente: se infatti Perassi, rispondendo ad una obiezione di Targetti, ebbe ad affermare che «base regionale» avrebbe avuto solo il significato di escludere l’eventualità di collegi uninominali costituiti da frazioni di territorio appartenenti a più regioni («Tutto il resto è perfettamente compatibile»: Assemblea costituente, 7 ottobre 1947, res. sten., p. 980), lo stesso Mortati, alla luce del faticoso e discutibile compromesso raggiunto, ebbe ad osservare: «Si tratta di un principio direttivo suscettibile di applicazioni varie, applicazioni che possono essere imprevedibili oggi ma potrebbero trovare nel legislatore di domani degli svolgimenti verso singole concretizzazioni che […] oggi sarebbe opportuno non discutere o rinviare» (Assemblea costituente, 8 ottobre 1947, res. sten., p. 1002). La ferma posizione di Mortati determinò quindi il mantenimento del riferimento alla «base regionale», pur dopo l’approvazione di stretta misura nella seduta del 7 ottobre 1947 del c.d. «ordine del giorno Nitti» (sottoscritto, tra gli altri, anche da Togliatti), ai sensi del quale «il senato sarà eletto con suffragio universale e diretto col sistema del collegio uninominale». Secondo Mortati, infatti, tale approvazione non sarebbe stata preclusiva del principio della «base regionale», visto anche il «suo collegamento con la riforma regionale, che non può non ripercuotersi, per il carattere costituzionale ad essa conferito, sulla organizzazione dei poteri centrali dello Stato» (Assemblea costituente, 8 ottobre 1947, res. sten., p. 1002).

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Peraltro, anche alla luce della prassi successiva, l’art. 57, comma 1, Cost. ha assunto in pratica «una portata limitata», data anche «la struttura a carattere nazionale dei partiti che intervengono nel procedimento elettivo» (C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, I, Padova, Cedam, 1991, p. 475). A ciò si aggiunga che la stessa Costituzione sembra escludere un’interpretazione lata della locuzione «base regionale», laddove non solo prevede (ancorché in numero limitato) i senatori a vita (art. 59) ma anche, a seguito della legge cost. 23 gennaio 2001, n. 1, i senatori eletti nella circoscrizione estero (art. 57, comma 2; in quest’ultimo caso, si è parlato di una «deroga al principio della “base regionale”»: C. FUSARO, M. RUBECHI, Art. 57, in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI, a cura di, Commentario alla Costituzione, II, Torino, Utet, 2006, p. 1148). In concreto, la dottrina maggioritaria ritiene che la regione, ai sensi dell’art. 57, comma 1, Cost., costituisca una mera circoscrizione elettorale senza alcun collegamento tra gli eletti e le amministrazioni regionali. Come si è accennato, l’art. 57, comma 1, Cost. ha esercitato un’influenza rilevante sulla legislazione elettorale per il senato; infatti, fino dalla prima legge elettorale per questo ramo del parlamento (legge 6 febbraio 1948, n. 29), fu previsto un riparto dei seggi a livello regionale, essendo escluso un meccanismo di assegnazione degli stessi a livello nazionale o comunque sovraregionale. Peraltro, alla base di tale scelta, vi furono, nel dibattito che portò alla legge n. 29 del 1948, divergenze proprio circa la latitudine del vincolo costituzionale della «base regionale». In concreto, i seggi erano assegnati in ciascuna regione in collegi uninominali ma con metodo proporzionale d’Hondt a livello regionale, essendo stati del tutto sporadici i casi in cui un candidato in un collegio raggiungesse l’alto numero di voti prescritto dalla legge per la sua elezione «diretta» (ben il 65% dei votanti); al senato quindi il sistema dei collegi uninominali costituiva un’ulteriore differenza rispetto al sistema elettorale della camera, basato su liste plurinominali e sul riconoscimento all’elettore della possibilità di esprimere uno o più voti di preferenza (il sistema delle preferenze multiple, come è noto, è venuto meno solo nel 1991 a seguito del primo dei referendum «Segni»). Tuttavia, fino al 1993 tali differenze non sono mai state tali da determinare maggioranze diverse: il solo caso che si può ricordare in questo senso è quello della prima legislatura nella quale la DC ottenne la maggioranza assoluta dei seggi alla camera ma non al senato a causa della presenza in esso, in forza della III disp. fin. Cost., di ben 107 senatori di diritto, in maggioranza riferibili ai partiti di sinistra. Tuttavia, anche nel primo periodo della storia repubblicana la letteratura politologica (per tutti, A. SPREAFICO, Il rendimento dei sistemi elettorali: il caso italiano, in Quad. cost., 1981, pp. 489 ss.) aveva messo in eviden-

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za il maggior «costo» in termini di voti di un seggio senatoriale per i partiti di consistenza media e piccola. Questi hanno faticato a conseguire una rappresentanza al senato, essendo spesso costretti ad alleanze elettorali o con partiti più grandi (così, il PRI con la DC nelle elezioni del 1963; il PSIUP con il PCI nelle elezioni del 1968 e del 1972) o tra loro (così l’alleanza PSDI-PRI-PLI in alcune regioni nelle elezioni del 1976).

3. La forma di governo nella prima legislatura repubblicana: un premierato ante litteram? «Che il governo parlamentare in Italia non abbia mai funzionato si vede da tanti sintomi. Le crisi di governo non sono mai nate in parlamento. I poteri del presidente del consiglio, per la complessità della struttura dei governi – espressione non solo di coalizioni di partiti ma di coalizioni di correnti – sono stati più poteri di mediazione che di indirizzo. La collegialità del governo – altro snodo fondamentale del governo parlamentare classico – è stata sostituita dal cosiddetto “governo per ministeri”, dove la struttura del governo ha rispecchiato la complessità delle coalizioni; le coalizioni la complessità delle correnti; le correnti la complessità degli interessi. Ogni ministro ha finito così per rappresentare una fetta di questo spettro complicatissimo e per gestire il proprio ministero in piena autonomia, svincolato dalla collegialità. La collegialità è stata sempre più un’apparenza che una sostanza, in quanto mera sommatoria dei poteri dei vari ministeri» (E. CHELI, La forma di governo italiana e le prospettive della sua riforma, in Associazione per gli studi e le ricerche parlamentari, Quaderno n. 12 – Seminario 2001, Torino, 2002, pp. 65-66). Questa citazione dimostra che lo sviluppo della forma di governo italiana nei primi 45 anni di vita repubblicana ha evidenziato fenomeni non agevolmente inquadrabili nel pur labile tessuto prescrittivo della Costituzione e si ricollegano piuttosto, in una sorta di ideale continuità, al periodo statutario ed al periodo costituzionale provvisorio nel quale «si manifestano subito modalità, caratteri, prassi e comportamenti politici che si sarebbero consolidati nel corso dell’esperienza repubblicana e derivanti dal ruolo assunto dai partiti nel determinare la condotta dei pubblici poteri, e in particolare del governo» (P. CALANDRA, I governi, cit., p. 25). L’esile tessuto costituzionale ha consentito aggiustamenti graduali degli equilibri politici tra poteri di indirizzo e poteri di controllo. Infatti, almeno fino al 1993, la flessibilità del modello ha consentito, a seconda del contesto politico, di valorizzare ora le caratteristiche proprie del governo assembleare (si pensi al periodo della c.d. «solidarietà nazionale»), ora quelle del governo presidenziale (si pensi, in particolare, alla lunga fase di transizione dal centrismo al centro sinistra organico, o al periodo successivo alla crisi della «solidarietà nazionale») ora, infine, quelle del governo

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parlamentare (E. CHELI, La forma di governo italiana, cit., pp. 66 ss.). In particolare, la forma di governo nella prima legislatura repubblicana è stata indicata come una parentesi nella quale avrebbero trovato applicazione i principi del «modello di Westminster». A sostegno di questa tesi soccorrono una serie di fattori che certamente rendono la prima legislatura repubblicana un periodo del tutto peculiare. In primo luogo, occorre ricordare il risultato delle elezioni del 18 aprile 1948 che regalò alla DC la maggioranza assoluta dei seggi alla camera e un risultato pressoché analogo anche al senato. In secondo luogo, l’appello agli elettori del 10 febbraio 1948, a nome del governo e dei partiti della maggioranza (DC, PSLI, PRI, PLI), lasciava trasparire una coalizione preelettorale che si candidava alla guida del Paese sotto la leadership di De Gasperi, contro un’altra (PCI, PSI) unita nel Fronte popolare (peraltro, l’appello del febbraio 1948 si spiega anche con il timore che De Nicola, sulla base dell’esperienza statutaria, potesse conferire l’incarico di formare il governo ad un rappresentante della lista più votata, salvo trovare poi una maggioranza in parlamento. In questo modo, l’ufficializzazione della coalizione era finalizzata ad impedire l’incarico ad un esponente del Fronte, ove questo avesse ottenuto la maggioranza anche solo relativa dei seggi: P. CALANDRA, I governi, cit., p. 59). Premiership e leadership coincidono quindi fin dall’inizio della legislatura. Si tratta di una situazione che non si sarebbe verificata più fino al 1994, anche per l’incompatibilità di fatto che la DC successivamente impose tra la carica di segretario politico e quella di presidente del consiglio, con due sole eccezioni (si tratta di Fanfani nel 1959 e di De Mita nel 1988), non a caso di breve durata e risolte con la rapida perdita di entrambe le cariche da pare dei titolari; e ciò per la diffidenza di questo partito verso una eccessiva personalizzazione delle leadership e la concentrazione delle cariche. Tuttavia, fin dalla formazione del primo governo della legislatura emergono pesanti elementi di ambiguità che non consentono di vedere in questo periodo un conato di democrazia maggioritaria. Infatti, la formazione del V governo De Gasperi avviene (maggio 1948) a seguito di una sorta di «crisi-rimpasto» (P. CALANDRA, I governi, cit., pp. 61 ss.), data l’assenza di formali consultazioni del presidente della Repubblica, ma con un passaggio fiduciario, deciso anche per le non poche modifiche rispetto alla compagine precedente. Come è stato giustamente osservato, il fatto che il rapporto di fiducia fosse stato formato o restaurato consente forse di affermare che quello costituito nel maggio 1948 fosse in realtà un nuovo governo (L. PALADIN, Per una storia costituzionale dell’Italia repubblicana, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 81-82), anche se la lettura dei verbali del consiglio dei ministri sembra dimostrare, almeno da parte del ministro di grazia e giustizia Grassi, la consapevolezza che in realtà il governo non risultasse da una crisi, in effetti formalmente non aperta,

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non essendo intervenute le dimissioni (cfr. verbale della seduta del 26 maggio 1948, in F.R. SCARDACCIONE, a cura di, Verbali del consiglio dei ministri, maggio 1948-luglio 1953, I governo De Gasperi, 23 maggio 1948-14 maggio 1950, Roma, presidenza del consiglio dei ministri, dipartimento per l’informazione e l’editoria, 2005, p. 88). Rimane comunque il fatto che la procedura di formazione del nuovo esecutivo risultava per alcuni aspetti irrituale, essendo mancato, tra l’altro, oltre alle consultazioni del presidente del consiglio, il giuramento dei ministri, imposto dall’art. 93 Cost., come fu fatto polemicamente notare da Togliatti e Gullo. Ma a prescindere da questo, la fiducia al governo fu espressa non su una mozione motivata di fiducia, come richiesto dall’art. 94 Cost., ma sulla base di un ordine del giorno generico (per quanto riguarda la camera dei deputati, si tratta dell’ordine del giorno Taviani: «La camera, convinta che il governo intende attuare i principi sociali della nuova Costituzione e affrontare e risolvere i problemi che più pesano sulla vita nazionale, nello spirito di libertà e di democrazia affermato dalle elezioni del 18 aprile, gli esprime la fiducia e passa all’ordine del giorno»), con ciò inaugurando una prassi che sarebbe continuata pressoché ininterrotta fino ad oggi. Tuttavia, ancora più distante da un assetto di democrazia maggioritaria, è il fatto che, nel contesto internazionale dominato dalla guerra fredda, mancava nelle due coalizioni, di maggioranza e di opposizione, un reciproco riconoscimento di legittimità a governare. La campagna elettorale per l’elezione del primo parlamento si svolse su un piano assai più ideologico che programmatico (P. CALAMANDREI, Maggioranza e opposizione, in Il Ponte, 1948, IV), impedendo il valore di una competizione politica basata sui programmi politici e sulle proposte di riforma economica e sociale. L’esito della competizione elettorale, favorevole alla DC più ancora che agli alleati centristi, determinò, da un lato, l’isolamento pregiudiziale dei partiti di sinistra e, dall’altro, il mancato riconoscimento da parte di questi ultimi del diritto della maggioranza a governare: non a caso, al momento della formazione del V governo De Gasperi, Terracini presentò una mozione nella quale si sosteneva l’incostituzionalità di un ministero «nato per escludere dal governo i partiti che rappresentavano le forze popolari». In definitiva, l’assetto delle relazioni tra i soggetti politici, quale si era già manifestato nella seconda fase del periodo costituzionale provvisorio, si è rivelato decisivo per il funzionamento e soprattutto per il rendimento della forma di governo. Come è stato affermato, la conventio ad excludendum ha contribuito non solo a descrivere l’assetto concreto delle modalità di funzionamento della forma di governo italiana almeno fino al 1992 (L. ELIA, Governo (forme di), cit., pp. 657 ss.), imponendo un anomalo meccanismo di razionalizzazione della stessa (attraverso una preventiva «selezione» delle forze

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politiche «utili» per la formazione dei governi) ma anche a «certificare» in qualche modo la natura «antisistema» di alcuni partiti (PCI e, fino al 1964, PSI), anche se ai soli fini della loro partecipazione agli esecutivi, andando quindi ad incidere nella sfera di applicazione del limite ideologico di cui all’art. 49 Cost. Nella produzione legislativa, infatti, l’apporto dei partiti di sinistra si rivelò frequente (favorito, come si è detto, dal sistema delle commissioni deliberanti, di cui all’art. 72 Cost., ampiamente utilizzato fino al 1994) e in alcuni casi determinante (non solo per leggi a contenuto microsettoriale, ma, a partire dalla quarta legislatura, anche su leggi di riforma settoriale: A. PREDIERI, Parlamento 1975, in ID., Il Parlamento nel sistema politico italiano, Milano, Edizioni di Comunità, 1975, p. 52). D’altra parte, la stessa dialettica interna alla coalizione centrista e al partito di maggioranza relativa incise, da una parte, sulla premiership, e, dall’altra, sulla stessa stabilità dei governi. Indubbiamente, il prestigio personale del presidente del consiglio gli rese possibile margini di manovra che nessun altro premier avrebbe avuto almeno fino al 1992: basti pensare, come testimoniato dalla recente pubblicazione dei verbali dei consigli dei ministri (F.R. SCARDACCIONE, a cura di, Verbali, cit., p. 88), alla sua ferma opposizione alla richiesta del ministro dell’interno di proclamare lo stato di pericolo pubblico (art. 214 t.u.l.p.s.), a seguito dell’attentato a Togliatti nel luglio 1948; tale richiesta, di dubbia costituzionalità, avrebbe consentito limitazioni fortissime ai diritti di libertà in un contesto assai vicino ad uno stato di guerra civile. Tuttavia, in generale, la leadership del presidente del consiglio dovette fare i conti con le insofferenze dei partiti laici minori rispetto al predominio democristiano e con le turbolenze interne alla DC, causate da una crescente dinamica conflittuale tra le sue correnti interne. Sul primo punto, la politica degasperiana si basò sulla non autosufficienza della DC, pure numericamente sostenibile, e sulla pervicace ricerca di governi di coalizione con i partiti centristi, anche a costo di sacrificare il «peso» della DC all’interno della compagine governativa (il primo governo della legislatura contò 11 ministri democristiani e ben 9 appartenenti ai partiti alleati). Tuttavia, la necessità di soddisfare gli appetiti dei vari partners della coalizione dette luogo non solo a compagini di governo progressivamente sempre più numerose ma anche alla riproposizione di organi non necessari del governo, noti alla prassi statutaria e ripresi anche nel periodo costituzionale provvisorio: vice-presidenti del consiglio, ministri senza portafoglio e sottosegretari di Stato furono giustificati, nonostante i dubbi di costituzionalità avanzati dalle opposizioni e da una parte della dottrina, più che su fondamenti giuridici (che pure avrebbero potuto essere utilizzati), sulla continuità con la prassi precostituzionale, e su questa base riuscirono ad imporsi. Allo stesso modo, una crescente rilevanza conobbero anche i comitati interministeriali, che però, come la prassi successiva avrebbe dimostrato,

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erano destinati ad incidere in modo significativo sulla politica generale del governo che, ai sensi dell’art. 95 Cost., dovrebbe essere determinata dal consiglio dei ministri e diretta dal presidente del consiglio. La formula del «governo a multipolarità diseguale» (L. VENTURA, Il governo a multipolarità diseguale, Milano, Giuffrè, 1988) si impose quindi già in questo periodo, con una premiership autorevole ma appoggiata con convinzione solo da una parte del suo partito (date le frequenti prese di distanza della corrente di sinistra della DC) e costretta a mediare con alleati che iniziarono progressivamente a marcare la propria identità sia sul piano politico che su quello istituzionale: tutto ciò avrebbe portato nell’arco della legislatura alla formazione di ben tre governi. Sul piano più strettamente istituzionale, già all’inizio della legislatura De Gasperi dovette intervenire nei confronti dei ministri che intendevano esporre in parlamento la parte di programma relativa al settore di loro competenza (P. CALANDRA, I governi, cit., p. 63), chiedendo un mandato fiduciario per la stesura del programma (peraltro, nel dibattito sulla fiducia al V ed al VI governo De Gasperi intervennero nella discussione, oltre al presidente del consiglio, anche nel primo caso il ministro degli esteri Sforza e nel secondo caso i ministri Campilli e La Malfa per alcune puntualizzazioni su punti toccati nel dibattito). Nonostante ciò, il «feudalesimo ministeriale» fu solo limitatamente arginato e non mancarono interventi polemici del presidente del consiglio nei confronti di ministri per esternazioni o per confidenze giornalistiche e illazioni né richiami precisi al principio di collegialità e di coordinamento nella determinazione delle politiche intersettoriali. Come si è detto, però, queste caratteristiche furono, almeno in parte, bilanciate dalla leadership del presidente del consiglio, anche e soprattutto, sul terreno della gestione delle situazioni di crisi politica. Così, De Gasperi gestì in prima persona prima la «pre-crisi» dell’ottobre 1949 (uscita dei ministri del PSLI per facilitare l’unificazione con il gruppo di Romita), con l’assegnazione di interim, che, oltre alle perplessità del PLI, suscitò l’opposizione delle sinistre. Lo stesso iter fu poi seguito dopo le dimissioni dei ministri del PSLI nell’aprile 1951, che furono sostituiti, dopo una consultazione con i presidenti delle camere, attraverso l’interim, con ministri in carica. De Gasperi riuscì poi a pilotare, ma solo parzialmente, la crisi di governo del gennaio 1950, con una comunicazione al consiglio dei ministri nella quale, oltre ad un consuntivo dell’attività del governo, furono enunciate le priorità per il futuro, impostando quindi la base programmatica per la risoluzione della crisi stessa. Infine, anche nell’estate del 1951 i ministri posero a disposizione i portafogli, delegando il presidente del consiglio a scegliere tra il rimpasto e la crisi. Proprio l’oscillazione tra crisi e rimpasto che caratterizza praticamente

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tutta la vicenda della prima legislatura è emblematica, da un lato, delle incertezze ancora sussistenti circa gli strumenti di risoluzione delle situazioni di crisi politica, ma, dall’altro, della cristallizzazione della formula politica che non consentiva deroghe rispetto al perimetro della maggioranza parlamentare, dato dalla coalizione dei quattro partiti centristi. In ogni caso, proprio in questo periodo emersero gli interrogativi sulla liceità e sui limiti (quantitativi e politici) del rimpasto e dei suoi tratti differenziali rispetto all’apertura formale della crisi (è significativo che il dibattito sul rimpasto seguito alla pre-crisi dell’aprile 1951 si concluse alla camera con la reiezione, a seguito di una votazione per appello nominale, di un ordine del giorno Togliatti in cui, tra l’altro, si «deplora il costume incostituzionale di modificare profondamente la composizione politica del governo senza aprire una crisi»). La premiership di De Gasperi si rivelò decisiva anche in situazioni nelle quali era posto in causa l’operato non del governo nel suo complesso ma di singoli ministri; a più riprese il presidente del consiglio si trovò a «coprire» l’operato di componenti del governo rispetto a critiche provenienti dal suo stesso partito: così, solo per citare un esempio, De Gasperi si trovò a solidarizzare con i ministri della difesa (Pacciardi) e degli esteri (Sforza) criticati anche da una parte della DC per la posizione assunta a proposito della guerra di Corea. Certo, questi atteggiamenti non riuscirono ad arginare le situazioni di crisi politica che culminano in tre occasioni nell’apertura formale della crisi di governo. Peraltro, come si è accennato, in un contesto politico dominato dalla conventio ad excludendum e quindi dall’impossibilità di ricambi nella maggioranza così come di un allargamento sostanziale della stessa, le crisi extraparlamentari divennero la regola, dato che il coinvolgimento del parlamento era visto con sfavore, nel timore che potesse acuire i contrasti nella maggioranza; anche per questo, come si è accennato, si affermarono succedanei della crisi, quali, come si è detto, i rimpasti e gli interim, decisi talvolta senza coinvolgere, nemmeno a titolo informativo, le camere. La stessa emersione della questione di fiducia in via di prassi si spiega alla luce delle ragioni che ancora oggi vedono una larga utilizzazione di questo istituto, anche se le primissime, embrionali applicazioni di questo strumento appaiono riconducibili, in primo luogo, all’esigenza di compattare la maggioranza intorno a fondamentali questioni di politica estera e militare, come a proposito dell’adesione dell’Italia alla Nato. È da notare che la sua astratta configurabilità non fu negata nemmeno dalle opposizioni, le quali però la ritenevano ammissibile solo come mera dichiarazione politica, insuscettibile di produrre effetti giuridici: la prassi in materia, quindi, «sorge e si consolida “a colpi di maggioranza”», vale a dire nonostante la resistenza delle opposizioni parlamentari» (M. OLIVETTI, La questione di fiducia nel sistema parlamentare italiano, Milano, Giuf-

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frè, 1996, p. 209) e nella prima legislatura tale istituto assunse le sembianze attuali, riguardo alle modalità procedurali, anche se il suo radicamento determinò non pochi contrasti anche sul piano istituzionale: così, nel febbraio 1952 il presidente della camera Gronchi si dimise in polemica con il suo vicepresidente, Giovanni Leone, che aveva consentito la votazione a scrutinio palese. Il massimo punto di emersione di questo istituto si ebbe nelle sedute del 14-20 gennaio 1953 nella quale la camera discusse il disegno di legge di revisione della legge elettorale, meglio nota come «legge truffa». In altre occasioni, però, in un contesto politico più instabile, il presidente del consiglio fu costretto a «ripiegare» su uno strumento più tradizionale e indice di una minore forza della premiership, ovvero la minaccia di dimissioni, come nel febbraio 1951 allorché l’emersione del fenomeno dei franchi tiratori su un decreto legge sulle giacenze delle materie prime rischiò di determinare la reiezione del decreto stesso. Come si è detto, a marcare la differenza rispetto alla premiership inglese, furono anche gli evidenti condizionamenti derivanti dalle dinamiche interne alla DC. Da questo punto di vista, la presenza nel V governo De Gasperi del segretario DC Piccioni come ministro senza portafoglio costituì indubbiamente un fattore di «garanzia politica» per il presidente del consiglio (anche Gonella divenne segretario della DC nell’aprile 1950, ricoprendo la carica di ministro di grazia e giustizia nel VI governo De Gasperi; dopo l’elezione mantenne anche il portafoglio ministeriale), ma non riuscì a contenere l’attivismo della corrente di sinistra del partito che in più di un’occasione si comportò nei confronti del governo e del presidente del consiglio più o meno come un vero partito: così, è da ricordare la clamorosa sconfitta anche personale di De Gasperi nell’elezione del capo dello Stato, con il suo candidato (Sforza) sconfitto per la sostanziale dissociazione della corrente dossettiana sul suo nome. Ancora, solo per citare alcuni esempi, nel 1949 la sinistra DC determinò una situazione di «pre-crisi», con le dimissioni, poi rientrate, del ministro Fanfani e del sottosegretario La Pira causate dall’assenza della corrente nella direzione del partito che avrebbe impedito una corresponsabilità nel governo (P. CALANDRA, I governi, cit., p. 67); la stessa corrente non entrò nel VI governo De Gasperi per il rifiuto di quest’ultimo di proporre la nomina di Dossetti a ministro del lavoro, mentre nel VII governo De Gasperi Fanfani fu nominato ministro dell’agricoltura «a titolo personale», dopo un’ennesima polemica tra De Gasperi e Dossetti, determinando l’indebolimento in partenza della compagine governativa. Peraltro, anche le correnti moderate del partito, da parte loro, ostacolarono l’azione dei governi, soprattutto nel settore delle politiche sociali e della riforma agraria. In questo contesto, come ormai è stato ampiamente dimostrato, la presidenza della Repubblica esercitò un ruolo né notarile, né assente (per tut-

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ti, L. PALADIN, Per una storia, cit., pp. 85 ss.), anche se l’esistenza di un partito dotato di una maggioranza «quasi assoluta» in parlamento «lasciava scarso margine a iniziative presidenziali cariche di conseguenze politiche» (L. ELIA, Governo (forme di), cit., p. 661), a partire dalla nomina del presidente del consiglio. Tuttavia, è altresì vero che «chi guarda alle vicende di rilievo costituzionale del periodo degasperiano deve infatti riconoscere che l’evidenziarsi dell’organo presidenziale, in forme diverse e più spiccanti rispetto a quelle previste dalla Costituente, rappresentò il fatto nuovo di maggiore importanza, attuale e soprattutto potenziale» (L. PALADIN, Per una storia, cit., p. 84). In particolare, pur avendo valorizzato un approccio collaborativo e riservato, attraverso «una fitta serie di rilievi e di consigli, senza mai dare luogo a veri e propri veti» (L. PALADIN, Per una storia, cit., p. 85), Einaudi, pure eletto dalla sola maggioranza parlamentare senza alcun coinvolgimento né confronto con le opposizioni, riuscì ad imporre un’interpretazione non testuale dell’art. 89, comma 1, Cost. quantomeno con riferimento alla nomina dei senatori a vita e dei cinque giudici della corte costituzionale, ed al rinvio delle leggi ex art. 74 Cost., suscitando in quest’ultimo caso le perplessità di De Gasperi (in effetti, i primi rinvii di Einaudi non furono controfirmati dal presidente del consiglio). Da più parti, anche nella letteratura dell’epoca (G. BALLADORE PALLIERI, La Costituzione italiana nel decorso quinquennio, in Foro pad., 1954, IV, pp. 49 ss.) furono messe in luce le anomalie derivanti da un assetto della forma di governo nella quale erano ancora inattuati importanti istituzioni o istituti di garanzia, in un contesto di generale inadempimento costituzionale riconducibile, per la verità, non solo a ragioni politiche. In effetti, in più occasioni le opposizioni di sinistra contestarono, in particolare, l’assenza di strumenti come la corte costituzionale o il referendum abrogativo (che pure avevano contrastato in Assemblea costituente), perché essi avrebbero potuto contrastare il presunto assolutismo del circuito governo-maggioranza parlamentare. Ciò detto, se è indubbio che l’inattuazione costituzionale ha avuto un rilievo significativo nel funzionamento della forma di governo nella prima legislatura, è altresì vero che questo stesso periodo si caratterizzò per la mancata adozione di regole istituzionali tendenti a valorizzare un ruolo direttivo del governo secondo linee emerse già nel dibattito costituente. Così, non andò a buon fine il tentativo degasperiano di attuare l’art. 95, comma 3, Cost.: la proposta di legge n. 2762 (A.C., presentata il 6 giugno 1952) si proponeva di definire le attribuzioni degli organi del governo della Repubblica e l’ordinamento della presidenza del consiglio dei ministri, allo scopo di fornire un quadro legislativo unitario e coerente, fino a quel momento surrogato da atti legislativi precostituzionali, peraltro di dubbia applicabilità (si pensi al c.d. «decreto Zanardelli» del 1901 ovvero alla legge n. 100 del 1926 sui poteri normativi), o, ancor più, da prassi precostituzionali, di epoca statutaria.

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Anche sul piano politico, la mancata attuazione dell’art. 95, comma 3, Cost. risultò significativa; non si può escludere infatti che con il disegno di legge in esame De Gasperi cercasse una sorta di base normativa ad una leadership che già nel 1952 aveva risentito fortemente dell’instabilità del quadro politico: vi è in questo una singolare e paradossale coincidenza con gli anni ottanta, allorché l’attuazione dell’art. 95 Cost. si ripropose in un contesto di presidenti del consiglio non appartenenti alla DC e perciò politicamente più deboli. Tuttavia, la rinuncia all’attuazione dell’art. 95 Cost., nell’impossibilità di riferirsi alla legislazione fascista sulle attribuzioni del capo del governo, significò di fatto la reviviscenza del decreto Zanardelli (R.D. n. 466 del 1901): il risultato, come è stato esattamente osservato, fu l’esaltazione teorica del principio di collegialità (minato però alle fondamenta, come si è detto, dal «feudalesimo ministeriale») e l’indebolimento del presidente del consiglio, cui, non a caso, come si è accennato, già la dottrina dell’epoca negò la possibilità di proporre la revoca o la sostituzione dei ministri (E. TOSATO, Revoca dei ministri, in Rass. dir. pubbl., 1948, I, pp. 133 ss.; A. PREDIERI, Lineamenti, cit., pp. 152 ss.). Similmente, anche la scelta delle camere di adottare regolamenti assai debitori dell’esperienza liberale (la camera dei deputati adottò il regolamento vigente presso la camera statutaria fino al 1922) è un sintomo evidente della volontà di non assecondare regole e procedure ispirate ad un funzionamento in senso maggioritario del sistema parlamentare; tutto ciò si spiega, ancora una volta, per l’esistenza della conventio ad excludendum che spinse a lasciare indeterminate le regole di funzionamento del gioco parlamentare, in modo da consentire alle Assemblee elettive di esercitare sia un ruolo di tribuna, in cui sono valorizzate le contrapposizioni tra le forze politiche, sia un ruolo di «integrazione» delle minoranze nei processi decisionali (N. LUPO, I regolamenti parlamentari nella prima legislatura repubblicana (1948-1953), in Giorn. storia cost., 2008, n. 15, pp. 118 ss.). In definitiva, le due vicende dimostrano la sottovalutazione, probabilmente consapevole, degli strumenti di razionalizzazione della forma di governo di livello infracostituzionale. Di fatto, come si dirà, l’unico improprio surrogato di tali strumenti sarebbe stata proprio la riforma elettorale del 1953 (legge n. 148), dettata allo scopo di «blindare» la coalizione centrista al fine di evitare rischi concreti di ingovernabilità, attraverso la previsione di un premio di maggioranza pari a 380 seggi su 590 alla camera (e quindi pari a poco meno dei 2/3 dei seggi), in favore della coalizione più votata che avesse comunque ottenuto la maggioranza assoluta dei voti validamente espressi. Il premio di maggioranza, ove fosse scattato e si fosse radicato nell’ordinamento, avrebbe potuto facilitare «l’instaurarsi di un rapporto diretto tra il presidente del consiglio designato e la coalizione da un canto, e il corpo elettorale dall’altro», con «un premier con un maggiore ascendente

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sul governo; un esecutivo non subalterno ai gruppi parlamentari; un rapporto più equilibrato tra rappresentanza parlamentare e partiti» (G. QUAGLIARIELLO, Cinquanta anni dopo la riforma elettorale del 1953, in S. CECCANTI, S. VASSALLO, a cura di, Come chiudere la transizione, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 72-73). Una tale evoluzione era però solo uno degli svolgimenti possibili della forma di governo, non essendo condivisa, tra l’altro, né da una parte non irrilevante della DC né dai partiti alleati; e non è un caso che di una tale possibile evoluzione si trovano spunti assai ridotti nella dottrina dell’epoca, assai più attenta ai profili di costituzionalità della nuova legge (il pensiero corre, ovviamente, innanzitutto a C. LAVAGNA, Il sistema elettorale nella Costituzione italiana, in Riv. trim. dir. pubbl., 1952, pp. 875 ss.) o alle conseguenze indirette che essa avrebbe potuto indurre sulla composizione degli organi di garanzia (G. BALLADORE PALLIERI, La Costituzione italiana, cit.). Da questo punto di vista, il premio appare, più ancora che un correttivo della forma di governo, come pure fu letta da una parte della dottrina dell’epoca, un surrogato dei congegni di stabilizzazione dei governi, prefigurati dall’ordine del giorno Perassi ma non recepiti nella Costituzione (L. ELIA, La forma di governo, in M. FIORAVANTI, a cura di, Il valore della Costituzione, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 66); di fatto, esso appare il tentativo estremo di «cristallizzare», nell’ottica della conventio ad excludendum, l’unica maggioranza parlamentare possibile che però aveva già mostrato segni di cedimento nelle elezioni amministrative precedenti (per tutti M.S. PIRETTI, La legge truffa, Bologna, Il Mulino, 2003). Sul punto, non è irrilevante, come si dirà più oltre, il fatto che la legge in questione si riferisse solo al sistema elettorale della camera, come se il parlamento «costituisse un corpo unitario e non fosse diviso in camere distinte» (G. GUARINO, Lo scioglimento anticipato del senato, in Foro it., 1953, IV, p. 90); pertanto, il disegno politico sotteso all’approvazione della legge n. 148 del 1953 confidava probabilmente nella possibilità di pervenire, subito dopo il rinnovo della camera, all’approvazione di una legge analoga anche per il senato (che, come è noto, scadeva l’anno successivo, stante quanto disposto dall’art. 60, comma 1, Cost.). Viceversa, lo scioglimento del senato decretato nel marzo 1953 vanificò questo possibile intendimento (cui De Gasperi alluse in una conferenza stampa del 4 aprile 1953), nella misura in cui il rinnovo delle due camere con sistemi elettorali diversi avrebbe potuto rendere la coalizione centrista minoritaria al senato, con il rischio per la DC di ricorrere all’appoggio dei partiti di destra, capovolgendo o modificando l’alleanza uscita premiata dalle urne, e quindi indirettamente legittimata ad esprimere il governo (G. GUARINO, Lo scioglimento anticipato del senato, cit., p. 91). Per quanto riguarda lo scioglimento del senato del 1953, le interpretazioni sono state fino ad oggi assai diverse: a fronte di chi mette in evidenza il carattere tecnico dello scioglimento, derivante dalla necessità di ele-

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zioni contestuali per i due rami del parlamento (M.L. MAZZONI HONORATI, Aspetti giuridici e prassi costituzionale dello scioglimento delle camere nell’ordinamento costituzionale italiano, in Riv. trim. dir. pubbl., 1978, pp. 1307 ss.), altri mettono in evidenza il peso determinante del capo dello Stato, la cui valutazione autonoma sarebbe risultata decisiva (G. GUARINO, Lo scioglimento anticipato del senato, cit.), mentre altri ancora valorizzano il ruolo determinante del governo e, all’interno di esso, del presidente del consiglio, date le divisioni all’interno della maggioranza (L. CARLASSARE, Art. 88, cit., pp. 41 ss.). Non appare dubbio che lo scioglimento del senato costituì una decisione favorevole alla maggioranza, data la diversa composizione della camera alta, nella quale i senatori di diritto rendevano la vita più difficile alla coalizione centrista. Tuttavia, tale considerazione da sola non appare decisiva, per inquadrare questo scioglimento come «governativo» o «all’inglese». In primo luogo, infatti, non sembrano trascurabili alcuni dati formali che invece appaiono sottovalutati da una parte della dottrina: il decreto di scioglimento non menziona né la proposta del presidente del consiglio né l’intervento del consiglio dei ministri (peraltro, è ormai certo che il consiglio dei ministri discusse approfonditamente sul tema nella seduta del 30 marzo 1953: F.R. SCARDACCIONE, a cura di, Verbali del consiglio dei ministri, maggio 1948-luglio 1953, III governo De Gasperi, 26 luglio 1951-7 luglio 1953, Roma, presidenza del consiglio dei ministri, dipartimento per l’informazione e l’editoria, 2007, pp. 679 ss.) e questo elemento non sembra possa essere derubricato o avere un’importanza minore rispetto a quella di fonti extraistituzionali, come, ad esempio, gli articoli della stampa quotidiana o le dichiarazioni di esponenti politici. D’altra parte, il fatto che lo scioglimento fosse congeniale (o non inviso) alla maggioranza non appare un elemento decisivo per qualificare lo stesso come «governativo», giacché è in ogni caso estranea alla ratio dell’art. 88 Cost. (salvi discussi casi eccezionali) l’ipotesi di una decisione presidenziale assunta contro la maggioranza parlamentare. In questo senso, anche il lungo incontro tra Einaudi e De Gasperi del 1° aprile induce a ritenere che la tesi la quale inquadra lo scioglimento tra gli atti complessi trovi già nello scioglimento del 1953 un qualche utile riferimento (non a caso, il decreto di scioglimento recava la sola controfirma del presidente del consiglio). Del resto, in punto di fatto, lo scioglimento del senato appariva una soluzione assai congeniale anche nell’ottica del capo dello Stato: lo scioglimento, infatti, «non impediva alla legge elettorale di entrare in funzione; dall’altra esso svuotava il nuovo sistema, nella prima applicazione, di parte del suo contenuto», poiché «se la maggioranza avesse ottenuto nel senato una supremazia pari a quella ad essa assicurata dal sistema introdotto per la camera, nessuno avrebbe avuto più interesse a sollevare la questione di legittimità della nuova legge elettorale; e se al contrario i risultati fossero stati sostanzialmente diversi nel senato,

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la questione di legittimità sarebbe divenuta in qualche misura superflua poiché nel frattempo gli effetti della legge sarebbero stati in parte annullati» (G. GUARINO, Lo scioglimento anticipato del senato, cit., p. 98). A ciò si aggiunga l’effetto politicamente «distensivo» dello scioglimento, che infatti spostò l’attenzione dei partiti verso le future, imminenti elezioni per entrambi i rami del parlamento. Rimane comunque il fatto che proprio quello del 1953 rimane un episodio comunque peculiare, nella misura in cui il ruolo del presidente del consiglio è stato comunque assai più significativo di quanto non sarebbe stato in seguito; nella procedura di scioglimento, infatti, il ruolo determinante di fatto è stato svolto dalle forze politiche, cosicché sia il capo dello Stato che il presidente del consiglio hanno esercitato prerogative solo formali: l’impossibilità di dare vita ad una nuova maggioranza parlamentare o la riproposizione di quella uscente ha fatto assomigliare lo scioglimento ad una sorta di «autoscioglimento».

4. La forma di governo nel periodo 1953-1981: le coalizioni come «necessità istituzionale» Il mancato conseguimento del premio di maggioranza da parte della coalizione dei partiti centristi nelle elezioni del 1953 segna la fine politica di De Gasperi e determina la definitiva eclissi di quel conato di democrazia maggioritaria che l’esito delle elezioni politiche del 18 aprile 1948 ha delineato. La successiva, pressoché immediata, abrogazione della «legge truffa» (legge 31 luglio 1954, n. 615) a grande maggioranza pone fine, altresì, fino al 1994, tanto al radicamento di coalizioni preelettorali che alle leadership delle stesse: in un tale contesto, il multipartitismo estremo che ha caratterizzato il nostro sistema politico, accentuato da leggi elettorali accentuatamente proporzionali, non ha incontrato più alcuno strumento di razionalizzazione sul piano dell’offerta elettorale. Con le dimissioni dell’VIII governo De Gasperi, che non ottiene la fiducia iniziale (luglio 1953), ha fine la (breve) stagione della coincidenza fra le leadership di partito e di governo. Salvo brevi eccezioni (cfr. infra), la separazione delle due cariche diviene una costante, fino a diventare norma scritta nello statuto della DC. La ragione di questa singolare regola (che costituisce una vera peculiarità della forma di governo italiana fino al 1994) sta, in realtà, nella strutturazione in «correnti» della democrazia cristiana (e di quasi tutti gli altri partiti italiani) e nella necessità di reciproche garanzie di potere che da questa strutturazione derivavano. Alle debolezze tipiche del governo di coalizione si aggiunge, dunque, la debolezza ulteriore dovuta alla difficilissima conciliazione nel governo di correnti di partito che si considerano, in realtà, come partiti, quasi autosuffi-

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cienti anche dal punto di vista dei finanziamenti (cfr. G. PASQUINO, La partitocrazia, in La politica italiana, dizionario critico, 1945-’95, Roma-Bari, Laterza, 1995, p. 345). Le due uniche eccezioni (Fanfani nel 1958-’59; De Mita nel 1988-’89), come si è già ricordato, hanno finito per confermare e rafforzare tale regola, nella misura in cui il cumulo delle cariche ha avuto breve durata e si è risolta con l’allontanamento dei titolari da entrambe le cariche. A ciò si aggiunga che, proprio sul presupposto dell’instabilità ministeriale e della mutevolezza delle compagini governative, talvolta un esponente della DC, officiato dal capo dello Stato per formare il governo, ha preferito non accettare l’incarico preferendo candidarsi alla segreteria del partito. In questo periodo, il «governo di coalizione» rappresenta una necessità istituzionale ma assume le sembianze della coalizione post-elettorale, nella quale «i partiti tendono a rimarcare di fronte agli elettori la loro identità e quindi l’autonomia programmatica rispetto ai potenziali partners della coalizione»; in tal caso, «i partiti, dopo le elezioni sono liberi nella individuazione della formula politica, dei profili programmatici della coalizione e della struttura personale del governo» e «la rottura degli accordi interpartitici non sanzionati dal corpo elettorale e la formazione di una nuova coalizione non richiedono, almeno di regola, una nuova consultazione elettorale» (G. PITRUZZELLA, Artt. 92-93, in Commentario della Costituzione – Il consiglio dei ministri, Bologna-Roma, Zanichelli-Il foro italiano, 1994, p. 30). In definitiva, come è stato autorevolmente affermato, «ciò che caratterizza il sistema italiano, accanto alla convenzione “ad excludendum” ed all’assenza di convenzioni per stabilizzare le alleanze di governo (con la conseguenza delle crisi extraparlamentari in tempi ravvicinati) è che l’instabilità e la scarsa operatività dei ministeri si accompagnano alla presenza di un partito a maggioranza relativa nettamente più forte degli altri partiti partecipanti alle alleanze: alleanze che tuttavia restano necessarie, perché il partito più numeroso non riesce a raggiungere la maggioranza assoluta» (L. ELIA, Governo (forme di), cit., p. 657). Tale citazione esprime plasticamente il modello di forma di governo quale si è venuto radicando nel nostro Paese. A partire dalla seconda legislatura le compagini di governo si formano a seguito di faticosi accordi tra partiti ma nel costante perimetro dato dalla conventio ad excludendum che comunque conosce già con il governo Pella (agosto 1953-gennaio 1954) un primo ridimensionamento nei confronti di formazioni di destra che partecipano alla maggioranza di governo anche nel gabinetto Zoli (maggio 1957-giugno 1958) e nel contestatissimo governo Tambroni (marzo-luglio 1960); nella stagione della solidarietà nazionale, un partito scissionista del MSI, Democrazia Nazionale, appoggia il governo Andreotti IV (marzo 1978-gennaio 1979), allo scopo di controbilanciare l’appoggio dei comunisti. Come è noto, a sinistra la conventio è superata definitivamente solo a partire dal 1964 per il PSI e

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viene derogata nella stagione della solidarietà nazionale per il PCI, anche se, già a partire dalla fine degli anni sessanta, la teorizzazione del c.d. «arco costituzionale» determina il coinvolgimento dei comunisti, oltre che nella produzione legislativa ordinaria (cfr. infra), nella legislazione di attuazione della Costituzione e in alcune fondamentali leggi di riforma. Anche se è certamente sostenibile l’irrilevanza costituzionale della conventio e la sua irriducibilità alle convenzioni costituzionali (A. D’ANDREA, Accordi di governo e regole di coalizione. Profili costituzionali, Torino, Giappichelli, 1991, pp. 26 ss.), rimane il fatto che essa ha caratterizzato in profondità la forma di governo italiana fino al 1994, incidendo sulla sua funzionalità. È quindi la conventio ad excludendum la chiave di lettura che spiega la chiusura delle coalizioni di governo, con poche eccezioni, alle formazioni politiche di destra e soprattutto di sinistra: con questa limitazione, «al centro […] dal momento che per fare maggioranza era necessario un gioco sulle mezze ali delle coalizioni, le crisi erano frequenti e le formule di governo avrebbero sperimentato tutto l’arco delle variabili nel quadro delle combinazioni possibili» (P. CALANDRA, I governi, cit., p. 15). In questo contesto, i programmi di governo sono apparsi generici e ripetitivi e, per di più, spesso disattesi. Sul punto, anche se da un punto di vista formale è da sottolineare che «l’atto programma di governo, con gli effetti tipici che l’ordinamento ad esso ricollega in ordine all’instaurazione della fiducia ed alla fissazione dell’indirizzo politico, viene giuridicamente in essere unicamente con la deliberazione consiliare successiva alla nomina», in quanto «solo in tale momento la determinazione del programma è compiuta dai ministri non come esponenti di partito ma in quanto tali ed in relazione specifica alla votazione delle camere» (M. GALIZIA, Studi sui rapporti fra Parlamento e Governo, I, Milano, Giuffrè, 1972, p. 428), è altresì vero che esso raramente ha avuto una sostanziale autonomia rispetto all’accordo di coalizione che lo precede (A. D’ANDREA, Accordi di governo, cit., p. 34). Infatti, l’attenzione prevalente è stata data alla formula politica più che ai contenuti programmatici e ciò nella logica di «“un” programma di governo riferito alla formula» (P. CIARLO, Mitologie dell’indirizzo politico e identità partitica, Napoli, Liguori, 1988, p. 129), tale da consentire al governo una più attenta e puntuale riflessione sulle soluzioni da presentare alla valutazione del parlamento, come è testimoniato dai frequenti ricorsi a «governi di programma» che altro non sono stati che specificazioni di una precisa formula politica (soprattutto nei momenti di crisi della stessa). In un assetto multipartitico frammentato come quello italiano l’esistenza di patti di coalizione ha assunto un rilievo particolare, tanto che se ne è individuato, forse discutibilmente, nello stesso art. 94 Cost. il fondamento (M. CARDUCCI, L’«accordo di coalizione», Padova, Cedam, 1989, pp. 176 ss.). I patti di coalizione sono rimasti nella disponibilità dei partners di governo la cui aggregazione in coalizione è stata ben lungi dalla forma-

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zione di un superpartito, cosicché il recesso di uno di essi, ancorché numericamente non necessario per la sopravvivenza del governo, ha determinato, pressoché sempre, la crisi di governo (G. FERRARA, Il governo di coalizione, Milano, Giuffrè, 1973, p. 92). A partire dalla formazione del governo Scelba nel 1954, infatti, viene affermandosi la c.d. convenzione della «pari dignità» che viene poi «codificata» nella formazione del governo Fanfani III (luglio 1960-febbraio 1962) che si dimette dopo il ritiro dal governo del PSDI e del PRI. Certo, la differenza tra i partiti maggiori e quelli più piccoli della coalizione rimane comunque nel fatto che, anche se la crisi poteva essere aperta da un soggetto numericamente minore, l’intesa tra i partiti maggiori rimaneva essenziale per la soluzione della crisi. In effetti, una caratteristica peculiare degli esecutivi anche di questo periodo è l’«investitura perpetua della DC nel potere governativo», unita alla struttura esasperatamente correntizia del partito di maggioranza relativa (E. CHELI, Costituzione, cit., p. 171). Tale preminenza è temperata dai partiti laici minori in una prima fase, e più significativamente dal PSI a partire dalla IV legislatura. La continuità di presenza nei governi del partito di maggioranza relativa è attestata dal fatto che nel periodo 1953-1981 si sono avuti ben 14 governi su 32 espressi dalla sola DC (formula paradigmatica di Esecutivi di breve durata), 2 governi bicolore (di cui uno DC-PSDI e uno DC-PRI), 9 governi tripartiti (4 DC-PSDI-PLI; 2 DC-PSDI-PRI, 1 DC-PSU-PRI, 1 DCPSI-PRI), 7 di centro sinistra (DC-PSI-PSDI-PRI). Peraltro, anche la formazione dei governi monocolore, stante l’articolazione correntizia della DC, non si è rivelata semplice, essendo comunque necessario un accordo tra le componenti interne di questo partito (P.A. CAPOTOSTI, Accordi di governo e presidente del consiglio dei ministri, Milano, Giuffrè, 1975, p. 123). La preminenza della DC ha determinato anche nel periodo post degasperiano la costante attribuzione a tale partito della presidenza del consiglio, anche se fino dall’avvento del centro sinistra organico il tema della cessione della guida del governo da parte di tale partito emerge con chiarezza, senza però condurre ad esiti concreti. In ogni caso, già nel novembre 1968 il capo dello Stato conferisce al presidente della camera, Pertini, un mandato esplorativo conclusosi nell’arco di un giorno anche per il ricompattamento della DC proprio per il timore di perdere la presidenza del consiglio. Nel 1979 l’incarico senza successo al leader del PRI, La Malfa, finisce sotto i veti incrociati della DC (ancora ostile sia a cedere la presidenza del consiglio che a consentire l’ipotizzata partecipazione al governo di indipendenti di sinistra, graditi al PCI), del PCI (desideroso di una legittimazione formale quale partner di governo) e del PSI (timoroso della formazione di un governo sostenuto dai due maggiori partiti, con il PRI in funzione di «cerniera»). Analogamente, l’incarico, anch’esso senza successo, conferito al segretario del PSI, Craxi, nel 1979 all’inizio della VIII legi-

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slatura (sembra per iniziativa «propria» del capo dello Stato, cogliendo di sorpresa l’interessato) segna un deterioramento nei rapporti tra DC e PSI che avrebbe portato faticosamente alla formazione del primo governo Cossiga, senza la partecipazione diretta del PSI (che assicura infatti solo l’astensione, così come il PRI). Tuttavia, rispetto a questa «regolarità», non è stata irrilevante l’influenza esercitata dagli alleati del partito di maggioranza relativa che spesso ha impedito l’assunzione della carica di questo o di quell’esponente della DC (L. ELIA, Governo (forme di), cit., p. 657). In concreto, allora, si sono succedute premiership fortemente sostenute ora dal capo dello Stato (così, Pella, Tambroni), ora dal segretario della DC (ad esempio, Zoli), ora dal fatto di essere riferita a chi era stato segretario e leader della corrente più forte della DC (Rumor) o dalla capacità di trovare punti di equilibrio all’interno della DC e tra questa e i partiti alleati (Moro, Andreotti) (P. CALANDRA, I governi, cit., p. 19). È evidente come un fattore intrinseco di debolezza del presidente del consiglio sia stato, in alcuni casi, la sua non appartenenza alla corrente maggioritaria della DC; ciò che lo ha costretto ad una faticosa e paziente opera di mediazione con la segreteria del partito, oltre a quella, altrettanto faticosa e paziente, con gli alleati. Se quindi è costantemente mancata la coincidenza tra premiership e leadership un ulteriore motivo di debolezza dei governi è stato dovuto al fatto che anche i segretari dei partiti alleati della DC solo raramente hanno assunto portafogli ministeriali, preferendo veicolare la nomina di altri esponenti, talvolta di correnti opposte alle loro, in una logica «compensatoria» finalizzata al mantenimento dell’unità interna. A conferma della prassi italiana si deve poi ricordare che con la formazione del primo governo Moro, il primo del c.d. centro sinistra organico, i segretari entrano effettivamente nel governo ma vengono tutti sostituiti alla guida dei rispettivi partiti di lì a poco. Tutto ciò ha reso impossibile attuare proposte di «gabinetto ristretto» che, come si è detto, trovavano alcuni precedenti nel periodo costituzionale provvisorio: tali proposte, avanzate anche dopo la crisi del governo Andreotti II (giugno 1972-giugno 1973) e del governo Rumor IV (luglio 1973-marzo 1974) non hanno avuto alcuna attuazione per il timore che un fallimento di un percorso di mediazione interno a tale organo potesse aumentare il tasso di instabilità ed il connesso rischio di elezioni anticipate (L. ELIA, Il «direttorio» nel Governo di coalizione, in Giur. cost., 1971, pp. 2813 ss.). A ciò si aggiungevano motivazioni di ordine costituzionale, a cominciare dall’impossibilità di immaginare un vero e proprio Cabinet sul modello britannico o, formalmente, un comitato di ministri con competenze di direzione politica generale. Le considerazioni che precedono contribuiscono a spiegare perché nel periodo in esame la struttura policentrica e flessibile del governo, insita nel combinato disposto degli artt. 92 e 95 Cost., ha risentito in modo deci-

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sivo dell’assetto del sistema politico: come è stato giustamente affermato, «un esecutivo di tipo monocratico può trovare fondamento solo in un sistema politico con un numero ridotto di partiti e, soprattutto, che non presupponga la necessità di coalizioni articolate, per formare la maggioranza di governo», cosicché «quando le coalizioni presentano un elevato tasso di conflittualità interna e il policentrismo governativo assume forme molto spinte, il presidente del consiglio non riesce, in pratica, a svolgere le sue funzioni di coordinamento e promozione e il rendimento dell’esecutivo si abbassa a livelli non accettabili» (P. CIARLO, Art. 95, in Commentario della Costituzione – Il consiglio dei ministri, cit., rispettivamente p. 381 e 382). È noto che né il principio monocratico né quello collegiale si sono affermati compiutamente, mentre si è radicato quel modello di governo a «direzione plurima dissociata» o di governo «a multipolarità diseguale» (L. VENTURA, Il governo, cit.) che ha esaltato un «feudalesimo ministeriale», frutto di una prassi che ha reso i ministri parte della delegazione del proprio partito nell’esecutivo e responsabili nei confronti del partito stesso. In questo senso, gli unici casi di dimissioni dei ministri per motivazioni politiche sono stati, per così dire, richiesti o assentiti dai loro partiti. Inconcepibile politicamente (prima ancora che giuridicamente) la revoca dei ministri da parte del presidente del consiglio, la stessa previsione della sfiducia individuale, codificata nel 1986 nel regolamento della camera (art. 115, comma 3) ma la cui ammissibilità deriva da alcuni precedenti non contestati, non ha trovato alcuna attuazione nella prassi, essendo costante atteggiamento dei presidenti del consiglio quello di «coprire» i ministri qualora emergessero responsabilità individuali. Le dinamiche coalizionali hanno determinato la formazione di compagini governative spesso pletoriche, caratterizzate da un vasto ricorso a ministri senza portafoglio, sottosegretari di Stato, funzionali a realizzare un equilibrio politico tra i partners della coalizione. E ciò ha posto il problema della «governabilità del governo», anche per la scarsa autorità politica del presidente del consiglio e per gli scarsi strumenti normativi ad esso riconosciuti nei confronti dei singoli ministri (C. CHIMENTI, Un parlamentarismo agli sgoccioli. Lineamenti della forma di governo italiana nell’esperienza di dieci legislature, Torino, Giappichelli, 1992, p. 183). Tale evoluzione è frutto della trasformazione della fiducia in una relazione tra il governo ed i partiti della maggioranza che ha caratterizzato la forma di governo italiana fino al 1993 (ma, come si vedrà, essa si è «trasferita» anche nel periodo successivo, sia pure temperata da fattori nuovi ed inediti) in un filo ideale di continuità con il periodo costituzionale provvisorio (G. PITRUZZELLA, Artt. 92-93, cit., p. 25). In questo contesto il presidente del consiglio non ha esercitato di fatto la funzione di assicurare l’unità politica nella formazione del governo, che si è di fatto radicata nei partners della coalizione, né ha avuto un ruolo de-

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terminante nella decisione dei contenuti del programma di governo, la cui redazione è scaturita da un’opera spesso faticosa di mediazione tra i partiti della maggioranza, sotto la regia, più o meno efficace ed assentita a seconda dei casi, del presidente del consiglio incaricato. Così, quest’ultimo ha finito per apparire una sorta di responsabile-fiduciario degli accordi di maggioranza, finendo per apparire come «una sorta di superministro-coordinatore, che ha una sfera di competenza, una sua “sfera di autorità” relativa al coordinamento delle politiche settoriali del governo, fatta di mediazioni dei contrasti di interessi e personali, senza però una dotazione di poteri decisori al riguardo» (L. VENTURA, Il governo, cit., p. 96). L’instabilità politica ha fortemente connotato questo periodo: la durata media dei 32 governi nel periodo 1953-1981 è stata ben al di sotto dell’anno (284 giorni), mentre sono stati ben 1103 i giorni complessivi di durata delle crisi di governo (che in media hanno superato la durata di un mese, precisamente 34,4 giorni). Solo un governo è durato più di due anni (il governo Moro III: febbraio 1966-giugno 1968) e solo 5 governi hanno superato i 18 mesi (Segni I, Moro II, Andreotti III, Fanfani III, Colombo). L’instabilità governativa è risultata ancora più evidente nelle lunghe fasi di crisi e di transizione da una stagione politica ed un’altra: così tra la crisi del centrismo e l’avvento del c.d. centro sinistra organico sono trascorsi dieci anni e mezzo e dodici diversi governi di cui ben 8 monocolori DC; ma la stessa crisi della formula del centro sinistra, che tradizionalmente è fatta risalire alla quinta legislatura si trascina fino all’inizio della settima legislatura con la breve parentesi della c.d. solidarietà nazionale. Anche in questo caso, nel periodo 1968-1976 si contano ben 11 governi, di cui 4 monocolori. Come si è detto, le crisi in questo periodo sono servite a superare condizionamenti e limitazioni derivanti dalla conventio ad excludendum. Nei lunghi periodi di passaggio da una formula politica all’altra, la debolezza dei governi è testimoniata dall’abbondanza di esecutivi privi di una maggioranza precostituita o, comunque, ontologicamente transitori, quali i governi «balneari», «ponte», riconducibili allo schema dei governi amministrativi (cfr. infra, cap. 4, par. 2). Sul primo punto, l’alto numero di governi di «minoranza precostituita» (si pensi al governo Zoli) ha reso di una certa importanza sia il contenuto delle dichiarazioni programmatiche del presidente del consiglio alle camere (si pensi al governo Andreotti III, nel quale l’astensione di PCI e PLI è stata decisa a seguito delle dichiarazioni programmatiche) sia, in alcuni casi, la replica dello stesso, che è risultata determinante per le sorti del neonato governo (si pensi al governo Tambroni), pur essendo talvolta frutto della diretta elaborazione del presidente del consiglio, senza alcun coinvolgimento del consiglio dei ministri (si pensi alla replica di Zoli in occasione della presentazione del suo governo; circa l’impossibilità che la replica possa condurre a modifiche dell’indirizzo politico contenuto nel programma, cfr., per tutti, M. GALIZIA, Studi, cit., pp. 443 e 445).

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In un assetto della forma di governo, quale quello che si è descritto, «qualunque crisi assume di regola natura sostanzialmente extraparlamentare. La crisi, infatti, sorge normalmente a seguito di scelte dei partiti, comunque al di fuori delle camere: un riscontro formale in parlamento non darebbe luogo ad una situazione sostanzialmente diversa» (M. VILLONE, Art. 94, in Commentario della Costituzione – Il consiglio dei ministri, cit., pp. 262-263). Così, le modalità di apertura delle crisi di governo non hanno evidenziato un coinvolgimento forte del parlamento, e ciò per non pregiudicare i rapporti tra i partners della coalizione, destinati a ricostituire, in forza della conventio ad excludendum, le ragioni di un’alleanza. Similmente, anche alcuni strumenti finalizzati alla prevenzione delle crisi, quali, in primo luogo, i c.d. «vertici», riunioni informali dei leaders dei partiti della maggioranza, che hanno costituito una costante per assicurare la stabilizzazione dell’esecutivo, nell’ottica «di valutare lo stato di attuazione del programma governativo», nonché «di prendere in considerazione i necessari aggiornamenti da apportare all’intesa di maggioranza, in relazione al sopraggiungere di nuovi eventi» (A. D’ANDREA, Accordi di governo, cit., p. 116), hanno tagliato però fuori dall’eventuale chiarimento il Parlamento anche quando essi hanno determinato conseguenze politiche. La dinamica politica ha reso impossibile l’utilizzazione delle mozioni di sfiducia (che quando sono state presentate hanno finito paradossalmente per compattare la maggioranza) e difficile anche ogni forma di «parlamentarizzazione delle crisi», dati i rischi di irrigidimento nei rapporti tra i partiti della maggioranza, destinati a collaborare anche nel successivo esecutivo. Così, le crisi in questo periodo appaiono riconducibili a quelle c.d. extraparlamentari; è noto che esse hanno fatto oggetto di un vasto dibattito dottrinale circa la loro conformità alla Costituzione: stando infatti alla lettera dell’art. 94 Cost., le uniche crisi di governo ivi contemplate sono quelle derivanti dall’approvazione di una mozione di sfiducia o dal diniego di fiducia iniziale. Se la prima tipologia di crisi, come si è detto, non si è mai radicata nella prassi, la prima ha riguardato quattro governi (De Gasperi VIII; Fanfani I; Andreotti I; Andreotti V). Ciò detto, come si dirà anche più oltre (cap. 4, par. 5), la tesi dell’incostituzionalità delle crisi extraparlamentari non ha trovato riscontri nella prassi. Ed anche in dottrina è stato autorevolmente osservato che, da un lato, quelle di cui all’art. 94 Cost. non sono le uniche cause di crisi costituzionalmente doverose e che, soprattutto, nulla sembra vietare che il governo «si dimetta in conseguenza di una sua libera valutazione del più vario genere, senza essere assurdamente costretto a rimanere in carica pur quando ormai lo ritenga politicamente inopportuno» (L. PALADIN, Diritto costituzionale, Padova, Cedam, 1995, p. 395); in altri termini, il rapporto fiduciario è nella disponibilità anche del governo il quale può liberamente apprezzare quali circostanze impediscano ad esso di permanere in carica

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(per tutti, C. MORTATI, Istituzioni, cit., I, pp. 590 ss.; M. VILLONE, Art. 94, cit., pp. 264 ss.). In questo senso, la c.d. parlamentarizzazione delle crisi, imposta in linea generale solo a partire dalla presidenza Pertini, si è tradotta in un rinvio del governo alle camere, ed in un successivo dibattito parlamentare ma più frequentemente in una mera comunicazione del presidente del consiglio recante le motivazioni della crisi e in una conferma delle stesse. In effetti, la c.d. parlamentarizzazione delle crisi si è tradotta in un’istanza di trasparenza, senza però che essa sia stata in grado di risolvere i problemi e superare la crisi mentre talvolta si è rivelata politicamente impraticabile, proprio nell’ottica di soluzione della crisi stessa (per tutti, L. CARLASSARE, Il ruolo del capo dello Stato nella gestione delle crisi di governo, in L. VENTURA a cura di, Le crisi di governo nell’ordinamento e nell’esperienza costituzionale, Torino, Giappichelli, 2001, pp. 123-124. Talvolta, il governo ha deciso di dimettersi egualmente, anche se il dibattito parlamentare non ha evidenziato contestazioni al suo operato: così nel caso del governo Andreotti IV nel 1979 e del governo Cossiga I nel 1980). Di fatto è opinione dominante che la parlamentarizzazione della crisi sia una mera facoltà del capo dello Stato che il governo può rifiutare, insistendo nelle dimissioni (così, Fanfani, in occasione delle dimissioni del suo secondo governo nel febbraio 1959). Tra le crisi extraparlamentari e quelle parlamentari in senso proprio vi sono quelle dovute ad un voto contrario ad una proposta del governo che, se non importa obbligo di dimissioni, ai sensi dell’art. 94 Cost., non impedisce al governo di trarre le conseguenze politiche. E anche tale tipologia di crisi ha indotto parte della dottrina a non assecondare il dato puramente formale dell’approvazione di una mozione di sfiducia, proprio perché un voto parlamentare anche non riconducibile all’art. 94 Cost. può essere politicamente assimilabile all’approvazione di una mozione di sfiducia (Per tutti, S. BARTOLE, Governo italiano, in Dig. disc. pubbl., VII, Torino, Utet, 1991, p. 642; L. CARLASSARE, Il ruolo del capo dello Stato, cit., p. 122). Le crisi sono state motivate, in primo luogo, dal sopravvenuto mutamento della coalizione di governo, dovuto o al recesso di uno dei partners di governo o all’ingresso nella maggioranza di un nuovo gruppo parlamentare o a insanabili dissensi tra i ministri (cause, queste, talvolta intimamente connesse, dato che i ministri assumono il ruolo di delegati dei partiti nell’esecutivo), o, infine, all’esaurimento della formula politica, nel caso di governi «ponte» o «a termine». Solo eccezionalmente, il chiarimento politico è stato sollecitato attraverso l’uso di prerogative formali, quali l’intervento del consiglio dei ministri o la posizione della questione di fiducia per risolvere un contrasto tra due ministri. A queste cause però ne debbono essere aggiunte molte altre, tra le quali, solo per citare alcuni esempi, i mutamenti politici susseguenti all’elezione di un nuovo capo dello Stato, che ha assunto quasi sempre un significato

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politicamente rilevante e potenzialmente foriero di nuovi equilibri politici (viceversa, appaiono di mera cortesia quelle rese dal governo all’indomani del giuramento del nuovo presidente della Repubblica), la formazione di giunte locali in contrasto con la formula politica del governo nazionale (si pensi al periodo del centro sinistra organico e del periodo della sua crisi), i risultati di elezioni regionali o locali, le determinazioni di congressi o di organi deliberanti dei partiti di maggioranza che sono stati spesso un importante fattore di evoluzione del quadro politico nazionale, le vicende interne (scissioni o riunificazioni) ai partiti della maggioranza. Dopo il 1970, i previsti referendum abrogativi sul divorzio e sull’interruzione della gravidanza, che hanno visto i partiti della maggioranza su posizioni antitetiche, hanno determinato altrettanti fattori di crisi e una delle cause degli scioglimenti anticipati delle camere nel 1972 e nel 1979 (per tutti, A. BARBERA, A. MORRONE, La repubblica dei referendum, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 36 ss.). Viceversa, in un assetto della forma di governo, quale quello descritto, il presidente del consiglio non può esercitare, salvo che in ipotesi eccezionali, il «potere di crisi» attraverso le proprie dimissioni, poiché, da un lato, esso è stato nelle mani di ciascun partito della maggioranza (e quindi ai ministri «delegati di partito») e, dall’altro, l’interesse del premier è stato quello «di non far giungere i contrasti ad uno stadio tale da provocare la crisi, che mostrerebbe il fallimento della sua attività di mediazione volta ad assicurare l’unità del governo» (L. VENTURA, Il governo, cit., p. 87; da questo punto di vista, l’unico caso di dimissioni «personali» improvvise e indecifrabili dal punto di vista politico sono quelle di Rumor, che hanno posto fine al suo terzo governo nel 1970). Al massimo, il presidente del consiglio ha esercitato talvolta una qualche influenza sulla gestione dei tempi della crisi, al fine di pilotarne i tempi o per evitare le crisi «al buio» (si pensi alla crisi del secondo governo Andreotti o del quinto governo Rumor). Nella soluzione delle situazioni di crisi politica, un ruolo fondamentale è stato così giocato dal presidente della Repubblica, e ciò innanzitutto nella scelta dell’incaricato, soprattutto nei casi di situazione politica incerta e fluida, nelle quali la tesi della ricostruzione del potere in questione come «discrezionale in senso tecnico», poiché vincolato al fine di formare un governo che abbia la fiducia delle camere (L. PALADIN, Presidente della Repubblica, in Enc. dir., XXXV, Milano, Giuffrè, 1986, p. 200) è apparsa addirittura limitata alla luce di una prassi che ha visto invece un enlargement of functions presidenziale (L. ELIA, Governo (forme di), cit., pp. 660 ss.): è noto come il presidente Gronchi rivendicò alla suprema magistratura della Repubblica una vera e propria responsabilità del capo dello Stato nella formazione del governo, con ciò attirandosi le critiche di una parte consistente della dottrina. Di fatto, si sono avuti governi talvolta presieduti da esponenti politici scelti in piena autonomia dal presidente della Repubblica (si pensi già al

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caso di Pella) o non graditi alla DC (Tambroni) o governi, efficacemente definiti «del presidente» in quanto costituiti grazie alla particolare iniziativa di quest’ultimo (anche superando, in particolari situazioni di difficoltà politica, le incertezze della DC; il primo caso è quello di Pella nel 1953) che si è adoperato per sostenerli, dopo l’ottenimento della fiducia, di fronte ai riluttanti partiti di maggioranza, fino al caso estremo della presidenza Pertini durante la quale si è intravista una sorta di evoluzione in senso dualistico della forma di governo, con l’instaurazione di una sorta di anomala «fiducia informale» tra capo dello Stato e presidente del consiglio, quale «aggiustamento controbilanciante» rispetto allo strapotere ed alla crisi di decisionalità del sistema dei partiti (P.A. CAPOTOSTI, Presidente della Repubblica e formazione del Governo, in Scritti in onore di E. Tosato, III, Milano, Giuffrè, 1984, p. 394). Altrettanto problematici sono stati i casi di «incarichi vincolati» che, a partire dalla presidenza Gronchi, ma soprattutto sotto la presidenza Saragat, intendevano favorire la costituzione di governi di centro sinistra (il caso più spesso citato è quello di Andreotti, del luglio 1970). All’accusa di ingerenza del capo dello Stato nella sfera dell’indirizzo politico (per tutti, F. BASSANINI, Lo scioglimento delle camere e la formazione del governo Andreotti, in Riv. trim. dir. pubbl., 1972, pp. 935 ss.; P.A. CAPOTOSTI, Governo, in Enc. giur. it., XVII, Roma, Treccani, 1989, p. 5; A. REPOSO, Lezioni, cit., pp. 141-142), altra parte della dottrina ha ritenuto di «salvare» questa prassi, derubricando l’incarico vincolato ad un mero consiglio privo di valore cogente (G. ZAGREBESLKY, La formazione del governo nelle prime quattro legislature repubblicane, in Riv. trim. dir. pubbl., 1970, pp. 865 ss.; L. PALADIN, Presidente della Repubblica, cit., p. 202), ovvero ritenendo che «una volta accertata la formazione di una maggioranza ovvero che non esistono alternative praticabili ad una determinata formula politica, appare corretto che siano indicati i margini entro i quali deve svolgersi l’attività dell’incaricato, anche allo scopo di stimolare i meccanismi della responsabilità allo “stato diffuso”» (A.A. ROMANO, La formazione del governo, Padova, Cedam, 1977, p. 143; G. PITRUZZELLA, Artt. 92-93, cit., p. 77). La dottrina maggioritaria ha infine condannato la prassi dei c.d. gouvernements de combat, costituiti cioè al solo scopo di conseguire lo scioglimento delle camere (così il governo Andreotti I alla fine della V legislatura, il governo Andreotti V alla fine della settima legislatura e, come si dirà, il governo Fanfani VI alla fine della IX legislatura), ritenendosi che l’accertata impossibilità di costituire una maggioranza parlamentare avrebbe dovuto indurre il capo dello Stato o ad emanare il decreto di scioglimento controfirmato dal governo in carica ovvero a favorire la costituzione di un governo elettorale quanto più rappresentativo possibile (invece, i primi due governi ricordati erano monocolori, il secondo con alcuni tecnici) (per tutti, G. PITRUZZELLA, Artt. 92-93, cit., pp. 67 ss. e nt. 27 ss. ed i riferimenti bibliografici ivi riportati).

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Simili ai governi in questione sono gli esecutivi c.d. «amministrativi», costituiti per la sola ordinaria amministrazione (cfr. cap. 4, par. 2). Anche al di là dei governi in questione, il ruolo del presidente della Repubblica nella procedura di formazione degli esecutivi è risultata fondamentale, a fronte della complessiva debolezza del presidente del consiglio incaricato (cfr. anche cap. 4). Debolezza del presidente del consiglio e, a monte, debolezza del quadro politico, hanno infatti talvolta determinato «incursioni» assai discutibili del capo dello Stato anche nella scelta dei ministri: a partire dalla presidenza Gronchi, infatti, il presidente della Repubblica è intervenuto sulla lista dei ministri, talvolta anche sui «dosaggi» dei portafogli tra i partiti della maggioranza o tra le correnti interne al partito di maggioranza relativa (così, nella formazione del governo Zoli, il presidente del consiglio incaricato ha dovuto «riformulare» la lista dei ministri, date le critiche del capo dello Stato per la presenza di troppi esponenti vicini a Fanfani), talvolta «imponendo» la nomina di taluni ministri: è il caso della pressione del presidente della Repubblica Saragat su Moro, in sede di rimpasto nel suo secondo governo, per la nomina di Fanfani a ministro degli esteri. Divenuto noto l’orientamento del capo dello Stato, il presidente del consiglio si è trovato costretto a «coprirne» l’operato in parlamento, alludendo ad un atteggiamento caratterizzato da imparzialità e di discreto consiglio. Ma anche successivamente, le ingerenze presidenziali non sembrano venute meno: si pensi, solo per citare un esempio, alla formazione del quinto governo Andreotti (1979), espressione di una formula politica (DCPSDI-PRI) forse più imposta dal presidente della Repubblica che suggerita dal partito di maggioranza relativa: in questo caso, la scelta del capo dello Stato di conferire l’incarico ad Andreotti, con la successiva convocazione di altri due esponenti (Saragat e La Malfa), destinati ad assumere la carica di vice-presidenti del consiglio, ha suscitato dubbi in una parte della dottrina (si è parlato di «incarico trino») per la presunta violazione dell’art. 92 Cost. che riserva al presidente del consiglio la proposta dei ministri al capo dello Stato. Più in generale, le ingerenze presidenziali sono state particolarmente intense a proposito dei c.d. «governi del presidente», tanto da spingere quest’ultimo, in questi casi, a qualificare il nuovo esecutivo come «governo amico» (a segnare una implicita distanza da esso). In questi casi, cioè, il logoramento delle alleanze ha richiesto «un intervento sempre più frequente del capo dello Stato per integrare con la sua fiducia quella, sempre più sfilacciata, delle forze politiche» (P. CALANDRA, I governi, cit., p. 16), in un contesto costituzionalmente non privo di ambiguità, se è vero che «l’esecutivo, in un regime parlamentare autentico, non può essere emanazione del presidente, ma deve godere dell’appoggio del parlamento, senza il bisogno di alcuna tutela presidenziale» (A. REPOSO, Lezioni, cit., p. 140).

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4.1. Segue: il governo dei partiti nella c.d. «prima Repubblica» Nella seconda legislatura si completò la strutturazione dell’intervento pubblico nell’economia, che era iniziata, come ricordato, con il fascismo ed era proseguita nella prima legislatura con l’istituzione della «Cassa per il Mezzogiorno» (legge 10 agosto 1950, n. 646) e dell’ENI (legge 10 febbraio 1953, n. 136). Principalmente per impulso di Fanfani, che era in quel periodo segretario politico della DC, fu istituito, con legge 22 dicembre 1956, n. 1589, il comitato interministeriale per le partecipazioni statali. Presieduto dal presidente del consiglio dei ministri, ma in realtà, per sua delega, dal ministro per le partecipazioni statali, il comitato era composto anche dai ministri del tesoro, dell’industria e del bilancio. Il nuovo comitato era tributario, per quanto riguardava il proprio modello di funzionamento, del comitato interministeriale per il credito e risparmio (CICR), istituito dal fascismo e riformato nel 1947. Lo scopo giuridico della nuova struttura ministeriale era quello di coordinare l’azione del ministro delle partecipazioni statali con gli altri ministeri interessati per la determinazione delle «direttive generali» ai diversi settori controllati dal ministero (cfr. F. MERUSI, Le direttive, cit.; S. MERLINI, Struttura del governo, cit., pp. 203 ss.). Nei fatti, con l’istituzione del comitato si creava un nuovo ordinamento di settore, sottratto al consiglio dei ministri, così come ad esso erano stati sottratti l’intervento straordinario nel mezzogiorno ed il credito. In realtà, la pluralità degli enti di gestione, destinata ad aumentare considerevolmente rispetto agli originari IRI ed ENI, i loro stretti legami con il ministero di riferimento impedirono persino l’espressione di un indirizzo politico di settore da parte del comitato. Autocefalia degli enti e forte incremento dei poteri del ministro di settore furono, quindi, gli esiti finali del modello di governo «per comitati», destinato ad ampliarsi grandemente nel corso degli anni ’60. La frammentazione del sistema politico stava, intanto, modificando la forma di governo anche per ciò che riguardava i ruoli del presidente del consiglio e del capo dello Stato. Il 29 aprile 1955, fu eletto alla presidenza della Repubblica Giovanni Gronchi. Le modalità della sua elezione riflettono la diversa situazione del sistema politico rispetto agli anni di Einaudi e di De Gasperi. Gronchi fu eletto, infatti, dalle sinistre, da una parte della DC, da una parte del MSI (cfr. A. BALDASSARRE, C. MEZZANOTTE, Gli uomini del Quirinale, RomaBari, Laterza, 1985, pp. 70 ss.). Lo schieramento che lo aveva eletto non si identificava più, quindi, con lo schieramento di governo; infatti, il messaggio di insediamento del nuovo presidente si collocò su un indirizzo sensibilmente diverso rispetto a quello proprio dei governi «centristi» dell’epoca, sia per una maggiore apertura sociale, sia per i fermi richiami al dovere del parlamento di dar luogo alle leggi ordinarie che consentissero un’attuazione piena della Costituzione. Da quest’ultimo punto di vista,

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il presidente agiva senza dubbio nella esplicazione di un preciso dovere ed il parlamento provvide abbastanza sollecitamente almeno all’attuazione della corte costituzionale (1956) e del consiglio superiore della magistratura (1958). L’iniziativa di Gronchi non si limitò, però, allo stimolo per l’attuazione della Costituzione. Il presidente fu, in realtà, molto attivo anche per ciò che riguardava l’indirizzo di maggioranza. Il procedimento di formazione del governo conobbe con lui una piccola ma significativa innovazione: l’abolizione del decreto di incarico ed il conferimento «verbale» dello stesso. Ciò consentiva al presidente di revocare l’incarico ad nutum, come fu detto (M. GALIZIA, Studi, cit., p. 103), ed era del tutto in linea con un atteggiamento di forte intervento, sia per quanto riguardava la scelta dei presidenti del consiglio (in un caso, governo Tambroni, il primo ministro fu scelto da Gronchi addirittura contro il parere dei consultati), sia, come si è accennato, per quanto concerneva la composizione del governo (era nota la necessità del gradimento di Gronchi per la nomina, ad esempio, del ministro delle partecipazioni statali) ed addirittura la definizione di parti del programma governativo (politica estera). La nascita dei governi di centro sinistra (1962) non mutò questa tendenza dei presidenti della Repubblica all’intervento attivo nell’indirizzo di maggioranza. Anzitutto, l’elezione di Segni alla presidenza della Repubblica, nel maggio 1964, da parte di uno schieramento di centro destra fu compiuta per garantire una maggiore moderazione della neonata coalizione (A. BALDASSARRE, C. MEZZANOTTE, Gli uomini del Quirinale, cit., p. 111). Inoltre, nel comportamento del capo dello Stato durante la crisi del luglio 1964 (che portò alla costituzione del II governo Moro) si sfiorò quasi certamente la responsabilità penale del presidente della Repubblica (caso De Lorenzo). La malattia e le successive dimissioni di Segni, con la successiva elezione di Saragat alla presidenza della Repubblica, se resero più «organico» il capo dello Stato alla formula di governo, non mutarono, però, i termini del problema riguardante il rapporto fra il presidente e l’indirizzo di maggioranza. Soprattutto verso la fine degli anni ’60, quando il logoramento della formula di centro sinistra incominciò a far supporre possibili rapporti preferenziali fra la DC ed il PSI, Saragat intervenne decisamente nel merito del procedimento di formazione dei governi, arricchendo, come si è detto, il «mandato» (l’incarico a formare il governo) di nuovi vincoli. In quegli stessi anni, i governi di centro sinistra avevano cercato di realizzare alcune riforme istituzionali che riguardavano, essenzialmente, l’intervento pubblico nell’economia. Dopo le ricordate innovazioni degli anni ’50, i socialisti (che avevano ottenuto nel 1962 con la istituzione dell’ENEL la nazionalizzazione dell’energia elettrica) si proponevano di inserire gli ormai cospicui strumenti di intervento pubblico in una logica di programmazione economica, che avrebbe dovuto fondarsi su un «Programma eco-

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nomico nazionale», da approvarsi con legge dal parlamento, e su rinnovati organi del governo che avrebbero dovuto attuarne le prescrizioni. Il programma economico quinquennale fu, effettivamente, approvato con la legge n. 685 del 1967, ma la genericità degli obiettivi e delle prescrizioni contenute nel programma non solo ne resero impossibile l’attuazione, ma causarono, poi, l’abbandono dello stesso metodo programmatorio. Furono, invece, realizzati alcuni dei cambiamenti della struttura del governo proposti dai socialisti. La legge n. 48 del 1967 modificò la struttura dei comitati interministeriali, sopprimendone alcuni ed istituendo il CIPE, il comitato interministeriale della programmazione economica, che si vedeva attribuire la funzione di predisporre gli indirizzi della politica economica nazionale, del programma economico nazionale e del progetto di bilancio, nonché le direttive per la loro attuazione. A parte i non lievi problemi di costituzionalità che erano posti dalla nuova legge (il consiglio dei ministri, titolare, secondo l’art. 95 Cost., della determinazione dell’indirizzo politico generale, era espropriato dell’indirizzo nella intera materia economico-finanziaria: cfr. anche cap. 5, par. 7), essa si basava su un presupposto che non fu mai realizzato: la concentrazione sul ministro del bilancio e della programmazione economica (che era vice-presidente del CIPE) dei poteri di coordinamento e di promozione di tutte le funzioni attribuite al comitato. In realtà, quell’aspirazione non poté mai realizzarsi, sia per problemi di ordine politico (infatti essa avrebbe segnato la prevalenza di quella concezione del centro sinistra che fu bloccata anche dalle ricordate iniziative presidenziali), sia per problemi di ordine istituzionale (ad esempio, essa cozzava contro la dichiarata autonomia dell’ordinamento del credito e della moneta, coordinata dal ministro del tesoro e della banca d’Italia). Di più: il fallimento di quella ricordata idea di programmazione portò i decreti delegati del 1967, che avrebbero dovuto subordinare al CIPE tutti i comitati interministeriali rimasti, a rafforzare, invece, i «ministri di settore», rendendo più stretti, ad esempio, i rapporti fra il ministro dell’industria e l’ENEL o quelli del ministro delle partecipazioni statali con gli enti di gestione. In definitiva, agli inizi degli anni ’70 si assisteva al rafforzamento, dentro al governo, di quella «direzione plurima dissociata» da parte dei ministri che, proprio per il fatto di coinvolgere ormai colossali interessi economici, risultava del tutto incontrollabile dal presidente del consiglio. La sconfitta delle spinte riformatrici, che erano presenti nel centro sinistra, dette, dunque, luogo ad un assetto del governo del tutto funzionale alla «Costituzione materiale» in via di consolidamento. Come si è accennato anche nel paragrafo precedente, il presidente del consiglio perse del tutto il potere di proposta dei ministri (riconosciutogli dall’art. 92 Cost.) che passò di fatto nelle mani dei partiti e delle correnti di partito (il c.d. «Manuale Cencelli»). I ministri di partito, organizzati, dentro al governo, in «delegazioni», provviste di un «capo delegazione», si sentirono respon-

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sabili, non nei confronti del presidente o del parlamento, ma solo nei confronti del partito o della corrente di appartenenza. Nel momento in cui il potere di governo dei partiti appariva massimo, finiva per smarrirsi, in definitiva, la stessa funzione di governo. Da questo punto di vista, infatti, la diretta assunzione nelle mani dei partiti della funzione di indirizzo politico rendeva del tutto formale anche il programma di governo e l’espressione, secondo Costituzione, da parte del parlamento di una mozione motivata di fiducia su quel programma: non a caso, come si dirà (par. 4.2), con la sola eccezione del I e II governo Spadolini e del V governo Fanfani, l’art. 94 Cost., nella parte in cui prevede che la fiducia al governo sia concessa con una mozione motivata, è andato incontro ad una pratica disapplicazione, poiché è prevalsa una discutibile prassi per cui il parlamento vota un ordine del giorno in cui si approvano per relationem le dichiarazioni programmatiche del presidente del consiglio, peraltro connotate quasi sempre da una estrema genericità e quindi non tali da fondare un consenso su una piattaforma programmatica sufficientemente dettagliata. Da questo punto di vista, l’eccezionale instabilità governativa italiana risultava, paradossalmente, compensata da una sostanziale continuità delle «formule di governo» e del personale di governo (G. PASQUINO, I governi, in La politica italiana, cit., p. 62). Dall’esterno, ma solo dall’esterno, si poteva, in conclusione, ritenere che la partitocrazia italiana fosse riuscita ad elaborare un modello di «governo senza governo», non privo di originalità ed anche di aspetti positivi (cfr. G. DI PALMA, Surviving without governing, Berkeley, University of California Press, 1977; P.A. ALLUM, Italy, Republic without government?, New York, Norton, 1973). In realtà, la fine delle spinte riformatrici, dovuta alle riserve del «grande centro» democristiano spinse la sinistra di quel partito e parte dei socialisti a superare quei veti immaginando che la conventio ad excludendum potesse essere aggirata facendo del parlamento il centro della formazione degli indirizzi di governo. Questa operazione, che si fondava, ovviamente, su un parallelo indirizzo elaborato in quegli anni dal PCI (cfr. il dibattito consuntivo di quella stagione politica in Il parlamento, Quaderni di Democrazia e Diritto, 2, 1978), condusse nel 1971 ad una rilevante riforma dei regolamenti parlamentari; riforma che fu considerata il fondamento della nuova dottrina della «centralità del parlamento». La filosofia dei regolamenti del 1971 tendeva, nella sostanza, a spostare sul parlamento quelle capacità di conoscenza e di decisione che il governo sembrava avere perduto; tuttavia, la natura della sede parlamentare imponeva che questi fini fossero raggiunti con il consenso di tutti (esemplari, a questo proposito, le norme sulla necessaria unanimità dei capi-gruppo per la programmazione dei lavori) ed attraverso la mediazione, più che con la decisione (cfr. A. MANZELLA, Il parlamento, cit., pp. 71 ss.). Questa impostazione del regolamento del ’71 dette luogo, in quel decennio, anche alla istituzione di una serie di commissioni bicamerali, dotate sia di poteri di

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indirizzo che di poteri di controllo. Fra queste, grande rilievo assunse la commissione bicamerale di indirizzo e di vigilanza sulla RAI, riformata con la legge n. 103 del 1975, approvata dal parlamento dopo che la corte costituzionale aveva indicato (sentt. nn. 225 e 226 del 1974) a quali condizioni il monopolio pubblico della radiotelevisione potesse non contrastare con gli artt. 21 e 43 Cost. Il risultato della centralità del parlamento non fu, però, apprezzabile proprio sul terreno dell’indirizzo e del governo delle politiche di settore. Migliori risultati si sarebbero, invece, avuti sul versante di problemi la cui soluzione era stata impossibile finché la conventio ad excludendum aveva impedito di sommare, sempre e comunque, i voti del PCI a quelli dei partiti laici, alleati della DC. La legge sul divorzio, quella sull’aborto, ma anche importanti riforme riguardanti il lavoro ed il diritto di famiglia furono il frutto positivo di una collaborazione parlamentare nella quale si scoloriva gradualmente la distinzione fra maggioranza ed opposizione. Invece, molto meno positivi furono i risultati di quella stagione per ciò che riguarda il governo dell’economia e della finanza. Come si è ricordato, gli studi di Predieri del 1975 già documentavano un distorto rapporto fra la maggioranza e l’opposizione non solo nel chiuso delle commissioni in sede deliberante, ma anche nell’approvazione delle grandi «leggi sezionali», ad esempio di finanziamento dei fondi di dotazione delle partecipazioni statali (cfr. A. PREDIERI, Parlamento 1975, cit.). Uno spartiacque in questo senso furono le elezioni del 1976 che resero ineludibile una qualche forma di coinvolgimento del PCI (che ottenne un risultato lusinghiero, passando dal 27,2 al 34,4% dei voti) nell’area della maggioranza di governo, superando o quantomeno ridimensionando in tal modo la conventio ad excludendum. Il primo governo della legislatura (Andreotti III) fu un esecutivo c.d. della «non sfiducia» in quanto sostenuto dalla sola DC con l’astensione di PCI, PSI, PSDI, PRI, PLI; per la prima volta, sia alla camera che al senato le astensioni superavano i voti favorevoli nella votazione sulla fiducia al governo: le obiezioni sollevate in sede dottrinale sull’ammissibilità di un governo minoritario furono accentuate quando, successivamente alla sua formazione, tale esecutivo fece proprio un programma diverso da quello su cui aveva ottenuto la fiducia, con l’approvazione di una semplice mozione votata dalla sola camera dei deputati. È in questa fase che il parlamento acquisisce una centralità per molti versi inedita, essendo il luogo nel quale inevitabilmente si sarebbe sviluppato il dialogo tra gruppi parlamentari e governo e nel quale quindi sarebbero state assunte decisioni di indirizzo aperte al concorso di tutti i partiti (P. CALANDRA, I governi, cit., p. 324). Il IV governo Andreotti, di «solidarietà nazionale», ancora monocolore democristiano ma sostenuto in parlamento da un vastissimo schieramento (DC, PCI, PSI, PSDI, PRI, più Democrazia nazionale, nata da una scissione del MSI) fu il punto di arrivo di questa fase istituzionale. Quel governo coincise, tuttavia, con il grave episodio delle dimissioni

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del presidente della Repubblica, Giovanni Leone, che era stato eletto il 24 dicembre 1971 da uno schieramento di centro destra. Nel 1972 Leone aveva dovuto affrontare un problema inedito nella storia repubblicana: lo scioglimento anticipato delle camere, dovuto alla irrimediabile crisi dei rapporti fra la DC ed i partiti laici a causa dei contrasti sul divorzio. Quell’episodio è importante perché lo scioglimento del 1972 anticipò una serie di temi che sarebbero rimasti, poi, costanti nei numerosi scioglimenti anticipati che sarebbero stati successivamente affrontati da tutti i presidenti successivi. Anzitutto, già nel 1972 fu facile constatare che lo scioglimento anticipato molto difficilmente avrebbe potuto aver luogo su proposta del governo e con deliberazione del consiglio dei ministri, come nell’esperienza statutaria. Nel 1972, come negli scioglimenti successivi (salvo, forse, quello del 1994), si prendeva atto, con lo scioglimento anticipato, dell’esistenza di una crisi non rimediabile all’interno della maggioranza di governo. Lo scioglimento coincideva necessariamente, dunque, con il massimo di concorrenzialità fra i partners di governo, tutti interessati a presentarsi di fronte al corpo elettorale con tempi, modalità e motivazioni sulla stessa crisi di governo fortemente differenziate. La differenza di interessi fra i partiti di governo poneva il presidente del consiglio nell’impossibilità di prendere iniziative di scioglimento nelle quali egli potesse rappresentare, in qualche modo, la volontà unanime o prevalente del governo. In definitiva, nella forma di governo realizzatasi in Italia lo scioglimento anticipato si dimostrava atto nel quale non poteva non dispiegarsi l’iniziativa personale del presidente della Repubblica (cfr. S. MERLINI, I presidenti della Repubblica, in La politica italiana, cit., pp. 105 ss.). Fra le modalità riguardanti lo scioglimento che rimanevano, così, nelle mani del capo dello Stato, una era quella riguardante la scelta del governo destinato a gestire le elezioni. Come si è accennato nel paragrafo precedente, Leone scelse la soluzione probabilmente più sbagliata, in quanto, invece di affidare lo scioglimento al governo dimissionario o ad un governo-tecnico elettorale, nominò, con soluzione discutibile, poi seguita da Pertini nel 1979 e da Cossiga nel 1987, un governo monocolore formato solo da esponenti del partito di maggioranza relativa; governo che fu presieduto, in quella occasione, da Andreotti. Le dimissioni di Leone, occasionate da un suo presunto coinvolgimento nel «caso Lockheed», dimostravano, in realtà, che il presidente della Repubblica era sempre più coinvolto nei problemi della difficile governabilità italiana e tendeva, perciò, a divenire sempre più istituzione non di garanzia ma di governo. Le traumatiche dimissioni di Leone, tanto più gravi in quanto avvenivano nella situazione di emergenza determinata dal terrorismo e dal sequestro di Aldo Moro (marzo 1978), indussero i partiti politici, dopo una complessa fase di trattative, ad un’elezione plebiscitaria del suo successo-

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re, Sandro Pertini, che ottenne l’83% dei voti. La forma di governo che abbiamo descritta non poteva, però, consentire di realizzare il ritorno ad un «presidente di garanzia». Il ritiro del PCI dalla maggioranza di governo alla fine della VII legislatura (1979) aveva lasciato, infatti, una situazione nella quale le forze politiche ed il parlamento sembravano prive di qualsiasi stabile orientamento. Una crisi così grave, come quella vissuta dalla società italiana alla fine degli anni ’70, diveniva, in sostanza, irresolubile a causa di un sistema di mediazioni che annullava del tutto l’input della democrazia nel parlamento e nel governo. Il presidente della Repubblica, divenne, perciò, come già accennato, l’unica risorsa di governabilità del sistema ed occorre dire che Pertini esercitò con decisione questo suo ruolo fino da quando, dopo la crisi del IV governo Andreotti, egli incaricò della soluzione della crisi (peraltro senza successo) Ugo La Malfa, leader del PRI (1979), cancellando, così, la convenzione che aveva imposto ai presidenti precedenti la nomina o l’incarico di presidenti del consiglio appartenenti esclusivamente alla DC. Ancora, di rilievo fu l’imposizione dell’accettazione dell’incarico a Francesco Cossiga senza la tradizionale «riserva» (1979). Da allora, come detto nel paragrafo precedente, si incominciò a parlare, in Italia, in riferimento ai numerosi governi che sarebbe toccato a Pertini di nominare (2° Cossiga; Forlani; 1° e 2° Spadolini), di «governi del presidente». Come già accennato, il diretto intervento di Pertini nei problemi del governo non valse ad evitare durante il suo settennato altri due scioglimenti anticipati, nel 1979 e nel 1983. Pertini nominò, in occasione del primo di questi, un governo DC-PSDI-PRI (Andreotti V), come si è detto, espressione di una formula forse più imposta dal presidente della Repubblica che suggerita dal partito di maggioranza relativa, vista anche l’inedita formazione del Governo, con il già ricordato «incarico trino». Nel 1983, invece, in una decisione di scioglimento sostenuta dall’unanimità dei consensi dei partiti, Pertini preferì non procedere alla nomina di un nuovo governo e far gestire le elezioni a quello dimissionario (il V governo Fanfani). È poi da segnalare nella VIII legislatura (1979-1983) la formazione del primo governo presieduto da un esponente non democristiano: il leader del PRI Giovanni Spadolini. 4.2. Segue: l’esperienza del c.d. «pentapartito» La stagione del «pentapartito» abbraccia i circa undici anni che vanno dalla formazione del primo governo Spadolini (giugno 1981) alla fine della X legislatura, anche se gli ultimi due governi presieduti da Giulio Andreotti non avrebbero visto la partecipazione del PRI. In questo periodo, la forma di governo italiana conosce, oltre a fondamentali elementi di continuità, alcune significative innovazioni dei quali è necessario dare conto, sia pure sinteticamente.

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Il primo fattore di discontinuità è dato dall’intesa strategica di governo tra la DC, il PSI e i tre partiti laici minori (PRI-PSDI-PLI) che caratterizza questo periodo e che si traduce nella formazione di esecutivi aventi una maggioranza precostituita a cinque, con poche eccezioni. Certo, questa indubbia novità non si tradusse (fatta eccezione per il governo Craxi I, formatosi all’indomani delle elezioni del 1983) in esecutivi stabili, e ciò per due fattori convergenti: in primo luogo, per i problematici rapporti tra DC e PSI, efficacemente sintetizzati nella formula «collaborazione-competizione»; in secondo luogo, per il radicamento della convenzione della «pari dignità», in forza della quale il recesso anche di uno solo dei partners della maggioranza era ritenuta condizione necessaria e sufficiente per l’apertura della crisi, anche nel caso in cui questo partner non fosse numericamente necessario per la sopravvivenza del governo. Paradigmatico, ad esempio, è il ritiro della delegazione del piccolo partito liberale che determinò la crisi (poi rientrata) del governo Goria nel novembre 1987. Questi fattori spiegano la formazione sia di governi puramente elettorali (governo Fanfani VI) o con uno spettro programmatico ridotto (governo Fanfani V) o, infine, governi di «decantazione» (governo Goria) per i quali viene rinverdita quella formula del «governo amico» che, come detto, stava a significare una sostanziale presa di distanza della segreteria della DC dall’esecutivo. Si è molto discusso sui caratteri dell’intesa «strategica» tra i cinque partiti, che comunque non ha mai assunto, principalmente per l’opposizione del PSI, i caratteri di una coalizione preelettorale ma, al contrario, è apparsa la raffigurazione di uno «stato di necessità coalizionale», per l’impossibilità di alternative praticabili (P. CARETTI, Il rafforzamento dell’Esecutivo e la sua incidenza sulla forma di governo parlamentare, in G. ROLLA, a cura di, Le forme di governo nei moderni ordinamenti policentrici. Tendenze e prospettive nell’esperienza costituzionale italiana e spagnola, Milano, Giuffrè, 1991, p. 50). Di fatto, questa intesa si rafforzò con le elezioni del 1983 che segnarono una profonda sconfitta della DC che perse alla Camera circa due milioni di voti, passando dal 38,3 al 32,9%, mentre il PSI avanzava, anche se in misura minore rispetto alle aspettative (dal 9,8 all’11,4%). Tra i laici il PRI superò per la prima volta nella sua storia il 5% dei voti. Le elezioni politiche del 1983 dettero luogo ad una situazione nella quale, stabilitasi un’intesa di governo e di potere fra i cinque partiti, e in particolare, fra la DC ed il PSI, il ruolo del capo dello Stato risultò drasticamente ridotto. Sui caratteri di quell’intesa molto si è discusso, soprattutto dopo i risultati dell’indagine giudiziaria «Mani Pulite (così, A. PIZZORUSSO, La forma di Stato e di governo, in Lo stato delle istituzioni italiane, Milano, Giuffrè, 1994, p. 220). In effetti, la cronica mancanza di alternanza al potere e l’inesistenza del principio di responsabilità politica che avevano caratterizzato la forma

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di governo italiana fino a quel momento finirono per condurre il sistema partitocratico a considerare se stesso non solo al di sopra della legge ma persino al di sopra dello stesso principio della divisione dei poteri, fino a ritenere sospeso il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale nei confronti di tutto ciò che avesse a che fare con la politica. In questo periodo, la conventio ad excludendum resiste ma non tanto come preclusione ideologica quanto come antinomia politica (P. CALANDRA, I governi, cit., p. 23). Frutto di questa evoluzione fu il mandato esplorativo conferito dal capo dello Stato al presidente della camera, Jotti (esponente del PCI) nel marzo 1987, con il compito di «acquisire, attraverso gli opportuni contatti […] elementi di conoscenza e di valutazione per la soluzione della crisi e la formazione del governo». D’altra parte, il PCI si dimostrò decisivo per l’approvazione di provvedimenti legislativi, che senza il suo apporto, avrebbero rischiato la bocciatura o l’insabbiamento. Il mutato atteggiamento del PCI e delle altre forze politiche nei confronti di esso si tradusse nella decisione di questo partito di formare un «governo ombra» (M. CARDUCCI, Un nuovo modello di opposizione parlamentare: il «governo ombra», in Pol. dir., 1990, pp. 619 ss.) che si rivelò però un esperimento effimero e non privo di contraddizioni interne, ma fu rivelatore di un clima politico nuovo, ormai sensibile alle ragioni dell’alternanza e quindi di un modo diverso di concepire la funzione dell’opposizione. Anche nei confronti del MSI, l’atteggiamento di attenzione del presidente del consiglio, Craxi, in sede di presentazione del suo primo governo, lasciò presagire una «strategia dell’attenzione» che si sarebbe tradotta in un’opposizione diversa e, in seguito, nel consenso di questo partito a provvedimenti certo non sgraditi al PSI. Il secondo fattore di discontinuità è dato dalla formazione di governi presieduti da esponenti non democristiani; formazione anticipata, come si è detto, dagli incarichi senza esito a La Malfa ed a Craxi nel 1979 (rispettivamente, alla fine della VII ed all’inizio della VIII legislatura): i due governi Spadolini, prima, e, soprattutto, i due governi Craxi, poi, assorbono quasi la metà della durata complessiva dei dieci esecutivi che si succedono in questo periodo (il primo governo Craxi, come è noto, con i suoi 1058 giorni di durata fu il più longevo della storia repubblicana fino a quel momento). In tal modo, si abbandonò la fondamentale regola convenzionale che si era imposta fino dal 1946, ovvero la spettanza della presidenza del consiglio al partito di maggioranza relativa. Si è parlato, a tale proposito di «alternanza», ma come è stato esattamente osservato, tale termine non allude né ad un mutamento di maggioranza né ad un’alternanza (ancora impossibile) di forze politiche al governo, né, infine, a nuovi assetti politici determinati da significativi spostamenti del consenso elettorale: se, infatti, i governi Spadolini furono for-

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mati nel corso di una legislatura, il primo governo Craxi nacque a seguito delle elezioni del 1983 che, pur avendo determinato, come detto, un forte arretramento della DC ed una crescita del PSI, non avevano inciso nella posizione della prima come partito di maggioranza relativa. Così, la regola dell’alternanza produsse stabilità ma solo durante il primo governo Craxi, durante il quale la DC ebbe necessità di riorganizzarsi dopo la sconfitta elettorale del 1983. Dopo, le diverse strategie di DC e PSI avrebbe reso tale regola, indipendente dal consenso elettorale, fonte di «un nuovo e rilevante elemento di instabilità in un sistema nel quale alla ridotta mutabilità degli equilibri fra maggioranza e opposizioni fa già riscontro una elevata instabilità interna delle coalizioni di governo, dovuta al numero di formazioni politiche che vi partecipano e alle difficoltà nei rapporti fra le stesse» (V. ONIDA, Presentazione, in E. BALBONI, F. D’ADDABBO, A. D’ANDREA, G. GUIGLIA, La difficile alternanza. Il sistema parlamentare italiano alla prova, 1985-1987, Milano, Giuffrè, 1988, pp. IX-X). Emblematico è, in questo senso, il famoso «patto della staffetta» che avrebbe dovuto sancire un accordo politico negoziato tra DC e PSI per cui, a Craxi, segretario del PSI, alla guida del governo sarebbe dovuto succedere un esponente democristiano. Di fatto, le interpretazioni diverse del «patto», le crescenti contestazioni sulla sua natura, l’imminenza di referendum abrogativi, promossi anche dal PSI ma osteggiati dalla DC, aumentarono il tasso di instabilità governativa (M. CARDUCCI, L’«accordo di coalizione», cit., pp. 95 ss.), come è dimostrato dal fatto che, nel pieno delle polemiche tra DC e PSI, la maggioranza parlamentare e il governo furono ripetutamente sconfitti in parlamento e si trovano obtorto collo ad usare strumenti tipici delle opposizioni (come il far mancare il numero legale) per evitare nuove débâcles. La questione della «staffetta» dette luogo ad una infinita verifica, articolata in ben otto incontri collegiali tra i segretari dei partiti della maggioranza (e quindi tagliando fuori la sede parlamentare) tra il marzo e l’aprile 1986, che non riuscirono a dipanare le diverse interpretazioni della stessa (per la DC si sarebbe trattato di un patto di legislatura, coinvolgente anche la successiva; per il PSI di impegni sempre revocabili e di durata limitata). Evidentemente, l’interpretazione del patto voluta dalla DC avrebbe trasformato la nostra forma di governo in uno strano surrogato di «democrazia maggioritaria» tale da ridurre la funzione di ago della bilancia rivestita dal PSI. I contrasti tra i due partiti condussero al controverso scioglimento delle camere 1987 che «ha mostrato un così ricco campionario di “invenzioni”, di colpi di scena, di vere e proprie forzature di regole consolidate, da far dubitare che si stesse davvero raschiando il fondo del barile istituzionale alla ricerca di soluzioni che la politica non era più in grado di offrire» (V. ONIDA, Presentazione, cit., p. XII). Con la crisi del secondo governo Craxi nella primavera del 1987, dopo

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un infruttuoso tentativo di Andreotti (bocciato dal PSI il quale chiese che la presidenza del consiglio fosse assegnata al presidente o al segretario della DC) e il già ricordato mandato esplorativo al presidente della camera Jotti, il presidente della Repubblica respinse le dimissioni del governo e il PSI, interessato a far svolgere i referendum in opposizione alla DC, propose, in alternativa, la formazione di una «maggioranza referendaria» (composta cioè dai partiti favorevoli a tali consultazioni) o le elezioni anticipate. Dopo questa presa di posizione, la DC fece dimettere in massa i suoi ministri, e il presidente del consiglio «minacciò» di presentarsi comunque al senato, suscitando interrogativi circa la persistente sussistenza di un governo ormai privo di oltre la metà dei suoi componenti. Si ebbero in seguito una rinuncia previa ad un incarico da parte di Fanfani (ritenendo che non vi fossero le condizioni politiche per un suo coinvolgimento, in quanto presidente del senato) e due ulteriori tentativi falliti, il primo del ministro dell’interno, Scalfaro, il secondo di Spadolini (cui si contrappose la DC). Da ultimo, il presidente della Repubblica conferì l’incarico a Fanfani per un governo che portasse il Paese ad elezioni anticipate, sul presupposto dell’impossibilità di ricostituire una maggioranza di pentapartito (sui problemi di legittimità costituzionale dei c.d. governi elettorali cfr. supra, par. 4). Ma in sede di votazione della fiducia, il governo rischiò di conseguire la maggioranza grazie ad apporti non richiesti (né graditi) del fronte dei favorevoli ai referendum: si ha quindi il paradosso che, per non far conseguire la fiducia al governo, la DC (partito del presidente del consiglio e della gran parte dei ministri) fu costretta ad astenersi (come il PRI, il PLI), mentre il PSI (contrario al governo) votò a favore, così come PSDI e radicali; PLI e DP non parteciparono al voto, mentre gli altri gruppi (PCI, MSI, SVP, indipendenti di sinistra) votarono contro. Da parte sua, il presidente del consiglio fu costretto a dare conto del fatto che la presentazione di più documenti programmatici di fiducia al governo, con eterogeneità di contenuti, fosse indice dell’impossibilità di «sminuzzare» il rapporto di fiducia, lasciando quindi intendere, in sede di replica, che si sarebbe dimesso in caso di conseguimento di una fiducia «casuale». In definitiva, era l’oggetto stesso della fiducia ad essere posto in discussione. In questo senso, il presidente del consiglio rivendicò a sé il compito di scegliere quale tra essi dovesse essere votato dalle camere, poiché il voto di un documento diverso non avrebbe potuto essere idoneo ad instaurare un regolare rapporto di fiducia, finendo per imporre l’attuazione di scelte programmatiche non condivise dal governo. Anche se questa tesi appare corretta, dato che il rapporto fiduciario presuppone quantomeno una consonanza sugli obiettivi politico-programmatici da raggiungere, rimane il fatto che il diniego di fiducia al governo Fanfani VI è probabilmente il punto più elevato di torsione nei rapporti tra parlamento e governo nella procedura fiduciaria. Peraltro, proprio l’esito del dibattito fiduciario finì per offuscare il di-

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battito circa l’individuazione del governo chiamato a gestire le elezioni (il PSI avrebbe voluto che questo compito spettasse al dimissionario governo Craxi II) e le conseguenti polemiche sui profili di legittimità costituzionale del terzo governo costituito al solo scopo di gestire le elezioni anticipate e battuto sul conferimento della fiducia iniziale. Come si è detto, al fondo di questa paradossale e inedita vicenda, vi erano i contrasti politici circa i termini del «patto della staffetta»: a prescindere dalla sua riconduzione agli accordi di coalizione (M. CARDUCCI, L’«accordo di coalizione», cit., p. 91), è un dato di fatto che essa costituì forse il punto più alto di emarginazione dei soggetti istituzionali (parlamento; governo; capo dello Stato) nella procedura di formazione del governo. Si consideri inoltre che il testo del patto non fu mai reso noto al parlamento, ma solo implicitamente dato per presupposto, con ciò se non altro impedendo l’esercizio del controllo parlamentare e facendo venire meno «quel principio del parlamentarismo maturo che ha sancito, contro i pericoli del trasformismo, la stretta correlazione fra uomini e programmi nell’esercizio delle funzioni politiche» (M. CARDUCCI, L’«accordo di coalizione», cit., p. 92). Le polemiche seguite alle dimissioni del governo Craxi II proseguirono anche nella X legislatura e si tradussero, prima, nel veto socialista ad un governo forte a guida DC (da qui la formazione del debole governo Goria) e poi nel governo guidato dal segretario della DC, Ciriaco De Mita (sorretto da una maggioranza significativamente definita «di programma» e non «politica») contro il quale il PSI pose in essere, praticamente da subito, una strategia di progressivo logoramento che ne portò alle dimissioni dopo circa un anno di durata, durante lo svolgimento del congresso socialista che decretò una «sfiducia politica» al governo, in una logica ancora una volta ispirata ad una «fuga» dalle sedi istituzionali. Anche la fine del governo De Mita vide forzature e torsioni fino a quel momento mai verificatesi: il governo si dimise infatti il 19 maggio 1989, un mese prima delle elezioni europee (fissate infatti per il 19 giugno 1989). In questo quadro il PSI chiese al capo dello Stato un «congelamento della crisi» per un mese con l’attribuzione di un mero mandato esplorativo conferito al presidente del senato Spadolini (26 maggio) che si trascinò per ben 16 giorni e di fatto si trasformò in una sorta di preincarico (F. D’ADDABBO, La formazione del 6° Governo Andreotti, in A. D’ANDREA, a cura di, Verso l’incerto bipolarismo. Il sistema parlamentare italiano nella transizione. 1987-1999, Milano, Giuffrè, 1999, p. 57). L’anomala missione del presidente del senato si concluse con l’incarico al presidente del consiglio uscente quando erano ancora in corso le elezioni regionali in Sardegna, con ciò suscitando le reazioni polemiche del PSI. Anche l’incarico a De Mita procedette tra grandi incertezze e con insopportabile lentezza, tanto che il gruppo parlamentare della sinistra indipendente denunciò l’illegalità della situazione, proponendo l’autoconvocazione delle camere (4

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luglio) e suscitando una reazione polemica del capo dello Stato che reagì denunciando, in un apposito comunicato, rischi per la stabilità delle istituzioni. Dopo un colloquio tra il capo dello Stato e il presidente del consiglio incaricato il 5 luglio, il giorno successivo quest’ultimo rinunciò. Il 9 luglio ricevette l’incarico Andreotti che il 23 si presentò alle camere. L’iter fiduciario si concluse il 30 luglio: la crisi era durata ben 64 giorni, in un contesto politico-istituzionale contrassegnato da torsioni e polemiche che investirono pesantemente anche il capo dello Stato il quale, al termine delle consultazioni sfociate nell’incarico ad Andreotti, dovette amaramente constatare che «non esiste più sulle procedure, ed anche sullo stesso ruolo del capo dello Stato, quel consenso che esisteva una volta». Certo, le polemiche sul «patto» fecero emergere plasticamente due strategie diverse della DC e del PSI: per quest’ultimo, la conquista della presidenza del consiglio per il suo leader divenne fondamentale innanzitutto sia in termini di immagine che per la conquista del centro del sistema politico; per la DC, meno sensibile a quel rafforzamento della leadership verso cui si era incamminato l’alleato, la «riconquista» della presidenza del consiglio era comunque essenziale per la rivendicazione del ruolo centrale del suo partito. Come si è accennato, una novità dell’epoca del «pentapartito» è data da quattro governi (Spadolini I e II; Craxi I e II) guidati da esponenti non democristiani. Le presidenze del consiglio non democristiane hanno determinato alcune non irrilevanti novità sul piano istituzionale. La debolezza politica che contraddistingue in questi casi la premiership è stata compensata, in primo luogo, dal mantenimento anche della carica di segretario del partito, in secondo luogo da una particolare esposizione mediatica (così, in particolare, Craxi), in terzo luogo dal tentativo di rivalutazione del quadro costituzionale, riproponendo in termini nuovi la problematica dell’attuazione dell’art. 95 Cost. e, in prospettiva, di alcune limitate riforme istituzionali: non a caso proprio durante il governo Spadolini venne presentato il noto «decalogo» che, insieme al lavoro svolto nell’ambito delle commissioni affari costituzionali di camera e senato nel 1982 (c.d. Comitati Riz-Bonifacio), costituì l’inizio di quel dibattito sulle riforme che avrebbe trovato un primo momento di elaborazione organica nella «commissione Bozzi». In mancanza di una legge attuativa dell’art. 95 Cost., alcune innovazioni non irrilevanti furono introdotte in via di prassi: così, già in sede di formazione del primo governo Spadolini, il presidente del consiglio volle riservarsi il compito di scegliere i ministri in una rosa di nomi fornita dai partiti della maggioranza: in tal modo, si ebbe una «qualche» attuazione dell’art. 92 Cost., sebbene anche i due governi Spadolini riproducessero un dosaggio dei portafogli tra i partiti e tra le correnti interne ai partiti non dissimile da quella degli esecutivi precedenti. Sul piano dell’esercizio

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delle funzioni, un’apposita circolare del presidente del consiglio del 1982 anticipò alcune delle linee portanti di quella che sarebbe divenuta la legge n. 400 del 1988 (proprio durante il governo Spadolini iniziò l’esame parlamentare della relativa proposta di legge, in un primo tempo interrotto per lo scioglimento del 1987 per essere ripreso nella X legislatura), disciplinando un nuovo assetto della presidenza del consiglio, nell’ottica del perseguimento dei principi di collegialità dell’azione del governo e di rafforzamento del presidente del consiglio al suo interno. Sempre in via di prassi, con il governo Spadolini nacque un gabinetto economico che fu l’antecedente del consiglio di gabinetto istituito, ancora una volta in via di prassi dal governo Craxi nel 1985 e successivamente previsto, quale organo non necessario, dalla legge n. 400 del 1988 (art. 6) (cfr. infra, cap. 3, par. 4). Ancora, sempre con il primo governo Spadolini venne finalmente attuato l’art. 94, comma 2, Cost. laddove richiede la motivazione della mozione di fiducia, con ciò superando la prassi precedente che aveva conosciuto solo motivazioni stringate con rinvio per relationem alle comunicazioni del governo. Viceversa, la mozione di fiducia ai due governi Spadolini fu ampiamente motivata e dettagliata, allo scopo di «adottare parametri più stringenti, che consentissero di assicurare una maggiore stabilità dell’esecutivo, rafforzando il rapporto parlamento-governo» (G. RENNA, Instaurazione e verifica del rapporto di fiducia tra camere e governo, in R. DICKMANN, S. STAIANO, a cura di, Funzioni parlamentari non legislative e forma di governo, Milano, Giuffrè, 2008, p. 90). La dottrina ha evidenziato la rilevanza della motivazione, che, come si evince dai lavori della Costituente, risponde a due esigenze fondamentali: al reciproco impegno di governo e parlamento all’attuazione del programma; e in caso di successiva sfiducia, a fissare più esattamente i termini del contrasto tra governo e parlamento. In tal modo, come già la dottrina più risalente aveva messo in evidenza (M. GALIZIA, Studi, cit., pp. 451 ss.), attraverso la mozione motivata, il parlamento può partecipare alla formazione dell’indirizzo politico che si sviluppa innanzitutto nel raccordo tra corpo elettorale e governo, realizzandosi così un coordinamento tra la volontà del governo e quella del parlamento intorno ai contenuti essenziali del programma. Come è stato esattamente osservato, con la motivazione si richiede al parlamento «un apporto di ragioni politiche che, quali che possano essere state le dichiarazioni di intenti precedenti la formazione del governo e i suoi impegni elettorali, contribuisca a determinarne con chiarezza la natura e le politiche» (A. MANZELLA, Il parlamento, cit., p. 393) e, in tal modo, si realizza pienamente il carattere sinallagmatico del rapporto fiduciario. Viceversa, dietro la motivazione per relationem «possono agevolmente restare nascosti i conflitti, potenzialmente sempre presenti in seno alla coalizione, circa l’individuazione delle priorità “vere” all’interno della lunga lista di

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impegni in genere illustrati dal presidente del consiglio» (L. GIANNITI, N. LUPO, Corso di diritto parlamentare, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 208. Sull’illegittimità costituzionale della motivazione per relationem cfr., per tutti, M. GALIZIA, Studi, cit., pp. 451 ss.; A. MANNINO, Indirizzo politico e fiducia nei rapporti tra governo e parlamento, Milano, Giuffrè, 1973, p. 194). Tuttavia, l’innovazione prodotta dal governo Spadolini (e politicamente riconducibile all’intendimento di obbligare le forze politiche ad una crisi in parlamento giustificata da eventuali omissioni o violazioni del programma) non si è rivelata decisiva perché non è servita ad evitare la crisi dei due governi, oltre ad avere sollevato critiche di eccessiva rigidità sul piano politico il «metodo che fa leva su di una maggiore formalizzazione del rapporto con il parlamento» (P. CALANDRA, Il governo della Repubblica, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 82). Di fatto, la prassi è stata successivamente «corretta» con i due governi Craxi e con i governi Goria e De Mita, laddove la mozione rinviava per relationem alle dichiarazioni del presidente del consiglio ed agli allegati programmatici (viceversa, la mozione di fiducia al governo Fanfani V, oltre al rinvio alle comunicazioni del governo, conteneva anche un elenco di principi tratti dalle dichiarazioni programmatiche: G. RENNA, Instaurazione, cit., p. 90, nt. 74). Anche durante la vita del governo, il tentativo di rafforzamento del presidente del consiglio è evidente laddove Spadolini: a) affermò la responsabilità di guida dei servizi segreti dopo la vicenda della P2; b) rivendicò al governo un ruolo almeno di specificazione e diversificazione dell’indirizzo politico elaborato a livello di partiti; c) in seno al consiglio dei ministri svolse lunghe e dettagliate relazioni introduttive sull’attività del governo che gli attirò talvolta le critiche dei ministri che si sentivano «invasi» nelle loro prerogative. Il ruolo non irrilevante del presidente del consiglio è poi rinvenibile nella crisi (rientrata) del luglio 1982, laddove, dopo una forte divaricazione in seno al consiglio dei ministri del 30 giugno 1982 in materia di politica economica (in particolare sulla disdetta delle scala mobile delle imprese a partecipazione statale), egli riuscì, quasi sospendendo la collegialità (A. RUGGERI, Dall’affare Intersind alla «fiducia» senatoriale alla crisi di governo: le «tentazioni» istituzionali di un Premier nel corso di una vicenda costituzionalmente anomala, in Giur. cost., 1982, pp. 1534 ss.), a presentarsi al parlamento non dimissionario per rendere comunicazioni (a tale scopo aveva convocato un apposito consiglio dei ministri, senza però alcuna decisione collegiale, di fatto impossibile) e sostanzialmente per chiedere di dirimere il conflitto. In esito al dibattito, il presidente del consiglio decise di porre la fiducia sulla risoluzione della maggioranza, per evitare il voto segreto proposto dal gruppo comunista; ottenuta la fiducia, e quindi superata la crisi, riassunse al consiglio dei ministri la vicenda parlamentare.

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Anche se tale vicenda suscitò critiche per la possibile lesione delle prerogative del consiglio dei ministri (A. RUGGERI, Dall’affare Intersind, cit.), rimane il fatto che essa evidenziò il tentativo riuscito del presidente del consiglio di promuovere l’attività dei ministri e di dirigere la politica generale del governo, forse ai limiti estremi di espansione costituzionalmente consentita (C. CHIMENTI, Un parlamentarismo, cit., p. 196. In tale vicenda, infatti, il presidente del consiglio finì per autoattribuirsi la facoltà di ridefinire il programma di politica economica del governo, senza la collaborazione del consiglio dei ministri: A. REPOSO, Lezioni, cit., p. 166). Ma anche nella crisi del suo primo governo, Spadolini giocò un ruolo non irrilevante nella decisione di varare un governo praticamente identico al precedente, ciò che dette luogo anche ad alcune perplessità sul piano procedurale (si trattò nei fatti di una crisi rientrata che avrebbe potuto essere risolta con il rinvio del governo dimissionario alle camere: P. CALANDRA, I governi, cit., p. 384). Di fatto, però, i governi Spadolini, non meno dei precedenti, andò incontro a problemi di scollamento tra i ministri, tipici di quel modello di «governo evanescente» che il presidente del consiglio non riuscì a correggere: di fatto, decisivi per la sopravvivenza del governo risultarono l’appoggio incondizionato del capo dello Stato (tipica necessità di un governo ontologicamente debole), l’assenza di un alternativa politica praticabile e, da ultimo, l’opposizione benevola del PCI. Anche i governi Craxi si caratterizzarono per il tentativo di radicare una forte premiership, anche mediatica, che superasse i limiti degli esecutivi precedenti. Ma anche in questo caso, il presidente del consiglio dovette fare i conti con alcuni elementi di fondo del modello italiano di forma di governo. Così, ad esempio, la c.d. «convenzione della pari dignità», come si è detto, proprio nel periodo del pentapartito divenne un principio praticamente inderogabile, come testimoniato dalla vicenda dell’Achille Lauro (nave da crociera sequestrata da terroristi palestinesi), nella quale il presidente del consiglio assunse decisioni rilevanti per la politica estera e militare del nostro Paese, d’intesa con il ministro degli esteri, Andreotti, ma rompendo il principio di collegialità, senza coinvolgere né il consiglio dei ministri, né il consiglio di gabinetto e, per di più, senza informare il ministro della difesa e leader del PRI, Spadolini. Il tentativo del presidente del consiglio di spiegare in parlamento le ragioni della crisi senza dimettersi (in singolare assonanza con la pre-crisi del luglio 1982) fu respinto dalla DC che minacciò di ritirare la propria delegazione al governo per evitare l’isolamento del PRI e il voto favorevole del PCI. Il compromesso raggiunto nella maggioranza fece sì che il presidente del consiglio si presentasse già dimissionario alla camera per rendere comunicazioni e ciò fece sì che su di esse non si potesse aprire un dibattito né presentare risoluzioni.

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Dopo il chiarimento nella maggioranza e la reiezione delle dimissioni, il presidente del consiglio si ripresentò alle camere per la conferma della fiducia, ma in sede di replica, non mancò di polemizzare di nuovo con il PRI, sfiorando una clamorosa crisi di governo in parlamento (la prima nella storia della Repubblica!), con la DC ed il PRI che alla camera limitarono il voto favorevole solo al discorso introduttivo. In precedenza, invece, con il consenso nemmeno troppo convinto della maggioranza, il presidente del consiglio era uscito rafforzato dallo scontro con il PCI e con la componente comunista della CGIL, sulla vicenda del taglio della scala mobile, nell’ottica del contenimento del costo del lavoro (c.d. «decreto di S. Valentino»): la vittoria dei «no» al referendum abrogativo del 9 giugno 1985 voluto dal PCI fu considerata una vittoria in particolare di Craxi, avendo quest’ultimo impegnato la propria permanenza in carica di fronte all’opinione pubblica a questo esito (P. CALANDRA, I governi, cit., p. 400). Più in generale, occorre quindi sottolineare che nella fase che comprende la IX e la X legislatura si affermò anche una positiva tendenza al recupero del principio di maggioranza, smarrito, come si è detto, almeno dal 1953. Come si è accennato, durante il governo Spadolini iniziò l’esame parlamentare (in un primo tempo interrotto per lo scioglimento del 1987) del disegno di legge sull’ordinamento della presidenza del consiglio, che giunse in porto, come è noto, solo nel 1988. Come vedremo diffusamente nei capitoli successivi, tale legge costituì il punto di arrivo di una tendenza, manifestatasi anche in parlamento nella sede della «commissione parlamentare per le riforme istituzionali» (c.d. commissione Bozzi), che aveva concluso i suoi lavori (1985) suggerendo, per ciò che riguardava la forma di governo, il rafforzamento del principio monocratico attraverso la concessione della fiducia al solo presidente del consiglio e la previsione espressa di un suo potere di revoca dei ministri. Questi cambiamenti avrebbero richiesto modifiche costituzionali che non si ritenne opportuno o possibile di attivare. La legge n. 400, tuttavia, realizza, dopo decenni di attesa, una normativa espressa sulla presidenza del consiglio dei ministri, fornendo così al primo ministro una struttura indispensabile per lo svolgimento della sua funzione di indirizzo e di coordinamento del governo e della stessa P.A. Per il resto, la legge n. 400 oscilla fra suggestioni di razionalizzazione del vecchio modello coalizionale (consiglio di gabinetto; vice-presidenti del consiglio) ed una concezione del governare che cerca, invece, di introdurre una reale collegialità del consiglio dei ministri, sia nella fase di deliberazione della politica generale del governo che in quella del suo mantenimento, in relazione «all’indirizzo politico fissato dal rapporto fiduciario con le camere» (così, art. 2, comma 1, legge n. 400, 1988). Ancora, sempre nella stessa direzione del recupero di contenuti minimi

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del principio di maggioranza, vanno segnalate altre riforme realizzate nello stesso 1988: la prima, tendente a rendere più governabile il processo di bilancio (legge n. 362 del 1988); le seconde, introdotte, invece, nei regolamenti parlamentari, riguardanti l’assunzione della regola generale dello scrutinio palese (si tratta, forse, della più importante innovazione nel sistema dei rapporti fra governo e parlamento, fino ad allora dominato dal sistema dei «franchi tiratori») e l’introduzione di una sorta di ridotta «corsia preferenziale» per le iniziative del governo, in relazione al contingentamento dei tempi di discussione e votazione delle leggi (cfr. C. CHIMENTI, Un parlamentarismo, cit., pp. 231 ss.). Queste riforme hanno, però, il grave limite di cogliere la richiesta di «governabilità» solo dal punto di vista dell’efficienza del sistema di governo, mentre ormai quella richiesta era posta dall’opinione pubblica anche, ed ancor di più, in relazione ad un significativo recupero dell’indirizzo politico e di governo da parte del corpo elettorale, e quindi in relazione ad una modifica della legge elettorale in senso maggioritario. Il blocco di governo si oppose, invece, con decisione a queste richieste, manifestando la sua opposizione anche al referendum sulla preferenza unica, che si svolse nel 1991. Rimane comunque il fatto che le caratteristiche di fondo della nostra forma di governo fino al 1992 sono tali da non poter essere incise in profondità da un intervento di carattere legislativo ordinario: in altre parole, si è rivelato illusorio il tentativo di superare, con una mera legge ordinaria, la prassi per cui in questo periodo le attribuzioni costituzionali del presidente del consiglio sono in concreto esercitabili solo se «consentite» dai ministri, «delegati» dei partiti al governo o, più a monte, dagli stessi vertici di partito (L. VENTURA, Il governo, cit., pp. 95 ss.; C. CHIMENTI, Addio prima Repubblica. Lineamenti della forma di governo italiana nell’esperienza di dodici legislature, Torino, Giappichelli, 1997, pp. 160 ss.). In effetti, la legge n. 400 del 1988 da questo punto di vista, non ha rappresentato un correttivo efficace di quel modello di «direzione plurima dissociata» che ha caratterizzato i governi del pentapartito non meno dei precedenti ma che in questo periodo raggiunge forse manifestazioni prima inedite, solo arginate da mere raccomandazioni del presidente del consiglio all’unità ed alla collegialità. Le crisi di governo sono tutte extraparlamentari e le sue cause sono quelle tipiche anche del periodo precedente ovvero il contrasto tra DC e PSI (governo Spadolini I, Craxi II, Goria), il dissenso tra ministri (governo Spadolini II) il disimpegno di un partner di maggioranza (governi Fanfani V e De Mita), il diniego iniziale di fiducia (governo Fanfani VI), l’esaurimento dell’azione del governo (governo Andreotti VI) la fine della legislatura (leggermente abbreviata rispetto alla conclusione naturale: governo Andreotti VII). Nel periodo in questione la «parlamentarizzazione» delle crisi diviene

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la regola: sono così utilizzate sia la reiezione delle dimissioni del governo, nei casi di intervenuto chiarimento nella maggioranza (si vedano, ad esempio, le crisi rientrate del governo Craxi I in relazione alla vicenda dell’«Achille Lauro» e del governo Goria a seguito della dissociazione del PLI) o di necessaria chiarificazione del quadro politico (come nel governo Craxi II), sia il coinvolgimento delle camere nei casi di intervenute dimissioni del governo: ma in questi casi, la procedura è stata soggetta a critiche perché la «parlamentarizzazione» si traduce in una mera comunicazione del presidente del consiglio senza la possibilità di un dibattito né di un voto, assolvendo quindi ad una finalità non risolutiva né determinante (così, nei casi del governo Spadolini II e Fanfani V). In questo senso, è da rimarcare che nessuna «parlamentarizzazione» si è avuta a seguito della crisi del governo De Mita, sul presupposto che essa avrebbe acuito i già difficili rapporti tra DC e PSI (considerazione, questa, che richiama il periodo 1953-1981). Sul punto è comunque da segnalare l’approvazione, nel gennaio 1991 di una mozione (Scalfaro ed altri) volta ad impegnare costituzionalmente il governo, in caso di dimissioni, a renderne previa comunicazione motivata alle camere. Infine, è da segnalare che nel periodo del pentapartito le opposizioni più frequentemente hanno fatto ricorso alla presentazione di mozioni di sfiducia, sia contro il governo, sia contro singoli ministri, a dimostrazione di un sostanziale superamento di quei moduli consociativi che avevano contrassegnato il periodo precedente. La scarsa coesione della maggioranza e i fenomeni di direzione plurima dissociata hanno costituito fattori di continua instabilità dell’azione di governo: così, ad esempio, il governo Andreotti VI, che è durato circa un anno e mezzo, è stato per molti mesi tenuto in vita artificialmente e quindi ormai praticamente paralizzato nell’azione politica, prima per non indebolire la presidenza italiana del Consiglio delle Comunità europee (secondo semestre 1990) e poi per lo scoppio della prima guerra contro l’Iraq. Il presidente del consiglio, salvo le parziali eccezioni già analizzate relative ai governi Spadolini e Craxi, non ha visto accrescere il proprio ruolo né in generale né in relazione alle situazioni di crisi politica. Così, il presidente, talvolta obtorto collo, ha dovuto «coprire» l’operato di ministri soggetti a critiche da parte delle opposizioni o dall’interno della maggioranza: si possono ricordare, solo per citare alcuni esempi, durante il governo Craxi I il caso del ministro (e leader del PSDI) Longo, in relazione alle risultanze della commissione d’inchiesta sulla P2 (il ministro poi si dimise); del ministro Andreotti, contro cui radicali e DP chiesero le dimissioni per il coinvolgimento nelle vicende del finanziere Sindona (la richiesta fu respinta con l’astensione dei parlamentari del PCI, contro i quali successivamente polemizzò la segreteria del partito). Del tutto particolare è il caso del ministro dell’interno Gava, con il quale il presidente del consiglio De Mita solidarizzò in relazione alla vicenda

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del rapimento di un assessore regionale campano rivelando che il ministro aveva offerto per due volte le dimissioni: in questo caso, il ministro dichiarò alla stampa il suo disappunto per tale rivelazione, ritenuta, piuttosto clamorosamente, una questione privata tra lui e il presidente del consiglio. Anche nel periodo del pentapartito le esternazioni dei ministri finirono per assumere un effetto destabilizzante e fino dal governo Spadolini I si elaborò una distinzione, assai scivolosa peraltro, tra dichiarazioni svolte dai ministri quali esponenti politici o di partito e quelle svolte come componenti dell’esecutivo. Emblematica è la fine del governo Spadolini II che nacque proprio sul terreno di un dissenso incomponibile tra due ministri (Andreatta e Formica): Il premier non ebbe né la possibilità «politica» di schierarsi con uno dei due, costringendo l’altro alle dimissioni né di revocarli entrambi, pur auspicando una prassi favorevole in questo senso. Spadolini, quindi, significativamente richiese le dimissioni non ai ministri interessati ma ai rispettivi partiti, e, non avendole ottenute, annunciò quindi le dimissioni del governo, denunciando una dialettica tutta extragovernativa, con mortificazione dei principi di collegialità e dei poteri di coordinamento del presidente del consiglio. Nel periodo finale dell’esperienza dei governi di pentapartito, che può essere riferita ai governi Andreotti VI e VII, vi sono alcune novità politiche e istituzionali. Tra le prime, il progressivo disimpegno del PRI dall’area del governo già nel governo Andreotti VI durante il quale il segretario del partito, La Malfa, si dimise polemicamente dopo aver criticato l’azione dell’esecutivo. Successivamente, con una decisione inedita nella storia istituzionale, il PRI uscì dal governo e dalla maggioranza facendo ritirare la propria delegazione dopo la nomina e subito prima del giuramento, per l’insoddisfazione per la ripartizione dei portafogli (cfr. infra). Ancora, a partire dal 1989 iniziò la progressiva trasformazione del PCI nel PDS mentre all’interno della DC la sconfitta della corrente di De Mita lasciò strascichi polemici che culminarono nelle dimissioni dei cinque ministri di tale corrente dal governo Andreotti VI in polemica per l’approvazione della nuova legge sull’emittenza radiotelevisiva. In entrambi i casi, non si ebbe crisi, ma non certo per l’iniziativa propria ed esclusiva del presidente del consiglio quanto per la determinazione della coalizione appoggiata, nel primo caso, dal capo dello Stato, Francesco Cossiga. Nel primo caso, dopo un ulteriore giro di consultazioni da parte del presidente della Repubblica, si ricorse all’interim dei ministeri già assegnati ai ministri del PRI al presidente del consiglio (la particolarità è che tale interim durò fino alla fine del governo, nonostante che tale istituto dovrebbe essere utilizzato per situazioni solo transitorie: cfr. infra, cap. 3, par. 4): da qui i dubbi di costituzionalità della procedura seguita

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anche per l’irrisolto problema della fisionomia politica del governo dopo l’uscita del PRI. Nel secondo caso, la contrarietà dei partners di governo rispetto alla prospettiva della crisi portò alla decisione di un maxi-rimpasto che aveva un precedente solo nel governo De Gasperi V: anche in questo caso, la decisione comportò serie obiezioni sul piano della costituzionalità, potendosi sostenere che l’uscita dei cinque ministri (titolari di portafogli politicamente rilevanti) avesse comportato un’alterazione della fisionomia politica del governo (M. CARDUCCI, Integrazioni pattizie di accordi di coalizione, rimpasti di governo, disciplina di partito, in Quad. cost., 1991, pp. 111 ss.). A tali obiezioni, oltre ai precedenti, si rispose, sul piano politico, con la nomina di ministri, politici e tecnici, considerati vicini alla corrente di sinistra della DC. Alla decisione del rimpasto il PCI e la sinistra indipendente reagirono con la presentazione di una mozione di sfiducia alla camera; ma essa non fu posta in votazione, essendo presentata una risoluzione da parte dei capigruppo della maggioranza, di approvazione delle comunicazioni del presidente del consiglio relative al rimpasto. Tale risoluzione fu approvata dalla maggioranza compatta (ivi compresi quindi i parlamentari della sinistra DC). Analoga procedura fu seguita anche al senato. In questa fase politica, il presidente del consiglio si trovò a fronteggiare l’attivismo, talvolta assai improprio sul piano costituzionale, del capo dello Stato: proprio il dualismo tra presidente del consiglio e presidente della Repubblica caratterizzò il sesto ma ancora più il settimo governo Andreotti. Per la formazione di quest’ultimo, il capo dello Stato prima si oppose ad una ipotesi di rimpasto, imponendo la crisi, per un chiarimento globale con ciò straripando probabilmente nelle competenze del governo e delle camere; quindi recuperò l’istituto dell’incarico «vincolato» alle riforme istituzionali da lui direttamente suggerite, cercando poi di condizionare la formula politica (e probabilmente sull’uscita del PRI non fu estranea la volontà del capo dello Stato, a causa delle critiche espresse dal suo segretario, Giorgio La Malfa, all’organizzazione segreta «Gladio»). In sede di conferimento dell’incarico il presidente della Repubblica rese nota una lettera nella quale precisò, in un’ottica quasi semi-presidenziale, le prerogative proprie e quelle del presidente del consiglio nella formazione del governo. Nel dibattito sulla fiducia, il presidente del consiglio fu costretto a precisare che il cambiamento nella lista dei ministri, rispetto agli accordi intercorsi con i partiti della maggioranza, non era dovuto né ad un intervento del presidente Cossiga né ad un veto del PSI. Rispetto alle trattative, infatti, il PRI si era visto assegnare portafogli meno «pesanti» (partecipazioni statali che il PRI avrebbe voluto sopprimere; beni culturali al posto di quello delle poste, mentre Maccanico aveva perso la delega sulle riforme istituzionali). Il PRI contestò la violazione del patto di coalizione ma anche del principio di collegialità (ritenuto tale anche nella fase genetica).

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Ma di seguito, il capo dello Stato in televisione «integrò» il programma di governo assumendo come centrale ed ineludibile il tema delle riforme, decidendo in seguito l’invio di un discutibile messaggio alle camere (cfr. infra) ma dal suo vice. Ancor più nella vicenda Gladio il capo dello Stato intervenne pesantemente sul governo, minacciando l’autosospensione ove non fosse stata dichiarata la legittimità di tale organizzazione. L’interventismo del capo dello Stato generò tensioni nella maggioranza (in particolare, tra DC e PSI) e nei rapporti con l’opposizione di sinistra, oggetto di attacchi polemici da parte del capo dello Stato. La fine della X legislatura si caratterizzò quindi per un clima di reciproca diffidenza tra presidente della Repubblica e presidente del consiglio che culminò nell’anomalo scioglimento anticipato dell’inizio del 1992 avvenuto con una decisione unanime della maggioranza, senza dimissioni del governo e anzi con un passaggio fiduciario al senato nel quale il governo rassicurò le opposizioni circa il corretto svolgimento della campagna elettorale. In tal modo, il governo, rimanendo in carica, ritenne di contrapporsi meglio rispetto ad eventuali determinazioni sgradite del capo dello Stato, tra le quali la formazione di un gabinetto elettorale. Rispetto ad una decisione che sembrava marginalizzarlo, il presidente della Repubblica in una dichiarazione resa pubblica rivendicò la competenza esclusiva a decidere la fine anticipata della legislatura e, successivamente, in televisione, motivò politicamente la decisione dello scioglimento (si tratta di una abbreviazione della legislatura di pochi mesi) con l’impossibilità di addivenire ad un percorso condiviso di riforme istituzionali e, discutibilmente, con la delegittimazione cui il parlamento sarebbe incorso, in quanto eletto prima del crollo del comunismo. È comunque eccessivo interpretare lo scioglimento del 1992 come «governativo» (così, invece, in particolare, M. OLIVETTI, Lo scioglimento delle camere del 2 febbraio 1992. Una «curiosità costituzionale» o un precedente imbarazzante?, in Giur. cost., 1993, pp. 599 ss.). In realtà esso maturò in un clima di generale condivisione, anche delle opposizioni di sinistra (salvo alcune posizioni contrarie ad uno scioglimento senza le dimissioni del governo). Come si è accennato, soprattutto nell’ultima fase della stagione del «pentapartito» un elemento di perturbazione degli equilibri istituzionali è quindi rappresentato dall’attività del presidente della Repubblica. Francesco Cossiga, dimostratosi molto sensibile ai problemi della forma di governo, usò fino ai limiti del lecito il suo «potere di esternazione» per sostenere alcune soluzioni orientate in direzione maggioritaria. A tale fine, come accennato, il presidente inviò alle camere, il 26 giugno 1991, un «messaggio» (ex art. 87 Cost.), nel quale egli suggeriva un nuovo «patto», una nuova «fase costituente» che avrebbe dovuto condurre ad una profonda revisione della Costituzione. Secondo Cossiga, le profonde innovazioni costituzionali avrebbero potuto essere raggiunte attraverso tre strade «tutte teoricamente conformi alla

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Costituzione»: 1) con l’approvazione di leggi di revisione costituzionale secondo il procedimento previsto dall’art. 138 Cost.; 2) con l’approvazione di una legge costituzionale attributiva alle stesse camere «di veri e propri poteri costituenti»; 3) con l’approvazione di una legge costituzionale che prevedesse l’elezione di una vera e propria Assemblea costituente (cfr. La Costituzione e le riforme istituzionali, Roma, Camera dei deputati, 1991, p. 40). Se si tiene conto del fatto che, per quanto riguarda il merito delle riforme, il presidente della Repubblica sosteneva la scelta di una forma di governo ispirata ai principi delle «democrazie dirette», fino a suggerire l’adozione del sistema presidenziale, si capisce perché il messaggio di Cossiga abbia dato luogo a due innovazioni nella consolidata consuetudine riguardante i messaggi presidenziali. Anzitutto, il governo (VII governo Andreotti) preferì che a controfirmare il messaggio non fosse, come per il passato, il presidente del consiglio. La controfirma fu, dunque, apposta dal ministro guardasigilli, per significare la neutralità del governo sul merito del messaggio presidenziale. In secondo luogo, il parlamento, che in precedenza non aveva mai voluto discutere i messaggi dei presidenti (da quello di Segni del ’63 a quello di Leone del ’75), per non avallare una sorta di «iniziativa presidenziale» collegata al potere di cui all’art. 87, comma 2, discusse invece, con sedute tenute contemporaneamente dalla camera e dal senato, il messaggio di Cossiga. Con l’iniziativa di Cossiga, ed il conseguente dibattito parlamentare del 23, 24 e 25 luglio 1991, si può dire che il problema delle riforme istituzionali divenne «oggetto e strumento della lotta politica» (così, C. FUSARO, La prassi più recente della presidenza Cossiga, in Dir. e soc., 1992, pp. 115 ss.). Di più: accanto al ruolo di promotore delle riforme costituzionali, il presidente della Repubblica, come si è accennato, volle assumere anche quello di vero vertice del potere esecutivo; intento che risultava da una pluralità di comportamenti: dalle lettere inviate ai presidenti incaricati (nelle quali il presidente affermava il proprio diritto ad esprimere «avvisi, consigli, avvertimenti» anche in relazione alle nomine dei ministri), agli interventi diretti nella soluzione delle crisi ministeriali. Tuttavia, al di là della sua attività formale, il presidente della Repubblica divenne, nella seconda parte del suo mandato, uno fra i soggetti politici in campo, soprattutto attraverso l’uso del suo «potere di esternazione». In base a quel potere, partiti politici, leaders dei partiti, sindacati, magistrati, forze armate o di polizia, furono criticati, lodati o incoraggiati a seconda della loro maggiore o minore consonanza con gli orientamenti politici generali del capo dello Stato. Questo atteggiamento (che trovò, forse, il suo culmine nella minaccia di «autosospensione» del presidente, usata per dissuadere il governo dal nominare un «comitato di saggi» per indagare sulla legalità dell’organizzazione Gladio) indusse, alla fine, i gruppi parlamentari del PDS a presentare una denuncia per attentato alla Costituzione contro il presidente della Repubblica.

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Questa denuncia (poi archiviata all’inizio della legislatura successiva) chiuse in maniera drammatica la X legislatura. La forma di governo italiana, che per più di quarant’anni si era basata su un’idea della rappresentatività che vedeva il parlamento ed il governo al centro del sistema, si mostrava, ormai, in piena crisi. Il presidente della Repubblica, ben al di là del suo ruolo di garante della Costituzione, contestava, ormai, apertamente la rappresentatività dei partiti, del parlamento e del governo. È, insomma, evidente che, al di là dei risultati elettorali, il problema delle riforme istituzionali avrebbe condizionato tutto lo svolgimento della XI legislatura.

5. Verso la democrazia maggioritaria? I referendum elettorali ed il problema delle riforme istituzionali: la commissione bicamerale De Mita-Jotti I risultati delle elezioni politiche dell’aprile 1992, pur indebolendo i principali partiti di governo (DC e PSI), non sarebbero stati tali da indurre da soli mutamenti di rilievo nell’assetto politico. Due importanti novità si aggiungono, invece, a quella instabilità politica che aveva caratterizzato, come si è visto, la X legislatura. Anzitutto, si costituì un movimento, guidato da Mario Segni (parlamentare democristiano, ma in polemica con il suo stesso partito circa le riforme istituzionali), per giungere, anche a «colpi di referendum», ad una riforma in senso maggioritario ed uninominale della legge elettorale; questo movimento, dopo la vittoria del 1991 nel referendum per l’introduzione della preferenza unica nel sistema elettorale della camera dei deputati, rilanciò la sua iniziativa a favore della modifica in senso maggioritario della legge elettorale. Infatti, benché la corte costituzionale avesse respinto, con la sent. n. 47 del 1991, l’ammissibilità di due referendum volti a modificare in senso maggioritario il sistema elettorale del senato e quello dei comuni, il comitato Segni ripropose con alcune modificazioni, nel corso del 1992, gli originari quesiti. La modifica in senso maggioritario ed uninominale della legge elettorale era, infatti, considerata la riforma principale per la realizzazione di una democrazia più diretta, meno «intermediata» dai partiti politici e dai loro apparati. Nel 1991 la corte costituzionale aveva respinto l’ammissibilità del referendum sulla legge elettorale del senato, principalmente in base alla duplice considerazione della non omogeneità del quesito e dell’insufficienza della normativa di risulta ad assicurare la immediata eleggibilità dell’organo, essenziale a garantire la sua costante operatività, costituzionalmente necessaria (cfr. P. CARNEVALE, Il referendum abrogativo e i limiti della sua ammissibilità nella giurisprudenza costituzionale, Padova, Cedam, 1992; A. CARIOLA, Referendum abrogativo e giudizio costituzionale, Milano,

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Giuffrè, 1994). Il movimento referendario ritenne, giustamente, che le motivazioni della corte non fossero preclusive ad una riproposizione del referendum se, attraverso una migliore utilizzazione della «tecnica del ritaglio», l’omogeneità del quesito e l’immediata operatività della normativa di risulta fossero state assicurate. Questo problema, di per sé squisitamente tecnico, rimandava, in realtà, ad una fondamentale questione di interpretazione della Costituzione proprio in tema di forma di governo. È del tutto evidente, infatti, che, se la corte avesse respinto preliminarmente la possibilità di formulazione dei quesiti attraverso la tecnica del ritaglio, l’istituto del referendum sarebbe rimasto nei limiti di espressione di una «volontà negativa» da parte del corpo elettorale che erano, molto probabilmente, nelle intenzioni dei costituenti. La corte costituzionale aveva voluto, però, nella sentenza del 1991 lasciare aperta la porta ad una riproposizione del quesito, avvertendo, con ciò, il parlamento che, se le camere non avessero provveduto con legge ad approvare l’attesa riforma, la corte avrebbe potuto, in seguito, dichiarare ammissibile una successiva richiesta di referendum. Con questo, al corpo elettorale era attribuita una sorta di «supplenza legislativa», forse resa necessaria nel pensiero della corte dalle insuperabili difficoltà che un sistema politico incontra quando, attraverso una modifica del sistema della rappresentanza, gli si chiede di riformare se stesso. Dopo le elezioni del 1992, il sistema politico italiano non sembrava, invece, in grado di «autotraghettarsi» dalle sponde di una democrazia fondata sul proporzionalismo a quelle di una democrazia maggioritaria, bipolare e basata, perciò, sull’alternanza al governo (almeno) di coalizioni predeterminate ed elettoralmente contrapposte. L’incapacità auto-riformatrice del sistema politico derivava dal fatto che, da un lato, come si è detto, i due maggiori partiti di governo erano usciti indeboliti dall’esito del referendum del ’91 e delle elezioni del ’92. Inoltre, nel corso del 1992 i vertici di tutti i partiti di governo furono duramente colpiti dagli esiti di una serie di indagini giudiziarie promosse dalla procura della Repubblica del tribunale di Milano. Da quelle indagini emerse progressivamente un sistema di corruzione politica diffusa nel settore pubblico ed in quello privato dell’economia; sistema destinato ad alimentare non solo le finanze dei partiti ma anche quelle, personali, di molti uomini politici. L’opinione pubblica fu profondamente colpita da queste vicende e, dunque, risultava impossibile realizzare quella intesa fra DC e PSI che avrebbe dovuto portare dopo le elezioni del ’92 Craxi alla presidenza del consiglio ed Andreotti alla presidenza della Repubblica. Il primo atto di rilievo del nuovo parlamento fu, dunque, quello di eleggere alla presidenza della Repubblica il presidente della camera dei deputati Oscar Luigi Scalfaro, considerato da uno schieramento abbastanza largo (672 voti su 1.014 votanti) un «presidente di garanzia», se-

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condo quell’orientamento che aveva portato, nel passato, all’elezione di Pertini ed anche di Cossiga. In base a questo ruolo, il nuovo capo dello Stato condusse le consultazioni per la formazione del primo governo della XI legislatura in modo tale da escludere dalla guida del governo personaggi coinvolti nell’inchiesta «tangentopoli». Il risultato fu l’affidamento dell’incarico all’ex ministro del tesoro Giuliano Amato, che rispondeva sia a requisiti politici che a requisiti di competenza istituzionale. Il governo Amato era un governo «quadripartito» (DC, PSI, PSDI, PLI) come il precedente governo Andreotti, ma già nel procedimento di formazione era possibile una maggiore libertà di scelta dei ministri da parte dell’incaricato, che si riservava altresì una larga autonomia nella scrittura del programma di governo. Il problema della riforma delle istituzioni, che era esploso, come già osservato, nella legislatura precedente, non avrebbe, però, potuto non essere affrontato dal nuovo parlamento, se non altro per porre in essere un tentativo estremo di recuperare una qualche legittimazione ad un sistema della rappresentanza (partiti, parlamento, governo) messo ormai seriamente in questione dagli scandali giudiziari. Come si dirà anche nel cap. 4, il governo, titolare dell’indirizzo politico di maggioranza, non può essere considerato legittimato a presentare disegni di legge implicanti modifiche organiche della Costituzione. In conseguenza di questa impostazione, il parlamento eleggeva, nello stesso mese di luglio, subito dopo aver concesso la fiducia al governo Amato, una commissione bicamerale per le riforme istituzionali. Compito della commissione era quello di formulare un progetto di revisione degli artt. 55-137 Cost. (in pratica, tutto l’ordinamento della Repubblica, ad esclusione della revisione della Costituzione) e due progetti di legge ordinaria sull’elezione delle due camere e dei consigli regionali. La commissione, la cui presidenza fu inizialmente attribuita a Ciriaco De Mita, venne istituita in base a due parallele mozioni delle due camere, approvate contemporaneamente alla presentazione di un progetto di legge di revisione dell’art. 138 Cost., che prevedeva una sorta di deroga temporanea allo stesso art. 138, proprio in relazione alle competenze ed al modus operandi della stessa commissione bicamerale. Nell’ambito del limite delle materie assegnatele, alla commissione bicamerale furono infatti attribuiti poteri referenti, poiché la legge costituzionale prevedeva che sul testo di revisione approvato in via definitiva dal parlamento si sarebbe comunque svolto il referendum popolare, indipendentemente dal quorum di approvazione del progetto. La legge di revisione temporanea dell’art. 138 Cost. fu, però, pubblicata definitivamente solo nel maggio del 1993 (legge costituzionale 8 maggio 1993, n. 1), quindi, dopo lo svolgimento del referendum sulla legge elettorale del senato (18 aprile del 1993), che, come si dirà, vide la nettissima affermazione del «sì» con oltre l’80% dei voti favorevoli.

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Per quanto riguarda la commissione bicamerale, i risultati del referendum significavano, anzitutto, la definitiva sottrazione ad essa della riforma elettorale, spettante ormai, all’intero parlamento come atto costituzionalmente dovuto dopo l’esito della consultazione popolare; atto che, nel merito, avrebbe dovuto inevitabilmente seguire, sia per la camera che per il senato, i principi prevalentemente maggioritari che attraverso la «tecnica del ritaglio» erano stati direttamente stabiliti dal popolo sovrano. Proprio perché la riforma elettorale presentava questi nuovi caratteri, il parlamento sottrasse l’intera materia alla bicamerale e affidò la redazione dei relativi progetti di legge alle ordinarie commissioni costituzionali della camera e del senato. La commissione bicamerale, intanto, proseguì i suoi lavori sotto la guida del nuovo presidente, Nilde Jotti (10 marzo 1993).Tuttavia, nel nuovo clima politico creato dai risultati referendari, il parlamento della XI legislatura si sentiva, ormai, sostanzialmente delegittimato ed era in attesa di quello scioglimento anticipato che necessariamente sarebbe seguito agli adempimenti governativi successivi all’approvazione delle leggi elettorali (sostanzialmente, la individuazione dei nuovi collegi uninominali). Il lavoro della bicamerale terminò, dunque, alla fine del 1993, poco prima, dunque, dello scioglimento anticipato del parlamento, non senza, però, che i due comitati interni alla stessa commissione (rispettivamente, sulla forma di governo e sulla forma di Stato) presentassero articolate proposte di riforma della Costituzione. Di quel lavoro sembra opportuno dare, brevemente, conto anche perché alcune delle soluzioni ivi proposte sarebbero rimaste, poi, alla base dei dibattiti politici ed istituzionali non solo nelle legislature successive. Anzitutto, risultati interessanti furono prodotti dal comitato sulla «Forma di Stato» in relazione alle autonomie territoriali. In base alle modifiche costituzionali proposte, le regioni venivano ad assumere competenze che, almeno per la sfera legislativa, si ponevano «al limite del federalismo». È vero che il testo proposto dal comitato non risolveva, poi, altri rilevanti problemi, quali, ad esempio, quelli riguardanti l’autonomia impositiva delle regioni e i più complessivi rapporti tra regioni ed autonomie locali, ma, ciò malgrado, si può ritenere che l’impostazione fondamentale del lavoro della bicamerale sul rapporto Stato-regioni abbia rappresentato un punto di riferimento essenziale prima per la commissione parlamentare per le riforme costituzionali della XIII legislatura (c.d. commissione D’Alema), poi, soprattutto per le leggi costituzionali n. 1 del 1999 e 3 del 2001, con le quali è disposta la riforma del titolo V della parte II della Costituzione. Più controverse appaiono, invece, le conclusioni del comitato «forma di governo». Anzitutto, e proprio per quanto riguarda le inevitabili connessioni fra

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forma di Stato e forma di governo, il comitato optava, alla fine, per una soluzione fondamentalmente tradizionale a proposito della revisione del bicameralismo e della composizione del senato. Contro le opinioni di una parte del comitato che proponeva «un bicameralismo fortemente differenziato, articolato in un’assemblea nazionale e in una camera delle regioni, quest’ultima eletta dai consigli regionali con un meccanismo elettorale di secondo grado e funzionalizzata principalmente a rappresentare i corpi territoriali» (così, G.F. CIAURRO, La prima fase dei lavori della commissione De Mita per le riforme istituzionali, in «1989», 1993, n. 3, p. 211), la maggioranza preferì, invece, il mantenimento dell’attuale sistema bicamerale, anche se temperato da alcune modifiche procedimentali tali da rendere soltanto eventuale l’approvazione delle leggi da parte della seconda camera. Nella sostanza, il «bicameralismo perfetto» era mantenuto, per ciò che riguardava il procedimento di formazione delle leggi, soltanto per le più importanti di esse (quelle costituzionali, elettorali, di bilancio, di delegazione, ecc.); per le altre materie, si prevedeva, invece, che i progetti di legge approvati da una camera e trasmessi all’altra si intendessero definitivamente approvati se entro quindici giorni dall’annuncio un terzo dei suoi componenti non avesse richiesto che il progetto di legge fosse sottoposto anche alla sua approvazione (trenta giorni se la richiesta proveniva dalla maggioranza assoluta). Anche per ciò che riguarda la struttura del governo, il rapporto fra l’esecutivo ed il parlamento ed i poteri del presidente della Repubblica, le conclusioni della bicamerale sembravano essere più volte a «razionalizzare» la vecchia forma di governo (coalizionale e proporzionalista) che ad aiutare lo stabilirsi in Italia di una democrazia della alternanza. Infatti, è vero che, da un lato, la bicamerale prendeva atto in maniera definitiva della crisi irreversibile di quel modello di governo, ereditato dal periodo statutario ed illustrato nelle pagine precedenti, fondato del pari su collegialità, ministerialismo e preminenza politica del Premier. Il rimedio ai vizi di quel modello era, però, cercato non nel modello di Westminster, ma nell’adozione di una forma attenuata della forma di governo a cancellierato propria della Germania. Del cancellierato si proponeva, nella sostanza, di recepire il procedimento di formazione del governo. Il presidente della Repubblica doveva, infatti, designare un candidato primo ministro che il parlamento in seduta comune eleggeva a maggioranza dei componenti a seguito di un dibattito su un documento politico-programmatico. In caso di fallimento della prima designazione, sarebbe spettato al capo dello Stato procedere ad una seconda. L’esito negativo anche della seconda designazione avrebbe consentito al parlamento di votare su candidature sottoscritte da almeno un terzo dei membri del parlamento stesso. Lo scioglimento sarebbe, però, intervenuto obbligatoriamente qualora il parlamento non fosse riuscito ad eleggere il primo ministro entro quattordici giorni dal fallimento della se-

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conda designazione presidenziale. Similmente, dal modello tedesco si mutuava l’istituto della «sfiducia costruttiva», nel senso che il parlamento avrebbe potuto revocare la fiducia al governo solo mediante l’approvazione (a maggioranza dei componenti) di una mozione motivata contenente l’indicazione del successore. In coerenza con il sistema tedesco, si prevedeva, inoltre, che competesse al primo ministro non soltanto di nominare, ma anche di revocare i ministri. La scelta del cancellierato corrispondeva al tentativo di ricomporre nel primo ministro quella unità ed omogeneità dei governi che era stata quasi sempre mancante nella storia repubblicana. Del modello tedesco (che è in sé una versione più attenuata delle «democrazie dirette», rispetto al sistema inglese, in quanto la «sfiducia costruttiva» consente di rovesciare i risultati elettorali, mutando le coalizioni di governo), la bicamerale presentava, però, una versione attenuata. Non era previsto, infatti, ed anzitutto, quel potere che qualifica in senso fortemente governativo la forma di governo tedesca, ovvero il potere di scioglimento anticipato delle camere che, in base all’art. 68 L.F., spetta al cancelliere quando il Bundestag respinga una sua questione di fiducia. Inoltre, mentre risultava assente una norma come quella che consente al cancelliere di determinare le «direttive politiche» per i ministri, la previsione della concessione della fiducia al primo ministro, non «senza dibattito» (art. 63 L.F.) ma in base alla presentazione di un documento politicoprogrammatico (mutuando in questa parte una soluzione fatta propria dalla Costituzione spagnola), faceva supporre che il presidente del consiglio italiano non avrebbe disposto personalmente, rimanendone responsabile, dell’indirizzo politico generale del governo. D’altra parte, che il problema riguardante il potere di scioglimento anticipato fosse anche nelle discussioni della bicamerale una delle chiavi di volta della forma di governo prescelta e del suo effettivo funzionamento, è dimostrato dal fatto che sull’esercizio di quel potere si manifestò in sede di comitato una tale contrapposizione da rendere impossibile la presentazione (sul punto) di una proposta univoca. Una parte consistente del comitato sulla forma di governo si mostrava, infatti, convinto che i poteri di intermediazione politica attribuiti dalla Costituzione vigente (ed ancor più dalla prassi) al presidente della Repubblica avessero contribuito ad appannare progressivamente il già confuso sistema dei poteri e delle responsabilità dei partiti e degli organi costituzionali, in particolare di quelli del governo. Procedimento di nomina del governo (in particolare del primo ministro, come si è visto nelle pagine precedenti) e scioglimento anticipato delle camere sono, dunque, i poteri del presidente che, essendo inevitabilmente carichi di implicazioni politiche, avrebbero dovuto essere sottratti al capo dello Stato se si voleva realizzare una forma di governo qualificabile nel genus delle democrazie dell’alternanza.

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Invece, mentre, come si è appena detto, la scelta di un procedimento di nomina del governo ispirato all’art. 63 L.F. tedesca sottrae al presidente della Repubblica quel di più di mediazione esercitato fino ad oggi, contrasti politici insuperabili costrinsero il comitato a presentare non una ma due ipotesi di modifica del vigente art. 88 Cost., volte, la prima a sopprimere del tutto il potere di scioglimento anticipato, la seconda a mantenerlo formalmente nelle mani del capo dello Stato, ma in base ad una «intesa» con i presidenti delle camere e con il presidente della corte costituzionale. Su questo scoglio si chiusero emblematicamente (come emblematicamente si erano chiuse con l’impossibilità di varare un’accettabile riforma elettorale maggioritaria) le potenzialità di riforma della bicamerale, favorevole ad una razionalizzazione della forma di governo vigente, ma non capace di proporre un limpido sistema di democrazia maggioritaria. Il rafforzamento della leadership del presidente del consiglio si rivelava, infatti, insufficiente per ciò che riguarda la responsabilità dell’indirizzo politico di governo. Inoltre, la sottrazione al governo del potere di scioglimento anticipato rendeva ancora meno efficace la cosmesi costituzionale proposta. Da un lato, infatti, la mancanza di quel potere avrebbe impedito al governo quell’«appello al corpo elettorale» che esalta nelle democrazie dell’alternanza la responsabilità diretta dell’esecutivo. Dall’altro, la proposizione di un potere di scioglimento come potere spettante allo stesso parlamento confermava la vocazione sostanzialmente assembleare propria della maggioranza dei membri della bicamerale (sui lavori della bicamerale, oltre a G.F. CIAURRO, La prima fase, cit., cfr. S. CECCANTI, Una bicamerale in chiaroscuro, in Quad. cost., 1995, pp. 317 ss.; S. TROILO, La ricerca della governabilità, Padova, Cedam, 1996).

6. I governi Amato e Ciampi come «governi di transizione». Lo scioglimento anticipato del 1994 e il ruolo del presidente della Repubblica La debolezza del parlamento della XI legislatura, che appare evidente, come appena detto, nella mancata conclusione dei lavori della bicamerale, è ancora più significativa sul fronte dei rapporti fra le camere ed il governo. La crisi politica, apertasi dopo i primi esiti delle indagini di «mani pulite» e le elezioni della primavera, sembrava porre il presidente Scalfaro in una situazione simile a quella di Pertini agli inizi degli anni ’80. La somiglianza fra le due situazioni è, però, solo apparente, in quanto, mentre Pertini si era trovato a dover garantire la «governabilità» in una situazione di profondi contrasti fra partiti politici che erano, tuttavia, ancora forti e radicati nella pubblica opinione, Scalfaro si trovava di fronte ad un quadro politico nel quale, prima del parlamento, apparivano delegittimati i partiti e soprattutto quelli storicamente considerati di governo.

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Questo spiega, anzitutto, perché, dopo le tradizionali consultazioni, il capo dello Stato decise di affidare un incarico per la formazione di un governo «senza maggioranza precostituita» a Giuliano Amato. La scelta presidenziale si caratterizzò, anzitutto, per l’esclusione dal governo, a partire dal presidente del consiglio, di persone coinvolte nelle indagini giudiziarie in corso. Inoltre, l’assenza di una formula politica precostituita faceva sì che il governo avrebbe dovuto ricercare una maggioranza in base al proprio programma. È vero che al presidente incaricato non era possibile allargare il governo verso una sorta di Grosse Koalition comprendente anche il PRI ed il PDS; tuttavia, nel processo di formazione del governo e nella redazione del suo programma fu possibile ad Amato godere di un’inusitata libertà di azione rispetto alle segreterie dei partiti. Del resto, per ciò che riguarda il programma, sarebbe fuorviante credere che la maggiore capacità di iniziativa dimostrata dal governo Amato rispetto ai tradizionali condizionamenti partitici fosse da ascrivere soltanto alla situazione politica interna italiana o alla personalità del presidente del consiglio. In realtà, nella forma di governo italiana erano sempre più evidenti quei condizionamenti, o limiti, della nostra sovranità nazionale che, già evidenti nell’Atto unico europeo del 1986, erano stati, poi, sviluppati attraverso il trattato di Maastricht che il VII governo Andreotti aveva sottoscritto il 7 febbraio del 1992. Anche se è estremamente difficile definire in breve in che cosa consistesse il «salto qualitativo» delle limitazioni di sovranità contenute nel trattato di Maastricht rispetto ai precedenti trattati comunitari, si può dire che quel trattato, dopo aver confermato o disposto alcuni importanti principi generali in tema di competenze comunitarie (con la riaffermazione del principio di sussidiarietà), di nuovi organi comunitari (banca centrale europea; banca centrale per gli investimenti), di cittadinanza dell’unione (con l’attribuzione del diritto di voto ai cittadini dell’unione residenti in Stati diversi dal proprio nelle elezioni comunali ed europee), giungeva, poi, ad affermare un vero e proprio indirizzo politico comunitario in alcune rilevanti materie. Fra queste, la politica estera e la sicurezza comune e, soprattutto, la politica economica e monetaria, quella sociale e sanitaria vedevano il trasferimento agli organi comunitari della possibilità di adottare «azioni comuni», «indirizzi di massima», «raccomandazioni», «misure». In altri termini, gran parte dell’indirizzo politico generale si trasferiva, in tal modo, dai parlamenti e dai governi degli Stati membri all’unione europea. Di più: la limitazione degli indirizzi politici nazionali era accentuata dal fatto che insieme al trattato i paesi membri dell’unione sottoscrissero, come parte integrante di esso, alcuni «protocolli» aggiuntivi contenenti alcune dettagliate indicazioni di merito nelle singole materie oggetto del trattato.

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La politica monetaria ed il «protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi» costituivano, certamente, uno dei punti cruciali di quegli accordi. In vista della creazione di una banca centrale europea e di una moneta comune europea a partire dal 1° gennaio 1999, gli Stati membri accettavano, infatti, vincoli assai penetranti sia alle loro politiche di bilancio (il protocollo precisa, infatti, che si sarebbe realizzato un «disavanzo eccessivo» se i bilanci degli Stati avessero previsto un rapporto fra debito pubblico e PIL superiore al 60% ed un rapporto fra deficit di bilancio e PIL superiore al 3%) che a quelle di governo dell’economia (per la quale il protocollo pone il forte condizionamento di un indice dell’inflazione non superiore all’1,5% dei tre Stati con le migliori performances). Il governo Amato si trovava, dunque, di fronte ad un trattato il cui contenuto avrebbe imposto una vera e propria rivoluzione nella politica fiscale, economica e di bilancio, improntata, fino ad allora, al ricorso al debito pubblico come strumento di coesione politico-sociale. È, perciò, evidente che il governo si doveva adoperare per una sollecita ratifica parlamentare del trattato (che entrò, poi, in vigore il 1° novembre 1993) e porre nel suo programma le prime basi per un possibile raggiungimento (entro il 1997) dei difficilissimi obiettivi ormai imposti dall’unione. Il carattere necessariamente «programmatico» del governo e la scomparsa della problematica degli «accordi di coalizione» che aveva accompagnato per anni il formarsi e l’operare dei governi italiani trovavano, dunque, nei condizionamenti sovranazionali sopra indicati la loro principale ragione di essere. Non a caso, il principale capitolo contenuto nelle dichiarazioni programmatiche del governo Amato si intitolava: «Verso l’Europa: disinflazione, risanamento finanziario e ripresa economica» e conteneva l’indicazione di una serie di misure che avrebbero collegato gli indirizzi programmatici del governo Amato ai successivi governi «tecnici» di Ciampi e di Dini. Il condizionamento europeo spiega non solo l’inconsueta durezza della legge finanziaria che Amato riuscì a far approvare dopo l’uscita della lira dallo SME e la sua svalutazione (il che conferma la perdita della sovranità monetaria), ma anche la storica inversione di tendenza per ciò che riguardava l’intervento pubblico nell’economia, così come esso si era formato nella sua evoluzione dagli anni ’30 agli anni ’60. Il ministero delle partecipazioni statali, che aveva nel passato assunto, come si è visto, un ruolo centrale negli assetti di governo, fu assegnato, inizialmente ad interim, al ministro dell’industria e scomparve quando, dal luglio all’agosto del ’92, il governo decise la soppressione e la liquidazione dell’EFIM insieme alla privatizzazione dei restanti enti di gestione, IRI ed ENI. Contemporaneamente alla trasformazione degli enti di gestione in S.p.A., il governo deliberò anche la privatizzazione dell’INA, dell’ENEL e delle Ferrovie dello Stato. È notevole che tutti questi risultati fossero stati raggiunti mentre la

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maggioranza parlamentare che aveva dato la fiducia al governo (DC, PSI, PSDI, PLI) perse ogni coesione politica a causa del progredire delle inchieste giudiziarie che finirono per decapitare del tutto i vecchi vertici dei partiti di governo e per investire anche numerosi ministri dello stesso governo. In quella situazione, il ruolo del capo dello Stato risultò assolutamente determinante. Anzitutto, infatti, il presidente della Repubblica decise, in accordo con il presidente del consiglio, che tutti i ministri inquisiti avrebbero dovuto dimettersi. Questo avvenne puntualmente; ed è evidente che, anche se, da un punto di vista formale, si trattava di dimissioni, per la prima volta l’art. 92 Cost. fu interpretato nel senso di attribuire al presidente del consiglio ed a quello della Repubblica anche un implicito potere di revoca dei ministri. Di più, i ministri dimessi furono sostituiti con altri scelti dal primo ministro in uno stretto raccordo, come egli stesso poi avrebbe dichiarato, non con i partiti della maggioranza ma con un «triumvirato» composto dal capo dello Stato e dai presidenti delle due camere, Spadolini e Napolitano. Fu questo «triumvirato» a sostenere il governo anche nei difficili passaggi dell’adozione delle misure fiscali e dell’approvazione della legge finanziaria (cfr. G. AMATO, Un governo nella transizione. La mia esperienza di presidente del consiglio, in Quad. cost., 1994, pp. 355 ss.). Più in generale, si può affermare che, quanto più procedeva il processo di delegittimazione non dei soli partiti ma anche del parlamento (alla fine della XI legislatura il numero dei parlamentari inquisiti risultò molto alto), tanto più si esaltava, per compenso, la rappresentatività del capo dello Stato; il che spiega i rapporti sempre più intensi che si instaurarono fra il governo e l’unico organo che poteva ancora parlare rappresentando, almeno presuntivamente, la opinione pubblica. Nella situazione del 1992 sembrava, dunque, che si stesse per avverare l’intuizione di Esposito, per il quale la ragion d’essere del nostro presidente della Repubblica è quella di avere in sé tutti i poteri per poter diventare il supremo «reggitore dello Stato» nei momenti di crisi del sistema. È, però, anche vero che la situazione eccezionale che si determinò dal 1992 al 1994 condusse, per fortuna, non alla concentrazione nel capo dello Stato della funzione di indirizzo politico (certamente perduta in gran parte dal parlamento), ma all’esaltazione dei suoi poteri di garanzia. Sia nella situazione di emergenza propria della XI legislatura, sia in quella (anch’essa peculiare) della XII che seguì al governo Berlusconi, la debolezza del parlamento finì per potenziare la funzione di indirizzo politico dei c.d. «governi tecnici», senza, però, che questo significasse la caducazione del fondamentale raccordo fiduciario previsto dall’art. 94 Cost. Da questo punto di vista, dunque, i beneficiari dell’eccezionalità della situazione furono i presidenti del consiglio che potevano esercitare davvero una funzione di direzione della politica generale del governo. È anche vero, tuttavia, che la crisi della democrazia rappresentativa, iniziata nel

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1992, ha finito per esaltare al massimo grado i poteri di garanzia più propriamente politici del capo dello Stato, e ciò sia in rapporto al governo che in rapporto al parlamento. Per quanto riguarda il governo, risultò più ampia, ad esempio, la funzione presidenziale di controllo su alcuni atti del governo (presentazione dei disegni di legge, emanazione dei decreti legge), assai debole nel passato. Non si intende riferirsi, in questa sede, al problema del numero dei decreti legge, perché è evidente che la debolezza del raccordo politico fra governo e parlamento condusse, nel periodo in esame, ad una crescita accentuata del numero complessivo dei decreti. Ciò malgrado, il presidente della Repubblica è sembrato accentuare il suo potere di controllo nel merito dei singoli atti governativi. Proprio nel periodo del governo Amato fu, ad esempio, clamoroso il rifiuto del capo dello Stato di firmare un decreto legge governativo di riforma della legge sul finanziamento pubblico dei partiti depenalizzando alcune forme di illecito finanziamento. Quell’episodio si presenta assai interessante sia in relazione alla forma che assunse il diniego della firma da parte del capo dello Stato, sia in relazione alle motivazioni che furono poste alla base della decisione presidenziale. Di solito, infatti, l’attività di controllo esercitata dal presidente della Repubblica sugli atti del governo non compare all’esterno del circuito governo-capo dello Stato. In conseguenza, i rilievi avanzati dal presidente sul contenuto degli atti governativi rimangono coperti dalla riservatezza che è propria degli interna corporis del potere esecutivo. La decisione del capo dello Stato di rendere pubblico il suo rifiuto di firmare un atto del governo assunse, dunque, un significato eccezionale, che poteva essere letto o come espressione di un’implicita critica al governo stesso o come desiderio del capo dello Stato di rendere pubblici alcuni principi ai quali ispirava la sua azione. Nel caso in esame, il presidente (dopo una riunione del «triumvirato» sopra ricordato) rese pubblica una propria lettera al presidente del consiglio nella quale egli rilevava l’inopportunità di emanare il decreto, in quanto la conversione in legge di esso sarebbe scaduta oltre la data del 18 aprile, giorno nel quale il corpo elettorale era già stato convocato per esprimersi anche su un referendum riguardante proprio la legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Il «messaggio» contenuto nella lettera risulta assai chiaro. Da un lato, il presidente confermava, infatti, il suo ruolo di garante della legalità sostanziale, in quanto la sua decisione bloccava la depenalizzazione di alcune fattispecie di finanziamenti illeciti ai partiti; depenalizzazione accolta con viva ostilità dall’opinione pubblica. D’altro lato, il presidente voleva, con la sua lettera, rendere noto che egli intendeva assumere un ruolo di alto garante del corretto svolgimento dei rapporti politici fra i poteri e fra gli organi costituzionali dello Stato. Al di là, infatti, di quanto è previsto dall’art. 39 della legge n. 352 del 1970 (che consente l’abrogazione delle

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norme sulle quali sia già stato indetto un referendum) il capo dello Stato voleva salvaguardare il potere sostanziale di indirizzo politico che è attribuito al corpo elettorale dall’art. 75 Cost.; potere che si sarebbe, di lì a poco, esercitato non solo sul finanziamento ai partiti, ma anche sui principi ispiratori della legge elettorale. È del tutto evidente che in quel peculiare contesto politico ed istituzionale descritto poco sopra, il presidente della Repubblica riteneva inevitabile far pendere la bilancia a favore degli istituti della democrazia diretta. Si tratta di un episodio assai rilevante, nella misura in cui il presidente del consiglio valutò l’ipotesi delle proprie dimissioni, a seguito della sostanziale «sconfessione» del capo dello Stato. Come già accennato, i risultati dei referendum del 18 aprile, ed in primo luogo di quello elettorale, dimostrarono l’esistenza di una profonda frattura fra gli orientamenti del corpo elettorale e quelli degli organi della democrazia rappresentativa. Abrogando il sistema elettorale del senato, gli elettori non cancellavano soltanto quella forma di governo che da quasi cinquanta anni si fondava sul proporzionalismo delle leggi elettorali, ma si pronunciavano anche contro le indicazioni favorevoli al mantenimento della proporzionale, espresse dai partiti della maggioranza. La necessità di una «chiara discontinuità» nella guida politica, di una nuova democrazia «funzionante, efficiente, fondata su maggioranze chiare e su governi stabili» fu subito colta dal presidente del consiglio che, dopo aver presentato le sue dimissioni al capo dello Stato il 19 aprile, si presentò il 21 in parlamento per motivare, con le parole sopra riportate, le ragioni delle dimissioni stesse. In teoria, il manifestarsi di una netta frattura fra corpo elettorale e parlamento avrebbe dovuto portare, secondo la scolastica «casistica» elaborata dalla dottrina, all’immediato scioglimento anticipato delle camere. Nel caso in questione, tuttavia, le nuove elezioni si sarebbero svolte in base ad un sistema elettorale divergente: proporzionale per la camera e maggioritario per il senato. Inoltre, una più che ragionevole interpretazione della volontà espressa dagli elettori avrebbe potuto facilmente portare a concludere che quel che essi avevano voluto, nei limiti propri di un referendum abrogativo, era proprio una riforma complessiva in senso maggioritario ed uninominale dell’intero sistema elettorale. Fu questa l’interpretazione che il capo dello Stato dette al voto del 18 aprile, cosicché egli, invece di sciogliere il parlamento, procedette all’apertura delle consultazioni per la formazione di un nuovo governo che potesse guidare quel «traghettamento» dal vecchio al nuovo sistema istituzionale, voluto direttamente dal popolo sovrano. Dalle rapide consultazioni, chiuse il 25 aprile, emerse che i partiti politici (colpiti in prima persona dal voto popolare, come aveva sottolineato Amato) non erano in grado di esprimere nessuna attendibile leadership. In conseguenza, e con una decisione davvero innovativa, il presidente della

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Repubblica conferì l’incarico di formare il governo al governatore della banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi. In relazione alla nascita del governo Ciampi, il primo problema che deve essere posto sembra essere quello della sua natura più o meno «presidenziale». In questo capitolo si è cercato di dare una risposta articolata al problema, ciclicamente ricorrente nel nostro paese, dei governi che sono sembrati rispondere ad un rapporto particolare con il capo dello Stato in relazione alla loro nascita o alla realizzazione del loro indirizzo politico; cosicché si può dire, riassuntivamente, che il carattere regio (nel passato) o presidenziale (oggi) di un governo può essere individuato nelle compresenza di due caratteristiche fondamentali. Per la prima, il governo deve avere alla sua guida una persona che non sia stata designata dai partiti politici, nemmeno dalla minoranza o da uno solo di essi, dato che altrimenti dovremmo definire, in maniera troppo impegnativa, come presidenziali anche i modestissimi «governi amministrativi» degli anni ’50 e ’60. Per la seconda, un governo del capo dello Stato dovrebbe essere fiduciariamente legato al presidente anche per ciò che riguarda il suo indirizzo politico. Mentre nell’esperienza pre-costituzionale si sono effettivamente verificate evenienze vicine al modello sopra descritto, sembra di poter dire che, nella vigenza della forma di governo prevista dalla Costituzione, un «governo presidenziale» sarebbe del tutto al di fuori della legalità formale e sostanziale; e ciò anche se ci si trovasse di fronte a circostanze del tutto eccezionali. In effetti, dopo il referendum del 18 aprile, il capo dello Stato sembrava essere di fronte ad una situazione di fatto sostanzialmente incompatibile con il sistema parlamentare. I partiti, anzitutto, non erano in grado, come fu dimostrato dalle consultazioni (cfr. C. CHIMENTI, Il governo dei professori, Firenze, Passigli, 1994, pp. 19 ss.), di indicare né un primo ministro, né un indirizzo programmatico, né una coalizione di governo. D’altra parte, come già detto, il presidente della Repubblica non era nelle condizioni di sciogliere le camere senza la preventiva approvazione di una riforma elettorale maggioritaria. Occorre riconoscere che con il governo Ciampi il presidente Scalfaro riuscì nella difficile impresa di conciliare ciò che sembrava inconciliabile. La scelta del nuovo presidente del consiglio era, è vero, del tutto «presidenziale», nel senso che, di fronte allo stallo dei partiti, Scalfaro si assunse personalmente la responsabilità della scelta di un primo ministro non appartenente al parlamento ma che, nella sua qualità di governatore della banca d’Italia, faceva parte del ristrettissimo nucleo dei garanti massimi delle istituzioni pubbliche. Da questo punto di vista, dunque, il primo ministro, anche se scelto dal capo dello Stato, rivestiva qualità di carica (oltreché personali) tali da escludere in partenza che egli avrebbe potuto agire come longa manus del presidente della Repubblica.

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Infatti, dopo il conferimento dell’incarico (e ci si può, casomai chiedere perché Scalfaro non avesse proceduto almeno in quell’occasione direttamente ad un decreto di nomina) l’incaricato condusse a termine il procedimento di formazione del governo, personalmente e con straordinaria rapidità (2 giorni). Malgrado l’origine non partitica del suo incarico, il governo Ciampi non fu, però, un governo anti partitico ed anti parlamentare. Per quanto riguarda la sua composizione iniziale, anzitutto, su 24 ministri, 18 potevano essere qualificati come ministri «politici», nel senso che essi appartenevano a partiti presenti in parlamento, pur non essendo stati vincolativamente indicati al primo ministro dai partiti stessi secondo la deprecabile prassi precedente. D’altra parte, proprio l’eccezionalità della situazione politica consentì a Ciampi di formare un governo nel quale erano presenti anche tre ministri del PDS. Con quelle tre nomine aveva termine dopo quasi cinquanta anni la conventio ad excludendum che era stata alla base della precedente forma di governo (cfr., in questo senso, C. CHIMENTI, Il governo dei professori, cit., pp. 26 ss.). In questa sua composizione (che era vicina all’esempio della Grosse Koalition tedesca del 1966-1969) il governo Ciampi giurò ed assunse le funzioni il 29 aprile del 1993. In quello stesso giorno, però, la camera negò l’autorizzazione a procedere contro Craxi e questo episodio, tutto interno al parlamento, indusse a non del tutto fondate dimissioni i tre ministri del PDS e quello dei Verdi. Come ricorda Chimenti (Il governo dei professori, cit., p. 31), fu sfiorata in quel contesto la crisi di governo, che venne scongiurata solo grazie all’intervento pressante su Ciampi del «triumvirato» che convinse il presidente del consiglio a sostituire i dimissionari con quattro ministri «tecnici» (i professori Barile, Colombo, Gallo e Paladin). Questo episodio è importante per due ragioni. Anzitutto, esso dimostra ancora una volta che l’emergenza istituzionale propria di quel periodo, portò alla concentrazione dell’iniziativa e della responsabilità politica, non nelle mani del solo presidente della Repubblica (secondo il modello che possiamo definire «weimariano») ma di un organo straordinario (il «triumvirato», appunto) nel quale il parlamento era paritariamente presente insieme al capo dello Stato. La fine della Grosse Koalition spinse, inoltre, Ciampi a presentarsi al parlamento per chiedere la fiducia non ad uno schieramento precostituito, ma all’intero parlamento. È evidente che nella nuova situazione la richiesta di fiducia non poteva essere che programmatica e, come affermò il presidente del consiglio, anche «morale». Il primo punto del programma del governo doveva, infatti, prevedere una rapida approvazione da parte delle camere della riforma elettorale maggioritaria. Da questo punto di vista, anzi, né il governo né il parlamento sembravano avere alcuna libertà sostanziale di scelta. La posizione del capo dello Stato fu netta: quella legge avrebbe dovuto essere scritta «sotto la dettatura» del corpo elettorale che aveva posto con il refe-

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rendum un indirizzo politico cogente ed insuperabile. Il governo, dunque, pur senza esercitare in quella materia una propria iniziativa legislativa, avrebbe dovuto, tuttavia, adoperarsi perché essa si svolgesse effettivamente e nella giusta direzione, stimolando il parlamento in caso di inerzia. La riforma elettorale, pur ampiamente richiamata nel programma, si presentava, dunque, a rigore, più che come un impegno programmatico del governo, come un dovere per tutti gli organi della democrazia rappresentativa: il capo dello Stato, il governo, il parlamento. È in riferimento all’eccezionalità di questa situazione, oltreché in relazione al suo essenziale programma, che si è parlato, a proposito del governo Ciampi, di «governo a termine» (in questo senso, C. CHIMENTI, Il governo dei professori, cit., p. 35). Come si vedrà nel cap. 4, l’esistenza «governi a termine» non sembra, però, ammissibile dal punto di vista costituzionale, perché sia la concessione di una fiducia a termine da parte delle camere, sia il preannuncio da parte del governo delle sue dimissioni allo scadere di una certa data o al verificarsi di un certo evento sono tali da rompere il principio della necessaria parità fra i due organi costituzionali. Nel caso del governo Ciampi, tuttavia, la sinteticità del programma presentato alle camere e l’annuncio che la durata del governo era collegata alla sola realizzazione di quegli obiettivi erano conseguenze della constatazione che non era il governo ma il parlamento ad avere un termine di durata che coincideva con l’approvazione della legge elettorale. Come si è già sottolineato, in conseguenza di quell’approvazione le camere avrebbero dovuto essere sciolte e si sarebbe formato (ma solo in conseguenza delle elezioni) un nuovo governo. In definitiva, si può dire che, concedendo la fiducia al governo Ciampi, il parlamento si poneva in grado di adempiere ad un dovere nei confronti del corpo elettorale, quello della riforma della legge elettorale; ma, con questo, il parlamento stesso finiva per porre un termine alla sua durata. A ben guardare a ciò che accadde fra la fine del 1993 e l’inizio del 1994, è questa impostazione del problema ad essere effettivamente seguita sia dal governo che dal presidente della Repubblica. Il 12 gennaio 1994, aprendo alla camera il dibattito sulla mozione di sfiducia presentata contro il governo dall’on. Pannella, il presidente del consiglio dichiarò che il contemporaneo completamento della normativa elettorale e dei punti essenziali del programma avrebbero imposto al governo «di mettere il suo mandato a disposizione del capo dello Stato e del parlamento». In questo modo Scalfaro poteva procedere ad uno scioglimento, non privo di alcune problematiche peculiarità (cfr. anche infra, cap. 4, par. 6), in relazione al già compiuto traghettamento nel sistema maggioritario. Il capo dello Stato respinse, in effetti, le dimissioni del governo e procedette allo scioglimento anticipato delle camere. Le elezioni si svolsero, dunque, con un governo che era, e del tutto correttamente, nella pienezza dei suoi poteri. Per quanto riguarda la parte istituzionale del programma del governo

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Ciampi, sembra opportuno ricordare che il capo dello Stato autorevolmente sollecitò un’altra riforma «moralizzatrice», quella riguardante la modifica dell’art. 68 Cost. nella parte relativa alla necessità dell’autorizzazione a procedere nei confronti dei membri del parlamento. Anche questa riforma fu approvata abbastanza rapidamente (ottobre 1993). Tuttavia, come avrebbero dimostrato gli eventi delle elezioni del ’94, la parte relativa alle garanzie, contenuta nel programma di governo, avrebbe dovuto comprendere materie anche di maggior rilievo, come quelle riguardanti l’assetto del sistema radio-televisivo. Su quelle, e non a caso, Scalfaro avrebbe dovuto, poi, tornare ad esercitare una speciale tutela. Sulle altre parti del programma di Ciampi ci soffermeremo più oltre, esaminando più in generale il tema dei programmi di governo. Un cenno deve essere fatto, però, al problema dell’«emergenza economica», sollevato dal presidente del consiglio proprio in sede di presentazione del suo programma alle camere (cfr., ora, C.A. CIAMPI, Un metodo per governare, Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 8 ss.). L’economia nazionale era entrata, come si è già detto, in una situazione di emergenza dal settembre del 1992 per la uscita della lira dallo SME e la conseguente crisi valutaria. Quello stato di necessità fu affrontato, dal governo Amato, prima, e da quello Ciampi, poi, tenendo presente che i tempi ed i modi per l’uscita dall’emergenza erano condizionati dall’unione monetaria, decisa a Maastricht, e dai vincolanti parametri contenuti nel trattato. Il vincolo europeo spiega, quindi, non solo l’entità delle manovre finanziarie attuate dai due governi, ma anche la prosecuzione da parte di Ciampi del processo delle privatizzazioni (Direttiva del presidente del consiglio del giugno 1993 sulla privatizzazione di ENEL; INA; IMI; AGIP; STET; COMIT; CREDIT). Anche su questo fronte i condizionamenti europei impedivano, ormai, allo Stato di finanziare i deficit delle imprese pubbliche. Dalla decisione del governo Amato di costituire le imprese pubbliche nella forma di soggetti di diritto privato si sarebbe dovuto, quindi, giungere all’effettivo passaggio in mani private del capitale delle imprese. Il tema dell’emergenza economica è importante perché, come vedremo, riapparirà anche nel momento della costituzione del governo Dini e sarà sostenuta allora, come fu sostenuta a proposito del governo Ciampi, l’esistenza di uno stretto rapporto fra l’emergenza economica e la natura «tecnica» dei due governi. Sembra di poter dire, invece, che la conferma dei vincoli derivanti dall’adesione all’unione europea è stata una fondamentale scelta politica, nel senso più ampio del termine, come sarà dimostrato, d’altra parte, dalle scelte (su questo fronte assai diverse) di due governi «politici», il I governo Berlusconi e il I governo Prodi. Di «governi tecnici» si può parlare, però anche da altri punti di vista. Anche se questo tema sarà sviluppato nel cap. 4, si può, tuttavia, anticipare qui che la nozione di governo tecnico appare assai poco rilevante dal punto di vista costituzionale. Si è sostenuto, infatti, che tecnici do-

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vrebbero essere qualificati alcuni governi in relazione alla loro composizione. Il governo Ciampi rientrerebbe, così, nella specie dei governi tecnici sia in relazione al fatto che Ciampi fu designato alla presidenza del consiglio non per le sue qualità politiche ma per la sua carica di governatore della banca d’Italia, sia in relazione all’alto numero di ministri «tecnici» e senza partito, della sua composizione. In realtà, questi caratteri del governo Ciampi (che risulteranno accentuati nel governo Dini e nel governo Monti) sembrano solo descrittivi e, forse, ancora più equivoci della definizione, data agli stessi due governi, di «governi del Presidente». A differenza di quanto avviene nei sistemi inglese e francese (improntati, l’uno, alla coincidenza fra la carica di parlamentare e quella di ministro; l’altro alla più assoluta incompatibilità), il sistema italiano vede l’esistenza di una norma specifica (art. 64, comma 4, Cost.) in base alla quale la carica di ministro e quella di parlamentare possono coincidere o meno; e ciò in quanto il possesso della funzione di ministro della Repubblica «parlamentarizza» ex Constitutione i ministri in carica, conferendo loro il diritto (o l’obbligo, se richiesti) di assistere alle sedute delle camere. D’altra parte, sembra che analogo discorso possa essere fatto a proposito di un’altra delle pretese caratteristiche dei governi tecnici: la natura non politica (ma meglio sarebbe dire partitica) del loro programma e la, di solito conseguente, mancanza di una «maggioranza precostituita» in parlamento. Da questo punto di vista, l’art. 94 Cost., imponendo una fiducia preventiva, da votarsi con mozione motivata e sulla base di un indirizzo programmatico, «parlamentarizza» inevitabilmente qualsiasi governo, cosicché, se il voto di fiducia risulta positivo, il governo diviene, perciò stesso, politico. La mancanza di una maggioranza precostituita al momento della formazione del governo è, dunque, una caratteristica che riguarda, al più, il momento della formazione del gabinetto, ma quel carattere è destinato a scomparire nel momento della concessione della fiducia. D’altra parte, ed al di là dei dati puramente giuridici, la mancanza di una maggioranza precostituita, la derivazione non partitica della composizione del governo e del programma non impedirono ai governi Ciampi, Dini e Monti di stabilire dopo la fiducia un rapporto del tutto «politico» con i gruppi parlamentari. Da questo punto di vista, si può, anzi, dire che i c.d. «governi tecnici» (o del Presidente) si comportarono come governi più parlamentari di gran parte dei ministeri precedenti, in quanto la crisi dei partiti reagiva, da questo punto di vista, positivamente sui rapporti fra governo e parlamento. I gruppi parlamentari apparivano, infatti, assai meno subordinati alle segreterie politiche e la necessaria contrattazione in parlamento dell’indirizzo politico governativo avveniva fra il governo ed i gruppi, piuttosto che fra il governo e le strutture di partito, come era, invece, avvenuto in passato. Del tutto fondata era, dunque, la rivendicazione, da parte di Ciampi

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dell’affermazione di un «metodo di governo» che (nuovo rispetto ai precedenti) appariva, invece, del tutto conforme alle indicazioni costituzionali: «Il governo prendeva le sue decisioni nelle sedi naturali, istituzionali, e le portava all’esame del parlamento senza mediazioni» (così, C.A. CIAMPI, Un metodo per governare, cit., p. 9). L’indubitabile preminenza del presidente del consiglio, divenne, dunque, lo strumento promotore della collegialità del governo. Del resto, che questo modo di governare non fosse considerato legato ad una particolare stagione politica, ma corrispondesse, invece, alla convinzione di un permanente dovere costituzionale, è dimostrato dall’approvazione del regolamento del consiglio dei ministri (D.P.C.M. 10 novembre 1993), previsto dalla legge n. 400 del 1988, ma rimasto inattuato per più di cinque anni. Il regolamento del consiglio dei ministri (sul quale cfr. S. MERLINI, G. GUIGLIA, Il regolamento interno del consiglio dei ministri, in Quad. cost., 1994, pp. 477 ss.; S. MERLINI, Regolamento del consiglio dei ministri, in Enc. giur. it., XXVI, Roma, Treccani, 1996; L. D’ANDREA, P. NICOSIA, A. RUGGERI, Prime note al regolamento del Consiglio dei ministri, in Arch. dir. cost., 1993, 2, pp. 103 ss.) sarà oggetto di specifico esame nel cap. 3. Tuttavia, ed in esclusivo riferimento al tema della generale forma di governo, sembra opportuno sottolineare qui alcune caratteristiche di quel regolamento. Anzitutto, il regolamento pone il presidente del consiglio al centro di tutti i processi decisionali del governo. Questa particolare «preminenza» del primo ministro riguarda sia la fase deliberativa del governo che la fase di attuazione delle sue decisioni. Nella prima fase, risulta di particolare rilievo il fatto che il presidente possa, attraverso il controllo e l’attivazione di procedure di concertazione, consentire all’intero consiglio dei ministri di decidere comparando gli interessi di settore con l’indirizzo generale del governo. Nella seconda fase, risaltano in modo particolare i poteri attribuiti al presidente (che li esercita normalmente attraverso il ministro per i rapporti con il parlamento) nella direzione della politica governativa in parlamento. In entrambe le fasi è evidente lo sforzo di correggere gli aspetti più degenerativi della nostra forma di governo, fondatasi, fino a ieri, sulla già rilevata «direzione plurima dissociata». In base alla filosofia propria del regolamento, il settorialismo ministeriale dovrebbe essere, infatti, battuto dalla formazione comune delle decisioni in consiglio dei ministri e dalla guida unitaria, da parte del primo ministro, del «governo in parlamento». Come si è già accennato, il 16 gennaio del 1994, il capo dello Stato sciolse le camere, dopo aver respinto le dimissioni del governo. Questo scioglimento avvenne con una procedura inedita, perché Scalfaro accompagnò il decreto di scioglimento con due lettere, il contenuto delle quali venne reso noto dal portavoce ufficiale della presidenza della Repubblica. La prima di esse era indirizzata ai due presidenti della came-

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ra e del senato, che avevano costituito, insieme al capo dello Stato, l’organo costituzionale straordinario (il c.d. «triumvirato») che aveva accompagnato la vita dei governi Amato e Ciampi. Il punto più notevole di questa prima lettera riguardava le motivazioni dello scioglimento anticipato. Poco sopra si è ricordato, parlando del primo scioglimento anticipato del parlamento, quello del 1972, che nella tradizione dell’età liberale gli scioglimenti anticipati erano sempre accompagnati da una motivazione che proveniva dall’organo che proponeva lo scioglimento, il consiglio dei ministri. Nell’epoca della Repubblica, la consuetudine della motivazione era cessata perché, da un lato, risultava impossibile (come già rilevato) far risalire la decisione di scioglimento al governo unitariamente inteso, dall’altro, perché, salvo quello del 1972, gli scioglimenti erano stati sempre intesi come «consensuali» con il parlamento. Le circostanze nelle quali si svolse lo scioglimento del 1994 non consentono, invece, di parlare di consensualità. La mozione di sfiducia (poi ritirata) presentata da Pannella e la risoluzione di fiducia (presentata, invece, dai capigruppo del quadripartito che appoggia il governo) esprimevano, infatti, anche se in misura diversa, l’intenzione di far proseguire la legislatura anche al di là dell’approvazione della nuova legge elettorale. Lo scioglimento anticipato, sostenuto dal capo dello Stato, non incontrò, dunque, l’esplicita approvazione del parlamento. La lettera di Scalfaro, ed il fatto che egli motivasse in prima persona la decisione di scioglimento, attribuivano, dunque (e per la prima volta) direttamente al capo dello Stato la responsabilità della decisione. Nel merito, poi, il presidente della Repubblica ribadì nella lettera che il motivo fondamentale dello scioglimento anticipato risiedeva nella necessità di risolvere il contrasto fra il corpo elettorale, che si era espresso in modo favorevole al sistema maggioritario, ed il parlamento, espresso invece dal vecchio sistema proporzionale. Un’ipotesi di scioglimento «funzionale», dunque (così, C. CHIMENTI, Il governo dei professori, cit., p. 115), rispetto alla quale il capo dello Stato rivendicò, però, la propria pienezza di potere. Nella lettera ai due presidenti delle camere, Scalfaro si occupò, però, anche di un secondo problema. Come si è detto, il decreto di indizione delle elezioni anticipate vedeva, per la prima volta, un governo non limitato nei suoi poteri da precedenti dimissioni o voti di non fiducia da parte delle camere. Il governo Ciampi poteva, perciò, agire con una motivata presunzione di piena rappresentatività e di permanente consonanza con il parlamento. Tuttavia, anche se non si poteva parlare, da un punto di vista formale, di restringimento dei poteri del governo all’ordinaria amministrazione, è comunque evidente che l’anticipato scioglimento delle camere impediva quella collaborazione e quel controllo reciproco fra i due organi costituzionali, che è alla base del dispiegarsi pieno dei rispettivi poteri. Pienezza dei poteri del governo, ma naturale limitazione della loro

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esplicazione, costituirono, dunque, l’oggetto di un secondo messaggio del capo dello Stato, che fu affidato, ratione materiae, non solo alla lettera indirizzata a Spadolini e a Napolitano, ma anche ad un’altra indirizzata al presidente del consiglio Ciampi. Con questi ultimi interventi del presidente della Repubblica si chiuse, dunque, l’XI legislatura. Essa avrebbe dovuto rappresentare la legislatura di transizione fra la vecchia forma di governo, espressiva di una democrazia fondata sulla proporzionale e sui partiti, e la nuova, basata, invece, sul sistema maggioritario e sull’indirizzo politico direttamente espresso dal corpo elettorale.

7. La forma di governo dopo la riforma elettorale del 1993: la XII e la XIII legislatura Con le elezioni del marzo 1994 gli italiani hanno sperimentato per la prima volta sistemi elettorali di tipo misto ma prevalentemente maggioritari, scaturiti dalle leggi nn. 276 e 277 del 1993, scritte, secondo quanto affermato dal capo dello Stato, «sotto dettatura» dei referendum dell’aprile 1993. Questa importante innovazione non ha prodotto però, nonostante le attese, il passaggio immediato ad un assetto di democrazia maggioritaria e, in particolare, ad un assetto né bipartitico né bipolare del sistema politico. Nelle elezioni del 1994, come è noto, nella parte maggioritaria si sono fronteggiate ben quattro coalizioni, di cui due di centro destra (il «polo delle libertà» e il «polo del buongoverno») indicavano come candidato premier Silvio Berlusconi, una di centro («patto per l’Italia») indicava Mario Segni, mentre nessuna indicazione ufficiale veniva dalla coalizione di sinistra («progressisti»). Tutte le coalizioni risultavano composte di una pluralità di partiti o di micro-partiti: così quella di sinistra era composta da almeno otto formazioni politiche (PDS, PSI, rifondazione comunista, verdi, rete, alleanza democratica, cristiano sociali, rinascita socialista), le due di centro destra da cinque (il polo delle libertà, presentatosi al nord e al centro Italia, era composto da FI, lega nord, CCD, unione di centro e riformatori; il polo del buon governo non comprendeva la lega ma AN che al centro-nord nella parte maggioritaria esprimeva propri candidati, contrapposti quindi a quelli del polo delle libertà), mentre quella di centro da due partiti principali (PPI-patto Segni) e da una galassia di soggetti minori. Poco importa se nella parte proporzionale solo sette formazioni riuscirono a superare alla camera la soglia di sbarramento del 4%, poiché, grazie alla «proporzionalizzazione del maggioritario» (ovvero alla «spartizione» dei seggi nella parte maggioritaria in favore delle liste minori: R. D’ALIMONTE, I rischi di una nuova riforma elettorale. In difesa del «matta-

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rellum», in Quad. cost., 2004, pp. 497 ss.) che emerse con chiarezza anche nella formazione dei gruppi parlamentari, il livello di frammentazione del nostro sistema politico, contro le attese dei referendari, crebbe e non di poco rispetto a quello registrato fino al 1992. Uno scenario solo parzialmente diverso emerse nelle elezioni del 1996, nelle quali si contrapposero, in un contesto di maggiore «apprendimento» delle nuove regole elettorali da parte dei diversi attori politici, due coalizioni principali, di cui una («l’ulivo») alleata, con il famoso «patto di desistenza» con rifondazione comunista. Esterna alle due coalizioni rimase la lega nord, la cui decisione di non allearsi né con la coalizione di centro destra («polo delle libertà») né con l’ulivo si dimostrò determinante per la vittoria di quest’ultimo. Viceversa, una competizione più compiutamente bipolare fu riscontrabile nelle elezioni del 2001 (cfr. anche infra, cap. 5, par. 3) nelle quali la coalizione di centro destra, guidata da Berlusconi, si affermò nettamente contro una coalizione di centro sinistra, finalmente unita, che espresse come proprio leader Francesco Rutelli. Rimasero fuori dalle due coalizioni principali e non conseguirono il 4%, una formazione centrista («democrazia europea» fondata da Sergio D’Antoni e appoggiata da Giulio Andreotti), «Italia dei valori» fondata dall’ex magistrato Antonio Di Pietro, la lista «Pannella-Bonino». Fatti nuovi, anomalie e fattori importanti di continuità hanno caratterizzato la prima stagione del maggioritario in Italia, che copre un arco peraltro piuttosto lungo, abbracciando la XII e la XIII legislatura (1994-2001). Il primo fatto nuovo è costituito dalle coalizioni preelettorali e dalla connessa indicazione del leader delle stesse, destinato ad essere il candidato naturale alla presidenza del consiglio. Evidentemente, l’apparizione di questo soggetto è derivata in primo luogo dai nuovi sistemi elettorali che «hanno costretto» i partiti ad allearsi ai fini di massimizzare le possibilità di successo nei collegi uninominali e di tentare di conseguire la maggioranza assoluta dei seggi. Come è stato autorevolmente sottolineato, la coalizione e l’indicazione previa del leader costituiscono novità che derivano «dal moltiplicarsi o quantomeno dal raddoppio del rapporto di rappresentanza politica», in una prospettiva «di evoluzione verso il meta partito o l’ultrapartito», favorita dalla riforma elettorale del 1993 (L. ELIA, Rappresentanza politica, partiti, Parlamento. Relazione generale, in Associazione italiana dei costituzionalisti, Annuario 2000 – Il parlamento, Padova, Cedam, 2001, rispettivamente pp. 10 e 11). Progressivamente, la coalizione ha delineato, oltre ad una propria leadership, anche una propria strategia elettorale, un programma elettorale, meccanismi di scelta dei candidati nei collegi uninominali (rimessi ad accordi spesso assai faticosi tra i partiti), il proprio simbolo. Il secondo elemento, conseguente, è dato dalla nomina a presidente del consiglio del leader indicato dalla coalizione (o, nel caso del 1994 dalle due

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coalizioni) vincente. Come si è detto, anche a seguito del nuovo assetto del sistema partitico, non è mutata la procedura di formazione del governo, fatta eccezione per la novità data dalle consultazioni delle coalizioni (anziché dei gruppi parlamentari loro aderenti), oltre che dei gruppi estranei ad esse, a partire dal 1996, anche se con significative eccezioni (cfr. infra; sul punto, G. DEMURO, Regole costituzionali non scritte tra diritto ed altre scienze, Torino, Giappichelli, 2003, p. 63). Non così nel 1994 quando le consultazioni si sono svolte come nelle legislature precedenti, probabilmente data l’assenza di una unica coalizione di centro destra. È stato oggetto di dibattito, a partire dal 1994, la perdurante necessità delle consultazioni, così come la prassi dell’accettazione con riserva dell’incarico che fino al 2008 ha costituito uno schema dominante, nonostante la certezza della soluzione della crisi (viceversa, il Presidente Scalfaro nel 1996 «impone» a Prodi l’accettazione con riserva). Rimane comunque il fatto che sia nel 1994, sia ancor più nel 1996, le consultazioni sono apparse una fase ormai depotenziata sia nella forma che nella sostanza, e ciò nella misura in cui «il sistema dei partiti si presenta così con una leadership contrapposta e riconoscibile, sia per l’elettorato che per le singole forze politiche, e questa apparenza ha un immediato riflesso sulle procedure conformate dalle regole non scritte» (G. DEMURO, Regole costituzionali non scritte, cit., p. 64), cosicché è la stessa procedura di formazione del governo (consultazioni, incarico, accettazione con riserva) ad essere apparsa a taluni ormai fuori asse rispetto all’evoluzione del sistema politico ovvero ormai trasfigurata nella sostanza, dato che le fasi prodromiche «servono ormai non a “cercare” una maggioranza di governo, ma a verificare la corrispondenza fra gli intendimenti della maggioranza parlamentare e quelli dichiarati dalla coalizione vincente di fronte al corpo elettorale» (M. VOLPI, La natura della forma di governo dopo il 1994, in Associazione italiana dei costituzionalisti, Annuario 2001, Padova, Cedam, 2002, p. 161). Certamente, tanto nel 1994 quanto, soprattutto, nel 1996 la discrezionalità del capo dello Stato nell’attribuzione dell’incarico è stata praticamente assai ridotta, ma questa eventualità di per sé non è apparsa espressiva di una novità assoluta, dato che l’indicazione nei fatti di un presidente del consiglio legittimato dal voto popolare trovava precedenti quantomeno nella prima legislatura e, più in generale, non è affatto incoerente con la forma di governo parlamentare (L. CARLASSARE, Governo, parlamento e presidente della repubblica. Relazione generale, in Associazione italiana dei costituzionalisti, Annuario 2001, cit., p. 97). Ma come si dirà, l’entusiasmo per l’avvento del maggioritario ha dovuto fare i conti con i precari equilibri politici che tanto nella XII quanto nella XIII legislatura ben presto si sono manifestati e che hanno finito per ridimensionare, almeno fino al 2001, questi auspici di riforma (cfr. anche infra, cap. 5). Il terzo elemento è dato dalla «riscoperta» dell’art. 94 Cost. e, più a

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monte, da un nuovo modo di concepire le crisi di governo: se nel periodo precedente al 1992 la frequenza delle crisi, sempre «extraparlamentari», era funzionale anche all’evoluzione del quadro politico o all’affermazione di nuovi equilibri nella stessa formula di governo, i due governi formatisi all’indomani delle consultazioni politiche del 1994 e del 1996 sono caduti, il primo (I governo Berlusconi) a seguito del dibattito parlamentare sulla mozione di sfiducia presentata, oltre che dai gruppi di opposizione, anche da uno della maggioranza (la Lega nord), il secondo (I governo Prodi) a seguito della reiezione della questione di fiducia posta dal governo su una risoluzione presentata dai capigruppo della maggioranza a seguito delle comunicazioni del presidente del consiglio. Dopo il 1994 la crisi è divenuta quindi un evento traumatico e in questo caso, anche qualora essa non derivi da una votazione fiduciaria (si pensi alla crisi dei governi I e II D’Alema), è stata comunque sempre «parlamentarizzata», poiché è apparso ancora più rilevante, attraverso il coinvolgimento delle camere (che può essere ex ante, ovvero prima della formalizzazione delle dimissioni o ex post, a seguito del rinvio da parte del capo dello Stato), realizzare un collegamento tra decisioni partitiche e valutazione parlamentare (A. MANZELLA, Il parlamento, cit., p. 396). Da questo punto di vista, la «riscoperta» dell’art. 94 Cost. può essere interpretata alla luce delle mutate leggi elettorali che hanno reso inconcepibile una crisi extraparlamentare di un governo espressione di una maggioranza parlamentare uscita vittoriosa dalle elezioni (non a caso, come si dirà, tutto ciò non vale per i governi costituiti nel corso della legislatura). Come si dirà meglio più oltre, questa novità può essere interpretata anche alla luce della fragilità del sistema politico che non è riuscito a contrastare scissioni, defezioni o atteggiamenti di singoli parlamentari non conformi alle direttive del partito, cosicché «la votazione fiduciaria può infatti essere un necessario strumento di verifica della natura e delle dimensioni della maggioranza» (R. CHERCHI, Il governo di coalizione in ambiente maggioritario, Napoli, Jovene, 2006, p. 306). Ma la mozione di sfiducia è divenuta in questo momento anche lo strumento di contrapposizione tra una «nuova» maggioranza parlamentare e il presidente del consiglio che ha rivendicato il proprio diritto a governare in quanto, sia pure indirettamente, legittimato dal corpo elettorale: in questo senso, è paradigmatica la vicenda della caduta del I governo Berlusconi a seguito della presentazione di una mozione di sfiducia ad opera di quelle forze politiche che avrebbero costituito il governo Dini. Sempre in questo periodo, si è assistito ad una forte rivitalizzazione delle mozioni di sfiducia a singoli ministri, che sono divenute strumenti di visibilità delle opposizioni e di emersione di contrasti all’interno della maggioranza: rinviando al cap. 3 l’analisi del «caso Mancuso», si deve qui ricordare la paradossale vicenda della mozione di sfiducia a più ministri, a seguito della fuga di Licio Gelli dopo che la sua condanna per bancarot-

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ta fraudolenta era divenuta esecutiva a seguito di una sentenza della cassazione (maggio 1998). L’opposizione di centro destra presentava una mozione di sfiducia contro i ministri dell’interno Napolitano e della giustizia Flick, che non ha avuto esito, dando comunque luogo ad una vicenda tanto dubbia sul piano costituzionale quanto rivelatrice di mutati rapporti tra maggioranza ed opposizione (M. OLIVETTI, La mozione di sfiducia a più ministri: un mostro a più teste?, in Dir. pubbl., 1999, pp. 251 ss.), anche nella prospettiva di elezioni anticipate che in quel periodo sembravano profilarsi (anche per questo l’opposizione non si impegnava a fondo per l’iniziativa, preferendo concentrarsi sulla tematica delle riforme istituzionali) (M. MIDIRI, La sopravvivenza del governo e i succedanei della crisi (sulle verifiche di maggioranza e sui rimpasti), in Dir. pubbl., 2000, pp. 611 ss.). Gli indubbi fattori di novità che si sono registrati a partire dalla XII legislatura hanno convissuto però con altrettanti e prevalenti fattori di ambiguità che hanno finito per assecondare connessi, importanti fattori di continuità con il periodo precedente. Per comprendere questo punto, occorre innanzitutto sottolineare che la forma di governo italiana fino al 2001 non ha assecondato se non assai approssimativamente i tratti di una forma di governo parlamentare maggioritaria che, come è stato efficacemente sottolineato, dovrebbe caratterizzarsi per i seguenti elementi: a) una maggioranza parlamentare coesa e perciò «di legislatura» che assicuri al governo che ne è l’espressione un sostegno sicuro e costante; b) una configurazione bipartitica o almeno bipolare del sistema politico; c) sistemi elettorali selettivi che assecondino una tale configurazione. Conseguenze di tale modello sono, in particolare: a) una chiara distinzione tra maggioranza ed opposizione; b) la previsione di garanzie a tutela di quest’ultima (a livello costituzionale e/o di regolamenti parlamentari); c) una configurazione del governo come comitato direttivo del parlamento; d) la preminenza all’interno del governo del presidente del consiglio, leader della maggioranza parlamentare; e) un ruolo ridotto del capo dello stato nella formazione del governo così come nello scioglimento delle camere che dovrebbero divenire, la prima, vincolata al risultato elettorale, il secondo deciso dal governo e proposto dal primo ministro, mentre è del tutto eccezionale la dissoluzione del parlamento a seguito di una rottura della maggioranza parlamentare (S. BARTOLINI, A. CHIARAMONTE, R. D’ALIMONTE, Maggioritario finalmente? Il bilancio di tre prove, in R. D’ALIMONTE, S. BARTOLINI, a cura di, Maggioritario finalmente? La transizione elettorale 1994-2001, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 364). È noto che fino al 2001 in Italia sono mancati quantomeno i primi due elementi caratterizzanti la forma di governo parlamentare maggioritaria. Si è già accennato al fatto dell’anomala offerta politica nelle elezioni del 1994, quando il centro destra si è presentato articolato in due coalizioni distinte, il cui collante politico era dato unicamente da un partito (forza Italia), mentre le altre due principali formazioni (lega nord e AN)

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non si presentavano assieme e anzi affrontavano la campagna elettorale in modo dichiaratamente conflittuale. E non è corretto affermare che le due coalizioni di centro destra si fossero presentate entrambe con la leadership di Berlusconi, dato che in campagna elettorale a più riprese la lega nord candidava alla guida del governo Roberto Maroni (da parte sua, la coalizione di sinistra non riusciva nemmeno ad esprimere un candidato alla presidenza del consiglio). Solo tendenzialmente bipolare e fortemente condizionata dal patto di desistenza è stata l’offerta elettorale del 1996 ed anche in questo caso l’ipoteca per tutta la legislatura è stata data proprio dall’atteggiamento progressivamente sempre più conflittuale di rifondazione comunista che, è bene ricordarlo, non entrava nel governo, limitandosi all’appoggio esterno al I governo Prodi, e non sottoscriveva nemmeno le mozioni di fiducia, limitandosi a votarle. A ciò si aggiunga che sia nel 1994 che nel 1996 la maggioranza parlamentare è risultata alquanto fragile in uno dei due rami del parlamento: nel 1994 le due coalizioni di centro destra conseguivano insieme una sicura maggioranza alla camera (366 seggi) ma non al senato dove ottenevano solo la maggioranza relativa (156 seggi). Al contrario nel 1996 l’ulivo conseguiva la maggioranza assoluta dei seggi anche senza l’apporto di rifondazione al senato (159 seggi) ma non alla camera dove anche con l’apporto determinante di rifondazione superava di poco la maggioranza assoluta (324 seggi). In un contesto del genere, non sembrava dubbio, al di là delle naturali polemiche politiche, che il I governo Berlusconi nascesse grazie all’accordo in sede parlamentare tra formazioni politiche alleate solo parzialmente dal punto di vista elettorale e al senato grazie al voto determinante di alcuni senatori a vita nonché grazie all’assenza compiacente di alcuni senatori dell’opposizione. Si trattava quindi di un esecutivo che già nella sua faticosa formazione (Berlusconi riceve l’incarico il 28 aprile 1994 ma presenta la lista dei ministri solo il 10 maggio) richiamava più vicende anteriori al 1992 che non i tratti di una presunta democrazia maggioritaria: così, ancora prima dell’inizio delle consultazioni, a più riprese la lega nord minacciava la rottura nel caso in cui ad essa non fosse stato assegnato il ministero dell’interno. Anche la composizione del governo rispecchiava i criteri del passato non solo per l’aumento dei ministri rispetto ai governi dell’XI legislatura (si torna ad un totale di 28), ma anche per il classico dosaggio dei portafogli e dei sottosegretari tra i partners della maggioranza, con l’attribuzione ad An ed alla lega nord di una vice-presidenza a testa (si trattava di Tatarella e Maroni, rispettivamente ministro delle poste e ministro dell’interno), con la presenza di pochissimi indipendenti (il ministro del tesoro Dini ed il ministro senza portafoglio per gli italiani nel mondo Sergio Berlinguer, vicino a Cossiga) e, soprattutto, con l’assenza dei leader dei partiti della maggioranza (ad eccezione, evidentemente, di quello di FI).

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Diversa, e sicuramente meno travagliata, è stata la formazione del governo Prodi, anche per la semplificazione dell’offerta politica nelle elezioni del 1996 (le due coalizioni designavano un candidato alla presidenza del consiglio e presentavano un programma unico). Il presidente del consiglio incaricato riusciva a sciogliere la riserva in appena ventiquattro ore, anche perché, attirandosi pubbliche critiche da parte del capo dello Stato, ancora prima dell’inizio delle consultazioni aveva già provveduto a formare la lista dei ministri (in una nota del 4 maggio il capo dello Stato, dopo la pubblicazione di una lettera di Di Pietro contenente la sua disponibilità ad accettare il ministero dei lavori pubblici, faceva sapere che «non è compito del presidente della Repubblica limitare i desideri dei cittadini»). E tuttavia, i «primi bagliori di bipolarismo» (G. DEMURO, Regole costituzionali non scritte, cit., pp. 62 ss.), visibili anche nella consultazione delle coalizioni anziché delle delegazioni dei partiti, si accompagnavano alle rivendicazioni da parte del maggior partito della coalizione (il PDS) dei dicasteri chiave, suscitando in particolare le critiche del PPI, mentre anche le altre non poche formazioni minori dell’ulivo (verdi, rete, socialisti, laburisti) e rinnovamento italiano reclamavano portafogli più o meno «pesanti». Anche in questo caso era presente la vice-presidenza del consiglio per il partito più forte della coalizione (Veltroni, nominato anche ministro dei beni culturali), mentre la composizione del governo appariva assai più ristretta (20 ministri in totale, di cui 3 senza portafoglio), con alcuni importanti accorpamenti attraverso lo strumento dell’interim (Ciampi insieme ministro del tesoro e, ad interim, del bilancio; Berlinguer cumulava il ministero della pubblica istruzione e quello dell’università); dicasteri importanti (tesoro e bilancio; grazia e giustizia; risorse agricole) erano ricoperti da tecnici non parlamentari. Tuttavia, anche il I governo Prodi si caratterizzava per l’assenza dei leader dei partiti della maggioranza. La vicenda della formazione dei due governi è in definitiva rivelatrice di un assetto del sistema politico che ha visto sì la progressiva emersione delle coalizioni ma al tempo stesso una perdurante rilevanza delle plurime identità partitiche, spesso conflittuali tra loro (anche se aderenti ad un’unica coalizione) e soggette a tensioni ed a fenomeni di riposizionamento data la fluidità della dinamica politica; il tutto aggravato dal processo di deistituzionalizzazione personalistica che caratterizzava i nuovi partiti, con il connesso allentamento della disciplina interna nei confronti degli eletti. A ciò si aggiunga, da un lato, l’assenza nelle due coalizioni di partiti «dominanti» (i maggiori partiti delle due coalizioni, PDS e FI, ottenevano alla camera intorno al 20% dei voti nella quota proporzionale sia nel 1994 che nel 1996) e, dall’altro, l’esplosione della frammentazione partitica alimentata sia dalle nuove regole elettorali che dalla normativa di contorno: proprio a partire dalla XII legislatura si è registrata l’abnorme espansione dei gruppi parlamentari e del gruppo misto, grazie anche, e soprattutto, al

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deteriore fenomeno del transfugismo parlamentare (su cui, per tutti, S. CURRERI, Democrazia e rappresentanza politica. Dal divieto di mandato imperativo al mandato di partito, Firenze, FUP, 2004). Si spiega quindi che la giustapposizione di partiti e coalizioni abbia finito, almeno fino alla XIV legislatura, per penalizzare le seconde: non è un caso che esse abbiano conosciuto un riconoscimento giuridico minimale e comunque assai frammentario. D’altra parte, date le nuove regole elettorali, i singoli partiti, anche se di minima dimensione, hanno finito per reclamare un peso anche indipendente dal loro riscontro elettorale, quasi in una ripresa di quel concetto di «pari dignità» nella coalizione che era stato teorizzato in anni risalenti. D’altra parte, il ruolo preponderante dei partiti ed i loro diversi obiettivi strategici hanno caratterizzato passaggi politico-istituzionali assai delicati, come il fallimento del tentativo di formare un esecutivo che avrebbe dovuto assecondare un processo di riforme istituzionali all’indomani delle dimissioni del governo Dini; il «tentativo Maccanico» naufragava per l’azione combinata di partiti appartenenti a coalizioni diverse (AN, PPI, rifondazione) che si erano contrapposti alla possibile intesa maturata tra PDS e FI (G. PITRUZZELLA, Forme di governo e trasformazioni della politica, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 126). Come si è detto, la formazione e ancor più la vita del I governo Berlusconi hanno portato quantomeno a dubitare che i caratteri propri di esso e della coalizione parlamentare a suo sostegno fossero diversi da quelli degli esecutivi formatisi fino al 1992. Il ricorso continuo a «vertici di maggioranza» per tentare di dirimere le questioni politicamente più controverse; le continue dissociazioni e i distinguo dei partners della coalizione dalle scelte (o dalle non scelte) del governo (paradigmatica era, altresì, la presentazione da parte di parlamentari della lega nord di interpellanze sulla questione del conflitto di interessi allo scopo di mettere in difficoltà il presidente del consiglio), in un contesto nel quale l’indirizzo politico governativo è apparso, spesso, nelle mani dei singoli ministri, propensi, come nel passato, a mettere il consiglio dei ministri di fronte al fatto compiuto, con conseguente ridimensionamento del peso del presidente del consiglio, sono stati altrettanti fattori dal «sapore antico» e certo non consoni alla presunta evoluzione che le elezioni del 1994 avrebbe indotto. Paradigmatica è stata in questo senso la vicenda del c.d. «decreto Biondi», che si proponeva la limitazione dei casi di ricorso alla custodia cautelare, decaduto per l’opposizione della lega nord (ed in un secondo momento anche di AN; su questo punto il leader della lega critica pubblicamente i propri ministri): in questo caso, è apparsa clamorosa la tardiva dissociazione dei ministri di questo partito e le successive dimissioni del ministro Maroni presentate … al proprio partito (vicenda paradigmatica della continuità con il periodo precedente) e quelle, di segno politicamente contrario, del ministro della giustizia (l’on. Biondi), respinte entrambe dal presidente del consiglio.

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Peraltro, contrasti tra i partiti della maggioranza hanno riguardato anche altre fondamentali tematiche, come le riforme istituzionali (in particolare la riforma «federale») e la vexata quaestio del conflitto di interessi: alle mancate riforme in questi settori avrebbe fatto riferimento la mozione di sfiducia presentata dalla lega nord che avrebbe determinato la crisi del I governo Berlusconi. In un assetto del genere, non può stupire che il capo dello Stato abbia continuato un ruolo di «supplenza» non troppo dissimile da quello esercitato nella XI legislatura; ruolo che in una prima fase del governo lo stesso presidente del consiglio è sembrato assecondare. Infatti, nella prima fase del governo, Berlusconi frequentemente si recava dal capo dello Stato e cercava di coinvolgerlo nella nomina dei saggi che avrebbero dovuto affiancare il «gestore» di Fininvest. Successivamente, in un dibattito alla camera, Berlusconi affermava che il suo governo si fondava su tre fonti eguali di legittimazione, ovvero il voto popolare, la fiducia parlamentare e quella del presidente (A. DI GIOVINE, Dieci anni di presidenza della Repubblica, in M. LUCIANI, M. VOLPI, a cura di, Il presidente della Repubblica, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 88). Peraltro, ancora prima della formazione del governo, è da ricordare l’inedita decisione del capo dello Stato di inviare una lettera al presidente del consiglio incaricato, all’atto del conferimento stesso dell’incarico. In tale lettera, il capo dello Stato dichiarava non solo di voler esercitare una personale ed assidua vigilanza sul possibile conflitto di interessi tra le attività imprenditoriali del Presidente incaricato e le sue funzioni istituzionali, ma anche di assicurare la inviolabilità dei principi supremi di unità ed indivisibilità della Repubblica e la continuità di una politica estera ispirata al perseguimento della pace. È evidente nel messaggio un riferimento, nemmeno troppo velato, alle posizioni politiche della Lega e di An, che ha suscitato obiezioni sul presupposto di uno «straripamento» nel merito dell’indirizzo politico. Come prima del 1992 il presidente della Repubblica finiva inevitabilmente per esercitare un controllo sugli orientamenti politici dei partiti della coalizione e sull’indirizzo complessivo della stessa coalizione di governo. Egli, come è chiaro, si asteneva dal determinare l’indirizzo stesso, ma si riservava di giudicarne la coerenza interna (almeno ai fini della necessaria unità ed omogeneità del governo) e la sostanziale omogeneità rispetto a parametri (quali ad es. quelli relativi alla politica estera) che finivano per essere inevitabilmente politici. Cosicché il presidente incaricato non solo, a dispetto delle dichiarazioni di voler esercitare in piena autonomia il potere di proposta dei ministri, si trovava costretto ad estenuanti mediazioni con i partiti della maggioranza, ma doveva chiarire per scritto che nessun componente del nuovo governo esprimeva principi contrari a quelli individuati dal capo dello Stato. Ma anche successivamente il presidente della Repubblica prendeva le distanze dal «decreto Biondi» (peraltro dopo averlo emanato), richiamava

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più volte la necessità di una normativa in materia di propaganda elettorale, inviava una lettera ai presidenti delle camere denunciando di avere ricevuto con grande ritardo il disegno di legge finanziaria ed il collegato ai fini dell’esercizio della prerogativa dell’autorizzazione alla presentazione, ex art. 87, comma 4, Cost. e, alla vigilia dello sciopero generale del 14 ottobre 1994 sulla previdenza, riceveva ufficialmente al Quirinale i segretari di CGIL, CISL e UIL. Progressivamente, come è stato sostenuto, il suo ruolo progressivamente virava «da quello, avuto con Amato e Ciampi, di sostegno e tutela del governo, in quello di garanzia nei confronti delle forzature politico-istituzionali dell’esecutivo e della maggioranza» (A. DI GIOVINE, Dieci anni, cit., pp. 87-88). Il «fatto maggioritario» ha finito pertanto per essere riscontrabile praticamente solo in dichiarazioni verbali del presidente del consiglio o in discutibili atteggiamenti del governo nei confronti di altri poteri dello Stato (si pensi alle ricorrenti polemiche con la magistratura inquirente), o con le opposizioni cui era negata la presidenza di uno dei due rami del parlamento (secondo una prassi instaurata fino dal 1976) o, infine, con i sindacati (sono note le polemiche con i sindacati soprattutto sulla questione della riforma della previdenza, che sfociavano in un grande sciopero generale). Per quanto riguarda il I governo Prodi, nella sua prima fase (che possiamo far coincidere con il periodo che va fino all’aprile 1997) il presidente del consiglio riusciva, grazie anche alla maggiore autonomia dei ministri dai rispettivi partiti, a mascherare la sua debolezza politica con il forte impegno della coalizione ad attuare il programma di governo, in particolare a consentire l’ingresso dell’Italia nell’Euro; impegno che determinava una inedita capacità direttiva del governo nei confronti della propria maggioranza parlamentare. In quel momento, la funzione di direzione della politica generale del governo è stata sufficientemente valorizzata, anche se non come nella stagione dei governi tecnici, così come è risultata piuttosto evidente la funzione di determinazione dell’indirizzo politico da parte del consiglio dei ministri, organo che, quindi, in un contesto politico-partitico destrutturato, è divenuto «la principale – pur se non esclusiva – sede di decisione politica della maggioranza» (R. CHERCHI, Il governo di coalizione, cit., p. 415); tutto ciò, però, in un contesto nel quale i poteri formali del presidente del consiglio sono rimasti gli stessi (anche se ne mutava la «sostanza politica»), mancando quindi poteri autoritativi nei confronti di ministri dissenzienti o, addirittura, della maggioranza «recalcitrante» (un’eccezione solo apparente è stata la revoca del sottosegretario all’interno Giorgianni decisa per il suo coinvolgimento in indagini su collusioni mafiose nelle istituzioni di Messina. La revoca, disposta dopo che Giorgianni aveva rifiutato le dimissioni, è stata assentita espressamente dal leader di rinnovamento italiano, partito di appartenenza del sottosegretario).

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Certamente, il I governo Prodi anche in questa fase ha risentito di tutti i limiti di una maggioranza estremamente frastagliata e dell’atteggiamento progressivamente più conflittuale di rifondazione comunista (PRC): così, è risultata necessaria l’apposizione della questione di fiducia anche su questioni politicamente rilevanti (nei primi diciotto mesi di vita il governo vi ricorre ben 24 volte), mentre gli opposti orientamenti tra i centristi ed il PRC determinavano la sconfitta del governo in alcune votazioni in seno alle commissioni parlamentari sul DPEF per il 1997; l’astensione del PRC sul decreto legge relativo al trasferimento della STET al ministero del tesoro ne determinava la reiezione; ancora, la manovra finanziaria per il 1997 è stata approvata tra grandi difficoltà e dopo una difficile trattativa; infine il PRC rifiutava di sottoscrivere l’accordo sulla riforma dell’emittenza radiotelevisiva e votava contro la legge costituzionale istitutiva della commissione parlamentare per le riforme costituzionali (legge cost. n. 1 del 1997). Ma già dall’aprile 1997 e quindi dopo solo un anno dalla fiducia, la vita del governo è stata scandita da un crescendo di contrasti con il PRC, cui si sono accompagnati fenomeni crescenti e sempre più gravi di fibrillazione del sistema politico: si pensi, in particolare alla nascita nel novembre 1997 dell’UDR (si tratta di una formazione politica fondata dall’ex presidente della repubblica Francesco Cossiga, composta in prevalenza da parlamentari eletti nelle forze politiche del centro destra) che si inseriva progressivamente nella maggioranza, votando prima il DPEF per il 1998 e poi la proposta di legge di ratifica dei protocolli Nato relativi all’allargamento dell’alleanza ai Paesi dell’Europa orientale; sempre nello stesso mese Antonio Di Pietro era eletto senatore nelle elezioni suppletive nel collegio del Mugello, dando ben presto vita ad un nuovo movimento politico; infine, nel febbraio 1998 un ulteriore fattore di destabilizzazione del centro sinistra era dato dalla svolta «centrista» decisa al congresso del PDS che, tra l’altro, decide il mutamento del nome (DS). Non solo in questa fase i vertici di maggioranza sono divenuti più frequenti e rilevanti, quasi come nel primo periodo dell’esperienza repubblicana, ma l’instabilità è stata sempre più palese e si è tradotta in una pluralità di episodi. Così, nell’aprile 1997 la prima eclatante dissociazione del PRC si è avuta sulla missione militare italiana in Albania. In questo caso, la richiesta del presidente del consiglio di una votazione parlamentare bipartisan è stata sostanzialmente accolta dai verdi (anch’essi perplessi) ma non da rifondazione. Il presidente del consiglio ha assunto un atteggiamento ambivalente ma non certo irrilevante: prima non ha accolto la richiesta del PPI di una verifica di maggioranza, quindi in un incontro con il segretario del PRC Bertinotti minacciava, in caso di voto contrario del suo partito, la crisi di governo e le elezioni anticipate (in ciò spalleggiato dal PDS), ma successi-

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vamente sceglieva una linea più morbida, con ciò attirandosi le critiche della maggioranza, favorevole ad un chiarimento immediato e definitivo con l’alleato comunista. Dopo che il PRC dichiarava il proprio persistente atteggiamento negativo, anche nel caso in cui il governo avesse deciso di porre la questione di fiducia, la risoluzione della maggioranza di sostegno al governo era approvata al senato con il voto contrario del centro destra e del PRC (al senato, come detto, l’ulivo disponeva della maggioranza assoluta dei seggi), mentre alla camera un documento congiunto riceveva i voti del centro sinistra e quelli del centro destra ma ancora una volta non quelli del PRC. Come richiesto dall’opposizione di centro destra, il presidente del consiglio riferiva al capo dello stato sull’esito della votazione senza dimettersi ma impegnandosi a tornare in parlamento per verificare la sussistenza della fiducia (si è parlato perciò di una sorta di pseudo-crisi: M. OLIVETTI, Le dimissioni rientrate del governo Prodi, in Giur. cost., 1997, p. 3151). La crisi rientrava con l’approvazione in entrambe le camere di una risoluzione di fiducia, in un contesto nel quale da più parti anche nella maggioranza era posto in discussione l’atteggiamento del capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, giudicato troppo accondiscendente nei riguardi del PRC. In ogni caso, la crisi rientrava (o sembrava rientrare) nello spirito del bipolarismo e quindi nell’impossibilità pratica di un’alternativa al governo in carica. Nel settembre successivo una nuova pre-crisi avveniva sulla manovra finanziaria per il 1998, e per le ipotizzate riduzioni della spesa pubblica nella sanità e nella previdenza. Anche in questo caso, il PRC minacciava di votare contro la manovra finanziaria e di aprire la crisi di governo ove non fossero state recepite le sue proposte, quali il rifiuto di riduzione dei fondi pubblici destinati alla spesa sociale, la tutela dei diritti dei lavoratori, la riduzione dell’orario di lavoro settimanale a 35 ore, la trasformazione dell’Iri in un’agenzia per lo sviluppo del mezzogiorno, una strategia di privatizzazioni di Telecom ed ENEL che ne mantenesse il controllo pubblico. Anche in questo caso non mancarono diversità di accenti nella maggioranza, con una parte delle forze favorevole ad uno scioglimento delle camere (tra questi il PDS) e una parte contraria (PPI e rinnovamento italiano), così come era contrario il capo dello Stato. La richiesta delle opposizioni di un dibattito parlamentare sulla situazione politica, senza la presentazione di una mozione di sfiducia (per il rischio di ricompattare artificiosamente la maggioranza) era accolta dal governo: si ebbe così una «parlamentarizzazione» non di una crisi ma, ancora una volta, di una pre-crisi (l’anomalia della situazione era testimoniata dal fatto che, a seguito di tale crisi informale, la commissione parlamentare per le questioni costituzionali sospendeva i propri lavori, così come venivano sospese le trattative tra il governo ed i sindacati per la riforma del sistema pensionistico: M. OLIVETTI, Le dimissioni rientrate, cit.,

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pp. 3154-3155), mentre era subito esclusa l’ipotesi di un vertice di maggioranza (tipico del periodo ante 1992), preferito a trattative informali tra il governo, la propria maggioranza e rifondazione. Il capo dello Stato, che in una situazione del genere recuperava un ruolo significativo, invitò il presidente del consiglio ad avviare invece una trattativa formale e globale con il PRC, prima dell’eventuale apertura della crisi ed anzi nella prospettiva di evitarla. Anche in questa circostanza però il presidente del consiglio recitava un ruolo non irrilevante imponendo tre paletti giudicati per lui irrinunciabili ed espressivi, i primi due, di una logica di democrazia maggioritaria: a) indisponibilità a guidare un governo con una maggioranza diversa da quella uscita dalle elezioni del 1996; b) fermezza sui contenuti della legge finanziaria; c) disponibilità a trattare con il PRC su singoli punti. Dopo un incontro infruttuoso tra una delegazione del governo ed una del PRC, in parlamento dopo alterne vicende che lasciavano trasparire anche la possibilità di una composizione del dissenso, si consumava la rottura definitiva, con la decisione del presidente del consiglio di attribuire significato fiduciario alla votazione conclusiva alla camera (ponendo quindi una sorta di «pseudo questione di fiducia») e con la presentazione di una risoluzione «alternativa» del PRC. Su tali documenti la camera non votava, nonostante gli intendimenti del presidente del consiglio, per la pressione congiunta del presidente della Repubblica e del segretario del PDS. Come si vede, quindi, la vicenda in questione testimoniava i tratti atipici e ambigui della forma di governo quale si sono venuti evolvendo dopo il 1996: in questa situazione di crisi il presidente del consiglio vedeva accrescere il suo peso ma non fino al punto di decidere l’esito ultimo della crisi (il passaggio fiduciario, con la prospettiva dello scioglimento delle camere), condizionato, da un lato, dalla sua maggioranza e, dall’altro, aspetto non irrilevante, dal capo dello Stato, criticato, ma forse a torto, in questa occasione: in effetti, in presenza di una univoca volontà dell’ulivo di addivenire allo scioglimento, egli non avrebbe potuto opporre alcun rifiuto (anche se in ipotesi il centro destra ed il PRC fossero stati contrari, in quanto incapaci di saldare in un progetto di governo il disegno di continuare la legislatura data la maggioranza assoluta dei seggi al senato in capo all’ulivo). In effetti, dopo l’apertura formale della crisi, i cui tempi furono «rallentati» dal capo dello Stato (M. OLIVETTI, Le dimissioni rientrate, cit., p. 3159), la maggioranza riusciva a trovare una difficile mediazione tra la posizione dei favorevoli allo scioglimento immediato e quella favorevole ad una ricomposizione della crisi, mentre, per inciso, nemmeno l’opposizione di centro destra appariva compatta in direzione di una soluzione unitaria. La crisi si risolse con un compromesso sulla base dell’impegno del governo a presentare un disegno di legge sulla durata massima dell’orario di

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lavoro a 35 ore e del consenso del PRC a votare la legge finanziaria, parzialmente corretta con emendamenti graditi allo stesso PRC. Il governo fu rinviato alle camere, previa reiezione delle dimissioni da parte del capo dello Stato, dato il raggiungimento di un accordo che non richiedeva né mutamenti nella composizione della compagine governativa né variazioni nella formula politica che la sorreggeva. In questo caso, la risoluzione della maggioranza, su cui il presidente del consiglio pose formalmente la fiducia, recava la firma anche del capogruppo di rifondazione. La graduale rottura della maggioranza ebbe un ulteriore passaggio nella decisione del PRC di opporsi all’allargamento della Nato ai Paesi dell’Europa orientale nel giugno 1998. In questo caso la dissociazione non era qualificata dallo stesso PRC tale da implicare la fine dell’appoggio al governo. In tale vicenda, cui faceva seguito una verifica di maggioranza che non risolse i problemi politici e le frequenti «incursioni» dell’UDR in alcune importanti votazioni, accreditandosi come possibile «ricambio» politico di un PRC ormai anche in crisi interna, si assisteva ad uno scenario che di lì a poco si sarebbe riprodotta dando luogo alla definitiva conclusione dell’esperienza del I governo Prodi. L’UDR offriva il proprio sostegno al governo ma in cambio voleva una richiesta espressa in tal senso del presidente del consiglio, la «certificazione» della fine della maggioranza e la mancata apposizione della questione di fiducia; il centro destra offriva invece il proprio sostegno in cambio delle successive, immediate dimissioni del governo. Al senato il disegno di legge era approvato con il sostegno del centro destra e dell’UDR e con il voto contrario del PRC. Alla camera, invece, il sostegno dell’UDR era invece determinante cosicché il presidente del consiglio era costretto a riferire al capo dello Stato sulla situazione politica. Il successivo dibattito parlamentare vedeva la conferma della fiducia al governo, con toni critici del PRC, che non si impegnava politicamente sul disegno di legge finanziaria per il 1999 e non sottoscriveva le risoluzioni fiduciarie. In effetti, la crisi definitiva si consumò nel settembre successivo, allorché il PRC si dichiarava insoddisfatto dei contenuti della manovra finanziaria per il 1999 e chiedeva una svolta, minacciando il passaggio all’opposizione. Si tentava anche in questo caso un vertice di maggioranza che non risolveva i problemi, cosicché il passaggio parlamentare successivo vedeva, ancora una volta, una spaccatura tra il presidente del consiglio che riusciva a «imporre» una votazione fiduciaria su una risoluzione e la maggioranza della coalizione (DS, PPI), sostenuta dal capo dello Stato, contraria a tale decisione, perché contraria alla prospettiva dello scioglimento anticipato delle camere. L’esito della vicenda è noto: per la prima volta nella storia della Repub-

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blica un governo cadeva in una votazione fiduciaria, respingendo il disegno dell’UDR di dare vita ad un nuovo esecutivo con una nuova maggioranza, e determinando la spaccatura del PRC con la nascita di un nuovo soggetto politico (il PDCI) che votava la fiducia al governo (M. OLIVETTI, Le dimissioni del governo Prodi e la formazione del governo D’Alema. Cronaca di una crisi annunciata, in Giur. cost., 1997, pp. 2973 ss.). Ma questa vicenda dimostra, altresì, la scarsa utilizzabilità dell’istituto in esame per esercitare pressioni su un partito membro di una coalizione di governo, data l’assenza di una regola costituzionale che prevedesse l’inversione della regola della maggioranza (come è invece previsto, ad esempio, nella Costituzione francese) (M. OLIVETTI, Le dimissioni del governo Prodi, cit., p. 2999). È in questo contesto che deve essere inquadrato il tema della legittimazione elettorale del presidente del consiglio che Berlusconi rivendicava all’indomani delle elezioni del 1994 (ma, più velatamente, in non poche occasioni, anche Prodi nella legislatura successiva) e soprattutto al momento della caduta del suo governo allorché richiedeva lo scioglimento delle camere. Certamente, appare indiscutibile il fatto che la crisi del governo Berlusconi I fosse imputabile alla mancata «saldatura» delle due diverse coalizioni elettorali, una delle quali, tra l’altro, non aveva univocamente indicato Berlusconi quale candidato Premier. In questo senso, la legislazione elettorale del 1993 non avrebbe potuto cambiare il funzionamento delle istituzioni, producendo alleanze elettorali ma non maggioranze politiche stabili. Ma più in generale, il passaggio a sistemi elettorali prevalentemente maggioritari non ha prodotto, e tantomeno nel 1994, una sorta di «elezione sostanzialmente diretta» del presidente del consiglio, tanto da renderlo inamovibile e quindi da rendere inevitabile lo scioglimento delle camere in caso di rottura della maggioranza di governo. In effetti, come è stato giustamente osservato, in quel contesto era difficile poter immaginare uno scioglimento anticipato delle camere in presenza di una maggioranza parlamentare non solo contraria allo scioglimento «in ordine sparso» ma disponibile in positivo a esprimere un nuovo governo: non a caso, Bossi assimilava la sfiducia al governo Berlusconi ad una sorta di mozione di sfiducia costruttiva, contenendo essa, implicitamente ma chiaramente, la soluzione della crisi di governo. D’altra parte, già prima dell’apertura formale della crisi, nel novembre 1994, il presidente della repubblica ed i presidenti delle camere avevano espresso un avviso favorevole alla continuazione della legislatura in caso di crisi di governo, anche con una nuova maggioranza parlamentare. Né sembrava in definitiva sostenibile, in assenza di una revisione formale della Costituzione repubblicana, lo scioglimento delle camere in presenza di una maggioranza parlamentare disponibile ad esprimere un nuovo governo. In definitiva, in tema di scioglimento delle camere la problematica dei

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rapporti tra capo dello Stato e presidente del consiglio era rimasta «sospesa» e ciò sembrava dimostrare l’«ambiguità della Repubblica semi-maggioritaria e della tensione che la attraversa fra il bipolarismo con leader e la frammentazione coalizionale» (M. OLIVETTI, Appunti sulle trasformazioni della forma di governo italiana, in G.C. DE MARTIN, Z. WITKOWSKI, P. GAMBALE, a cura di, Riforme costituzionali e itinerari della democrazia in Europa: Italia e Polonia a confronto, Padova, Cedam, 2007, p. 110). Tutto ciò è riscontrabile anche in occasione della crisi del I governo Prodi: in quel caso, il diniego della camera dei deputati alla questione di fiducia posta dall’esecutivo con la conseguente scissione di rifondazione comunista e la dichiarata disponibilità dell’UDR a sostenere un nuovo governo nell’ambito del centro sinistra rendevano ancora una volta arduo lo scioglimento, gradito al presidente del consiglio uscente (che sembra lo avesse richiesto riservatamente) ma non alle forze dell’Ulivo. Viceversa, eterogeneità delle coalizione, persistenza di un multipartitismo estremo, sia pure «ingabbiato» ancora debolmente in coalizioni, e quindi debolezza delle rispettive leadership, hanno determinato gli esiti che si sono analizzati: in questo senso, se Berlusconi era un leader di due distinte coalizioni nel 1994, Prodi era indicato da un agglomerato eterogeneo di forze politiche, senza, a monte, essere leader di una di esse; è chiaro che nella decisione di non sciogliere le camere dopo la crisi del suo primo governo, il premier è stato inevitabilmente la voce più debole. A ciò si aggiunga la dimensione sovranazionale dell’indirizzo politico, che obiettivamente ha costituito un ostacolo sia allo scioglimento nel 1994 (data l’immagine di inaffidabilità dell’Italia che sarebbe derivata dall’inevitabile esercizio provvisorio del bilancio) sia allo scioglimento nel 1998 (data la necessità di apprestare urgentemente gli strumenti normativi conseguenti all’ingresso nell’euro). In questo senso, il mancato scioglimento del 1994 sembrava testimoniare un diverso atteggiarsi dei rapporti tra il capo dello Stato e le forze politiche in caso di crisi di governo, dato che «le decisioni in ordine alla scelta fra scioglimento e formazione di un governo non vengono ricercate coinvolgendo indistintamente l’insieme dei partiti presenti in parlamento, ma nascono all’interno delle forze di maggioranza. Di quella maggioranza che pure, per una qualsiasi ragione, è entrata in crisi» (R. VIRIGLIO, L’esercizio del potere di scioglimento del parlamento negli anni 1994-1999, in Dir. pubbl., 1999, p. 292); cosicché, è stato notato, era come se si fosse costruita una nuova conventio ad excludendum che, in modo più semplice rispetto al passato, assumeva le forme di una sorta di conventio ad integrandum (G. DEMURO, Regole costituzionali non scritte, cit., p. 80). In questo senso, l’avvenuto mutamento delle leggi elettorali non si è mostrato neutrale dal punto di vista del sistema istituzionale, anche se non fino al punto di rendere impossibile di fatto ogni soluzione diversa dallo scioglimento in caso di crisi di governo, come sarebbe avvenuto an-

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che a Costituzione vigente in presenza di un assetto bipartitico del sistema politico (L. CARLASSARE, Il ruolo del capo dello Stato, cit., p. 140). In effetti, da questo punto di vista, il presidente del consiglio, sia nel caso del I governo Berlusconi che nel caso del I governo Prodi, riusciva a imporre un passaggio parlamentare fiduciario (Prodi I) ovvero a evitare una classica crisi «extraparlamentare» (Berlusconi I) che sembrava preferita, in momenti diversi, dalla lega nord e da AN: se quest’ultima, unitamente a forza Italia, prima della presentazione delle mozioni di sfiducia, si dichiarava favorevole ad un rimpasto o anche alle dimissioni del governo ed alla costituzione di un nuovo esecutivo con la stessa maggioranza ma con una diversa guida, la lega faceva precedere la sfiducia alle «classiche» dimissioni dei propri ministri (fatta eccezione per quello dell’interno). In piena continuità con il periodo precedente al 1992 si tentava anche la via di un vertice di maggioranza, fallito per la diserzione della lega. Similmente, Prodi decideva il passaggio fiduciario, nonostante diffuse perplessità della maggioranza, parte della quale favorevole ad aprire un dialogo diretto e pubblico con l’UDR. Da questo punto di vista, la sostanziale sfiducia ai due governi costituiva un carattere indubbiamente non in asse con il modello di forma di governo parlamentare maggioritaria, cui si è alluso in precedenza; ed in effetti, come è stato autorevolmente sostenuto, «un parlamento maggioritario […] trova il proprio irrinunciabile punto di ancoraggio in quella funzione di sostegno del governo che secondo un insegnamento classico (Bagehot) è la sua principale ragion d’essere nei sistemi parlamentari», mentre nel periodo in esame «il parlamento si riappropria (o meglio gli è consentito di riappropriarsi) di un potere formale – quello di far cadere i governi – che non aveva mai esercitato, e nello stesso momento, anche dopo l’introduzione del nuovo sistema elettorale, la sua scarsa vocazione nei confronti della propria fondamentale missione stabilizzatrice: quella di sostenerli» (C. MEZZANOTTE, I rapporti fra parlamento e altre istituzioni. Relazione generale, in Associazione italiana dei costituzionalisti, Annuario 2000, cit., p. 304). Un secondo indizio di mutamento era dato dalle modalità di soluzione delle crisi dei due governi: a seguito della crisi del I governo Berlusconi, il presidente Scalfaro, come è noto, conferì l’incarico di formare il nuovo esecutivo a Lamberto Dini, ministro del tesoro del governo Berlusconi; tutto ciò nell’ottica di voler contemperare la necessità di proseguire la legislatura e di tenere conto dell’esito delle elezioni del 1994. Sulla scelta di Dini, in quanto insieme tecnico e ministro del governo uscente, si è discusso a lungo ed anche criticamente. Pare comunque che l’individuazione di Dini fosse avvenuta per motivi puramente politici, data la sovraesposizione politica cui era andato incontro il capo dello Stato e quindi l’opportunità di coinvolgere il presidente del consiglio uscente nella scelta del successore, e ciò anche per non irrigidire da subito le forze del centro destra.

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Per quanto riguarda la crisi del I governo Prodi, dopo le dimissioni dell’esecutivo, il capo dello Stato conferiva un preincarico allo stesso Prodi, in quanto leader dell’ulivo più che per la sua capacità, in quel momento, di costituire un nuovo governo. In effetti, tale preincarico non ebbe buon esito, e fu lo stesso Prodi ad indicare D’Alema, leader del partito più forte della coalizione di centro sinistra, quale suo successore. 7.1. Le proposte della commissione D’Alema Nella XIII legislatura riprendeva con forza il tema delle riforme istituzionali. Come nel 1993 anche nel 1997 il parlamento approvò un’apposita legge costituzionale, la legge cost. n. 1 del 1997 con la quale fu istituita una commissione parlamentare per le riforme costituzionali, composta in proporzione alla consistenza dei gruppi parlamentari, competente a elaborare «progetti di revisione della parte II della Costituzione, in particolare in materia di forma di Stato, forma di governo e bicameralismo e sistema delle garanzie» (art. 1, comma 4). Le proposte della commissione avrebbero dovuto essere sottoposte al parlamento per l’approvazione con due successive deliberazioni, la seconda delle quali a maggioranza assoluta dei componenti e quindi sottoposte ad un referendum popolare. Tale consultazione risultava diversa da quella disciplinata dall’art. 138 Cost. per almeno due motivi, ovvero per il suo carattere obbligatorio e per la previsione della necessità del raggiungimento del quorum di partecipazione fissato nella maggioranza assoluta degli aventi diritto ai fini della promulgazione delle leggi costituzionali (art. 4). Senza entrare nel merito delle fondate critiche avanzate da una parte della dottrina circa la legge cost. n. 1 del 1997, derogatoria in più punti rispetto alla disciplina del procedimento di revisione costituzionale di cui all’art. 138 Cost. (per tutti, A. PACE, Processi costituenti italiani 1996-97, in Dir. pubbl., 1997, pp. 581 ss.), occorre dare conto in sintesi delle proposte avanzate dalla commissione, presieduta dal leader del PDS Massimo D’Alema; proposte che non sono state approvate per la sopravvenuta opposizione delle forze del centro destra, a seguito della ricomposizione di una loro intesa con la Lega nord, anche se alcune di esse sono state ampiamente riprese nella riforma del titolo V operata con le leggi cost. n. 1 del 1999 e n. 3 del 2001. La proposta presentata dalla commissione nel giugno 1997, e quindi modificata per tenere conto degli emendamenti presentati dai diversi gruppi parlamentari nel novembre successivo, contemplava una revisione organica dell’intera seconda parte della Costituzione. Tentando in sintesi di ripercorrerne i contenuti, si può osservare che, per quanto attiene ai rapporti tra lo Stato e le autonomie territoriali, il testo della bicamerale proponeva un’incisiva riforma diretta ad ampliare l’autonomia legislativa delle regioni prevedendo che, al di fuori di un elenco di materie allocate

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alla potestà esclusiva dello Stato, in un secondo gruppo di materie lo Stato stesso avrebbe potuto determinare la sola «disciplina generale», con l’ulteriore possibilità di intervenire «per la tutela di imprescindibili interessi nazionali». Fuori da queste materie la potestà legislativa regionale si sarebbe esercitata «in riferimento ad ogni materia non espressamente attribuita alla potestà legislativa dello Stato» (art. 58). Risultavano poi decisamente ampliate l’autonomia amministrativa, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione, omogeneità e adeguatezza (art. 56) e soprattutto l’autonomia finanziaria (si veda il lungo e articolato art. 62) e statutaria (art. 60). Assai discutibili erano le disposizioni relative all’assetto del parlamento: il senato rimaneva eletto a suffragio universale e diretto (art. 77), ma era prevista l’integrazione della seconda camera con rappresentanti delle regioni e delle autonomie locali in numero pari a quello dei senatori per l’esame di alcuni disegni di legge (tra queste la legislazione relative all’organizzazione di comuni e province; le disposizioni in materia di autonomia finanziaria di regioni ed enti locali). Il procedimento legislativo era articolato in più tipi (bicamerale; a prevalenza della camera dei deputati; bicamerale o a prevalenza della camera nei casi in cui il senato sarebbe stato integrato con i rappresentanti regionali), dandosi quindi luogo ad una frammentazione foriera di non pochi dubbi interpretativi. Dato il ridimensionamento del senato sul terreno della legislazione e data la sua esclusione dal rapporto fiduciario (art. 74), a tale ramo del parlamento erano attribuite prerogative di garanzia, quali l’elezione di cinque componenti della corte costituzionale, dei componenti di nomina parlamentare dei consigli superiori della magistratura ordinaria e amministrativa (cfr. infra), ogni altra elezione o nomina attribuita al parlamento (art. 88; tra queste l’elezione dei componenti delle autorità di garanzia o di vigilanza: art. 109) e l’istituzione di commissioni di inchiesta con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria (art. 105). Quanto alla corte costituzionale, era prevista la variazione della composizione (venti membri, nominati, in misura di cinque, dal capo dello Stato, dal senato, dalle supreme magistrature ordinaria e amministrativa; dal collegio di rappresentanti delle regioni e delle autonomie locali che avrebbero integrato il senato), ed erano incrementate le funzioni, estese alla legittimità costituzionale dei regolamenti relativi all’organizzazione dell’amministrazione statale; ai conflitti di attribuzione in cui fossero parte province e comuni; ai ricorsi in materia di elezione del presidente della Repubblica; ai ricorsi in materia di elezione dei componenti delle camere; ai ricorsi per la tutela, nei confronti dei pubblici poteri, dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione; ai ricorsi di legittimità costituzionale delle leggi, per violazione dei diritti stessi da parte di una minoranza parlamentare (1/5 dei componenti).

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Infine, il progetto interveniva anche sul titolo IV della Costituzione, affermando l’unitarietà della funzione giurisdizionale, esercitata dai giudici ordinari e amministrativi (art. 118) e prevedendosi due C.s.m. (della giurisdizione ordinaria e della giurisdizione amministrativa: art. 120). Era poi prevista una corte di giustizia della magistratura competente in materia di provvedimenti disciplinari (art. 122). Sicuramente, però, furono le norme sulla forma di governo a segnare i maggiori contrasti tra le forze politiche e anche a livello dottrinale. Come è noto, la commissione D’Alema su questo punto si ispirava alle linee di un modello già preannunciato all’atto della crisi del governo Dini quando il c.d. «lodo Maccanico» e quindi il tentativo, naufragato all’inizio del 1996, di un «governo delle riforme» che avrebbe dovuto assecondare una riforma indirizzata «alla investitura popolare diretta del capo dello Stato, all’innesto, sugli attuali poteri del presidente della Repubblica, di poteri di governo specificamente in tema di politica internazionale e della difesa, coniugandoli con la tradizione del nostro sistema parlamentare, secondo il modello definito semipresidenziale dalla dottrina giuridica e politologica». Tale scelta, nel caso della commissione D’Alema, era inserita in un contesto per più versi ambiguo, ed al culmine di un dibattito nel quale il problema della carenza dei contrappesi istituzionali insiti nel modello semipresidenziale francese non era emerso se non in modo insufficiente e saltuario (sul punto, da ultimo, M. VOLPI, Il semipresidenzialismo tra teoria e realtà, Bologna, Bononia University Press, 2014, pp. 110 ss.). A ciò si aggiunga che i sostenitori del modello semipresidenziale (in particolare, forza Italia e alleanza nazionale) non sembravano affatto convinti dell’introduzione di un sistema elettorale per la camera che fosse coerente con tale modello (come è noto, in Francia il modello semipresidenziale si accompagna ad un sistema elettorale maggioritario c.d. majority). Una incoerenza così profonda avrebbe dovuto destare i più fondati sospetti anche sulle finalità che venivano collegate all’elezione diretta del capo dello Stato, ovvero la necessità di riunificare nelle sue mani l’intero indirizzo politico di governo. In questo senso, la sordina posta sui problemi del sistema di elezione del parlamento, ma la malcelata preferenza per un modello nel quale vi fosse una determinante quota proporzionale, faceva quindi supporre una indifferenza ai problemi della stabilità e dell’efficienza dei governi nel modello semipresidenziale: cosicché l’elezione diretta del presidente della Repubblica finiva per assumere una valenza di tipo meramente plebiscitario e non funzionale agli obiettivi dichiarati. È in questo senso che deve essere inquadrato l’art. 67 del progetto che prevedeva l’elezione diretta del capo dello Stato con la maggioranza assoluta dei voti validi e l’eventuale ballottaggio tra i primi due candidati. A fronte infatti della probabilità che in sede elettorale i candidati alla presidenza avrebbero presentato un vero e proprio indirizzo della politica pre-

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sidenziale, «costringendo» il sistema politico a aggregarsi in due coalizioni, così non sarebbe avvenuto per le elezioni parlamentari, potenzialmente connotato da livelli di frammentazione non irrilevanti. Questa dicotomia avrebbe reso difficile, se non impossibile, realizzare un’omogeneità di indirizzo politico tra il presidente della Repubblica e la maggioranza parlamentare tipica (salvo eccezioni) del modello francese, dando luogo a quel modello di «governo diviso» che in Francia è stato arginato a partire dal 2000 con la riduzione a cinque anni del mandato del presidente e l’inversione del calendario elettorale, con la posticipazione delle elezioni parlamentari, destinate ad andare politicamente «al traino» di quelle presidenziali. Il progetto della bicamerale disegnava una figura di presidente della Repubblica che derivava dal modello francese anche se con la soppressione delle prerogative che sembravano ispirate ad una logica plebiscitaria (quali quelle riconosciute in caso di proclamazione dello stato di eccezione o quella di indizione di referendum su leggi relative all’organizzazione dei pubblici poteri) e con il «ritaglio» di alcuni di quelle più rilevanti sul piano politico, quali la presidenza del consiglio dei ministri e il potere esclusivo di scioglimento della camera dei deputati; nel testo della bicamerale, infatti, il presidente avrebbe potuto sciogliere la camera dei deputati solo in caso di dimissioni del governo (obbligatorie però all’atto di assunzione delle funzioni da parte del capo dello Stato: art. 74, comma 6), potendo però in qualunque momento chiedere al primo ministro di presentarsi alla camera stessa per verificare la sussistenza del rapporto di fiducia (art. 66, lett. d). La cancellazione di alcuni, ma di non tutti, i poteri politici tipici del presidente francese; la sostituzione dei poteri soppressi con altri diversi, ma appartenenti anch’essi alla stessa sfera, erano indizi del fatto che il problema del ruolo del presidente della Repubblica nei suoi rapporti politici con il governo e la sua maggioranza parlamentare era divenuto il fulcro del dibattito alla bicamerale fra i due maggiori schieramenti politici. Non a caso, dunque, agli inizi di giugno del 1998, proprio quando la parte del progetto riguardante la forma di governo incominciò ad essere discussa dalla camera dei deputati, quel problema riesplose con violenza: dimostrando l’inconciliabilità delle due concezioni del semipresidenzialismo e travolgendo, alla fine, la stessa commissione bicamerale. Come si dirà, però, il tramonto di tale esperienza non chiuse, però, il problema delle riforme della Costituzione, in particolare, della nostra forma di governo, che infatti sarebbe ripreso, in termini peraltro molto discutibili, nella XIV legislatura (cfr. infra). Il compromesso raggiunto in bicamerale, a cominciare dalla definizione delle prerogative del capo dello Stato e di quelle del primo ministro, come si è accennato, risultava ambiguo su più aspetti decisivi, ma anche incerto nel suo rendimento «dipendente soprattutto da fattori politici, che

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non avrebbe escluso la possibilità per il presidente di divenire capo effettivo del potere esecutivo» (M. VOLPI, Il semipresidenzialismo, cit., p. 113). Sul primo punto, è da ricordare che il presidente della Repubblica, eletto a suffragio universale e diretto con un sistema a doppio turno e per sei anni, allo scopo di evitare la coincidenza con le elezioni parlamentari, si vedeva riconoscere sia funzioni di garanzia (ad esempio, presidenza del C.s.m. e nomina di ¼ dei componenti della corte costituzionale) sia prerogative, almeno lato sensu, politiche, il cui esercizio era sottratto dall’obbligo di controfirma: tra questi la nomina del primo ministro, «tenendo conto dei risultati delle elezioni della camera» (art. 71, comma 2; si tratta di un vincolo significativo solo nel caso in cui le elezioni abbiano prodotto una chiara maggioranza) e, soprattutto, lo scioglimento della camera dei deputati che non sarebbe stato possibile negli ultimi sei mesi del mandato e nell’anno che seguiva le elezioni della camera stessa (art. 70). Il presupposto che avrebbe legittimato lo scioglimento era dato dalle dimissioni del primo ministro, che erano previste nei seguenti casi: a) elezione della camera dei deputati; b) mancata approvazione, da parte della camera, della fiducia chiesta dal governo, ai sensi del regolamento della camera stessa; c) approvazione da parte della camera di una mozione di sfiducia al governo; d) assunzione delle funzioni da parte del nuovo presidente della Repubblica; e) dimissioni, morte o impedimento permanente del primo ministro (art. 74, commi 5 ss.). L’ampiezza delle ipotesi sopra riportate rendeva il potere presidenziale assai vasto e tale da legittimare sia ipotesi di scioglimento con il consenso del primo ministro, sia anche a prescindere da esso (si pensi all’ipotesi di dimissioni all’atto di assunzione delle funzioni del nuovo capo dello Stato). Il primo ministro non era significativamente rafforzato, se non per l’esclusività della presidenza del consiglio dei ministri, non condivisa, come in Francia, con il presidente della Repubblica. Per il resto infatti, il testo della bicamerale prevedeva che la più importante delle funzioni governative, ovvero la determinazione e la direzione della politica nazionale fosse attribuita all’intero governo e, quindi, in ultima analisi, secondo la tradizione italiana, al consiglio dei ministri. Ed infatti, in una forma di governo ispirata al semipresidenzialismo, il preteso «rafforzamento» del primo ministro avrebbe necessariamente incontrato forti limitazioni, in presenza del già richiamato ruolo politico del capo dello Stato. I poteri di scioglimento anticipato; di rinvio del governo in parlamento; di controllo degli atti governativi risultavano infatti oggettivamente incompatibili con quella concentrazione del potere di indirizzo politico sul primo ministro che è, invece, possibile in Inghilterra e in Germania. In conseguenza, era scontato che il rafforzamento del primo ministro finisse, nel modello scelto dalla bicamerale, per investire aspetti minori della figura di un organo al quale era attribuito, sì, il nomen iuris di primo

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ministro, ma che finiva per assomigliare, invece, ad un presidente del consiglio «razionalizzato» e dotato, perciò, del potere non solo di proporre ma anche di revocare i ministri. Potere al quale si aggiungeva, è vero, anche quello di indirizzare loro direttive politiche: che non avrebbero potuto, però, svolgersi che nel quadro dell’indirizzo collegiale di governo sopra richiamato. Così, a risultati non lontani dalla situazione attuale sembrava portare l’attribuzione al primo ministro di un potere e di una responsabilità preminenti in ordine al programma ed all’esercizio dell’iniziativa legislativa governativa (art. 74). Ancora, ed a conferma dei limiti al rafforzamento del primo ministro derivanti dalla forma di governo prescelta, il potere di decidere in ordine alla priorità delle iniziative governative nell’ordine del giorno delle camere ed in ordine alla posizione della questione di fiducia erano attribuiti, come in Francia, al governo collegialmente inteso. Infine, a minare una corretta funzionalità nel rapporto tra governo e parlamento era la nuova disciplina del rapporto fiduciario, nella quale, superata la previsione della mozione motivata di fiducia e quindi l’obiettivo di un indirizzo politico unico tra parlamento e governo, ci si affidava ad una assai più generica esposizione, da parte del primo ministro, senza obbligo di fiducia preventiva, ma con la possibilità per una minoranza parlamentare (1/5 dei deputati) di presentare una mozione di sfiducia per la cui approvazione era imposta la maggioranza assoluta dei componenti della camera. A ciò si aggiungano le incertezze relative alla legge elettorale, in ordine alla quale, come detto, la maggioranza delle forze politiche in seno alla bicamerale sembrava orientarsi verso un modello che recuperasse una logica maggiormente proporzionalistica rispetto a quanto previsto dalle leggi Mattarella del 1993, con il rischio quindi di coalizioni deboli e della conseguente espansione del ruolo politico-istituzionale del capo dello Stato. Da ultimo, il testo della bicamerale sembrava, in una qualche misura, ridimensionare il ruolo del parlamento, privato della possibilità di esprimere la fiducia iniziale, condizionato dalla previsione di nuovi strumenti riconosciuti al governo nella fissazione dell’ordine del giorno delle camere (con la previsione della prioritaria iscrizione all’ordine del giorno dei suoi disegni di legge) e nel procedimento legislativo (con la previsione di una sorta di «voto bloccato» su testi da esso proposti o accettati) e indebolito da una revisione dell’assetto bicamerale che sembrava consegnare al senato, attraverso alcune delle prerogative ad esso riconosciute, un ruolo concorrenziale con quello della camera. In definitiva, dunque, la forma di governo in questione si presentava come una strana ibridazione che avrebbe potuto oscillare nella prassi tra un modello in definitiva presidenzialistico ed un assetto connotato più che da una «fusion» da una pericolosa «(con)fusion» di poteri (si è parlato a tale proposito di un rischio di «diarchia rissosa» tra presidente della Repubblica e governo: F. TERESI, La stra-

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tegia delle riforme. La tormentata revisione della Costituzione repubblicana, Torino, Giappichelli, 1998, p. 255; cfr. anche M. VOLPI, Il semipresidenzialismo, cit., p. 117).

8. I governi politici nati in parlamento nella XIII legislatura: i due governi D’Alema ed il II governo Amato La prima stagione dei «governi del maggioritario» appare priva del primo connotato che dovrebbe caratterizzarli, ovvero la stabilità, e ciò principalmente per l’eterogeneità delle coalizioni parlamentari a sostegno dell’Esecutivo, nonché per l’assenza di congegni istituzionali atti a rimettere in asse il quadro costituzionale rispetto alle mutate innovazioni delle leggi elettorali. Un ulteriore fattore atipico è dato dall’esito delle crisi dei governi in questione, ovvero il mancato scioglimento delle camere e la costituzione di un nuovo esecutivo (tecnico a seguito della crisi del I governo Berlusconi; politico a seguito della crisi del I governo Prodi). Si sono già brevemente analizzate le vicende della caduta del I governo Berlusconi e la formazione del governo Dini. Rispetto a questa vicenda, la formazione del I governo D’Alema ha rotto il principio (per alcuni, una incipiente convenzione costituzionale) dell’impossibilità per un parlamento eletto con una certa maggioranza di dare vita a maggioranze politiche diverse, se non dietro lo schermo di un governo tecnico o istituzionale. Il centro destra accoglieva polemicamente la nascita del nuovo governo, denunciando l’ennesimo «tradimento» della volontà degli elettori, sia da parte dei parlamentari dell’UDR (in quanto eletti nelle file dell’opposizione) sia da parte dell’Ulivo (data la nuova maggioranza non legittimata dal corpo elettorale) sia da parte del presidente del consiglio (non indicato agli elettori nelle consultazioni del 1996). La formazione dei due governi D’Alema e del II governo Amato e la loro vita hanno richiamato molte, ma come si dirà, non tutte le caratteristiche dei governi anteriori alla XI legislatura, a dimostrazione, ancora una volta, delle tante peculiarità che caratterizzano questo periodo. In primo luogo, a seguito della crisi del I governo Prodi, il capo dello Stato «rispolverava» un istituto già desueto prima del 1992, ovvero il «preincarico», utilizzato nei casi di maggiore instabilità politica o a «copertura» di una formula politica o, infine, a garanzia dell’incaricato, per non scoprirlo politicamente: anche in questo caso l’uso del preincarico, prima a Prodi (che rinuncia rapidamente) e quindi a D’Alema rispondeva ad entrambe queste esigenze. In ogni caso, il preincarico ha evidenziato un ruolo forte del capo dello Stato nella gestione della crisi e la tendenza di questo «a pilotare le crisi fino ad una fase molto avanzata di esse» (M. OLIVETTI, Le dimissioni del

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governo Prodi, cit., p. 3000); tipica tendenza, questa, di una maggiore «mediatizzazione» del procedimento di formazione del governo (R. CHERCHI, Il governo di coalizione, cit., p. 294). Ma questo ruolo forte era in netta continuità con la prassi anteriore al 1992, allorché preincarichi, incarichi, consultazioni del presidente incaricato, trattative prolungate tra i partiti sull’accordo di coalizione, definizione del programma, spartizione dei ministeri hanno costituito elementi portanti di un assetto che era in gran parte recuperato anche nella formazione dei governi tra il 1998 ed il 2001, anche se con alcuni scostamenti derivanti dal «residuo del contesto semi-maggioritario in cui i partiti politici operano» (M. OLIVETTI, Le dimissioni del governo Prodi, cit., p. 3001). In linea con la prassi precedente al 1992, D’Alema svolgeva proprie consultazioni, in un primo momento con le forze dell’ulivo e con quelle che sembravano disponibili ad un ingresso nella maggioranza (PDCI e UDR) e quindi anche con i gruppi del centro destra. Ricevette l’incarico solo dopo la sottoscrizione dell’intesa sul programma da parte delle forze dell’ulivo, del PDCI e dell’UDR (fino a quel momento contrari a far parte della stessa maggioranza di governo). Nella sua composizione il I governo D’Alema assomigliava ad un governo di coalizione propri del periodo 1948-1992, ma, diversamente, dal passato, composto da ministri appartenenti a ben sette gruppi (sette ministri spettano ai DS, sei al PPI, tre all’UDR, due a rinnovamento italiano, due al PDCI, due ai verdi, uno allo SDI), cosicché appariva conseguente l’aumento del numero dei ministri da 20 a 25 e la vice-presidenza al partito più forte dopo quello che esprimeva il presidente del consiglio (la carica era infatti attribuita a Mattarella, esponente del PPI). La formazione della lista dei ministri si caratterizzò, come per il passato, per veti, contrasti polemici tra i partiti della maggioranza e per la rilevanza delle fazioni interne a questi ultimi. Sembrava comunque che rispetto al passato il presidente del consiglio, in quanto leader del partito maggiore della coalizione, fosse rimasto comunque al centro della trattativa, da lui stesso condotta e diretta con le diverse forze politiche sia per la scelta dei ministri che per la distribuzione dei portafogli. È però un dato da rimarcare, quale ulteriore elemento anomalo della XIII legislatura, che il governo in questione nacque in parlamento con una maggioranza diversa da quella risultante dalle elezioni del 1996, grazie all’apporto determinante dell’UDR alla camera e alle due profonde rotture politiche che tra il 1997 ed il 1998 si consumarono (quella che portò alla nascita dell’UDR, da un lato; la scissione del PRC con la nascita del PDCI, dall’altro), pur avendo una premiership assai più forte, tipica anzi di un «governo di legislatura». Proprio questi elementi furono evidenziati dal presidente del consiglio al senato, integrando l’esposizione programmatica già resa alla camera. Del tutto in linea con la prassi precedente fu però la decisione di

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D’Alema di dimettersi dalla segreteria del partito al momento di assumere la carica di presidente del consiglio. Venne sostituito da Veltroni (grazie ad un accordo tra i due) mentre, in forza di un’apposita revisione dello statuto dei DS, D’Alema divenne presidente di diritto del partito. Il governo così formato, come i due successivi, risentì, in particolare, delle fibrillazioni politiche seguite alla caduta di Prodi, ed in particolare delle polemiche tra «ulivisti» e fautori di un centro sinistra che superasse la configurazione della coalizione decisa nel 1996: il tutto aggravato dall’imminente campagna elettorale per le elezioni europee e dalla presentazione di referendum in materia elettorale che, avendo l’obiettivo di superare la quota proporzionale, suscitò l’allarme e le minacce dei medi e piccoli partiti (PPI, PDCI in particolare). Dopo che i DS ufficializzarono l’appoggio al referendum e la minaccia di crisi da parte del PDCI, fu necessario un vertice di maggioranza. Queste fibrillazioni si accompagnarono a non infrequenti dissociazioni tra i ministri o tra i diversi partners della coalizione: così nella vicenda dell’arrivo in Italia di Abdullah Ocalan (leader di un partito indipendentista curdo e accusato di terrorismo dalla Turchia), per iniziativa di un parlamentare del PRC il presidente del consiglio assunse un atteggiamento ambiguo, conseguente ad un contrasto irrisolto tra il ministro degli esteri, fautore dell’espulsione del leader curdo e il ministro della giustizia, favorevole alla concessione dell’asilo politico. Anche in ordine alla vicenda dell’attacco della Nato alla Federazione jugoslava, mentre il PDCI minacciò la crisi in caso di mancata cessazione dei bombardamenti sulle città, l’UDR reclamò un impegno del governo più intenso a sostegno dell’alleanza atlantica, cosicché fu necessaria l’approvazione di una faticosa risoluzione parlamentare di compromesso per evitare la rottura della coalizione di maggioranza. Infine, nel novembre 1998 il ministro Amato minacciò le dimissioni, accusando il presidente del consiglio di avere imposto la stasi del processo di riforme istituzionali. A fronte di questi episodi assai «tradizionali», nei quali il presidente del consiglio ha avuto un ruolo non più significativo dei suoi predecessori fino al 1992, in altre circostanze il suo essere insieme leader del partito e presidente del consiglio ha consentito di esercitare un ruolo significativo in circostanze di crisi politica. Nel gennaio 1999, dopo che il coordinamento dell’ulivo decideva il rilancio della coalizione, si determinò una pre-crisi per la dissociazione dell’UDR e una crisi interna allo stesso (con Cossiga dimissionario dal partito). Tale situazione conflittuale fu risolta dal presidente del consiglio (anche qui in discontinuità con il passato) in un vertice con i ministri dell’UDR. Ancora più significativamente, il presidente del consiglio riceveva dalla maggioranza il compito di «sondare» il centro destra sulla candidatura di Ciampi alla presidenza della repubblica, con l’intesa di addivenire all’ele-

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zione di Rosa Russo Jervolino in caso di mancata convergenza sul nome del ministro del tesoro. Successivamente, però, D’Alema fu accusato dal PPI di slealtà per non aver sostenuto un proprio candidato alla presidenza della Repubblica. Dopo l’elezione di Ciampi al Quirinale e le elezioni europee (aventi un esito non negativo per il centro sinistra), le polemiche tra i partiti della maggioranza, vecchi (si pensi alle già citate polemiche tra i DS ed il PPI, insofferente del ruolo «egemonico» del partito di maggioranza) e nuovi (si pensi al successo elettorale della lista dei «democratici» promossa da Prodi che in nome dell’«ulivismo» polemizza a più riprese con i DS ed il PPI, accusati, entrambi, di aver tramato per la crisi del I governo Prodi), determinarono un dibattito anch’esso «da un sapore antico», con alcuni partiti (Democratici, SDI, UDEUR) favorevoli ad un rimpasto, altri (PPI) favorevoli ad un’ampia verifica; il presidente del consiglio riuscì in un primo momento ad evitare entrambi (venne così attuato progressivamente un mini-rimpasto, ma solo derivante da motivazioni non politiche, sia di ministri che di sottosegretari, uno dei quali fu revocato, perché arrestato per turbativa d’asta e concorso esterno in associazione mafiosa). Tuttavia, il presidente del consiglio non riuscì a dominare un quadro politico sempre più conflittuale. Come nel periodo precedente al 1992, la crisi fu «preannunciata» prima dall’UDEUR (dopo l’elezione del DS Olivieri anziché di Pivetti, dell’UDEUR, alla presidenza della commissione d’inchiesta sul Cermis), quindi dal centro laico, riunito nel «trifoglio» (SDI-PRI-UPR, quest’ultimo costituito da Cossiga dopo la sua uscita dall’UDR), i democratici si dissero disponibili ad entrare nel governo, ma con la formazione di un nuovo esecutivo e non con un semplice rimpasto, mentre il CDU di Buttiglione abbandonò la maggioranza dopo le elezioni europee, riavvicinandosi al CCD, anche se il ministro Folloni decideva di non rassegnare le dimissioni. Sullo sfondo vi era poi il dibattito sulla scelta del candidato premier del centro sinistra nelle successive elezioni politiche, con i centristi contrari alla riproposizione di D’Alema. La crisi del I governo D’Alema fu, allora, di fatto, una crisi «partitocratica», come tante ce ne erano state fino al 1992. Il presidente del consiglio in questo contesto non riuscì a «pilotare» i tempi della crisi, posticipati, grazie ad un apposito intervento del capo dello Stato, ai giorni immediatamente successivi all’approvazione dei documenti di bilancio. In questo contesto, D’Alema «contrattava» con le opposizioni un’approvazione in tempi rapidi della manovra, in cambio di un dibattito parlamentare in sostanza sulle dimissioni del governo. La crisi fu decisa dopo una richiesta in questo senso del «trifoglio» a seguito delle comunicazioni del presidente del consiglio e nel pieno dello scandalo sulla «compravendita» dei parlamentari che segnò il culmine delle polemiche sul transfugismo parlamentare che nella XIII legislatura raggiunse livelli assolutamente patologici.

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La crisi si risolse con il reincarico a D’Alema (questa volta pieno, dato il sostegno degli otto partiti del centro sinistra) e con la formazione di un nuovo governo, simile nei criteri di composizione al precedente (in sostanza si adeguò la composizione ai risultati delle elezioni europee). Non fu nominato un vice-presidente del consiglio, per contrasti sull’attribuzione tra i democratici ed il PPI. La crisi fu risolta in quattro giorni e fu quindi la più breve nella storia della Repubblica, anche se essa non risolse, a detta dei commentatori nessuno dei problemi che l’avevano determinata, e tra questi: a) la diffidenza del «trifoglio» che concesse solo l’astensione, criticando su punti qualificanti il presidente del consiglio anche nel dibattito sulla fiducia al governo; b) l’ipoteca della premiership del centro sinistra per le elezioni del 2001; c) le divisioni interne alla maggioranza sulle prospettive di riforma elettorale e d) circa i rapporti tra politica e magistratura; in particolare, fu oggetto di polemiche la proposta di istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta su «Tangentopoli». I DS si dissero contrari a questa proposta ma D’Alema, in sede di dichiarazioni programmatiche, sembrò più possibilista, a patto che la commissione fosse composta di esponenti politici di alto profilo politico ed istituzionale. Come nel periodo precedente al 1992, le cause e gli esiti della crisi apparvero poco chiari alla maggior parte dell’opinione pubblica: la vicenda quindi riproponeva in termini parzialmente nuovi quelle situazioni nelle quali in passato si era posta, con esiti diversi, l’alternativa tra l’apertura formale della crisi ed un rimpasto nella compagine governativa. Ma le incertezze del quadro politico, amplificate dalla destrutturazione del sistema politico, si trascinarono anche nel periodo immediatamente successivo alla concessione della fiducia e minarono la solidità di un governo destinato ad una vita assai breve, anche per la ristretta maggioranza alla camera e le sue profonde divisioni. La rapidità nella soluzione della crisi, caratteristica costante, come si è detto, delle crisi di governo in questo periodo, nel caso del passaggio dal primo al secondo governo D’Alema andò a scapito dell’oculatezza quanto alla nomina ed alla distribuzione dei ben 66 sottosegretari di Stato. Sul primo punto, alcuni degli esclusi dell’UDEUR (Manzione, capogruppo alla camera, Angeloni, Acierno) assunsero atteggiamenti polemici, con il primo che si dimise dalla carica, il secondo che lasciò il gruppo ed il terzo che, non votando la fiducia al governo, fu espulso dal partito; Pinza, esponente del PPI, nominato sottosegretario al tesoro, non si presentò al giuramento, protestando per non essere stato «promosso» ministro; Misserville, nominato sottosegretario alla difesa in quota UDEUR, ma proveniente dalle fila di AN, si dimise, su richiesta del presidente del consiglio, dopo aver confermato in un’intervista di essere uomo di destra e di ritenere di destra la politica di D’Alema, paragonato addirittura a Giorgio Almirante, segretario del MSI.

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La vicenda Misserville è paradigmatica dell’instabilità del sistema partitico e della confusione politica dominante in quel momento. Dopo i casi Misserville e Pinza, venne deciso un subitaneo «rimpasto» dei sottosegretari (vicenda, questa, inedita nella storia repubblicana), data la fretta e l’approssimazione con la quale si era addivenuti alla scelta; in ogni caso, i due dimissionari non furono sostituiti, facendo quindi scendere di due unità la pattuglia dei sottosegretari. La breve vita del governo fu scandita, oltre che da polemiche tra i ministri puntualmente esternate alla stampa, anche da vicende indubbiamente paradossali: così, il capo dello Stato fu costretto a intervenire direttamente sull’arma dei carabinieri dopo che l’organismo di rappresentanza (Cocer) diffuse un documento assai critico con le istituzioni e i partiti all’indomani dell’approvazione da parte della camera di una legge di riforma dell’arma stessa. Tale vicenda, che ricordava alcuni precedenti della presidenza Pertini, si concluse con la convocazione al Quirinale dei ministri dell’interno e della difesa, del capo della polizia e del comandante generale dell’arma dei carabinieri. In questo contesto, il tentativo del presidente del consiglio di rilanciare la propria premiership (secondo alcuni, di colmare la propria carenza di legittimazione), impegnandosi a fondo nella campagna elettorale per le elezioni regionali, fallì dato l’insuccesso della coalizione di centro sinistra. Come già avvenuto in passato, l’esito delle elezioni amministrative fu la causa scatenante della crisi di governo, decisa dopo un vertice di maggioranza. In forza della convenzione costituzionale ormai in atto, le dimissioni del governo, non conseguenti, come in questo caso, ad una votazione fiduciaria, furono respinte dal capo dello Stato, che invitò il presidente del consiglio a recarsi in parlamento per un dibattito sulla situazione politica. Ancora una volta, il ruolo del capo dello Stato (sostenuto anche dal presidente del consiglio dimissionario e da una parte rilevante ma non unanime della coalizione) risultò determinante per escludere lo scioglimento delle camere, data l’esigenza di garantire lo svolgimento di nuovi referendum in materia elettorale, già ammessi dalla corte costituzionale, con ciò superando l’orientamento di una parte dei DS favorevole ad una conclusione anticipata della legislatura per evitare il logoramento. Aperta la crisi, si profilavano più prospettive diverse, anche in questo caso in analogia con quanto avveniva prima del 1992: tra queste, un governo istituzionale o un governo di rilancio della coalizione di centro sinistra o, infine, un esecutivo di tregua. La scelta di Amato non si inscriveva in realtà in nessuna di queste prospettive e probabilmente si spiega solo per il veto opposto da alcuni partiti del centro sinistra al presidente del consiglio dimissionario: il II governo Amato, infatti, era un tipico esecutivo di fine legislatura, che si differenziava dal II governo D’Alema essenzialmente per una premiership politicamente più debole, per di più contestata dai centristi (favorevoli all’incarico al

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governatore della Banca d’Italia, Fazio e poi ad un cattolico quale candidato premier per le elezioni politiche del 2001), dal neonato movimento fondato da Di Pietro (in polemica con il passato socialista del presidente del consiglio) e dalla sinistra dei DS (che consideravano Amato troppo liberal). Furono quindi necessari ben due vertici di maggioranza per la scelta del nuovo presidente del consiglio. Nonostante l’espresso invito del capo dello stato alla costituzione di un governo più snello, la frammentazione della maggioranza portò ad una diminuzione dei ministri di una sola unità, i ministri tecnici rimasero sostanzialmente due (uscirono De Castro e Balbo ed entrarono i proff. Veronesi e De Mauro), i sottosegretari passavano da 64 a 55. La scelta dei ministri fu ovviamente assai sofferta (Amato ammise di aver usato «un po’ di art. 92 Cost.»): il presidente del consiglio dovette ringraziare lo Sdi per aver rinunciato ad un ministero in favore di un tecnico ad esso vicino (Veronesi), ma il PRI minacciò il disimpegno per non avere ottenuto un portafoglio ed i verdi arrivarono a prefigurare l’uscita dal governo dopo la rinuncia di Ronchi a divenire ministro senza portafoglio per il coordinamento delle politiche comunitarie, lasciando a Bordon, esponente dei democratici, il ministero dell’ambiente. La crisi immediata fu scongiurata solo dopo la richiesta da parte dei verdi di una verifica sulle politiche ambientali (richiesta curiosa, essendo all’inizio della vita del governo): in tal modo, il verde Mattioli poté assumere l’incarico rifiutato da Ronchi. Eppure, da un punto di vista numerico il nuovo governo usufruì di qualche apporto in più in parlamento (alla camera votarono a favore il PRI, il pattista Bicocchi, mentre si astennero gli autonomisti per l’Europa, movimento nato da una scissione della lega nord), nonostante lo «sfarinamento» della maggioranza (composta ormai da ben nove formazioni) e del sistema politico più in generale. Peraltro, la vita del II governo Amato non fu diversa da quella dell’esecutivo precedente, risentendo pesantemente delle tensioni interne al centro sinistra derivanti dall’individuazione della leadership in vista delle elezioni del 2001: così, nel settembre 2000 il presidente del consiglio dichiarò in un’intervista televisiva la sua rinuncia alla candidatura alla premiership del centro sinistra per le elezioni del 2001 in favore di Rutelli, chiedendo però in cambio che la coalizione si riconoscesse pienamente nel governo in carica. In effetti, il governo si era trovato più volte in difficoltà in parlamento e lo stesso presidente del consiglio era stato criticato più volte sia dal centro cattolico che dalla sinistra radicale, mentre non erano mancati conflitti aspri tra i ministri (così, il ministro Veronesi fu criticato dai DS e dal PPI per aver contestato la riforma sanitaria voluta dal governo precedente e poi si trovò in polemica con il collega Bordon sulla questione degli organismi geneticamente modificati).

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Capitolo Terzo

La forma di governo italiana. Gli organi e le funzioni del governo. Gli articoli 92 e 95 della Costituzione e la loro attuazione. La legge 23 agosto 1988, n. 400 ed il D.P.C.M. 10 novembre 1993 (regolamento del consiglio dei ministri) SOMMARIO: 1. La legge n. 400 del 1988 e la novazione delle fonti sul governo. La legge n. 400 come legge a contenuto costituzionalmente vincolato. – 2. La struttura e le funzioni del governo secondo la legge n. 400: a) la struttura del governo fra Costituzione e legge; b) Segue: le funzioni del governo e quelle proprie dei suoi organi; c) Segue: gli organi e le funzioni del governo in base al nuovo regolamento del consiglio dei ministri del 10 novembre 1993; d) Segue: la politica generale e l’unità di indirizzo politico e amministrativo del governo. Il presidente del consiglio, il consiglio dei ministri e la determinazione ed attuazione dell’indirizzo di governo; e) Segue: l’organizzazione del governo (d.lgs. nn. 300 e 303 del 1999). – 3. La responsabilità dei ministri alla luce della sent. n. 7 del 1996 della corte costituzionale. – 4. Gli organi non necessari del Governo tra legge n. 400 del 1988 e prassi.

1. La legge n. 400 del 1988 e la novazione delle fonti sul governo. La legge n. 400 come legge a contenuto costituzionalmente vincolato La legge n. 400 del 1988 aveva cercato nel corso della X legislatura, come si è detto nel cap. 2, di intervenire sul processo storico che aveva determinato la forma di governo italiana rafforzando il principio di maggioranza. Le soluzioni contenute nella legge erano tuttavia parziali e intervennero, comunque, troppo tardi per salvare un sistema politico-istituzionale ormai troppo compromesso. Rimane comunque il fatto che la legge n. 400 costituisce ancora oggi un punto di riferimento imprescindibile, in quanto prima legge relativa alla struttura e delle funzioni del governo. A proposito di questa legge deve essere risolto, però, un problema preliminare: quello relativo alla collocazione di questa legge nel sistema delle fonti.

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La legge, infatti, sembra rispondere ad una duplice finalità. Da un lato, essa si presenta come attuativa della riserva di legge contenuta nell’ultimo comma dell’art. 95 Cost., il quale dispone che debba essere la legge a provvedere all’ordinamento della presidenza del consiglio dei ministri ed a determinare il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei ministeri. Da questo punto di vista, la riserva di legge in esame si inserisce, risolvendolo drasticamente a favore del parlamento, in quel dibattito, ricordato nel primo capitolo, che aveva a lungo oscillato fra la competenza governativa e quella parlamentare nella materia riguardante l’ordinamento dei ministeri. In altri termini, la parte della legge n. 400 che regola, nel suo capo IV, la «organizzazione amministrativa della presidenza del consiglio dei ministri e il riordino di talune funzioni», si presenta come una comune legge ordinaria sull’ordinamento amministrativo ed ha, quindi, la forza ed il valore proprio di tutte le leggi che intervengono in questa materia. Per un verso, infatti, essa modifica le norme primarie e quelle regolamentari preesistenti; dall’altro essa appare pienamente modificabile, fino al limite dell’abrogazione, da leggi ordinarie successive (e ciò è avvenuto, in primo luogo, con il d.lgs. n. 303 del 1999); di più: essa appare soggetta ad abrogazione attraverso il referendum. In un’altra sua parte, tuttavia, la legge n. 400 sembra avere un valore diverso. I capitoli che regolano gli organi del governo (capo I) e la potestà normativa del governo (capo III), intervengono in materie che sono regolate dalla Costituzione (artt. 76 e 77 e artt. 92-95) in maniera, è vero, generale, ma tuttavia in modo sufficientemente preciso da risultare direttamente operativo (se si preferisce, direttamente applicabile) anche senza la necessità di una legge ordinaria. Infatti, fino all’emanazione della legge n. 400, gran parte delle materie sopra indicate risultavano prive di «copertura» legislativa. In tema di attività normativa del governo, ad esempio, vigevano, per quanto compatibili con la Costituzione, alcune parti della legge n. 100 del 1926, accompagnate da alcune disposizioni dei regolamenti parlamentari. In tema di organi del governo e di esercizio della funzione di governo vigevano alcune parti del decreto Zanardelli. Tutto questo era accompagnato da un ruolo quasi preponderante della consuetudine e delle convenzioni costituzionali (cfr., sul punto, L. PALADIN, Governo italiano, in Enc. dir., XIX, Milano, Giuffrè, 1970, pp. 678 ss.). L’emanazione di una legge ordinaria in queste materie ha assunto, dunque, un significato giuridico diverso dall’adozione di leggi in materie anche molto vicine a quelle sopra considerate, come, ad esempio quelle «ministeriali» indicate nell’ultimo comma dell’art. 95 Cost. La struttura dell’esecutivo, le attribuzioni dei rispettivi organi, la potestà normativa del governo costituiscono materie nelle quali la legge ordinaria non può che porre principi direttamente attuativi della Costituzione. Si può dire, dunque, che su questi oggetti il legislatore può anche decidere di non interve-

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nire, lasciando il campo del tutto libero alla diretta regolamentazione della Costituzione. Se il legislatore decide di intervenire, egli non può, però, che attuare direttamente e letteralmente i precetti costituzionali. La legge ordinaria della quale stiamo parlando apparterrebbe, dunque, a quella categoria di leggi «a contenuto costituzionalmente vincolato» che è stata riconosciuta dalla corte costituzionale nella sent. n. 16 del 1978 (cfr. G. ZAGREBELSKY, Relazione, in Il dettato costituzionale in tema di referendum, Roma, 1978, e P. CARNEVALE, Il referendum abrogativo, cit., pp. 141 ss.). In base alla citata dottrina, le disposizioni della legge ordinaria formerebbero, in questi casi, un corpo unico con le disposizioni costituzionali. Più difficile è dire quali siano le conseguenze pratiche dell’inserimento della legge n. 400 nella categoria delle leggi ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato. Anzitutto, ed in base alla ricordata sentenza della corte costituzionale, essa sarebbe sottratta a referendum abrogativo. In conseguenza, non soltanto essa non potrebbe essere abrogata del tutto, ma non potrebbe essere chiesta l’abrogazione nemmeno di quelle parti della legge che si presentano come attuative di norme costituzionali. Non molto diverso si presenta, d’altra parte, il problema dell’abrogazione della legge n. 400 da parte del parlamento. Dopo l’entrata in vigore della legge, sembra, infatti, impossibile il ritorno a quella situazione di frammentazione normativa che caratterizzava questa materia fino al 1988. Si pensi, ad esempio, al ruolo integrativo, sopra richiamato, della consuetudine costituzionale. La legge n. 400 ha in parte recepito alcune delle consuetudini vigenti, mentre altre le ha modificate (ad es. in tema di questione di fiducia). Si è assistito, insomma, ad un processo di novazione delle fonti che non consentirebbe un «ritorno all’indietro» attraverso la creazione di vuoti, nemmeno da parte del legislatore. Il parlamento, dunque, potrà sempre intervenire in futuro sulle materie investite dalla nuova legge per modificare la normativa. Ridotto, però, sembra lo spazio di intervento del legislatore per quelle parti della legge che attuano direttamente la Costituzione, mentre, correlativamente, più ampia è la possibilità di modifica per quelle parti (ad es. quelle riguardanti gli uffici della presidenza del consiglio) nelle quali non si pone nessun problema di attuazione costituzionale. La «capacità condizionatrice della legislazione successiva» della legge n. 400 (G. PITRUZZELLA, Artt. 92-93, cit., p. 122), non sembra poter andare oltre quanto sopra indicato. In particolare, non sembra che l’ampia convergenza parlamentare sulle soluzioni proposte dalla legge o il consenso diffuso dei soggetti politici in sede di approvazione della legge possano assumere, da questo punto di vista, un particolare significato (G. PITRUZZELLA, Artt. 92-93, cit., pp. 120-122). Oltretutto, le vicende politiche e istituzionali che si sono succedute dal 1994 ad oggi hanno introdotto, invece che consensi, forti divaricazioni fra i soggetti politici (partiti) e gli stessi

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organi costituzionali a proposito non soltanto delle modifiche da apportare alla Costituzione, ma anche a proposito dell’interpretazione della Costituzione vigente. Da questo punto di vista, si conferma, allora, una continuità della storia costituzionale italiana, rilevata nelle pagine precedenti: il processo di inevitabile normazione di tutti gli spazi significativi della forma di governo. L’affidare a fonti quali la consuetudine o le convenzioni costituzionali la regolamentazione di problemi quali la struttura o le attribuzioni degli organi costituzionali o i loro rapporti è possibile ed opportuno solo in paesi nei quali il consenso sulle «regole del gioco» è ormai storicamente consolidato. In Italia, invece, il dissenso fra i soggetti politici sembra, da sempre, investire lo stesso modello istituzionale. L’irrigidimento della normazione della forma di governo non soltanto al livello costituzionale ma anche a quello (almeno) della legge ordinaria sembra, allora, l’unica risposta possibile a questa forma di «dissenso diffuso» sulle regole del gioco; sicché, in questo quadro la legge ordinaria assume, prevalentemente, una funzione che è quella della interpretazione politically correct della Costituzione, con il largo spazio all’intervento futuro della corte costituzionale, implicito, però, in questa situazione.

2. La struttura e le funzioni del governo secondo la legge n. 400: a) la struttura del governo fra Costituzione e legge La legge n. 400 introduce alcune innovazioni nella struttura del governo. Tuttavia, e come è ovvio, queste novità riguardano soltanto quegli organi del governo che possono essere considerati «costituzionalmente non necessari», quali i comitati interministeriali, i ministri senza portafoglio, i sottosegretari, i vice-presidenti del consiglio, i commissari del governo. Infatti, per quanto riguarda la struttura del governo secondo la Costituzione, la legge non può far altro che ripetere nel suo art. 1 quanto è già affermato dall’art. 92 Cost., e cioè che il governo della Repubblica è composto del presidente del consiglio e dei ministri, che costituiscono insieme il consiglio dei ministri. La formula della legge può apparire, e forse è, banale. Tuttavia, al di là del suo significato letterale, che è quello di ribadire la natura semplicemente attuativa ed interpretativa della Costituzione della legge n. 400, essa apre, in realtà, più problemi di quanti non appaiano a prima vista. Ad esempio, la composizione del consiglio dei ministri, organo costituzionalmente necessario, non è direttamente prevista nella nostra Costituzione. Infatti, al di là della diretta indicazione che proviene dal comma 2 dell’art. 95 Cost., per il quale tutti i ministri aventi responsabilità di un dicastero fanno, perciò, parte del consiglio dei ministri, l’art. 92 non dice se solo questi ministri possano far parte del consiglio dei ministri o se la

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composizione del consiglio possa essere aperta alla partecipazione di altri soggetti. Storicamente, una lunga consuetudine costituzionale, precedente la Costituzione repubblicana, ha legittimato la partecipazione al consiglio di altri soggetti, i ministri senza portafoglio, tradizionalmente qualificati, anzi, come ministri proprio grazie alla loro partecipazione al consiglio ed alla loro, correlativa, assunzione di responsabilità per le sue decisioni collegiali (cfr. in questo senso, ed in relazione al periodo statutario, C. ROMANELLI GRIMALDI, I ministri senza portafoglio nell’ordinamento giuridico italiano, Padova, Cedam, 1984, pp. 17 ss.). A questo proposito, dunque, e come vedremo, la legge n. 400 ha assunto, fra le linee interpretative possibili della composizione dell’organo costituzionale consiglio dei ministri, quella più estensiva, ampliandola anzi, come si dirà, anche in relazione ad altri soggetti. Parallelamente, la legge n. 400 si è dovuta arrestare di fronte all’impossibilità politica e pratica di (ri)determinare, secondo quanto previsto dal comma 3 dell’art. 95 Cost., il numero, le attribuzioni e la organizzazione dei ministeri. In conseguenza, la frammentazione del sistema ministeriale, che ha come primo, diretto, effetto, quella di prevedere un numero di ministri inutilmente elevato, ha causato, e continua a causare anche una conseguente composizione pletorica del consiglio dei ministri. Il che ha portato alla scadente efficienza e collegialità dell’organo; difetti ai quali la legge ha dovuto cercare di porre, in altro modo, rimedio, ad esempio moltiplicando le sedi di concertazione preliminare dei ministri stessi. Ci si può chiedere, in altre parole, se, nei limiti della struttura costituzionale del governo che sono stabiliti dagli artt. 92 e 95 della Costituzione, una legge ordinaria non avrebbe potuto agire più in profondità anche sulle modalità di funzionamento del governo, se fosse stato possibile realizzare in primo luogo quella riforma dei ministeri che non è stato, invece, possibile affrontare organicamente nel 1988, come invece prescriverebbe l’ultimo comma dell’art. 95 Cost. Si pensi, a questo proposito, alle possibilità che sarebbero aperte dalla ristrutturazione, a Costituzione invariata, del consiglio dei ministri, prevedendo la partecipazione ad esso di un numero di ministri più ristretto (e, quindi, ben più qualificato) di quello attuale. I vantaggi di questa soluzione sono evidenti: la collegialità del governo sarebbe più facilmente raggiungibile; più credibili risulterebbero gli sforzi volti a separare l’indirizzo politico dalla amministrazione (tendenza che è recepita, solo come generale principio, a partire dal d.lgs. n. 29 del 1993); più semplice sarebbe la promozione ed il coordinamento dei ministri da parte del presidente del consiglio. È evidente, tuttavia, che la riforma organica dei ministeri coincide, nei fatti, con la riforma della pubblica amministrazione; dello Stato, intesa come apparato, da questo punto di vista, dunque, con l’attuazione, ma forse anche con la revisione dell’art. 97 Cost. (cfr. S. CASSESE, Perché una Costituzione deve contenere norme sulle pubbliche amministrazioni e quali

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debbono essere queste norme, in S. CASSESE, A.G. ARABIA, L’Amministrazione e la Costituzione, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 20). Non ci si può, allora, che rammaricare del fatto che nel nostro paese la coscienza politica e culturale della necessità di una radicale riforma della pubblica amministrazione si stia manifestando con tanto ritardo. Per quanto riguarda la legge n. 400, sarebbe, tuttavia, ingeneroso, ed anche ingenuo, pensare che la riforma della disciplina dell’attività di governo e la realizzazione, dopo una attesa più che quarantennale, della presidenza del consiglio dei ministri avrebbero potuto coincidere con la riforma della pubblica amministrazione. Deve, però, essere sottolineato il fatto che questa mancata riforma ha costretto ad inserire nella legge n. 400 (e, come vedremo, nel regolamento del consiglio dei ministri) un’infinità di istituti di coordinamento politico ed amministrativo dell’attività dei ministri che risultano di dubbia efficacia, stante la strutturale frammentazione e, spesso, la contraddittorietà, degli interessi amministrativi rappresentati politicamente da ciascun ministro. Infine, è del tutto ovvio che la legge non pretenda di risolvere formalmente un problema posto (anch’esso) dall’art. 92 Cost. Questo articolo definisce la struttura del governo costituzionalizzando (al pari dell’art. 95 Cost.) il principio collegiale, quello monocratico e quello della responsabilità dei singoli ministri. Nelle pagine precedenti si è cercato di dimostrare che, se questi tre principi fanno tutti parte della tradizione costituzionale italiana, essi non sono mai riusciti a coesistere armonizzandosi, cosicché ci sono stati periodi nei quali si è registrata la prevalenza del ministerialismo, altri nei quali ha prevalso la direzione del primo ministro o (più raramente) la collegialità. Di fronte alla discutibile scelta della nostra Costituzione di non operare una scelta fra i tre principi sopra indicati, la legge n. 400 ha cercato, come vedremo, di operare nei fatti una correzione della troppo compromissoria impostazione costituzionale, per favorire il principio della collegialità e della direzione del primo ministro a spese del «ministerialismo», inteso come «direzione plurima dissociata» della politica del governo da parte dei singoli ministri. b) Segue: le funzioni del governo e quelle proprie dei suoi organi La scelta compiuta dalla legge n. 400 a favore di un modello organizzativo del governo fondato su un principio di collegialità equiordinato rispetto ad un concorrente principio di direzione del presidente del consiglio deve essere, anzitutto, esaminata rispetto ai principi che la Costituzione pone in materia di governo. Dire, infatti, come abbiamo detto, che i costituenti cercarono di risolvere le contrapposizioni dei partiti sul governo allineando i tre principi organizzativi di questo organo costituzionale che si erano affermati in

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epoche differenti nella nostra storia, non risolve del tutto il problema della struttura del governo secondo la Costituzione vigente. Infatti, se è vero, in base agli artt. 92 e 93 Cost., che è certamente necessaria la presenza nel governo, e nelle sue funzioni, dei singoli ministri, del primo ministro e del consiglio dei ministri, si può, però, concludere che ci si trova in presenza di un organo di tipo complesso, solo se si ritiene, secondo la tradizione, che il principio della collegialità, quello della direzione monocratica e quello della individuale responsabilità politica dei ministri siano stati tutti «costituzionalizzati» senza essere disposti in un ordine, se non gerarchico, almeno funzionale. Al contrario, si può ritenere che la natura del governo non corrisponda a quella dell’organo complesso, qualora si pensi che i tre principi organizzativi non siano posti dalla Costituzione su un piano di parità, in quanto qualcuno di questi ha caratteri tali da «ordinare» gli altri rispetto ad una finalità superiore. Conclusione, quest’ultima, che è propria di chi ritiene che il governo (meglio, la funzione del governare) si identifichi con il principio collegiale oppure con quello della direzione monocratica del presidente del consiglio. Da questo punto di vista, due sono le principali tesi che si sono fronteggiate dopo l’entrata in vigore della carta costituzionale. La prima di queste si ricollega al contributo dato direttamente da Costantino Mortati alla formazione nell’Assemblea costituente degli artt. 92 e 95 Cost. In sostanza, secondo il pensiero di Mortati, se l’organo governo è da qualificare, secondo la tradizione, come organo complesso, formato da tre distinte categorie di organi, non per questo si deve concludere che la Costituzione pone sullo stesso piano i tre tradizionali principi organizzativi del governo. L’analisi degli artt. 92 e 95 Cost. porterebbe, invece, a ritenere che la struttura costituzionale del governo (quindi, i rapporti fra i suoi diversi organi) si fondi sulla affermazione di un principio di «supremazia» o di «preminenza» del presidente del consiglio che è tipico di tutte le forme di governo parlamentari contemporanee. Il rilievo autonomo degli indirizzi politici propri del primo ministro, che è rintracciabile nell’art. 92 Cost., l’attribuzione a questi, da parte dell’art. 95 Cost., di un potere di direzione della politica generale governativa provano, secondo questa tesi, che la Costituzione ha voluto, in realtà, sovraordinare, rispetto agli altri, il principio monocratico al fine di conseguire una condizione fondamentale di esistenza del governo parlamentare, ovvero l’omogeneità politica del gabinetto. In relazione a questa impostazione, la stessa dottrina ritiene, coerentemente, che spettino al presidente del consiglio veri e propri poteri di direzione che egli può usare in rapporto agli altri organi di governo: dalla revoca dei ministri alle direttive, fino alla determinazione delle modalità di votazione del consiglio dei ministri (cfr., su questi punti, C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, Cedam, 1969, pp. 521-525; nello stesso senso, A. PREDIERI, Lineamenti, cit., passim; G. RIZZA, Il presidente del consiglio dei ministri, Napoli, Jovene, 1970, part. pp. 105 ss.).

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Da parte di altri, non si è tanto contestato il fondamento costituzionale di queste conclusioni, quanto il fatto che esse apparivano, ormai, in contrasto con un’esperienza italiana basata sulla formula del governo di coalizione (anzi, su una variante di questa, quella della coalizione pluripartitica e pluricorrentizia) che aveva finito per porre il primo ministro in rapporto non con i ministri e con il consiglio dei ministri, ma con i partiti politici. Il principio di supremazia e di direzione dovevano, perciò, essere più modestamente e faticosamente sostituiti dall’attivazione di poteri di coordinamento dei ministri, tendenti, sostanzialmente, «a far prevalere il principio collegiale» rispetto alle tendenze centrifughe del ministerialismo (cfr. L. ELIA, Primo ministro, in Nmo dig. it., XIII, Torino, Utet, 1966, p. 868; L. PALADIN, Governo italiano, cit., p. 706, cui si riferisce la citazione). La presenza di un ordinamento di fatto diverso (ma, in realtà, in contrasto) con l’ordinamento di diritto spiega perché una parte dei costituzionalisti abbia cercato di risolvere il problema della struttura del governo affermando la prevalenza del principio della collegialità sugli altri due principi ordinatori del potere esecutivo. Se i ministri vengono considerati portatori di un indirizzo politico che è quello dei partiti al quale essi appartengono e se questo indirizzo si deve comporre con l’indirizzo degli altri partiti della coalizione, la collegialità del consiglio dei ministri può apparire principio ordinatore del governo più efficace degli altri per raggiungere il fine dell’omogeneità e dell’unità politica del ministero. In questa prospettiva, è stato detto che «la complessità dell’organo governo trova proprio nell’articolazione del consiglio dei ministri il suo momento più significativo», anche perché i ministri, «diretti» dal primo ministro al di fuori del consiglio, hanno nel collegio un peso uguale a quello del primo ministro (G. FERRARA, Il governo di coalizione, cit., pp. 157-158). La preminenza del principio collegiale è stata anche sostenuta in relazione alla deliberazione dell’indirizzo politico del governo, sia per ciò che riguarda la sua adozione mediante il programma (M. GALIZIA, Studi, cit., pp. 427 ss.), sia in relazione al più generale rapporto fiduciario con le camere (F. CUOCOLO, Consiglio dei ministri, in Enc. dir., IX, Milano, Giuffrè, 1961, pp. 242 ss.). Più radicalmente, infine, è stato detto che l’organo costituzionale governo si identifica, secondo la Costituzione, con il consiglio dei ministri, in quanto l’art. 92 Cost. deve essere letto: «Il governo, composto dal presidente del consiglio e dai ministri, è costituito dal consiglio dei ministri» (A. RUGGERI, Il consiglio dei ministri nella Costituzione italiana, Milano, Giuffrè, 1981, p. 66). Il rilievo del primo ministro nella direzione della politica generale del governo avrebbe dunque, per questa teoria, la sola conseguenza di costituire il consiglio dei ministri, per quanto riguarda la sua struttura interna, come un organo complesso formato dal presidente del consiglio e dal collegio dei singoli ministri. Al solo consiglio dei ministri spetterebbe decidere, perciò, su tutte le funzioni di governo costituzionalmente rilevanti.

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La conseguenza ultima di questa tesi finiva per essere, dunque, la cancellazione del rilievo costituzionale degli altri organi del governo (presidente del consiglio e ministri), ai quali, come singoli, non potevano essere riconosciute attribuzioni, e, in conseguenza, responsabilità costituzionali. La teoria della supremazia del primo ministro e quella della supremazia del consiglio dei ministri sembrano, in realtà, entrambe parziali, sia che esse vengano proposte nella loro formulazione più estrema, sia che di esse venga data una interpretazione meno radicale. Non a caso, queste tesi sembrano essere divenute minoritarie negli ultimi anni, a favore di letture più articolate della intera normativa costituzionale sul governo. Sembra, però, ed anzitutto, da escludere che posizioni di supremazia dell’uno o dell’altro organo del governo possano essere affermate o negate in base a considerazioni riguardanti quell’«ordinamento di fatto» (fondato sul multipartitismo estremo, sul governo di coalizione o su un preteso rilievo istituzionale dei partiti) che ha portato a sostenere, ad esempio, che la struttura del governo sarebbe fondata su una «multipolarità diseguale», in quanto il primo ministro ed i ministri «capi delegazione» si fronteggerebbero alla pari (sopra gli altri ministri), perché investiti di poteri di indirizzo politico da parte dei rispettivi partiti (cfr. L. VENTURA, Il governo, cit., passim). È vero, infatti, che le norme della Costituzione non possono essere interpretate che sistematicamente, in base alla prassi ed anche in rapporto ad elementi «metagiuridici» propri del sistema politico (cfr., in questo senso, da ultimo, G. PITRUZZELLA, Artt. 92-93, cit., pp. 22-23), ma deve essere tenuto fermo, tuttavia, che il limite di ogni interpretazione della Costituzione non può non essere rappresentato dai principi fondamentali, anche normativi, che presiedono sia alla forma di Stato che a quella di governo. Alcune delle interpretazioni sopra ricordate e, fra queste, segnatamente quelle che hanno posto al centro dell’interpretazione il ruolo dei partiti, hanno, invece, finito per giustificare l’assorbimento nei partiti di tutta la funzione di indirizzo politico che si collega direttamente alla sovranità popolare e che si esprime invece (secondo Costituzione) in modo volutamente articolato, nel corpo elettorale, nel parlamento, nei diversi organi del governo. In tal modo, non soltanto i partiti sono divenuti istituzioni, ma hanno finito per annullare, con la distinzione, anche la interna dialettica fra gli organi costituzionali politici. Il mantenimento di una non formale alterità fra questi organi costituisce, invece, un fondamentale principio di garanzia politica. Dopo la storica affermazione della funzione di indirizzo politico (che, come è noto, unifica due fra i tre poteri dello Stato) il mantenimento di una reale distinzione fra quegli organi dello Stato che sono dotati del requisito della politicità appare paragonabile, per importanza, alla funzione garantista che era attribuita negli ordinamenti antichi al principio della divisione dei poteri. Se l’essenzialità di questo principio appare intuitiva per ciò che riguarda il rapporto fra cor-

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po elettorale e parlamento (cosicché questo sembra essere il significato contemporaneo del divieto del mandato imperativo di cui all’art. 67 Cost.) e quello fra parlamento e governo (ed, a questo proposito, non si può che rinviare alle già citate pagine di Bagehot a proposito della differenza fra la fusion fra i due organi ed la absorption dell’uno nell’altro), c’è da chiedersi se la distinzione costituzionale fra gli organi del governo non assolva anch’essa ad una funzione di garanzia sostanzialmente assimilabile a quelle sopra richiamate. In questo caso, come è evidente, si dimostrerebbero in contrasto con la Costituzione non solo quelle tesi che semplificano drasticamente la struttura del governo in nome della ragion politica, ma anche quelle che dalla preminenza di un organo del governo fanno derivare la cancellazione dell’autonomo ruolo costituzionale degli altri. Da questo punto di vista, conviene chiederci quali garanzie possono derivare da quelle interpretazioni dell’art. 92 Cost. che salvano la tradizionale articolazione dell’organo governo. Fra queste interpretazioni, una delle più note (cfr. E. CHELI, V. SPAZIANTE, Il consiglio dei ministri e la sua presidenza, dal disegno alla prassi, in a cura di S. RISTUCCIA, L’istituzione governo: analisi e prospettive, Milano, Giuffrè, 1977, pp. 44 ss.) propone una lettura di tipo procedimentale delle attribuzioni costituzionali degli organi del governo. Al presidente del consiglio spetterebbe, infatti, il potere di gestire la fase di predisposizione dell’indirizzo politico del governo e, poi, quella di coordinamento delle attività ministeriali dirette all’attuazione della politica generale governativa; al consiglio dei ministri il potere di deliberare nella «fase centrale» di determinazione della politica generale del governo; ai singoli ministri il potere di attuare la politica generale nei singoli settori della P.A. Il pregio di questa ricostruzione risiede nel fatto che l’articolazione procedimentale della funzione costituzionale di governo consente di dare un autonomo rilievo alle diverse attività che la compongono. La spettanza al primo ministro dell’iniziativa politica non esaurisce, ad esempio, il suo autonomo rilievo costituzionale nella prima fase del procedimento di governo, ma diviene la condizione per l’adozione delle deliberazioni consiliari nella fase centrale. Dunque, se anche in base a questa tesi, il presidente del consiglio deve essere considerato come «un organo individuale che concorre a formare l’organo collegiale di governo», il potere di deliberazione, proprio del consiglio, appare, qui, però, bilanciato da un pari potere costituzionale (quello del presidente del consiglio) che ne condiziona lo svolgimento e le conclusioni. Similmente, se rimane il rilievo costituzionale dell’attività dei ministri (e, quindi, la loro responsabilità, secondo il comma 2 dell’art. 95 Cost.), questa è indirizzata nel merito dal contenuto della politica generale del governo, decisa in consiglio e, poi, costantemente interpretata dal presidente del consiglio. Il merito di questa ricostruzione della struttura del governo e della distribuzione delle funzioni fra i suoi organi è, dunque, quello di rispondere

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anche alle fondamentali esigenze di garanzia che la Costituzione richiede in relazione all’esercizio dei poteri di governo. Altamente significativo, anzitutto, appare il fatto che l’art. 95 Cost. stabilisca tre diversi, e distinti, gradi di responsabilità a carico di ciascuno dei tre organi del governo: il presidente del consiglio (per la direzione della politica generale), il consiglio dei ministri (per gli atti deliberati nel collegio), i singoli ministri (per gli atti dei loro dicasteri). Da questo punto di vista, le tesi che forzosamente riducono la complessità del governo rendono, invece, più difficile, se non impossibile, l’esercizio dell’azione di responsabilità politica nei confronti dei singoli organi del governo e del governo nel suo complesso. Infatti, se è vero che normalmente il principio di unità e di omogeneità del governo fa sì che la responsabilità politica del governo sia necessariamente solidale, è anche evidente che l’attivazione dei procedimenti di responsabilità politica è resa più difficile, se si ritiene che tutti gli atti del presidente del consiglio aventi un valore politico generale debbano necessariamente trovare base in una decisione consiliare (così, A. RUGGERI, Il consiglio dei ministri, cit., p. 74). Si pensi, ad esempio, a quegli atti, di grande rilievo e delicatezza, che sono propri del primo ministro in quanto presidente del comitato interministeriale per le informazioni e la sicurezza (CIS) e responsabile personale dell’intero settore delle informazioni e del segreto di Stato (cfr. legge n. 801 del 1977, ora legge n. 124 del 2007). In questo caso, la legge ha correttamente «personalizzato» nel presidente del consiglio il responsabile degli atti in quanto egli dirige la politica generale del governo (cfr. corte cost., sentt. n. 86 del 1877; n. 106 del 2009). L’art. 1 della legge n. 124 del 2007 afferma infatti che al presidente del consiglio sono attribuiti, in via esclusiva, tra l’altro: a) l’alta direzione e la responsabilità generale della politica dell’informazione per la sicurezza, nell’interesse e per la difesa della Repubblica e delle istituzioni democratiche poste dalla Costituzione a suo fondamento; b) l’apposizione, la tutela e la conferma dell’opposizione del segreto di Stato; c) la determinazione dell’ammontare annuo delle risorse finanziarie per i servizi di informazione per la sicurezza e per il dipartimento delle informazioni per la sicurezza (comma 1). Il presidente del consiglio dei ministri provvede inoltre al coordinamento delle politiche dell’informazione per la sicurezza, impartisce le direttive e, sentito il comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica, emana le disposizioni necessarie per l’organizzazione e il funzionamento del sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica (comma 3). Tuttavia, questo non significa che l’attività e le decisioni del primo ministro debbano trovare la loro sede in deliberazioni collegiali. Al contrario, la sua personale responsabilità deriva proprio dall’opportunità di sottrarre certe decisioni (addirittura certe conoscenze) alla sede collegiale o a quella ministeriale (si veda, a questo proposito, l’apposizione del segreto

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di Stato), ritenendole, tuttavia, decisioni che manifestano la politica generale del governo in quanto assunte dal primo ministro. Analogo discorso può essere fatto per quelle controfirme del presidente del consiglio che non seguono, secondo la legge, ad una delibera collegiale, per le nomine che spetta al primo ministro di deliberare. In tutti questi casi, che sono soltanto esemplificativi, l’esistenza di una articolazione del potere all’interno del governo rende più chiara ed evidente l’imputazione della relativa responsabilità, di quella politica, anzitutto, ma anche di quella che è, al tempo stesso, come accade per i reati ministeriali, politica e penale. Di più, soltanto se si ritiene che esista in base alla Costituzione un’articolata attribuzione di competenze ai diversi organi del governo, se ne potrà dedurre l’esistenza di un potere, proprio di ciascun organo, di agire in giudizio per la rivendicazione della relativa competenza in sede di conflitto di attribuzioni. Su questo punto, in un recentissimo passato, la corte costituzionale aveva, è vero, affermato che il potere esecutivo non si presenta, dal punto di vista dell’art. 37 della legge n. 87 del 1953, come un «potere diffuso», ma si risolve nell’intero governo. Dunque, per ciò che riguarda il potere esecutivo, sembrava del tutto coerente con la Costituzione l’art. 2, comma 3, lett. g), della legge n. 400, per la quale deve essere il consiglio dei ministri a deliberare di sollevare il conflitto di attribuzione rispetto ad un altro potere dello Stato (cfr. in questo senso, corte cost., sent. n. 420 del 1995). Più recentemente, tuttavia, la corte costituzionale ha avuto l’occasione di aggiungere alla sua precedente giurisprudenza in materia (e che già aveva ammesso la legittimazione a sollevare conflitti del presidente del consiglio per le attribuzioni sue proprie e del ministro della giustizia per le competenze a lui attribuite dagli artt. 107, 110 Cost.) un’importantissima precisazione, causata dal conflitto sollevato dal ministro della giustizia Mancuso contro la mozione di sfiducia individuale presentata contro di lui al senato dagli stessi gruppi parlamentari di maggioranza ed approvata (per la prima volta nella storia della Repubblica) nella seduta del 19 ottobre 1995. Nella sent. n. 7 del 1996, la corte costituzionale ha, anzitutto, ammesso la legittimazione a sollevare il conflitto di attribuzione da parte del ministro, precisando che, se è vero che la logica del governo parlamentare, «volta a privilegiare l’unità di indirizzo», fa sì che, di norma, l’individualità dei singoli ministri resti assorbita nella collegialità dell’organo di cui essi fanno parte, è anche vero che l’operato del singolo ministro può essere messo in discussione distinguendolo «dalla responsabilità correlata all’azione politica del governo nella sua collegialità, dando luogo, non solo ad una sua specifica legittimazione sul piano del conflitto con le camere, ma comportando anche peculiari implicazioni [...] sul piano della responsabilità individuale».

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Che questa premessa sia strettamente correlata ad una visione dell’organo costituzionale governo più articolata di quella che emergeva dalla sent. n. 420 del 1995 è confermato da quella parte della sent. n. 7 dedicata, appunto, all’analisi della responsabilità individuale dei ministri; responsabilità, che viene, del tutto correttamente, riportata, come aveva d’altro canto suggerito una parte della dottrina, alla lettera dell’art. 95 Cost., secondo il quale, l’indirizzo politico di governo (collegialmente deliberato dal consiglio dei ministri) è, per ciò che riguarda la sua attuazione, assicurato non solo dalla responsabilità solidale del governo, ma anche da quella propria del presidente del consiglio e dalla responsabilità individuale dei ministri come «vertici dei dicasteri». D’altra parte, che la distinzione delle diverse sfere di competenza del governo, stabilite dalla Costituzione, sia funzionale, come si diceva poco sopra, all’esercizio delle azioni di responsabilità politica previste dalla stessa Costituzione, è opinione espressa, anche se implicitamente, dalla corte, secondo la quale la sfiducia del parlamento può investire «a seconda dei casi, il governo nella sua collegialità ovvero il singolo ministro, per la responsabilità politica che deriva dall’esercizio dei poteri spettantigli». Dunque, per ciò che riguarda il problema della struttura del governo, sembra corretto pensare (anche in coerenza con queste ultime affermazioni della corte) che la tradizionale, storica, organizzazione del potere esecutivo attorno ai tre principi della collegialità, della direzione monocratica e della responsabilità ministeriale abbia, oggi, rilievo dal punto di vista costituzionale, perché essa rende più concreta e più penetrante l’azione di responsabilità politica nei confronti del governo. Non si deve dimenticare, infatti, che la Costituzione parla della responsabilità del potere esecutivo distintamente in due articoli diversi. In base all’art. 94 Cost., il governo risulta essere, anzitutto («normalmente», secondo la corte costituzionale) responsabile collegialmente di fronte al parlamento in base ad una iniziativa di sfiducia che è «correlata all’azione politica del governo nella sua collegialità». In base all’art. 95, la collegiale responsabilità dei ministri per gli atti del consiglio dei ministri è integrata dalla diversa e distinta responsabilità del presidente del consiglio (per la sua opera di direzione della politica generale del governo) e dei singoli ministri (per gli atti propri dei loro dicasteri). Il principio monocratico, quello collegiale e quello individuale sembrano previsti, allora, dalla Costituzione a garanzia non tanto dell’efficienza e della efficacia dell’azione del governo (e, infatti, la loro compresenza appare più in contraddizione che in coerenza con quel principio basilare di ogni governo parlamentare che è rappresentato dalla unità e dalla omogeneità del governo) ma a garanzia degli altri organi ai quali sono attribuiti poteri di controllo sull’esecutivo: del parlamento, anzitutto (mozioni di sfiducia); ma anche della corte costituzionale (chiamata a ristabilire l’ordine delle attribuzioni attraverso i conflitti di attribuzione) e del presiden-

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te della Repubblica, chiamato ad esercitare sul governo una pluralità di controlli. Il principio della piena responsabilità politica di tutti gli organi dell’esecutivo per il modo con il quale essi esercitano i poteri loro attribuiti ai diversi livelli dell’azione di governo costituisce, dunque, la ragione della «struttura policentrica» di questo organo costituzionale. Questa conclusione porta, allora, a ridimensionare notevolmente una convinzione che appare diffusa in dottrina: quella della flessibilità, o elasticità, del principio policentrico che, pur prescritto dagli artt. 92 e 95 Cost., sarebbe, però, «suscettibile di attuazioni diverse in dipendenza della variabilità dei rapporti politici» e sulla base di un libero «apprezzamento politico» proprio dello stesso governo (cfr., in questo senso, P. CIARLO, Art. 95, cit., p. 378). Se il policentrismo governativo è disposto dalla Costituzione non a garanzia dell’esecutivo, ma per sanzionare le responsabilità dei suoi organi, è del tutto evidente che la libertà del governo di determinare liberamente i suoi procedimenti decisionali appare sostanzialmente sindacabile in base alla dottrina degli interna corporis, elaborata dalla corte costituzionale in riferimento all’autonomia regolamentare propria del parlamento. I poteri di direzione propri del presidente del consiglio, quelli di decisione propri del consiglio dei ministri, quelli di attuazione propri dei ministri debbono rimanere distinti e separati in misura tale da consentire un sindacato sufficientemente penetrante da parte degli altri organi costituzionali. Si pensi, per esemplificare, al potere di direzione proprio del presidente del consiglio. Nessuna «ragion politica» potrebbe consentire al governo di assorbire nel potere decisionale del consiglio dei ministri poteri quali la convocazione del collegio, la fissazione dell’ordine del giorno, la direzione della discussione, latamente intesa (così da ricomprendervi, ad esempio, la decisione della votazione o il suo rinvio). All’inverso, nessuna formula od accordo di governo potrebbero consentire l’adozione di moduli consensuali fra ministri e presidente del consiglio per ciò che riguarda l’adozione (e, quindi, la responsabilità) di atti di promozione e di coordinamento dell’attività dei primi da parte del secondo (contra, P. CIARLO, Art. 95, cit., p. 380). c) Segue: gli organi e le funzioni del governo in base al nuovo regolamento del consiglio dei ministri del 10 novembre 1993 Il problema della struttura del governo e delle sue funzioni, deve, d’altra parte, essere ormai affrontato anche tenendo presenti le soluzioni proposte dalla legge n. 400 e dal successivo regolamento del consiglio dei ministri. La legge, anzitutto, per il solo fatto di esistere, riduce fortemente la portata di quelle tesi che ritengono che la «flessibilità» dell’art. 95 Cost.

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sia interpretabile in modo sostanzialmente libero dall’esecutivo, cosicché ciascun governo potrebbe modificare i rapporti ed i poteri decisionali dei propri organi in base al proprio giudizio ed alla variabile situazione politica che ha dato vita al governo. La struttura degli organi governativi appare, anzitutto, puntualmente definita da parte della legge non soltanto per quanto riguarda gli organi costituzionalmente necessari (presidente del consiglio; consiglio dei ministri; ministri), rispetto ai quali la legge n. 400 non può far altro che prendere atto delle tassative indicazioni della Costituzione, ma anche rispetto agli «organi non necessari» del governo. Le previsioni riguardanti questi ultimi organi, come vedremo, vanno ben oltre alle leggi ed alle consuetudini precedenti (che restringevano gli organi eventuali del governo ai ministri senza portafoglio, ai sottosegretari, ai comitati interministeriali ed ai commissari straordinari) e danno luogo a perplessità per ciò che riguarda le competenze attribuite ad alcuni di essi (cfr. P. GIOCOLI NACCI, Articolazioni interne del governo. Gli organi non necessari, Torino, Giappichelli, 1995). Malgrado ciò, è evidente l’intento del legislatore di ridurre, anche per ciò che riguarda la struttura interna dell’esecutivo, l’area di discrezionalità del governo nella creazione di organi nuovi, legislativamente non previsti. La restrizione della libertà dell’esecutivo risulta, però, ancora maggiore per ciò che riguarda la distribuzione delle attribuzioni fra gli organi necessari del governo. A questo proposito, la codificazione delle distinte funzioni dei diversi organi governativi appare innovativa, anzitutto, proprio perché è volta, per la maggior parte, a risolvere dubbi interpretativi di vecchie norme (essenzialmente il R.D. n. 466 del 1901) e le difformità dei comportamenti tenuti dai governi succedutisi dal 1948. Tuttavia, prima ancora del contenuto delle norme che riguardano le competenze degli organi dell’esecutivo è importante mettere in rilievo un punto che non appare sempre adeguatamente valutato. La legge n. 400 ha, infatti, regolato per la prima volta, attraverso la normazione primaria, materie (principalmente, struttura e competenze degli organi del governo) che nel passato erano sempre state regolamentate (con l’eccezione del periodo fascista, nel quale si realizzò, però, come ricordato, la sospensione del principio della separazione dei poteri) direttamente dal potere esecutivo con propri decreti. Se è vero che questa operazione è stata facilitata dal fatto che molte delle norme della legge n. 400 si presentano come norme interpretative della Costituzione, rimane l’importanza dell’accettazione da parte del governo dell’esistenza di un potere del parlamento in grado di condizionare le modalità di esercizio dei poteri costituzionali dell’esecutivo. La Costituzione, prevedendo una riserva di legge in materia di ministeri e di ordinamento della presidenza del consiglio dei ministri, non imponeva, infatti, l’esistenza di una legge anche per ciò che riguarda la disciplina dell’attività di governo. La promulgazione della legge n. 400 ha rappresentato, dunque, da questo punto di vista, un risultato che va al di

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là di quell’equilibrio fra potere legislativo e potere esecutivo, strettamente delineato nella Costituzione. Ciò detto, non sembra, però, che la presenza di una legge nella materia dell’attività del governo possa essere interpretata come una lesione delle prerogative costituzionali del potere esecutivo. La regolamentazione legislativa del procedimento di formazione degli atti del governo e della loro esecuzione corrisponde, infatti, ed anzitutto, alla progressiva affermazione del principio di legalità anche nell’attività di governo, considerata, invece, in passato, soggetta quasi essenzialmente al principio della «ragione di Stato» e, più recentemente, a quello della «ragion politica». L’espansione della legalità anche nell’attività costituzionale del governo realizza, dunque, da questo punto di vista, la soggezione del potere esecutivo al principio democratico stabilito dall’art. 1 Cost., ed incontra il solo limite della normazione costituzionale che regola direttamente la struttura e le funzioni degli organi del governo. L’articolazione interna del governo e i suoi procedimenti decisionali dipendono, perciò, ormai dalla legge e non più dalle «libere» decisioni del governo stesso. D’altra parte, la legge n. 400 sembra instaurare per la maggior parte delle decisioni degli organi del governo un procedimento sufficientemente tipico, tale da far assumere agli atti che entrassero in contraddizione con quelle norme un carattere di sicura illegittimità, rilevabile anche in sede giurisdizionale. A conferma di questo processo di «legalizzazione» dell’attività di governo sta anche il fatto che oggi lo stesso art. 4 della legge n. 400 restringe esplicitamente l’area di libertà di auto-organizzazione del governo alle materie che vengono demandate all’area del regolamento interno del consiglio dei ministri. In quest’area organizzativa si può esplicare quella «flessibilità» del governo che è anche legata alla forma di governo effettivamente vigente. Si può pensare, dunque, che il regolamento interno possa risolvere diversamente i problemi dei concerti interministeriali, della informazione intra ed extra governativa, dello stesso seguito parlamentare delle iniziative del governo a seconda degli assetti politici interni del governo e della sua vocazione più o meno collegiale. È importante, però, sottolineare il fatto che l’adozione di un regolamento interno da parte del consiglio dei ministri sembra essere richiesta dalla legge n. 400 per soddisfare alle stesse esigenze di certezza e di legalità (si pensi, ad es. al rilievo dell’informazione sulle deliberazioni del consiglio) che sono state determinanti nel condurre all’approvazione della legge n. 400. Non rientra, perciò, da questo punto di vista nella sfera di libertà dei governi il decidere se dare o meno attuazione a regolamenti già adottati con decreto del presidente del consiglio di un governo precedente. Se ogni governo rimane libero di mutare del tutto o in parte il vigente regolamento interno del consiglio dei ministri, il principio di continuità fra gli organi obbliga, però, i governi a seguire le disposizioni anche regolamentari se queste non siano state esplicitamente abrogate.

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d) Segue: la politica generale e l’unità di indirizzo politico e amministrativo del governo. Il presidente del consiglio, il consiglio dei ministri e la determinazione ed attuazione dell’indirizzo di governo Gran parte dei problemi sul governo, lungamente dibattuti in dottrina e variamente risolti dagli stessi governi nel corso dell’esperienza repubblicana, possono, dunque, trovare oggi soluzione all’interno della legge n. 400, che ha cercato di dare, anzitutto, una sua soluzione al fondamentale dilemma di una struttura di governo orientata in senso monocratico, collegiale o individuale. Da questo punto di vista, le norme più importanti della legge sono ovviamente quelle che riguardano gli atti del governo che sono espressivi della sua funzione di indirizzo politico, essendo evidente che solo attraverso quegli atti si può determinare la politica generale dell’esecutivo. A questo proposito, ci si deve chiedere, anzitutto, se in base alla legge n. 400 si deve identificare il governo con il consiglio dei ministri, ritenendo, in sostanza, che tutte le funzioni che la Costituzione riferisce al «governo» debbano intendersi attribuite al consiglio dei ministri, in quanto la «politica generale del governo» e l’«indirizzo politico generale», nel senso dell’art. 95 Cost., risultano essere competenze esclusive dello stesso consiglio. In realtà, sembra che la legge n. 400 abbia rifiutato, anzitutto, una concezione «assolutista» della stessa collegialità propria del consiglio dei ministri. Si può ritenere, al contrario, che la non nascosta ambizione della legge n. 400, sia stata quella di trasferire l’elaborazione dell’indirizzo e della politica generale del governo dalla sede del consiglio dei ministri (considerata pletorica e, perciò, poco efficiente e politicamente poco rappresentativa) ad altre sedi più qualificate. Il consiglio di gabinetto, in primo luogo, che, collegato dall’art. 6 della legge n. 400 alle funzioni direzionali del primo ministro, avrebbe dovuto, nelle intenzioni del legislatore del 1988, avvicinare la forma di governo italiana a quella del governo di gabinetto. La facoltà data al primo ministro di affiancarsi un charmed circle, formato dai ministri politicamente più rappresentativi della coalizione e di istituire altri comitati di ministri, dotati di competenze preparatorie rispetto alle decisioni del consiglio dei ministri (art. 5, comma 2, lett. h, della legge n. 400), denunciano chiaramente che nelle intenzioni dei promotori della legge il consiglio dei ministri, se doveva, secondo Costituzione, rimanere l’organo di decisione finale del governo, non avrebbe dovuto, però, perdere il tradizionale carattere di organo di elaborazione dell’indirizzo politico governativo, del quale si registrava il trasferimento nelle mani del primo ministro e dei ministri posti a capo delle delegazioni di partito all’interno del governo. Questa parte della legge è apparsa però, già a pochi anni dalla sua promulgazione, non attuale, in quanto legata ad un assetto politico (quello del «pentapartito») e ad un rapporto fra partiti ed istituzioni che sembra

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tramontato con le elezioni del 1994 (infatti dall’XI legislatura nessun governo ha istituito il consiglio di gabinetto o altri comitati di ministri di cui all’art. 5, comma 2, lett. h, legge n. 400 del 1988). Malgrado l’eclisse di quegli organi come il consiglio di gabinetto, che dovevano esprimere la guida partitica (più che politica) delle istituzioni, rimane vero che la collegialità del consiglio dei ministri sembra essere stata ormai profondamente ristrutturata in base all’attuazione che di essa è stata data fra la X e la XII legislatura. Ridotta, come si dirà, l’importanza dei comitati interministeriali (tranne la significativa eccezione del CIPE), le decisioni del consiglio dei ministri sono apparse sempre più preparate e condizionate dall’attività istruttoria di una pluralità di collegi (comitati istituiti dal presidente del consiglio; riunioni preparatorie) che la legge (ed ancor più il regolamento del consiglio dei ministri) hanno previsto allo scopo di potenziare la collegialità del governo nella fase preparatoria delle decisioni. In altri termini, la legge n. 400 sembra aver preso atto, a proposito del problema della collegialità delle decisioni governative, delle critiche diffusamente espresse al formalismo che era divenuto proprio di tale collegialità, caratterizzata da una comune scarsa conoscenza dei provvedimenti da approvare, da decisioni solo simboliche (i c.d. «provvedimenti copertina»), dall’assenza di direzione dei processi decisionali. In questo senso, sembra del tutto da condividere la scelta di fondo compiuta dal legislatore del 1988, che ha fortemente strutturato da un punto di vista procedurale la formazione delle decisioni del governo. La separazione del processo di decisione degli atti governativi in una fase di conoscenza ed elaborazione e in una fase finale di deliberazione, oltre ad essere del tutto legittima dal punto di vista dell’art. 95 Cost., sembra essere, in realtà, una condizione necessaria per addivenire a decisioni del collegio alle quali tutti i ministri siano posti in condizioni di partecipare in modo sostanziale. Se questo è il senso nuovo delle deliberazioni del consiglio dei ministri, rimane da dire se, secondo la legge n. 400, il consiglio dei ministri sia un organo a competenza generale, così da essere titolare, oltre che delle competenze specificamente attribuite ad esso dall’art. 2 della legge, di tutta l’attività degli organi di governo di rilievo politico. In questo caso, come è evidente, la deliberazione del consiglio sarebbe sempre necessaria non solo per l’esercizio di tutte le competenze attribuite al «governo» dalla Costituzione, ma anche per consentire al presidente del consiglio ed ai ministri l’emanazione di atti qualificabili come atti di indirizzo politico generale. In realtà, la legge n. 400 non sembra far propria una simile concezione, sostenuta, come si è detto, in passato da parte della dottrina. È vero che dall’analisi delle attribuzioni del consiglio dei ministri, così come delineate dall’art. 2, comma 1, 2 e 3 della legge, si potrebbe dedurre l’esistenza di una vera e propria «norma generale» che attribuisce al consiglio la competenza a deliberare su tutti gli atti che determinano l’indirizzo politico generale del governo, l’indirizzo generale dell’azione ammini-

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strativa e l’intera politica generale del governo (così, P. BARILE, Consiglio dei ministri, in Enc. giur. it., IX, Roma, Treccani, 1988, p. 9; S. LABRIOLA, Il governo della Repubblica, organi e poteri. Commento alla legge 23 agosto 1988, n. 400, Rimini, Maggioli, 1989, pp. 55 ss.). Al di là, dunque, della necessaria deliberazione del consiglio sugli atti e le materie dettagliatamente elencate nel comma 3 dell’art. 2, esisterebbe, in base ai commi 1 e 2 dello stesso articolo, un più ampio potere del consiglio per il quale la sua competenza dovrebbe spingersi fino alla determinazione di ogni atto di governo avente un contenuto in grado di esprimere o di incidere sull’indirizzo generale dell’esecutivo. Una più complessiva lettura della stessa legge n. 400 smentisce, tuttavia, un’interpretazione così letterale dell’art. 2. Il primo ministro risulta, anzitutto, essere titolare in prima persona di alcuni poteri che sono sicuramente in grado di determinare sia l’indirizzo politico del governo (inteso come la somma dei fini da raggiungere) che della politica generale (intesa come la somma degli atti di rilievo politico posti in essere dal governo). È al presidente, anzitutto, ed al solo presidente, che spetta, in base all’art. 5, comma 1, lett. b), l’iniziativa per la posizione della questione di fiducia di fronte alle camere. È vero, come è stato notato, che in questa materia la legge n. 400 modifica la consuetudine in vigore prima della legge, per la quale spettava al primo ministro anche la decisione sul merito della fiducia, mentre oggi l’art. 2, comma 2, richiede, sul punto, «l’assenso» del consiglio dei ministri. Non sembra dubbio, tuttavia, anche perché l’art. 5, comma 1, lett. b), consente al primo ministro di delegare ad un ministro la posizione della questione di fiducia di fronte alle camere, che il presidente del consiglio rimane, dopo l’assenso del consiglio, il titolare pieno ed esclusivo della gestione di fronte al parlamento del seguito di tale iniziativa (ivi compreso il potere di rinunciare alla fiducia già posta). Ancora, in base all’art. 5, comma 1, lett. e), è al solo primo ministro che spetta esercitare quelle facoltà che sono attribuite al «governo» dall’art. 72 Cost. In questo caso, il riconoscimento dell’esistenza di un potere del presidente del consiglio con un contenuto politico (anche politico-generale) è più che evidente, in quanto il passaggio di un progetto (o disegno) di legge dalla sede deliberante a quella referente o redigente è un atto che si pone al centro dei rapporti politici fra il governo, la sua maggioranza e la stessa opposizione. Il riconoscimento del contenuto politico-generale degli atti propri del presidente del consiglio risulta anche dalla prima parte dell’art. 5, comma 1, lett. e), che attribuisce al primo ministro il potere di presentare alle camere i disegni di legge di iniziativa governativa deliberati dal consiglio dei ministri in base all’art. 2, comma 3, lett. b). Questo punto è stato coerentemente sviluppato dal D.P.C.M. 10 novembre 1993. In base al regolamento del consiglio dei ministri, deliberato

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dal governo Ciampi, il presidente del consiglio deve oggi, entro dieci giorni dal ricevimento dell’autorizzazione del presidente della Repubblica, decidere a quale delle camere ed in quale sede (deliberante, referente, redigente) debbono essere presentati i disegni di legge governativi. Ancora, è al primo ministro che spetta il potere di decidere (su «segnalazione» dei ministri competenti) la «priorità delle iniziative legislative al fine dell’inserimento nel calendario dei lavori delle commissioni e delle assemblee parlamentari». È del tutto evidente che si tocca qui un punto decisivo in merito all’attuazione del programma di governo (e, quindi, in merito alla decisione della «politica generale» governativa, ai sensi dell’art. 95 Cost.). La scelta di privilegiare l’una o l’altra delle iniziative legislative del governo è di per sé, come si capisce facilmente, atto politico di valore generale. Il rilievo dei poteri attribuiti al presidente del consiglio nella fase della selezione e dell’attuazione del programma governativo risulta ancora più chiaro se si tiene presente che il regolamento ha attribuito al primo ministro anche l’autorizzazione ai ministri alla presentazione degli emendamenti a nome del governo. Solo al presidente spetta valutare se tali emendamenti siano coerenti con la politica generale del governo e solo a lui spetta attivare la competenza del consiglio dei ministri quando si presenti la convenienza di modificare nel corso del procedimento legislativo l’indirizzo politico del governo. Queste norme del regolamento sembrano essere, come si è detto, il coerente sviluppo dei principi contenuti nell’art. 5 della legge n. 400. Attraverso esse sembra attuarsi, alla fine, il principio costituzionale che attribuisce al primo ministro la direzione della politica generale del governo. L’intera fase dell’attuazione della politica del governo in via legislativa sembra essere, infatti, nelle mani del primo ministro. Di più: le norme ora ricordate sembrano del massimo rilievo in quanto esse attribuiscono al presidente del consiglio (a condizione che esse siano applicate) la direzione non soltanto della politica generale del governo ma anche della stessa maggioranza parlamentare che lo sostiene. Uno degli effetti più deleteri della «direzione plurima dissociata» della politica governativa è stato infatti, fino a ieri, quello di portare tale dissociazione non soltanto all’interno del governo ma anche in parlamento, «dissociando» l’indirizzo governativo in una contrattazione fra i ministri competenti, le frazioni parlamentari, i gruppi di pressione, i sindacati e le categorie. In base ai principi ora ricordati, il presidente del consiglio dovrebbe essere ora in grado di divenire effettivamente il leader del governo e della maggioranza parlamentare, perché è evidente che solo attraverso la riunificazione nelle mani del primo ministro del comune indirizzo politico del governo e del parlamento può derivare quella fusione fra i due poteri che, come ricordato, Bagehot poneva alla base della forma di governo parlamentare (cfr., in questo senso, anche C. MORTATI, Le forme di governo, Padova, Cedam, 1974, p. 432).

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La legge n. 400 ed il regolamento del consiglio dei ministri sembrano, dunque, riconoscere che al presidente del consiglio in quanto tale, e non al solo consiglio dei ministri, spettano competenze costituzionalmente rilevanti in ordine alla politica generale del governo. Il senso della collegialità governativa che è proprio della legge n. 400 non risulterebbe, tuttavia, nella sua completezza se le competenze positivamente attribuite al consiglio dei ministri dall’art. 2 non fossero poste in rapporto al potere di convocazione delle sedute del consiglio, attribuito al primo ministro dall’art. 4 della stessa legge. A questo proposito, può essere opportuno ricordare che il potere di convocazione del consiglio dei ministri e quello di fissazione del suo ordine del giorno risultano di tale importanza da risultare positivamente indicati nei decreti riguardanti la disciplina dell’attività di governo fin dalla regolamentazione di Cavour del 1853-’59 ed erano stati, perciò, ripetuti nel decreto Ricasoli del 1867 ed in quello di Zanardelli del 1901. Infatti, mentre la progressiva attribuzione di competenze al consiglio dei ministri aveva lo scopo, come ricordato nella parte storica, di sottrarre alla corona poteri che si voleva che fossero, invece, propri del governo, il potere di stabilire l’ordine del giorno consentiva al presidente del consiglio di far emergere al livello della politica generale del governo «affari» considerati, prima, di esclusiva competenza dei singoli ministri. In altri termini, se spettava al primo ministro mantenere l’unità di indirizzo politico e amministrativo di tutti i ministeri (come stabilì, infine, il R.D. n. 466 del 1901), il dominio dell’ordine del giorno del consiglio costituiva, insieme al potere di sospendere l’adozione dei decreti dei ministri e di sottoporli al consiglio dei ministri (art. 7 del R.D. cit.), il principale, se non unico, potere di direzione della politica generale del governo attribuito al presidente del consiglio. Da questo punto di vista, dunque, la riaffermazione da parte dell’art. 4, comma 1, della legge n. 400 che «il consiglio dei ministri è convocato dal presidente del consiglio dei ministri, che ne fissa l’ordine del giorno» deve essere, anche oggi, letta da due prospettive diverse. Per una prima, il presidente ha la possibilità, attraverso l’utilizzazione dell’ordine del giorno, di ampliare a sua discrezione il contenuto dell’indirizzo politico e della politica generale del governo. Chiamare, infatti, a deliberare il consiglio dei ministri su una questione che il presidente ritiene rilevante dal punto di vista politico generale, significa attribuire alla successiva decisione del consiglio il significato di un atto di indirizzo politico che risulterà, poi, imperativo per l’intero potere esecutivo. In una seconda prospettiva, però, la disponibilità dell’ordine del giorno da parte del presidente del consiglio deve essere posta in relazione alle norme (oggi l’art. 2 della legge n. 400) che attribuiscono al consiglio dei ministri una competenza specifica su una nutrita serie di oggetti. In relazione a quelle materie, il potere di direzione della politica generale proprio del primo ministro non si annulla, ma si riduce ad una valu-

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tazione relativa al se ed al quando della decisione governativa e ciò in quanto gli oggetti espressamente attribuiti dalla legge alla competenza del consiglio dei ministri sono considerati, con una presunzione iuris et de iure, sempre espressivi della politica generale del governo (cfr., su questi punti, S. MERLINI, Regolamento del consiglio dei ministri, cit.). Nella più che secolare tradizione riguardante il potere del primo ministro di convocazione del consiglio e di fissazione dell’ordine del giorno risulta, tuttavia, compreso anche quello di dirigerne le discussioni, come si esprimeva l’art. 3 del decreto Zanardelli. La legge n. 400 non ha ritenuto di dover ripetere questa ultima norma; ma sarebbe, ovviamente, sbagliato pensare che l’omissione corrisponda all’intenzione di privare il primo ministro di una facoltà che fa necessariamente parte del suo potere costituzionale di direzione della politica generale del governo. La legge n. 400, dunque, non ha ripetuto, sul punto, la formula del R.D. del 1901 semplicemente perché ha previsto l’emanazione di un regolamento del consiglio dei ministri che, in base a quanto si desume dall’art. 4, commi 3 e 4, deve dettare disposizioni anche in relazione alle modalità di esercizio di questa facoltà presidenziale. L’ampiezza del potere del presidente nella direzione del consiglio dei ministri appare, però, strettamente collegata ad un più complesso problema: quello delle modalità decisionali del consiglio dei ministri in quanto organo collegiale; problema che è stato variamente risolto dalla dottrina e, per quanto è dato di sapere, dalla stessa prassi governativa. A questo proposito, è stato detto, ad esempio, che i procedimenti decisionali del consiglio dei ministri non potrebbero discostarsi da quelli stabiliti dal comma 3 dell’art. 64 Cost. in relazione alle deliberazioni delle camere; e, quindi, la direzione delle discussioni e delle deliberazioni da parte del primo ministro non potrebbe derogare dalla necessità della presenza in consiglio della maggioranza degli aventi diritto e dal voto favorevole sulle deliberazioni della maggioranza dei presenti (così, L. D’ANDREA, P. NICOSIA, A. RUGGERI, Prime note, cit., p. 112). Non sembra, invece, che la collegialità del consiglio dei ministri sia in alcun modo assimilabile né alla collegialità delle camere, né alla collegialità propria dei collegi amministrativi. Il consiglio dei ministri è, infatti, un organo politico costituito, su proposta del suo presidente, in base al principio della unità e della omogeneità politica dell’organo stesso. Da questo punto di vista, l’inscindibilità del voto di fiducia iniziale del parlamento per ciò che riguarda la composizione nominativa del governo (cfr. corte cost., sent. n. 7 del 1996), la responsabilità personale del presidente del consiglio per la politica generale e per l’unità di indirizzo politico ed amministrativo del governo portano a ritenere che non possano applicarsi al consiglio dei ministri quei canoni di funzionamento e di decisione che valgono, invece, per le camere o per i collegi amministrativi. Il fatto che l’unità e la omogeneità politica del go-

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verno sia (in base ai ricordati artt. 94 e 95 Cost.) sempre presunta ha per conseguenza che non si può applicare, ad esempio, al consiglio dei ministri quel principio di tutela delle minoranze che ha portato la Costituzione a stabilire direttamente i quorum propri delle deliberazioni parlamentari. In conseguenza, si può ritenere che, mentre proprio la tutela della unità e dell’omogeneità politica del governo possa indurre il presidente del consiglio a richiedere per alcune decisioni l’unanimità dei voti favorevoli, la presunzione dell’omogeneità politica dell’organo potrebbe, al contrario, portare il presidente del consiglio a considerare valide deliberazioni che siano prese anche senza la presenza della maggioranza dei ministri. Altre volte, il primo ministro potrebbe, invece, ritenere che l’assenza anche di un solo ministro, pur se legittimamente impedito, possa rendere politicamente inopportuna la decisione del consiglio. Direzione dei lavori del consiglio dei ministri e responsabilità politica generale del presidente del consiglio appaiono, in conclusione, indissolubilmente connessi. Dare e togliere la parola, mantenere la disciplina delle discussioni, mettere ai voti le proposte, esercitare, in breve, tutti quei poteri che sono propri del presidente di un collegio appaiono attribuzioni che, essendo tutte finalizzate al mantenimento di un obiettivo politico (l’unità del governo), debbono essere necessariamente soggette a quei criteri di discrezionalità che solo al primo ministro spetta individuare. Da questo punto di vista, allora, il principio di direzione del presidente del consiglio sembra dover cedere solo di fronte al voto espresso a maggioranza dai ministri su un oggetto che il primo ministro abbia posto in votazione; anche se, prima della votazione, la volontà dei ministri può, del tutto legittimamente, essere condizionata da quella del primo ministro, che può annunciare le dimissioni proprie (e, quindi, del governo) in relazione all’esito della decisione stessa. La «collegialità» del consiglio dei ministri appare, dunque, del tutto particolare e diversa da come essa è, a volte, presentata dalla dottrina, essendo, come si è visto, indissolubilmente legata al principio di direzione del presidente del consiglio. Oggi, questa concezione della collegialità del governo sembra del tutto confermata dalle disposizioni del regolamento del consiglio dei ministri del 10 novembre 1993. Nella «direzione dei lavori del consiglio» (art. 7, comma 2 del D.P.C.M. cit.) è, infatti, compreso il potere di porre in votazione le deliberazioni, in quanto il presidente del consiglio «lo ritenga opportuno», dopo averne «fissato le modalità». Se si tiene presente che spetta al presidente precisare «le conseguenze delle varie proposte» e «decidere il rinvio della discussione o della deliberazione su singoli punti dell’ordine del giorno» (art. 7, comma 4), sembra risultare confermato che le modalità delle decisioni del consiglio dei ministri sono affidate, nel senso sopra descritto, alla non sindacabile discrezionalità politica del primo ministro.

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Invece, la discrezionalità del presidente risulta, e giustamente, ridotta per ciò che riguarda la garanzia di un corretto procedimento di formazione delle deliberazioni del consiglio. Su questo punto, già l’art. 4 della legge n. 400 indica alcuni contenuti necessari del regolamento del consiglio dei ministri: dai modi di comunicazione dell’ordine del giorno e della relativa documentazione, agli adempimenti per l’iscrizione delle proposte di iniziativa legislativa, fino ai modi di verbalizzazione, conservazione e conoscenza delle deliberazioni adottate. Su questi oggetti il D.P.C.M. del 10 novembre 1993 introduce una serie di importanti norme che sono volte a tutelare, in primo luogo, la corretta formazione della volontà dei ministri. Così, anzitutto, la convocazione del consiglio e la formazione dell’ordine del giorno deve essere preceduta da una complessa attività informativa che fa capo al presidente del consiglio, confluendo (dopo l’acquisizione delle richieste dei ministri; dei relativi «schemi» e concerti) nella diramazione a tutti i ministri, da parte dello stesso presidente, degli schemi di provvedimento almeno cinque giorni prima della convocazione della riunione del consiglio dei ministri nel quale essi saranno discussi. Di più: per quanto gli schemi dei provvedimenti si colleghino al potere d’iniziativa proprio dei ministri, l’art. 4 del regolamento prevede che il loro inserimento nell’ordine del giorno del consiglio dei ministri sia condizionato all’esito dello scrutinio di una «riunione preparatoria», condotta da un collegio del quale fanno parte, fra gli altri, i capi di gabinetto dei ministeri interessati, il capo del dipartimento per i rapporti con il parlamento, il ragioniere generale dello Stato. È del tutto evidente che il regolamento si collega fortemente, in questo caso, a quella concezione della collegialità governativa fatta propria dalla legge n. 400 e che, poco sopra, si è definita di tipo procedurale, in quanto articolata in una prima fase di conoscenza e di elaborazione ed in una seconda fase di decisione. Il presidente del consiglio diviene, in base alla legge ed al regolamento, il coordinatore della prima fase, l’arbitro del passaggio degli atti di governo dalla prima alla seconda ed il promotore di una decisione conforme all’indirizzo generale del governo nella seconda e decisiva fase. Dato che il fine di questa complessa attività è costituito dalle deliberazioni del consiglio dei ministri, questo rimane, in definitiva, l’organo politicamente centrale del governo, anche se la sua collegialità è, come si è visto, conformata e plasmata dal potere di direzione del presidente del consiglio. Ciò detto, occorre sottolineare l’importanza del tentativo operato dall’art. 2 della legge n. 400, che ha voluto rendere più aderente ai problemi contemporanei la competenza propria del consiglio dei ministri. Rispetto all’art. 1 del R.D. n. 466 del 1901, che era considerato in gran parte ancora vigente fino al 1988, lo sforzo del nuovo legislatore sembra essere stato, da un lato, quello di semplificare ed aggiornare l’elenco degli

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oggetti che debbono essere obbligatoriamente sottoposti al consiglio, dall’altro quello di rendere più evidente la competenza del consiglio per ciò che riguarda la funzione di indirizzo politico propria del governo. Da questo punto di vista, ed opportunamente, la legge ha cercato, anzitutto, di individuare alcuni atti che debbono essere deliberati dal consiglio perché è attraverso di essi che si esercita necessariamente la funzione di indirizzo politico del governo. Quando l’art. 2, comma 3, lett. a), afferma che il consiglio deve deliberare sulle dichiarazioni relative all’indirizzo politico, sugli impegni programmatici, sulle questioni su cui il governo chiede la fiducia del parlamento, nonché sulle linee di indirizzo in tema di politica internazionale (lett. h), afferma non soltanto che questi atti non potrebbero essere decisi da un organo del governo diverso dal consiglio dei ministri, ma anche che, ai sensi degli artt. 94 e 95 Cost., non è concepibile l’esistenza di un governo che non si fondi sulla deliberazione di atti, come quelli elencati, ritenuti idonei ad esprimere un indirizzo politico generale. Parlando nel cap. * del programma di governo, sottolineeremo come questo istituto, la cui obbligatorietà non è (apparentemente) prevista dall’art. 94 Cost., si sia affermato per via consuetudinaria. Oggi, come detto, l’art. 2 della legge n. 400 stabilisce che le dichiarazioni programmatiche del governo costituiscono un obbligo di legge, cosicché, il fatto che il consiglio dei ministri sia competente a deliberare, in base al comma 3, lett. a), «le dichiarazioni relative all’indirizzo politico, agli impegni programmatici ed alle questioni su cui il governo chiede la fiducia del parlamento», sottolinea, anzitutto, con un’endiadi, che il programma di governo è, anzitutto, una dichiarazione del governo che deve contenere un definito indirizzo politico. È anche vero, però, che, in base al comma 3, lett. a), dell’art. 2 della legge n. 400, il programma non risulta essere il solo atto di governo qualificabile come atto di indirizzo politico. Tutte le volte, infatti, che il governo o per sua iniziativa, o in base ad iniziativa del parlamento, ovvero in seguito alla posizione della questione di fiducia, confermi il suo indirizzo, o lo modifichi in maniera significativa, o ponga come condizione per la sua permanenza in carica il rispetto di un fine indicato come prioritario, la necessità della deliberazione del consiglio dei ministri riafferma l’assunzione di responsabilità politica dell’intero governo di fronte ad atti che hanno la capacità di mutare, o confermare, l’indirizzo politico generale dell’esecutivo. Queste disposizioni della legge n. 400 sembrano essere tali da superare definitivamente quelle concezioni che tendevano a definire l’indirizzo politico secondo una lettura «esistenziale» dell’attività di governo. Non sembra possibile oggi, dopo l’entrata in vigore della legge n. 400, pensare che il governo possa definire il proprio indirizzo politico attraverso la semplice posizione dei propri atti senza avere preventivamente indicato i fini generali della sua politica.

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La necessaria determinazione della politica generale del governo da parte del consiglio dei ministri (art. 2, comma 1) e la sua esplicitazione attraverso quegli atti di indirizzo politico che sono indicati nella lett. a) del comma 3 dello stesso articolo ordinano anche, però, gli atti del governo in base ad un ordine di tipo gerarchico. In conseguenza, la necessità della deliberazione del consiglio dei ministri sui disegni di legge o sul ritiro dei disegni di legge già presentati in parlamento, così come sui decreti aventi valore di legge o sui regolamenti di governo (art. 2, comma 3, lett. b e c, legge n. 400), non solo esclude che il consiglio dei ministri possa contraddire, attraverso nuove deliberazioni, l’indirizzo politico già deliberato, ma si pone a tutela della coerenza dei più importanti atti di governo con l’indirizzo politico già deciso e così come questo risulta dagli atti indicati dall’art. 2, comma 3, lett. a), della legge. È più che evidente qual è la ragione che ha spinto il legislatore del 1988 ad indicare l’esistenza di una gerarchia degli atti di governo in base al loro contenuto: la necessità (e l’opportunità) di recuperare insieme il principio dell’unità e dell’omogeneità politica dei governi e quello della loro responsabilità politica generale nei confronti del parlamento. Dagli inizi degli anni ’70, infatti, si era sviluppata, come si ricorderà nel capitolo IV, la preoccupante tendenza a considerare il programma di governo come atto che, se rimaneva necessario per instaurare un rapporto di fiducia con il parlamento, non era, tuttavia, considerato impegnativo per quanto riguardava la sua realizzazione. L’affermazione di un modello sostanzialmente assembleare, tipico di quegli anni, consentiva, infatti, di mutare, silenziosamente e nei fatti, l’indirizzo di governo, sia che questo avvenisse per iniziativa dello stesso esecutivo, sia che questo avvenisse per iniziativa del parlamento. Oggi, la presenza di atti di indirizzo politico generale, che la legge indica come politicamente prevalenti e non mutabili se non a condizione di una nuova enunciazione di fini generali, indica che il governo e la sua maggioranza debbono considerarsi solidalmente impegnati al raggiungimento di quei fini resi espliciti ed evidenti attraverso atti solenni di indirizzo politico. È, questo, un modo per rendere più evidente la comune responsabilità del governo e del parlamento di fronte al corpo elettorale. e) Segue: l’organizzazione del governo (d.lgs. nn. 300 e 303 del 1999) Il capo IV della legge n. 400 del 1988, in attuazione dell’art. 95, comma 3, Cost. recava la disciplina dell’organizzazione amministrativa della presidenza del consiglio dei ministri e un primo, ancorché parziale, riordino delle sue funzioni. La stessa legge non era però riuscita a riordinare il numero e le attribuzioni dei ministeri, per l’impossibilità di addivenire in questo campo ad un percorso di riforma che trovava in quel momento ostacoli politici insuperabili, visto che l’alto numero dei portafogli mini-

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steriali rispondeva a complesse esigenze di dosaggio tra i vari partners della coalizione di governo (si consideri che il governo De Mita, in carica al momento dell’entrata in vigore della legge n. 400 del 1988 contava ben 22 ministri con portafoglio, oltre a 10 ministri senza portafoglio!). Da questo punto di vista, la legge n. 59 del 1997 ha costituito un punto di svolta laddove ha previsto, nel quadro di una vasta riforma riguardante anche il trasferimento di funzioni normative ed amministrative a regioni ed enti locali e la semplificazione dei procedimenti amministrativi, una vasta delega al governo finalizzata, in particolare a «razionalizzare l’ordinamento della presidenza del consiglio dei ministri e dei ministeri, anche attraverso il riordino, la soppressione e la fusione dei ministeri, nonché di amministrazioni centrali anche ad ordinamento autonomo» (art. 11, comma 1, lett. a). In attuazione di tale disposizione, i d.lgs. nn. 300 e 303 del 1999 hanno provveduto al riordino, rispettivamente, dei ministeri e della presidenza del consiglio. Si è trattato di una riforma assai rilevante sul piano istituzionale, e, più in particolare sul terreno della forma di governo: il d.lgs. n. 303 perché finalizzato a rendere la presidenza una struttura strumentale alle funzioni proprie del presidente del consiglio, limitando drasticamente le attività gestionali in precedenza allocate ad essa (per tutti, A. PAJNO, La presidenza del consiglio dei ministri dal vecchio al nuovo ordinamento, in A. PAJNO, L. TORCHIA, a cura di, La riforma del governo. Commento ai decreti legislativi nn. 300 e 303 del 1999 sulla riorganizzazione della presidenza del consiglio e dei ministeri, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 66-67); il d.lgs. n. 300 perché ha ridotto e razionalizzato il numero e le attribuzioni dei ministeri, essendo diretto a rilanciare sia la collegialità che la direzione della politica generale del governo, in danno di quel «feudalesimo ministeriale» che tanto aveva caratterizzato in negativo l’azione dell’esecutivo in Italia. Tuttavia, in ben due occasioni, come si dirà più ampiamente nel cap. 5, ragioni politiche evidenti hanno indotto i governi ad aumentare di nuovo il numero dei ministeri e con una procedura assai discutibile sul piano costituzionale. Così, il II governo Berlusconi nel primo consiglio dei ministri ha proceduto al ripristino dei ministeri delle comunicazioni e della sanità con un decreto legge (d.l. n. 217 del 2001, convertito dalla legge n. 317 del 2001), con ciò alterando la ratio dell’art. 95, comma 3, Cost., consistente nella volontà di affermare la competenza del legislatore contro i tentativi degli esecutivi di impadronirsi della materia dell’organizzazione dei governi a meri fini di soddisfacimento di questa o di quella maggioranza pro-tempore (per tutti, E. CATELANI, Art. 95, in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI, a cura di, Commentario alla Costituzione, II, cit., pp. 1836 ss.; L. VENTURA, Ordinamento e organizzazione del governo, in Associazione italiana dei costituzionalisti, Annuario 2001, cit., pp. 68-69). Ancor peggio ha fatto il II governo Prodi, con l’aumento, sempre con decreto legge, a 18 dei

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ministeri con portafoglio (d.l. n. 181 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 233 del 2006), cui ha fatto seguito la nomina di un numero abnorme di ministri senza portafoglio e sottosegretari per soddisfare gli appetiti delle numerose componenti della coalizione di centro sinistra (la composizione di questo esecutivo ha raggiunto la cifra record di oltre 100 unità!). Anche per il clamore suscitato da questa elefantiaca composizione, ha fatto seguito la «retromarcia» codificata nella legge finanziaria per il 2008 che ha «ripristinato», ma solo a partire dalla formazione del governo successivo, il testo originario del d.lgs. n. 300 del 1999. Tuttavia, anche nella XVI legislatura, nonostante l’esito delle elezioni ed il conseguente minor numero di gruppi parlamentari, si è assistito ad un progressivo aumento del numero dei componenti dell’esecutivo, oggi fissato, nel massimo, a 65 (d.l. n. 195 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 26 del 2010) mentre il numero dei ministeri con portafoglio è oggi pari a 12, con la definitiva separazione del ministero della salute da quello del lavoro e delle politiche sociali, prima accorpati (legge n. 172 del 2009: cfr. anche infra, cap. 6). Ancora una volta, le esigenze politiche hanno avuto, almeno parzialmente, la meglio sull’esigenza di riduzione e razionalizzazione del numero e delle attribuzione dei ministeri, insita nel d.lgs. n. 300 del 1999, con l’obiettivo di rilanciare sia la collegialità che la direzione della politica generale del governo in capo al presidente del consiglio, e quindi in controtendenza con la moltiplicazione dei portafogli avvenuta prima del 1992 e funzionale alle necessità di coalizioni eterogenee, formate da compagini a loro volta articolate in correnti. Da questo punto di vista emblematico è apparso il tentativo di ampliamento dei componenti del IV governo Berlusconi al fine di soddisfare le richieste del gruppo dei «responsabili»: il tentativo di procedere a detto aumento con decreto-legge è stato impedito, per i motivi sopra esposti, dal capo dello Stato (marzo 2011), ma ragioni elementari legate alla sopravvivenza del governo hanno determinato l’ampliamento progressivo della pattuglia dei sottosegretari, cosicché la «dimensione» del IV governo Berlusconi è stata pari alla numerosità massima fissata dalla legge (65). Più limitata la composizione dei governi Monti (48), stante la sua natura di esecutivo tecnico, mentre il governo Letta si è attestato sulla numerosità massima (65) e il governo Renzi ha visto solo una contenuta riduzione (58). Quanto alla presidenza del consiglio, la ratio della riforma operata dal d.lgs. n. 303 del 1999 è resa evidente dall’art. 2 dello stesso, ai sensi del quale «il presente decreto legislativo disciplina l’ordinamento, l’organizzazione e le funzioni della presidenza, della cui attività il presidente si avvale per l’esercizio delle autonome funzioni di impulso, indirizzo e coordinamento attribuitegli dalla Costituzione e dalle leggi della Repubblica. L’organizzazione della presidenza tiene conto, in particolare, della esigenza di

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assicurare, anche attraverso il collegamento funzionale con le altre amministrazioni interessate, l’unità di indirizzo politico ed amministrativo del governo, ai sensi dell’articolo 95 della Costituzione» (comma 1). Il successivo comma 2 specifica poi che il presidente del consiglio si avvale della presidenza, in particolare, per l’esercizio, in forma organica e integrata, delle seguenti funzioni: a) la direzione ed i rapporti con l’organo collegiale di governo; b) i rapporti del governo con il parlamento e con altri organi costituzionali; c) i rapporti del governo con le istituzioni europee; d) i rapporti del governo con il sistema delle autonomie; e) i rapporti del governo con le confessioni religiose, ai sensi degli artt. 7 e 8, ultimo comma, Cost.; f) la progettazione delle politiche generali e le decisioni di indirizzo politico generale; g) il coordinamento dell’attività normativa del governo; h) il coordinamento dell'attività amministrativa del governo e della funzionalità dei sistemi di controllo interno; i) la promozione e il coordinamento delle politiche di pari opportunità e delle azioni di governo volte a prevenire e rimuovere le discriminazioni; l) il coordinamento delle attività di comunicazione istituzionale, di informazione, nonché relative all’editoria ed ai prodotti editoriali; m) la promozione e verifica dell’innovazione nel settore pubblico ed il coordinamento in materia di lavoro pubblico; n) il coordinamento di particolari politiche di settore considerate strategiche dal programma di governo; o) il monitoraggio dello stato di attuazione del programma di governo e delle politiche settoriali. I successivi artt. 3 e 4, particolarmente rilevanti, assegnano al presidente del consiglio, rispettivamente, il compito di promuovere e coordinare l’azione del governo diretta ad assicurare la piena partecipazione dell’Italia all’unione europea e lo sviluppo del processo di integrazione europea e di coordinare l’azione del governo in materia di rapporti con il sistema delle autonomie, promuovendo lo sviluppo della collaborazione tra Stato, regioni e autonomie locali e le iniziative necessarie per l’ordinato svolgimento dei rapporti tra tali enti ed assicurando l’esercizio coerente e coordinato dei poteri e dei rimedi previsti per i casi di inerzia e di inadempienza. Infine, l’art. 6 disciplina le funzioni del dipartimento per gli affari giuridici e legislativi (c.d. D.a.g.l.) che dovrebbe assicurare le funzioni relative al coordinamento dell'attività normativa del governo, in modo da garantire la valutazione d’impatto della regolazione, la semplificazione dei procedimenti, la qualità del linguaggio normativo, l’applicabilità dell’innovazione normativa, la adempiuta valutazione degli effetti finanziari: si tratta di una struttura tanto cruciale sul piano istituzionale quanto minata nella prassi dal c.d. «feudalesimo ministeriale» per cui il D.a.g.l. ha risentito del ruolo sempre centrale degli uffici legislativi dei ministeri, che hanno finito per costituire un ostacolo ad un coerente sviluppo della pur centrale attività normativa del governo. Peraltro, ma per ragioni tutte spiegabili con l’evoluzione del sistema politico, il D.a.g.l. sembra avere recuperato una centralità, anche se discussa, solo con il governo Renzi.

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Riguardo all’organizzazione della presidenza, il d.lgs. n. 303 rafforza una scelta già operata dalla legge n. 400 del 1988 ovvero quella di non vincolare la presidenza del consiglio ad una rigida struttura organizzativa, optando, invece per il principio della flessibilità delle strutture amministrative. Predeterminate dalla legge, come accennato, rimangono, infatti, solo le funzioni (finalità) che debbono essere perseguite da uffici e dipartimenti. In attuazione di questo obiettivo, gli artt. 7 e 9 prevedono una vasta delegificazione in favore di decreti del presidente del consiglio ai quali non si applica la disciplina dell’art. 17, comma 3, della legge n. 400 del 1988, sul presupposto quindi della previsione di un potere normativo almeno in una qualche misura extra ordinem e assimilabile al genus della potestà regolamentare interna degli organi costituzionali. Tale assimilazione sembrava in effetti essere fatta propria dalla stessa legge di delega, l’art. 12 della quale alludeva all’obiettivo di «garantire alla presidenza del consiglio dei ministri autonomia organizzativa, regolamentare e finanziaria nell’ambito dello stanziamento previsto ed approvato con le leggi finanziaria e di bilancio dell’anno in corso». Tuttavia, a livello dottrinale si è osservato giustamente che il riconoscimento al presidente del consiglio di una potestà regolamentare interna non solo non ha un fondamento costituzionale (ed anzi, almeno testualmente, l’art. 95, comma 3, Cost. pone in materia di organizzazione della presidenza del consiglio una riserva di legge relativa), ma esso sembra non tenere conto del fatto che anche storicamente l’affermazione di una potestà normativa di autoorganizzazione in capo agli organi costituzionali si è imposta allo scopo di garantire una sfera di autodeterminazione agli organi costituzionali proprio e innanzitutto nei confronti del governo. Tuttavia, l’atipicità dei regolamenti di organizzazione della presidenza si è quantomeno attenuata a seguito di una sentenza della corte costituzionale che ha imposto in ordine ad essi (sent. n. 221 del 2002) il controllo preventivo di legittimità della corte dei conti ai sensi dell’art. 100 Cost. Sul piano dell’esercizio delle funzioni della presidenza, relativamente ai rapporti tra il governo e le camere, appaiono rilevanti quelle riconosciute, rispettivamente, al dipartimento per i rapporti con il parlamento e all’ufficio per il programma di governo. Il primo cura gli adempimenti riguardanti l’informazione sull’andamento dei lavori parlamentari; l’azione di coordinamento circa la presenza in parlamento dei rappresentanti del governo; la partecipazione del governo alla programmazione dei lavori parlamentari; la presentazione alle camere dei disegni di legge; la presentazione di emendamenti governativi; l’espressione unitaria del parere del governo sugli emendamenti parlamentari, nonché sui progetti di legge e sulla relativa assegnazione o trasferimento alla sede legislativa o redigente; i rapporti con i gruppi parlamentari e gli altri organi delle camere; gli atti di sindacato ispettivo parlamentare; l’istruttoria

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circa gli atti di sindacato ispettivo rivolti al presidente o al governo nel suo complesso; l’espressione unitaria della posizione del governo, ove occorra, nella discussione di mozioni e risoluzioni; la verifica degli impegni assunti dal governo in parlamento; la trasmissione alle camere di relazioni, dati, schemi di atti normativi e proposte di nomine governative ai fini del parere parlamentare (art. 22, D.P.C.M. 1° ottobre 2012). Il secondo, qualificato come «struttura di supporto al presidente che opera nell’area funzionale della programmazione strategica, del monitoraggio e dell’attuazione delle politiche governative», è chiamato a curare «l’analisi del programma di governo e la ricognizione degli impegni assunti in sede parlamentare, nell’ambito dell’unione europea o derivanti da accordi internazionali; la gestione e lo sviluppo di iniziative, finanziate anche con fondi europei, in materia di monitoraggio del programma di governo; l’analisi delle direttive ministeriali in attuazione degli indirizzi politico-amministrativi delineati dal programma di governo; l’impulso e il coordinamento delle attività necessarie per l’attuazione e l’aggiornamento del programma e il conseguimento degli obiettivi stabiliti; il monitoraggio e la verifica, sia in via legislativa che amministrativa, dell’attuazione del programma e delle politiche settoriali nonché del conseguimento degli obiettivi economico-finanziari programmati; la segnalazione dei ritardi, delle difficoltà o degli scostamenti eventualmente rilevati; l’informazione, la comunicazione e la promozione delle attività e delle iniziative del governo per la realizzazione del programma mediante periodici rapporti, pubblicazioni e strumenti di comunicazione di massa in raccordo con il dipartimento per l’informazione e l’editoria» (art. 24). A fronte di queste competenze, pienamente in linea con le competenze costituzionalmente attribuite al presidente del consiglio, è però da segnalare che la legislazione più recente ha finito per correggere la riforma operata dal d.lgs. n. 303 del 1999, nel senso di riallocare alla presidenza del consiglio non poche competenze amministrative, disattentendone quindi la sua ratio: il recente e già citato D.P.C.M. 1° ottobre 2012 («Ordinamento delle strutture generali della presidenza del consiglio dei ministri») evidenzia ormai un ritorno ad una struttura della presidenza del consiglio più simile a quella anteriore al 1992 che non in linea con le indicazioni della riforma «Bassanini» (come si evince, a tacer d’altro, dai ben 15 dipartimenti relativi a specifiche aree politico-istituzionali). Quindi, nonostante il tentativo riformatore del 1999 sembrano riemergere, nonostante l’apparente evoluzione in senso «maggioritario» della forma di governo, tendenze tipiche del periodo anteriore al 1992; periodo caratterizzato, come si è detto, dalla somma di due diverse e complementari patologie, ovvero «feudalesimo ministeriale» e debolezza della capacità di direzione della politica generale del governo da parte del presidente del consiglio. La disciplina dell’organizzazione degli apparati governativi è comun-

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que in evoluzione, come attestato, da ultimo, dalla legge n. 124 del 2015 che prevede un’ampia delega al governo in materia, tra l’altro di riorganizzazione dell’amministrazione dello Stato (art. 8) e, in particolare, «per modificare la disciplina della presidenza del consiglio dei ministri, dei ministeri, delle agenzie governative nazionali e degli enti pubblici non economici nazionali» (comma 1). La vastità della delega è desumibile dai principi e criteri direttivi (lett. c): «Con riferimento alla sola amministrazione centrale, applicare i principi e criteri direttivi di cui agli articoli 11, 12 e 14 della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni, nonché, all’esclusivo fine di attuare l’articolo 95 della Costituzione e di adeguare le statuizioni dell’articolo 5 della legge 23 agosto 1988, n. 400, definire: 1) le competenze regolamentari e quelle amministrative funzionali al mantenimento dell’unità dell’indirizzo e alla promozione dell’attività dei ministri da parte del presidente del consiglio dei ministri; 2) le attribuzioni della presidenza del consiglio dei ministri in materia di analisi, definizione e valutazione delle politiche pubbliche; 3) i procedimenti di designazione o di nomina di competenza, diretta o indiretta, del governo o di singoli ministri, in modo da garantire che le scelte, quand’anche da formalizzarsi con provvedimenti di singoli ministri, siano oggetto di esame in consiglio dei ministri; 4) la disciplina degli uffici di diretta collaborazione dei ministri, dei vice-ministri e dei sottosegretari di Stato, con determinazione da parte del presidente del consiglio dei ministri delle risorse finanziarie destinate ai suddetti uffici, in relazione alle attribuzioni e alle dimensioni dei rispettivi ministeri, anche al fine di garantire un’adeguata qualificazione professionale del relativo personale, con eventuale riduzione del numero e pubblicazione dei dati nei siti istituzionali delle relative amministrazioni; 5) le competenze in materia di vigilanza sulle agenzie governative nazionali, al fine di assicurare l’effettivo esercizio delle attribuzioni della presidenza del consiglio dei ministri, nel rispetto del principio di separazione tra indirizzo politico e gestione; 6) razionalizzazione con eventuale soppressione degli uffici ministeriali le cui funzioni si sovrappongono a quelle proprie delle autorità indipendenti e viceversa; individuazione di criteri omogenei per la determinazione del trattamento economico dei componenti e del personale delle autorità indipendenti, in modo da evitare maggiori oneri per la finanza pubblica, salvaguardandone la relativa professionalità; individuazione di criteri omogenei di finanziamento delle medesime autorità, tali da evitare maggiori oneri per la finanza pubblica, mediante la partecipazione, ove non attualmente prevista, delle imprese operanti nei settori e servizi di riferimento, o comunque regolate o vigilate; 7) introduzione di maggiore flessibilità nella disciplina relativa all’organizzazione dei ministeri, da realizzare con la semplificazione dei procedimenti di adozione dei regolamenti di organizzazione, anche modificando la competenza ad adottarli; introduzione di modifiche al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, per consentire il passaggio dal

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modello dei dipartimenti a quello del segretario generale e viceversa in relazione alle esigenze di coordinamento; definizione dei predetti interventi assicurando comunque la compatibilità finanziaria degli stessi, anche attraverso l’espressa previsione della partecipazione ai relativi procedimenti dei soggetti istituzionalmente competenti a tal fine». Il termine per l’esercizio della delega è fissato, ai sensi dell’art. 1 della legge n. 131 del 2016, entro diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge (ovvero entro il 28 febbraio 2017; successivamente entro un ulteriore anno il governo potrà adottare uno o più decreti legislativi integrativi e correttivi).

3. La responsabilità dei ministri alla luce della sent. n. 7 del 1996 della corte costituzionale L’art. 95, comma 2, Cost. afferma che «i ministri sono responsabili collegialmente degli atti del consiglio dei ministri e individualmente degli atti dei loro dicasteri». In questa sede, interessa approfondire, in particolare, due rilevanti questioni attinenti alla responsabilità individuale dei ministri, ovvero la possibilità per il presidente del consiglio di proporre al capo dello Stato la loro revoca e la problematica della sfiducia parlamentare ai singoli ministri. Per quanto riguarda la revoca del singolo ministro, essa dovrebbe avvenire con atto eguale e contrario a quello di nomina, cioè con un decreto del capo dello Stato, su proposta del presidente del consiglio. Teoricamente, l’atto potrebbe essere assunto per impedimento o indegnità morale o a causa di comportamenti di un ministro che risultino lesivi dell’unità e dell’omogeneità del governo, o comunque, in contrasto con i poteri di promozione e coordinamento esercitati dal primo ministro a norma dell’art. 95 Cost. In passato parte della dottrina si era espressa favorevolmente all’ammissibilità della revoca ministeriale, poiché si era quasi concordemente escluso che la revoca potesse avvenire per iniziativa del capo dello Stato, sulla base della considerazione che dopo la fiducia parlamentare viene a cessare in quest’ultimo la competenza a valutare l’indirizzo politico in ordine alle nomine dei membri del governo (A. PREDIERI, Lineamenti, cit.). Si ammetteva, invece, il potere del primo ministro di provocare la revoca del singolo ministro in base ai poteri di direzione del governo attribuitigli dall’art. 95 Cost. Successivamente, il consolidarsi della forma di governo basata sui governi di coalizione e sull’ingerenza partitica nell’indirizzo di governo ha fatto ritenere praticamente non praticabile lo strumento della revoca. Tuttavia, come meglio si vedrà più oltre, all’instabilità prodotta dall’ingerenza partitica il sistema costituzionale ha in alcuni momenti (soprattutto durante la presidenza Pertini) cercato di reagire potenziando le linee

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di raccordo tra presidente del consiglio e capo dello Stato. La garanzia di sostegno di quest’ultimo contro la «feudalizzazione» del governo condusse, ad esempio, il presidente del consiglio Spadolini a sostenere la necessità di una «prassi costituzionale tale per cui il presidente del consiglio possa proporre al presidente della Repubblica la revoca dei ministri o dei sottosegretari … inadempienti al dovere di collegialità». Tuttavia, anche di fronte a tali intenzioni sta la crisi del II governo Spadolini (1982), provocata, appunto, da un aperto e non risolto dissidio tra il ministro del tesoro Andreatta (DC) ed il ministro delle finanze Formica (PSI). In quell’occasione il presidente del consiglio chiese le dimissioni dei due ministri, non al capo dello Stato ma ai rispettivi partiti di appartenenza. Ricevuta la disponibilità a dimettersi di uno solo di essi, Spadolini preferì presentare le proprie dimissioni, insieme a quelle di tutto il governo. Anche in questo caso, la stagione dei governi tecnici (cfr. cap. 2, par. 6) ha evidenziato importanti novità. In primo luogo, è senz’altro una innovazione la revoca di un sottosegretario, decisa con la stessa procedura prevista per la nomina, dal governo Ciampi, anche se essa non ha condotto all’affermazione del potere di revoca di ministri; così, il contrasto sorto tra il presidente del consiglio Amato ed il ministro dell’industria Guarino sulle privatizzazioni non è risolto con le dimissioni del secondo né con le dimissioni del primo e quindi dell’intero governo (e ciò anche per l’opposizione del capo dello Stato) ma con un decreto legge che separava le partecipazioni statali dal ministero dell’industria e le affidava ad un altro ministro; il contrasto sorto nello stesso governo con il ministro delle finanze sull’aumento delle accise si conclude con la «sconfitta» del presidente del consiglio. Durante il governo Ciampi, il contrasto tra il ministro dell’industria Savona ed il presidente dell’Iri sulla strategia delle privatizzazioni conduce alle dimissioni del primo dopo la riconfermata fiducia al secondo da parte del presidente del consiglio: la riconfermata fiducia anche al ministro da parte di Ciampi ma il rifiuto di quest’ultimo di un incontro chiarificatore portò paradossalmente il ministro stesso a ritirare le dimissioni nel timore di una sua sostituzione. Il massimo livello di scontro tra presidente del consiglio ed un ministro si ha nel noto caso Mancuso, che culmina, per la prima volta nella storia della Repubblica, nell’approvazione da parte del senato di una mozione di sfiducia individuale e in un contenzioso costituzionale (corte cost., sent. n. 7 del 1996), nell’asserita impossibilità di procedere alla revoca, alla luce della prassi costituzionale precedente. Il contrasto era sorto, in particolare, per la decisione del ministro della giustizia di inviare alcune ispezioni alla procura della Repubblica di Milano, in polemica con l’operato a suo dire poco garantistico dei magistrati. Al di là delle implicazioni più strettamente costituzionali della vicenda, in questa sede è da rimarcare che solo la peculiare natura del governo Dini (governo tecnico, senza una maggioranza precostituita) poteva rendere

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possibile l’utilizzazione di uno strumento contro cui tradizionalmente il governo faceva scattare il meccanismo della solidarietà ministeriale «coprendo» il ministro e dando quindi luogo ad un effetto simile a quello prodotto dall’apposizione della questione di fiducia. In effetti, la vicenda assume connotati paradossali perché, da un lato, i partiti della maggioranza ed il presidente del consiglio sostenevano che le ispezioni risultavano lesive del principio di autonomia e indipendenza del pubblico ministero, garantiti dagli artt. 104 e 112 Cost.; dall’altro, il ministro della giustizia, appoggiato dall’opposizione di centro destra, replicava che quella decisione era legittima ed opportuna, e che, in ogni caso, gli artt. 107 e 110 Cost. avrebbero garantito ad esso una competenza esclusiva, sottratta quindi all’indirizzo politico governativo. Per tutte queste ragioni, il presidente del consiglio, anziché procedere alla revoca del ministro, giuridicamente problematica come si è detto (ed ancor più nel caso di specie), lasciò al parlamento la responsabilità di concretizzare la funzione di indirizzo politico sulla «questione giustizia» attraverso l’approvazione il 31 maggio 1995, da parte della maggioranza del senato, di una mozione nella quale si invitava il governo a «superare il clima di forte tensione che era venuto caratterizzando […] il rapporto tra governo e magistratura […] (attraverso) l’adozione di comportamenti atti a fugare anche il solo sospetto che il governo possa avere in animo di interferire su indagini in corso». Dato che questa mozione di indirizzo era stata approvata dalla maggioranza come specificazione dell’«indirizzo politico e programmatico sulla cui base il parlamento ha accordato la fiducia al governo in carica», il ministro della giustizia avrebbe dovuto, secondo le regole basilari della forma di governo parlamentare, o assoggettarsi all’indirizzo contenuto nella mozione o dimettersi. Invece, il ministro «proseguì imperterrito nella sua azione», malgrado «una severa esternazione del capo dello Stato in difesa della procura di Milano» (C. CHIMENTI, Appendice a Addio prima Repubblica, cit., p. 31). Alla maggioranza di governo non rimase, in conseguenza, altra scelta che quella di presentare in senato il 4 luglio 1995 una mozione di sfiducia individuale contro il ministro della giustizia. È probabile che fra gli intenti dei presentatori della mozione di sfiducia ci fosse quello di dare un’ulteriore spinta alle dimissioni di Mancuso, dato che, in base alle posizioni assunte dal presidente del consiglio nel dibattito del 31 maggio, risultava facilmente prevedibile che Dini non avrebbe posto la questione di fiducia sulla mozione stessa (così come era, invece, sempre accaduto in passato) e che si sarebbe, anzi, dissociato dal comportamento del suo ministro. Contrariamente a queste, ragionevoli, aspettative, non solo Mancuso non si dimise ma sollecitò, anzi, più volte la discussione della mozione, anche e soprattutto perché la «questione giustizia» aveva ormai spaccato l’originaria maggioranza governativa e forza Italia si era schierata in difesa del

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ministro. Dalla votazione della mozione di sfiducia avrebbe potuto derivare così una nuova maggioranza governativa di centro destra. Il 18 ottobre 1995 la mozione di sfiducia individuale venne, dunque, messa in discussione. La mozione partiva dalla considerazione che il ministro aveva del tutto disatteso gli indirizzi approvati dal senato il 31 maggio precedente, avendo egli assunto «iniziative che hanno determinato condizioni di conflittualità … al di fuori della collegialità di governo». In questo senso, la responsabilità del ministro poteva essere considerata, ai sensi dell’art. 95 Cost., esclusivamente individuale, cosicché, «ribadendo la fiducia al governo», la mozione poteva esprimere la sfiducia al ministro di grazia e giustizia, impegnandolo a presentare le dimissioni. Nel corso del dibattito, che fu estremamente teso, intervennero lo stesso Mancuso, e, per il governo, il ministro per le riforme istituzionali Motzo, al quale spettò, innanzitutto, il singolare compito di difendere il capo dello stato e il presidente del consiglio dai durissimi giudizi espressi da un ministro in carica. Nel merito della questione, il governo ribadì che la «specificità» costituzionalmente rilevante delle competenze del ministro della giustizia non avrebbe potuto far venire meno «né il principio di unità d’indirizzo politico del governo […] né il potere di indirizzo e di controllo del parlamento nei confronti del governo e dei singoli ministri». In base a questi principi ed alle posizioni già assunte nel merito dal presidente del consiglio, il governo, «anche in considerazione del fatto di essersi formato al di fuori di una maggioranza politica precostituita», decise di rimettersi alle determinazioni del parlamento (diversamente, la natura politica e non tecnica del governo sarebbe emersa senza equivoci, poiché, come si è detto, il ministro era infatti difeso dalle opposizioni di centro destra e avversato dalla maggioranza nel suo complesso). Per la prima volta, quindi, da quando nel 1984 la giunta per il regolamento del senato aveva riconosciuto la legittimità della mozione di sfiducia individuale (alla camera, essa è prevista nell’art. 115 del suo regolamento) questo istituto poteva essere usato senza che ciò coinvolgesse, in un primo momento, la responsabilità politica dell’intero governo. Al contrario, la sfiducia individuale fu utilizzata in questo caso per affermare la preminenza dell’indirizzo politico di maggioranza (così come esso era interpretato concordemente dal governo e dal parlamento) rispetto alle competenze dei ministri (e ciò malgrado il loro riconoscimento ex Constitutione), oltre che per dirimere un inedito contrasto tra il presidente del consiglio ed un ministro. Tuttavia, anche in questo caso, la naturale «vocazione» della sfiducia individuale a trasformarsi in una sorta di «questione di governo» è successivamente emersa: infatti, l’approvazione della sfiducia individuale ha determinato, quale conseguenza immediata, la successiva presentazione di una mozione di sfiducia da parte del centro destra all’intero governo, poi respinta dalla camera nell’ottobre 1995.

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Ciò detto, a seguito dell’approvazione della sfiducia, il capo dello Stato, su proposta del presidente del consiglio, forse nella consapevolezza del già annunciato ricorso del ministro dinanzi alla corte costituzionale, non revocò il ministro ma, preso atto della sfiducia parlamentare con cui «è venuta meno la condizione essenziale e indefettibile della permanenza nella carica», affidò l’interim del ministero di grazia e giustizia al presidente del consiglio (D.P.R. 19 ottobre 1995). Alle mancate dimissioni del ministro fece seguito la sollevazione, da parte di questi, di un conflitto di attribuzioni dinanzi alla corte costituzionale sia contro la mozione di sfiducia votata dal senato, sia contro il conseguente decreto con il quale il presidente della Repubblica aveva attribuito a Dini l’interim della giustizia. Secondo il ministro, in primo luogo, lo stesso istituto della mozione individuale di sfiducia sarebbe stato contrario alla Costituzione. Infatti, malgrado l’esplicita previsione di questo istituto nell’art. 115 del regolamento della camera ed il parere espresso nel 1984 dalla giunta per il regolamento del senato, la «personalizzazione» della mozione di sfiducia avrebbe condotto, in via generale, alla «parcellizzazione» del rapporto fiduciario fra le camere ed il governo, e ciò a scapito della unitarietà governativa. Per di più, e per quanto riguardava la responsabilità politica del ministro della giustizia, Mancuso sosteneva che gli artt. 107 e 110 Cost. attribuissero al ministro stesso una competenza amministrativa «non in quanto componente del governo quanto, piuttosto, come organo monocratico posto al vertice del dicastero della giustizia» e, dunque, non censurabile dal punto di vista politico. Il ricorso del ministro della giustizia obbligava la corte costituzionale ad affrontare innanzitutto una questione preliminare: quella della legittimazione di un singolo ministro a sollevare il conflitto di attribuzioni tra i poteri dello Stato. Sia in base alla legge (art. 2, comma 3, lett. g, della legge n. 400 del 1988) che alla giurisprudenza della stessa corte costituzionale (sent. n. 420 del 1995) il consiglio dei ministri sembrava essere il solo organo del governo competente alla sollevazione del conflitto; e ciò in base al principio, già affermato dalla corte, per il quale il potere esecutivo «non è un potere diffuso, ma si risolve nell’intero governo, in nome dell’unità di indirizzo politico e amministrativo proclamata dall’art. 95, comma 1, Cost.» (cfr. sul punto, in particolare, F. DONATI, Governo: unità di azione del governo e responsabilità individuale dei singoli ministri alla luce della sentenza della corte costituzionale n. 7 del 1996, in Quad. cost., 1997, pp. 357 ss.). Rispetto a questo principio le uniche eccezioni ammissibili consistevano, sempre secondo la giurisprudenza della corte, nella diretta tutela da parte del presidente del consiglio delle funzioni a lui costituzionalmente attribuite e proprio in quelle attribuzioni del ministro della giustizia derivanti dagli artt. 107 e 110 Cost. (cfr. sent. n. 379 del 1992).

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Questa giurisprudenza della corte sembrava in realtà non discutibile solo per quanto riguardava la legittimazione alla sollevazione dei conflitti per le funzioni proprie del presidente del consiglio. Le condizioni che sono, infatti, richieste dall’art. 37 della legge n. 87 del 1953 per la legittimazione alla sollevazione del conflitto sono, nella sostanza, due: la prima, che il conflitto riguardi attribuzioni determinate da norme costituzionali; la seconda, che il conflitto insorga tra organi competenti a dichiarare in via definitiva la volontà dei poteri cui essi appartengono. Rispetto a questa disposizione il presidente del consiglio, il consiglio dei ministri ed i singoli ministri non si trovano, evidentemente, in eguale posizione: perché, mentre tutti gli organi del governo (quindi anche i ministri) hanno una sfera di attribuzioni costituzionalmente determinata, solo la direzione della politica generale del governo (che spetta al presidente del consiglio) e la sua deliberazione (che spetta al consiglio dei ministri) appaiono essere funzioni in grado di dichiarare definitivamente la volontà del potere esecutivo complessivamente inteso, secondo quanto richiede il citato art. 37. Per questo, la giurisprudenza della corte relativa alla legittimazione del ministro della giustizia appariva non convincente, in quanto essa implicava che il ministro non fosse soggetto, nell’esercizio delle funzioni di cui agli artt. 107 e 110 Cost., al rispetto di quell’indirizzo politico di governo che il consiglio dei ministri può, invece, certamente deliberare anche nella materia della giustizia (così, S. BARTOLE, Il caso Mancuso alla corte costituzionale, in Giur. cost., 1996, pp. 67 ss.). La questione della legittimazione del ministro alla sollevazione del conflitto di attribuzioni rivestiva, dunque, un rilievo tutt’altro che procedurale e la risoluzione di questo problema poneva, in sostanza, la premessa per la risoluzione del­l’intera questione. Alla fine, contrariamente alla propria precedente giurisprudenza, il principio della preminenza dell’unità di indirizzo del governo è risultato, invece, il fondamento sia dell’ordinanza 27 ottobre 1995, n. 470 (con la quale la corte ha dichiarato ammissibile il ricorso di Mancuso), sia, soprattutto, della sent. n. 7 del 1996, nella quale la corte ha, infine, spiegato le ragioni per le quali il ministro della giustizia è stato ritenuto legittimato a sollevare, nel caso in esame, il conflitto. Quelle ragioni sono, significativamente, assai diverse da quelle invocate dal ricorrente, il quale aveva sostenuto essere titolare esclusivo «delle funzioni amministrative della giustizia ex artt. 107 e 110 Cost.», cosicché proprio l’esclusività ex Constitutione di quelle funzioni ed il loro livello amministrativo avrebbero abilitato, da un lato, il ministro alla sollevazione del conflitto, ed avrebbero escluso, dall’altro, qualsiasi sindacato politico delle camere sulle modalità del loro esercizio. Al contrario, il rifiuto, da parte della corte, di un modello «diffuso» del potere esecutivo, l’ancoraggio del potere di sollevazione dei conflitti alla competenza esclusiva del consiglio dei ministri, l’assimilazione, in base a

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questi superiori principi, della posizione del ministro della giustizia a quella degli altri ministri hanno condotto la corte stessa ad un’interpretazione dell’art. 95 Cost. del tutto opposta rispetto alla prassi della «direzione plurima dissociata» che aveva, invece, caratterizzato l’indirizzo politico di governo negli ultimi cinquanta anni della nostra storia costituzionale. Infatti, le argomentazioni di Mancuso si presentavano particolarmente insidiose proprio laddove rilevavano che, quando l’attività di un ministro si svolge sul piano puramente amministrativo, la presenza di una pluralità di rimedi di giustizia amministrativa esclude del tutto che «regole di buona amministrazione» possano essere dettate con istituti politici quali la mozione di sfiducia. È del tutto evidente che l’accettazione di un’impostazione come quella sopra riportata avrebbe condotto a concludere che l’attività individuale dei ministri si collocherebbe in una sfera sottratta a qualsiasi tipo di controllo o di indirizzo politico: e ciò, non soltanto da parte delle camere ma anche da parte dello stesso governo. Il grande rilievo politico-costituzionale della sent. n. 7 sta, dunque, nel fatto che la corte ha capito, con grande sensibilità istituzionale, che sarebbe stato assai pericoloso affermare la costituzionalità della sfiducia individuale senza aver stabilito contemporaneamente che la responsabilità individuale dei ministri, di cui all’art. 95 Cost., è indissolubilmente collegata (nel senso che ne costituisce la necessaria specificazione) all’indirizzo politico generale del governo. Secondo la corte, infatti, i costituenti, definendo come «individuale» la responsabilità dei ministri, avrebbero avuto proprio l’intento «di stabilire una correlazione fra le due forme di responsabilità – collegiale ed individuale – nel comune quadro della responsabilità politica». In altre parole, il primo significato del principio per il quale i ministri sono individualmente responsabili degli atti dei loro dicasteri non è volto a sottolineare, come comunemente si afferma, che i ministri sono, per quegli stessi atti, responsabili di fronte al parlamento, ma vale, invece, nel senso che essi sono anzitutto responsabili nei confronti dell’organo governo per come essi attuano, in via amministrativa, l’indirizzo politico governativo. A questa prima conclusione della corte si sarebbe potuto obiettare che essa avrebbe potuto condurre, se non meglio precisata, ad introdurre una gerarchia fra gli organi del governo che risulta inammissibile, dato che l’art. 95 Cost. ha fatto propria, come abbiamo più volte sottolineato, la tradizionale configurazione dei ministri come organi costituzionali. È proprio a questo proposito che la corte introduce, invece, una preziosa distinzione, che vale ad individuare, in maniera chiarissima, qual è la «dottrina» della stessa corte a proposito della struttura del governo nella forma di governo parlamentare. Secondo la corte, dunque, se è vero che i ministri sono obbligati all’attuazione dell’indirizzo politico di governo «nella duplice veste di compo-

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nenti del governo e di vertici dei dicasteri», è altrettanto vero che tale obbligo grava sia sul presidente del consiglio che sul consiglio dei ministri. Affermare, infatti, come fa la corte, che la responsabilità politica del governo si svolge in «un comune quadro», significa anche dire che l’unità dell’indirizzo politico governativo deve essere mantenuta nella fase della sua attuazione attraverso un obbligo, eguale e solidale, che grava su tutti gli organi del governo, ognuno nell’ambito delle proprie competenze. Da questo punto di vista, dunque, gli organi del governo si trovano in una situazione di assoluta parità: ciò è del tutto conforme al principio della posizione paritaria che deve intercorrere tra tutti gli organi costituzionali. La costituzionalità delle funzioni proprie dei ministri non sta, dunque, secondo la corte, nell’insindacabile libertà con la quale essi possono interpretare l’indirizzo di governo. Il bilanciamento dei diversi interessi costituzionali si compone in un equilibrio in base al quale il singolo ministro interpreta individualmente l’interesse di settore del proprio dicastero e, tuttavia, quell’interesse deve comporsi con il comune indirizzo politico in un quadro che non sta al singolo ministro decidere o giudicare. L’inquadramento costituzionale delle prerogative dei ministri viene, allora, interpretato dalla corte in una nuova, e del tutto corretta, accezione: da un lato, come si è detto, sul fronte della comune solidarietà degli organi del governo nell’attuazione dell’indirizzo politico; dall’altro, sul fronte della loro partecipazione alla determinazione dell’indirizzo stesso «nella veste di componenti della compagine governativa». La corte riafferma, quindi, in questo passaggio, un principio che si pone alle stesse basi della nostra forma di governo: quello della collegiale determinazione dell’indirizzo politico di governo; il che vale a dire che solo il consiglio dei ministri risulta competente a deliberare, ai sensi dell’art. 95 Cost., la «politica generale» del governo. Da questo punto di vista, dunque, la corte dà un autorevole avallo all’interpretazione che è stata data al problema dall’art. 2, comma 3, lett. a), della legge n. 400 del 1988, per il quale solo il consiglio dei ministri è considerato competente a deliberare l’indirizzo politico di governo quale risulta dalle dichiarazioni del governo che ad esso si riferiscono, dagli impegni programmatici e dalle questioni aventi tale rilievo da essere collegate alla permanenza del rapporto fiduciario. Se la corte non ha dovuto, su questo punto, insistere più di tanto, data la quasi assoluta concordia della dottrina su questa impostazione, molto maggiore è, invece, il rilievo che assume l’altra conclusione della corte, che tende ad esaltare la «responsabilità collegiale» del governo anche nella fase dell’attuazione dell’indirizzo politico. Da questo punto di vista, la sent. n. 7 del 1996 deve essere interpretata nel senso della piena legittimazione di tutti gli istituti che oggi, in base alla legge n. 400 del 1988 ed al regolamento del consiglio dei ministri, promuovono e coordinano l’attività ministeriale, sia in relazione ai poteri propri del presidente, sia in relazione a quelli propri del consiglio dei mi-

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nistri. Si può, anzi, dire che nella sentenza in questione trova autorevole conferma quella linea evolutiva della nostra forma di governo che ha interpretato i poteri di promozione e di coordinamento del presidente del consiglio nel senso di ritenerli finalizzati alla promozione della collegialità delle decisioni e dell’agire governativo (E. CHELI, V. SPAZIANTE, Il consiglio dei ministri, cit.). Ciò detto, rimane tuttavia vero che nel nostro sistema vigente il massimo di coordinamento possibile consiste, oggi, nella prerogativa riconosciuta al presidente del consiglio di sospendere l’adozione di atti da parte dei ministri competenti e di provocare su di essi una decisione del consiglio dei ministri (art. 5, comma 2, lett. c, legge n. 400 del 1988). Ciò significa che, se attraverso una decisione collegiale è possibile impedire l’adozione di un atto ministeriale in contrasto con l’indirizzo generale di governo, risulta, però, impossibile imporre al singolo ministro l’adozione di atti conformi alle deliberazioni collegiali (in questo senso, P. CARETTI, Risposta alle sei domande sollevate dal caso Mancuso, in Giur. cost., 1995, p. 4668). Nel caso Mancuso, tuttavia, è mancata proprio l’adozione da parte del presidente del consiglio di iniziative atte a provocare, attraverso decisioni del consiglio dei ministri, una riconduzione (anche se solo attraverso poteri di interdizione degli atti) della complessiva attività del ministro all’indirizzo del governo in materia di giustizia. Come si è ricordato, le iniziative ispettive di Mancuso non avevano incontrato l’approvazione del presidente del consiglio il quale, ritenendole incoerenti con la politica generale del governo, aveva preferito, piuttosto che attivare iniziative idonee a risolvere il contrasto all’interno del potere esecutivo, promuovere una prima iniziativa parlamentare attraverso la quale l’indirizzo politico nella «questione giustizia» era stato stabilito non dal consiglio dei ministri ma direttamente dalla maggioranza parlamentare. Proprio questo modo di procedere era stato giudicato non corretto da parte di Mancuso, il quale aveva argomentato in una delle memorie presentate alla corte che il solo modo legittimo di dimostrare la non coerenza dell’attività da lui svolta con l’indirizzo politico sarebbe stato, appunto, l’adozione di puntuali decisioni da parte del consiglio dei ministri. È del tutto evidente che, in base alle considerazioni svolte dalla corte sulla «collegialità di governo quale mezzo necessario per assicurare l’unitarietà dell’indirizzo», il presidente del consiglio avrebbe dovuto assumere l’iniziativa proprio in questa direzione. Tuttavia, ed anche questo punto della sentenza appare di grande rilievo, la corte si è rifiutata di «indagare sulle ragioni che non hanno consentito, nel caso di specie, una soluzione siffatta». Sia che il presidente del consiglio ritenesse inutile una decisione collegiale (forse per l’atteggiamento di aperta sfida al governo manifestato dal suo ministro), sia che egli la ritenesse inopportuna data la natura «tecnica» del suo governo, sia che egli, e proprio per questa ragione, rite-

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nesse preferibile supplire all’indirizzo di governo con l’indirizzo di maggioranza, la corte costituzionale si è rifiutata, e giustamente, di entrare nel merito dei motivi che avevano determinato una decisione che appare di natura squisitamente politica. In altri termini, dunque, affermata la legittimità costituzionale dei poteri di coordinamento dei ministri, il loro uso, o non uso, in concreto è giudicato essere dalla corte costituzionale una political question, insuscettibile di essere sindacata in sede giurisdizionale. D’altra parte, come si dirà tra poco, la corte sembra aver posto una seconda political question a fondamento delle stesse motivazioni con le quali essa ha respinto la richiesta di annullamento della mozione di sfiducia individuale avanzata dal ministro Mancuso. Prima di affrontare tale problema, la corte ha, tuttavia, dovuto pronunciarsi su una questione che era davvero alla base dell’intero conflitto di attribuzioni: quella della legittimità costituzionale della stessa mozione di sfiducia individuale; legittimità che era stata negata dal ministro Mancuso in base alla considerazione che il rapporto di fiducia fra le camere ed il governo deve valere «nel suo complesso» e non è suscettibile di essere «parzializzato e parzialmente revocato». La tesi del ministro si presentava (ed è stato, in fondo, anche questo ad aver reso la decisione della corte così importante) tutt’altro che isolata, dato che gran parte della dottrina aveva continuato a sostenere l’incostituzionalità della mozione di sfiducia individuale, malgrado la già ricordata pronuncia della giunta per il regolamento del senato e la previsione dell’art. 115 del regolamento della camera, come modificato nel 1986, che avevano recepito questo istituto, utilizzato nel passato in maniera spesso ambigua. A dire il vero, i dubbi di costituzionalità della mozione di sfiducia individuale si erano accentuati con il progressivo stabilizzarsi fino al 1992 della nostra forma di governo materiale in quella sottospecie del governo parlamentare che si è definita del «governo coalizionale dei partiti». In questo contesto, la sfiducia individuale aveva necessariamente conosciuto una prassi alquanto sporadica e limitata, dato che, come è stato giustamente osservato, «fin tanto che la logica del sistema del governo parlamentare di coalizione investe la stessa composizione del governo, ogni eventuale variazione dei suoi membri coinvolge automaticamente e direttamente l’accordo politico generale sulla cui base è stata conferita la fiducia dalle diverse componenti della maggioranza all’intero governo; in tal modo dunque non rimane alcuno spazio per un ruolo relativamente autonomo dei soggetti istituzionali» (G. AZZARITI, Risposta alle sei domande sollevate dal caso Mancuso, in Giur. cost., 1995, p. 4656). Come si è accennato, all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione era parso, invece, che questo istituto potesse svolgere un’importante funzione di salvaguardia dell’unità e dell’omogeneità del governo; e ciò, almeno da parte di chi riteneva che l’art. 92 Cost. non consentisse al pre-

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sidente del consiglio di proporre al capo dello Stato la revoca di un ministro del cui operato o della cui capacità egli avesse da dolersi (così, G. GUARINO, Revoca dei ministri, in Rass. dir. pubbl., 1948, p. 133). In tali casi, secondo questa dottrina, come si è accennato in precedenza, lo stesso presidente del consiglio avrebbe potuto «proporre la questione ad una delle camere e chiedere che questa ritiri la propria fiducia al ministro incriminato», a meno di non voler presentare, con le proprie, le dimissioni dell’intero governo (G. GUARINO, Revoca, cit.). Il merito di questa acuta opinione era quello di collegare strettamente il problema dell’ammissibilità della sfiducia individuale a quella della revocabilità dei ministri da parte del presidente del consiglio. Se si riteneva, infatti, che alla base della nuova forma di governo costituzionale si ponesse l’unità dell’indirizzo politico governativo, avrebbe dovuto essere data a chi dirige la politica generale del governo e ne è responsabile la possibilità di porre in essere iniziative tali da salvaguardarla nei fatti. Tutto questo avrebbe potuto essere raggiunto o all’interno del governo (con la revoca, appunto) o all’interno del rapporto fiduciario fra governo e parlamento (con la promozione della sfiducia individuale). Nel primo caso, il presidente del consiglio avrebbe avuto una posizione costituzionale simile a quella del prime minister, nel secondo egli avrebbe agito almeno come leader della maggioranza parlamentare. Come si è ricordato, non vi è dunque da meravigliarsi se, in seguito all’affermazione di quella forma di governo descritta nei capitoli precedenti, sia stata smarrita l’idea della praticabilità della revoca dei ministri sia quella della possibile attivazione della sfiducia individuale. Negli anni più recenti la legittimità della sfiducia individuale è stata, infatti, sostenuta solo da una parte, in verità esigua, della dottrina la quale ha continuato a ritenere che la Costituzione materiale vigente non potesse entrare in contraddizione con quella concezione vincolante dell’unità di indirizzo politico del governo, che è principio fondamentale ai sensi degli artt. 94 e 95 Cost. (cfr. in questo senso, per tutti, M. GALIZIA, Studi, cit., p. 324; G.U. RESCIGNO, Ancora in tema di responsabilità del singolo ministro, in Studi parl. pol. cost., 1981, pp. 10 ss.). Al contrario, la maggior parte della dottrina sembrava ormai orientata a sostenere l’incostituzionalità della sfiducia individuale in base a ragioni di ordine più formale-sistematico: ad esempio, in quanto si osservava che l’individualizzazione della sfiducia avrebbe presupposto anche la possibilità di individualizzazione della fiducia nel momento iniziale di questa, e l’affermazione del potere del singolo ministro di porre la questione di fiducia (cfr. in questo senso, L. PALADIN, Governo italiano, cit., p. 697); oppure in quanto si rilevava che essa si mostrava in radicale contraddizione con la forma di governo vigente «di coalizione necessaria e paritetica», e si concludeva, con un singolare rovesciamento logico, rispetto alle ricordate argomentazioni di Guarino e di Galizia, che questo istituto si mostrava funzionale solo ad una conce-

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zione di governo «per ministeri» o «per feudi» (così, A. MANZELLA, Il parlamento, Bologna, Il Mulino, ed. 1991, pp. 309-310). In realtà, le obiezioni di carattere formale-sistematico alla praticabilità della sfiducia individuale (obiezioni che erano state fatte proprie anche dal ministro ricorrente) erano, invece, tutt’altro che insuperabili. La mozione di fiducia e quella di sfiducia sembravano, anzitutto, rispondere a ragioni diverse: perché, se è vero che nella mozione di fiducia la struttura complessiva del governo appare inscindibilmente connessa all’indirizzo politico che il governo, nel suo complesso, propone alle camere, la sfiducia individuale consente, invece, di valutare il rapporto fra l’indirizzo politico concordato tra il governo e parlamento e quello effettivamente perseguito dai singoli ministri. Inoltre, la posizione della questione di fiducia sembra del tutto al di fuori dell’iniziativa ministeriale, in quanto essa risulta essere indissolubilmente collegata ai poteri di direzione propri del presidente del consiglio, come, del resto, appare sia dalla tradizione che, oggi, dall’art. 2, comma 2, della legge n. 400 del 1988. D’altra parte, negare la costituzionalità della sfiducia individuale avrebbe significato non soltanto privare il governo di uno strumento oggi assai utile al mantenimento dell’unità dell’indirizzo governativo, ma privare il parlamento (e, nel parlamento, le minoranze parlamentari) di un fondamentale istituto di controllo della politica governativa. La corte costituzionale, dichiarando la piena legittimità costituzionale della mozione di sfiducia individuale, ha voluto, dunque, tenere conto sia della funzione che questo istituto può svolgere nel «recupero dell’unitarietà dell’indirizzo» proprio del governo (ponendosi, per questa parte, in sintonia con la tradizionale dottrina), sia della funzione più garantista della sfiducia individuale, considerata del tutto consona a consentire al parlamento di rendere concreta quella responsabilità individuale dei ministri letteralmente affermata nell’art. 95 Cost. La duplice finalità della mozione di sfiducia, che è più volte ribadita nella sent. n. 7 del 1996, risulta, d’altra parte, di grande importanza non solo dal punto di vista pratico, ma anche dal punto di vista del metodo attraverso il quale la corte ha raggiunto una conclusione così equilibrata da apparire perfettamente adeguata rispetto alla complessiva forma di governo vigente. Così, di fronte a chi aveva sottolineato i rischi di assemblearismo derivanti dalla legittimazione di un controllo parlamentare «individualizzato», la corte ha replicato richiamandosi al valore della consuetudine, che ha sempre consentito, nel passato, al presidente del consiglio di «trasferire la questione di fiducia sull’intero governo». Così, e per quanto riguarda, invece, il fronte dei rapporti tra governo e parlamento, la corte ha attribuito un valore fino ad allora non riconosciuto ai regolamenti parlamentari ed alla loro prassi esecutiva. Quando questi elementi «siano in armonia con il sistema costituzionale, come nel ca-

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so di specie», ha dichiarato la corte, essi «contribuiscono ad integrare le norme costituzionali scritte», assumendo la forma di «vere e proprie consuetudini costituzionali» (cfr. sul punto, le lucide osservazioni di A. MANZELLA, La sentenza costituzionale sul caso Mancuso. Una decisione nel solco della tradizione parlamentare nazionale, in Gazz. giur. Giuffrè, n. 3, Milano, 1996, pp. 2 ss.). Ancora, il valore della prassi e delle consuetudini costituzionali è richiamato dalla corte a proposito della possibile utilizzazione di poteri governativi atti a risolvere la rottura del raccordo politico fra parlamento e governo prima dell’utilizzazione dell’istituto (in sé traumatico) della sfiducia individuale. È a questo proposito che la corte, elencando gli istituti utilizzabili a questo fine, cita, in primo luogo, le dimissioni del singolo ministro (ricordando implicitamente a Mancuso che una regola di correttezza costituzionale imporrebbe al ministro che si trovi in una situazione di contrasto con il governo di dimettersi spontaneamente), oppure, ed in alternativa a questo, le dimissioni dell’intero governo che possono consentire, come affermato anche dalla dottrina, la ricostituzione di un nuovo governo identico al precedente, ma privo del ministro dissenziente. In questo quadro, appare significativo che la corte non citi, fra gli istituti utilizzabili all’interno del governo, la revoca del ministro, che potrebbe essere disposta con decreto del presidente della Repubblica, su proposta del presidente del consiglio (la sentenza ammette solo espressamente la revoca da parte del capo del Stato, su proposta del presidente del consiglio, di un ministro che, sfiduciato da una camera, non intenda dimettersi). Tuttavia, dalla sent. n. 7 del 1996 in oggetto non escono certo valorizzate alcune delle obiezioni che erano state utilizzate in passato contro l’utilizzabilità di questo strumento. Infatti, ammettendo la sfiducia individuale, la corte ha preso posizione contro quella parte della dottrina la quale aveva ritenuto che l’iniziale votazione della mozione di fiducia determinasse una situazione per la quale i ministri aut simul stabunt aut simul cadent. Da questo punto di vista, disattendendo autorevoli opinioni dottrinali, la corte nega l’incostituzionalità dell’istituto, negando il parallelismo tra mozione di fiducia e mozione di sfiducia, la prima consistendo in una valutazione globale della composizione del nuovo governo e del suo programma, la seconda è, invece, «un giudizio eventuale e successivo su comportamenti e, quindi, è valutazione non necessariamente rivolta al governo nella sua collegialità, bensì suscettibile di essere indirizzata anche al singolo ministro». D’altra parte, l’approvazione di tale mozione anche sul piano politico non sempre si traduce in una sorta di sfiducia implicita allo stesso governo, dato che, come nel caso Mancuso, è ben possibile che il presidente del consiglio possa prendere posizione contro il ministro, «separando così in maniera espressa la responsabilità politica del ministro nei cui confronti è

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diretta la mozione individuale di sfiducia da quella del governo» (P. CARETTI, Risposta alle sei domande, cit., p. 4669). Tuttavia, malgrado queste osservazioni e malgrado la registrazione dell’esistenza di un’opinione dei costituzionalisti ormai generalmente favorevole alla legittimità della revoca (si veda, in proposito, il già citato dibattito su I costituzionalisti e il caso Mancuso), la corte ha preferito, in questo caso, privilegiare, evidentemente, l’esistenza di una consuetudine contraria alla revoca dei ministri, anche se proprio nella sentenza in esame, come si è accennato, «la corte ha consentito al capo dello Stato di “revocare” il ministro sfiduciato nonostante che tale potere non trovasse alcun esplicito riconoscimento normativo» (F. DONATI, Governo, cit.). D’altra parte, sembra difficile ipotizzare una forma di governo del primo ministro basata soltanto sul potere di nomina e di revoca dei ministri. Se, infatti, si ritiene, come si deve ritenere, che questa forma di governo sia caratterizzata, oltre che dalla preminenza del primo ministro nel governo, anche dalla sua preminenza nei confronti del parlamento (e ciò nel senso che il primo ministro è anche necessariamente il leader della maggioranza parlamentare), sembra necessario che in essa ai poteri del governo si aggiungano, a favore del primo ministro, anche poteri di direzione e di controllo del parlamento, quali la determinazione dell’ordine del giorno delle camere e lo stesso potere di scioglimento anticipato del parlamento (in questa prospettiva, la corte costituzionale ha negato l’ammissibilità della sfiducia individuale degli assessori a livello regionale, laddove la forma di governo regionale, centrata sull’elezione diretta del presidente con il noto meccanismo del aut simul stabunt aut simul cadent, «esclude che possano essere introdotti circuiti fiduciari collaterali ed accessori rispetto alla presuntiva unità di indirizzo politico derivante dalla contemporanea investitura popolare di presidente e consiglio», per cui «l’approvazione di una mozione di sfiducia da parte del secondo o le dimissioni del primo fanno venir meno la presunzione di consonanza politica derivante dalla consultazione elettorale e rendono necessario, in modo coerente, un nuovo appello al popolo, al quale si chiede di restaurare il presupposto fondamentale della omogeneità di indirizzo politico che deve caratterizzare i programmi e le attività sia del presidente che del consiglio»: sent. n. 12 del 2006). Peraltro, anche ammettendo la praticabilità attuale della revoca del ministro dissenziente su iniziativa del presidente del consiglio, non sembra davvero che da questo derivi necessariamente l’inammissibilità della mozione di sfiducia individuale. Infatti, una conclusione di tale genere (così, G. BOGNETTI, Risposta alle sei domande sollevate dal caso Mancuso, in Giur. cost., 1995, pp. 4663 ss.) finisce per confondere proprio i due ordinamenti che la corte ha voluto, invece, tenere nettamente distinti: quello interno al governo e quello che si riferisce, invece, ai rapporti che intercorrono tra governo e parlamento. Se è vero, infatti, che l’esistenza di un

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potere di revoca dei ministri ridurrebbe drasticamente la possibilità di rotture dell’unità di indirizzo politico dall’interno della compagine governativa, non si deve dimenticare che la sfiducia individuale rimarrebbe comunque come un istituto a disposizione della minoranza parlamentare quale atto finalizzato a censurare anche di fronte all’opinione pubblica le attività dei ministri, sia che queste vengano compiute in coerenza con l’indirizzo di governo, sia che esse si differenzino da quello nell’indifferenza del consiglio dei ministri, del suo presidente e della maggioranza parlamentare. D’altra parte, e dando per acquisito (anche in base alle considerazioni svolte poco sopra) che, malgrado l’abbandono a partire dal 1993 delle vecchie leggi elettorali di stampo proporzionale ed il diverso, conseguente ruolo dei partiti, la nostra forma di governo appare comunque ancora lontana da quella del primo ministro (cfr. in senso contrario, G. BOGNETTI, Risposta, cit., p. 4664), anche se si ammettesse l’esistenza del potere di revoca, non si vede perché si debba oggi negare al presidente del consiglio la possibilità di ricompattare governo e maggioranza parlamentare attorno ad un controverso problema di interpretazione dell’indirizzo di governo (causato dal comportamento di un ministro), preferendo, così come è avvenuto nel caso Mancuso, che indirizzo e sanzione siano posti dalla maggioranza parlamentare: tutto questo a condizione, ovviamente, che la maggioranza che pone l’indirizzo nel caso concreto (e sanziona l’eventuale comportamento difforme) sia la stessa maggioranza che sostiene il governo. D’altra parte, un ulteriore, fondamentale insegnamento che deriva dalla sent. n. 7 del 1996 riguarda proprio il rapporto tra parlamento e governo nella definizione dell’indirizzo politico. Secondo quanto ha ricordato la corte, la determinazione dell’indirizzo politico non è, infatti, una funzione che si può ritenere spettare al solo governo. In base ad una lettura del comma 2 dell’art. 94 Cost. che si richiama alle già citate, lucide tesi di Cheli e Galizia, l’indirizzo politico è, per la corte, determinato dal concorso «di parlamento e governo». Dunque, è nella mozione motivata con la quale il parlamento approva il programma presentato dal presidente del consiglio che si determina ciò che può essere definita come «maggioranza di governo». La maggioranza di governo risulta, perciò, essere costituita dalla maggioranza parlamentare che si aggrega a sostegno del programma e dal governo, che propone il programma e che assume il dovere costituzionale di attuarlo. Ecco perché unico è l’indirizzo politico del governo e del parlamento; ecco perché il parlamento può attivarsi per chiedere conto al governo della coerenza con l’indirizzo politico degli atti dei ministri, senza che ciò significhi l’instaurazione di un governo assembleare. In questo percorso, ed in questo quadro, si pone l’affermata insindacabilità del giudizio politico che spetta al parlamento esprimere sia sui motivi che determinano la fiducia, sia su quelli che comportano la sfiducia.

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Sul punto, il ministro Mancuso aveva eccepito che, anche se si fosse ammessa la legittimità della mozione di sfiducia individuale, sarebbe spettato alla corte costituzionale il giudizio sulla fondatezza dei motivi in base ai quali la maggioranza del senato aveva ritenuto di dover censurare gli atti del ministro della giustizia, la legittimità dei quali «era stata ampiamente confermata dai giudici del Tar di Milano». Su questa questione, la corte costituzionale ha affermato un ulteriore, importante principio, ovvero che è quello dell’assoluta indipendenza tra giudizio tecnico-giuridico (e quindi anche giudiziario) e giudizio politico, cosicché la natura amministrativa dell’attività di un ministro, l’esistenza di una pronuncia del giudice amministrativo non impediscono l’esercizio di un sindacato diverso, quello cioè che può essere esercitato dal parlamento attraverso la mozione di sfiducia. La sovranità popolare e il giudizio politico sono, in ultima analisi, indipendenti e prevalenti rispetto ad altri giudici e ad altri giudizi; e dato che il giudizio politico ha come fine quello della rimozione degli organi, e non degli atti da essi deliberati, tale giudizio non si pone in contrasto con i principi fondamentali dello Stato di diritto. Ecco perché la corte ha voluto affermare, con chiarezza, che «l’atto oggetto del ricorso contiene valutazioni del senato che, proprio perché espressioni della politicità dei giudizi a quest’ultimo spettanti, si sottraggono, in questa sede, a qualsiasi controllo attinente al profilo teleologico». È questa, nella sent. n. 7 del 1996, la seconda, e forse più rilevante, political question affermata dalla corte costituzionale. Come è stato giustamente sottolineato, tale pronuncia appare particolarmente significativa nella misura in cui «riconosce alla forma di governo parlamentare scelta dal Costituente, la capacità di produrre regole necessarie alla sua realizzazione, in quanto la forma di governo è a fattispecie aperta, non essendosi voluto pregiudicare talune modalità attuative di quella forma» (L. ELIA, La forma di governo della nostra Repubblica negli anni 1956-2006 (pronunce della corte costituzionale e contributi dottrinali in «Giurisprudenza costituzionale»), in A. PACE, a cura di, Corte costituzionale e processo costituzionale nell’esperienza della rivista «Giurisprudenza costituzionale» per il cinquantesimo anniversario, Milano, Giuffrè, 2006, p. 318). Con ciò, il giudice costituzionale, condivisibilmente, accoglie una tesi che unisce la difesa rigorosa del tessuto costituzionale ad un’interpretazione evolutiva, suscettibile «di attenuare la rigidità del disegno e il rischio di lacerazioni connesse al grado di invecchiamento di talune parti del tessuto costituzionale» (E. CHELI, Tendenze recenti della giustizia costituzionale in tema di forma di governo, in A. PIZZORUSSO, R. ROMBOLI, E. ROSSI, Il contributo della giurisprudenza costituzionale alla determinazione della forma di governo italiana, a cura di S. PANIZZA, Torino, Giappichelli, 1997, p. 12). Come si dirà, la prassi ha evidenziato ulteriori problemi, a cominciare dal problema dell’ammissibilità della sfiducia ai

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sottosegretari e ai vice-ministri e quella riferita all’eventualità di una sfiducia a più ministri, che finisce per atteggiarsi, a tacer d’altro, come una via surrettizia e obliqua per mettere in discussione la permanenza in carica dell’intero governo. Problematica, ma ammessa nella prassi, è l’ammissibilità di una sfiducia individuale diretta al presidente del consiglio in quanto titolare ad interim anche di un Ministero; ma tale eventualità conferma i dubbi di fondo relativi all’attribuzione anche temporanea di un incarico ministeriale al presidente del consiglio (cfr. infra, par. 4). La perdita della carica di ministro, oltre che per morte o dimissioni, può intervenire anche per cause ulteriori: tra queste la decadenza a seguito di condanna definitiva per uno dei gravi reati che danno luogo all’incandidabilità elle elezioni politiche (art. 6, d.lgs. n. 235 del 2012; la condanna per questi stessi reati inibisce l’assunzione della carica di ministro) o la condanna per un reato ministeriale (o non ministeriale) che comporti l’interdizione dai pubblici uffici.

4. Gli organi non necessari del Governo tra legge n. 400 del 1988 e prassi La legge n. 400 per la prima volta nella storia della Repubblica disciplina espressamente gli organi non necessari del governo che peraltro avevano caratterizzato la struttura del governo fino dalla prima legislatura (cap. 2, par. 3). Così, trovano una disciplina espressa organi collegiali quali il consiglio di gabinetto, i comitati interministeriali (artt. 6 e 7) e organi di tipo individuale, quali il vice-presidente del consiglio (art. 8), i ministri senza portafoglio (art. 9), i sottosegretari di Stato e i vice-ministri (art. 10), i commissari straordinari (art. 11). Tra questi, alcuni sono sporadicamente costituiti, altri invece sono costantemente presenti nelle diverse compagini governative anche delle ultime legislature (così, ad esempio, ministri senza portafoglio e sottosegretari di Stato). La dottrina maggioritaria ritiene che, in linea di principio, la previsione di tali organi con legge ordinaria (e prima ancora in via di prassi, salvo che per i sottosegretari disciplinati già in epoca statutaria con la legge 12 febbraio 1888, n. 5195) non ponga problemi di legittimità costituzionale, sia perché la scarna disciplina costituzionale del governo (artt. 92-95 Cost.) non è tale da imporre una disciplina compiuta e cogente dell’organizzazione del governo, sia perché ad esso, così come agli altri organi costituzionali, spetta un potere di autoorganizzazione, «con la conseguenza che il governo stesso può essere definito come un organo a composizione aperta» (L. PALADIN, Diritto costituzionale, cit., p. 411). Da questo punto di vista, suscitano qualche problema di legittimità costituzionale le recenti

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disposizioni legislative che impongono un numero massimo di componenti del governo (in concreto, 65, ivi compresi quindi ministri senza portafoglio, vice-ministri e sottosegretari: art. 1, comma 376, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, come modificato dall’art. 15, comma 3-bis, del d.l. 30 dicembre 2009, n. 195, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2010, n. 26). Gli organi non necessari del governo possono essere distinti a seconda che essi siano di tipo collegiale ovvero monocratico. A) Iniziando dai primi, il consiglio di gabinetto costituisce una innovazione che codificava alcuni precedenti risalenti al periodo costituzionale provvisorio (a partire dal II governo Badoglio: cfr. supra, cap. 2, par. 1) e, nel periodo immediatamente precedente l’entrata in vigore della legge n. 400, al I governo Craxi nel quale la presenza, inedita, dei segretari di partito (tranne quello della DC) aveva reso congeniale l’istituzione di una sede istituzionale per dirimere contrasti politico-programmatici, rendendo meno frequenti i «vertici di maggioranza» e quindi per ricondurre ad unità i diversi indirizzi di cui ciascuna forza politica era portatrice nei governi di coalizione (con particolare riferimento a questioni particolarmente complesse o impreviste). Peraltro, la prassi più recente ha ormai reso obsoleto tale organo che infatti ormai da circa un trentennio non risulta più istituito. L’art. 6 della legge n. 400 prevede che «il presidente del consiglio dei ministri, nello svolgimento delle funzioni previste dall’articolo 95, primo comma, della Costituzione, può essere coadiuvato da un comitato, che prende nome di consiglio di gabinetto, ed è composto dai ministri da lui designati, sentito il consiglio dei ministri» (comma 1), precisando poi che «il presidente del consiglio dei ministri può invitare a singole sedute del consiglio di gabinetto altri ministri in ragione della loro competenza» (comma 2). L’art. 6 attribuisce quindi al potere di direzione-organizzazione del governo proprio del presidente del consiglio la decisione circa l’an della costituzione del consiglio di gabinetto ed al quomodo della sua formazione. Anche le funzioni sono strettamente correlate ai poteri di direzione del governo attribuiti dall’art. 95 Cost. al presidente del consiglio: e ciò appare una previsione significativa, nella misura in cui essa intende escludere rischi di sovrapposizione con le competenze del consiglio dei ministri, che peraltro durante il I governo Craxi si erano verificate (P. GIOCOLI NACCI, Articolazioni, cit., pp. 9 ss.). In effetti, incidendo le sue determinazioni nella «politica generale del governo», sussiste il rischio che tale organo finisca per appropriarsi dei poteri deliberativi dell’indirizzo politico generale del governo; poteri che, incontestabilmente, sono attribuiti dalla Costituzione al consiglio dei ministri, congiuntamente alle relative disponibilità. Inoltre, anche per quanto riguarda la sua composizione, ed a differenza

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di quanto è proprio del cabinet britannico, i membri del consiglio di gabinetto non sono scelti liberamente dal presidente del consiglio, ma sono destinati ad essere individuati in quanto «delegati politici» maggiori dei partiti che partecipano al governo (come in effetti è avvenuto nella prassi); il che sottolinea il valore politico delle funzioni effettuate da tale organo che di fatto, quando è stato costituito, si è posto come una sorta di trait d’union fra il governo e i partiti della coalizione. Come si è accennato, da circa un trentennio il consiglio di gabinetto non è più stato istituito, perché si è rivelato una creatura effimera, spesso scavalcata sul piano istituzionale; in particolare, esso non è riuscito ad arginare la prassi dei continui vertici di maggioranza (si pensi, ad esempio, a quelli ripetuti per la definizione della «staffetta») che, non a caso, il governo Andreotti VI avrebbe voluto far svolgere a cadenza mensile. Così, il consiglio di gabinetto ha finito per essere relegato ad un ruolo marginale: il governo Goria, ad esempio, lo ricostituì solo dopo la crisi rientrata nel novembre 1987 ma esso si riunì solo saltuariamente. B) Di comitati interministeriali si è già parlato prima a proposito della nascita del comitato interministeriale per il credito e il risparmio (cfr. cap. 1, par. 13) e poi dell’istituzione del CIPE con la legge n. 48 del 1967. Con tale legge, approvata nella stagione dei governi di centro sinistra, fu tentata una riforma dei comitati interministeriali, nell’ambito dell’istituzione degli organi della programmazione economica. In particolare, oltre alla valorizzazione del ministro del bilancio nell’ambito dell’indirizzo governativo della programmazione economica, la legge istituiva il CIPE cui venivano attribuite, «ferme restando le competenze del consiglio dei ministri e subordinatamente ad esse», le funzioni di predisporre gli indirizzi della politica economica generale, di elaborare le linee generali per l’elaborazione del «programma economico nazionale» e del progetto del bilancio di previsione dello Stato, di armonizzare la politica economica nazionale con quella della Comunità europea (art. 16). Inoltre, i decreti legislativi attuativi della legge, mentre da un lato tentavano di sovra-ordinare il CIPE al CICR e al CIP (che avrebbero dovuto attenersi, nel determinare il proprio indirizzo, alle «direttive generali» del CIPE), dall’altro, però, abolivano i vecchi comitati per le partecipazioni statali e per l’ENEL, lasciando ai rispettivi ministri di settore l’indirizzocontrollo puntuale e concreto sulle relative amministrazioni parallele e riservando al CIPE l’indirizzo più generale e perciò più evanescente. Le leggi successive hanno confermato la tendenza a fare del CIPE un comitato interministeriale omnibus, dotato di innumerevoli competenze amministrative ma dotato di scarse attitudini ad assumere, invece, decisioni aventi il carattere di atti di indirizzo generale di politica economica. Così, con tre leggi del 1977 furono istituiti nuovi comitati interministeriali (CIPI, comitato interministeriale per la politica industriale; CIPAA,

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comitato interministeriale per la politica agricola ed alimentare, CIPES, Comitato interministeriale per la politica economica estera). La dottrina ha messo in evidenza il fatto che soprattutti alcuni di questi comitati sono entrati anzitutto in conflitto con l’art. 95 Cost. che prescrive, come si è detto, la determinazione della politica generale del governo da parte del consiglio dei ministri. Ad evitare la collisione con l’art. 95 Cost. non sono valse disposizioni come l’art. 16 della legge n. 48 del 1967, che subordina le decisioni del CIPE alle competenze del consiglio dei ministri e le altre che subordinano i restanti comitati interministeriali economici al CIPE. Né pratica efficacia ha avuto l’art. 6, comma 3, della legge n. 400 del 1988, nella parte in cui prevede che «i comitati di ministri e quelli interministeriali istituiti per legge debbono tempestivamente comunicare al presidente del consiglio dei ministri l’ordine del giorno delle riunioni. Il presidente del consiglio dei ministri può deferire singole questioni al consiglio dei ministri, perché stabilisca le direttive alle quali i comitati debbono attenersi, nell’ambito delle norme vigenti». Infatti, divisa per settori la politica governativa ed affidatane l’elaborazione ad appositi comitati (dotati di proprie strutture informative), era del tutto ovvio che il consiglio dei ministri vedesse ribadito un ruolo ambiguo, formalmente decisorio ma di fatto impossibilitato, in quanto organo collegiale, ad elaborare un indirizzo sufficientemente significativo, tale da condizionare le disperse «politiche di settore». Di più, i comitati interministeriali hanno contribuito a mettere in grave crisi anche la già scarsa supremazia del presidente del consiglio; garanzia di unità e ed omogeneità dell’intero governo. Per questo, la legge n. 400 del 1988 aveva previsto una delega legislativa finalizzata a ridurre e riordinare i comitati interministeriali che però non fu attuata. Migliore sorte ha avuto la legge 24 dicembre 1993, n. 537 che ha provveduto a sopprimere tutti i comitati interministeriali tranne il CIPE, il CICR e il CIIS, attribuendo al Governo, mediante regolamenti di delegificazione, il potere di redistribuire le funzioni dei comitati soppressi fra CIPE e singoli ministri sulla base del criterio della prevalente competenza (D. CODUTI, I comitati interministeriali tra affermazione e crisi del «governo maggioritario», Napoli, Jovene, 2012, pp. 115 ss.). Ma anche tale riforma non è riuscita a ricomporre un quadro dotato di maggiore coerenza, se è vero che leggi successive hanno di nuovo incrementato il numero dei comitati (così, nel più recente periodo sono stati istituiti, tra gli altri, il comitato interministeriale per gli affari europei; il comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica, il comitato interministeriale per le politiche urbane, il comitato interministeriale per la prevenzione e il contrasto della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione). È poi da segnalare che la legislazione più recente ha finito per valorizzare di nuovo il CIPE, la cui composizione, ai sensi dell’art. 1, comma 12,

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della legge n. 71 del 2013, risulta peraltro pletorica (ne sono membri permanenti, oltre al presidente del consiglio che lo presiede, il ministro dell’economia e delle finanze, che ne è vice-presidente, e i ministri degli affari esteri, dello sviluppo economico, delle infrastrutture e dei trasporti, del lavoro e delle politiche sociali, delle politiche agricole alimentari e forestali, dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, dei beni e delle attività culturali e del turismo e dell’istruzione, dell’università e della ricerca, nonché dai ministri delegati per gli affari europei, per la coesione territoriale, e per gli affari regionali in qualità di presidente della conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, e dal presidente della Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano, o un suo delegato, in rappresentanza della conferenza stessa). Il CIPE è organo competente a esaminare i principali strumenti di pianificazione e programmazione e, soprattutto, all’interno di essi, il riparto delle risorse finanziarie a disposizione di enti territoriali e imprese. Veniamo ora agli organi non necessari del governo di tipo monocratico. Come si è accennato, a seguito delle modifiche e delle integrazioni operate dalla legislazione successiva all’entrata in vigore del d.lgs. n. 300 del 1999 i ministri con portafoglio sono attualmente tredici, oltre alla presidenza del consiglio. Tuttavia, il fatto che il numero dei ministri non sia determinato dalla Costituzione consente che il numero effettivo possa essere maggiore o minore rispetto a quello risultante dalle leggi. Ricorre la seconda ipotesi quando uno o più ministeri siano retti ad interim dal titolare di un altro ministero (o dal presidente del consiglio). Questa prassi, assai frequente prima della Costituzione, è oggi utilizzata per coprire transitoriamente un ministero rimasto senza titolare. Sul punto, l’art. 9, comma 4, della legge n. 400 del 1988, codificando una regola già affermatasi in via di prassi, si limita a prevedere che «il presidente della Repubblica, su proposta del presidente del consiglio dei ministri, può conferire al presidente del consiglio stesso o ad un ministro l’incarico di reggere ad interim un dicastero, con decreto di cui è data notizia nella gazzetta ufficiale», in tal modo delineando un procedimento che appare in tutto assimilabile a quello previsto per la nomina di un ministro, ai sensi dell’art. 92 Cost. Le cause che consentono l’attivazione dell’interim sono varie nella prassi, non mancando casi in cui il ricorso a tale istituto è assunto fin dalla costituzione del governo dal presidente del consiglio, anche allo scopo di rafforzare la propria posizione; in altri casi, il ricorso all’interim si ha nel caso di dimissioni di uno o più ministri, in attesa della necessaria chiarificazione politica o fino alla crisi; infine, non sono stati pochi i casi di interim qualora sia già intervenuta la crisi e in ogni caso in cui il ministro cessi per qualunque motivo dalle funzioni (P. CALANDRA, Il governo della Repubblica, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 76).

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Nella nostra storia istituzionale non sono mancate vicende del tutto patologiche circa l’utilizzazione di questo istituto. Un primo problema riguarda la durata dell’interim che in alcuni casi è risultata assai prolungata: così nel VII governo Andreotti, come avveniva solitamente nell’epoca pre-costituzionale, due ministeri furono assunti, fino dalla costituzione del governo, ad interim dal presidente del consiglio. Peraltro, come si dirà anche nel più recente periodo il presidente del consiglio ha mantenuto a lungo l’interim di uno o più ministeri (così Berlusconi durante il suo II e IV governo). A questo proposito, si ritiene giustamente (L. PALADIN, Diritto costituzionale, cit., p. 415; Q. CAMERLENGO, Sulla reggenza ad interim dei ministeri, in Giur. cost., 2003, pp. 2470 ss.) che l’uso sistematico e prolungato dell’interim sia contrario al principio del buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.). Ancora più problematici sono i casi di reggenze ad interim prolungate nel tempo in capo al presidente del consiglio perché essi finiscono per incidere sullo spessore stesso del principio di collegialità, oltre a creare una potenziale confusione tra cariche che dovrebbero rimanere distinte (Q. CAMERLENGO, Sulla reggenza ad interim, cit., pp. 2453 ss.). Sul primo punto, si è osservato, in generale, che l’attribuzione prolungata di un interim finisce per alterare sostanzialmente la struttura costituzionale interna al governo, incidendo quantomeno sulla parità di status tra i suoi membri (A. RUGGERI, Il consiglio dei ministri, cit., p. 185); se poi l’interim viene esercitato dal presidente del consiglio, questa eventualità finisce per rafforzare impropriamente «la posizione di primazia e centralità del presidente del consiglio» (Q. CAMERLENGO, Sulla reggenza ad interim, cit., p. 2479). Sul secondo punto, i diversi ruoli assegnati dalla Costituzione e dalla legge n. 400 del 1988 al presidente del consiglio e ai ministri dovrebbero suggerire la possibilità di interim al primo di carattere assolutamente transitorio, pena il venir meno di quell’equilibrio e di «quella distinzione (il presidente-i ministri) di status politico-giuridici che la Costituzione instaura fra le componenti del consiglio» (A. RUGGERI, Il consiglio dei ministri, cit., p. 187). Come si accennava, il numero dei ministri può (e nella prassi regolarmente è) superiore a quello previsto dalle leggi, in quanto per antica consuetudine esistono organi di governo non necessari e non previsti dalla Costituzione, a cominciare dai ministri senza portafoglio. A) I ministri senza portafoglio fanno parte a pieno titolo del governo pur senza essere posti a capo di un ministero. La proliferazione, spesso non funzionale, dei ministri senza portafoglio, la loro incerta responsabilità politica (in base all’art. 95, comma 2, Cost., i ministri sono responsabili individualmente «degli atti dei loro dicasteri») ha indotto il parlamento ad innovare profondamente in questa materia con l’art. 9 della legge n. 400 del 1988.

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In base a tale articolo, «all’atto della costituzione del governo, il presidente della Repubblica, su proposta del presidente del consiglio dei ministri, può nominare, presso la presidenza del consiglio dei ministri, ministri senza portafoglio, i quali svolgono le funzioni loro delegate dal presidente del consiglio dei ministri sentito il consiglio dei ministri, con provvedimento da pubblicarsi nella gazzetta ufficiale». In deroga a tale previsione, non è richiesto il coinvolgimento del consiglio dei ministri nell’eventuale nomina di un ministro senza portafoglio delegato in materia di servizi di sicurezza, data la particolare inerenza delle funzioni in questione a quelle proprie del presidente del consiglio (cfr. supra, par. 2, lett. b, con riferimento all’art. 1 della legge n. 124 del 2007; un’ulteriore particolarità è data dal fatto che tale ministro non può esercitare funzioni di governo ulteriori rispetto a quelle ad esso delegate dal presidente del consiglio dei ministri a norma della presente legge: art. 3, comma 1-bis, della stessa legge). I ministri senza portafoglio svolgono le loro funzioni su delega del presidente del consiglio; che può però anche delegare ad un ministro con portafoglio quelle attribuzioni che leggi ordinarie abbiano assegnato a ministri senza portafoglio. Per di più, come si dirà, ed a conferma dello strettissimo rapporto fra presidente del consiglio e ministri senza portafoglio, la legge n. 400 prevede che questi ultimi possano essere posti a capo dei «dipartimenti» nei quali si organizza la presidenza del consiglio dei ministri. Nello stesso senso, il comma 2 dell’art. 9 della stessa legge prevede che, ogni qualvolta la legge o altra fonte normativa assegni, anche in via delegata, compiti specifici ad un ministro senza portafoglio ovvero a specifici uffici o dipartimenti della presidenza del consiglio dei ministri, gli stessi si intendono comunque attribuiti, rispettivamente, al presidente del consiglio dei ministri, che può delegarli a un ministro o a un sottosegretario di Stato, e alla presidenza del consiglio dei ministri. Pur trattandosi di organi non necessari, essi nella prassi svolgono funzioni politicamente e istituzionalmente rilevanti: si pensi al ministro per i rapporti con il parlamento che cura gli adempimenti relativi, in particolare, all’azione di coordinamento circa la presenza in parlamento dei rappresentanti del governo; alla partecipazione del governo alla programmazione dei lavori parlamentari; alla presentazione alle camere dei disegni di legge e degli emendamenti governativi; all’espressione unitaria del parere del governo sugli emendamenti parlamentari, nonché sull’assegnazione di progetti di legge alla sede legislativa; ai rapporti con i gruppi parlamentari e gli altri organi delle camere; agli atti di sindacato ispettivo parlamentare; all’istruttoria circa gli atti di sindacato ispettivi rivolti al presidente o al governo nel suo complesso; alla verifica degli impegni assunti dal governo in parlamento; alla trasmissione alle camere di relazioni, dati, schemi di atti normativi e proposte di nomine governative ai fini del parere parlamentare. Così, ancora il ministro della funzione pubblica (nel governo

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Renzi, attualmente in carica, ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione) che esercita funzioni di coordinamento, di indirizzo e di iniziativa in materia di lavoro pubblico, organizzazione delle pubbliche amministrazioni. Del resto, non a caso, alcuni dei ministeri con portafoglio attualmente previsti sono, per così dire, la «risultante» di incarichi senza portafoglio (così, solo per citare un esempio, il ministero dell’ambiente, istituito con la legge n. 349 del 1986). B) Una particolare figura di ministro è costituita dal vice-presidente del consiglio dei ministri. Anche quest’organo deve essere considerato (come i ministri senza portafoglio) organo costituzionalmente solo eventuale, non necessario, del governo. Fino all’approvazione della legge n. 400 si è, anzi, molto discusso sulla legittimità costituzionale del vice-presidente, che la prassi ha introdotto fino dalla prima legislatura repubblicana nel nostro ordinamento per il fine, politico, di attribuire particolare importanza alla partecipazione ad un governo di quel partito al quale appartiene il vice-presidente (in particolare, il partito più grande della coalizione, diverso da quello che esprime il presidente del consiglio). Che tale figura sia stata congeniale all’assetto coalizionale dei governi in epoca repubblicana è dimostrato dal fatto che uno o più vice-presidenti siano stati nominati in ben 34 governi. Il rilievo solo politico del vice-presidente spiega perché, di solito, egli sia un ministro senza portafoglio: dato che le cure di un ministero gli impedirebbero l’espletamento di quelle funzioni di coordinamento dei problemi politici di governo che egli segue per incarico o in rapporto al presidente del consiglio. L’art. 8 della legge n. 400 del 1988 non soltanto prevede che il presidente del consiglio possa proporre al consiglio dei ministri la nomina di uno o più vice-presidenti (eventualità, quest’ultima che fu seguita, ad esempio, nel II governo Prodi con la nomina a vice-presidenti di Massimo D’Alema e Francesco Rutelli), ma aggiunge che, in caso di nomina di un vice-presidente, «in caso di assenza o impedimento temporaneo del presidente del consiglio dei ministri, la supplenza spetta al vice-presidente o, qualora siano nominati più vice-presidenti, al vice-presidente più anziano secondo l’età» (il comma 2 soggiunge poi che, quando non sia stato nominato il vice-presidente, la supplenza spetta, in assenza di diversa disposizione da parte del presidente del consiglio, al ministro più anziano secondo l’età). Queste previsioni sono state contestate da una parte della dottrina, in quanto già prima della legge n. 400 la dottrina aveva sottolineato, a proposito della vice-presidenza del consiglio, che le funzioni costituzionali sono, in via di principio e salvo eccezioni che però dovrebbero essere disciplinate a livello costituzionale, indefettibili (E. CHELI, Il processo esecu-

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tivo, in Il processo allo Stato, Firenze, Sansoni, 1971, p. 185). Né tale problema può essere risolto, affermando l’esistenza di una «consuetudine introduttiva» di tale figura (così, F. CUOCOLO, Il governo nel vigente ordinamento italiano. I. Il procedimento di formazione, la struttura, Milano, Giuffrè, 1959, p. 187). Così, l’art. 8 è oggi interpretato riduttivamente (così S. LABRIOLA, Il governo, cit., pp. 118-119; L. PALADIN, Diritto costituzionale, cit., pp. 411-412) nel senso che la supplenza non può riguardare che l’ordinaria amministrazione; non la direzione politica del governo. Nello stesso senso, ovviamente, e con gli stessi limiti, è configurabile una delega di funzioni dal presidente al vice-presidente. Rispetto alla prassi precedente, in definitiva la maggiore novità introdotta dalla legge n. 400 del 1988 è data dalla procedura di nomina, che ora presuppone una proposta del presidente del consiglio e una deliberazione del consiglio dei ministri. L’attribuzione di tali funzioni è formalizzata con un apposito decreto del presidente della Repubblica. Presidente del consiglio, ministri e ministri senza portafoglio compongono dunque il consiglio dei ministri. Alcuni statuti speciali prevedono poi (art. 44, St. Friuli Venezia Giulia; art. 44, St. Valle d’Aosta; art. 40, St. Trentino Alto Adige) che il presidente della regione possa partecipare alle sedute del consiglio dei ministri, quando siano in discussione genericamente questioni che siano di particolare interesse della regione. Tuttavia, come è stato più volte ribadito dalla corte costituzionale (a partire dalla sent. n. 1 del 1968), tale partecipazione ha un valore esclusivamente consultivo e costituisce un evento del tutto eccezionale e dunque da escludersi ogniqualvolta siano in gioco questioni che hanno ad oggetto interessi unitari e solo di riflesso coinvolgano anche quelli regionali, ma come estensione territoriale dei primi. Da questo punto di vista, è apparsa problematica la disposizione contenuta al riguardo nell’art. 21 dello statuto siciliano, il quale prevede che il presidente della regione partecipi alle sedute del consiglio dei ministri, col «rango di ministro» e «con voto deliberativo nelle materie che interessano la regione». A tale disposizione ha dato attuazione il d.lgs. n. 35 del 2004, il quale ha distinto due ipotesi: la prima, quella in cui il consiglio dei ministri debba deliberare provvedimenti che riguardano «la sfera di attribuzioni proprie e peculiari della regione siciliana» (con obbligo di convocazione del presidente della regione); la seconda, quella in cui i provvedimenti che il consiglio dei ministri deve assumere coinvolgano un interesse «differenziato, proprio e peculiare della regione siciliana» o determinano una rilevante interferenza sul suo indirizzo politico (in questo caso è il presidente della regione a poter chiedere la partecipazione al consiglio dei ministri e la relativa decisione è del presidente del consiglio). Ma anche di questa più incisiva disposizione statutaria è lecito dubitare che possa avere un rilievo significativo in termini di condizionamento delle decisioni

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dell’esecutivo nazionale (e la stessa corte costituzionale nella sent. n. 204 del 2009, più sopra citata, ha lasciato intendere, richiamando la sua pregressa giurisprudenza sulla partecipazione dei presidenti di regione alle sedute del consiglio dei ministri, la portata comunque eccezionale anche della disposizione dello statuto siciliano). C) Ancora, non fanno parte della struttura costituzionalmente necessaria del governo i sottosegretari di Stato; nati in Gran Bretagna come parliamentary secretaries e introdotti in Italia fino dalla legge. n. 5195 del 1888. A lungo si è discusso su queste figure: se essi potessero essere considerati organi del governo; quali funzioni spettassero loro (se proprie o se soltanto delegate); sul loro numero e sulla loro procedura di nomina (G.M. RACCA, I sottosegretari di Stato tra politica e amministrazione, Napoli, Jovene, 2001, pp. 57 ss.). Anche a questo proposito, è intervenuta la legge n. 400 del 1988 (art. 10) che ha risolto quasi tutti i problemi, salvo quello del numero dei sottosegretari: che rimane, in base alla legge, indeterminato, in quanto il comma 5 demanda ad una futura legge sull’organizzazione dei Ministeri la determinazione del numero e delle attribuzioni dei sottosegretari, precisando che «entro tali limiti i sottosegretari sono assegnati alla presidenza del consiglio dei ministri ed ai ministeri». Peraltro, nemmeno il d.lgs. n. 300 del 1999 non prevede alcuna indicazione al riguardo. Per il resto, la legge ha rafforzato, giustamente, la figura dei sottosegretari come delegati del ministro: sia perché, riguardo alle loro funzioni, essi «coadiuvano il ministro ed esercitano i compiti ad essi delegati con decreto ministeriale pubblicato nella gazzetta ufficiale» (comma 3), sia soprattutto perché «possono intervenire, quali rappresentanti del governo, alle sedute delle camere e delle commissioni parlamentari, sostenere la discussione in conformità alle direttive del ministro e rispondere ad interrogazioni ed interpellanze» (comma 4). In altre parole, la delega e le direttive ai sottosegretari non possono mai alterare il principio di responsabilità politica nella direzione degli affari del dicastero che rimane, costituzionalmente, di esclusiva pertinenza del ministro. Da questo punto di vista, si è dubitato delle competenze di cui al comma 4 alla stregua di quanto previsto dall’art. 64, comma 4, Cost., che limita ai soli «membri del governo» il diritto, e se richiesti l’obbligo di assistere alle sedute delle camere e di essere sentiti ogni volta che lo richiedano. Certamente, i sottosegretari risentono quantomeno di un margine di ambiguità, in quanto posti in un’area in qualche misura intermedia tra politica e amministrazione. Peraltro, nemmeno la legge n. 400 del 1988 ha del tutto sopito il dibattito circa la loro riconducibilità al governo inteso in senso stretto. I sottosegretari di Stato sono nominati con decreto del presidente della

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Repubblica, su proposta del presidente del consiglio dei ministri, di concerto con il ministro che il sottosegretario è chiamato a coadiuvare, sentito il consiglio dei ministri (comma 1). Prima di assumere le funzioni i sottosegretari di Stato prestano giuramento nelle mani del presidente del consiglio dei ministri (comma 2). È da ritenere legittima la nomina a sottosegretari anche di non parlamentari, se non altro perché la legge n. 400 del 1988 non ripete quanto previsto dalla legge del 1888 che sembrava fissare la necessità che i sottosegretari appartenessero a una delle camere. Nella prassi, la dinamica coalizionale è sembrata privilegiare un criterio di nomina per cui i sottosegretari appartengono, ove possibile, a un partito diverso da quello che esprime il ministro. A partire dal 1993 si è affermata la possibilità di revoca dei sottosegretari seguendo lo stesso procedimento previsto per la nomina, nei casi in cui venga meno il vincolo di solidarietà che dovrebbe legare tutti gli appartenenti alla compagine governativa (F. GIRELLI, Sulla responsabilità politica di Sottosegretari di Stato e Vice ministri, in G. AZZARITI, a cura di, La responsabilità politica nell’era del maggioritario e nella crisi della statualità, Torino, Giappichelli, 2005, pp. 108 ss.). Più controversa è l’ammissibilità della sfiducia individuale contro di essi, sebbene la prassi parlamentare anche recente sembri ammettere la presentazione e la successiva votazione di mozioni dirette a sollecitarne la revoca. Tra i sottosegretari, un rilievo istituzionale particolare è riconosciuto al sottosegretario alla presidenza del consiglio che assume le funzioni di segretario del consiglio dei ministri ed esercita le relative funzioni, in particolare curando la verbalizzazione e la conservazione del registro delle deliberazioni (art. 4, comma 2, legge n. 400 del 1988). L’art. 20 precisa poi che sono posti alle sue dirette dipendenze l’ufficio di segreteria del consiglio dei ministri nonché i dipartimenti ed uffici per i quali il sottosegretario abbia ricevuto delega dal presidente del consiglio dei ministri (comma 1). Si tratta di una struttura rilevante sul piano istituzionale, assicurando la documentazione e l’assistenza necessarie per il presidente ed i ministri in consiglio, curando gli adempimenti preparatori dei lavori del consiglio, nonché quelli di esecuzione delle deliberazioni del consiglio stesso (comma 2). A ciò si aggiunga che, ai sensi dell’art. 19 della stessa legge, il sottosegretario alla presidenza può vedersi delegate alcune attribuzioni, di supporto all’esercizio delle funzioni del presidente del consiglio, ordinariamente spettanti al segretario generale della presidenza. Nella prassi, il sottosegretario alla presidenza cui sono attribuite le funzioni di segretario del consiglio dei ministri è il principale collaboratore politico del presidente del consiglio. La legge n. 81 del 2001 (successivamente modificata dalla d.l. n. 217 del 2001, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 317 del 2001) ha previsto che a non più di dieci sottosegretari può essere attribuito il titolo di vice-ministro, se ad essi sono conferite deleghe relative ad aree o pro-

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getti di competenza di una o più strutture dipartimentali ovvero di più direzioni generali, «fermi restando la responsabilità politica e i poteri di indirizzo politico dei ministri ai sensi dell’articolo 95 della Costituzione». La delega, conferita dal ministro competente, è approvata dal consiglio dei ministri, su proposta del presidente del consiglio dei ministri. I vice-ministri possono essere invitati dal presidente del consiglio dei ministri, d’intesa con il ministro competente, a partecipare alle sedute del consiglio dei ministri, senza diritto di voto, per riferire su argomenti e questioni attinenti alla materia loro delegata. Nonostante la genericità delle disposizioni sopra riportate, è intanto da ribadire che i vice-ministri sono e rimangono sottosegretari, individuati come tali in ragione dell’ampiezza delle deleghe e della possibile, ma non continuativa partecipazione alle sedute del consiglio dei ministri, senza diritto di voto; non possono pertanto né essere assimilati a ministri né essere qualificati come una sorta di autorità «intermedie» tra ministri e sottosegretari. Rimane però il fatto che, da un punto di vista politico, i vice-ministri possono assumere un rilievo non marginale, soprattutto a seguito della riduzione del numero dei ministri, a seguito del d.lgs. n. 300 del 1999; il tutto aggravato dalle non poche ambiguità delle modifiche apportate all’art. 10 della legge n. 400 del 1988 che, da un lato, sul piano procedurale prevede il conferimento della delega da parte del ministro di settore, ma su proposta del presidente del consiglio dei ministri, approvata dal consiglio dei ministri e, dall’altro, sembra ridimensionare le prerogative del presidente del consiglio laddove impone il concerto con il ministro competente per la partecipazione del vice-ministro al consiglio dei ministri. Da questo punto di vista, si è dubitato che, alla luce delle scarne e non univoche disposizioni introdotte nel 2001 essi di fatto possano concorrere, quantomeno indirettamente, alla definizione della politica generale del governo, alterando gli equilibri, costituzionalmente prefigurati, nei rapporti tra presidente del consiglio e ministri, così come tra i ministri stessi (A. RUGGERI, Viceministri di nome e di fatto, ovverosia al di fuori della Costituzione?, in Quad. cost., 2001, pp. 523 ss.; cfr. anche L. CIAURRO, La nuova figura dei vice ministri: tra amministrazione e politica, in Giur. cost., 2001, pp. 263 ss.). E che questo rischio sia tutt’altro che teorico è dimostrato da alcune vicende di cui si dirà nel cap. 5, par. 4. D) Sempre della struttura costituzionalmente non necessaria del governo fanno parte i commissari straordinari del governo, che la legge n. 400 ha voluto istituire (anche in base alla passata esperienza degli alti commissari del governo) per realizzare «specifici obiettivi» determinati dal parlamento o dal consiglio dei ministri o per particolari e temporanee esigenze di coordinamento operativo tra diverse amministrazioni statali, ferme restando le attribuzioni dei ministeri, fissate per legge (art. 11).

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I commissari sono nominati con decreto del presidente della Repubblica su proposta del presidente del consiglio previa deliberazione del consiglio dei ministri; nel decreto debbono essere determinati i compiti del commissario, i mezzi per raggiungerli ed il termine della nomina. Sull’attività del commissario riferisce al Parlamento il presidente del consiglio o un ministro da lui delegato. Sul punto, è da segnalare che nel periodo più recente si è assistito ad una proliferazione dei commissari straordinari, nonostante il loro carattere eccezionale e temporaneo (attualmente se ne contano sei).

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Capitolo Quarto

La forma di governo italiana ed i problemi della transizione fra prima e seconda Repubblica SOMMARIO: 1. La formazione del governo prima e dopo la svolta del 1993. – 2. Il programma di governo, l’art. 94 Cost. e la legge n. 400 del 1988. Dai governi di coalizione alla ricerca della democrazia immediata. – 3. Il programma e la formula di governo: i «governi amministrativi». Il governo e le riforme istituzionali. – 4. La formula ed il programma di governo nei «governi tecnici» di G. Amato, di C.A. Ciampi, di L. Dini e di M. Monti. – 5. Crisi di governo e «succedanei» delle situazioni di crisi. – 6. Lo scioglimento anticipato delle camere dopo la svolta del 1993.

1. La formazione del governo prima e dopo la svolta del 1993 Il procedimento di formazione del governo si apre con le consultazioni del presidente della Repubblica. Come è noto, si tratta di un’attività preparatoria rispetto alla nomina del presidente del consiglio che si sostanzia in una serie di colloqui tra il capo dello Stato e quelle persone la cui opinione egli ritenga utile sentire per la soluzione della crisi: si tratti di persone che ricoprono, o abbiano ricoperto, cariche pubbliche o di persone investite soltanto di cariche pubbliche. Dato che il governo deve avere la fiducia delle camere, le quali dovranno essere sciolte in caso di impossibilità di formare un nuovo governo (art. 88 Cost.), si ritiene che siano costituzionalmente obbligatorie solo le consultazioni con i presidenti dei gruppi parlamentari e i presidenti dei due rami del parlamento (L. PALADIN, Governo italiano, cit., pp. 681-682), ma per prassi le consultazioni sono estese ad altre personalità (segretari dei partiti presenti in parlamento, ex presidenti della Repubblica, e, in passato, ex presidenti del consiglio). Particolarmente controversa fu la decisione del presidente Segni di consultare, a seguito della crisi del primo governo Leone e in vista della costituzione del primo governo di centro sinistra organico che sarebbe stato presieduto da Aldo Moro, anche personalità del mondo economico, alti dirigenti dello Stato, il governatore della banca d’Italia e soprattutto il comandante generale dell’arma dei carabinieri, gen. De Lorenzo, che in tal modo veniva coinvolto in una delle deci-

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sioni politiche più rilevanti (e ciò in un contesto nel quale interferenze assai gravi di corpi armati dello Stato nella soluzione della crisi sarebbero emerse ancora più chiaramente a seguito della crisi del primo governo Moro nel luglio 1964). Un’importante innovazione si è avuta al momento della formazione del primo governo della XIII legislatura: in quell’occasione, infatti, il presidente della Repubblica, per la prima volta, ritenne di dare rilievo, ai fini delle consultazioni, alle due coalizioni elettorali che si erano disputate la maggioranza dei seggi parlamentari (ulivo e polo), invitando altresì i presidenti dei gruppi parlamentari che avevano rifiutato la logica bipolare (lega nord; rifondazione comunista), oltre al gruppo misto. Semplificazioni delle consultazioni, come si dirà (cap. 5, par. 5) si ebbero anche nel 2008, quando si formò il quarto governo Berlusconi. È controverso se, in presenza di un chiaro ed inequivoco responso elettorale, il presidente della Repubblica possa omettere del tutto la fase delle consultazioni, procedendo direttamente alla nomina del leader della coalizione vincitrice (o, in prospettiva, del partito vincitore: C. COLAPIETRO, Governo, in S. MANGIAMELI, a cura di, Diritto costituzionale. Dizionari sistematici, Roma, Il sole 24 ore, 2008, p. 889), e quindi innovando ad una prassi nella formazione del governo, risultata rilevante in questo ambito tanto che «tutti gli autori, i quali trascurano la prassi nel tentativo di muovere direttamente dalla Costituzione, finiscono per costruire a vuoto, prevenendo a conclusioni irreali o sostenendo scoperti paradossi» (L. PALADIN, Governo italiano, cit., p. 680). È evidente la difficoltà di immaginare un superamento netto di questa fase se si ritiene che essa si radichi in una vera e propria consuetudine costituzionale (così, ad esempio, A.A. ROMANO, La formazione del governo, cit., pp. 80-81 cui si rinvia per i riferimenti bibliografici al riguardo), come sembrerebbe evincersi dal comunicato della presidenza della Repubblica del 31 maggio 2001, in cui fu specificata la perdurante vigenza anche delle consuetudini costituzionali relative alla soluzione della crisi di governo (tra le quali quelle relative alla consultazione dei gruppi parlamentari, all’incarico di formare il nuovo governo, alla nomina del presidente del consiglio e dei ministri; il testo del comunicato, rinvenibile nel sito www.quirinale.it, afferma, tra l’altro: «Con le dimissioni del governo Amato, si è oggi formalmente aperta la crisi di governo, il cui svolgimento è regolato da norme e consuetudini costituzionali che si ritiene opportuno richiamare»). Questa tesi non è univocamente condivisa in dottrina, dato che secondo alcuni le consultazioni rappresenterebbero una mera prassi priva di un significato giuridico (così, già A. AMORTH, La Costituzione italiana, Milano, Giuffrè, 1948, p. 147). Le diverse opinioni risentono anche delle non poche difficoltà ed incertezze che sussistono riguardo alle fonti fatto di rilievo costituzionale. Ma è rilevante che anche la dottrina la quale riconosce viziata la procedura di

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nomina di un presidente del consiglio, omettendo la fase delle consultazioni, ammette la facoltà per le camere di attuare una convalida, espressa o tacita, per mezzo del voto di fiducia, preclusiva di ogni altro sindacato (L. PALADIN, Governo italiano, cit., p. 682). Più a monte, si era esattamente osservato come la fase delle consultazioni fosse costituzionalmente richiesta solo «finché l’esperienza politica rimanga basata su una situazione di multipartitismo», e ciò nella misura in cui la Carta fondamentale «vincola la nomina del governo a precisi fini sistematici, fini non realizzabili – in carenza della indicazione di una precisa organica maggioranza già in sede elettorale – se non per mezzo delle consultazioni» (M. GALIZIA, Studi, cit., p. 73); lo stesso Mortati poteva osservare che «le consultazioni sono richieste da situazioni politiche nelle quali nessun partito goda della maggioranza assoluta o, pure avendola ottenuta, non abbia alla sua testa un leader ufficialmente proclamato tale» (C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, I, cit., p. 579, nt. 1). Tale considerazione sembra imporsi alla luce dell’evoluzione della forma di governo e dei rapporti politici che in alcuni casi (ma, per la verità, solo in alcuni casi) sembra rendere «superflua […] la necessità della mediazione presidenziale fra i partiti dalla quale, in passato, emergeva l’indicazione di un premier in grado di compattare una maggioranza di governo» (G. DEMURO, Regole costituzionali, cit., p. 64. In senso contrario, L. CARLASSARE, Governo, parlamento e presidente della Repubblica, cit., p. 97 secondo la quale «il percorso, seguito sempre dai presidenti che si sono succeduti e ormai costituzionalmente obbligatorio, consiste in un procedimento articolato in diverse fasi di cui la prima è quella delle consultazioni che il presidente non può legittimamente omettere, almeno nel suo nucleo essenziale»). Tuttavia, come si è detto, situazioni come quelle verificatesi nel 1996 e nel 2008 costituiscono ad oggi non certo regolarità ma piuttosto ancora eccezioni, e peraltro tali da non aver dato luogo a governi di legislatura: viceversa, la formazione dei governi D’Alema I e II e Amato (nella XIII legislatura), Monti (nella XVI), Letta e Renzi (nella XVII legislatura) hanno seguito le regole non scritte tradizionali, senza riferimenti alle coalizioni pre-elettorali che nel frattempo erano venute meno. Ciò detto, la lineare previsione del comma 2 dell’art. 92 Cost. («Il presidente della Repubblica nomina il presidente del consiglio dei ministri e, su proposta di questi, i ministri») è stata letta ed applicata per anni non nel senso evidente delle sue parole (che obbligherebbero il capo dello Stato ad emanare due distinti e successivi decreti di nomina, uno per il presidente del consiglio, l’altro per i ministri) ma in quello, ben diverso, di una prassi, sostanzialmente identica a quella del periodo statutario, nella quale è stato, da subito, riesumato l’istituto dell’incarico che ha preceduto sempre il decreto di nomina del presidente del consiglio, emanato dal capo dello Stato in coincidenza con il decreto di nomina dei ministri.

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L’art. 92 Cost. non presuppone, in sé, l’istituto dell’incarico, inteso come atto con il quale il capo dello Stato affida verbalmente ad una personalità politica (e prima della formale nomina a presidente del consiglio) il compito di decidere nel merito la soluzione della crisi di governo (F. CUOCOLO, Il governo, cit., pp. 55 ss., che parla di una consuetudine risalente al 1869). Questa prassi è stata, però, concordemente seguita fin dagli esordi della Repubblica, in base alla considerazione che l’art. 92 Cost. non prevederebbe, in realtà, due distinti procedimenti di formazione del governo (volti, il primo, alla nomina del presidente del consiglio e posto sotto la responsabilità del capo dello Stato; il secondo, finalizzato alla nomina dei ministri, affidato esclusivamente al presidente del consiglio nominato) ma un procedimento unico, anche se articolato in due sub-procedimenti (L. ELIA, Appunti sulla formazione del governo, cit., pp. 1176 ss.). I pochi critici di questa procedura hanno rilevato che la prassi dell’incarico ha portato a due conseguenze: la prima è stata che le trattative per la formazione dei governi sono state spesso condivise fra il presidente incaricato ed il presidente della Repubblica; la seconda è stata quella di ridurre considerevolmente (soprattutto nei confronti dei partiti) i già scarsi poteri del futuro presidente del consiglio, costretto a mediare da una posizione debolissima sia i contenuti del programma che le nomine dei ministri. È ugualmente noto che questa interpretazione del procedimento di formazione del governo è stata giustificata dalla dottrina sulla base di motivi essenzialmente formali: così, il principio costituzionale dell’unità del governo, che renderebbe inconcepibile l’esistenza di quest’organo «senza che vi siano e il presidente del consiglio e i ministri» (il che porterebbe ad optare, come si è accennato, per un unico procedimento: L. ELIA, Appunti sulla formazione del governo, cit.) vale solo dal momento in cui il governo entra nell’esercizio delle funzioni. A ben vedere, solo attraverso il giuramento acquistano efficacia giuridica i decreti di nomina del presidente del consiglio e dei ministri; cosicché appare anche infondato sostenere che l’esistenza di un decreto di nomina costringerebbe il presidente-nominato a presiedere un consiglio formato dai ministri del precedente governo. In effetti, la difficoltà di concepire la contemporanea esistenza di due presidenti del consiglio (il dimissionario ed il nominato: L. PALADIN, Governo italiano, cit.) può essere superata alla luce del fatto che gli organi del governo, compreso il presidente del consiglio, entrano in carica solo con il giuramento e, quindi, il presidente nominato poteva (o potrebbe) essere considerato un organo provvisorio con poteri limitati alla formazione del governo; poteri che, seppure avrebbero potuto essere certamente considerati ristretti, sarebbero apparsi, però, come indubitabilmente suoi. Da un punto di vista pratico-politico, l’unico vantaggio dell’incarico «verbale» (che ha sostituito dalla presidenza Gronchi quello conferito con decreto) appare essere quello «di evitare il ripetersi di atti solenni di nomina che rimangano senza esito» (M. GALIZIA, Studi, cit., p. 80). A questa

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positiva elasticità fa riscontro in negativo, tuttavia, l’estrema discrezionalità riconosciuta al capo dello Stato relativamente alla revocabilità dell’incarico. Ciò pone l’incaricato nell’impossibilità di tutelare giuridicamente, o anche solo politicamente, le sue attribuzioni. Incertezza esiste anche a proposito della consistenza e della qualificazione di queste ultime; oscillando la dottrina dalla «delegazione dei poteri», che rimarrebbero propri del presidente della Repubblica, al conferimento all’incaricato di funzioni organizzative del governo. L’estrema vaghezza dell’istituto dell’incarico e dei suoi contenuti rende infondata, infine, l’opinione che la sua esistenza serva a non coinvolgere il capo dello Stato in scelte di indirizzo politico (G. ZAGREBELSKY, La formazione del Governo nelle prime quattro legislature repubblicane, in Riv. trim. dir. pubbl., 1968, pp. 854 ss.). Al contrario, l’incarico è stato interpretato dai presidenti della Repubblica (e subito dagli incaricati) nei modi più disparati: dagli incarichi «ampi» a quelli «di formula»; dagli incarichi non vincolati ad un programma a quelli collegati ad una piattaforma programmatica. Sembra di poter concludere, dunque, che un formale decreto di nomina, oltre ad essere più corrispondente alle prerogative esclusivamente proprie del presidente del consiglio nella seconda fase di formazione del governo (scelta del programma, della formula politica, dei ministri) rafforzerebbe, anche per la sua solennità e rigidità, il presidente-nominato nei confronti dei partiti politici e dei loro apparati; coinvolgendo la responsabilità del capo dello Stato nel solo (ma, in realtà fondamentale) procedimento di scelta della persona del presidente del consiglio. Solo apparentemente, dunque, i sostenitori della discutibile interpretazione del comma 2 dell’art. 92 Cost. sembrano aver avuto ragione nel ritenere che la prassi dell’incarico e delle trattative «assistite» dal capo dello Stato fosse, più che una discutibile scelta, la conseguenza inevitabile delle conseguenze della legge elettorale proporzionale e della «Costituzione materiale» vigente, cosicché il cambiamento della prima e della seconda avrebbe ricondotto il procedimento di formazione del governo nelle mani del presidente incaricato, senza bisogno di modificare una prassi che avrebbe dimostrato, invece, un’invidiabile elasticità. In realtà, il procedimento di formazione del governo ha continuato a soffrire in Italia, e malgrado le innovazioni sopra citate, di una fondamentale incertezza che è sembrata tale da poter escludere la conclusione che le innovazioni introdotte nella prassi abbiano significativamente ampliato i poteri del presidente incaricato, consentendogli così di guidare responsabilmente e con sicurezza la formazione del governo. Rimane da chiarire di quale discrezionalità goda il capo dello Stato nella scelta del nuovo presidente del consiglio e come si atteggi il rapporto tra il primo e il secondo nella fase delle consultazioni volta ad individuare concretamente alleanze, programma e struttura del governo.

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Per quanto riguarda il primo problema, da un punto di vista formale, è evidente che «resta fermo il dovere – giuridico e non solamente politico – di formare quel governo che possa riscuotere la fiducia delle due camere» (L. PALADIN, Governo italiano, cit., p. 684; nello stesso senso, per tutti, G. PITRUZZELLA, Artt. 92-93, cit., p. 73); sicché il capo dello Stato ha il dovere di nominare, e prima ancora di incaricare, come presidente del consiglio la persona maggiormente idonea al raggiungimento di tale scopo. È poi accaduto in alcune occasioni che l’incarico sia stato rifiutato (così, ad esempio, Piccioni e Leone nel marzo 1960). In concreto, però, la scelta del capo dello Stato dipende da ciò che emerge dalle consultazioni, cioè dallo stato dei rapporti fra i partiti: e questi sono a loro volta influenzati dalle indicazioni emerse in sede elettorale. Ciò vale in particolare dopo l’adozione di formule elettorali a prevalenza maggioritaria, il cui effetto è stato quello di rendere, fino al 2013, tendenzialmente bipolare la lotta politica. Come si è accennato, quando, come nel 1994, nel 1996, nel 2001 e nel 2008 dalle elezioni è emersa una maggioranza sufficientemente nitida, il compito del presidente della Repubblica è a un tempo agevolato e vincolato: nel senso che egli non potrà che prendere atto della volontà espressa dal corpo elettorale e limitarsi, al più, a verificare che le indicazioni con le quali i partiti della coalizione vincente si erano presentate agli elettori siano rispettate. Diverso è il caso quando, invece, la situazione politica emersa dal voto non permetta che dalle forze politiche parlamentari giungano indicazioni precise: come si è verificato spesso fino al 1994. Si badi bene: la mancanza di indicazioni univoche in ordine alla nomina del presidente del consiglio poteva derivare sia da incertezze interne al partito di maggioranza relativa (la DC, quasi sempre divisa in correnti interne in forte concorrenza tra loro), sia da incertezze nei rapporti fra i partiti della coalizione in ordine a chi dovesse guidare il governo (si pensi alle polemiche tra DC e PSI nella IX legislatura), sia, infine, da vera e propria difficoltà a identificare una qualsiasi maggioranza parlamentare (si pensi, per ricordare periodi storici assai diversi, al periodo 1953-1964 o al periodo successivo alle elezioni del 2013 fino alla formazione del governo Letta). Come si è ricordato, alla maggiore libertà di scelta del presidente corrisponde inevitabilmente una crescente responsabilità politica del governo, oltre che di fronte alle camere, di fronte allo stesso capo dello Stato (tanto che alcuni autori hanno parlato di «doppia fiducia», altri di «governi del Presidente», altri ancora, perfino, di «semi-presidenzialismo di fatto» come nel caso della presidenza Napolitano nel periodo successivo alla crisi del quarto governo Berlusconi). Talvolta, poi, la difficoltà politica ha condotto il presidente della Repubblica a conferire, generalmente ad uno dei due presidenti delle camere, un mandato esplorativo (o missione esplorativa) «al fine di acquisire maggiori o nuovi dati, utili per il superamento della crisi», e ciò in consi-

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derazione del ruolo super partes riconosciuto ai presidenti dei due rami del parlamento «che li accosta per certi loro profili istituzionali allo stesso capo dello Stato» (A. REPOSO, Lezioni, cit., p. 131). Talvolta, la missione esplorativa, che si traduce in una relazione al capo dello Stato circa i risultati dell’attività dell’esploratore, ha contribuito alla soluzione della crisi, in altri casi essa ha «certificato» l’impossibilità di addivenire alla formazione di un governo, e quindi l’inevitabilità di elezioni anticipate (si pensi al mandato esplorativo al presidente del Senato Morlino nel 1983 e a quello conferito a Nilde Jotti nel 1987, nel corso della crisi del secondo governo Craxi), talvolta ancora essa è stata decisa come un éscamotage allo scopo di prendere tempo e lasciar decantare la situazione politica (A. REPOSO, Lezioni, cit., pp. 131-132). In altri casi (da ultimo, nel 2013, con Bersani; in precedenza nell’ottobre 1998 prima con Prodi e quindi con D’Alema), il capo dello Stato è ricorso non al mandato esplorativo ma a un «preincarico»: come è stato sottolineato, «le due figure sono accomunate dall’essere strumentali ad un miglior esercizio del potere presidenziale di nomina mediante una più approfondita conoscenza della situazione politica, nonché dall’appartenere alla categoria degli atti presidenziali a forma orale» (G. PITRUZZELLA, Artt. 92-93, cit., p. 83). La differenza sta nel fatto che, diversamente dal mandato esplorativo, il preincarico si connota per un collegamento «tra il compito che il capo dello Stato affida al personaggio, cui è stato commesso di prendere contatto con le varie forze parlamentari, ed il futuro incarico di formare il nuovo governo» (D. NOCILLA, Preincarichi e missioni esplorative, in Giur. cost., 1971, I, p. 806), per cui al preincarico si ricorre in situazioni politicamente complesse quando non si vuole «esporre» troppo l’incaricato sul piano politico; pertanto, «la persona investita del preincarico svolge il suo compito nella prospettiva di un personale interesse ad accertare le sue possibilità di portare a termine la formazione di un ministero» (A. REPOSO, Lezioni, cit., p. 132), mentre almeno fino al 2008 nel mandato esplorativo «l’imparzialità è aspetto essenziale», in quanto vale a renderlo omogeneo «con l’obiettività delle consultazioni presidenziali» (R. ORRÙ, Note in tema di mandato esplorativo, in Dir. e soc., 1989, p. 679). Peculiare è stato il mandato esplorativo conferito nel 2008 al presidente del senato Marini, perché in questo caso era chiaro che l’eventuale soluzione della crisi di governo (che non fu trovata) avrebbe necessariamente portato ad un governo «di scopo» presieduto dallo stesso «esploratore». Senza precedenti, infine, è stata la decisione del presidente Napolitano di costituire due commissioni di esperti allo scopo di elaborare proposte programmatiche, dopo il fallimento del preincarico a Pierluigi Bersani (cfr. infra, cap. 6, par. 1). Per quanto riguarda i rapporti fra capo dello Stato e presidente incaricato (o nominato) nella fase di formazione del governo è, anche qui, evi-

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dente che il «potere di influenza» del capo dello Stato è direttamente correlato alla concreta situazione politica. In via di principio, sembra infatti esatto sostenere che «il capo dello Stato ben può dare suggerimenti e consigli, ma non mai dettare condizioni in senso tecnico» (P. BARILE, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, Cedam, 1978, p. 264), cosicché la rivendicazione di un ruolo di gestione e di pilotaggio delle crisi da parte del presidente Cossiga (a seguito della crisi del quinto governo Andreotti) è apparsa criticabile e discutibile alla stregua del quadro costituzionale vigente. È però vero che la prassi prevede uno stretto collegamento fra incaricato e presidente della Repubblica anche nella seconda fase delle trattative e ben si può ritenere che l’intensità e il contenuto di questi colloqui siano affidati ad una quasi totale discrezionalità dei due organi. È evidente che un presidente del consiglio concordemente indicato sia dal partito di maggioranza relativa che dagli altri partiti della coalizione di governo godrà (nei confronti del presidente della Repubblica) di un’autonomia pressoché totale, sia relativamente al programma che alla struttura e composizione nominativa del governo. All’inverso, quando gli orientamenti del capo dello Stato siano stati determinanti nella scelta del presidente del consiglio, sembra difficile stabilire formalmente un limite al potere di influenza del primo (M. GALIZIA, Studi, cit., pp. 104 ss.; contra, G. RIZZA, Il presidente del consiglio dei ministri, cit., pp. 53 ss.). Da quanto si è detto finora, sarebbe tuttavia errato concludere che quanto più si estende il potere del capo dello Stato tanto più diminuisce quello dell’incaricato (e in prospettiva quello del presidente del consiglio dopo la fiducia). Come si osservava, parlando dei problemi dell’incarico, la funzione tipica del presidente del consiglio, che è quella di formare e dirigere un governo secondo il principio di unità ed omogeneità, è fortemente contestata dal sistema dei partiti. In questa situazione, l’incaricato può giovarsi dell’autorità del capo dello Stato per sostenere la sua formula politica, il suo programma e soprattutto quella composizione nominativa del governo che egli intenda proporre. Così inquadrata, però, la collaborazione tra presidente della Repubblica e presidente del consiglio in pectore non è tale da configurare una vera e propria prerogativa di partecipazione del primo alle scelte circa la composizione o la formula politica del governo. Il potere di influenza del capo dello Stato non può giungere ad una vera e propria prerogativa di partecipazione attiva alle scelte e ciò per diversi motivi, tra i quali: a) il carattere non bicefalo del governo; b) la necessaria estraneità del presidente della Repubblica alla sfera dell’indirizzo politico; c) l’impossibilità di configurare, nell’attuale forma di governo (e ancor più alla luce degli sviluppi della stessa), il capo dello Stato come un interprete privilegiato della volontà del corpo elettorale in contrapposizione ai partiti; d) la ne-

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cessità istituzionale, anche ai fini del conseguimento della fiducia, che il governo rispetti gli equilibri politici interni alla coalizione (e/o al partito o ai partiti della maggioranza) (G. PITRUZZELLA, Artt. 92-93, cit., p. 99. Contra, A. D’ANDREA, Art. 92, in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI, a cura di, Commentario della Costituzione, II, Torino, Utet, 2006, pp. 17841785, che riconduce i decreti di nomina dei ministri agli atti complessi, che si perfezionano con la piena accettazione del loro contenuto tanto da parte del capo dello Stato quanto da parte del presidente del consiglio proponente). Come è noto, questa prerogativa è stata esercitata con diversa intensità anche in passato (si pensi alla presidenza Gronchi, o, più di recente, all’eccezionale stagione dei governi tecnici: P. CALANDRA, I governi, cit., pp. 473 ss. e 522 ss.), talvolta perfino con una lettera avente ad oggetto i criteri di individuazione dei ministri (così, nel 1980 Pertini inviò al presidente incaricato una lettera in cui raccomandava di considerare l’idoneità morale e tecnica dei futuri ministri) e, nel periodo più recente, nel 1994 e nel 2001, all’atto della formazione dei I e II governi Berlusconi. Il riferimento è alla lettera inviata al capo dello Stato al presidente del consiglio incaricato Berlusconi, a proposito dei criteri di individuazione dei ministri del suo primo governo (sulla vicenda, per tutti, A. REPOSO, Lezioni, cit., p. 147). È altresì noto che per l’intervento del capo dello Stato non è stato nominato ministro della giustizia nel II governo Berlusconi l’on. Maroni, stante un’inchiesta giudiziaria a suo carico ancora in corso. Da questo punto di vista, appare assai interessante, per essere stata resa pubblica mediante una nota della presidenza della Repubblica, la vicenda della nomina di Saverio Romano a ministro delle politiche agricole (governo Berlusconi IV) sulla quale il capo dello Stato ha evidenziato riserve «dal punto di vista dell’opportunità politico-costituzionale», essendo pendente una inchiesta penale a suo carico per gravi imputazioni. Di fronte alla formalizzazione della proposta da parte del presidente del consiglio, in ossequio a quanto si è detto nel testo, il capo dello stato ha proceduto alla nomina «non ravvisando impedimenti giuridico-formali che ne giustificassero un diniego», pur auspicando che gli sviluppi del procedimento chiarissero al più presto la posizione del ministro (il testo del commento è in www.quirinale.it). La vicenda però ha avuto un seguito, di lì a poco, con la presentazione di una mozione di sfiducia individuale al ministro, presentata dal gruppo del PD e appoggiata anche dagli altri gruppi di opposizione; la mozione è stata però respinta, perché il presidente del consiglio e la maggioranza, come tradizionalmente avviene, hanno «coperto» l’operato del ministro. Il comma 2 dell’art. 92 stabilisce, sinteticamente, che il presidente della Repubblica nomina il presidente del consiglio dei ministri e, su proposta di questi, i ministri. Questa disposizione e, anche se in misura minore anche l’art. 94 Cost.,

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che riguarda la relazione fiduciaria tra parlamento e governo, dimostrano le incertezze dei costituenti a proposito del governo. La Costituzione italiana attribuisce, infatti, al capo dello Stato, non il potere di designare il governo ma quello di nominarlo; e che la nomina presidenziale sia un atto con un valore tutt’altro che formale è dimostrato dal successivo art. 93 Cost., in base al quale il governo assume le sue funzioni immediatamente dopo aver prestato giuramento nelle mani di chi lo ha nominato: il capo dello Stato. L’atto di nomina ha, dunque, dal punto di vista giuridico, il valore di investire la nuova compagine governativa nelle funzioni di governo prima ancora del conferimento della fiducia da parte delle camere. L’art. 92 Cost. fu introdotto senza difficoltà nella Costituzione da parte di tutti i gruppi politici dell’Assemblea costituente in quanto esso non faceva altro che recepire, come ricordarono Ruini e Nitti, una prassi costituzionale consolidata in base alla quale il capo dello Stato, dopo aver proceduto a consultazioni con i partiti, nominava, con due distinti decreti, prima il presidente del consiglio e poi, su sua proposta, i ministri. Il problema, invece, non riguardava soltanto la posizione del primo ministro ma anche il rapporto fra il governo nel suo complesso, il presidente della Repubblica e il parlamento. Come si è visto, uno degli equivoci di fondo del vecchio regime era consistito nel mancato chiarimento della doppia responsabilità governativa di fronte alla corona e al parlamento; né il problema era stato sciolto dalla legge n. 2263 del 1925 che aveva sostituito il capo del governo al parlamento in un sistema che era rimasto improntato per i ministri al principio della doppia responsabilità. È singolare, dunque, che sulla base di questi precedenti l’Assemblea costituente abbia approvato il comma 2 dell’art. 92 senza chiedersi se in tal modo non si veniva a perpetuare una forma di governo non del tutto coerente con quella di governo parlamentare «puro» che i costituenti erano convinti di introdurre nell’ordinamento costituzionale italiano. In realtà, la norma, così disinvoltamente recepita dall’Assemblea costituente, perpetua nel nostro sistema costituzionale uno dei più delicati problemi ereditati dal passato. Una forma di governo parlamentare pura (o «monista») avrebbe richiesto l’assenza di qualsiasi norma sulla base della quale il governo potesse essere inteso come «emanazione, proiezione o strumento» (L. ELIA, Governo (forme di), cit., p. 644) di altri all’infuori del parlamento. Infatti, coerentemente con tale impostazione, la Costituzione francese del 1946, che per altri aspetti influenzò profondamente i nostri costituenti (U. DE SIERVO, Le idee e le vicende costituzionali in Francia, cit.) prevedeva all’art. 45 che il presidente della Repubblica «designasse» il presidente del consiglio ma nominasse questi, e i ministri da lui scelti, solo dopo il voto di fiducia dell’assemblea nazionale (art. 46). Il governo veniva così a configurarsi come emanazione della sola assemblea nazionale e responsabile solo

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di fronte a quest’organo. Parallelamente, lo scioglimento anticipato dell’assemblea veniva affidato non al presidente della Repubblica ma al governo; circondando tuttavia questo potere di cautele tali (il verificarsi di due crisi ministeriali consecutive nell’arco di 18 mesi, la successiva nomina del presidente dell’assemblea nazionale alla presidenza del consiglio, ecc.) che si può concludere che la Costituzione francese del 1946 presupponeva una pressoché assoluta concordanza politica fra le Camere elettive e gli elettori (C. MORTATI, Le forme di governo, cit., pp. 253 ss.), ed in conseguenza sottraeva il rapporto fra parlamento e governo al sindacato di altri organi costituzionali (M. DUVERGER, Le système politique français, Paris, Puf, 1996, pp. 152 ss.). Ciò detto, in aggiunta al rapporto stabilito tra governo e capo dello Stato dall’art. 92 Cost., l’art. 94 Cost. stabilisce una seconda relazione fra governo e parlamento, precisando che il governo deve avere la fiducia delle due camere ed imponendo la sua presentazione di fronte al parlamento, per ottenerne la fiducia, «entro dieci giorni dalla sua formazione». Questa norma fu voluta dai costituenti per rafforzare il regime parlamentare ed evitare la prassi stabilitasi nell’antico regime, in base alla quale «poteva avvenire che il governo, una volta nominato e in carica, governasse per un certo tempo finché le opposizioni non davano apertamente la sfiducia» (G.U. RESCIGNO, Corso di diritto pubblico, Bologna, Zanichelli, 2004, p. 408). Il brevissimo termine di vacatio fiduciaria assegnato al governo dall’art. 94 Cost. impone, perciò, di precisare il rapporto tra nomina (art. 92) e fiducia (art. 94). In base ad alcune teorie il voto di fiducia sarebbe da considerarsi atto finale del procedimento di formazione del governo, per cui quest’ultimo potrebbe essere investito delle sue funzioni soltanto dopo la fiducia. Tuttavia, da quest’impostazione deriverebbe, come giustamente si è osservato, la conseguenza assurda della coesistenza fino al momento del voto di fiducia di due governi: quello nominato e quello dimissionario (M. GALIZIA, Studi, cit., pp. 1 ss.). Inoltre, le teorie che vedono nel voto di fiducia un momento del procedimento di formazione del governo (sia che facciano ricorso alla figura dell’atto complesso o a quella dell’atto sottoposto a condizione sospensiva o risolutiva: per tutti, L. PALADIN, Governo italiano, cit., p. 691) si scontrano contro un’altra insuperabile obiezione. La sfiducia non produce automaticamente la cessazione degli effetti dell’atto di nomina: infatti, il governo che non ottiene la fiducia deve presentare le sue dimissioni nelle mani del capo dello Stato, ma le dimissioni presuppongono l’investitura nella carica sin dal momento della nomina (C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, I, cit., pp. 584 ss.). Se, dunque, la nomina presidenziale immette il governo nell’esercizio delle sue funzioni, questo riapre il problema (di fatto non risolto nell’esperienza repubblicana) della responsabilità del governo e dei suoi sinoli membri di fronte al presidente della Repubblica (su cui cfr. infra).

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Il governo nominato dal presidente della Repubblica è, dunque, un organo costituzionale dotato di poteri di governo non solo prima della fiducia ma anche indipendentemente dalla fiducia (da ultimo, R. IBRIDO, I Governi privi della fiducia iniziale: precedenti costituzionali, riferimenti comparativi e ipotesi interpretative, in Dir. pubbl., 2015, pp. 749 ss.). Accertato che la nomina e il conseguente giuramento consentono al governo di esercitare le sue funzioni (e infatti il presidente della Repubblica firma il decreto di accettazione delle dimissioni del precedente governo subito dopo il decreto di nomina del nuovo: art. 1, comma 2, legge n. 400 del 1988), rimane, però, da chiarire se il governo in attesa della fiducia possa esercitare tutte le funzioni di governo. Su questo punto, la risposta della dottrina e della consuetudine è univocamente negativa. Il governo in attesa di fiducia non può porre in essere atti di attuazione del suo programma perché su quel programma il parlamento attende di esprimere un giudizio attraverso il voto di fiducia. Il governo in attesa di fiducia viene a trovarsi, così, in una situazione simile a quella del governo dimissionario per volontà propria o del governo dimissionario perché colpito da un voto di sfiducia. In tutti questi casi, le funzioni di governo sono ridotte all’ordinaria amministrazione; cioè a quell’attività che non implica assunzione di responsabilità politica del governo nei confronti del parlamento (M. GALIZIA, Studi, cit., pp. 493 ss.), fatti salvi gli interventi dettati da straordinaria necessità e urgenza. In questo senso, la prassi della XIV e della XV legislatura di decreti legge adottati da governi in attesa di fiducia, che hanno previsto un aumento del numero dei ministeri, appare assai discutibile e probabilmente incostituzionale (cfr. cap. 5, par. 1). Occorre precisare, peraltro, che la nozione di «ordinaria amministrazione» (per il governo dimissionario si usa più frequente la locuzione «disbrigo degli affari correnti») si presenta in realtà di difficile definizione, anche perché le leggi non distinguono, come è ovvio, fra atti che impegnano ed atti che non impegnano la responsabilità politica del governo. Opportunamente, perciò, tutti i presidenti del consiglio, a partire dalle dimissioni del secondo governo Cossiga (1980), si sono premurati di emanare il giorno stesso o il giorno dopo le dimissioni circolari contenenti le direttive volte a precisare quale sia l’attività di ordinaria amministrazione esercitabile da parte del governo dimissionario (convocazioni del consiglio dei ministri, iniziativa legislativa, decretazione d’urgenza, nomine, relazioni internazionali e parlamentari). Particolarmente dettagliata è la circolare adottata dal presidente del consiglio Spadolini al momento delle dimissioni del suo primo governo (agosto 1982); in essa si precisava puntualmente quale fosse l’attività di ordinaria amministrazione esercitabile da parte del governo dimissionario, in particolare escludendo da essa l’approvazione di nuovi disegni di legge, la presentazione di nuovi decreti legge in sostituzione di quelli non

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convertiti (tale possibilità è venuta meno, come è noto, a seguito della sent. n. 360 del 1996 della corte costituzionale), l’approvazione di nuove nomine, salvo scadenze di legge (nello stesso senso, si può ricordare un’articolata circolare del presidente del consiglio De Mita del maggio 1989). Da questo punto di vista, un’eccezione è data dalla circolare adottata dal governo Ciampi nel gennaio 1994, meno limitativa delle altre in considerazione dell’anomalia dello scioglimento anticipato della XI legislatura, decretato senza le dimissioni del governo (che anzi, come si è detto, erano state respinte dalle camere). In ogni caso, la latitudine delle prerogative dei governi dimissionari è stata oggetto di polemiche politiche talvolta aspre: si pensi alla attività svolta dal governo Fanfani VI (che peraltro, come detto, non aveva ottenuto nemmeno la fiducia iniziale), fatta non solo di decreti legge (in parte nuovi, in parte reiterati), ma anche di un particolare attivismo in materia di politica estera (in preparazione del vertice di Venezia del G7) e militare, oltre che di una serie di nomine istituzionalmente assai rilevanti (come il capo di stato maggiore della difesa, il segretario del comitato esecutivo per i servizi di sicurezza, il presidente dell’agenzia per il mezzogiorno, intervenuta, quest’ultima, addirittura dopo le elezioni del 1987). Analoghe polemiche hanno caratterizzato l’attività del governo Dini dopo le dimissioni e l’intervenuto scioglimento delle camere. Per ragioni di ordine sistematico è opportuno completare ora l’esame del procedimento di formazione del governo.

2. Il programma di governo, l’art. 94 Cost. e la legge n. 400 del 1988. Dai governi di coalizione alla ricerca della democrazia immediata L’art. 94 Cost. non prevede esplicitamente per il governo l’obbligo della comunicazione di un programma nel momento nel quale esso si presenta alle camere per ottenere la fiducia. D’altra parte, come si è visto, la consuetudine del periodo storico antecedente al 1948 risulta, da questo punto di vista, fortemente contraddittoria; cosicché non sarebbe possibile rifarsi ad essa per sostenere la presenza, sul punto, di una consolidata consuetudine costituzionale. Tuttavia, ciò malgrado, non si è mai dubitato, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, che gravi sul governo un vero e proprio obbligo costituzionale che condiziona la richiesta della fiducia alla presentazione di un programma. Da questo punto di vista, gli interpreti della Costituzione hanno dimostrato (cfr. per tutti, M. GALIZIA, Fiducia parlamentare, in Enc. dir., vol. XVIII, Milano, Giuffrè, 1968, pp. 407 ss.) che la motivazione della mozione di fiducia, espressamente richiesta dal comma 2 dell’art. 94 Cost., non può che collegarsi a dichiarazioni programmatiche del governo, in mancanza delle quali sarebbe impossibile per il parlamento motivare la sua fiducia. Di più, la mancata presentazione di un programma da parte del governo condurrebbe ad una forma di governo di tipo assem-

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bleare (in contraddizione con la volontà espressa dalla maggioranza dei costituenti) perché «l’indirizzo politico verrebbe ad essere pubblicamente tracciato dal solo parlamento, indebolendo l’autonomia del governo, privandolo della sua posizione di organo propulsivo della maggioranza ed incidendo negativamente sulla posizione assegnata al presidente del consiglio dall’art. 95 Cost.» (M. GALIZIA, Studi, cit., p. 426). In altre parole, la mancata presentazione del programma di governo riporterebbe l’espressione della fiducia al significato che le fu proprio durante il periodo statutario: la concessione di un gradimento parlamentare alla struttura politica ed alla composizione personale del governo, indipendentemente da un giudizio preventivo sul suo indirizzo. La Costituzione, invece, prevedendo implicitamente, ma con chiarezza, l’enunciazione del programma di governo in parlamento e l’obbligo del governo di presentarsi alle camere entro dieci giorni dalla sua formazione proprio per ottenere la fiducia, vuole evidenziare subito, per ciò che riguarda i rapporti fra governo e parlamento, due fondamentali correttivi delle «degenerazioni del parlamentarismo», secondo le indicazioni dell’o.d.g. Perassi. In effetti, sia che si consideri la fiducia una condizione sospensiva della validità della nomina del governo effettuata dal presidente della Repubblica, sia che la si consideri una condizione risolutiva della nomina stessa, ciò che non può essere negato è, comunque, che attraverso la fiducia preventiva, concessa motivatamente, le camere esprimono un fondamentale potere di controllo politico sulla composizione e sulla futura attività del governo; controllo che è, anche giuridicamente, in grado di inibire l’attuazione di un indirizzo politico di governo non preventivamente approvato dal parlamento. Di questa complessa problematica, la legge n. 400 si è fatta, in una certa misura, carico. Anzitutto, è oggi riconosciuto nella legge che è obbligo giuridico-costituzionale del governo chiedere la fiducia in base ad un «impegno programmatico». Di «impegni programmatici» del governo parla l’art. 2, comma 3, lett. a), della legge, che stabilisce su tale oggetto la competenza a deliberare del consiglio dei ministri, e l’art. 5, comma 1, lett. b), che attribuisce al presidente del consiglio il potere di chiedere alle camere la fiducia sul programma. Anche se è prevalente in queste disposizioni un contenuto essenzialmente ricognitivo di consuetudini e convenzioni, peraltro, come già detto, molto recenti, non deve esserne sottovalutata l’importanza. Anzitutto, non è privo di rilievo l’aver sottolineato la competenza del consiglio dei ministri a deliberare il contenuto del programma di governo. Fino all’entrata in vigore della legge, si sosteneva, infatti, da parte della dottrina prevalente, che la deliberazione del consiglio dei ministri, se «perfezionava», dal punto di vista giuridico, il programma di governo, si poneva, però, in una funzione essenzialmente esecutiva rispetto agli ac-

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cordi di coalizione che avevano politicamente dato vita a quello stesso governo. In altri termini, la vera competenza del consiglio dei ministri in relazione al programma sarebbe consistita solo nella modifica marginale dell’accordo di coalizione in quegli spazi lasciati liberi, o indeterminati, dall’accordo stesso (cfr., in questo senso, P.A. CAPOTOSTI, Accordi di governo, cit., p. 173 ss.; A. RUGGERI, Il consiglio dei ministri, cit., p. 380; A. RUSSO, Programma di governo e regime parlamentare, Milano, Giuffrè, 1984, p. 121 ss.). Questa linea interpretativa del rapporto che veniva a stabilirsi fra le competenze dei partiti politici e quelle degli organi costituzionali finiva per far assumere, nella nostra forma di governo, un significato assolutamente prevalente all’art. 49 Cost., per il quale i partiti determinano la politica nazionale, mentre gli artt. 94 e 95 Cost. (che attribuiscono al parlamento ed al governo il potere di decidere in merito all’indirizzo politico) finivano per assumere un ruolo accessorio. Questi temi saranno affrontati più organicamente nella parte dedicata al procedimento di formazione del governo. Deve essere sottolineata subito, però, la grave distorsione indotta nel sistema costituzionale da un’interpretazione (e da una prassi politica), quale quella descritta, che attribuiva ai partiti, soggetti certo fondamentali nel circuito democratico ma che rimangono distinti dalle istituzioni, il potere di determinare l’indirizzo politico di governo al posto degli organi che ne sono, invece, responsabili secondo Costituzione. Da questo punto di vista, il fatto che dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana si sia affermata una costanza di comportamenti per la quale i governi hanno sempre chiesto la fiducia sulla base di un programma non ha significato, però, l’introduzione di una netta discontinuità nel rapporto fra governo e parlamento rispetto al periodo statutario, quando il rapporto di fiducia basato su un programma non era né formalmente richiesto, né costantemente praticato. Infatti, lo spostamento del potere di determinazione dell’indirizzo di governo sui partiti ha condotto le discussioni sul programma di governo ad essere (in consiglio dei ministri ed in parlamento) poco più che mere formalità. In conseguenza, sono divenuti prevalenti, in quelle sedi, i dibattiti relativi a problemi di schieramento politico o le decisioni riguardanti la gestione amministrativa, intesa come gestione del potere di governo. In conclusione, come nel secolo scorso, le opzioni sulle grandi scelte di governo sono state scarsamente discusse nella sede dei dibattiti sulla fiducia, così come si presume (e la mancanza di certezza è, qui, inevitabile, data la riservatezza dei processi decisionali del governo) che esse siano state scarsamente dibattute in consiglio dei ministri. La legge n. 400 è stata il prodotto di questa stagione politica ed istituzionale, cosicché non ci si potrebbe attendere, da questo punto di vista, che essa contenga rilevanti novità. Tuttavia, e per quanto riguarda più specificamente il problema dei rapporti fra sistema dei partiti ed istitu-

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zioni, la legge, elaborata durante i due governi Craxi ed approvata durante il governo De Mita, costituisce un tentativo di salvare il tradizionale assetto «partitocratico» del governo, coniugandolo, però, con una ricerca di efficienza nel governare che risulta più accentuata rispetto al periodo precedente. Non si può infatti dimenticare che proprio il periodo precedente all’entrata in vigore della legge n. 400 del 1988 aveva visto un’esaltazione impropria non solo degli accordi di coalizione ma anche di «patti» forse precedenti e presupposti: il pensiero corre al c.d. «patto della staffetta» che nella IX legislatura (1983-1987) avrebbe dovuto sancire un accordo negoziato tra DC e PSI per cui, dopo il segretario del PSI Craxi, alla guida del governo sarebbe dovuto succedere un esponente democristiano. Di fatto, le interpretazioni diverse del «patto» e le crescenti contestazioni sulla sua natura hanno aumentato il tasso di instabilità governativa (per tutti, M. CARDUCCI, L’«accordo di coalizione», cit.; A. D’ANDREA, Accordi di governo, cit.), come è dimostrato dal fatto che nel pieno delle polemiche tra DC e PSI la maggioranza parlamentare e il governo sono ripetutamente sconfitti in parlamento e si trovano obtorto collo ad usare strumenti tipici delle opposizioni per evitare nuovi rovesci (come il far mancare il numero legale). Oltre a ciò, il «patto» ha costituito, prima del 1992, forse il punto più alto di emarginazione dei soggetti istituzionali (parlamento; governo; capo dello Stato) nella procedura di formazione del governo; il tutto aggravato dal fatto che esso non è mai stato reso noto al parlamento in quanto tale, ma solo implicitamente dato per presupposto, con ciò, se non altro, impedendo l’esercizio del controllo delle assemblee elettive (M. CARDUCCI, L’«accordo di coalizione», cit., p. 92). In questo quadro e con questi presupposti, quindi, si inserisce la norma, sopra ricordata, che dichiara la competenza del consiglio dei ministri sulle dichiarazioni programmatiche del governo all’atto della fiducia. La norma non significa giuridicamente (né, come si è appena detto, avrebbe potuto dirlo dal punto di vista politico) che la decisione sul programma presa dal consiglio debba prescindere da accordi programmatici stabiliti in sede politica (accordi di coalizione). Il fatto che, secondo quanto previsto dall’art. 5 della legge n. 400, il presidente del consiglio promuova l’attività dei ministri, ai sensi del comma 1 dell’art. 95 Cost., «in ordine agli atti che riguardano la politica generale del governo», significa, però, che è al presidente stesso che spetta, secondo tradizione, l’esclusiva iniziativa della presentazione in consiglio dei ministri del programma di governo. È, dunque, evidente che normalmente il programma presentato dal presidente sarà il risultato degli accordi politico-programmatici stabiliti nella fase delle consultazioni che precedono la formazione del governo, anche se egli potrà del tutto prescindere da accordi di programma presi in sede politica. La competenza a deliberare del consiglio dei ministri (art. 2, comma 3, lett. a, legge n. 400 del 1988) significa, però, se correttamente intesa,

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che «l’atto programma di governo viene giuridicamente in essere unicamente con la deliberazione consiliare» (A. RUSSO, Programma di governo, cit., p. 428). Inoltre, anche riguardo al contenuto della deliberazione, dovrebbe sempre esistere, in base alla norma in questione, una netta differenza fra l’accordo politico e la deliberazione programmatica approvata dal consiglio. In altre parole, nell’accordo di governo i partiti non dovrebbero andare al di là dell’indicazione degli obiettivi politici generali. La traduzione di questi obiettivi in azioni politiche per i singoli dicasteri ed in una politica generale di governo non può che svolgersi attraverso la discussione e la deliberazione del consiglio dei ministri, sotto la guida del presidente del consiglio. Il programma di governo si differenzia, quindi, dagli accordi di coalizione non soltanto perché nel programma debbono essere indicati anche i mezzi giuridici attraverso i quali gli obiettivi dovranno essere raggiunti (indicazione di disegni di legge da presentare nelle principali materie, precisazione delle risorse finanziarie da impegnare, ecc.), ma anche perché la decisione consiliare, nell’indicare concretamente, materia per materia, finalità e mezzi, costituisce la «traduzione istituzionale» di un accordo che rimane, fino alla decisione del consiglio dei ministri, puramente politico. La responsabilità giuridica e costituzionale che il consiglio dei ministri si assume con la deliberazione sul programma indica, dunque, l’esistenza di un’ineliminabile alterità del programma di governo rispetto agli accordi politici che hanno preceduto la costituzione del ministero. Un governo, infatti, se si vuole dare un senso alla distinzione fra la politica dei partiti e la dialettica politica che si svolge nelle istituzioni, non può mai identificarsi totalmente con i partiti e con i programmi di partito che ne hanno determinato la nascita. Da questo punto di vista, la fiducia concessa dal parlamento al governo sulla base di un programma costituisce il momento dell’istituzionale distinzione fra la genesi partitica dei governi e l’assunzione, da parte loro, di una responsabilità politica propria, distinta dalla responsabilità e dalle esigenze dei singoli partiti che sostengono la compagine governativa. Una migliore efficienza dell’azione di governo ed una, corrispettiva, maggiore responsabilità degli organi di governo sembrano essere, dunque, il fine propostosi dalla legge del 1988 per ciò che riguarda il rapporto fra il programma e la sua deliberazione da parte del consiglio dei ministri. Quanto detto finora, si riferisce, tuttavia, ad un regime politico-istituzionale nel quale gli accordi ed il governo di coalizione erano visti come strettamente correlati ad una forma di governo a «multipartitismo estremo», determinata, ed anzi favorita, dal sistema elettorale proporzionale vigente fino alla riforma del 1993 (cfr., per tutti, G. FERRARA, Il governo di coalizione, cit., pp. 72 ss.). C’è da chiedersi, dunque, se, con l’entrata in vigore di una legge elettorale prevalentemente maggioritaria, non possa cambiare anche il signifi-

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cato della deliberazione governativa in ordine al programma di governo. Anzitutto, va chiarito che questo tipo di problema si pone non in tutte le democrazie che abbiano adottato un sistema elettorale di tipo maggioritario, ma solo in quelle nelle quali l’effetto del sistema maggioritario sia quello della scelta, da parte del corpo elettorale, di Men and Measures, come nella già ricordata variante britannica della forma di governo parlamentare (c.d. «modello di Westminster»). Inoltre, a queste democrazie possono essere sostanzialmente assimilate altre «che hanno comunque proceduto a significative correzioni della proporzionale, come in Svezia, Spagna, Germania e nella stessa Grecia» (A. BARBERA, Una riforma per la Repubblica, Roma, Editori riuniti, 1991, p. 191). In questi sistemi politicocostituzionali ci si trova, in effetti, davanti a sistemi elettorali ed a norme di comportamento, spesso anche solo consuetudinarie, dei partiti politici, dei loro leaders, dei capi di Stato, in base alle quali le elezioni consentono al corpo elettorale, non soltanto di eleggere i rappresentanti nel parlamento, ma anche di «eleggere» contemporaneamente anche il governo (cfr. A. BARBERA, Una riforma, cit., p. 191; G. PASQUINO, Come eleggere il governo, Milano, Anabasi, 1992, p. 51 ss.). La «elezione del governo» nelle c.d. democrazie immediate si accompagna, di solito, alla proposizione al corpo elettorale, da parte dei partiti, di programmi di governo che sono, in alcune di queste democrazie, ad esempio in Gran Bretagna, assai dettagliati. In sintesi, caratteristica delle democrazie immediate sembra essere il fatto che sistemi elettorali e norme riguardanti il comportamento di soggetti politici ed istituzionali convergono nel sottoporre impegnativamente al corpo elettorale la scelta alternativa fra programmi e leaders di governo concorrenti. Dopo le elezioni, il leader del partito che è risultato vincitore nella competizione elettorale e la maggioranza parlamentare si sentono tenuti a seguire comportamenti conformi al mandato politico che gli elettori hanno espresso. In definitiva, nelle democrazie immediate il procedimento elettorale ed il procedimento di formazione dei governi appaiono (a differenza di quanto è accaduto nella forma di governo italiana, dallo Statuto ad oggi) strettamente collegati. Mentre nelle «democrazie mediate» il collegamento fra i due procedimenti è monopolio dei partiti politici, con l’eventuale intervento, come in Italia, del capo dello Stato, nei regimi che si ispirano al «modello di Westminster», la «funzione» che riguarda la composizione dei governi ed il loro indirizzo politico è, invece, sottratta ai partiti ed affidata al corpo elettorale. I partiti intervengono, infatti, solo nella fase preliminare del procedimento elettorale, con l’indicazione di un programma elettorale e di un garante della sua attuazione (il futuro leader del governo). Se, dunque, caratteristica delle democrazie immediate è quella di affermare, a differenza del modello liberale classico, la vincolatività, almeno sul piano politico, del mandato conferito dagli eletti agli elettori, rimane da chiedersi se in quei sistemi non si realizzi, perciò, una svalutazione del-

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le tradizionali funzioni degli organi costituzionali dotati di indirizzo politico, il governo ed il parlamento. Per quanto riguarda l’indirizzo politico del governo, è vero che esso appare predeterminato dal programma elettorale sottoposto al corpo elettorale dal partito (o dalla coalizione di partiti) che risultano vincitori nelle elezioni. Tuttavia, nei fatti, i programmi elettorali sono costituiti da documenti (i Manifestos in Gran Bretagna) che, se contengono indirizzi all’azione di governo in tutte le materie politicamente più rilevanti (ad es., quella fiscale e di bilancio; quella dello sviluppo economico e dell’occupazione; la sanità; la sicurezza sociale; la politica estera, ecc.), si limitano, però, necessariamente, ad indicare, per esse, obiettivi generali. Al governo spetta, perciò, tradurre l’indirizzo generale dei programmi in un concreto indirizzo di governo, che deve rendere compatibili e realizzabili, dal punto di vista amministrativo e finanziario, gli obiettivi ivi contenuti. Inoltre, è il governo che deve indicare i mezzi ed i tempi della loro realizzazione, provvedere alla eliminazione delle divergenze ed indicare la scala delle priorità. Come si vede, si tratta di una funzione che, se appare fiduciariamente collegata all’indirizzo indicato dal corpo elettorale, non appare, però, certamente come meramente esecutiva di questo. Nelle democrazie immediate, la deliberazione del programma da parte del consiglio dei ministri (o da parte di organi analoghi, come il Cabinet in Gran Bretagna) è, dunque, sicuramente espressione di una funzione di indirizzo politico propria del governo. Il fatto che, grazie al procedimento sopra descritto, si stabilisca un diretto rapporto fiduciario fra l’esecutivo (o il suo leader) ed il corpo elettorale, non consente ai partiti di «scrivere» il programma di governo al posto del consiglio dei ministri, così come accade, invece, nelle democrazie mediate dai partiti. È vero, invece, che il «modello di Westminster» esalta, anche dal punto di vista del programma di governo, il ruolo del premier, principale garante di esso di fronte al corpo elettorale. Questa accentuazione dei poteri del primo ministro in relazione alla formazione della politica generale del governo evidenzia, d’altra parte, la sua responsabilità; il che rappresenta un vantaggio dal punto di vista del funzionamento del sistema in senso democratico. Per quanto riguarda il nostro paese, l’eventuale trasposizione del modello descritto nel nostro sistema istituzionale appare del tutto conforme alla Costituzione. La direzione della politica generale del governo e la sua responsabilità, che sono testualmente attribuite al presidente del consiglio dall’art. 95 Cost., sottolineano i preminenti poteri del primo ministro anche in ordine alla formulazione del programma governativo e alla sua effettiva realizzazione. Si può ritenere, dunque, che, mentre l’appartenenza al popolo della sovranità popolare presuppone la necessaria partecipazione del corpo elettorale al processo di formazione dell’indirizzo politico di governo (cfr., in questo senso, C. MORTATI, Art. 1, in Commentario della Costituzione – I principi fondamentali, Bologna-Roma, Zanichelli-Il foro

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italiano, 1975, pp. 35 ss.), al presidente del consiglio spetti, invece, ex art. 95 Cost., assumere l’iniziativa per trasformare in «politica generale del governo» la volontà espressa dagli elettori. Come si vede, l’impostazione generale della nostra Costituzione in ordine alla formazione dell’indirizzo politico generale del governo e dello Stato, non sembra essere affatto in contraddizione con i principi propri delle democrazie immediate. A questa conclusione spinge anche la constatazione dell’esistenza, secondo quanto previsto dalla Costituzione, dell’obbligo della motivazione della mozione di fiducia che il parlamento può accordare al governo sulla base del programma presentato alle camere. L’esistenza di questo obbligo è stata, in passato, ricordata proprio in polemica con la totalizzante intermediazione dei partiti in ordine all’approvazione e all’attuazione del programma di governo. Secondo un orientamento espresso da Mortati alla Costituente e ripreso successivamente da Galizia (M. GALIZIA, Studi, cit., pp. 451 ss.), attraverso la mozione motivata di fiducia il parlamento partecipa alla formazione di quell’indirizzo politico che si sviluppa, anzitutto, nel raccordo fra corpo elettorale e governo. La motivazione, coordinando la volontà del governo e quella del parlamento intorno alle «scelte fondamentali» del programma (M. GALIZIA, Studi, cit., p. 452), salda l’indirizzo generale politico, espresso dal corpo elettorale, a quello finale espresso dal parlamento. Se i principi della «democrazia immediata» vengono, dunque, intesi in maniera corretta, governo e parlamento non vengono affatto privati, in quel sistema, delle loro funzioni di indirizzo politico, in quanto, mentre il corpo elettorale «pone le premesse generali ed i limiti fondamentali per lo svolgimento della funzione di indirizzo», è al raccordo governo-parlamento che spetta di decidere «sulla fase conclusiva e preminente dell’indirizzo politico affidato alle forze di maggioranza» (così, E. CHELI, Atto politico e funzione di indirizzo politico, Milano, Giuffrè, 1961, p. 148). Quanto detto finora presuppone che il programma di governo corrisponda, almeno per gran parte, con la «politica generale» dello stesso. A ben vedere, la stessa legge n. 400 del 1988 presuppone una fondamentale equivalenza, anche se non una identificazione, fra la politica generale del governo (che spetta al consiglio dei ministri deliberare, in base all’art. 2), l’indirizzo politico del governo ed i suoi impegni programmatici; atti sottoposti anch’essi all’organo collegiale del governo dal successivo art. 2, comma 3, lett. a). Da queste disposizioni si può desumere, seguendo la linea interpretativa più accreditata (cfr. già T. MARTINES, Indirizzo politico, in Enc. dir., vol. XXI, Milano, Giuffrè, 1971, pp. 153 ss.), che la legge n. 400 ha configurato «la politica generale del governo come attività attuativa dell’indirizzo politico, identificato con il complesso di fini indicati nel programma di governo» (così, G. PITRUZZELLA, Artt. 92-93, cit., p. 124). Il programma risulta, dunque, essere il fondamento dell’indirizzo politico di governo (indirizzo

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che diverrà, poi, di maggioranza dopo la concessione della fiducia), mentre la politica generale del governo (e della maggioranza) appare essere quell’attività funzionalizzata anzitutto alla attuazione del programma, ma, più in generale, volta a «dare concreta attuazione ai fini dello Stato» (così T. MARTINES, Indirizzo politico, cit., p. 155), anche se, bisogna aggiungere, questa attività deve sempre svolgersi secondo il generale indirizzo politico che ha ispirato il programma di governo. Nella forma di governo parlamentare, infatti, tutti gli atti del governo non possono non essere conformi all’indirizzo politico fondamentale che è posto alla base del rapporto di fiducia. È per questo motivo che tutta l’attività di governo, sia che essa si muova sul piano politico, sia che essa si limiti a quello amministrativo, è sempre sindacabile politicamente dal parlamento.

3. Il programma e la formula di governo: i «governi amministrativi». Il governo e le riforme istituzionali Secondo una lettura degli artt. 94 e 95 Cost. che appare del tutto condivisibile, il programma di governo dovrebbe, per quanto riguarda i suoi contenuti, evitare di essere troppo generico e concentrarsi sia sugli obbiettivi fondamentali che sui mezzi principali con i quali ci si propone di raggiungere quegli obiettivi; obiettivi e mezzi che costituiranno l’indirizzo politico comune del governo e del parlamento (così, M. GALIZIA, Studi, cit., pp. 433, 435). Anche se mancano, fino ad oggi, studi di diritto costituzionale dedicati all’analisi specifica dei programmi di governo dell’età repubblicana, si può comunque dire, in generale, che i programmi dei dicasteri che si sono succeduti dal 1948 ad oggi hanno più peccato nella genericità che nella specificazione eccessiva dei loro obiettivi. A questo risultato hanno concorso, essenzialmente, due motivi. Il primo di questi è stato il rapidissimo succedersi dei governi (69, dal luglio 1943 al dicembre 2016) e, quindi, la loro brevissima durata media. La consapevolezza della precarietà della durata dei dicasteri ha indotto, in generale, i governanti a scegliere un «profilo basso» nella definizione degli indirizzi di governo, nella convinzione, non si sa quanto fondata, che il ricorso all’understatement in materia di programmi potesse aiutare l’incessante necessità di mediazioni fra i partiti delle coalizioni. Il secondo motivo dello scadente contenuto di indirizzo politico proprio dei governi italiani è, probabilmente, dovuto alla patologica continuità di formule e di partiti che ha caratterizzato la esperienza italiana dal 18 aprile 1948 fino al 1994. Questa situazione ha indotto le coalizioni e i partiti di governo a sottolineare, nella interna dialettica delle coalizioni stesse ed anche di fronte al corpo elettorale, non i programmi ma la continuità delle «formule politiche». In conseguenza, quasi sempre (salvo che nell’eccezionale evenienza di veri cambiamenti nell’in-

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dirizzo politico nel governo del paese, come avvenne, ad esempio, nel dicembre 1963, in occasione della formazione del primo governo organico di centro sinistra) la «formula politica» è stata la vera protagonista dei programmi di governo enunciati in parlamento. Quanto detto, non significa che uguale genericità di contenuti si ritrovi anche negli accordi di coalizione posti alla base dei governi. Come è stato notato, la tendenza che si è, invece, affermata in questo campo fra gli anni ’80 e ’90 è stata quella dei «governi di programma», costituiti, cioè, «con il solo e dichiarato fine di consentire l’esecuzione degli impegni preventivamente concordati dalle forze politiche (i partiti) della maggioranza e specificamente individuati nel programma dell’esecutivo». (A. D’ANDREA, Accordi di governo, cit., p. 81). Di più, come l’esperienza politica (ed anche alcune gravissime risultanze giudiziarie recenti) hanno dimostrato, la svalutazione dell’autonomia istituzionale dei governi non si è fermata alla parte palese degli accordi di coalizione, in quanto è stata prassi costante inserire negli accordi parti riservate, se non addirittura segrete, riguardanti la spartizione del sistema pubblico dell’economia, del credito e degli enti pubblici in generale. In conclusione, dunque, si può dire che l’indirizzo politico programmatico dei governi si è rivelato nella Repubblica, così come era stato nel regime statutario, estremamente debole, e ciò, malgrado il «correttivo» introdotto dal comma 2 dell’art. 94 Cost. A questo proposito, si è detto di recente, ed esattamente, che le politiche pubbliche italiane si sono caratterizzate per tre modi tipici di funzionare: per il primo, gli indirizzi rilevanti sono stati quasi sempre il prodotto non dell’auto-determinazione governativa, «ma della risposta dei governi a pressioni, richieste, sfide di gruppi di pressione». Per il secondo, l’indirizzo politico è stato spesso deciso sotto la pressione dell’emergenza (economica, politica, naturale). Per il terzo, la fragilità dell’indirizzo così delineato ha condotto a frequentissime sue revisioni, caratterizzate dal fatto che il programma originario non viene razionalmente rivisto ma solo «incrementato» con le nuove esigenze (così, G. PASQUINO, I governi, cit., pp. 73 ss.). La cronica debolezza dei governi e la necessità di una continua mediazione fra i partiti della coalizione si è rivelata, alcune volte, così accentuata da conferire un rilievo sostanziale non soltanto a quelle «dichiarazioni» programmatiche del primo ministro la cui esistenza è, oggi, dichiarata obbligatoria, come già ricordato, dall’art. 5 della legge n. 400, ma addirittura alla «replica», con la quale il presidente del consiglio chiude il dibattito parlamentare sulla fiducia. Sulla questione, occorre, invece, ricordare la natura puramente «comunicativa» del programma che è propria delle dichiarazioni del presidente del consiglio, tanto è vero che su di esse l’art. 5 della legge n. 400 non richiede una deliberazione del consiglio dei ministri. A maggior ragione, dunque, la replica può portare soltanto ad una «più precisa individuazione della linea politica assunta» ma mai a modifiche dell’indirizzo politico

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contenuto nel programma stesso (cfr., sui due punti, M. GALIZIA, Studi, cit., pp. 443, 445). Prima di esaminare il problema, assai delicato, delle modifiche dell’indirizzo politico di governo, occorre, però, risolvere un’ultima questione che riguarda da vicino il contenuto del programma, ovvero la possibilità di esistenza, secondo Costituzione, di «governi amministrativi». Anzitutto, deve essere eliminata l’ambiguità che spesso ricorre intorno a questa figura. Come si è detto nella parte storica di questo volume, qualche volta furono definiti come «amministrativi» governi nati in funzione antiparlamentare, o per il loro programma o per la loro colorazione politica. Nella più corretta tradizione del parlamento italiano, per governo amministrativo si intende, invece, quel governo che nasce in base a particolari condizioni politiche (di solito senza maggioranza precostituita), per cui esso deve più limitarsi all’ordinaria amministrazione che all’attuazione di un programma. Nell’ordinamento statutario non esistevano gravi ostacoli alla legittima esistenza di un tale tipo di governi. Come si è visto, l’assenza di una discussione parlamentare sul programma portava a giudicare il governo solo «per i suoi atti». Nel modello costituzionale, invece, l’obbligatorietà del programma di governo e della sua votazione parlamentare con mozione motivata sottolineano come non sia possibile fare a meno di un indirizzo politico di governo. In base ai principi costituzionali, i governi amministrativi non possono essere altro, dunque, che governi «con un programma limitato, appoggiato conseguentemente ad una maggioranza collegata ad un compromesso estremamente accentuato, al di là di una marcata caratterizzazione politica» (così, ancora, M. GALIZIA, Studi, cit., p. 437). L’impossibilità di costituire un indirizzo di maggioranza, anche se limitato ad alcuni punti essenziali, si traduce, in conclusione, nel sistema vigente, nell’obbligo di scioglimento anticipato delle camere, e ciò proprio per rimettere al corpo elettorale la formazione del nuovo indirizzo. Non a caso, è stato esattamente sostenuto che gli stessi «governi elettorali» non dovrebbero essere privi di programma, anche se, in tali casi, quest’ultimo dovrebbe coincidere con lo scioglimento e la corretta gestione della consultazione elettorale (così, P. BARILE, Quale governo per le elezioni, ora in Libertà, Giustizia, Costituzione, Padova, Cedam, 1993, p. 154). L’ordinaria amministrazione non costituirebbe, dunque, nemmeno in queste evenienze l’indirizzo politico del governo, ma il semplice effetto di un programma limitato allo scioglimento. Durante il periodo repubblicano si è fatto ricorso con regolare frequenza alla costituzione di «governi amministrativi» a causa della cronica instabilità delle coalizioni, della litigiosa competitività dei «partiti di governo», del difficile passaggio (sempre e totalmente mediato dai partiti) dall’una all’altra formula politica. Non è casuale, da questo punto di vista, che il primo di tali governi sia stato quello, presieduto da Giuseppe Pella, che nacque il 18 agosto 1953 con la caduta della leadership di De Gasperi.

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Altri governi amministrativi furono costituiti negli anni di passaggio dal centrismo al centro-sinistra (il governo Tambroni del 26 marzo 1960; il III governo Fanfani del 27 luglio 1960) e nell’attesa della costituzione del primo governo organico di centro-sinistra (I governo Leone del 25 giugno 1963). La maggiore fortuna dei governi amministrativi nei momenti di passaggio fra diverse formule di governo non ha escluso, però, il ricorso ad essi anche in occasione di contrastati passaggi di leadership anche all’interno della stessa formula (si veda, ad es., il II governo Leone, del 25 giugno 1968 che segna il passaggio fra i primi tre dicasteri Moro ed i tre successivi dicasteri Rumor). I problemi che si sono subito posti in occasione della costituzione di tali governi sono stati, essenzialmente, due: quello del loro programma e quello della loro durata in carica. Per quanto riguarda la durata in carica, è evidente che la vita di un governo amministrativo non può essere che a termine. Infatti, in una forma di governo parlamentare il governo non può non essere politicamente rappresentativo del parlamento (ossia, della sua maggioranza), cosicché governi che abbiano una limitata rappresentatività politica (come, ad es. i governi «monocolore») o che dichiarino di essere costituiti al di fuori dei partiti e di qualsiasi formula politica non possono, logicamente, che essere considerati un’eccezione, anche temporale, rispetto a quel rapporto di piena identificazione politica fra parlamento e governo che è la regola che si desume dall’art. 94 Cost. Di più, la «disintermediazione» dei governi amministrativi rispetto ai partiti politici non può, anch’essa, che essere considerata eccezionale rispetto all’art. 49 Cost. ed a quel «circuito politico primario» che collega i partiti politici al corpo elettorale e questo al parlamento ed al governo (così, E. CHELI, Atto politico, cit., p. 139 ss.). Tuttavia, riesce impossibile da un punto di vista costituzionale concepire che anche in tali eccezionali circostanze il parlamento possa concedere, in base all’art. 94 Cost., una fiducia condizionata oppure a termine. La fiducia, infatti, immettendo il governo nel pieno esercizio delle sue funzioni, ha l’effetto di costituire il governo come organo costituzionale; come organo, cioè, dotato, fra gli altri suoi caratteri, di quello della parità rispetto agli altri organi costituzionali (cfr. in questo senso, P. BARILE, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, Cedam, 1987, p. 131). Quando un governo si presenta davanti al parlamento, quest’ultimo, secondo la Costituzione, non ha, dunque, altra scelta che quella di concedere la fiducia o di non concederla, rimanendo escluso che essa possa essere soggetta a qualsiasi condizione, perché ciò equivarrebbe a subordinare il governo al parlamento. La consapevolezza, anche se spesso confusa, di tali regole costituzionali ha indotto i governi amministrativi a non chiedere mai esplicitamente una fiducia limitata nel tempo (anche se, in concreto, si è fatto, talvolta,

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riferimento ad un «voto d’attesa»), cosicché si è preferito, di solito, far risaltare, più elegantemente, il limite temporale del governo in relazione alla limitatezza del programma sottoposto alla approvazione delle camere. Questa procedura è, nella sostanza, costituzionalmente corretta, a condizione che, come si è detto poco sopra, un programma di governo, anche se limitato, esista davvero ed esista, in conseguenza, quell’indirizzo politico sul quale governo e parlamento debbono concordare ex art. 94 Cost. Deve essere chiaro, tuttavia, che, quando si parla di programma o di indirizzo politico limitato, ci si intende riferire a quella parte del programma di governo che contiene l’indicazione di obiettivi concreti da raggiungere attraverso l’azione congiunta dello stesso governo e delle camere. In altre parole, le finalità puramente politiche che si collegano all’esistenza di un determinato governo (salvataggio di una certa formula politica; passaggio dall’una formula all’altra, ecc.) non sono sufficienti, da sole, a giustificare la nomina di un governo e la concessione ad esso della fiducia parlamentare. Dal punto di vista costituzionale, non esistono ostacoli a ritenere che il potere di indirizzo politico del governo si estenda fino al punto di comprendere un’iniziativa legislativa, ordinaria e costituzionale, volta ad introdurre singole riforme istituzionali. Facendo riferimento anche alla nostra esperienza costituzionale, si può ricordare che il governo si astenne dall’intervenire nel procedimento di formazione della nostra Costituzione unicamente perché l’elezione da parte del corpo elettorale di un’assemblea costituente aveva attribuito a quest’ultimo organo un’assoluta plenitudo potestatis nella materia. Al contrario, appartenendo oggi al parlamento il potere di revisione della Costituzione secondo le procedure stabilite nell’art. 138 Cost., si può pensare che il governo, come rappresentante politico della maggioranza parlamentare, ben possa esercitare l’iniziativa politica e legislativa anche in materia di riforma delle istituzioni. Questa conclusione deve essere, tuttavia, precisata. La riforma del sistema di deliberazione introdotta nell’ottobre del 1988 nei regolamenti della camera e del senato ha stabilito, anzitutto, che possa essere richiesto il voto segreto sulle proposte di modifica di una serie di articoli della Costituzione che vanno dall’art. 6 all’art. 32. Alla camera, inoltre, esiste la possibilità di richiedere il voto segreto anche per la votazione di leggi ordinarie relative agli organi costituzionali dello Stato (cfr. A. MANZELLA, Il parlamento, cit., p. 219 ss.). La corte costituzionale, inoltre, ha affermato nella sua giurisprudenza (cfr., in particolare, la sent. n. 1146 del 1988) la non modificabilità, nemmeno attraverso il procedimento di revisione costituzionale, dei «principi supremi» della Costituzione. Il governo, dunque, nel proporre disegni di riforma delle istituzioni, si trova di fronte a quei limiti generali che valgono nei confronti di tutti i proponenti, ma anche alla più particolare difficoltà che deriva dal fatto di non poter contare, su alcune materie di riforma di particolare rilievo, sul

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pieno funzionamento del principio di maggioranza, dato che è facilmente presumibile che, su alcune di quelle materie, l’opposizione possa fare ricorso alla richiesta di voto segreto. Ciò detto, è opportuno ricordare che frequentemente i governi hanno inserito nei loro programmi o l’annuncio della presentazione di disegni di legge (ordinari o costituzionali) di riforma delle istituzioni, o hanno preannunciato il loro atteggiamento di fronte a progetti analoghi che erano pendenti di fronte al parlamento. Per limitarci al comportamento, su questi temi, dei governi dell’XI e XII legislatura, si può osservare che almeno tre di questi (Amato; Ciampi; Dini) si sono presentati alle camere annunciando la presentazione di rilevanti disegni di riforma delle istituzioni. Il governo Amato dedicò un intero capitolo del suo programma alle «riforme istituzionali»; riforme che comprendevano significative modifiche alla Costituzione nelle parti: del recepimento degli obblighi comunitari; del regionalismo; degli enti locali; della stabilità del governo (anche in relazione ad una riforma della legge elettorale); dell’art. 81 Cost. e della corte dei conti. Il governo Ciampi, che nacque in seguito alle dimissioni di Amato in seguito ai risultati dei referendum del 18 aprile 1993, ebbe dal presidente della Repubblica il mandato specifico di attuare, attraverso un disegno di legge di riforma generale del sistema elettorale, «la indicazione referendaria inequivocabilmente chiara (che imponeva al governo) [...] di uscire da quella che, in altre stagioni politiche, era intesa come una neutralità dovuta sulle questioni elettorali [...] conformemente all’alto indirizzo di politica costituzionale già espresso, su questo punto, dal capo dello Stato». La concentrazione dell’iniziativa governativa sulla riforma elettorale non impedì a Ciampi di dichiarare il favore del governo ad iniziative di riforma costituzionali già in corso, quali, ad esempio, la modifica della immunità parlamentare ex art. 68 Cost. Il governo Dini, succeduto nel gennaio 1995 al dimissionario governo Berlusconi, pur qualificandosi, come si dirà fra poco, come «governo tecnico», inserì, tuttavia, nel proprio programma almeno due disegni di riforma direttamente incidenti sulla Costituzione: l’introduzione del «federalismo fiscale» e la «estensione dei vincoli dell’inemendabilità del bilancio». Al di là, comunque, delle dirette riforme della Costituzione, il governo Dini proponeva fra le «quattro priorità» del suo programma, almeno due importanti riforme istituzionali: la revisione della legge sulla propaganda elettorale nella radio-televisione (c.d. par condicio) e la riforma elettorale regionale. Come si vede, si è accentuata, proprio a partire da quegli anni (e fino alle proposte di «governissimo» o di governo per le riforme istituzionali, che hanno seguito alle dimissioni di Dini), la tendenza a concentrare sul governo l’iniziativa in materia di riforma, anche organica, della Costituzione e, più in generale, di quelle riforme istituzionali che sono viste come necessario completamento della «democrazia dell’alternanza» appena iniziata con il referendum del 1993.

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Paradigmatica di questa tendenza è la presentazione da parte del governo Berlusconi II di un discusso disegno di legge di revisione organica della seconda parte della Costituzione, approvato dalle camere nella XIV legislatura ma respinto dal corpo elettorale nel referendum popolare ex art. 138 Cost. nel giugno 2006; come è noto, anche il governo Renzi si è fatto promotore di un disegno di legge di revisione della seconda parte della Costituzione, anch’esso respinto dal corpo elettorale nel dicembre 2016. Come si dirà, l’aspetto più discutibile di tale iniziativa è stato il collegamento tra l’esito del referendum e la sorte del governo, «imposto» dal presidente del consiglio che infatti si è dimesso a seguito dell’esito sfavorevole della consultazione popolare. In questo senso, deve essere sottolineato che questa tendenza appare in netto contrasto con i principi che sembravano consolidati fino alla XI legislatura. Fino al governo Amato, infatti, il parlamento aveva rivendicato la quasi assoluta prevalenza della sua iniziativa per ogni progetto di riforma istituzionale che implicasse anche organiche riforme della Costituzione. In coerenza con questo atteggiamento fu costituita nel corso della IX legislatura una commissione bicamerale per le riforme istituzionali (c.d. «commissione Bozzi»), che concluse i suoi lavori nel novembre 1984 con una relazione che indicava non marginali modifiche anche della forma di governo. Nella XI legislatura fu istituita, come abbiamo già visto, non più con mozione, ma con legge costituzionale (legge cost. n. 1 del 1993), una nuova commissione bicamerale che doveva proporre, in sede redigente, un progetto di riforma organica della forma di governo e della stessa forma di Stato (c.d. «commissione De Mita-Jotti»). Lo stesso messaggio del presidente della Repubblica sulle riforme istituzionali (che fu inviato da Cossiga alle camere il 26 giugno 1991) presupponeva, malgrado la discutibilissima iniziativa presidenziale, la permanenza nelle camere dell’iniziativa politica delle grandi riforme istituzionali. L’incapacità del parlamento di dare seguito al lavoro di elaborazione compiuto nelle commissioni, insieme all’accelerazione indotta nel processo delle riforme dalle (più che imperfette) leggi elettorali del 1993, hanno, infine, spostato sul governo il centro dell’iniziativa politica e legislativa riguardante le riforme costituzionali. Come si è appena detto, questo esito finale non sembra, in sé, contrario ai principi della forma di governo parlamentare, purché siano rispettati i limiti che il principio di maggioranza incontra nella materia costituzionale; limiti che riguardano, in questo caso, non soltanto il pieno rispetto del ruolo dell’opposizione, ma anche il rispetto della libertà di coscienza dei parlamentari della maggioranza nelle materie che sono indicate dai regolamenti parlamentari. Problema diverso, e più delicato, è quello se il governo possa inserire nel suo programma iniziative di revisione non di singole norme della Costituzione, ma di intere parti di essa o della stessa forma di governo.

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Occorre comunque ricordare che questa possibilità si presentò già nel febbraio del 1996, nel corso delle trattative condotte dal presidente incaricato Maccanico, dopo le dimissioni del governo Dini. Nel corso di quelle trattative, il tema della modifica della forma di governo fu posto da alcuni partiti al centro del possibile accordo di governo e tale modifica fu quasi unanimemente individuata nell’adozione di un semi-presidenzialismo «corretto secondo la tradizione parlamentare italiana». Un insuperabile contrasto fra i potenziali alleati (che erano costituiti dagli interi schieramenti di centro sinistra e di centro destra, in una prospettiva di «grande coalizione») sorse, però, proprio a proposito della possibilità di inserire l’accordo politico sul semi-presidenzialismo direttamente nel programma di governo. Il presidente incaricato, che pure si era dichiarato disposto a favorire tale riforma, si dichiarò (con il consenso dei partiti di centro-sinistra) del tutto contrario ad assumere la riforma semi-presidenziale come impegno programmatico di governo, sostenendo, ed a ragione, che una consolidata tradizione parlamentare attribuisce (come si è visto poco sopra) al solo parlamento l’iniziativa legislativa costituzionale quando l’oggetto della modifica consista nella riforma di intere parti della Costituzione. Da questo punto di vista, la modifica della forma di governo in senso semi-presidenziale sarebbe andata, come è evidente, ben oltre i confini delle riforme istituzionali già proposte dalle commissioni Bozzi e De MitaJotti. I partiti del centro-destra contestarono, però, queste posizioni del presidente incaricato, che rinunciò, perciò, all’incarico. La rinuncia di Maccanico indusse il presidente della Repubblica allo scioglimento anticipato delle camere. Nel più recente periodo al tema delle riforme ha alluso nelle dichiarazioni programmatiche tanto Enrico Letta, preannunciando l’eventuale presentazione alle Camere di un disegno di legge di deroga alla procedura di cui all’art. 138 Cost., quanto, soprattutto Matteo Renzi, il cui governo ha presentato e sollecitato l’approvazione di un disegno di legge di revisione della seconda parte della Costituzione, rassegnando le dimissioni proprio in conseguenza della reiezione del testo nel referendum costituzionale del dicembre 2016 (cfr. infra, cap. 7). L’enfatizzazione del ruolo del governo nel processo di riforma delle istituzioni, non deve, però, portare alla conclusione che sarebbe da considerare costituzionalmente corretta la concessione della fiducia ad un governo che si presentasse alle camere con un programma limitato alle sole riforme istituzionali: proponendosi, per il resto, la sola gestione dell’ordinaria amministrazione. Quanto si è detto sopra a proposito del rapporto fra programma di governo, indirizzo politico ed art. 94 Cost. esclude che l’ordinaria amministrazione possa essere considerata parte determinante del programma di un governo (questo può, infatti, riguardare al massimo, come si è detto, solo i governi elettorali). D’altra parte, se era difficile anche nel passato

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concepire governi che si proponessero di svolgere un’attività di pura amministrazione, oggi questo risulta impossibile di fronte, ad esempio, ad un procedimento di bilancio nel quale, a seguito della legge n. 196 del 2009, e, ancor più, della legge cost. n. 1 del 2012, l’esistenza della relazione sull’economia e la finanza pubblica, del documento di economia e finanza (legge n. 39 del 2011), della legge di stabilità (fino al 2015), oltre che, ovviamente della legge di bilancio annuale di previsione evidenziano l’inevitabile politicità di scelte che si sviluppano secondo un calendario che va, almeno, dal 15 aprile alla fine dell’anno solare (ciò è ancora più vero nell’attuale difficile congiuntura economica che ha richiesto continui interventi normativi recanti «manovre» correttive sui conti pubblici con scelte politiche di grande impatto). Inoltre, il processo di integrazione dell’Italia nella unione europea richiede, anch’esso, un continuum di scelte politiche che riguardano sia la fase ascendente della formazione delle politiche europee (fase nella quale il governo non può non essere sempre presente nella pienezza del suo indirizzo politico), sia quella di attuazione delle norme e degli indirizzi comunitari, nella quale è anche impossibile non esercitare un indirizzo di governo (ad esempio, nell’attuazione delle direttive). Infine, la riduzione dell’attività di governo alla ordinaria amministrazione sembra, ormai, smentita dalle stesse norme che hanno definito il rapporto generale fra la politica e l’amministrazione. Il d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, esclude, infatti all’art. 4 che sia concepibile una gestione amministrativa priva di indirizzo politico. In base a questa norma, «gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione degli indirizzi impartiti»; da parte sua, ai sensi dell’art. 14, i ministri periodicamente, e comunque ogni anno entro dieci giorni dalla pubblicazione della legge di bilancio, anche sulla base delle proposte dei dirigenti, sono chiamati a definire «obiettivi, priorità, piani e programmi da attuare», nonché ad emanare «le conseguenti direttive generali per l’attività amministrativa e per la gestione» (comma 1, lett. a). Come si diceva poco sopra, l’indirizzo politico e la responsabilità politica del governo per l’attività della pubblica amministrazione sono, ormai, un dato acquisito, il che corrisponde, d’altra parte, allo spirito degli artt. 94 e 97 Cost. In conclusione, dunque, possono esistere governi che si presentano al parlamento con programmi più o meno limitati, ma non possono esistere governi che chiedono alle camere una fiducia per una gestione soltanto «ordinaria» delle loro attività. Questo corrisponderebbe ad una richiesta di essere giudicati «dai fatti», secondo quella prassi del secolo scorso che la Costituzione ha voluto, invece, superare in maniera definitiva. D’altra parte, un ulteriore elemento che va in questa direzione è dato

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dal fatto che l’ordinaria amministrazione è attività propria dei governi in attesa di fiducia, così come dei governi dimissionari ovvero colpiti da un voto di sfiducia (in questa sede non è necessario approfondire se le due situazioni siano da ritenere equivalenti): in questi casi, infatti, le funzioni dell’esecutivo sono per l’appunto ridotte a quelle attività che non implicano assunzione di responsabilità politica nei confronti del parlamento, fatti salvi gli interventi dettati da straordinaria necessità e urgenza (M. GALIZIA, Studi, cit.; come è noto, l’art. 77 Cost. consente la conversione dei decreti legge anche alle camere sciolte che in questi casi debbono essere appositamente convocate e riunirsi entro cinque giorni). Certamente, la nozione di «ordinaria amministrazione» si presenta in realtà di difficile definizione, anche perché né la Costituzione né le leggi ordinarie non consentono di distinguere tra atti che impegnano ed atti che non impegnano la responsabilità politica del governo. In questo senso, come si è ricordato (par. 1), opportunamente alcuni governi hanno adottato circolari relative ai limiti dell’attività che l’esecutivo avrebbe potuto adottare dopo le dimissioni. In ogni caso, è evidente che questa attività non può coincidere con il programma sul quale le camere esprimono la fiducia all’esecutivo.

4. La formula ed il programma di governo nei «governi tecnici» di G. Amato, di C.A. Ciampi, di L. Dini e di M. Monti Le osservazioni che precedono, consentono di concludere che la Costituzione non consente, in via di principio, un’attenuazione qualitativa del rapporto fiduciario fra parlamento e governo. Inoltre, essendo quel rapporto basato sull’indirizzo politico e sulla conseguente responsabilità politica del governo, l’indirizzo politico deve essere sempre espresso e preventivamente annunciato alle camere. Questi principi sembrano aver subito un’apparente eclissi nel corso del quinquennio 1992-1996 (ma anche dopo la crisi del quarto governo Berlusconi), perché, proprio a partire dalle elezioni del 1992, si è assistito alla netta prevalenza di governi che sono stati definiti, a differenza dei governi appena descritti, «tecnici» invece che «amministrativi». Infatti, dei quattro governi che si sono susseguiti fino al gennaio 1996, tre hanno avuto caratteri tali da differenziarsi nettamente dai governi del passato, sia rispetto alla loro composizione, sia riguardo ai loro programmi. E di tali caratteri partecipa anche il governo Monti costituito nell’ultima parte della XVI legislatura. A dire il vero, il I governo Amato era nato come un governo «quadripartito», che avrebbe dovuto muoversi all’interno di quelle formule di governo che erano state proprie delle ultime due legislature. La nascita di quel governo non sembrò infatti differenziarsi dall’usuale procedimento di

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formazione dei governi (procedimento sul quale ci fermeremo oltre), se non per una maggiore iniziativa del presidente del consiglio nella scelta dei ministri e per le obbligate dimissioni dei ministri appartenenti alla DC dalla carica di deputato o di senatore (ciò, per il principio della incompatibilità stabilito ex novo dallo statuto di quel partito; tale scelta determinò all’interno dello stesso partito contrasti e polemiche, culminate nella decisione di Scotti, nominato ministro degli esteri, di ritirare le dimissioni da parlamentare già presentate; la vicenda si conclude paradossalmente con le dimissioni da ministro, senza conseguenze politiche sul governo). La situazione di instabilità politica (dovuta al sostanziale insuccesso elettorale della DC e del PSI nelle elezioni del 1992), che aveva accompagnato la nascita del governo, si accentuò, poi, fortemente per l’esplodere dei risultati delle indagini giudiziarie condotte a Milano contro gran parte delle classi dirigenti dei partiti di governo, fino a coinvolgere anche numerosi ministri e deputati in carica. Il clamore di queste indagini fu tale da costringere alle dimissioni tutti i ministri che risultavano giudiziariamente coinvolti, mentre, sul fronte del parlamento, i maggiori partiti politici si trovarono fortemente delegittimati per il coinvolgimento dei loro vertici in quegli episodi. Dal punto di vista costituzionale, la situazione si presentava aggravata dal fatto che al capo dello Stato sarebbe riuscito difficile procedere ad un immediato scioglimento anticipato delle camere, anche a causa della già presentata richiesta di referendum contro il sistema elettorale proporzionale: richiesta che, in quella situazione, si caricava di un’evidente carica polemica contro il corrotto «sistema dei partiti». In questo stato di cose, il presidente del consiglio reagì sostituendo, da un lato, con ministri tecnicamente qualificati i ministri politici costretti a dimettersi (con il che, come è stato detto da più parti, si riattivava, alla fine, l’art. 92 Cost.); dall’altro, di fronte ad un parlamento ormai molto poco rappresentativo dal punto di vista politico, Amato si appoggiò, come poi dichiarerà lui stesso, ad un «triunvirato» composto dal presidente della Repubblica e dai presidenti delle due camere. L’eccezionalità della situazione non condusse, però, alla assunzione di una natura anti-parlamentare (o «aparlamentare») del governo. Infatti, l’esecutivo si impegnò, anche in quella situazione, nel senso di un’attuazione convinta del programma che era stato presentato in parlamento, ad eccezione di quelle parti (ad esempio, le già citate riforme istituzionali) che risultavano politicamente inattuabili. In conseguenza, il governo si mosse con efficacia adottando severe misure finanziarie di freno all’inflazione, di riduzione del deficit di bilancio, di riconversione della finanza pubblica verso i parametri di Maastricht (come già preannunciato nel programma). Inoltre, ad iniziare dallo scioglimento dell’EFIM, il governo riuscì ad attuare quella parte del suo programma che era dedicata alle privatizzazioni: nell’agosto 1992, infatti, IRI, ENI, INA ed ENEL divenne-

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ro società per azioni. In margine a quest’ultimo punto, come si è ricordato, il presidente del consiglio, di fronte alle resistenze al processo di privatizzazione che provenivano da un suo ministro (quello dell’industria), utilizzò, insieme, il principio collegiale e quello della preminenza del presidente del consiglio, facendo approvare dal consiglio dei ministri (e contro l’indirizzo sostenuto dal ministro dell’industria) un decreto legge di soppressione del ministero delle partecipazioni statali che attribuiva al primo ministro le competenze che ancora rimanevano sulla materia (cfr., sul punto, G. PITRUZZELLA, Artt. 92-93, cit., p. 224). La non consonanza fra corpo elettorale e sistema dei partiti, che poteva essere solo presunta durante la vita del governo Amato, fu, invece, clamorosamente confermata dai risultati del referendum sul sistema elettorale del senato che si svolse il 18 aprile del 1993. In conseguenza di quei risultati il governo si dimise, ritenendo, del tutto correttamente, che la nuova situazione politica non corrispondesse più a quella nella quale il ministero aveva ricevuto la fiducia. In effetti, il capo dello Stato si trovava di fronte ad una situazione del tutto inedita nella storia della Repubblica. Essa era caratterizzata dal fatto che la modifica in senso maggioritario della legge elettorale del senato era avvenuta per via di referendum e necessitava, quindi, di essere pienamente attuata, ad iniziare dall’adeguamento ad essa della legge elettorale della camera dei deputati e dalla riforma dei collegi elettorali. Lo scioglimento anticipato delle camere che segue, giustamente e secondo la tradizione, ogni rilevante modifica del sistema elettorale, non avrebbe potuto aver luogo, dunque, che dopo quelle riforme. Il nuovo governo che fu nominato dopo le consultazioni dal presidente Scalfaro nasceva, in conseguenza, con un programma che comprendeva un punto obbligato: quello di guidare in parlamento il «traghettamento» dal vecchio al nuovo sistema elettorale. Questo compito di garanzia istituzionale si sommava, tuttavia, ad una situazione economico-finanziaria difficile e per la debolezza della lira e per il necessario «rientro» dal deficit di bilancio. Questi motivi spiegano la ragione della nomina alla presidenza del consiglio del governatore della banca d’Italia. Come volle sottolineare Ciampi, all’atto della presentazione in parlamento del suo governo, «è la prima volta nella esperienza della Costituzione repubblicana che un semplice cittadino, senza mandato elettorale, parla davanti a voi nelle funzioni di presidente del consiglio dei ministri». La natura «tecnica» del governo non era, tuttavia, determinata solo dall’inedito status del presidente del consiglio. Dopo «contatti meramente informali» con i partiti politici, Ciampi procedette, infatti, in soli due giorni alla composizione del suo governo ed alla messa a punto del programma (cfr. C. CHIMENTI, Il governo dei professori, cit., pp. 28 ss.). La composizione del governo risultò caratterizzata da una netta prevalenza di ministri non parlamentari (15 su 24),

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che furono proposti dal presidente del consiglio al capo dello Stato in base alle loro capacità culturali, più che per la loro appartenenza politica. La composizione prevalentemente «tecnica» del governo Ciampi non significava, però, che il nuovo ministero intendesse assumere un indirizzo antipartitico. I nove ministri parlamentari appartenevano, infatti, prevalentemente, al vecchio quadripartito, anche se a questi si erano aggiunti, inizialmente, tre ministri di «area» PDS. In conclusione, il governo Ciampi si caratterizzava come governo super partes (C. CHIMENTI, Il governo dei professori, cit., p. 40), appoggiato da uno schieramento politico insolitamente ampio che accettava, tuttavia, di non assumere nel governo posizioni di predominio, sia riguardo alla composizione del nuovo esecutivo, sia riguardo al suo programma. Il «passo indietro» compiuto dai partiti testimonia, da solo, il ruolo determinante assunto dal presidente della Repubblica nella nomina di Ciampi alla presidenza del consiglio; con il che il capo dello Stato sviluppò quel ruolo di «supplente» di un sistema politico in crisi, già assunto durante il governo Amato. Come si dirà fra poco, al passo indietro compiuto dai partiti per ciò che riguardava l’indirizzo programmatico del governo, corrispose, però, un passo in avanti del presidente della Repubblica proprio in questa direzione. Le stesse caratteristiche ha avuto il governo Monti, costituito grazie ad un’insolita iniziativa presidenziale, maturata già nell’ultima fase del quarto governo Berlusconi, con la nomina dell’ex rettore della Bocconi a senatore a vita (novembre 2011). Anche nel governo Monti l’intera compagine è costituita da non parlamentari (cfr. infra, cap. 5, par. 10). Per quanto riguarda la composizione del governo, sembrano, invece, infondate le critiche che furono sollevate sia nei confronti di Scalfaro che di Ciampi a proposito dell’esistenza di una pretesa «preferenza» della Costituzione per governi «politici» in quanto composti prevalentemente da parlamentari. Come si è accennato nel cap. 2, a differenza di quanto avviene nel sistema britannico, l’art. 64 Cost. ha voluto porsi in un rapporto di continuità con l’art. 66 dello Statuto che, come visto, legittimava pienamente la figura del ministro non parlamentare. L’ultimo comma dell’art. 64, prevedendo che i membri del governo, anche se non fanno parte delle camere, hanno il diritto-dovere di partecipare alle loro sedute e di essere da loro sentiti se lo chiedono, intende parificare ministri tecnici e ministri politici in quanto presuppone che i membri del governo divengano ministri «politici» attraverso la concessione della fiducia al governo da parte delle camere. Di più, si può dire, ormai, che l’art. 64 Cost. si applichi anche ai sottosegretari, in quanto la più recente prassi parlamentare (recependo pienamente l’art. 10, comma 4, della legge n. 400 del 1988) li ha del tutto parificati ai ministri per ciò che riguarda la loro partecipazione ai lavori del parlamento. Dal punto di vista della sua composizione, il governo Ciampi

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poteva, dunque, definirsi come «governo tecnico» non per indicare che le norme della Costituzione in materia di composizione del governo avessero subito una sorta di sospensione ma, più semplicemente, per indicare che i partiti politici avevano preferito, in occasione della composizione del ministero, appoggiare il governo senza condizionarne attivamente la composizione. Singolarmente, l’eccezionalità della situazione politica aveva messo in grado il presidente del consiglio di usare il suo potere costituzionale di proposta dei ministri in un senso finalmente conforme alle indicazioni dell’art. 92 Cost. in misura assai maggiore di quanto non fosse avvenuto in precedenza, anche in relazione al governo Amato. La distinzione fra ruolo politico dei partiti e funzioni costituzionali del governo si fece più netta anche a proposito del programma di governo, nel senso che il presidente del consiglio procedette alla redazione del programma rapidamente e senza fare ricorso né a «vertici di maggioranza», né, tantomeno ad accordi di coalizione. Tuttavia, anche durante la vita degli esecutivi tecnici, le principali decisioni sono assunte attraverso un’attività di interlocuzione non con i partiti della maggioranza ma direttamente con i gruppi parlamentari: emblematica è, in questo senso, la pre-crisi del I governo Amato nel febbraio 1992, risolta in un vertice tra il presidente del consiglio e i capigruppo parlamentari senza i segretari dei partiti della maggioranza (un’eccezione in questo senso è nel novembre 1993 il vertice di maggioranza convocato da Ciampi a seguito della minaccia di disimpegno della DC). Come a compensare la ritrazione dei partiti nel processo di formazione dell’indirizzo di governo, l’intervento sul programma da parte del capo dello Stato è, invece, molto evidente. Nel caso del governo Ciampi, l’indirizzo presidenziale sul programma non risultava dal «mandato» conferito al presidente del consiglio al momento dell’incarico. Il capo dello Stato volle, però, intervenire pubblicamente più volte, anche immediatamente dopo la nomina del governo, per sottolineare che il nuovo ministero avrebbe dovuto impegnarsi per l’approvazione della riforma elettorale, per la modifica dell’art. 68 Cost., e, inoltre, anche per una decisa azione di difesa della moneta e dell’occupazione, resa indispensabile dalla difficile situazione del paese (cfr. C. CHIMENTI, Il governo dei professori, cit., p. 38). Di questi vincoli all’azione programmatica del governo, solo il primo risultava, probabilmente, corretto, in quanto, come già accennato, il presidente della Repubblica riteneva, giustamente, che fosse suo dovere costituzionale controllare che la riforma elettorale seguisse le indicazioni già espresse, attraverso il referendum, dal corpo elettorale. Per il resto, invece, non si può negare che i moniti ed i suggerimenti del capo dello Stato entrassero direttamente nel merito dell’indirizzo politico di governo, preannunciando, da questo punto di vista, una nuova stagione «interventista» del presidente della Repubblica che sarebbe proseguita, come diremo, con i governi successivi.

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Anche se questa novità non appare scevra da ambiguità, rimane il fatto che essa fu decisa dopo le dimissioni dei ministri del PDS e le ventilate dimissioni dell’intero governo, quasi a «rafforzare» lo stesso ed a riaprire un canale di dialogo con PDS, verdi e PRI (con i quali Ciampi avviò un giro informale di contatti proprio per la definizione del programma di governo). Il naufragio del governo in quel contesto avrebbe significato con ogni probabilità elezioni anticipate che si sarebbero svolte con due sistemi elettorali diversi (proporzionale alla camera, non essendo stato toccato dal referendum; prevalentemente maggioritario al senato), con ciò determinando esiti probabilmente paradossali: è insomma un intervento discutibile ma spiegabile con l’eccezionalità del momento politico-istituzionale. Tuttavia, l’attivismo presidenziale, riscontrabile con chiarezza anche successivamente, al di là quindi della vicenda in esame, fino al punto di consentire al capo dello Stato di dettare le condizioni ed i limiti dell’indirizzo politico dei governi deve essere rintracciato, prima nella «delegittimazione» del parlamento nella XI legislatura, poi nella debolezza politica delle camere della XII legislatura e nella loro incapacità di individuare una base parlamentare dotata di quel minimo di stabilità necessaria per dare vita a governi politicamente rappresentativi. Tuttavia, la presenza di questa sola condizione non sarebbe stata da sola sufficiente né a consentire l’ingerenza presidenziale nell’indirizzo di maggioranza, né al protrarsi di quell’esperienza dei «governi tecnici», iniziata, come si è visto, con il ministero di Amato. Il quid pluris che consentì al capo dello Stato di interpretare i suoi poteri come se egli fosse davvero il «reggitore dello Stato nei momenti di crisi del sistema» (secondo la definizione di C. ESPOSITO, Capo dello Stato, in Enc. dir., vol. VI, Milano, Giuffrè, 1960), fu, invece, il non compiuto «traghettamento» dalla democrazia rappresentativa alla democrazia maggioritaria che, secondo Scalfaro, era sì iniziato con il governo Ciampi, ma non era stato, poi, completato dal parlamento della XII legislatura. In altri termini, secondo il presidente della Repubblica, la mancata approvazione di significative riforme istituzionali non garantiva un corretto svolgimento del rapporto fra maggioranza ed opposizione, e dunque questa situazione rendeva costituzionalmente necessario un forte intervento del capo dello Stato: nei confronti dei governi, per indirizzarne e controllarne i programmi; nei confronti del parlamento, per condizionare il suo eventuale scioglimento all’approvazione di quelle leggi (riforma della propaganda elettorale televisiva; incompatibilità fra cariche di governo ed esercizio di rilevanti attività imprenditoriali) sicuramente influenti sulla fair competition elettorale. È in questo contesto assolutamente eccezionale che deve essere inquadrato lo scioglimento anticipato delle camere del 1994, sul quale parte della dottrina ha avanzato dubbi e perplessità circa il carattere «antiparlamentare» che esso avrebbe e che, in quanto tale, lo distinguerebbe da tutti i casi precedenti.

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Come si è ricordato nel cap. 2, lo scioglimento delle camere fu deciso all’indomani del dibattito parlamentare sulla mozione di sfiducia presentata dai radicali contro il governo Ciampi e finalizzata alla costituzione di un nuovo esecutivo politicamente connotato; nel corso della discussione della mozione, questa venne ritirata e sostituita dagli stessi presentatori con una risoluzione di fiducia per proseguire l’attività di governo e quindi per prolungare la legislatura, dando quindi luogo ad una situazione inedita nella storia della Repubblica e del tutto paradossale. Di fronte a tanta ambiguità, al termine del dibattito parlamentare il 13 gennaio 1994 il presidente del consiglio annunciò le dimissioni del governo per le profonde divaricazioni esistenti tra i partiti circa le prospettive della legislatura, una riunione del consiglio dei ministri autorizzò Ciampi a recarsi al Quirinale, libero di decidere se limitarsi a riferire al capo dello Stato o presentare le dimissioni (C.A. CIAMPI, Da Livorno al Quirinale. Storia di un italiano, Bologna, Il Mulino, 2010, pp. 156-157). In questo caso, però, la decisione di sciogliere le camere fu fortemente voluta dal capo dello Stato che non sembrava lasciare alternative né al presidente del consiglio né a quelle forze politiche che pure avrebbero voluto la continuazione della legislatura almeno per alcuni mesi. Il presidente della Repubblica rese noti pubblicamente i motivi dello scioglimento ricondotti a tre, in particolare: a) il risultato del referendum elettorale del 1993 e la conseguente riforma dei sistemi elettorali per i due rami del parlamento; b) i risultati delle elezioni amministrative del giugno e del novembre 1993, che avevano evidenziato un divario sensibile tra le forze rappresentate in parlamento e gli orientamenti del corpo elettorale; c) le risultanze delle inchieste giudiziarie e le sue conseguenze sul piano politico. Non è questa la sede per indagare la plausibilità di queste motivazioni, sulle quali la dottrina è apparsa divisa (per tutti, C. DE FIORES, La travagliata fine dell’XI legislatura, in Giur. cost., 1994, p. 1479 ss.; C. MAINARDIS, Il ruolo del capo dello Stato nelle crisi di governo: la prassi della presidenza Scalfaro, in Giur. cost., 1997, p. 2834 ss.; R. VIRIGLIO, L’esercizio del potere di scioglimento, cit., p. 221 ss.). Rimane comunque il fatto che, in linea di principio, la tesi che sostiene l’esclusiva appartenenza al presidente della Repubblica appare discutibile, essendo questo politicamente irresponsabile ed essendo intrinseco alla forma di governo parlamentare la necessità di garantire la maggioranza parlamentare «contro un esercizio abusivo o arbitrario dello scioglimento da parte del capo dello Stato che non può sovrapporsi alla volontà del popolo sovrano» (L. CARLASSARE, Il ruolo del capo dello Stato, cit., p. 137). Se quindi la tesi della natura c.d. «duumvirale» appare maggiormente aderente anche alla prassi repubblicana (cfr. anche infra, par. 6), nel caso di specie il governo «pur avendone l’appoggio, non rappresentava la maggioranza; e quest’ultima non esprimeva più gli orientamenti del corpo elettorale» (L. CARLASSARE, Il ruolo del capo dello Stato, cit., p. 138).

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Ciò detto, però, il ruolo del governo nella procedura di scioglimento non è stato, a dispetto delle apparenze, irrilevante e ciò nonostante la particolare connotazione politica del governo Ciampi, privo di una maggioranza precostituita e incapace di poter assumersi alcuna responsabilità politica non sottoponendosi al giudizio degli elettori. Appare condivisibile cioè il rilievo secondo cui non è rispondente al vero «che il governo abbia assistito passivamente alla decisione dell’altro e che nessuna responsabilità per l’atto dovesse poi ricadere su di esso» (R. VIRIGLIO, L’esercizio del potere di scioglimento, cit., p. 254). Non può essere ritenuto irrilevante che la decisione sulle dimissioni del governo, cui sarebbe inevitabilmente seguito lo scioglimento delle camere (dato il contesto politico), venne demandata, come detto, dal consiglio dei ministri al presidente del consiglio, dopo l’ambiguo dibattito parlamentare seguito alla presentazione della mozione di sfiducia. Per quanto riguarda i motivi dello scioglimento, senza entrare nel merito dei tre fattori enunciati nel comunicato della presidenza della Repubblica, che peraltro trovano riscontri almeno in una parte della dottrina, rimane il fatto che lo scioglimento fu deciso all’indomani del dibattito parlamentare sulla mozione di sfiducia al governo che aveva fatto registrare un esito paradossale (un governo oggetto di potenziale sfiducia e fiducia da parte degli stessi parlamentari) e, come detto, quasi «pirandelliano», riproponendo una situazione analoga a quella del 1987, con una maggioranza contraria allo scioglimento ma incapace di esprimere un governo. In questo senso, era il comunicato del consiglio dei ministri con il quale si dava conto delle dimissioni del governo, laddove si sottolineava che «al ritiro formale dell’originario documento di sfiducia e alla presentazione di una risoluzione di senso opposto, si è dovuta registrare una profonda, accentuata divisione sulle prospettive della XI legislatura. In relazione a tale questione, alcuni gruppi hanno fatto presente in assemblea il venir meno delle condizioni per proseguire un lavoro parlamentare produttivo e sereno, fondato su una sufficiente ampiezza di consensi. Il presidente del consiglio ha ribadito che si tratta di una questione dirimente che non si potrebbe superare con un voto» (il testo è rinvenibile in P. PELUFFO, Carlo Azeglio Ciampi. L’uomo e il presidente, Milano, Rizzoli, 2007, p. 193). E d’altra parte lo stesso segretario della DC Martinazzoli, pur contrario allo scioglimento, proponeva comunque le elezioni in primavera (queste si tengono poi il 27-28 marzo 1994). Come era avvenuto già nel 1992 con il governo Andreotti VII, anche in questo caso il governo Ciampi rimase in carica non dimissionario, in quanto il capo dello Stato respinse le dimissioni, data la difficile situazione politica del Paese ed alla luce degli impegni internazionali ai quali esso avrebbe dovuto fare fronte. In ogni caso, in una lettera inviata al presidente del consiglio il 17 gennaio 1994 il presidente della Repubblica chiarì comunque i limiti dell’azione

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del governo, una volta intervenuto lo scioglimento delle camere, ritenendosi che «l’affievolimento intervenuto nei poteri del parlamento, per effetto del suo scioglimento, non può non ripercuotersi sull’estensione dei poteri del governo, suo interlocutore naturale, ancorché non colpito da sfiducia e, da oggi, non più dimissionario; principio questo che rimane valido, anche se il regime di prorogatio non annulla la potestà di controllo del parlamento». L’evidente enlargement of functions del presidente della Repubblica in questo periodo (G. PITRUZZELLA, Forme di governo, cit., pp. 114 ss.) non presuppone che i governi del periodo 1992-1994 ed il governo Dini siano inquadrabili come «governi del presidente», basati su una fiducia parlamentare «estorta» al parlamento in considerazione del particolare «stato di necessità». Malgrado il loro rapporto particolarmente forte con il capo dello Stato, i due governi tecnici della XII legislatura (Ciampi e Dini) si adoperarono, infatti, correttamente per stabilire un rapporto fiduciario con il parlamento che, al di là della formula politica (che era volutamente inesistente), si fondava «sulle cose da fare» e quindi, su un programma di governo necessariamente preciso ed impegnativo proprio sul fronte dell’indirizzo politico. La preminenza data dai governi tecnici agli impegni programmatici da loro assunti in parlamento spiega anche la particolare qualità delle persone chiamate dal capo dello Stato a ricoprire la carica di presidente del consiglio in quei ministeri, ma spiega anche perché quei governi abbiano dato prova, malgrado il forte condizionamento presidenziale, di una inedita collegialità che ha, non casualmente, coinciso con il recupero delle capacità di direzione della politica generale del governo da parte del presidente del consiglio dei ministri. Nel capitolo dedicato alla formazione dell’indirizzo politico del governo è stato già messo in rilievo come proprio al ministero Ciampi si debba l’adozione di quel regolamento interno del consiglio dei ministri che, previsto dall’art. 4 della legge n. 400 del 1988, non era mai stato adottato prima essenzialmente perché la sua adozione sarebbe risultata in contrasto con quel modo di funzionare dei governi, basato sulla «direzione plurima dissociata», che aveva caratterizzato l’esperienza costituzionale italiana per più di un quarantennio. Per quanto riguarda il programma del governo Ciampi, è opportuno sottolineare come questo ministero si trovasse nelle condizioni di caratterizzare il suo programma facendo quasi esclusivamente riferimento ad alcuni urgenti adempimenti istituzionali «dovuti» che comprendevano sia le due condizioni poste dal capo dello Stato (riforma elettorale e modifica dell’art. 68 Cost.) che l’adozione di quelle leggi ordinarie che dovevano attuare i referendum del 18 aprile 1993 che avevano abrogato i ministeri dell’agricoltura e foreste, del turismo e dello spettacolo e delle partecipazioni statali ed avevano profondamente modificato il sistema di finanziamento pubblico dei partiti nonché quello di nomina dei vertici di alcune istituzioni bancarie.

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Tutti questi adempimenti risultavano, infatti, compresi nel programma del nuovo ministero che, ritenendo prioritario il raggiungimento di quegli obiettivi di riforma, annunciava al parlamento l’intenzione, a quel fine, «di limitare la propria iniziativa legislativa ordinaria». Ciò malgrado, il governo riteneva proprio dovere costituzionale sottoporre alle camere un programma nel quale il proprio indirizzo politico non appariva assolutamente limitato ad una gestione «ordinaria» dell’amministrazione, proponendosi, anzi, obiettivi significativi nella riforma della pubblica amministrazione, nelle privatizzazioni, nel risanamento e riqualificazione della spesa pubblica, anche in riferimento alle vincolanti indicazioni del trattato di Maastricht. L’inedito rilievo assunto dal programma grazie (in fondo, paradossalmente) ai governi tecnici è confermato anche dal contenuto del programma del ministero Dini, nominato dal capo dello Stato nel gennaio 1995, dopo le dimissioni del governo di coalizione di centro destra presieduto da Silvio Berlusconi. Dal punto di vista politico, anche questo governo avrebbe potuto essere assimilato ad uno di quei ministeri «amministrativi» del passato che venivano nominati quando, in seguito alla crisi di una formula politica, non risultava ancora chiaro se fossero maturate le condizioni per lo scioglimento delle camere o se, invece, da un «raffreddamento della crisi», gestito appunto dal governo amministrativo, non potessero nascere nuovi governi politici. Il ruolo assunto dal ministero Dini appare, invece, assai lontano da questi precedenti del passato e si ricollega più da vicino all’esperienza del governo Ciampi. La formazione del nuovo governo, dopo le dimissioni dell’esecutivo guidato da Berlusconi, il primo formato all’indomani delle elezioni politiche del 1994 svoltesi con il sistema maggioritario, si rivelò da subito difficile. Il governo Dini, contestato di fatto fin da subito dai partiti del centrodestra, favorevole allo scioglimento anticipato delle camere, dopo il naufragio dell’ipotesi di un esecutivo «istituzionale» guidato da uno dei presidenti delle camere o dall’ex presidente della Repubblica Cossiga, fu composto interamente da tecnici (così anche i sottosegretari), con la sola, limitata eccezione del presidente del consiglio (già ministro del tesoro, non parlamentare, nel governo Berlusconi): sfumata la possibilità di inserire nel governo ministri del governo Berlusconi (si era parlato di Tremonti, Martino, Fisichella e Urbani), due tecnici, ritenuti riferibili al centro-destra e già nominati ministri (Rasi e Marzano), si dimisero prima ancora del giuramento, come era accaduto nel VII governo Andreotti. Si ha quindi il paradosso di un presidente del consiglio, indicato, peraltro senza entusiasmo, dal leader di uno schieramento (Berlusconi, leader del centro destra) che forma il governo solo dopo il sostegno assicurato

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dal leader dello schieramento opposto (D’Alema). E questo paradosso avrebbe accompagnato tutta la vita del governo, sostenuto da una maggioranza composita (gruppi di centro sinistra e lega nord), con la sola astensione del centro-destra. Questo peculiare contesto risalta già nelle dichiarazioni programmatiche del presidente del consiglio, nelle quali si chiariva che, data la «eccezionalità e transitorietà del compito che gli (era) stato affidato», collegata anche alla necessità di superare quella situazione di «emotività» dei partiti «pregiudizievole per il livello di civiltà politica raggiunto [...] dal nostro paese», il fine dell’azione del governo che risultava, alla fine, del tutto prevalente era quello che egli riassumeva nella «necessità di garantire stabilità alle istituzioni e ai mercati». Di conseguenza, il presidente del consiglio enunciava quattro «priorità», il raggiungimento delle quali rappresentava non soltanto l’obiettivo centrale del ministero ma anche il termine della vita del governo. Si può ricordare, per inciso, che le quattro priorità consistevano, in realtà, in obiettivi assai complessi ed ambiziosi, quali il completamento della manovra finanziaria (già iniziata da Amato e da Ciampi), che avrebbe dovuto portare alla stabilizzazione del debito pubblico rispetto al prodotto interno lordo, la riforma delle pensioni (necessaria per conseguire l’obiettivo precedente), da raggiungersi con l’accordo dei sindacati, la realizzazione della par condicio nella propaganda elettorale radiotelevisiva, l’approvazione di una nuova legge elettorale regionale di tipo maggioritario nell’imminenza del rinnovo dei consigli regionali. D’altra parte, che il programma costituisse la ragione ed il motivo per il quale il governo si era costituito e chiedeva la fiducia al parlamento, era confermato da due ulteriori precisazioni del presidente del consiglio. Per la prima, «qualora si rendesse evidente l’impossibilità di realizzare i punti programmatici sopra elencati, il governo (riterrebbe) esaurito il suo compito»; per la seconda, la natura del programma e le sue motivazioni non facevano del programma stesso «un affare di maggioranza», cioè di formula politica: dunque, il governo chiedeva un voto favorevole a tutti i gruppi parlamentari. Nella esperienza dei governi tecnici, il programma di governo diviene, dunque, davvero quel «contratto» che realizza un indirizzo politico comune fra le camere ed il ministero; contratto del quale aveva, in precedenza, parlato la dottrina ma che era stato ben lontano dal realizzarsi nella storia dei governi di coalizione. Si può, anzi, dire che l’assoluto rilievo dato al programma è, in fondo, il dato che qualifica la definizione dei governi Ciampi e Dini come ministeri «tecnici». La stessa composizione dell’esecutivo, che risultava essere solo parzialmente politica nel governo Ciampi e del tutto tecnica nel governo Dini (di questo ministero non faceva parte nessun parlamentare), risultava, infatti, essa stessa garanzia di un’attuazione del programma efficiente e rigorosa. È del tutto evidente che quest’ultima caratteristica dei ministeri tecnici,

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corrispondendo ad una sospensione di quel circuito primario dell’indirizzo politico che va dai partiti al corpo elettorale e, poi, da questi al parlamento e dal parlamento al governo, non può che essere considerata «eccezionale e transitoria» (come riconosciuto da Dini nelle sue dichiarazioni programmatiche). Tuttavia, stante l’eccezionalità della situazione, appare del tutto corretto il rilievo secondo cui la sospensione del circuito democratico, evidente per ciò che riguarda la composizione di quei governi, non sia proseguita per ciò che riguarda, invece, la formazione dell’indirizzo politico. Il grande rilievo del programma di governo e della sua approvazione parlamentare trasformava, in altre parole, governi, nati tecnici in base al loro mandato ed alla loro composizione, in governi «politici» nel senso dei commi 1 e 2 dell’art. 94 Cost. D’altra parte, a conferma del fatto che il cuore della formula del governo parlamentare risiede proprio nel programma del gabinetto e nel conseguente, comune, indirizzo politico del governo e del parlamento, sta la constatazione che il programma di governo costituì, sia nel ministero Ciampi che in quello Dini, una vera discriminante politica fra una maggioranza, ad esso favorevole, ed una minoranza, ad esso contraria. È da notare, per quanto riguarda il governo Dini, che proprio durante il processo di attuazione del programma si chiarirono i rapporti all’interno di quell’equivoco schieramento parlamentare che aveva appoggiato il ministero (esso aveva, all’inizio, ottenuto la fiducia dello schieramento di centrosinistra e l’astensione dei gruppi del centro destra). Il punto conclusivo di quel processo fu rappresentato dalla presentazione nell’ottobre 1995 di una mozione di sfiducia da parte dei gruppi del centro-destra; tale mozione fu respinta grazie al sostegno dello schieramento di centro-sinistra. Fu in quella occasione che il presidente del consiglio ribadì, in coerenza con ciò che aveva affermato all’atto della nascita del governo, che il suo ministero si sarebbe dimesso alla fine del 1995, dopo l’approvazione della manovra finanziaria e di bilancio; il che, poi, effettivamente avvenne alla fine del dibattito parlamentare del gennaio 1996, che seguì alle dimissioni del governo. In conclusione, sembra corretto concludere che nell’esperienza parlamentare dei «governi tecnici», grazie al rilievo assunto dal programma, il rapporto politico fra governo e parlamento è rimasto molto lontano da quella interpretazione della «maggioranza di governo» che era stata proposta nella stagione dei governi di solidarietà nazionale. Malgrado la loro apertura al contributo di tutti i partiti, i governi tecnici non sono stati, infatti, appoggiati da maggioranze variabili a seconda dei provvedimenti sottoposti all’approvazione delle camere, ma si è constatata, in generale, l’esistenza di una maggioranza e di una minoranza che erano tali proprio in rapporto all’indirizzo politico programmatico del governo. Non a caso, proprio nella stagione dei governi tecnici trova inedite potenzialità applicative la mozione di sfiducia al governo, ma le peculiarità

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del contesto politico determinano sempre la loro reiezione, non senza esiti paradossali: in sintesi, la mozione del PDS (definita «semi-costruttiva» perché delinea, sia pure con tratti generali un nuovo esecutivo ed un nuovo programma) nei confronti del I governo Amato è respinta dalla maggioranza che in tal modo si compatta (o è costretta a compattarsi); la paradossale vicenda della mozione di sfiducia al governo Ciampi, ritirata e sostituita dagli stessi presentatori con una risoluzione di fiducia per proseguire l’attività di governo e quindi per prolungare la legislatura, è risolta dal presidente del consiglio con l’annuncio delle dimissioni del governo per le profonde divaricazioni esistenti tra i partiti circa le prospettive della legislatura; infine, la mozione di sfiducia del centro-destra contro il governo Dini dopo il c.d. «caso Mancuso» è respinta grazie alla decisione del gruppo di rifondazione comunista di non partecipare alla votazione, dopo avere ottenuto l’assicurazione da parte del presidente del consiglio delle dimissioni del governo dopo l’approvazione della manovra di bilancio e comunque non oltre la fine del 1995. La presentazione delle dimissioni il 30 dicembre, in ottemperanza all’impegno preso, si accompagna però alla reiezione delle dimissioni da parte del capo dello Stato e al rinvio del governo alle camere, suscitando polemiche da parte del centro-destra e di rifondazione comunista (entrambi i gruppi contestavano infatti che le dimissioni del governo fossero annoverabili tra quelle extraparlamentari, essendo invece la conseguenza di un impegno solennemente assunto in parlamento dal presidente del consiglio). In questo quadro, come si evince anche dalle vicende ora descritte, il presidente del consiglio assume un ruolo inedito nelle crisi di governo, i cui «tempi» sono dettati dalla propria iniziativa politica (E. CHELI, Riflessi della transizione nella forma di governo, in Quad. cost., 1994, p. 396).

5. Crisi di governo e «succedanei» delle situazioni di crisi Dopo l’instaurazione del rapporto di fiducia, l’indirizzo politico, stabilitosi grazie al coordinamento fra governo e parlamento può modificarsi per iniziativa dell’uno o dell’altro soggetto. Ciò può avvenire o per il mutato atteggiamento delle forze politiche di maggioranza, o per un cambiamento dei rapporti fra maggioranza di governo ed opposizione o, infine, per il manifestarsi di fatti nuovi nella realtà economico-sociale del paese. Può accadere, dunque, che governo e parlamento modifichino esplicitamente o tacitamente l’indirizzo politico stabilitosi attraverso il voto di fiducia. Un caso di modificazione esplicita all’indirizzo originario può essere rappresentata da un dibattito parlamentare che si concluda con una mozione, risoluzione o ordine del giorno modificativi dell’indirizzo concordato. In tal caso, il governo può accettare il nuovo indirizzo parlamentare,

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integrandolo con il proprio; al contrario, se ritenga inaccettabile la modifica, il governo rassegnerà le dimissioni. Si noti che lo stesso meccanismo può funzionare, però, anche all’inverso. Nel senso che il governo può, attraverso proprie dichiarazioni alle camere, annunciare modifiche anche significative al programma concordato (si pensi al governo Prodi II, a seguito della crisi «rientrata» del febbraio 2007). In tal caso, il voto favorevole del parlamento sulla mozione, risoluzione o ordine del giorno presentato dalla maggioranza (o da un partito della stessa) vale come accettazione del nuovo indirizzo politico. Ancora, una modifica esplicita dell’indirizzo politico concordato tra parlamento e governo può avvenire attraverso il voto contrario di una o entrambe le camere su una proposta del governo volta all’attuazione del programma. Per questo caso, lo stesso art. 94 Cost. dispone che il voto contrario delle camere su una proposta proveniente dall’esecutivo non importa l’obbligo di dimissioni del governo; che viene lasciato, così, libero di valutare se la repulsione della sua proposta incida sull’indirizzo e, in caso affermativo, è libero di accettare o meno la modifica. La norma costituzionale è opportuna perché evita di irrigidire troppo l’indirizzo politico derivante dalla mozione di fiducia. È vero, infatti, che se il governo non avesse alternative fra l’accettare la modifica all’indirizzo e le sue dimissioni, l’art. 94 Cost. potrebbe trasformarsi in un incentivo all’instabilità governativa o favorire, al contrario, lo «smontaggio» parlamentare del programma concordato. Ciò, contro le intenzioni del costituente che ha voluto, invece, costruire il rapporto di fiducia ex art. 94 Cost. nel senso di garantire la costanza della relazione governo-parlamento. In base all’art. 94, comma 2, Cost. (fiducia mediante mozione motivata) si deve, tuttavia, ritenere che il nucleo fondamentale del programma di governo non sia modificabile. Di dubbia costituzionalità è stata, perciò, la «novazione» del programma e della maggioranza a sostegno del governo Andreotti III operata dai partiti della maggioranza, in parlamento, nell’estate del 1977, con una mozione approvata nella sola camera dei deputati. Era del tutto conseguente, quindi, alla ratio costituzionale la norma consuetudinaria che consentiva al governo (e per esso al presidente del consiglio) di porre la questione di fiducia su una sua proposta. In tal modo, il governo era posto in condizione di rovesciare sul parlamento la responsabilità di un’eventuale apertura della crisi, sottolineando l’essenzialità di quella proposta per l’attuazione dell’indirizzo concordato. La norma consuetudinaria riguardante la questione di fiducia che era già stata recepita dal regolamento della Camera dei deputati, è regolata, oggi, dagli artt. 2 e 5 della legge n. 400 del 1988, che sembrano coerenti con la tradizione post-costituzionale. È al presidente del consiglio dei ministri, infatti, che spetta, in base all’art. 5, l’iniziativa politica della posizione della questione di fiducia che il

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presidente può, tuttavia, porre alle camere anche a mezzo di un ministro espressamente delegato. Tuttavia, dato che la questione di fiducia incide sempre, come si è accennato, sull’«indirizzo politico fissato dal rapporto fiduciario con le camere» (art. 2, comma 1, legge n. 400 del 1988), opportunamente il comma 3, lett. a), dello stesso articolo sottopone alla deliberazione del consiglio dei ministri l’iniziativa presidenziale di porre (o togliere) la questione di fiducia. La dottrina (per tutti, M. GALIZIA, Crisi di gabinetto, in Enc. dir., XI, Milano, Giuffrè, 1962, p. 381) ritiene, tuttavia, che il governo non possa porre la questione di fiducia su materie che sono al di fuori del rapporto di fiducia e su materie che impediscono l’esercizio della funzione di controllo parlamentare sul governo. Questa tesi risulta pienamente condivisibile. Di ciò si fanno carico i regolamenti parlamentari che, infatti, prevedono limiti alla questione di fiducia esattamente nel senso indicato (art. 116, comma 4, reg. camera; art. 161, comma 4, reg. senato: sul punto, in particolare, M. OLIVETTI, La questione di fiducia, cit.). Malgrado la legittimità dell’esistenza, nel nostro sistema costituzionale, della questione di fiducia, la Costituzione cerca di mantenere in perfetto equilibrio l’iniziativa parlamentare e quella governativa per quanto attiene all’indirizzo politico; come si desume chiaramente dallo stesso art. 94 Cost. che riconosce a ciascuna camera il potere di revocare la fiducia al governo mediante una specifica mozione di sfiducia. Vero è che l’art. 94 Cost. circonda la mozione di sfiducia di alcune cautele che non si ritrovano totalmente trasfuse nella procedura propria della questione di fiducia posta dal governo. Tuttavia, per quanto riguarda la proposizione delle questioni di fiducia da parte del governo, l’esclusione dell’obbligo di intervallo di tre giorni ha una sua logica motivazione perché la «questione di fiducia» si inserisce nel vivo di un dibattito parlamentare già instauratosi e tende, normalmente, a conservare l’indirizzo di maggioranza su una questione importante ma di limitata ampiezza (ed essendo la questione di fiducia posta dal governo non si applicano le norme di tutela della maggioranza di governo previste dall’art. 94, ultimo comma, Cost.). È appena il caso di ricordare che fino al 1994 per le ragioni politiche richiamate nei capitoli precedenti nessun governo è mai caduto su una votazione fiduciaria; successivamente, sono caduti sulla reiezione di una questione di fiducia posta sull’approvazione di apposite risoluzioni che approvavano dichiarazioni di politica generale dell’esecutivo i due governi Prodi, mentre il primo governo Berlusconi si è dimesso prima della votazione di una mozione di sfiducia che avrebbe certamente raccolto i voti favorevoli della maggioranza dei parlamentari alla camera. Mozioni di sfiducia senza successo sono state presentate contro i governi Ciampi, Dini, contro il quarto governo Berlusconi e, da ultimo, contro il governo Renzi (per il caso «petrolgate»).

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Una norma fondamentale che è, invece, comune alla mozione di fiducia, alla mozione di sfiducia e alla votazione conseguente alla posizione della questione di fiducia da parte del governo riguarda la procedura di voto. In tutti i tre i casi la mozione deve essere votata per appello nominale: cioè mediante un metodo di scrutinio dei voti non solo palese ma che identifichi i votanti ed il loro voto. La ratio della norma è quella di richiedere in questi casi un’aperta assunzione di responsabilità dei parlamentari nei confronti degli elettori. È proprio quest’ultima considerazione che esclude la possibilità di identificare la maggioranza di governo con la maggioranza alla quale si riferisce l’art. 64, comma 3, Cost. In altre parole, la flessibilità dell’indirizzo politico di governo non può significare né stravolgimento del programma di governo approvato dal Parlamento con la mozione motivata, né la sostituzione silenziosa di una maggioranza parlamentare diversa da quella maggioranza che ha concesso la fiducia al governo. Con la mozione motivata di fiducia, votata per appello nominale, la maggioranza parlamentare e il governo assumono, infatti, una precisa responsabilità politica di fronte al corpo elettorale e la circostanza che questa è, oggi, la sola forma di responsabilità politica nei confronti degli elettori che emerge nel nostro sistema costituzionale deve indurre a considerare tale responsabilità come particolarmente impegnativa: non modificabile, cioè, sostanzialmente, attraverso le normali procedure di voto parlamentari. In questo senso, la possibilità, per il governo, di porre la questione di fiducia in difesa del programma è secundum Constitutionem; così come secundum Constitutionem possono essere considerate le modifiche dei regolamenti parlamentari approvate nel 1988; modifiche in base alle quali le votazioni debbono normalmente avvenire a scrutinio palese. Anche quest’ultima norma ha per fine quello di consolidare la maggioranza parlamentare. Ciò è del tutto coerente con la nostra forma di governo che, in base all’art. 94 Cost., richiede una chiara distinzione fra una maggioranza, che ha il potere-dovere di governare, ed una minoranza che ha quello di controllare e di stimolare. Come si è già anticipato, la crisi di governo può nascere, secondo l’art. 94 Cost., in base ad una mozione di sfiducia, oppure per un voto contrario alla questione di fiducia posta dal governo o per dimissioni dello stesso governo: le crisi del primo tipo vengono definite «parlamentari», mentre le seconde vengono classificate come crisi «extraparlamentari», oppure impropriamente parlamentari se le dimissioni governative nascono in Parlamento per motivi diversi da un voto di sfiducia; come accade, per esempio, quando il governo riceva un voto sfavorevole su una sua proposta sulla quale non sia stata posta la questione di fiducia. Peraltro, entro lo schema delle crisi di governo «extraparlamentari» rientrano una congerie diversa di situazioni, ovvero, quantomeno: a) le

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crisi che si producono all’inizio della legislatura, per cui la durata di un governo non può eccedere quella del rispettivo parlamento (così, il governo Ciampi si dimise all’indomani delle elezioni del 1994; un’eccezione si è registrata solo nel 1948 con il V governo De Gasperi che si limitò a richiedere e ottenere il rinnovo della fiducia); b) le crisi originate da un voto del parlamento contrario a una proposta del governo; c) le crisi originate da gravi dissensi tra i ministri (così, il II governo Spadolini); d) le crisi originate da una decisione personale del presidente del consiglio (così le dimissioni del terzo governo Rumor); e) le crisi originate da un’alterazione della coalizione di governo (L. PALADIN, Diritto costituzionale, cit., p. 393). La prassi costituzionale repubblicana si è, però, dimostrata refrattaria alla procedura che prevede la proposizione della sfiducia al governo attraverso una mozione, secondo il modello delineato dall’art. 94 Cost. Come si è accennato, almeno fino al 1994 la forma di governo italiana è stata contrassegnata per due elementi apparentemente contraddittori: una forte instabilità governativa ed una sostanziale stabilità della consociazione dei partiti abilitati ad esprimere la coalizione di governo (con una lenta evoluzione di formule politiche, dal «centrismo», al «centro-sinistra», alla «solidarietà nazionale» al «pentapartito»). Dopo il 1994, mentre il secondo elemento sembra venuto meno, rimane attuale il primo, non essendosi ancora avuti governi di legislatura. Questo stato di cose ha finito per favorire fenomeni di crisi non riconducibili all’art. 94 Cost., ma dimissioni «spontanee» degli esecutivi, indotti generalmente dalla dissociazione di uno o più partners di governo, talvolta tradotta in un voto contrario in parlamento ad una proposta del governo. Se in passato si era dubitato della legittimità costituzionale di tali prassi, oggi le crisi «extraparlamentari» sono ritenute non contrarie alla Costituzione (sul punto, per tutti, M. VILLONE, Art. 94, in Commentario della Costituzione – Il consiglio dei ministri, Bologna-Roma, Zanichelli-Il foro italiano, 1994, pp. 262 ss.). L’assoluta prevalenza di tali crisi ha posto però il problema di come informare sia il Parlamento sia i cittadini dei motivi della crisi, anche per evitare non tanto che il complesso partiti-governo sia arbitro dell’apertura della crisi (ciò è inevitabile) ma che resti politicamente irresponsabile delle conseguenze di essa. Per questo, sempre più di frequente, specie dopo il settennato di Pertini, i presidenti della Repubblica hanno tentato di «parlamentarizzare» le crisi nate fuori dal parlamento, riportandole appunto nella sede di almeno una delle due camere, attraverso l’invito al governo dimissionario di esporre i motivi della crisi e aprire così anche un dibattito parlamentare in qualche modo chiarificatore. Ciò peraltro non risulta sempre possibile (si pensi ai casi in cui la decisione del presidente del consiglio sia irrevocabile come nel caso del secondo governo Fanfani nell’ottobre 1959 e del governo Letta nel febbraio 2014), perché si ritiene che il governo non ab-

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bia l’obbligo di aderire alle sollecitazioni del capo dello Stato, anche perché «la facoltà di dimettersi è propria di tutti i funzionari statali, ed a più forte ragione va dunque riconosciuta a coloro che esercitano funzioni di natura politica» (L. PALADIN, Diritto costituzionale, cit., p. 395) e in questi casi le camere si debbono limitare a prendere atto della lettera di dimissioni inviata, secondo la prassi, dal presidente del consiglio e ai presidenti dei due rami del parlamento. Nel 1991 la camera approvò poi una mozione (a prima firma Scalfaro) che impegnava il governo in carica qualora avesse inteso presentare le proprie dimissioni a rendere una previa comunicazione motivata alle camere. In quella circostanza l’impegno fu disatteso; a partire dall’XI legislatura i governi dimissionari si sono presentati preventivamente alle camere, salvo quando avessero preannunziato «in anticipo» la propria intenzione di dimettersi (governi Berlusconi IV, Monti, Renzi). Più in generale, si ritiene inopportuna o superflua la «parlamentarizzazione» nei seguenti casi: a) superamento delle circostanze che hanno provocato la crisi (in questo caso è possibile la reiezione delle dimissioni senza formale rinvio alle camere, come nel caso del quarto governo Rumor); b) possibilità che il dibattito parlamentare successivo aggravi ulteriormente i contrasti all’interno della maggioranza; c) mancanza del consenso del presidente del consiglio dimissionario (sul punto, per tutti, L. PALADIN, Presidente della Repubblica, in Enc. dir., XXXV, Milano, Giuffrè, 1986, p. 198). Come è stato esattamente osservato, la «parlamentarizzazione» delle crisi di governo ha risposto ad un’esigenza di trasparenza e alla connessa necessità di salvaguardare il ruolo del capo dello Stato, soprattutto in presenza di più soluzioni possibili della crisi, che potrebbero determinare polemiche politiche; tuttavia, tale strumento ha evidenziato nella prassi uno scarso rilievo nell’ottica della soluzione della crisi, essendo da esso, ma solo in alcuni casi, «potuto derivare solo un chiarimento delle ragioni che l’hanno determinata e magari alcune indicazioni allo stesso capo dello stato per la sua soluzione» (A. REPOSO, Lezioni, cit., p. 183). Viceversa, soprattutto prima del 1994, la parlamentarizzazione della crisi si è tradotta frequentemente in una mera comunicazione alle camere che non è sfociata né in un voto e, talvolta, nemmeno in una discussione, poiché il presidente del consiglio si è limitato a ribadire l’intenzione di rimettere il mandato (e ciò per ragioni politiche, ovvero per non inasprire i rapporti tra i gruppi della maggioranza, destinati a tornare a collaborare): in tali casi, quindi, il parlamento finisce per atteggiarsi solo come una sorta di «convitato di pietra». Rimane quindi confermato, secondo la più consolidata dottrina (per tutti, C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, I, cit., p. 592 ss.), che il capo dello Stato deve accettare le dimissioni del governo solo nei casi di cui all’art. 94 Cost., ovvero quando questi non ottenga la fiducia o sia colpito da sfiducia o in caso di morte, impedimento permanente, decadenza

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del presidente del consiglio. Sono proprio questi i casi di cessazione del governo che meno frequentemente si sono verificati nell’esperienza costituzionale italiana. Come si è già accennato, i governi generalmente cessano dalle funzioni per dimissioni che possono trovare il loro fondamento nelle più varie ragioni politiche. In questi casi, il presidente della Repubblica è libero di valutare l’an e il quomodo dell’accettazione delle dimissioni del governo. Infatti, il presidente della Repubblica ha dinanzi a sé diverse strade. Anzitutto, come detto, può respingere le dimissioni del governo e rinviarlo di fronte alle camere; al contrario, può accettare subito le dimissioni del governo e in questo caso i partiti politici godranno di una sostanziale libertà nel predisporre la soluzione della crisi; ancora, può accettare con riserva le dimissioni del governo: in questa terza ipotesi, si apriranno le consultazioni per la formazione di un nuovo governo, ma il capo dello Stato potrà, nel caso di non positiva conclusione delle stesse, non accettare le dimissioni del governo in carica, rinviarlo alle camere o (qualora ritenga che la crisi apertasi non abbia possibilità di soluzione) sciogliere anticipatamente il parlamento; cosicché le elezioni anticipate saranno gestite dal governo dimissionario. A questo proposito, come si è detto, un caso assai problematico è quello della costituzione di un nuovo governo al solo scopo di gestire le elezioni, pur non ottenendo la fiducia delle camere. Come si vede, i poteri che la consuetudine ha attribuito al presidente della Repubblica relativamente all’an e al quomodo dell’accettazione delle dimissioni del governo sono tali da influenzare in maniera condizionante anche il rapporto tra il governo in carica e il capo dello Stato. Da questo punto di vista, si può dire che, come il potere di provocare, con le proprie dimissioni, la crisi di governo costituisce la manifestazione più visibile della posizione di supremazia del primo ministro all’interno del governo, così la larga discrezionalità della quale gode il presidente della Repubblica nell’accettare o respingere le dimissioni del governo tende a porre quest’ultimo in una posizione di responsabilità di fronte al capo dello Stato. Si è parlato perciò, come già anticipato, nella prassi di una sorta di tendenza verso un regime di «doppia responsabilità» del governo (quindi anche nei confronti del capo dello Stato) che tende ad accentuarsi nelle situazioni di più grave incertezza politica ma che si è manifestata in ogni caso da quando (soprattutto a partire dalla presidenza Pertini) il capo dello Stato ha affermato il suo determinante potere nella decisione di scioglimento anticipato delle Camere. Questa interpretazione dell’art. 88 Cost., come si dirà (par. 6), ha consentito infatti al capo dello Stato di porsi come un soggetto fortemente condizionante della continuità della «formula politica» di governo e come l’attivo sostegno dei presidenti del consiglio in carica (si pensi già ai governi Cossiga e Spadolini) contro le «imboscate» degli altri partiti della coalizione e le frequenti tentazioni di autoscioglimento della maggioranza parlamentare.

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Il sostegno del capo dello Stato ai governi in carica è risultato, poi determinante nei casi dei governi tecnici (cfr. supra, par. 4). Rimane ora da parlare delle crisi di governo che possono nascere da fatti riguardanti il presidente del consiglio o i singoli ministri. Nessun dubbio che alle dimissioni del presidente del consiglio debbano seguire quelle dell’intero governo (così il terzo governo Rumor), anche se dissenziente; così come non appare seriamente ipotizzabile un voto di sfiducia del parlamento individualmente rivolto al presidente del consiglio che non implichi sfiducia all’intero governo. In base all’art. 94 Cost., il presidente del consiglio è, infatti, responsabile della politica generale del governo. Dal che discende che la caduta del presidente del consiglio, quale ne sia la causa, coinvolge direttamente, per intero, l’indirizzo politico governativo. In altre occasioni, le dimissioni del presidente del consiglio possono essere provocate da cause non politiche. Ai casi di impedimento fisico o psichico già evidenziati dalla dottrina si deve aggiungere la decadenza prevista quale sanzione accessoria in caso di condanna per un reato ministeriale (art. 10, legge cost. n. 1 del 1989) o in forza dall’art. 6 del d.lgs. n. 235 del 2012 a seguito di una sentenza definitiva di condanna per uno dei reati di cui all’art. 1 dello stesso decreto: in questi casi l’art. 6 in oggetto prevede l’adozione di un decreto del presidente della Repubblica, curiosamente adottato su proposta del ministro dell’interno. In tutti questi casi le dimissioni del presidente sono obbligatorie (e ad esse seguono logicamente quelle dell’intero governo) ed il capo dello Stato può (secondo la maggioranza della dottrina) revocare il primo ministro che si rifiuti (o non sia fisicamente in grado) di rassegnarle. Un problema particolare riguarda l’ammissibilità della revoca del singolo ministro e della sfiducia parlamentare rivolta contro un singolo membro del governo. Per quanto riguarda la revoca del singolo ministro, essa dovrebbe avvenire con un atto eguale e contrario a quello di nomina, cioè con un decreto del capo dello Stato. Teoricamente, l’atto potrebbe essere assunto su iniziativa del presidente del consiglio (o dello stesso capo dello Stato) per impedimento, decadenza (negli stessi casi in cui può essere comminata per il presidente del consiglio) e, soprattutto, a causa di comportamenti che risultino lesivi dell’unità e dell’omogeneità del governo o, comunque, in contrasto con i poteri di promozione e coordinamento esercitati dal presidente del consiglio a norma dell’art. 95 Cost. In passato, la dottrina aveva dato soluzioni aperte al problema della revoca ministeriale, perché si era quasi concordemente escluso che la revoca potesse avvenire per iniziativa del capo dello Stato, sulla base della considerazione che dopo la fiducia parlamentare viene a cessare «nel presidente della Repubblica la competenza a valutare l’indirizzo politico in ordine alle nomine dei membri del governo» (A. PREDIERI, Lineamenti, cit., pp. 158-

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159). Si ammetteva, invece, il potere del primo ministro di provocare la revoca del singolo ministro in base ai poteri di direzione del governo attribuitigli dall’art. 95 Cost. (C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, I, cit., p. 564; cfr. anche G. RIZZA, Il presidente del consiglio dei ministri, cit., pp. 175 e 239; P.A. CAPOTOSTI, Accordi di governo, cit., p. 181). Successivamente, il consolidarsi della forma di governo basata sui governi di coalizione e sull’ingerenza partitica nell’indirizzo di governo, ha fatto ritenere «praticamente […] non utilizzabile» lo strumento della revoca ministeriale (L. PALADIN, Governo italiano, cit., pp. 694 ss.); ed anzi, all’instabilità prodotta dall’ingerenza partitica, il sistema costituzionale ha, in alcuni momenti, cercato di reagire potenziando le linee di raccordo fra presidente del consiglio e capo dello Stato. La garanzia del sostegno del capo dello Stato contro la «feudalizzazione» del governo condusse, come si è accennato, il presidente del consiglio Spadolini a sostenere la necessità di «una prassi costituzionale tale per cui il presidente del consiglio possa proporre al presidente della Repubblica la revoca dei ministri o dei sottosegretari […] inadempienti al dovere di collegialità». E tuttavia, di fronte a tali intenzioni sta la crisi del secondo governo Spadolini, provocata da un ennesimo aperto dissidio tra il ministro del tesoro Andreatta (DC) e il ministro delle finanze Formica (PSI). In quell’occasione, come si è ricordato, il presidente del consiglio chiese le dimissioni dei due ministri: ricevuta la disponibilità a dimettersi solo di uno di essi, Spadolini preferì presentare le proprie dimissioni, insieme a quelle dell’intero governo. È noto che la sent. n. 7 del 1996 non ha risolto questo nodo interpretativo, mentre ha ammesso la sfiducia individuale ai ministri, anche contro una parte non irrilevante della dottrina che si era pronunciata per l’incostituzionalità dell’istituto (cfr. supra, cap. 3, par. 3), inquadrando la stessa nel contesto dei principi costituzionali desumibili dagli artt. 92 ss. Cost., e in particolare alla luce della tesi secondo cui la responsabilità individuale dei ministri, di cui all’art. 95 Cost., è indissolubilmente collegata (nel senso che ne costituisce la necessaria specificazione) all’indirizzo politico generale del governo, in un equilibrio nel quale il singolo ministro interpreta individualmente l’interesse di settore del proprio dicastero, e, tuttavia, quell’interesse deve comporsi con il comune indirizzo politico in un quadro che non sta al singolo ministro di decidere o giudicare. Di fatto, fino alla XVI legislatura anche la mozione di sfiducia individuale ha conosciuto una prassi alquanto sporadica e limitata, risultando difficilmente praticabile sul piano politico, perché di fatto tale da incidere sulla sopravvivenza stessa del governo. Di fatto, come si è accennato, la revoca dei ministri nella prassi non è mai stata tentata, perché, stante la dinamica coalizionale, la sua utilizzazione avrebbe avuto come conseguenza la crisi di governo: in effetti, nella prassi più recente si sono avuti solo casi di «quasi-revoca» di ministri tecnici (si vedano, ad esempio, le dimissioni del ministro Ruggiero nel II go-

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verno Berlusconi), mentre in altri casi, soprattutto in passato, dissensi tra il presidente del consiglio ed i ministri o tra ministri, che avrebbero potuto essere composti con il riconoscimento del potere di revoca, hanno provocato la crisi di governo (si pensi, come detto, al II governo Spadolini) o situazioni di «pre-crisi» o comunque situazioni di tensione grave interne al governo (si pensi ai dissensi tra il presidente del consiglio e il ministro dell’industria Guarino, durante il primo governo Amato). Da questo punto di vista, è sintomatico il previo «assenso» del leader della lega nord alla richiesta del presidente del consiglio di dimissioni del ministro Calderoli alla fine della XIV legislatura. Oltre a non essere espressamente prevista dalla Costituzione, la revoca è apparsa alla dottrina maggioritaria impraticabile alla luce della tesi che inquadra il presidente del consiglio come primus inter pares, negando l’esistenza di un rapporto fiduciario tra quest’ultimo e i singoli ministri. Tuttavia, l’inesistenza di una preminenza del presidente del consiglio all’interno del governo è stata affermata, più ancora che da considerazioni di carattere teorico, principalmente dalla prassi che, come si è ripetutamente affermato, ha esaltato il ruolo dei partiti a partire dalla formazione del governo e dalla nomina dei ministri (per tutti, P.A. CAPOTOSTI, Accordi di governo, cit., pp. 192 ss.): in tal modo, poiché i ministri erano di fatto i «rappresentanti» dei partiti in seno al governo, non aveva senso porsi il problema dell’esistenza di un rapporto di fiducia personale tra presidente del consiglio e ministri (per tutti, L. PALADIN, Governo italiano, cit., p. 696). Viceversa, come si era osservato già a proposito del «caso Mancuso», la revoca «non è vietata e può utilmente rispondere all’esigenza di tutelare l’unità ed omogeneità del governo, nonché la sua stessa funzionalità, dinanzi a diverse possibili vicende che investano la credibilità personale o lo spirito di corretta collaborazione di singoli ministri, o il loro stato di salute, senza che da queste vicende, strettamente relative ad un singolo ministro, debba derivarne la fine dell’esistenza dell’intero governo» (U. DE SIERVO, Sei domande ai costituzionalisti provocate dal «caso Mancuso», in Giur. cost., 1995, p. 4690). Né tale auspicata innovazione finirebbe per alterare il rapporto fiduciario tra governo e parlamento, poiché, come è stato giustamente osservato, tali alterazioni conseguono anche, di fatto, a rimpasti o dimissioni: così, nel caso di una revoca, su proposta del governo o del parlamento, potrebbe sempre seguire un dibattito parlamentare con la successiva verifica della perdurante permanenza del rapporto fiduciario (P. CARETTI, Sei domande, cit., p. 4670). In questo senso, la sfiducia individuale costituisce un correttivo limitato e per certi versi discutibile, e non solo per le difficoltà pratiche della sua attuazione (tale strumento si è rivelato di fatto inutilizzabile per l’opposizione; non a caso, la sfiducia a Mancuso è stata pronunciata dalla maggioranza con il tacito assenso del presidente del consiglio: L. CARLASSARE, Governo, parlamento e presidente della Repubblica, cit., p. 83):

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l’inammissibilità della revoca dovrebbe indurre il presidente del consiglio a chiedere al parlamento di sfiduciare un ministro che non accetti di dimettersi anche nel caso in cui la richiesta di dimissioni sia avallata dal proprio partito (A. REPOSO, Lezioni, cit., p. 201). La sola previsione della sfiducia individuale, infatti, ha finito per ridimensionare il presidente del consiglio, apparendo funzionale ad una concezione di governo «per feudi»: «Quella che poggia su una coalizione di spartizione dei ministeri con un presidente del consiglio «travicello»: intravista nei peggiori momenti della vita pubblica italiana» (A. MANZELLA, Il parlamento, cit., p. 399). Viceversa, nell’ottica di un governo di legislatura, l’eventuale dissenso di un ministro assume un significato nuovo e più grave, rispetto al quale non sembra più possibile evocare come scenario risolutivo la mozione di sfiducia individuale o, peggio, la crisi dell’intero governo: appare invece ormai possibile affermare «l’esistenza di una responsabilità politica del singolo ministro verso chi è alla guida del governo, che, nel nostro ordinamento, in base all’art. 95 Cost., «dirige la politica generale del governo e ne è responsabile» (L. CARLASSARE, Governo, parlamento e presidente della Repubblica, cit., p. 87). A questa rinnovata interpretazione dei poteri del presidente del consiglio dovrebbe accompagnarsi una interpretazione adeguatrice o anche ad una revisione di alcune disposizioni conseguenti della legge n. 400 del 1988 che inquadrano il presidente del consiglio come organo che «ha le chiavi del sistema, ma la macchina è predisposta dal consiglio dei ministri (e dai partiti che lo sostengono)» (M. MEZZANOTTE, La figura del presidente del consiglio tra norme scritte e prassi, in Pol. dir., 2001, p. 331). Si pensi, in particolare, alla debole disciplina delle direttive connesse alla responsabilità di direzione della politica generale del governo (art. 5, comma 2, lett. a); si pensi ancora alla possibilità, riconosciuta al presidente del consiglio, di provocare una deliberazione del consiglio dei ministri, sospendendo atti ministeriali (art. 5, comma 2, lett. c), non consentendo ad un ministro l’adozione di un atto sgradito: si tratta, cioè, di uno strumento che consente al consiglio dei ministri solo «di precisare le linee di politica generale cui esso deve attenersi nell’esercizio delle proprie funzioni» (F. DONATI, La responsabilità politica dei ministri nella forma di governo italiana, Torino, Giappichelli, 1997, p. 206). Per connessione con i problemi che derivano dal ruolo costituzionale dei ministri è opportuno trattare in questa sede il tema del rimpasto ministeriale: che si ha quando, per cause che possono essere le più varie (dimissioni, morte, sfiducia individuale), uno o più ministri vengono sostituiti senza che si apra il procedimento di crisi dell’intero governo. Da un punto di vista teorico, sembrerebbe costituzionalmente ammissibile solo il rimpasto inteso come sostituzione individuale di un ministro; tuttavia, nella prassi si rintracciano numerosi esempi di rimpasti riguardanti, contemporaneamente, una pluralità di ministri dimessisi non per

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ragioni personali ma con motivazioni politiche (così, in particolare, i rimpasti del governo De Gasperi IV; del sesto governo Andreotti; particolari, e in senso lato riconducibili, almeno in senso lato, a rimpasti anche quelli avvenuti prima ancora del giuramento, come nel caso del governo Andreotti VII o prima della fiducia iniziale, come nel caso del governo Ciampi), talvolta mettendo a disposizione il proprio mandato nelle mani del presidente del consiglio (così, già nel caso del governo Pella nel dicembre 1953). In questi casi (quando, cioè, una parte dei ministri si dimette per ragioni di dissenso politico con l’indirizzo di governo) sembrerebbe costituzionalmente più corretto che l’intero governo faccia seguire le sue dimissioni; magari per riottenere dal Parlamento la fiducia sullo stesso programma e su una compagine governativa mutata soltanto nei sostituti dei ministri dimissionari. La legge n. 400 del 1988 prevede all’art. 5 che il presidente del consiglio abbia l’obbligo di comunicare alle camere ogni mutamento che sia intervenuto nella composizione del governo. Come si vede, tale disposizione non impone una previa deliberazione del consiglio dei ministri, a dimostrazione, ancora una volta, della consapevolezza della determinante rilevanza del consenso della coalizione per cui «anche un consenso acquisito informalmente dà in concreto risposta, pur in assenza di decisioni formali nella sede collegiale, alla esigenza di continuità che caratterizza il rimpasto» (M. VILLONE, Art. 94, cit., p. 285). Sul seguito da dare a queste comunicazioni, la prassi parlamentare è oscillante. In genere si è giunti ad una votazione fiduciaria (in seguito alla presentazione di una risoluzione a conclusione del dibattito) solo quando le motivazioni delle dimissioni rendevano evidente l’esistenza di profonde divergenze politiche fra il ministro, o i ministri, dimissionari, e gli altri membri del governo: peraltro, non mancano oscillazioni o eccezioni, come dimostrano le peculiari vicende della sostituzione di cinque ministri della corrente di sinistra della DC nel luglio 1990 (governo Andreotti VI) e, ancor prima (1960), delle dimissioni dei ministri della stessa componente dopo che il governo Tambroni aveva ricevuto la fiducia alla camera con il voto determinante del MSI. Diverso, come accennato, il singolare caso avvenuto all’indomani della formazione del governo Ciampi: quando quattro ministri che avevano appena giurato nelle mani del capo dello Stato decisero di rassegnare le dimissioni dal governo (ancora in attesa di fiducia), a seguito della votazione parlamentare che aveva negato l’autorizzazione a procedere contro il deputato e segretario del PSI Bettino Craxi. Infatti, in questa circostanza il rapporto fiduciario con il parlamento venne a instaurarsi dopo che i quattro ministri erano stati già sostituiti. In ogni caso, il rimpasto costituisce un istituto problematico, non essendo facile stabilire il limite oltre il quale dovrebbe essere necessaria l’apertura della crisi di governo e la formazione di un nuovo esecutivo: lo stesso criterio «quantitativo» (ovvero il numero dei portafogli coinvolto)

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non appare decisivo, dovendosi guardare, oltre che alle motivazioni della sostituzione, anche al «peso» politico-istituzionale dei ministeri il cui titolare è sostituito. In ogni caso, sembra eccessivo legittimare, in via generale, i fenomeni di rimpasto sulla base di una «fiducia presunta» che si estenderebbe al governo nella nuova composizione (L. ELIA, Dimissioni di ministri, crisi e rimpasto, in Giur. cost., 1960, pp. 395 ss.), se non altro perché la fiducia ha ad oggetto, oltre che il programma, anche la composizione dell’esecutivo.

6. Lo scioglimento anticipato delle camere dopo la svolta del 1993 Senza che in questa sede possano essere richiamate le complesse problematiche interpretative dell’art. 88 Cost., occorre ricordare che nemmeno dopo la «rivoluzione elettorale» del 1993 è mutata nella prassi la tesi secondo cui lo scioglimento anticipato delle camere costituisce una extrema ratio, né essa sembra sostanzialmente superata anche dalle vicende politico-istituzionali più recenti, sul presupposto di una evoluzione in senso «neoparlamentare» della forma di governo. Rinviando al cap. 2, par. 7, l’analisi delle vicende successive alla caduta del primo governo Berlusconi, tanto la vicenda della crisi del II governo Prodi e del successivo scioglimento anticipato, quanto la mancata crisi del dicembre 2010 testimoniano un quadro fortemente permeato da ambiguità; in effetti, nel primo caso, dato il sostanziale aut/aut del presidente del consiglio dimissionario tra il suo reincarico e lo scioglimento anticipato delle camere, il mandato esplorativo a Marini, fallito prevalentemente per la volontà del PD di non assecondare una riforma elettorale calibrata sul modello tedesco (sul quale vi era il sostegno anche di partiti dell’opposizione, quali la lega nord e l’UDC), oltre che per la difficoltà politica nell’UDC di sostenere un esecutivo di centro-sinistra, testimonia che la gestione della crisi non ha seguito la logica tipica di un’evoluzione in senso «neoparlamentare» della forma di governo: anzi, come è stato giustamente sostenuto, nel 2008 non si è compiutamente realizzata «una nuova lettura del disposto costituzionale la quale, valorizzando la controfirma ex art. 89, recuperasse al premier una funzione di organo «proponente» il decreto di dissoluzione anticipata» (M. TIMIANI, Il potere di scioglimento nel sistema bipolare: considerazioni «sotto dettatura» della prassi, in Quad. cost., 2008, p. 329) ed appare fondato quantomeno il dubbio che la formazione di un governo sostenuto da una maggioranza parlamentare diversa da quella del II governo Prodi non sia stata ritenuta da Napolitano assolutamente preclusa (S. LEONE, Sugli automatismi in tema di scioglimento anticipato delle camere, in Quad. cost., 2008, p. 354), ma semplicemente politicamente impraticabile (V. LIPPOLIS, La crisi del secondo governo Prodi, in Rass. parl., 2008, p. 375 ss.).

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È altresì vero però che l’eventuale governo Marini avrebbe avuto uno spettro programmatico assai limitato, sul presupposto dell’inopportunità della prosecuzione della legislatura con un indirizzo diverso da quello risultante dal voto dell’aprile 2006 (G. PICCIRILLI, I paradossi della questione di fiducia ai tempi del maggioritario, in Quad. cost., 2008, p. 799). D’altra parte, la vicenda della reiezione della mozione di sfiducia al IV governo Berlusconi ha testimoniato, da un lato, la fragilità complessiva del sistema politico (la mozione è stata respinta grazie alla benevola astensione della SVP, cui si sono aggiunti parlamentari «transfughi» dai gruppi di opposizione e alcuni parlamentari di FLI, peraltro firmatari della mozione di sfiducia), dall’altro, la determinazione del presidente del consiglio di non dimettersi prima dell’esito della votazione parlamentare, ritenendo ogni altra soluzione incompatibile con un assetto nel quale il governo in carica sarebbe stato scelto dagli elettori, dall’altro ancora la posizione dei gruppi di opposizione e di FLI favorevoli alla continuazione della legislatura con un esecutivo diverso. Da questo punto di vista, il testo della mozione di sfiducia presentato dai gruppi di FLI, UDC ed API si limitava a prefigurare uno scenario simile a quello successivo alla crisi del II governo Prodi che non si era però realizzato per l’intervenuto scioglimento delle camere (il testo della mozione, n. 1-00511 auspicava, infatti, «l’avvio di una nuova fase politica della legislatura ispirata al senso di responsabilità nazionale ed istituzionale, che punti a modifiche della legge elettorale per restituire la scelta degli eletti ai cittadini, con un governo capace di prendere le misure adeguate per evitare il declino del Paese e garantire il suo futuro civile ed economico»). A ciò si aggiungano le perplessità del presidente della Repubblica per un automatico scioglimento delle camere nel caso (poi non avvenuto) di approvazione della mozione di sfiducia. Così, nella dichiarazione resa dal presidente Napolitano al termine delle consultazioni a seguito della crisi del II governo Prodi, si legge che «sciogliere anticipatamente le camere ha sempre rappresentato la decisione più impegnativa e grave affidata dalla Costituzione al presidente della Repubblica. E questa volta la decisione dovrebbe essere assunta a meno di due anni dalle ultime elezioni. Considero perciò mio dovere riservarmi un’adeguata ponderazione e valutazione conclusiva; il che non può essere da nessuna parte inteso come scelta rituale o dilatoria» (30 gennaio 2008) (la dichiarazione è rinvenibile nel sito www.quirinale.it). Ancora, nel discorso alle alte cariche dello Stato del 20 dicembre 2010 si è insistito sulla perdurante vigenza delle regole costituzionali relative alla formazione ed alla durata in carica dei governi («La sorte di ogni governo è decisa dal parlamento, che accorda e revoca la fiducia»), e di quelle relative alle prerogative del capo dello Stato («Resta invece, nel nostro ordinamento, prerogativa del capo dello Stato […] sancire l’impossibilità di completare una legislatura parlamentare e quindi sciogliere le came-

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re»), affermando il carattere non fisiologico dello scioglimento anticipato delle camere («Quella degli scioglimenti anticipati è stata un’improvvida prassi tutta italiana, da cui speravamo di esserci liberati e al cui ripetersi sono tenuto a resistere nell’interesse generale») e la rilevanza degli equilibri politici, più ancora dei congegni istituzionali, per garantire la stabilità della coalizione di maggioranza («Anche in parlamenti eletti con leggi maggioritarie, è pur sempre la politica – è l’evolversi dei rapporti e dei conflitti politici, ed è la capacità di padroneggiarli – che determina la stabilità della coalizione di governo premiata dalle elezioni»), nonché la possibilità, ed anzi l’auspicio, di riforme istituzionali che consolidino il modello di democrazia dell’alternanza, emerso a partire dalle elezioni del 1994 (il testo del discorso è rinvenibile in www. quirinale.it). Non a caso, tali parole avvenivano all’indomani di una polemica politica nella quale un esponente di primo piano del PDL (uno dei «triumviri») aveva manifestato in modo quantomeno irrituale la sua opposizione all’ipotesi di elezioni anticipate decise contro i partiti vincitori delle elezioni del 2008 (l’on. Verdini aveva infatti affermato: «Le prerogative del Colle che potrebbe mandare a casa chi ha vinto le elezioni? Ce ne freghiamo politicamente» perché «anche i partiti hanno le loro prerogative». A tale affermazione, il capo dello Stato rispondeva che «nessuna presa di posizione politica di qualsiasi parte può oscurare il fatto che ci sono prerogative di esclusiva competenza del presidente della Repubblica»). A seguito delle avvenute dimissioni del governo, poi, il capo dello Stato, nella dichiarazione alla stampa successiva all’incarico al prof. Monti di costituire un nuovo governo, sosteneva poi come in quel contesto «tentare […] di evitare un precipitoso ricorso a elezioni anticipate e quindi un vuoto di governo, è un’esigenza su cui dovrebbero concordare tutte le forze politiche e sociali preoccupate delle sorti del paese», per cui in quel momento era fondamentale «dar vita a un governo che possa unire forze politiche diverse in uno sforzo straordinario che l’attuale emergenza finanziaria ed economica esige. Il confronto a tutto campo tra i diversi schieramenti riprenderà – senza che sia stata oscurata o confusa alcuna identità – appena la parola tornerà ai cittadini per l’elezione di un nuovo Parlamento» (il testo della dichiarazione è rinvenibile in www.quirinale.it). In definitiva, anche l’evoluzione più recente dimostra quindi la perdurante attualità la tesi dello scioglimento come atto c.d. «duumvirale» (per tutti, B. CARAVITA, Il presidente della Repubblica nell’evoluzione della forma di governo: i poteri di nomina e di scioglimento delle camere, in www.federalismi.it; P. COSTANZO, La gestione delle crisi di governo e lo scioglimento anticipato delle camere, in www.giurcost.org; G.U. RESCIGNO, Il presidente della Repubblica e le crisi del sistema, in www.astrid-online.it) che, in quanto tale, «impone la concordanza di volontà sia del capo dello Stato sia del presidente del consiglio, in rappresentanza del governo, evitando un uso arbitrario, personalistico e potenzialmente destabilizzatore di un congegno

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tanto delicato in un contesto di incerto bipolarismo» (M. VOLPI, La natura della forma di governo dopo il 1994, cit., p. 171). Pertanto, è rimasto attuale, ed ormai non contestato, il fatto che nel nostro ordinamento «non c’è spazio per il c.d. «scioglimento all’inglese» (C. CHIMENTI, Anatomia della XIV legislatura. Cronache di un quinquennio tra innovazione e continuità, Torino, Giappichelli, 2006, p. 71), sebbene ormai anche in quell’ordinamento si sia giunti ad una tipizzazione delle fattispecie di scioglimento nel fixed-term Parliaments Act 2011 (per tutti, O. CHESSA, La fine del modello Westminster. Il nuovo parlamentarismo razionalizzato del Regno Unito, in Dir. pubbl., 2015, pp. 809 ss.) nei soli casi di approvazione di un’apposita mozione approvata dalla House of Commons con la maggioranza dei 2/3 dei componenti, ovvero di approvazione di una mozione di sfiducia al governo se entro 14 giorni non viene costituito un nuovo esecutivo; né, evidentemente, vi è spazio per uno scioglimento deciso contro una maggioranza parlamentare disponibile ad esprimere un governo (una parziale eccezione è data dallo scioglimento del 1994, su cui cfr. supra, par. 4). Non a caso, nel colloquio con il capo dello Stato, richiesto dall’on. Berlusconi dopo le elezioni amministrative del giugno 2007, che a suo dire avrebbero delegittimato il II governo Prodi e la sua maggioranza, il leader dell’opposizione riconosceva che non sarebbe stato possibile lo scioglimento delle camere in presenza di una maggioranza o di una parvenza di maggioranza parlamentare. Non ha così trovato riscontri una nuova interpretazione dell’art. 88 Cost. alla luce delle mutate leggi elettorali, per cui si determinerebbe lo scioglimento in caso di rottura della coalizione premiata dal corpo elettorale o quale evenienza meramente fattuale (R. CHERCHI, Il governo, cit. A questa tesi può assimilarsi la curiosa proposta che vorrebbe costruire «a tavolino» una convenzione costituzionale per impegnare gli attori politici ad addivenire a «scioglimenti automatici» in caso di rottura della maggioranza uscita dalle elezioni e per fronteggiare i c.d. «ribaltoni»; allude a questa possibilità A. BARBERA, Tendenze nello scioglimento delle assemblee parlamentari, in ASSOCIAZIONE PER GLI STUDI E LE RICERCHE PARLAMENTARI, Quaderno n. 7 – Seminario 1996, Torino, Giappichelli, 1997, p. 20), o, ancora meno, come soluzione giuridicamente imposta in forza dell’evoluzione della forma di governo (contra, A. RUGGERI, Crisi di governo, scioglimento delle camere e teoria della Costituzione, in www.forum costituzionale.it cui si rinvia per i riferimenti bibliografici al riguardo). Sul punto, a parte quanto si dirà più oltre, è inoltre da osservare come, anche per la volatilità degli equilibri politici, potrebbe risultare arduo od opinabile valutare se vi sia rottura dell’«indirizzo politico» condiviso dagli elettori, cosicché le difficoltà di applicazione di queste tesi rischierebbero seriamente «di aumentare la conflittualità e di indurre a estendere la crisi dal campo politico a quello istituzionale» (A. BALDASSARRE, Il presidente della Repubblica nell’evoluzione della forma di governo, in www.associazione

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deicostituzionalisti.it). D’altra parte, la stessa dinamica politica potrebbe rendere necessaria, quantomeno in determinate circostanze, la formazione di esecutivi che non abbiano corrispondenza con il risultato elettorale. D’altra parte, l’essenza della forma di governo parlamentare, consistente nella dipendenza del governo nei confronti del parlamento, impone di ritenere che la soluzione della crisi di governo non possa essere «a rime obbligate», perché, diversamente, il modello assumerebbe la fisionomia tipica di un altro schema, quello c.d. «neoparlamentare» vigente nelle regioni e negli enti locali (G.U. RESCIGNO, Il presidente della Repubblica, cit. e, in precedenza, per tutti, C. DE FIORES, Sulla natura polivalente del potere di scioglimento delle camere, in Riv. dir. cost., 2007, p. 139 ss.). D’altra parte, come è dimostrato proprio dall’esperienza di non pochi governi regionali e locali, consegnare l’arma dello scioglimento nelle mani del capo dell’esecutivo può non garantire né la compattezza né il buon funzionamento del governo e nemmeno la sopravvivenza della maggioranza uscita dalle elezioni, dato che l’elezione diretta del vertice dell’esecutivo, unita alla nota clausola simul stabunt, simul cadent, non impedisce «ribaltoni» guidati o assentiti dal presidente eletto (è a tutti noto che la maggioranza che sostiene l’attuale governo regionale siciliano è del tutto diversa da quella che si era collegata al presidente Lombardo nelle elezioni del 2008). Il ruolo del capo dello Stato rimane quindi centrale a proposito dello scioglimento delle camere e più in generale a proposito della soluzione delle crisi di governo, ponendosi comunque come garante della corretta evoluzione della dinamica tendenzialmente bipolare del sistema politico, sia nei confronti dell’opinione pubblica nazionale sia nei confronti di quella internazionale, e della tenuta della stessa rispetto alle tensioni, talvolta aspre, tra gli schieramenti.

Capitolo Quinto

I partiti, il parlamento e il governo nel cosiddetto «modello bipolare» (1996-2008). I partiti «maggioritari» e quelli «carismatici» fra le elezioni del 2008 e la crisi politica del 2010: dal modello bipolare al neo trasformismo depretisiano? SOMMARIO: 1. Presidente del consiglio, partiti, ministri, ministeri e capo dello Stato nella formazione dei governi dal 1996 al IV governo Berlusconi. – 2. Il governo ed il suo indirizzo politico. L’indirizzo politico, i partiti, il parlamento ed il governo. La crisi della «prima Repubblica» e la nascita del «modello bipolare» nelle elezioni del 1996. – 3. La svolta compiutamente bipolare (2001-2008): le elezioni politiche del 13 maggio 2001 e la formazione del II governo Berlusconi. – 4. La XV legislatura: la forma di governo in un contesto di «bipolarismo» di coalizione «frammentato». – 5. La XVI legislatura, ovvero la svolta mancata: le elezioni del 2008 e la scesa in campo dei partiti «a vocazione maggioritaria». La struttura interna dei partiti politici. La democrazia nei partiti; i diritti degli associati, la maggioranza, la minoranza ed il problema del dissenso politico delle minoranze. – 6. Segue: la formazione del quarto governo Berlusconi. – 7. Il «bipolarismo rigido» nella XVI legislatura. I programmi elettorali, il presidente del consiglio, la fiducia parlamentare e la legge elettorale n. 270 del 2005. Bipolarismo e collegialità del governo. Il primo ministro e l’indirizzo politico del governo. Il nodo della politica economica e finanziaria. – 8. Il sistema bipolare e la democrazia dei partiti. Il «partito carismatico» e il problema delle minoranze interne. La crisi del luglio 2010 e la dissoluzione della maggioranza di legislatura del 2008. – 9. Il complesso andamento della XVI legislatura: la crisi della maggioranza di governo ed i due voti di fiducia del 29 settembre e del 14 dicembre 2010. La maggioranza nuova e le mancate dimissioni del IV governo Berlusconi. Dalla crisi della maggioranza alla crisi del modello bipolare. Le crisi politiche della maggioranza ed il ruolo del parlamento. – 10. Le dimissioni del IV governo Berlusconi e la nascita di un nuovo governo «tecnico»: il governo Monti.

1. Presidente del consiglio, partiti, ministri, ministeri e capo dello Stato nella formazione dei governi dal 1996 al IV governo Berlusconi A partire dalla formazione del I governo Prodi del 1996 e fino alle elezioni del 2013, ci si è trovati davanti ad una situazione nuova (quella delle coalizioni preventive di governo dotate di un leader) che, se ha sbarazzato il campo dalla maggiore incognita che aveva, fino ad allora, gravato sul processo di formazione del governo, quella dell’individuazione del presi-

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dente del consiglio, non ha, però, contribuito in alcun modo a risolvere il secondo ed il terzo dei maggiori problemi posti dagli artt. 92 e 94 Cost., ovvero la nomina dei ministri ed il programma di governo. È vero che proprio nel 1996 sembrò che la nuova situazione politica avesse avuto la capacità di affermare nei fatti quelle innovazioni della forma di governo che non erano ancora recepite dalla Costituzione formale e dalle sue consuetudini interpretative, in quanto sia le consultazioni del presidente Scalfaro, sia l’incarico a Prodi, subito accettato, sia le consultazioni svolte da quest’ultimo, ebbero, come si è ricordato, una natura puramente formale, dato che fra l’apertura della procedura per la formazione del governo e la sua conclusione trascorsero esattamente due giorni e mezzo; il che sembrava dimostrare che il presidente del consiglio era ormai in grado di dirigere davvero la composizione nominativa del governo e il suo indirizzo politico. Inoltre, ed a conferma di questa impressione, Prodi fu in grado di nominare un numero limitato di ministri e di sottosegretari (68 in tutto) e di approvare il 5 dicembre del 1997 il d.lgs. n. 430 che limitò ancora la compagine governativa unificando il ministero del tesoro con quello del bilancio. In verità, nella formazione del governo Prodi, la centralità di ruolo del presidente del consiglio e la conseguente conquista di un’inedita capacità direzionale apparvero subito più come un’illusione ottica che come una realtà. Il limitato numero di ministri e la rapidità nella formazione del governo erano dovuti, infatti, alla circostanza che quel governo nasceva grazie al «patto di desistenza» con un partito (rifondazione comunista) i cui voti erano comunque determinanti e che appoggiò dall’esterno il nuovo esecutivo senza essere parte di esso né dal punto di vista della struttura né da quello del programma; situazione, questa, che, se facilitò la formazione del governo, condannò però il governo Prodi ad una vita estremamente precaria ed alla rapida conclusione della sua esperienza nel 1998 per il voto contrario di rifondazione comunista ad una delicata questione di fiducia posta dal presidente del consiglio. Il costante prevalere delle «degenerazioni del parlamentarismo» sulla forza illusoria del mandato politico popolare e la dimostrazione della perdurante debolezza dei governi indussero il successivo governo D’Alema ad accelerare l’adozione del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300, sulla riforma del numero e delle attribuzioni dei ministeri; decreto che si proponeva, a ben vedere, di rafforzare il governo (a Costituzione invariata, come fu detto da Franco Bassanini) grazie ad una drastica diminuzione del numero dei ministri e dei ministeri, valorizzando il ruolo del presidente del consiglio, da un lato, e il principio di collegialità, dall’altro (E. CHELI, La forma di governo italiana e le prospettive della sua riforma, cit., p. 60): due principi che sono stati sacrificati sull’altare della «spartizione bilanciata» dei ministeri tra i vari partner della coalizione. La riduzione a dodici dei ministri con portafoglio aveva anche il fine,

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evidente, di semplificare, con la struttura del governo, anche il procedimento della sua formazione; ciò in quanto il binomio collegialità-qualità avrebbe consentito al primo ministro di esercitare con maggior forza rispetto ai partiti quel potere di scelta dei ministri fortissimamente condizionato, nell’esperienza precedente, dai «manuali Cancelli». Purtroppo, ed a dimostrazione della soverchiante prevalenza degli interessi dei partiti e dei loro gruppi dirigenti sugli interessi del governo, l’entrata in vigore del d.lgs. n. 300 del 1999 fu rinviata alla legislatura successiva; il governo D’Alema procedette, in base all’art. 77 dello stesso d.lgs. n. 300, a separare il ministero della pubblica istruzione da quello dell’università e della ricerca scientifica; da parte sua, la legge n. 81 del 2001 (II governo Amato) introdusse la nuova, e discutibile, figura dei vice ministri (cfr. cap. 3, par. 4). Una nuova e clamorosa conferma dell’ormai inarrestabile predominio partitico sulle istituzioni fu data anche in occasione del procedimento di formazione del II governo Berlusconi nel 2001. In quell’occasione, lo schema del procedimento di formazione del governo ripeté, nella sostanza, lo schema innovativo indicato da Scalfaro nel 1996; dunque, il presidente Ciampi procedette a rapide consultazioni (due giorni) che si rivolsero non solo ai gruppi ma anche alle rappresentanze delle due coalizioni contrapposte. In questo quadro, il capo dello Stato affidò il 9 giugno a Berlusconi l’incarico di formare il nuovo governo «conformemente al voto del 13 maggio»; incarico che fu accettato da Berlusconi con una riserva sciolta ventiquattro ore più tardi quando il presidente incaricato presentò la lista dei ministri al capo dello Stato che fu in grado di firmare i decreti di nomina del presidente e dei ministri il 10 giugno, appena tre giorni dopo l’inizio delle consultazioni. Anche la procedura di formazione del II governo Berlusconi, sembrava distaccarsi, dunque, dalla prassi della c.d. «prima Repubblica», non solo perché era ormai palese e dichiarato che il voto popolare aveva sottratto al capo dello Stato qualsiasi discrezionalità nella scelta del presidente del consiglio, ma anche perché quest’ultimo sembrava ormai in grado di esercitare davvero i poteri attribuitigli dall’art. 92 Cost. ed in primo luogo quello della scelta dei ministri. In realtà, se si analizza tutto il percorso che portò alla formazione del II governo Berlusconi, ci troviamo di fronte a due gravi anomalie indicative del fatto che quella procedura segnalava, più che una crescita dei poteri del primo ministro, quella dei partiti della coalizione vincente, gli interessi dei quali finivano per essere rappresentati dal governo anche contro le prerogative costituzionali del parlamento. Ci si riferisce, qui, alla «esternazione» rilasciata da Berlusconi il 10 giugno del 2001, subito dopo la nomina del suo secondo governo da parte del capo dello Stato, nella quale il presidente del consiglio annunciò che il governo avrebbe approvato, nel corso del primo consiglio dei ministri, un

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decreto legge con il quale sarebbe stato modificato il d.lgs. n. 300 del 1999 per ripristinare le competenze del ministero delle comunicazioni e di quello della sanità e comunicò, in quella stessa occasione, i nomi dei due futuri ministri con una innovazione di prassi e di procedure che risultava quantomeno discutibile nei confronti delle prerogative del capo dello Stato e del parlamento. In primo luogo, infatti, il presidente della Repubblica veniva posto di fronte al doppio fatto compiuto del preannuncio di un futuro decreto legge, sul contenuto e sulla legittimità del quale egli non aveva avuto la possibilità di pronunciarsi, e della imminente nomina di due personalità politiche come ministri preposti a due ministeri ancora non esistenti; ministri che erano destinati ad integrare ex post quella composizione nominativa del governo per la quale era stato, invece, seguito il procedimento prescritto dall’art. 92 Cost. e sulla quale il parlamento sarebbe stato chiamato a dare la fiducia ai sensi dell’art. 94 Cost. In secondo luogo, il contenuto dell’esternazione del presidente nominato portava alla conseguenza, ancora più grave, di limitare le competenze costituzionali del parlamento in una materia assai delicata. L’art. 95 Cost. dispone, infatti, che il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei ministeri debbono essere stabilite dalla legge; disposizione che è stata concordemente interpretata dalla dottrina come la volontà dei Costituenti di «restaurare le competenze del legislativo» contro i ricorrenti tentativi, esercitati storicamente dai governi, di impadronirsi di questa materia per soddisfare non le esigenze della buona amministrazione ma quelle delle momentanee maggioranze di governo. Nella tradizione costituzionale italiana, anche se non ha avuto successo (almeno fino al d.lgs. n. 300 del 1999) l’idea della necessità dell’esistenza di una «legge organica» in materia di ministeri, i governi hanno, però, anche se in linea di massima, rispettato il principio della riserva di legge, intesa, non solo, nel senso più ovvio della preclusione ad innovare, nella materia, per via regolamentare, ma in quello (più sostanziale) del rispetto dell’obbligo di seguire il procedimento indicato dall’art. 72 Cost., considerato l’unico in grado di rispettare sostanzialmente le competenze del parlamento, in quanto solo attraverso di esso le camere possono pronunciarsi nel merito del disegno di legge senza condizionamenti di tempo o di procedure. Questo spiega perché i governi repubblicani abbiano quasi costantemente preferito esercitare l’iniziativa in questa materia o con specifici disegni di legge o con decreti legislativi (come il d.lgs. n. 430 del 1997) conseguenti a leggi di delegazione. Dunque, salvo l’eccezione del già ricordato d.l. n. 657 del 1974, adottato dal IV governo Moro, che istituì il ministero dei beni culturali ed ambientali, il ricorso ai decreti legge in materia di ministeri è stato riservato al verificarsi di situazioni di reale necessità ed urgenza, quali quelle che si

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presentarono, ad esempio, quando il governo Ciampi dovette provvedere, a seguito del referendum del 1993, alla soppressione di ben cinque dicasteri ed alla ricollocazione delle loro competenze fra gli altri ministeri residui. In conclusione, se è vero che nella materia indicata dal comma 3 dell’art. 95 Cost. il ricorso al decreto legge non può essere escluso in via di principio, le esigenze del rispetto non formale delle competenze del parlamento richiedono che i casi straordinari di necessità e di urgenza i quali giustificano il ricorso al decreto legge siano legati a circostanze davvero non prevedibili e che fra quelle circostanze non possano essere comprese quelle necessità e quelle urgenze volte a risolvere esigenze del governo e della sua maggioranza ricollegabili solo a problemi di tipo prettamente politico. È, infatti, evidente che la tesi favorevole all’accettazione della «ragion politica» fra i casi straordinari di necessità e di urgenza previsti dal comma 2 dell’art. 77 Cost., se poteva essere giustificata fino a quando si è ritenuto che le leggi di conversione sanassero, in base alla tesi del «controllo politico» del parlamento, la mancanza dell’esistenza effettiva di quei presupposti, è diventata insostenibile da quando (sent. n. 29 del 1995) la corte costituzionale ha rivendicato il suo potere di giudice dell’effettività di quei presupposti indipendentemente dall’esito della legge di conversione, con una decisione che ci ha improvvisamente ricordato l’esistenza anche nel nostro ordinamento del principio della divisione dei poteri e del dovere di tutelarlo che compete al giudice delle leggi. La «ragion politica», intesa come base e fondamento del ricorso al decreto legge in materia di ministeri, presupposta dal d.l. n. 217 del 2001 del II governo Berlusconi, fu, invece, e purtroppo, confermata nel maggio del 2006 in occasione della procedura di formazione del II governo Prodi. Quel governo si costituì, come è noto, dopo le anticipate dimissioni di Ciampi e l’elezione di Napolitano, in base alla stessa procedura del 2001, innovata solo dalle consultazioni personali del capo dello Stato con Prodi e con Berlusconi come capi delle due maggiori coalizioni e dalla maggiore riservatezza in base alla quale il nuovo presidente del consiglio incaricato gestì la procedura che lo avrebbe portato a modificare ancora una volta, e sempre attraverso un decreto legge approvato nel primo consiglio dei ministri del suo governo, la normativa esistente in materia di ministeri. In quella occasione, e come se il precedente di Berlusconi avesse ormai spazzato via ogni remora in questa materia, il d.l. n. 181 del 2006 aggiunse ai quattordici ministeri ormai esistenti ben altri quattro dicasteri (commercio internazionale; trasporti; istruzione; solidarietà sociale). Il II governo Prodi, quello dei diciotto ministri con portafoglio e dei 103 membri complessivi dell’esecutivo (compresi i numerosi «vice ministri»), confermò come dietro all’apparente rafforzamento del primo ministro, indotto dalla legge elettorale e dalla indicazione del capo della coalizione, si fosse assistito ad un progressivo ed inarrestabile rafforzamento

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del peso e delle pretese dei partiti della coalizione vincente che hanno finito per condizionare la struttura del governo alle proprie esigenze di «visibilità» e di potere, cosicché la moltiplicazione dei ministeri e dei ministri ha finito per segmentare progressivamente, come la scienza politica e costituzionalistica aveva da tempo segnalato, lo stesso programma di governo e la capacità del primo ministro di guidare effettivamente l’indirizzo politico del governo e di assumersene la responsabilità; tutto ciò è dimostrato dalle insoddisfacenti performances del secondo e del terzo governo Berlusconi e dalle vicende che hanno portato alla fine anticipata del II governo Prodi. Richiamandosi tardivamente alle decisioni assunte nel 1999 dal I governo D’Alema, il II governo Prodi decise di reintrodurre, attraverso l’art. 1, commi 376 e 377 della legge n. 244 del 2007 (legge finanziaria 2008), il contenuto del d.lgs. n. 300 del 1999 sul numero e sulle attribuzioni dei ministeri e stabilì che il numero totale dei componenti del governo a qualsiasi titolo (ivi compresi, dunque, i ministri senza portafoglio, i vice ministri ed i sottosegretari) non potesse essere superiore ai sessanta membri. Tuttavia, con sorprendente analogia con quanto era accaduto nel 1999, l’art. 1 della legge n. 244 rinviò l’entrata in vigore di queste disposizioni a partire dalla formazione del governo successivo a quello in carica, con una decisione che veniva quindi ad assumere il significato ambiguo della affermazione di una volontà riformatrice, ma volta ad un futuro prossimo e venturo, e della presente constatazione di uno stato delle cose (il governo dei partiti, appunto) che appariva ormai insostenibile da un punto di vista politico ed istituzionale. La «insostenibile pesantezza» di un governo dissociato in partiti ed in partiti-fazioni portò alla caduta del governo Prodi con tempi che furono assai più rapidi di quelli immaginati dal legislatore del 2007 e ad uno scioglimento anticipato del parlamento che non consentì neppure di modificare la discutibilissima legge elettorale in vigore (legge n. 270 del 2005, promossa dal II governo Berlusconi). Tuttavia, e per una volta, la semplificazione degli schieramenti politici in competizione prevalse sull’input negativo proveniente dalla legge elettorale e le elezioni del 13 e del 14 aprile 2008 portarono alla formazione di una netta maggioranza di governo. Grazie alla semplificazione degli schieramenti ed alla chiara vittoria di uno di questi, il procedimento di formazione del governo ha subito nella XVI legislatura alcune ulteriori innovazioni. Dopo la riunione delle camere e dopo la costituzione dei loro organi, il presidente Napolitano fece precedere, infatti, l’apertura delle consuete, e rapide, consultazioni da due incontri, definiti dal Quirinale come «informali», con il leader del partito-coalizione vincente. Questa pragmatica innovazione poté consentire al capo dello Stato di conoscere in anticipo gli orientamenti sul governo del futuro presidente

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incaricato e di far conoscere a questi i suoi intendimenti su tutte le principali questioni che si sarebbero poste durante il procedimento di formazione del governo stesso, attraverso due colloqui, la informalità dei quali sembrava funzionale a maturare orientamenti comuni da utilizzare poi al momento dell’apertura delle consultazioni ufficiali. La riservatezza dei colloqui non impedì che gli orientamenti e gli intendimenti dei due protagonisti del dialogo filtrassero all’esterno; circostanza, questa, che era probabilmente prevista e desiderata, soprattutto per quel che riguardava alcune questioni di fondo che avevano determinato l’inedita «innovazione» del presidente Napolitano. Fra queste, appariva determinante la questione del numero dei ministeri e dei membri del governo, cioè della effettiva vincolatività dei già ricordati commi 376 e 377 dell’art. 1 della legge finanziaria del 2008. Su questo punto, gli orientamenti del Quirinale, come apparivano, ovviamente, solo dalle indiscrezioni dei mass media, si manifestarono sin dall’inizio del tutto e fermamente contrari a qualsiasi ipotesi di una nuova utilizzazione di decreti legge per cambiare i contenuti della legislazione vigente; ed occorre dire che il futuro presidente incaricato sembrò solo apparentemente contrariato da un veto che gli avrebbe consentito di opporsi con successo alle già vivacissime richieste delle componenti della sua maggioranza, del tutto favorevoli invece, e come è ovvio, ad un ampliamento della platea dei dicasteri e del numero dei membri dell’esecutivo. D’altra parte, l’esito positivo dell’informale concertazione fra Napolitano e Berlusconi è stata dimostrata anche dalla seconda novità che si realizzò nella procedura di formazione del IV governo Berlusconi: il superamento pratico della questione dell’incarico perché, vinta la battaglia sul mantenimento del numero dei ministeri e dei componenti del governo, Berlusconi poté presentare la lista dei ministri al capo dello Stato nello stesso momento nel quale gli veniva conferito l’incarico di formare il governo che quindi era accettato senza la consueta «riserva». Per una volta, dunque, e grazie alla fermezza del capo dello Stato, il procedimento di formazione del governo non ha compreso il mutamento del quadro legislativo esistente sulla struttura del governo e questo sembrò aver giovato anche al presidente del consiglio, apparso meno ricattabile dalle componenti della sua maggioranza e meno esposto del solito ai condizionamenti dei «manuali Cancelli»; pertanto, il nuovo esecutivo si limitò ad adottare un decreto legge (d.l. n. 85 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 121 del 2008) per adeguare le strutture del governo alle previsioni contenute nell’art. 1, commi 376 e 377, della legge n. 244 del 2007 e quindi per «riallocare» determinate funzioni ai ministeri nuovamente ridotti. Tuttavia, la saggia accettazione da parte del IV governo Berlusconi della rinuncia all’uso del decreto legge per aumentare il numero dei ministeri non si accompagnò affatto, in base a quanto fu dato di vedere fin dall’ini-

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zio della legislatura, alla disponibilità del nuovo presidente del consiglio ad accettare una interpretazione condivisa con il capo dello Stato sul problema più generale dell’uso e dei limiti costituzionali del ricorso ai decreti legge. Su questa questione il Quirinale sembrò avere assunto, al di là della vicenda della formazione e della struttura del governo, posizioni che coincidono con la già ricordata giurisprudenza della corte costituzionale favorevole al rispetto effettivo del presupposto della straordinaria necessità ed urgenza che sola giustifica il ricorso all’uso dei decreti legge. In effetti, un elenco lungo di preoccupanti contrasti fra il capo dello Stato ed il governo dimostrò che la questione dei decreti legge fosse divenuta, nella XVI legislatura, in assenza di auspicate riforme, un problema dirompente sul fronte dei rapporti fra il governo, il potere legislativo e le magistrature di garanzia (presidente della Repubblica e corte costituzionale).

2. Il governo ed il suo indirizzo politico. L’indirizzo politico, i partiti, il parlamento ed il governo. La crisi della «prima Repubblica» e la nascita del «modello bipolare» nelle elezioni del 1996 L’attuazione del d.lgs. n. 300 del 1999 da parte del IV governo Berlusconi, nato dalle elezioni del 2008, e la razionalizzazione dell’organo governo che era da esso determinata costituivano la premessa, ma solo la premessa, per un funzionamento della forma di governo italiana più in linea con la maggior parte delle esperienze europee; esperienze nelle quali il potere esecutivo è caratterizzato dall’esistenza di un indirizzo politico unitario, di finalità sufficientemente definite in tutti i settori nei quali si svolge l’attività politica e amministrativa e di un quadro di compatibilità tale da rendere realizzabile il loro raggiungimento concreto. Come è ovvio, l’esistenza di un consiglio dei ministri non pletorico e perciò governabile da parte del presidente del consiglio non è, però, sufficiente da sola per realizzare quelle esigenze di efficienza, di stabilità e di responsabilità dell’azione di governo che erano invocate da decenni e che erano apparse, invece, quasi del tutto assenti nelle diverse esperienze attraversate dalla forma di governo parlamentare della nostra Repubblica. La realizzazione di un governo efficiente, coeso e politicamente responsabile avrebbe richiesto, infatti, la presenza di una serie di condizioni che non si sono ancora realizzate nella esperienza repubblicana: la esistenza di un sistema politico non soltanto non frantumato in un «pluralismo estremo» di partiti (L. ELIA, Governo (forme di), cit.), ma composto anche da partiti «democratici» nel senso indicato dall’art. 49 Cost.; l’approvazione di una legge elettorale (non importa se maggioritaria o proporzionale) che metta in grado gli elettori di produrre un «risultato di governo»; la costituzione in parlamento di una maggioranza e di una mino-

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ranza chiaramente distinte (con una distinzione fondata non su pregiudiziali ideologiche ma sul riferimento a programmi politici diversi); l’esistenza di un governo che sia in grado di promuovere un indirizzo politico definito sul quale si realizzi, attraverso il voto di fiducia; una non fittizia unità della maggioranza parlamentare ed una trasparente dialettica con la minoranza. Se si guarda alla storia politica ed istituzionale della Repubblica si potrà osservare che le condizioni sopra elencate non si sono mai realizzate contemporaneamente perché, se è vero che sono esistiti periodi nei quali partiti ed istituzioni hanno cercato di realizzare l’ideale di governi politicamente coesi attorno a programmi definiti ed ispirati ad una dialettica parlamentare sostanzialmente corretta (i governi De Gasperi della I legislatura; i governi del primo centro sinistra; i governi Craxi e De Mita, sotto i quali fu preparata ed approvata la legge n. 400 del 1988, promotrice del principio della «governabilità»), è anche vero che l’intero periodo storico nel quale quei governi si sono mossi è risultato contrassegnato da leggi elettorali che consegnavano interamente ai partiti il potere di comporre e scomporre le maggioranze di governo. Così, se è vero che la crisi del sistema politico dei partiti portò, nel biennio 1992-1993, e poi ancora nel 1994, alla formazione di «governi tecnici», la cui ragione d’essere era costituita dalla assoluta necessità di realizzare sollecitamente programmi contrassegnati da una particolare «missione» istituzionale (il riequilibrio finanziario; la nuova legge elettorale; la ripresa della normale dialettica politica), è anche vero che le circostanze che dettero vita a quei governi furono determinate da una particolare delegittimazione del sistema politico che finì per «delegare» al governo (anche se mantenendo pienamente in vita il significato del rapporto fiduciario) il potere di raggiungere quegli obiettivi che partiti e parlamento ritenevano necessari ma che non potevano essere conseguiti attraverso il normale funzionamento e la normale dialettica propri della forma di governo vigente. Le riforme finanziarie ed elettorali che furono raggiunte nel periodo dei governi tecnici determinarono, insieme alla scomparsa di quasi tutti i grandi partiti che erano stati gli storici protagonisti della «prima Repubblica», ed insieme alla apparizione di partiti del tutto nuovi o rinnovati nella loro composizione e nei loro orientamenti ideologici, nuovi orientamenti politici e di opinione pubblica volti ad allineare il funzionamento delle istituzioni italiane a quel modello europeo che abbiamo sopra richiamato per consentire, da un lato, agli elettori di scegliere insieme ai membri del parlamento anche il futuro governo (men and measures) in un quadro politico-istituzionale che consentisse l’esistenza di governi di legislatura e la possibilità di un alternanza al governo fra maggioranze e minoranze fondate su distinti programmi politici. Al di là delle diverse prospettive con le quali i progetti appena ricordati furono fatti propri dalla maggior parte dei partiti (e che vedevano le for-

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mazioni politiche di centro destra e di centro sinistra schierate a favore di leggi elettorali che consentissero più nette alternative di governo, mentre i partiti di centro non avevano del tutto abbandonato la antica opzione per la proporzionale), le elezioni del 1994, le prime ad essere svolte con la nuova legge elettorale prevalentemente maggioritaria, portarono a risultati deludenti perché la coalizione vincitrice («sdoppiata», come si è detto, fra una coalizione del nord ed una del sud) si dimostrò molto fragile e le divisioni all’interno di essa portarono alle dimissioni del I governo Berlusconi ad appena un anno dall’inizio della legislatura (cap. 2). Questo esordio fortemente problematico del maggioritario sottolineò ancora una volta l’anomalia del sistema politico italiano che si dichiarava, ormai, favorevole, in larga maggioranza, ad una forma di governo ispirata sostanzialmente al «modello di Westminster» ma che rimaneva soggetto ad una realtà politica (quella del multipartitismo estremo) con essa sostanzialmente inconciliabile. Il fallimento della XII legislatura condusse, tuttavia, i maggiori partiti dei due schieramenti di centro sinistra e di centro destra ad elaborare, con maggior lucidità rispetto al 1994, un modello di forma di governo basata, se non sull’impossibile bipartitismo, almeno su un possibile «bipolarismo», immaginato come l’aggregazione della maggior parte dei partiti attorno a due principali coalizioni destinate a contendersi la maggioranza dei seggi in parlamento, con la presentazione di programmi elettorali e di un leader destinato a ricoprire il ruolo di capo del governo in caso di vittoria della coalizione. Le elezioni politiche del 1996 si svolsero, sostanzialmente, secondo questo schema, anche se va sottolineato il fatto che, per quanto riguarda la coalizione di centro sinistra, questa si fondò, in realtà, più che su un accordo di piena alleanza politica fra i partiti coalizzati, su di un «patto di desistenza» elettorale siglato fra i partiti della coalizione di centro sinistra ed il partito di rifondazione comunista; patto che consentì alla coalizione di vincere le elezioni ma che causò una permanente conflittualità sulla interpretazione del programma di governo e sugli indirizzi politici del I governo Prodi. La debolezza politico-programmatica della coalizione di centro sinistra non consentì, dunque, ed in realtà, e contrariamente agli intenti iniziali, un funzionamento in senso bipolare nemmeno della XIII legislatura. Il I governo Prodi cadde, infatti, nel 1998 in base ad un diniego della questione di fiducia che fu causato da profonde ed insanabili divergenze politico programmatiche fra rifondazione e gli altri partiti della coalizione riguardanti principalmente la politica estera e quella economico-finanziaria. La crisi e le dimissioni del governo Prodi non impedirono, però, la ricostituzione di un nuovo esecutivo (governo D’Alema) nell’ambito della stessa coalizione di centro sinistra; governo che si sarebbe dimesso, tuttavia, nel 2000 e che sarebbe stato, infine, sostituito dal terzo, ed ultimo, governo di centro sinistra della legislatura (II governo Amato: 2000-2001).

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In conclusione, e come vedremo meglio in seguito, la forma di governo della XIII legislatura riuscì a rispettare i principi del bipolarismo solo riguardo alla non mutabilità della maggioranza elettorale originaria. La stabilità politica della maggioranza fu ottenuta, tuttavia, pagando un prezzo molto alto sul terreno della stabilità della sua leadership politica, come è testimoniato dall’alternarsi di tre diversi presidenti del consiglio nel corso della legislatura e dalla presentazione di un candidato leader del tutto nuovo (Rutelli) alle elezioni del 2001 che saranno vinte dalla coalizione di centro destra guidata da Berlusconi.

3. La svolta compiutamente bipolare (2001-2008): le elezioni politiche del 13 maggio 2001 e la formazione del II governo Berlusconi Fino alle elezioni del 2001 in Italia è mancato un assetto strettamente bipolare del sistema politico, soprattutto per la fragilità politica delle coalizioni e le divisioni interne della maggioranza risultata vincitrice nella competizione elettorale. In particolare, mentre nelle elezioni politiche del 1994 si fronteggiarono ben quattro coalizioni, di cui due nell’area del centro destra che insieme conseguirono la maggioranza, dando vita al I governo Berlusconi, nel 1996 il centro sinistra ottenne la maggioranza assoluta dei seggi grazie al sostegno determinante di rifondazione comunista (alla camera), che garantì solo l’appoggio esterno al I governo Prodi, e grazie alla scelta della lega nord di presentarsi fuori dalle due coalizioni principali. Come è noto, sia nel primo caso che nel secondo, i governi espressione della coalizione vincente (o delle coalizioni vincenti, nel 1994) caddero ben prima della fine naturale della legislatura, senza determinare nel secondo caso lo scioglimento anticipato delle camere. Tra le novità desumibili dalle elezioni politiche del 2001 vi è, in primo luogo, il fatto che per la prima volta il nome dei candidati premier è stato inserito nei simboli elettorali delle due coalizioni principali; la coincidenza nella stessa persona della carica di presidente del consiglio, fondatore, leader e maggior finanziatore del maggiore partito della coalizione e, insieme, leader della coalizione vincente; i prolungati interim del presidente del consiglio, che ha accentrato per lungo tempo (con polemiche nemmeno tanto larvate nella coalizione) anche l’incarico di ministro degli esteri; la presenza dei leader dei partiti della coalizione (Fini, Bossi, Buttiglione), ed anche dei maggiori esponenti dei partiti stessi, nel governo (a tale proposito, dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, solo nel I governo Craxi erano entrati tre segretari di partito – del PSI, ovviamente, ma anche del PSDI e del PRI – ma non quello del primo partito della coalizione, ovvero della DC). Quest’ultimo elemento, che corrisponde in parte ad una tendenza co-

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mune alle maggiori democrazie parlamentari, nell’esperienza italiana ha determinato una maggiore «solitudine» dei gruppi parlamentari della maggioranza, la cui direzione è stata affidata ad esponenti politici talvolta non di primo piano, a tutto danno di un efficiente raccordo con l’esecutivo. Tra gli elementi di continuità nella formazione del governo si possono ricordare: a) l’alto numero di ministri senza portafoglio, vice-ministri e sottosegretari di Stato (all’atto della formazione del governo si contano 9 ministri senza portafoglio, 7 viceministri, 53 sottosegretari di Stato); b) la carica di vice presidente del consiglio attribuita ad un esponente (in questo caso al leader) del secondo partito della coalizione; c) la spartizione esasperatamente bilanciata dei ministeri tra i vari partiti della maggioranza, anche con il già ricordato «ripristino» del ministero della salute e di quello delle comunicazioni, già soppressi con il d.lgs. n. 300 del 1999, attraverso il d.l. n. 217 del 2001 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 317 del 2001) per esigenze prettamente politiche (sull’incostituzionalità del decreto legge in questione, cfr. supra, par. 1). In sostanza, quindi, la forte identità partitica all’interno delle coalizioni costituisce anche nella XIV legislatura un fattore determinante che, come si dirà, incide in modo forte sull’azione del governo e sui poteri del presidente del consiglio. L’insieme di questi fattori si è tradotto in una prima novità riguardante le situazioni di crisi politica. Nella XIV legislatura si contano infatti solo due governi, di cui il primo (il II governo Berlusconi) vanta ad oggi il record di durata in carica nella storia della Repubblica. Tuttavia, analizzando retrospettivamente l’andamento della legislatura in questione, essa, come le due precedenti (e, come si vedrà, anche l’attuale), si può dividere in due parti. La prima si caratterizza per l’azione di un esecutivo sostanzialmente legittimato dalle elezioni del 2001, in una logica di parlamentarismo maggioritario che indirettamente risulta fino dal comunicato del Quirinale del 31 maggio 2001 in cui il capo dello Stato è «costretto» a ribadire le proprie prerogative nella procedura di formazione del nuovo governo (G. DEMURO, Regole costituzionali, cit., pp. 88-89), nonostante le novità politiche intervenute. In questo senso, è stata apprezzata come una novità potenzialmente significativa che già tra il 16 ed il 17 maggio 2001, all’indomani delle elezioni e prima dell’inizio ufficiale delle consultazioni, il capo dello Stato abbia ricevuto prima Berlusconi e poi Rutelli, così attestando il loro ruolo di leader, rispettivamente, della maggioranza e dell’opposizione. E successivamente, un comunicato della presidenza della Repubblica in relazione alle consultazioni per la formazione del nuovo governo (6 giugno 2001) ebbe a ricordare che «la recente tornata elettorale ha acclarato inequivocabilmente la presenza – accanto ad alcune formazioni politiche a sé stanti – di due schieramenti ai quali gli elettori hanno fatto riferimento nella

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loro stragrande maggioranza: la casa delle libertà e l’ulivo. Conseguentemente si procederà – come già è stato fatto fin dall’inizio della passata legislatura – alla consultazione delle rappresentanze, liberamente composte, di ciascuno dei due schieramenti, anziché dei singoli gruppi parlamentari che li compongono». Da parte sua, il presidente del consiglio, all’atto del conferimento dell’incarico, dichiarò di averlo ricevuto in conformità al voto del 13 maggio 2001 e successivamente di aver composto la lista dei ministri già da prima delle elezioni, dovendo «subire» una procedura di formazione del governo a suo dire lenta e farraginosa (C. CHIMENTI, Anatomia, cit., p. 11). Progressivamente però, le difficoltà di conciliare pluralità della rappresentanza politica interna alla coalizione di maggioranza e unitarietà ed efficienza dell’azione di governo fecero sì che i «bagliori» di democrazia maggioritaria progressivamente si perdessero: il tutto aggravato dalle deludenti performances elettorali della coalizione di centro-destra. Così, le posizioni divergenti, talvolta esternate in pubblico, in materia di interpretazione del programma di governo, logorarono l’azione del governo senza che il presidente del consiglio avesse la capacità di ricondurle ad unità. Si è così determinata una sorta di sovrapposizione tra un modello di governo con una forte impronta «presidenzialista» quando il premier assumeva una posizione pubblica su questioni politicamente rilevanti e un governo fondamentalmente «per ministeri» nei non pochi casi in cui, per motivi diversi, mancava una esposizione pubblica del premier. In effetti, prima ancora della crisi del 2005, dovuta al crollo subito dal centro-destra nelle elezioni regionali, la vita del II governo Berlusconi apparve disseminata di notevoli difficoltà politiche che il presidente del consiglio riuscì solo limitatamente ad arginare, facendo valere prevalentemente, ma in modo sempre meno convinto, il suo ruolo di leader della coalizione ed i vantaggi di una sovraesposizione mediatica che non impedirono il progressivo calo di consensi (A. D’ANDREA, Art. 92, cit., p. 1787). Basti qui ricordare, per motivi di brevità, l’uso delle sostituzioni e dei rimpasti ministeriali, fino dal gennaio 2002, divenuti, come in precedenza solo nella I legislatura repubblicana, un vero e proprio «succedaneo» di crisi non formalmente aperte (si riprende l’espressione di M. MIDIRI, La sopravvivenza del governo e i succedanei della crisi, cit., pp. 611 ss.). È sufficiente ricordare sul punto che nel periodo 2001-2005, solo per citare gli esempi più rilevanti, furono sostituiti, in momenti diversi, il ministro dell’interno (Pisanu al posto di Scajola nel luglio 2002), il ministro degli esteri (Berlusconi ad interim al posto di Ruggiero nel gennaio 2002, quindi Frattini dal novembre 2002, quindi Fini al posto di Frattini nel novembre 2004), il ministro dell’economia e delle finanze (Siniscalco al posto di Tremonti nel luglio 2004), tanto da chiedersi se davvero il II governo Berlusconi, con tutti questi mutamenti, fosse davvero configurabile nella sostanza come una sola ed unica compagine ministeriale.

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In effetti, si trattò in alcuni casi di sostituzioni per ragioni eminentemente politiche: le dimissioni di Scajola si rivelarono politicamente necessarie dopo la pubblicazione di dichiarazioni del ministro sulla tragica vicenda del prof. Biagi, considerate inaccettabili dalla stessa maggioranza. In questo caso, il presidente del consiglio, dopo una prima offerta di dimissioni del ministro, prima prese tempo (Scajola era, infatti, un esponente di primo piano di FI) e poi fu costretto ad accettarle, non senza evidenziare il gesto ritenuto dignitoso e generoso. Sulla vicenda delle dimissioni il governo rese comunicazioni al parlamento ai sensi della legge n. 400 del 1988, alle quali seguì un dibattito senza voto. Al posto di Scajola venne nominato il ministro senza portafoglio Pisanu, il cui operato sarebbe stato in seguito costantemente criticato da una parte della maggioranza (in particolare dalla lega) perché ritenuto troppo «morbido» soprattutto nella gestione dell’ordine pubblico. A distanza di un anno, poi, Scajola tornò nel governo come ministro senza portafoglio per l’attuazione del programma di governo, al posto dello stesso Pisanu. Le dimissioni di Ruggiero, ministro «tecnico», sono qualificabili come una ipotesi di «quasi revoca», dato che esse furono praticamente imposte dal presidente del consiglio e da un partner decisivo del governo (la lega nord) in dissenso con la linea di politica estera considerata troppo «europeista» e per questo non in discontinuità con l’operato dei precedenti governi di centro-sinistra. La posizione di Ruggiero divenne progressivamente sempre più isolata anche per le crescenti polemiche con altri ministri. Le dimissioni di Ruggiero debbono essere sottolineate nella misura in cui il presidente del consiglio in pratica le sollecitò in un’intervista ad un quotidiano nazionale sul presupposto della esclusiva titolarità della politica estera in capo al presidente del consiglio. Ma sul punto, come è stato esattamente sottolineato, l’interpretazione berlusconiana apparve quantomeno forzata nella misura in cui finiva per rivendicare al presidente del consiglio funzioni di determinazione dell’indirizzo politico in contrasto con l’interpretazione prevalente dell’art. 95 Cost., e per esautorare, da un lato, le competenze del consiglio dei ministri, e la responsabilità politica individuale del ministro degli esteri, dall’altro (A. APOSTOLI, I notevoli problemi di tenuta della maggioranza nella XIV legislatura ed il frequente ricorso al rimpasto per rilanciare l’esecutivo, in A. D’ANDREA, L. SPADACINI, a cura di, La rigidità bipolare del parlamento italiano. Cinque anni di centrodestra (2001-2006), Gussago, Bibliofrabbrica, 2008, pp. 610 ss.). Dopo le dimissioni di Ruggiero seguì un lungo interim da parte di Berlusconi (ben 11 mesi) in contrasto, come si è detto, con la natura stessa dell’istituto (come è noto, esso è disciplinato, solo per i profili procedurali, dall’art. 9, comma 4, della legge n. 400 del 1988), ma che trovava una qualche assonanza con la prassi (seguita anche nelle prime legislature repubblicane) di concentrazione di più portafogli nelle mani del presidente

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del consiglio (e, in quel contesto, a dimostrazione non certo della forza ma della debolezza politica del premier). Infine, fu giustamente criticato il mancato coinvolgimento del parlamento nella vicenda, solo impropriamente surrogato da una «informativa urgente» del presidente del consiglio sulle linee di politica estera, senza peraltro alcuna votazione da parte delle camere. Dopo il lungo interim di Berlusconi al ministero degli esteri subentrò prima il ministro senza portafoglio Frattini (che fu sostituito al ministero della funzione pubblica dall’avvocato generale dello Stato Mazzella) e, dopo la nomina di quest’ultimo a commissario europeo (novembre 2004), il vice presidente del consiglio Fini, in un quadro di redistribuzione dei portafogli in favore dei partners di governo diversi da FI. Infatti, poche settimane dopo, il segretario dell’UDC Follini, ormai si potrebbe dire, in quotidiana polemica con il presidente del consiglio, fu nominato vice presidente del consiglio, andando quindi ad affiancare Fini, allo scopo, rivelatasi poi fallace, di cercare di comporre all’interno del governo i dissidi, ormai sempre più frequenti, all’interno della maggioranza. Peraltro, anche questo rimpasto seguì logiche non dissimili da quelle che avevano caratterizzato il periodo anteriore al 1992: la nomina di Follini e la «promozione» di Baccini a ministro senza portafoglio per la funzione pubblica, che indubbiamente rafforzarono il «peso» politico dell’UDC nel governo dopo il buon risultato conseguito alle elezioni europee del 2004, furono decise con l’assenso di tutti i partiti della coalizione, ed anzi è significativo che questa operazione fosse stata decisa dopo che il presidente del consiglio aveva ricevuto l’assenso esplicito del leader della lega nord, consultato appositamente nella clinica privata nella quale si trovava ricoverato. In effetti, la seconda vicepresidenza del consiglio, disgiunta dall’attribuzione di un portafoglio, si iscriveva anch’essa nella tradizione dei governi di coalizione del periodo 1948-1991, nel quale tradizionalmente la vicepresidenza (o le vicepresidenze) erano attribuite ad un esponente di un partito alleato della DC (e non a caso, durante i governi Craxi la carica fu ricoperta da un esponente della DC). È evidente che il rimpasto operato nel dicembre 2004 rispondeva a due obiettivi distinti, anch’essi con importanti precedenti nel periodo anteriore al 1992. In primo luogo, vi era un’esigenza di riequilibrio politico dei portafogli a seguito dei risultati di un’elezione nazionale: in questo caso, la differenza, certo non irrilevante, con il periodo anteriore al 1992 è che allora la via prediletta di tale operazione era l’apertura formale di una crisi di governo. In secondo luogo, l’obiettivo di Berlusconi era quello di cercare di riportare i contrasti in seno alla coalizione all’interno del governo: non a caso, da una parte, sembra che Follini non fosse affatto convinto della prospettiva di un ingresso nel governo, preferendo rimanere nel partito e da lì incalzare più liberamente l’azione dell’esecutivo; dall’altra, con soddisfazione, all’indomani del giuramento del nuovo vice presidente,

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Berlusconi poteva affermare che il rimpasto creasse di fatto una sorta di consiglio di gabinetto, in grado di dirimere rapidamente i contrasti interni alla coalizione. Di fatto, l’operazione politicamente non riuscì: non solo l’azione del governo non risultò più efficiente, ma di lì a poco, come si è detto, l’esito negativo delle elezioni regionali del 2005 determinò la crisi di governo e la formazione di un nuovo esecutivo. Se le vicende sopra riportate, pur complesse sul piano politico, furono affrontate riuscendo a trovare un punto di equilibrio accettato in modo sostanzialmente unanime dalla maggioranza (talvolta accettato obtorto collo dal presidente del consiglio), le dimissioni di Tremonti nel luglio 2004 fecero seguito a contrasti profondi all’interno del governo e della maggioranza sui temi della politica economica e sociale. Da questo punto di vista, l’esperienza del II governo Berlusconi confermò pienamente quanto era già emerso a partire dal 1992 in relazione alla decisiva importanza assunta dagli impegni sottoscritti dall’Italia in sede di unione europea, contenuti nel patto di stabilità e di crescita, che condizionavano ormai fortemente i contenuti della politica economica e di bilancio del nostro paese. È significativo, in questo quadro, che la crisi del II governo Berlusconi si fosse manifestata a seguito dell’early warning indirizzato nell’aprile del 2004 al nostro governo dalla Commissione europea che sollecitava l’adozione di una manovra aggiuntiva di bilancio tale da ricondurre il rapporto fra debito pubblico e PIL al di sotto del limite del 3% previsto nel patto di stabilità. Per quanto ci interessa in questa sede, è importante ricordare che la crisi del governo fu determinata dal manifestarsi di gravissimi dissensi fra i partners della coalizione (UDC e AN, da un lato, e forza Italia e lega nord, dall’altro) non solo sulla misura e sui modi nei quali il governo avrebbe dovuto recepire le indicazioni della Commissione europea, ma, ancor di più, sul ruolo impropriamente «monocratico» assunto dal ministro dell’economia e delle finanze, non soltanto in rapporto alla definizione della manovra finanziaria, ma anche in relazione alla conduzione dell’intera politica economica; ruolo che risultava essere così pervasivo da mettere in crisi (secondo AN e l’UDC) il principio di collegialità del governo ed implicitamente lo stesso ruolo di garante dell’unità governativa spettante al presidente del consiglio (R. CHERCHI, Il governo, cit., pp. 421 ss.). La «crisi di luglio» 2004 del governo si risolse solo provvisoriamente con le dimissioni del ministro dell’economia e delle finanze Tremonti e la successiva nomina, al suo posto, del «tecnico» Domenico Siniscalco, direttore generale del tesoro. Infatti, la nomina di Siniscalco determinò (o meglio: concorse a determinare) le dimissioni di Bossi da ministro senza portafoglio, motivate da ragioni di salute ma anche dall’insoddisfazione della lega nord per la vicenda dell’allontanamento di Tremonti, cui si aggiunse la contrarietà della

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stessa lega al progetto di riforma delle pensioni, cui pure aveva lavorato il ministro leghista Maroni. Bossi, dopo un vertice del partito nella clinica svizzera nella quale era ricoverato, decise anche le dimissioni da deputato. La vicenda, potenzialmente pericolosa per le sorti del governo, si concluse con la nomina di Calderoli (altro esponente della lega nord) al posto di Bossi e con l’accettazione da parte della lega della riforma delle pensioni sulla quale il governo, anche per iniziativa del ministro Maroni, aveva deciso di porre la questione di fiducia durante l’esame del relativo disegno di legge alla camera. Peraltro, prima ancora della nomina di Siniscalco, da più parti nella maggioranza (in particolare dall’UDC e da AN) era stata proposta la formazione di una fantomatica «cabina di regia» in materia economica e sociale, presieduta dal vice presidente del consiglio Fini, per ridimensionare il peso del ministro dell’economia e realizzare un indirizzo collegiale nella formazione della politica economica (L. SPADACINI, La prima fase del secondo governo Berlusconi, in A. D’ANDREA, L. SPADACINI, a cura di, La rigidità bipolare, cit., p. 102 ss.). Di fatto, questo progetto, che sembrava prefigurare una sorta di consiglio di gabinetto specializzato in materia economica e per questo si richiamava a lontani precedenti (R. CHERCHI, Il governo, cit., p. 421, nt. 131, ricorda il tentativo di investire il vice presidente del consiglio, La Malfa, del coordinamento della politica economica durante il IV governo Moro), non si realizzò mai sia per le titubanze del presidente del consiglio, sia per l’opposizione della lega nord (entrambi favorevoli all’operato di Tremonti). Così, accantonata l’istituzione di questo organo, seguì una lunga, logorante ed inconcludente «verifica di governo» (espressione tipicamente usata, non a caso, nel periodo anteriore al 1992) che evidenziò due diversi indirizzi nella maggioranza, uno favorevole a una maggiore collegialità soprattutto nelle scelte di politica economica (AN e UDC) e l’altro contrario a questa proposta, così come ad ogni ipotesi di rimpasto di governo (FI e lega nord). In questo contesto più volte Fini minacciò di lasciare il governo: così dopo un burrascoso consiglio dei ministri del 3 luglio 2003, ed un successivo vertice di maggioranza notturno, tipico dell’esperienza anteriore al 1992, il presidente del consiglio accettò di affidare a lui il compito di coordinare le politiche economiche e sociali del governo, pur senza alterare le competenze del ministro Tremonti e quindi dando vita ad un intrico di fatto incomprensibile. A seguito del vertice, fu elaborato un documento, denominato «agenda di governo», contenente il programma dell’esecutivo per il secondo semestre del 2003, che prevedeva, tra l’altro, l’istituzione di un «consiglio di coalizione», assai simile al consiglio di gabinetto (sarebbe stato composto di un ministro per ogni partito della coalizione, ed al vicepresidente Fini sarebbe stato affidato il compito di coordinare ed integrare le politiche sociali, produttive ed economiche), anche se specializzato

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per materia. Il documento fu sottoposto alle segreterie dei partiti della maggioranza che lo approvarono non senza distinguo ed esitazioni. Il consiglio di coalizione non avrebbe visto mai la luce per l’opposizione incrociata della lega nord (contraria al potenziale ridimensionamento di Tremonti) e dell’UDC (che considerava l’organo solo tecnico e non politico) (L. SPADACINI, La prima fase, cit., pp. 102 ss.). In questo ambito, tramontata l’ipotesi di una «cabina di regia», Fini propose lo «spacchettamento» del ministero dell’economia in due diversi dicasteri nella più tipica logica del «governo per feudi» del periodo anteriore al 1992, avendo di mira l’attribuzione ad AN della titolarità di una parte della politica economica del governo. Anche tale proposta non ebbe seguito per l’opposizione di Berlusconi, così come non andò in porto, questa volta per l’opposizione di Tremonti, l’ipotesi di un rafforzamento del dipartimento economico della presidenza del consiglio che avrebbe comportato la nomina di Fini alla presidenza del Cipe (L. SPADACINI, La prima fase, cit., pp. 104 ss.). Altresì a dimostrazione di quanto ormai il governo seguisse le logiche tipiche di un esecutivo di coalizione, è da ricordare l’incapacità di Berlusconi anche solo di mediare i contrasti politici in seno al governo ed alla coalizione di maggioranza, al punto che, dopo l’ennesima minaccia di crisi, avanzata questa volta dalla lega nord, sulla base del presunto «tradimento» degli impegni programmatici da parte di AN e UDC, il presidente del consiglio decise di partire per una breve vacanza, quasi in segno di protesta (9 luglio 2003), visti i ripetuti appelli dei partners di maggioranza a prendere una posizione tra i due contendenti (lega e FI, da una parte; AN e UDC dall’altra) (L. SPADACINI, La prima fase, cit., p. 106). Così, nel luglio del 2003 la situazione sembrò in una fase di stallo, avendo il presidente del consiglio raggiunto un’intesa con i partiti della maggioranza talmente ambigua da sembrare per alcuni la conclusione di una interminabile verifica di governo (FI), per altri l’inizio in un clima finalmente costruttivo (AN ed UDC). La verifica di governo rimase sottotraccia nel secondo semestre del 2003, anche se durante questo periodo non mancarono polemiche anche aspre e la minaccia della crisi di governo da parte della lega nord dopo la presentazione da parte di AN di un disegno di legge in materia di riconoscimento dell’elettorato attivo alle elezioni amministrative agli extracomunitari regolarmente residenti, sul quale ci fu il consenso dell’UDC e dell’intera opposizione di centro-sinistra (in questo contesto è da registrare la minaccia di dimissioni di Bossi, timoroso per la sorte del disegno di legge sulla c.d. «devolution»: L. SPADACINI, La prima fase, cit., p. 117). Ed ancora tra ottobre e novembre 2003, si registrò, da un lato, l’ennesima richiesta di un chiarimento politico e di un rimpasto da parte di AN e la convocazione dell’assemblea federale della Lega nord per decidere sulla permanenza o meno del partito al governo.

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Nel giugno 2004 i contrasti giunsero di nuovo a minacciare la sopravvivenza del governo per l’opposizione di AN ai contenuti del progetto di Dpef, elaborato, secondo questo partito, senza il rispetto del principio di collegialità. Il contrasto fu risolto in un primo tempo con la proposta di Fini di revocare a Tremonti alcune deleghe e quindi con le già ricordate dimissioni di Tremonti, precedute dalla minaccia di AN di ritiro della delegazione al governo ed il passaggio all’appoggio esterno. Peraltro, anche la nomina di un tecnico (Siniscalco) al posto di un politico, non priva di difficoltà politiche, non risolse i problemi posti dalle dimissioni di Tremonti. È noto infatti che l’UDC e AN propendevano per la nomina di Mario Monti, commissario europeo in carica (anche se una parte di AN avrebbe visto con favore lo «spacchettamento» del ministero dell’economia con l’affidamento di ciascuna delle parti ad un esponente per ciascun partito della maggioranza), mentre la lega nord, contraria a questa soluzione, auspicava il prolungamento dell’interim al presidente del consiglio. La nomina di Siniscalco, fino a quel momento direttore generale del ministero dell’economia, realizzò pertanto un compromesso sgradito alla lega (pur essendo Siniscalco uno dei più stretti collaboratori di Tremonti). Di lì a pochi giorni, infatti, come anticipato, sarebbero seguite le dimissioni di Bossi da ministro e da parlamentare nazionale (M. FRAU, La tenuta del secondo governo Berlusconi di fronte alle prime significative scadenze elettorali, in A. D’ANDREA, L. SPADACINI, a cura di, La rigidità bipolare, cit., pp. 141 ss.). A monte, rimaneva il contrasto, nemmeno troppo latente, sulle linee fondamentali di politica economica e fiscale tra il presidente del consiglio, innanzitutto favorevole ad una riforma fiscale favorevole per i redditi medi ed alti e il vicepresidente Fini, contrario, anche per le ripercussioni negative per il mezzogiorno che tale riforma avrebbe potuto determinare. Altrettanto significative si rivelarono le dimissioni o le revoche di alcuni sottosegretari politicamente significativi (Taormina, Stefani, Sgarbi), nei primi due casi «sollecitate» da iniziative parlamentari dell’opposizione ma gestite con grande difficoltà dal presidente del consiglio (nel secondo caso, la revoca fu decisa solo con il consenso del partito dell’interessato, avendo in precedenza lo stesso Berlusconi dichiarato pubblicamente l’impossibilità politica di «cacciare» il sottosegretario: L. SPADACINI, La prima fase, cit., p. 111). La formazione del III governo Berlusconi ricorda da vicino la scansione procedurale tipica del periodo 1948-1991 (e della formazione dei II governi D’Alema e Amato), con alcuni elementi di novità: la crisi del II governo Berlusconi fu una crisi extraparlamentare (determinata dall’esito deludente per il centro-destra delle elezioni regionali del 2005 e da crescenti contrasti tra i gruppi della maggioranza), fortemente osteggiata dal presidente del consiglio, proprio alla luce dell’evoluzione della forma di governo che, a suo dire, avrebbe consentito solo o un limitato rimpasto o

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alcuni aggiustamenti programmatici o, in caso di rottura della coalizione di maggioranza, il ricorso anticipato alle urne. Di fronte a questo irrigidimento, 15 aprile 2005 l’UDC rispose con una scelta tipica della tradizione parlamentare italiana, ovvero le dimissioni in massa dei propri ministri e sottosegretari (analogamente si comportò anche il nuovo PSI che decise il ritiro della propria «minidelegazione» al governo, composta dal vice ministro dell’istruzione, università e ricerca, Stefano Caldoro, e dal sottosegretario al ministero delle infrastrutture Giovanni Ricevuto). Berlusconi si limitò a riferire questa novità politica al capo dello Stato senza dimettersi ed accettò solo di recarsi in parlamento per il necessario chiarimento politico. Tra l’altro, come si dirà anche in seguito, sembra che Berlusconi non intendesse nemmeno riferire sulla situazione politica al capo dello Stato e che questi lo avesse «costretto» a farlo in occasione della firma dei decreti presidenziali di accettazione delle dimissioni dei ministri dell’UDC, dopo averlo inutilmente atteso al Quirinale nel pomeriggio dello stesso 15 aprile. Come è stato affermato, in questa fase «Berlusconi cerca la garanzia di una crisi non al buio, ma pilotata. In pratica, la certezza non solo di un reincarico, ma di uno sbocco positivo in poche ore (una crisi non crisi). Ovviamente c’è un’altra ragione per cui non si dimette subito: nel vigente ordinamento costituzionale, le dimissioni sono ciò che determina il passaggio dalla crisi politica a quella formale, con gestione di essa affidata al presidente della Repubblica» (C. FUSARO, Lezioni da una crisi di governo un po’ vera un po’ utile, in Quad. cost., 2005, p. 632). È altresì significativo che Berlusconi avesse invocato alcuni precedenti anteriori al 1991 per giustificare la sua decisione di non dimettersi e ricercare dopo un passaggio parlamentare il rilancio dell’azione del governo. La decisione di Berlusconi, che indubbiamente si poneva in discontinuità con la prassi costituzionale precedente, rientrò progressivamente solo a seguito della minaccia di AN di comportarsi come l’UDC (questo atteggiamento non era però sostenuto dalla lega nord, timorosa che l’apertura formale della crisi potesse compromettere il raggiungimento degli obiettivi programmatici più cari a questo partito: M. FRAU, Le elezioni regionali, la crisi del secondo governo Berlusconi e la nascita del nuovo Esecutivo, in A. D’ANDREA, L. SPADACINI, a cura di, La rigidità bipolare, cit., p. 189). La direzione di AN il 19 aprile approvò all’unanimità un documento assai critico sulla gestione della crisi da parte del presidente del consiglio. Le dimissioni dei ministri, viceministri e sottosegretari non vennero però formalizzate ma, per così dire, «delegate» al segretario del partito. Come detto, il braccio di ferro tra Berlusconi ed AN si risolse a favore di quest’ultima il giorno 20, quando al senato il presidente del consiglio comunicò le inevitabili dimissioni. In questo contesto, Berlusconi, dopo avere reso comunicazioni alle camere, si dimise, lamentando le presunte insufficienze dell’ordinamento co-

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stituzionale italiano che non avrebbero consentito al presidente del consiglio sostanzialmente scelto dal popolo di assumere ogni determinazione circa l’adeguamento della compagine di governo, non nascondendo quindi una insofferenza anche rispetto alle forze della maggioranza che avevano imposto l’apertura della crisi. Al momento delle dimissioni fu concordato un generico «patto di fine legislatura» tra i partiti della maggioranza, nell’ambito del quale l’UDC garantiva il sostegno ad un nuovo governo, guidato dallo stesso Berlusconi, dopo l’apertura formale della crisi. La vicenda della crisi è quindi significativa, nella misura in cui la volontà del premier non riuscì a prevalere (e questo, come si dirà, segna una differenza rispetto alle vicende del 2010), nonostante mirate dichiarazioni pubbliche finalizzate a tentare in ogni modo di scongiurare una crisi che avrebbe indubbiamente appannato il suo carisma (C. CHIMENTI, Anatomia, cit., p. 56): in definitiva, anche nella XIV legislatura, nonostante il risultato delle elezioni del 2001, lo schema del governo di legislatura non riesce ad imporsi. In effetti, la crisi del II governo Berlusconi si pone sul crinale tra il «vecchio» ed il «nuovo», con la prevalenza degli elementi di continuità, ma non fino al punto di ritenere costituzionalmente obbligatorie, in forza di una presunta convenzione costituzionale, le dimissioni dell’esecutivo a seguito del ritiro dell’UDC (C. FUSARO, Lezioni, cit., pp. 632 ss.): ammesso e non concesso infatti che tale convenzione sia esistita come tale fino al 1991, con il mutamento del sistema politico successivamente al 1994 non sembrano sussistere incostituzionalità di sorta qualora un esecutivo decida di rimanere in carica nonostante il disimpegno di un gruppo di maggioranza, sempre che, evidentemente, questo non risulti determinante per la sussistenza della maggioranza stessa (R. CHERCHI, Il governo, cit., pp. 329 ss.). In questo senso, appare quindi forse eccessivo il rilievo secondo il quale la crisi del II governo Berlusconi avrebbe costituito «la pietra tombale del parlamentarismo maggioritario di coalizione all’italiana» (F. FURLAN, Crisi di governo e regolarità della politica, in Quad. cost., 2005, p. 639) e non già perché questa tesi non abbia elementi di verità quanto perché presuppone una linearità di evoluzione che non si è dimostrata propria dell’esperienza italiana. A differenza di quanto era accaduto nella legislatura precedente, il nuovo governo fu presieduto dallo stesso presidente del consiglio uscente e dalla stessa maggioranza parlamentare, anche se gli equilibri interni alla nuova compagine appaiono (e non poco) mutati. Il presidente del consiglio uscente, unanimemente indicato dalle forze della precedente maggioranza, che si recarono in una delegazione unitaria dal capo dello Stato, ricevette l’incarico di formare il governo al termine di consultazioni svolte con grande rapidità. Ricevuto l’incarico il 22 aprile, Berlusconi sciolse la riserva già il giorno successivo, presentando la lista dei ministri.

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Nonostante l’apparente rapidità della sua formazione, il nuovo governo apparve assai più debole del precedente, e principalmente per l’appannamento della premiership, dovuto all’azione congiunta di due determinanti forze di governo (AN ed UDC). Da questo punto di vista, quindi, il III governo Berlusconi non fu un esecutivo più forte ed autorevole dei II governi D’Alema e Amato della legislatura precedente. Vari indici sembrano suffragare questa conclusione: in primo luogo, nel nuovo governo rientrò Tremonti come vicepresidente del consiglio in sostituzione di Follini, che l’UDC decise di far rientrare al partito (e questa scelta non contribuì certo a rafforzare l’esecutivo). Al ministero della salute andò Francesco Storace, esponente della corrente più radicale di AN e per questo osteggiato all’interno del suo stesso partito (Maurizio Gasparri, della corrente di AN più vicina al presidente del consiglio non fu confermato ministro delle comunicazioni e fu sostituito dal collega di partito e di corrente Mario Landolfi). Complessivamente, il dosaggio dei portafogli tra i partiti della maggioranza vide un certo ridimensionamento di FI (nove ministri), in favore dei partiti minori (entrarono un ministro del nuovo PSI e uno del PRI), di cui era intuibile il peso decisivo nelle imminenti elezioni politiche, e una diminuzione dei ministri con un profilo più tecnico (furono esclusi i ministri Sirchia, Urbani e Marzano; rimase quindi solo Siniscalco confermato ministro dell’economia e delle finanze), a somiglianza di quanto era avvenuto prima del 1991. Ancora, è da sottolineare che già nel dibattito sulla fiducia al governo l’UDC espresse critiche e riserve sull’operato del presidente del consiglio e manifestò perplessità addirittura sulla prospettiva di riproporre la stessa leadership della coalizione anche alle elezioni del 2006. Emblematiche furono poi le dimissioni del ministro Siniscalco (settembre 2005), a seguito dell’opposizione dell’UDC e della lega nord ad alcuni contenuti della manovra finanziaria per il 2006, e il successivo ritorno di Tremonti, clamorosamente senza opposizione né di AN né dell’UDC; ritorno che determinò la concentrazione di nuovo nelle sue mani tutti i principali poteri di indirizzo e di controllo della politica economica e finanziaria del governo. Di fatto, anche questa vicenda dimostra come anche «nel governo di coalizione in ambiente maggioritario il ministro dell’economia non può quindi limitarsi a ricercare il sostegno del presidente del consiglio, ma deve esercitare i propri ampi poteri perseguendo la costruzione di soluzioni condivise dai ministri e dai partiti di maggioranza» (R. CHERCHI, Il governo, cit., p. 424) e dimostra altresì la debolezza di un ministro tecnico in una fase politica delicata e ormai pre-elettorale (il ministro più volte aveva dichiarato di non accettare una finanziaria «elettorale») e per di più non appoggiato dal presidente del consiglio nella sua richiesta di dimissioni del governatore della banca d’Italia, Fazio. Anche le dimissioni di Calderoli, ministro delle riforme istituzionali, a

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seguito dell’esibizione televisiva di una maglietta considerata offensiva della religione islamica, furono in pratica rese possibili solo grazie al via libera del leader della lega nord Bossi, a dimostrazione di quanto ormai la dinamica classica del governo di coalizione avesse ormai preso il sopravvento. A ciò si aggiungano i contrasti non risolti su questioni politicamente rilevanti e su provvedimenti qualificanti del programma di governo che o furono accantonati o furono approvati con il sistematico ricorso alla questione di fiducia (è sufficiente ricordare che il governo è ricorso alla questione di fiducia solo 14 volte nel periodo 2001-2003 e ben 46 volte nel solo 2006, sul presupposto dello «scollamento» della maggioranza parlamentare): si pensi alla riforma della legge sulla par condicio, non varata per l’opposizione dell’UDC o alla proposta di elevazione dell’età pensionabile, anch’essa affossata per l’opposizione di Fini e del ministro del lavoro, Maroni. Analogamente, il decreto legislativo di riforma del trattamento di fine rapporto fu deliberato dal consiglio dei ministri, con l’astensione polemica di più ministri (C. CHIMENTI, Anatomia, cit., p. 57). Nel contesto di progressivo logoramento del governo si collocò poi la vicenda della richiesta di dimissioni del governatore della banca d’Italia, accusato di coinvolgimento in irregolarità commesse da gruppi finanziari nella scalata ad istituti di credito di rilevanza nazionale: come è stato affermato, la irresolutezza dimostrata dal presidente del consiglio costituì il punto più basso «della parabola percorsa dal regime del premier in versione italiana» nella XIV legislatura (C. CHIMENTI, Anatomia, cit., p. 59); maturarono così le dimissioni del ministro Siniscalco, praticamente «sollecitate» da FI e dalla lega nord). In questo senso, si dimostra che «la forza istituzionale e politica del presidente del consiglio è temperata dall’esigenza di costruzione del consenso della maggioranza» e che «la qualità della leadership del presidente del consiglio dipende – assai più che dall’investitura plebiscitaria – dalla struttura della maggioranza, dalle circostanze in cui il governo si trova ad operare e dall’esito delle elezioni intermedie» (R. CHERCHI, Il governo, cit., p. 432). Il modello italiano appare quindi caratterizzato, anche nella XIV legislatura, da un presidente del consiglio il quale unisce inestricabilmente elementi di direzione politica monocratica ed accentrata ed elementi di più o meno complessa mediazione tra diverse posizioni ed interessi in gioco (R. CHERCHI, Il governo, cit., p. 433). L’ultimo periodo del III governo Berlusconi si caratterizzò, tuttavia, soprattutto per l’approvazione, nel dicembre del 2005, e quindi proprio alla fine della legislatura, di una nuova legge elettorale che avrebbe mutato radicalmente le regole del gioco nella rappresentanza politica nazionale. Si tratta della legge 21 dicembre 2005, n. 270 che cancellava il principio prevalentemente maggioritario ed uninominale introdotto nel 1993 e

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conformato il sistema elettorale attraverso una formula proporzionale basata su un collegio plurinominale, una scheda unica con lista bloccata ed un premio di maggioranza (non collegato ad un quorum minimo) con clausole di esclusione diversamente articolate per la camera (livello nazionale) e per il senato (livello regionale) (cfr. infra, cap. 7). Dal punto di vista politico e della forma di governo, la legge n. 270 si caratterizzava anche per il favore da essa dimostrato per l’aggregazione dei partiti in coalizioni (dunque, per il modello bipolare) attraverso una «premialità» che abbassava i quorum minimi di esclusione previsti dalla legge a favore di quei partiti collegati in coalizioni che depositassero un unico programma elettorale insieme al nome della persona «da loro indicata come capo unico della coalizione». Al di là della complessa «tecnicalità» della legge (giustamente criticata per la sua scarsa funzionalità in quanto essa tendeva a produrre maggioranze diverse per la camera e per il senato), la legge elettorale del 2005, nata apparentemente per rafforzare il bipolarismo, si caratterizzò, invece, per l’introduzione di una versione particolare di esso che si è dimostrata non soltanto poco funzionale ma anche gravemente restrittiva di alcuni principi fondamentali della rappresentanza politica. Da questo punto di vista, l’innovazione più discutibile introdotta dalla legge era senza dubbio la già citata introduzione, in luogo dei collegi uninominali, delle liste di partito: liste «bloccate» (nel senso che l’attribuzione dei seggi avveniva in base all’ordine numerico di inserimento dei candidati nella lista, senza la possibilità di esprimere preferenze), formulate e presentate dai vertici nazionali (o regionali, per il senato) dei partiti politici. In tal modo la legge n. 270 consegnava ai partiti politici (anzi, ai loro vertici; e senza nessun rispetto per l’esistenza di una possibile strutturazione «federale» dei partiti stessi) il potere di determinare l’intera composizione della rappresentanza parlamentare del partito politico. Dunque, la legge finiva per «banalizzare» (cancellandone il rilievo) l’art. 67 Cost., a causa dell’inevitabile costituirsi di un insuperabile vincolo di mandato fra gli eletti e le dirigenze politiche; dirigenze alle quali era consegnato l’intero potere di vita e di morte (politica) sui deputati e sui senatori, destinati a diventare macchine da voto nelle mani dei vertici dei partiti (F. LANCHESTER, La rappresentanza in campo politico e le sue trasformazioni, Milano, Giuffrè, 2006, pp. 185 ss.). La norma sulle liste bloccate appariva, inoltre, ancora più grave se si considera che l’ingiustificato aumento di potere dei vertici politici di partito si inseriva in un contesto nel quale i partiti politici italiani apparivano, in generale e come si dirà fra poco, lontanissimi dalla realizzazione dei principi posti dall’art. 49 Cost., ed in particolare dell’obbligo dell’esistenza di statuti che garantissero, dentro ai partiti, una effettiva democrazia degli associati. Infine, la nuova legge elettorale del 2005 dava una nuova definizione

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del «modello bipolare» nato fra il 1994 ed il 1996 perché, come rilevato poco sopra, il collegamento dei partiti in coalizioni era collegato alla presentazione di un unico programma elettorale e di un «capo unico della coalizione». Come si dirà (cap. 7), a questa normativa era infatti, e non a caso ma discutibilmente, attribuito dalla coalizione che vinse le elezioni del 2008 (quella di centro destra, promotrice della legge in questione) il valore di un principio di fatto costituzionale, volto ad impedire non solo la possibilità della nomina a capo del governo di una persona diversa dal «capo unico della coalizione», ma anche quella di qualsiasi mutamento della maggioranza vincitrice delle elezioni nel corso della legislatura, se non a condizione di uno scioglimento anticipato delle camere e della convocazione di nuove elezioni. A poco vale ricordare che questa interpretazione «estrema» del bipolarismo, che peraltro non ha avuto fino ad oggi alcun riscontro nella prassi, si manifesta in palese contraddizione con la salvaguardia dei poteri del presidente della Repubblica contenuti nell’art. 14-bis della legge e con il potere di scioglimento anticipato del parlamento ad esso attribuito dall’art. 88 Cost.; è evidente, infatti, che il senso più profondamente politico della normativa era quello di far credere che si fosse instaurata in Italia una nuova forma di governo fondata non solo sulla immutabilità della maggioranza ma anche sull’elezione diretta del presidente del consiglio dei ministri. È appena il caso di ricordare che una elezione diretta del Premier non è riscontrabile nel «modello di Westminster», nel quale il primo ministro è il leader del partito vincitore delle elezioni e, in quanto tale, conserva la carica finché goda del sostegno del suo partito. Diversamente, è ben possibile la sua sostituzione con un nuovo leader (è accaduto, da ultimo, con le dimissioni di Cameron, sostituito da Theresa May).

4. La XV legislatura: la forma di governo in un contesto di «bipolarismo» di coalizione «frammentato» Le elezioni del 2006 segnarono l’apoteosi e insieme, la trasfigurazione del bipolarismo di coalizione che ha segnato il periodo successivo al 1994. Si sono già richiamati i tratti caratterizzanti della riforma elettorale del 2005 ed i difetti di fondo della stessa, a partire dall’illogico sistema elettorale del senato, dai robusti incentivi alla frammentazione e dalla «rivincita» dei partiti sulle coalizioni. Frammentazione e fragilità numerica al senato della coalizione di maggioranza (il centro sinistra prevalse per un seggio, e solo grazie ai risultati conseguiti nella circoscrizione estero) e la debolezza della premiership, furono le caratteristiche di fondo della XV legislatura; caratteristiche che

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esaltano, ancor più delle tre legislature precedenti, alcuni degli elementi di continuità con il periodo precedente al 1994. La necessità di conquistare il premio di maggioranza fece sì che le due coalizioni principali si presentassero in un formato assai esteso (in totale 20 liste sia per il centro-sinistra che per il centro-destra). Nella coalizione di centro sinistra ottennero seggi ben 8 liste alla camera e 11 al senato. La conseguente frammentazione si ripercosse sul funzionamento sia del parlamento che del governo; nel primo caso, superando una prassi che si era radicata fino dall’avvento del maggioritario, furono autorizzati gruppi in deroga al prescritto numero minimo di parlamentari: si giunse così all’esorbitante numero di 12 gruppi alla camera e 9 al senato (in precedenza solo nella XIV legislatura alla camera era stato autorizzato, quale gruppo in deroga, quello di rifondazione comunista, sia perché la lista corrispondente aveva superato la soglia di sbarramento – allora il 4% –, sia perché la richiesta era stata avanzata all’inizio della legislatura: V. COZZOLI, I gruppi parlamentari nella transizione del sistema politico-istituzionale. Le riforme regolamentari della camera dei deputati nella XIII legislatura, Milano, Giuffrè, 2002, pp. 64 ss.). Come abbiamo già accennato nel paragrafo precedente, la vittoria dello schieramento di centro sinistra alle elezioni del 2006 fu accompagnata dal manifestarsi di forti tendenze favorevoli ad una nuova affermazione di quel pluripartitismo che non era stato certamente riassorbito dal sistema elettorale del 1993, cosicché la XV legislatura si caratterizzò per la presenza in parlamento di ben 34 partiti (dati di Filippeschi e Barbera) e per la formazione di un governo (il II governo Prodi) composto da tutti i 9 partiti che componevano la coalizione elettorale, senza riguardo alle loro dimensioni ed alla loro capacità di andare al di là di quei limitati interessi settoriali o di territorio che costituivano vera ragione d’essere di alcuni di essi. Per quanto riguarda il governo, come si è accennato, prima ancora del conseguimento della fiducia, fu adottato il d.l. n. 181 del 2006 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 233 del 2006) che, per soddisfare gli «appetiti» dei vari partiti della maggioranza, aumentò il numero dei ministeri, in tal modo «rinnegando» la riduzione imposta dai decreti legislativi di riforma adottati nella XIII legislatura (d.lgs. n. 300 del 1999) (i ministri titolari dei dicasteri istituiti dal d.l. n. 181 del 2006 giurarono come ministri senza portafoglio. La procedura, contestata aspramente dal centro destra, fu difesa dalla presidenza della Repubblica in un comunicato del 22 maggio 2006 nel quale si ribadiva, in conformità al «precedente» costituito dal II governo Berlusconi, la non necessità che i ministri prestassero di nuovo giuramento). Tale scelta, che suscitò notevoli problemi di costituzionalità, comportò la dilatazione dei ministeri con portafoglio (18, cui si aggiungono 8 ministri senza portafoglio); insieme ai viceministri ed ai sottosegretari la com-

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pagine governativa assommava a ben 103 componenti, un record nella storia repubblicana. Furono nominati vicepresidenti del consiglio D’Alema e Rutelli. Si tratta di vicepresidenze «pesanti» sia sul piano politico sia su quello istituzionale, essendo due esponenti di primo piano dei due partiti più forti della coalizione (Rutelli era segretario della margherita), cui furono attribuiti anche due ministeri con portafoglio (D’Alema fu nominato ministro degli esteri, mentre Rutelli ministro dei beni culturali). Si conferma anche in questo caso una funzione tipica dell’istituzione dei vicepresidenti riscontrabile anche nel periodo anteriore al 1992, ovvero il suo essere insieme uno strumento di «contrappeso» di un premier politicamente debole e, in questo senso, anche un strumento ausiliario per quest’ultimo, per assicurargli lealtà da parte dei ministri della propria delegazione (G. PITRUZZELLA, Artt. 92-93, cit., p. 146). La ripartizione dei portafogli rispecchiò ovviamente la frammentazione della coalizione di centro-sinistra: dei ministri con portafoglio 5 furono assegnati ai DS, 4 alla margherita, 2 ad esponenti «ulivisti», 1 ciascuno ad UDEUR, verdi, IDV, rosa nel pugno, PRC, PDCI mentre un ministero (quello dell’economia e delle finanze) fu attribuito all’indipendente Tommaso Padoa Schioppa che però si trovava a convivere con un sottosegretario assai «ingombrante» sul piano politico, quale Vincenzo Visco, le cui deleghe erano tanto ampie da coincidere praticamente con le attribuzioni del soppresso ministero delle finanze. La ripartizione dei sottosegretari era ancora più ispirata alla logica della frammentazione, premiando anche le «micro-liste» che, pur non avendo ottenuto seggi, erano state determinanti per la vittoria del centro sinistra: così Vittorio (Bobo) Craxi, della lista «i socialisti», fu nominato sottosegretario agli esteri; Elidio De Paoli, della «alleanza Lombardia autonoma», fu nominato sottosegretario alle politiche giovanili e alle attività sportive; Giovanni Mongiello, della lista «democratici cristiani uniti» divenne sottosegretario alle politiche agricole. Come si è già accennato, le ricorrenti polemiche su tale pletorica composizione fecero sì che nella legge finanziaria per il 2008 fosse «imposto» il ritorno all’assetto fissato dal d.lgs. n. 300 del 1999 anche se a partire dal primo governo della legislatura successiva (art. 1, comma 376, legge n. 244 del 2007). La formazione del governo risentì di alcuni rilevanti difficoltà politiche, come è dimostrato anche dalle polemiche tra i partiti della maggioranza ed all’interno dei partiti stessi (in particolare, all’interno dei DS nasce una polemica sulla presenza o meno all’esecutivo del segretario Piero Fassino). Un’ipoteca immediata sulla stabilità del governo venne poi dalla delegazione politicamente di secondo piano espressa dai due partiti post-comunisti, PRC e PDCI, il secondo dei quali era rappresentato solo da un tecnico di area (Alessandro Bianchi).

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È del tutto evidente che questa situazione denunciava, anzitutto, una più che problematica attuazione dei principi di collegialità e di direzione effettiva dell’indirizzo politico governativo da parte del primo ministro; il governo Prodi II, l’unico di una legislatura destinata a durare solo due anni (2006-2008) risentì di un contesto politico-istituzionale del tutto peculiare, evidenziando, fin dall’inizio della propria attività, serie difficoltà, malgrado l’esistenza, come si vedrà, di un programma elettorale molto dettagliato, non riuscendo ad operare in realtà una sintesi fra i tanti partiti che rappresentavano interessi così diversi. Inoltre, la struttura del governo, non dissimile da quella che era stata propria di tanti esecutivi della c.d. «prima Repubblica», presupponeva, più che l’esistenza di decisioni collegiali e di una salda direzione da parte del presidente del consiglio, la ricomparsa di quella tradizionale «direzione plurima dissociata» nelle materie di competenza dei singoli ministri che era stata tanto deprecata fino al 1993. Tuttavia, dato che il «ministerialismo» non può comunque rappresentare una vera e stabile soluzione ai problemi degli esecutivi (in quanto la vita dei governi presuppone pur sempre l’esistenza di materie sulle quali non si può non manifestare un indirizzo comune), il II governo Prodi trovò difficoltà di tenuta sempre maggiori proprio in quelle materie, come la politica estera e quella economica e finanziaria, sulle quali non può non esistere un minimum di unità politica e programmatica. Ciò detto, all’inizio della legislatura, per limitare sgradite sorprese nelle votazioni al senato, il governo e la maggioranza decisero di far dimettere i senatori che fossero stati nominati ministri o sottosegretari, con ciò ripristinando, in un contesto diverso e per altre finalità, quanto era avvenuto, per iniziativa della sola DC, nel corso della XI legislatura. La procedura di dimissioni risultò però travagliata, poiché spesso l’assemblea respinse a più riprese le dimissioni stesse. A ciò si aggiunga, come detto, la debolezza politica di Prodi che, alla prova dei fatti, non fu compensata né dalla designazione largamente maggioritaria dello stesso nelle primarie dell’unione del 16 ottobre 2005, né dalla indicazione dello stesso quale capo unico della coalizione nelle elezioni del 2006, a ulteriore riprova della limitata rilevanza di questi strumenti, nonostante che il capo dello Stato avesse avvertito la necessità, nelle prime consultazioni della legislatura, di sentire separatamente Prodi e Berlusconi in quanto leaders delle due coalizioni principali (G. MARINO, Forma di governo e sistema politico nei primi mesi della XV legislatura, in www.forumcostituzionale.it). In definitiva, non diversamente da quanto era accaduto nella XIII legislatura, la non riferibilità di Prodi ad uno dei partiti dell’unione, ed in particolare ad uno dei più forti, si dimostrò un fattore assai negativo per la vita del governo e della legislatura, certamente unito alla fragilità numerica e politica della maggioranza al senato, poco cementata da un programma di legislatura tanto vasto (composto com’era di quasi trecento cartel-

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le), quanto generico ed elusivo in alcuni ambiti fondamentali nei quali le posizioni dei diversi partiti erano distanti (politica estera; politica economica). In particolare, nel contesto della XV legislatura si evidenziò un tratto tipico dell’esperienza costituzionale anteriore al 1992 ovvero l’«elasticità funzionale» della posizione costituzionale del presidente del consiglio rispetto a quella dei ministri (L. VENTURA, Il governo, cit., pp. 64 ss.), non rinvenendosi nel II governo Prodi la prevalenza del principio monocratico, e ciò sia per la esigenza di un continuo confronto e di una costante mediazione tra i nove partiti della maggioranza (e all’interno del consiglio dei ministri con i «capidelegazione» dei partiti stessi), sia per il ridotto profilo politico del premier. In definitiva, ancora una volta, la mancata coincidenza di leadership e premiership, in un contesto di coalizioni eterogenee, costituisce un tratto caratterizzante dell’esperienza italiana (nonostante l’evoluzione della legislazione elettorale e del sistema politico), rispetto alla quale, come si dirà (par. 5) nemmeno le elezioni del 2008 segnarono un fattore di discontinuità. Per evitare o per attenuare i rischi della «mannaia» del senato, il governo ricorse, pressoché sistematicamente, alla decretazione d’urgenza, spesso «blindando» la conversione in legge con il ricorso alla questione di fiducia, suscitando per questo le giustificate proteste dell’opposizione fino dall’inizio della legislatura, ovvero tentando di valorizzare, laddove possibile, il ricorso a fonti sub legislative (la circolare della presidenza del consiglio 11 aprile 2007, n. 2869 raccomandava di evitare il ricorso eccessivo e immediato alla produzione di nuove disposizioni, soprattutto di rango legislativo, la cui ratio profonda non era quindi solo quello di assecondare la logica virtuosa della qualità della normazione). Già dal luglio 2006, quindi dai primi mesi della legislatura, l’uso della questione di fiducia fu giustificata per superare contrasti, altrimenti insuperabili e non componibili, all’interno della maggioranza: così, la fiducia sul disegno di legge relativo alla partecipazione italiana a missioni militari all’estero (divenuto la legge n. 247 del 2006) fu decisa per la dichiarata opposizione al testo di alcuni senatori di gruppi della c.d. «sinistra radicale». Già nella primissima parte della legislatura, la maggioranza conobbe alcune gravi sconfitte al senato, prima sul d.l. n. 261 del 2006, in materia di contenimento del disagio abitativo (fu approvata una pregiudiziale di costituzionalità presentata dai gruppi di centro-destra), poi sul «caso Rovati», consigliere politico-economico del presidente del consiglio che annunciò le dimissioni a seguito della diffusione di un piano per la cessione della rete fissa di Telecom Italia, ignorato dal Prodi (settembre 2006). Tale vicenda, nella quale certamente il ruolo del presidente del consiglio risultò debole (se è vero che era stato tenuto all’oscuro di fatti politicamente assai rilevanti), vide la maggioranza sconfitta al senato sulla calendarizzazione delle comunicazioni del governo che vennero anticipate

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di una settimana (le comunicazioni si svolsero effettivamente il 5 ottobre). La prima pre-crisi si manifestò nel febbraio 2007: dapprima il senato, con il solo voto dei parlamentari dell’opposizione, approvò un ordine del giorno di assenso alle comunicazioni rese dal ministro della difesa Parisi, relative al progetto di ampliamento della base militare statunitense di Vicenza. Al fine di chiarire il significato politico del voto su di un atto ritenuto strumentale dalla maggioranza, venne calendarizzato lo svolgimento di comunicazioni del ministro D’Alema sulle linee di politica estera del governo. L’8 febbraio 2007 il senato respinse la risoluzione del governo sulla politica estera, presentata al termine dello svolgimento delle comunicazioni del ministro degli esteri, dopo che governo e maggioranza non erano riusciti a trovare un accordo nemmeno su una proposta di legge in materia di convivenze (Dico), deliberata dal consiglio dei ministri tra aspre polemiche. Il consiglio dei ministri decise l’apertura della crisi di governo, riconoscendo alla reiezione della risoluzione della maggioranza un significato di sostanziale (ma non formale) sfiducia. Lo stesso presidente della Repubblica, nella dichiarazione resa al termine delle consultazioni (cfr. infra, nel testo), affermò che le dimissioni «si erano rese necessarie non per obbligo costituzionale ma per dovere di chiarezza politica dopo gli esiti delle votazioni del 1° e del 21 febbraio al senato, e per le divergenze e tensioni manifestatesi già prima nella maggioranza di governo» (il testo del comunicato è rinvenibile in www.quirinale.it). A dimostrazione, però, della debolezza della premiership, sembra che, alla base di questa decisione, vi fosse stata la volontà del maggior partito della coalizione (i DS), dimostratasi prevalente rispetto ad un atteggiamento meno netto del presidente del consiglio che avrebbe considerato anche l’ipotesi di non arrivare all’apertura formale della crisi ma solo ad una verifica della persistente presenza di una maggioranza a sostegno del governo al senato. La soluzione della crisi risultò difficoltosa: a dimostrazione della frammentazione del quadro politico, diversamente da quanto era avvenuto all’inizio della legislatura, il capo dello Stato ricevette separatamente ciascun gruppo della maggioranza e ciascun gruppo dell’opposizione (furono consultate ben 26 formazioni politiche), senza sentire i «capi unici» delle rispettive coalizioni. La dichiarazione del capo dello Stato, resa al termine delle consultazioni (24 febbraio 2007), è assai interessante, soprattutto rispetto a ricostruzioni dell’evoluzione della forma di governo italiana che una parte della dottrina propone (questa dichiarazione costituisce una interessante novità istituzionale, sulla quale, per tutti, M.C. GRISOLIA, Alla ricerca di un nuovo ruolo del capo dello Stato nel sistema maggioritario, in www.associazione deicostituzionalisti.it).

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In particolare, venne sottolineata: a) la volontà dei partiti dell’unione di poter garantire, sulla base dell’accordo di programma e di metodo già sottoscritto, «l’indispensabile unitarietà ed efficacia dell’azione di governo nel prossimo futuro»; a fronte di ciò le opposizioni prospettavano soluzioni diverse: la verifica dell’esistenza di una maggioranza politica al senato, al netto quindi dei senatori di diritto e a vita (AN); l’incarico ad un’alta personalità istituzionale per un governo presumibilmente di «larghe intese» (UDC); lo scioglimento delle camere (FI-lega nord); b) la conseguente necessità di verificare l’esistenza al senato di una maggioranza politica a sostegno del governo; c) la conseguente impraticabilità politica delle diverse ipotesi di un governo di «larghe intese», definite comunque «legittime e motivate», ancorché non sufficientemente condivise, a dimostrazione della sostenibilità costituzionale di esse, contrariamente a quelle ricostruzioni che avrebbero voluto interpretare in senso rigido i rapporti tra la maggioranza parlamentare uscita dalle elezioni e le opposizioni; d) la decisione di non sciogliere immediatamente le camere «sia alla luce di una costante prassi istituzionale sia in considerazione di un giudizio largamente convergente, benché non unanime, sulla necessità prioritaria di una modificazione del sistema elettorale vigente». Da qui la decisione del rinvio del governo dimissionario alle camere, essendosi rispettati i presupposti per il legittimo esercizio di tale prerogativa (cfr. supra, cap. 4, par. 5). Fu in particolare oggetto di diverse ricostruzioni la richiesta al presidente del consiglio di verificare l’esistenza di una maggioranza politica a sostegno del governo, ciò che, secondo alcuni, avrebbe significato l’esistenza di una maggioranza di senatori elettivi, detratti cioè quelli di diritto e a vita (V. LIPPOLIS, G. PITRUZZELLA, Il bipolarismo conflittuale. Il regime politico della seconda Repubblica, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, p. 77). Ma tale interpretazione appariva discutibile nella misura in cui i senatori vitalizi sono tali pleno iure e perciò godono delle stesse prerogative di quelli elettivi. La ricomposizione della maggioranza non risolse però i problemi politici che avevano determinato la crisi: il governo riuscì ad incassare una sofferta fiducia al senato, grazie al sostegno determinante di un senatore eletto all’estero (in una lista indipendente dalle coalizioni principali) e di Marco Follini (fuoriuscito dall’UDC e fondatore del nuovo movimento «Italia di mezzo»), anche se le tendenze «centrifughe» di singoli senatori sia della parte moderata della coalizione, sia di quella della «sinistra radicale», resero la sorte del governo alquanto incerta. Infatti, la soluzione della crisi comportò una drastica riduzione dell’ambizioso programma di legislatura, ormai ridotto a 12 punti prioritari. Venne inoltre ribadito quanto in realtà già previsto dalla legge n. 400 del

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1988, ovvero il riconoscimento al presidente del consiglio «di esprimere in maniera unitaria la posizione del governo […] in caso di contrasto», anche se poi questo impegno non avrebbe impedito numerose esternazioni anche polemiche dei singoli ministri. Come è stato giustamente affermato, quella decisa nel febbraio 2007 non fu solo una ridefinizione del programma presentato agli elettori nel 2006 «secondo un’idea di democrazia immediata» ma un vero e proprio nuovo accordo di coalizione «rimesso all’esclusiva disponibilità delle forze politiche che lo hanno sottoscritto, anche per quanto concerne la possibilità di sanzionarne (politicamente) l’inadempimento, risultando perfettamente coerente ad un modello di democrazia mediata» (G. MARINO, La crisi del governo Prodi tra seconda e terza Repubblica, in www.forum costituzionale.it); in tal modo, la vicenda può essere assimilata ad alcuni precedenti propri del periodo anteriore al 1992. Rientrata la crisi, il governo e la maggioranza dovettero affrontare il «caso Visco». Il viceministro dell’economia, già ministro delle finanze nel I governo Prodi e nei due governi D’Alema, nonché esponente di primo piano dei DS, accusato di avere esercitato pressioni indebite sul comandante generale della guardia di finanza a proposito di alcune inchieste, fu fatto oggetto di pesanti attacchi da parte delle opposizioni, culminati nella presentazione di due mozioni: la prima, presentata nella seduta del 29 maggio 2007 (n. 1-00103, Schifani ed altri), con la quale si impegnava il governo a revocare le deleghe assegnate al viceministro, la seconda, presentata il 3 luglio successivo, con cui si impegnava il governo a trasformare in permanente la revoca a Visco delle deleghe relative alla guardia di finanza e di invitarlo a rassegnare le dimissioni dall’incarico (n. 1-00124, D’Onofrio ed altri; in questo senso è anche la mozione Calderoli ed altri – n. 100141 – con cui si invitava Visco alle dimissioni). Come evidenziato da una parte della dottrina, anche da questa vicenda emerge l’intrinseca ambiguità della figura dei viceministri, che possono risultare politicamente assai significativi, anche se privi di quei poteri di indirizzo che la legge n. 400 del 1988 (ed a monte, il dettato costituzionale) riserva ai soli ministri (A. RUGGERI, Viceministri di nome e di fatto, cit., in particolare pp. 528 ss.) In questo senso, la presentazione dei documenti in questione sembrava ben possibile poiché, come è stato affermato, «in sede parlamentare potranno considerarsi ammissibili ed approvabili atti di indirizzo rivolti al ministro coadiuvato ed al presidente del consiglio, diretti non solo ad esprimere motivi di censura nei confronti del sottosegretario-vice ministro, ma anche a sollecitarne le dimissioni o la revoca del titolo di vice ministro (e della relativa delega ampia) oppure l’allontanamento tout court anche come sottosegretario» (L. CIAURRO, La nuova figura dei vice ministri, cit., p. 280).

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In effetti, l’impossibilità di sfiducia individuale dei viceministri, argomentabile dall’art. 10 della legge n. 400 del 1988, in quanto sottosegretari di stato (e quindi, per inciso, revocabili con le stesse modalità previste per la nomina: per tutti, F. GIRELLI, Sulla responsabilità politica di sottosegretari di Stato e viceministri, cit., pp. 116-117) e quindi non intestatari di una propria responsabilità politica di fronte al parlamento (M. TIMIANI, La mozione di censura verso sottosegretari: riflessioni a partire dal «caso Cosentino», in www.forumcostituzionale.it) condusse le opposizioni a presentare documenti che, a parte i profili più schiettamente tecnici, mascheravano una concezione delle prerogative di Visco come più prossime a quelle di un vero e proprio ministro, data l’ampiezza delle sue deleghe. In questo senso, l’eventuale approvazione delle mozioni avrebbe comportato, di fatto, le dimissioni del ministro dell’economia, che in parlamento difese l’operato del viceministro, e, probabilmente, quelle dell’intero governo (dato anche il dichiarato sostegno di Prodi a Visco). Nonostante il successo nel caso Visco, i contrasti in seno alla maggioranza ed al governo ripresero praticamente subito dopo il rinnovo della fiducia. Infine, nel dicembre 2007 prima il presidente della camera e leader del PRC, Bertinotti in un’intervista parlò di fallimento dell’azione del governo e di fine dell’esperienza dell’unione e quindi, alla fine di quello stesso mese, Lamberto Dini (a nome di altri due senatori) preannunciò il disimpegno dalla maggioranza dopo l’approvazione della legge finanziaria, formulando sette richieste programmatiche definite «non negoziabili» ma non accettabili dalle componenti della «sinistra radicale». Sullo sfondo di tali vicende, l’evoluzione del quadro politico, con la formazione del PD, che rivendicò la fine delle coalizioni «acchiappa-tutto», successivamente del PDL (con la fuoriuscita della «destra» di Francesco Storace) e della sinistra arcobaleno che riuniva le forze della sinistra della coalizione (verdi, PRC, PDCI, e sinistra democratica, nata da una scissione del PD). In questo contesto si inserì anche il dibattito sulla riforma elettorale, con la presentazione di diversi progetti di riforma, nell’ottica di evitare i referendum elettorali proposti da un comitato presieduto dai proff. Guzzetta e Segni. Il 17 gennaio 2008 l’epilogo della legislatura: le dimissioni del ministro della giustizia Mastella, a seguito di un’inchiesta penale che coinvolgeva la moglie, presidente del consiglio regionale della Campania, comportarono la decisione dell’UDEUR di passare al solo appoggio esterno al governo e quindi, a stretto giro, di uscire dalla maggioranza. A parti invertite, questa volta il presidente del consiglio, nonostante le perplessità di una parte consistente della maggioranza, e probabilmente dello stesso capo dello Stato, decise di non presentare immediatamente le dimissioni del governo, riuscendo ad imporre una soluzione della crisi pienamente «parlamentare»: prima alla camera e poi al senato il governo pose la fiducia sull’approvazione di una risoluzione presentata dai gruppi

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parlamentari della maggioranza, a seguito di una comunicazione del presidente del consiglio sulla situazione politica generale. In tal modo, Prodi riuscì ad imporre una verifica fiduciaria ma, soprattutto, ad impedire (o a rendere ardua) la sua sostituzione, come invece era avvenuto nel 1998 (F. LANCHESTER, La Costituzione tra crisi di regime e recessione del principio della rappresentanza politica, in www.federalismi.it, pp. 3-4). Al senato la questione di fiducia fu respinta grazie ai voti di singoli senatori fuoriusciti dalla maggioranza. È da rimarcare che il presidente del consiglio, in sede di comunicazioni, richiamò implicitamente l’esigenza di un ripensamento di alcuni congegni rilevanti in materia di forma di governo, quali quello della sfiducia meramente «distruttiva», laddove invitò (o forse sfidò) le camere «al dovere di indicare nella sede stessa da cui il governo trae la sua legittimazione, quale altro governo, quale altra maggioranza, quale altro programma intende istituire al posto di quelli che, in conseguenza di una scelta degli elettori, sono legittimamente in carica», ritenendo che la prassi delle crisi extraparlamentari costituisse un mero residuo del passato (senato della Repubblica, 24 gennaio 2008, sed. n. 280, res. sten., p. 5. In queste affermazioni si possono vedere singolari assonanze con le dichiarazioni che sarebbero state rese da Berlusconi nel dibattito seguente alla presentazione della mozione di sfiducia al governo nel dicembre 2010). In tal modo, il presidente del consiglio rivelò pienamente il proprio intendimento: l’eventuale diniego di fiducia non avrebbe potuto condurre alla formazione di un governo diverso da quello fondato su una maggioranza uscita dagli elettori, con ciò restringendo il novero delle soluzioni alla crisi astrattamente ipotizzabili sul piano politico in caso di apertura di una crisi extraparlamentare. Viceversa, le dimissioni del governo non si accompagnarono all’immediato scioglimento delle camere. Esperite le consultazioni, il capo dello Stato incaricò il presidente del senato «di verificare le possibilità di consenso su una riforma della legge elettorale e di sostegno ad un governo funzionale all’approvazione di tale riforma e all’assunzione delle decisioni più urgenti». Non è facile inquadrare questa «missione» attribuita a Marini: per un verso, sembrava riconducibile al mandato esplorativo, perché attribuita al presidente del senato, cioè ad un’autorità super partes quale integrazione delle consultazioni del capo dello Stato (per tutti, R. ORRÙ, Note in tema di mandato esplorativo, cit., pp. 676 ss.); d’altra parte, però, politicamente sarebbe stato lo stesso presidente del senato, in caso di esito positivo della missione, a presiedere il nuovo governo, ciò che avvicinava la missione stessa al preincarico, cui si è ricorso in passato per non esporre eccessivamente sul piano politico il designato (A.A. ROMANO, La formazione del governo, cit., pp. 140 ss.) (peraltro, ipotesi «miste» non erano mancate an-

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che in passato, se non altro per la difficoltà di distinguere in concreto i due istituti: P. CALANDRA, Il governo della Repubblica, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 52 ss.). L’esito negativo della missione affidata a Marini, anche per la contrarietà dell’UDC a sostenere da solo un governo dell’unione, determinò lo scioglimento anticipato delle camere che non appare in discontinuità rispetto alla prassi preesistente. Detto questo, come si è già accennato, è probabilmente eccessivo vedere dall’insieme di queste vicende una sorta di «transizione all’indietro» (A. BARBERA, Una transizione all’indietro, in Quad. cost., 2006, pp. 89 ss.), ovvero il ritorno ad una logica proporzionalistica che avrebbe rinnegato le acquisizioni maggioritarie post 1992. In realtà, come le vicende successive avrebbero dimostrato, la forma di governo italiana ha proceduto lungo linee evolutive assai accidentate e non facilmente decifrabili, tanto che anche nella XV legislatura non mancarono tentazioni, più o meno esplicite, di attenuare la contrapposizione tra maggioranza ed opposizione, ma anche di ridefinire i confini della maggioranza parlamentare (G.G. CARBONI, L’inatteso (e inopportuno) ritorno delle maggioranze variabili, in Dir. e soc., 2007, pp. 407 ss.), in una prospettiva neocentrista (R. CHERCHI, La forma di governo all’alba del XXI secolo: dalle coalizioni ai partiti?, in www.costituzionalismo.it).

5. La XVI legislatura, ovvero la svolta mancata: le elezioni del 2008 e la scesa in campo dei partiti «a vocazione maggioritaria». La struttura interna dei partiti politici. La democrazia nei partiti; i diritti degli associati, la maggioranza, la minoranza ed il problema del dissenso politico delle minoranze Le elezioni politiche del 2008 sembravano avere rappresentato una vera cesura, e non solo rispetto alla legislatura immediatamente precedente, tanto che si era parlato di un «circolo virtuoso» (A. BARBERA, La democrazia ‘dei’ e ‘nei’ partiti tra rappresentanza e governabilità, in S. MERLINI, a cura di, La democrazia dei partiti e la democrazia nei partiti, Firenze, Passigli, 2009, p. 241). Infatti, la fondazione del PD, prima, e del PDL, poi, quali partiti «a vocazione maggioritaria», determinò una profonda ristrutturazione dell’offerta politica, con la riduzione drastica del «perimetro» delle due coalizioni principali, rispettivamente a tre partiti nella coalizione del centro-destra (PDL-LN-MPA) e a due nella coalizione di centro-sinistra (PD-IDV), anche se esponenti di partiti minori furono «ospitati» nei due partiti principali, cui era in pratica garantita l’elezione grazie al meccanismo delle «liste bloccate». In entrambi i casi, la leadership era radicata nei leader dei partiti maggiori, indicati quali «capi unici» delle rispettive coalizioni.

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In questo senso, si è parlato di una svolta paragonata, per la sua rilevanza, alle elezioni del 1919, poiché «nel parlamento italiano sono presenti soltanto quattro partiti: due di grandi dimensioni (PDL e PD, che insieme raccolgono il 70% dei voti), uno di medie dimensioni alleato con il partito di maggioranza relativa (Lega) e uno minoritario» (S. DE LUCA, Il «secolo breve» della democrazia italiana (1919-2008), in Ventunesimo secolo, n. 18, p. 27). Probabilmente sul presupposto di un esito scontato della competizione elettorale, i due maggiori partiti rinunciarono a coalizioni ampie ed eterogenee in un’ottica che sembrava valorizzare il primato dei partiti sulle aggregazioni coalizionali, con una nutrita pattuglia di piccole formazioni politiche che preferì non affrontare individualmente la competizione elettorale (senza alcuna possibilità di conseguire la rappresentanza), confluendo in uno dei due partiti maggiori (R. CHERCHI, La forma di governo, cit., ricorda che nel PD 6 candidature sicure furono assegnate a esponenti dei radicali; nel PDL 4 posti sicuri alla DC per le autonomie, 4 ai riformatori liberali, 3 ai popolari liberali, 5 ai circoli per la libertà e ai circoli diretti dall’on. Dell’Utri, 2 ad alternativa sociale, 2 al partito dei pensionati, 2 al PRI, 1 al nuovo PSI, 1 a italiani nel mondo). Tuttavia, tale riforma fu conseguita sul piano politico a prescindere dalla, e, anzi, contro la ratio delle leggi elettorali vigenti e non trovò il suo approdo naturale in una rivisitazione della legge n. 270 del 2005; anche per questo, già all’indomani delle elezioni europee del 2009, sia nel PDL sia nel PD si manifestarono presto tentazioni di «ritorni all’indietro», amplificate dal risultato non certo lusinghiero ottenuto da entrambi i partiti nelle elezioni regionali del 2010; e successivamente, poi, emersero tentativi di riproporre uno schema coalizionale, e per di più in formato anche potenzialmente esteso, sia sul versante del centro-destra (con l’allargamento alla «destra» di Storace) sia del centro-sinistra (con il rafforzamento di un asse tra PD e SEL), mentre iniziò a profilarsi la nascita di un’ulteriore coalizione centrista formata da quattro partiti (UDC, FLI, API, MPA) e di formazioni probabilmente autonome (come «Italia futura», guidata da Luca Cordero di Montezemolo). Anche per queste ragioni, nemmeno la XVI legislatura è riuscita a radicare una radicale discontinuità nel tessuto della forma di governo, nonostante che, come accennato, vi fossero le condizioni per una forte valorizzazione del principio monocratico. In effetti, è riscontrabile una singolare assonanza tra l’andamento della XIV e della XVI legislatura: infatti, così come nel periodo 2001-2006 si sono distinte due fasi diverse, lo stesso è avvenuto anche nella XVI legislatura, con la differenza però che, in questo secondo caso, il primo periodo è stato più breve ed il secondo non solo per i non pochi condizionamenti derivanti dalle vicende giudiziarie e personali del presidente del consiglio e da un contesto di conflitti istituzionali forse senza precedenti nella no-

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stra storia istituzionale, è culminato nella crisi della maggioranza di governo e nella formazione di un nuovo governo tecnico, presieduto da Mario Monti. Infatti, come avrebbe confermato l’esperienza successiva, sia la fine della frammentazione partitica che la capacità di tenuta e di guida dei partiti maggiori si rivelarono fenomeni temporanei. Da un lato, infatti, il processo di unificazione del popolo delle libertà si rivelò più difficile del previsto perché, se la formula di unificazione dei due partiti si era fondata, agli inizi, su di una composizione degli organismi direttivi (70% a forza Italia; 30% ad AN) che faceva presupporre la nascita di un partito a base federativa, il nuovo statuto, approvato nel marzo 2009, si mosse in una direzione del tutto diversa, facendo propria quella struttura «carismatica», suggerita anche da un gruppo di studiosi delle istituzioni (Quagliarello, Zanon, Cerrina Ferroni; si vedano i diversi contributi in Popolo e leader. Il tempo dei partiti nuovi, Firenze, Fondazione Magna Charta, 2006), che finiva per porre nelle mani del solo leader (il presidente nazionale del partito) tutte le decisioni rilevanti in materia di linea politica, di scelta delle alleanze, di nomina dei dirigenti e dei candidati alle cariche politiche per rendere, così, immutabile e «non contendibile» la leadership acquisita al momento della nascita della nuova formazione politica. Era evidente, data la contraddittorietà di questo processo formativo, che il nuovo partito sarebbe stato sottoposto, prima o poi, a tensioni e scontri fra i due partiti che avevano contribuito alla sua formazione; tensioni e scontri che sarebbero stati, in effetti, destinati ad essere direttamente guidati dai due leader originari di ognuno di essi: Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Il partito democratico, dall’altra parte, perse da subito la sua «componente» formata dall’Italia dei valori, perché questo partito, contraddicendo agli impegni presi prima delle elezioni, costituì subito un gruppo parlamentare del tutto indipendente dal PD e qualificato, anzi, la propria linea politica in una direzione diversa e spesso addirittura alternativa rispetto a quella del partito democratico; successivamente, si staccarono dal PD un gruppo di parlamentari guidati Francesco Rutelli, che costituirono una nuova formazione politica («alleanza per l’Italia», di orientamento moderato); da parte sua, i parlamentari del partito radicale, eletti nelle liste del PD grazie ad un accordo politico stipulato in vista delle elezioni del 2008 (accordo reso possibile dai già ricordati nuovi sistemi elettorali basati su liste «rigide», senza la possibilità di esprimere preferenze), progressivamente marcarono la loro autonomia, fino a non votare la mozione di sfiducia individuale contro il ministro delle politiche agricole Saverio Romano, condivisa da tutti i gruppi di opposizione (28 settembre 2011) e a dissociarsi di fatto dalla decisione degli stessi gruppi di opposizione di tentare di far mancare il numero legale in occasione della votazione della

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questione di fiducia richiesta dopo la reiezione del disegno di legge di approvazione del rendiconto generale dello Stato (13 ottobre 2011). Più in generale, anche il PD non riuscì a trasformarsi in un partito politicamente e statutariamente attrezzato per concorrere a rendere stabile il «quasi bipartitismo» uscito dalle elezioni del 2008. Il nuovo statuto del partito, approvato per iniziativa del segretario Veltroni subito prima delle elezioni, disegnava, infatti, un assetto interno nel quale il segretario aveva una salda investitura e poteri di gestione molto forti solo nel caso di una vittoria del PD nella competizione elettorale. Peraltro, l’art. 3, comma 1, secondo il quale «il segretario nazionale rappresenta il partito, ne esprime l’indirizzo politico sulla base della piattaforma approvata al momento della sua elezione ed è proposto dal partito come candidato all’incarico di presidente del consiglio dei ministri», è stato oggetto di discussioni all’interno del PD, poiché, così come è scritto, non appare certo privo di ambiguità non essendo chiaro a chi sia rivolta la «proposta» (al corpo elettorale? Al capo dello Stato? Alla coalizione? Al «popolo delle primarie», magari in concorrenza con altri candidati di un’ipotetica coalizione di centrosinistra?). Viceversa, gli eventuali cambiamenti di linea politica del partito e della sua classe dirigente, ad incominciare dal segretario, sono stati sostanzialmente affidati al nuovo istituto delle «primarie»; strumento, quest’ultimo, che, se garantisce la scelta democratica della leadership (ad iniziare da quella del segretario), dimentica, invece, del tutto di disegnare i raccordi fra quelle investiture e la formazione-approvazione degli indirizzi politici di partito entro i quali quelle nomine dovrebbero inserirsi. Curiosamente, dunque, il «partito carismatico» ed il «partito delle primarie» hanno finito per condividere (al di là delle diverse procedure di partecipazione previste nei rispettivi statuti) un’impostazione che privilegia la scelta popolare (o populistica) del leader rispetto ad una approvazione davvero democratica (e cioè da parte di tutti gli iscritti) degli indirizzi politici del partito, come avviene, invece, nella maggior parte dei grandi partiti europei che prevedono, ad esempio, la convocazione annuale di congressi destinati ad approvare insieme gli indirizzi politici e la leadership chiamata ad attuarli. Inoltre, la riduzione del bipolarismo italiano ad un processo di designazione carismatica della (o delle) leadership di partito è risultata rinforzata dal fatto che nel periodo in esame (quello del passaggio fra la XV e la XVI legislatura) altre ed importanti formazioni politiche sono sembrate ispirarsi a principi non lontani da quelli fatti propri dai partiti dichiaratamente carismatici. Sia sufficiente, per questo, il rinvio agli statuti ed alla prassi di due partiti (dimostratisi, poi, fondamentali nel quadro del bipolarismo) come la lega nord e l’Italia dei valori, entrambi saldamente nelle mani dei «fondatori» dei due schieramenti: Umberto Bossi e Antonio di Pietro.

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Dunque, ed a causa di questa struttura singolare, e senz’altro criticabile, dell’assetto dei maggiori partiti politici italiani, i risultati delle elezioni dell’aprile del 2008 (che, come è noto, consegnarono alla coalizione del popolo delle libertà e della lega nord una larga maggioranza) non riuscirono a riconciliare alcune gravi contraddizioni del nostro sistema politico ed istituzionale. Anzitutto, pur essendo vero che il concentrarsi dei voti sui due maggiori partiti sembrava disinnescare, come rilevato da Barbera (op. cit.), i più gravi difetti della pessima legge elettorale, il consenso popolare ai leaders non si dimostrò sufficiente a creare un solido indirizzo politico né di partito, né di governo, mentre la mancanza di democrazia all’interno dei maggiori partiti determinò uno sfaldamento progressivo del consenso degli iscritti, rapidamente trasformatosi nella costituzione di schieramenti e di correnti che vanificarono il processo di riunificazione in senso bipolare innescato dalla formazione di partiti «a vocazione maggioritaria». Da questo punto di vista, ed al di là del problema della rigidità politica indotta dalla scarsa democrazia all’interno dei partiti, cominciò ad affiorare, già dai primi mesi del 2009, una sostanziale delusione sulla capacità del governo di realizzare effettivamente ed efficacemente il proprio programma elettorale. Superata, infatti, l’euforia per la consistente vittoria della coalizione di centro destra e del suo leader, apparve chiaro che l’autorità politica che egli avrebbe potuto effettivamente esercitare risultava essere molto minore di quella promessa dai sostenitori della forma di governo prodotta dalla riforma elettorale del 2005 e dalla sua interpretazione in un senso, come si è detto, «rigido». Il concentrarsi sul solo leader del processo di riforma bipolare sottovalutò, infatti, una storica verità dei sistemi politici democratici, che riescono a funzionare e ad essere efficienti solo quando il leader, divenuto poi primo ministro, riesca ad elaborare ed a dirigere un indirizzo politico realmente condiviso dal suo partito e collegialmente deliberato dal suo governo. Invece, e per quanto riguarda, per iniziare, i rapporti fra i due schieramenti maggiori, fu da subito chiaro che il bipolarismo italiano sarebbe rimasto molto lontano dal vagheggiato «modello di Westminster», padre del bipartitismo ed ispiratore, come ci si sarebbe aspettati, anche del suo succedaneo, il bipolarismo. Il richiamo del presidente incaricato Berlusconi, nella presentazione del suo programma alla camera dei deputati del 13 maggio 2008, ad una maggioranza «non invasiva» e ad un’opposizione dedita al controllo ed alla costruzione di un suo «progetto alternativo», fu, in effetti, seguito dalla costituzione, da parte del PD di un «governo ombra» ispirato al classico modello britannico. Tuttavia, come si dirà in seguito, il ricorso senza limiti da parte del governo ai decreti legge e ai decreti legislativi, l’abbandono del governo om-

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bra da parte del PD (dopo le dimissioni di Veltroni), l’oggettiva difficoltà della opposizione di costruire programmi alternativi furono insieme la causa e l’effetto della distruzione degli attesi, corretti rapporti parlamentari e politici fra la maggioranza e l’opposizione, cosicché si ripropose, come era accaduto nella precedente legislatura, il tema della «reciproca delegittimazione» fra due schieramenti che si accusarono l’un l’altro di essere privi di una reale ispirazione democratica o costituzionale. Il primo triennio della XVI legislatura, inoltre, confermò che l’incapacità della maggioranza e della opposizione di confrontarsi sui programmi di governo e sulla proposizione di valide alternative elaborate dall’opposizione stava diventando un problema politico ed istituzionale così grave da mettere in forse la natura effettivamente parlamentare della forma di governo italiana come essa si era, anche se faticosamente e contraddittoriamente, costruita nel corso dei decenni precedenti.

6. Segue: la formazione del quarto governo Berlusconi Nella prima fase della XVI legislatura, un fattore di novità si ebbe nella procedura di formazione del governo, data la sua insolita rapidità. Furono consultati solo i rappresentanti dei gruppi parlamentari (solo 5, oltre ai gruppi misti, sia alla camera che al senato, ed alle rappresentanze parlamentari delle formazioni politiche rappresentative delle minoranze linguistiche), i presidenti delle camere e gli ex capi dello Stato. Le consultazioni si svolsero in un giorno e mezzo (6 maggio 2008 pomeriggio; 7 maggio), ed al termine, senza ulteriori riflessioni, il segretario generale della presidenza della Repubblica annunciò la convocazione di Silvio Berlusconi per la sera stessa. L’altra novità è la dichiarazione del capo dello Stato al termine delle consultazioni: in essa, orgogliosamente, si rivendicava la celerità della procedura di formazione del governo, senza intaccare la ratio dell’art. 92 Cost. (ivi compreso il ruolo non meramente notarile del presidente della Repubblica), oltre a dare atto di «qualche scambio di opinioni preliminari e informali tra il leader della nuova maggioranza e il presidente della Repubblica, sulle procedure e sui criteri per la formazione del governo, nello spirito dell’art. 92 Cost. che implica un rapporto di limpida collaborazione nel rigoroso rispetto delle prerogative di ciascuno»; e ciò soprattutto perché «il risultato così netto, e la maggioranza ampia che il voto del 13/14 aprile ha segnato, hanno fatto sì che il capo della coalizione vincente, indicato sulla base della legge elettorale vigente, ha potuto mettersi subito al lavoro per la formazione della squadra di governo – è cosa nota a tutti voi – per presentare al più presto al presidente della Repubblica, una volta accettato l’incarico, la lista dei ministri» (il testo è rinvenibile in www.quirinale.it). Nello spirito dell’evoluzione del sistema politico, i «capi unici delle coa-

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lizioni» non furono convocati, in quanto coincidenti con i leaders di PDL e PD (peraltro, Silvio Berlusconi non si presentò alle consultazioni, in quanto presidente del consiglio incaricato in pectore). Un’altra novità da sottolineare fu l’accettazione immediata dell’incarico da parte dell’on. Berlusconi che presentò immediatamente la lista dei ministri, ai sensi dell’art. 92 Cost., rinunciando quindi alla tradizionale «accettazione con riserva» che si era imposta nella prassi precedente (il comunicato del Quirinale affermava infatti: «Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha ricevuto questa sera al palazzo del Quirinale l’Onorevole dottor Silvio Berlusconi, al quale ha conferito l’incarico di formare il nuovo governo. L’onorevole Berlusconi ha accettato l’incarico e ha presentato al presidente della Repubblica la lista dei ministri, ai sensi dell’articolo 92 della Costituzione»: anche questo testo è rinvenibile in www.quirinale.it). Anche in questo caso, si trattava del legittimo superamento di uno schema che era stato funzionale all’assetto del sistema politico preesistente, e quindi non un passaggio costituzionalmente imposto (peraltro, come accennato nel cap. 5, nel caso della formazione del I e del II governo Prodi e del II governo Berlusconi, i primi di legislature nate a seguito di elezioni nelle quali si erano imposte, più o meno chiaramente, coalizioni preelettorali, l’accettazione con riserva si era accompagnata ad un rapido scioglimento della stessa, con la contestuale presentazione della lista dei ministri: sul punto, per tutti, G. DEMURO, Regole costituzionali, cit., pp. 63 ss.; A. REPOSO, Il procedimento di formazione del governo e i suoi più recenti sviluppi costituzionali, in Dir. e soc., 2003, pp. 194 ss.). Del resto, come si è detto, già prima delle consultazioni, Berlusconi (ma già in precedenza Prodi, tanto nel 1996 che nel 2006, e lo stesso Berlusconi nel 2001) aveva ampiamente lavorato alla composizione del nuovo governo, informando il capo dello Stato in ben due incontri dei propri intendimenti circa la composizione del nuovo esecutivo. La tradizionale riservatezza di tali incontri informali fu superata dal fatto che la notizia trapelò all’esterno, così come nel 1996 erano emersi gli orientamenti di Prodi sulla composizione del futuro governo già prima del conseguimento formale dell’incarico (secondo G.M. SALERNO, Un governo a leadership rafforzata per una legislatura costituente, in www.federalismi. it, p. 3, «proprio l’indicazione del leader prevista dalle leggi elettorali vigenti può essere considerata, a nostro avviso, come il fondamento giuridico dei colloqui nel corso dei quali si sono prospettate e valutate le possibili alternative relative al conferimento degli incarichi ministeriali»). Le novità sopra esposte non potevano peraltro essere interpretate come un superamento sic et simpliciter delle procedure impostesi in precedenza, nel senso che, come già detto, in caso di crisi di governo nel corso della legislatura, le tradizionali consultazioni riacquistano pienamente il loro significato istituzionale di strumento finalizzato a consentire al capo dello Stato di acquisire informazioni e dati utili per la soluzione della crisi di

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governo (si ritiene che il capo dello Stato sia tenuto a consultare i rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari, per mantenere la massima imparzialità, laddove manchi la copertura dell’assenso e della responsabilità governativa: L. PALADIN, governo italiano, cit., p. 681. Contra, G.M. SALERNO, Un governo, cit., p. 6, secondo il quale le consultazioni sarebbero istituto essenziale se non altro per assicurare l’effettiva volontà di tutte le forze politiche presenti in parlamento). Non a caso, proprio a partire dal 1996 si sono registrate nella prassi differenze non di poco momento tra le prime consultazioni della legislatura e quelle seguenti ad una crisi di governo in corso di legislatura (nel primo caso, si valorizzano le coalizioni, con la convocazione di delegazioni unitarie, nel secondo caso, si ritorna ai singoli gruppi parlamentari: per tutti, M. TIMIANI, Crisi e formazione dei governi: tendenze nella prassi del maggioritario (1992-2007), in A. BARBERA, T.F. GIUPPONI, a cura di, La prassi degli organi costituzionali, Bologna, Bononia university press, 2008, pp. 74 ss.). La semplificazione della procedura di formazione del governo consentì di superare la discutibile prassi (di origine statutaria) dell’incarico e, in specie dell’incarico in forma orale. Come si è accennato (cap. 4, par. 1), sul punto, l’istituto dell’incarico non sembra avere un fondamento consuetudinario (contra, F. CUOCOLO, Il governo, cit., p. 55), essendo anch’esso condizionato dal contesto politico, quale quello anteriore al 1992, nel quale i governi erano necessariamente di coalizione e l’accordo di coalizione nasceva in un momento successivo alle elezioni (in questo senso, sostanzialmente, A. RUGGERI, Le crisi di governo tra «regole» costituzionali e «regolarità» della politica, in Pol. dir., 2000, pp. 76-77; C. CHIOLA, Presidente della Repubblica e formazione del governo, in M. LUCIANI, M. VOLPI, a cura di, Il presidente della Repubblica, cit., p. 108, secondo il quale, dopo la riforma elettorale del 1993 «non soltanto le consultazioni ma lo stesso sdoppiamento della fase dell’incarico e della nomina, non avrebbe motivo di sopravvivere»). Quanto all’incarico in forma orale, è noto che esso ha comportato una riduzione (soprattutto nei confronti del capo dello Stato, da una parte, e dei partiti dell’altro) dei poteri del presidente del consiglio incaricato, costretto a mediare in una posizione assai fragile sia i contenuti del programma che l’individuazione dei componenti dell’esecutivo. L’insieme di queste novità nella formazione del IV governo Berlusconi non appare quindi in contrasto con le disposizioni costituzionali, ed in specie con l’art. 92 Cost., dato che, come è stato osservato, «l’ampiezza del potere di scelta dell’incaricato varia in relazione alle circostanze: se le indicazioni delle forze politiche sono concordi, il presidente della Repubblica non può che seguirle; se viceversa le indicazioni sono diverse e contrastanti […] l’ampiezza del potere presidenziale può crescere tanto da farlo divenire decisivo» (L. CARLASSARE, Governo, parlamento e presidente della Repubblica, cit., pp. 97-98).

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Ciò detto, nonostante le mutate condizioni politiche, anche la formazione del IV governo Berlusconi non si rivelò semplice, come si è detto soprattutto in dipendenza del già ricordato art. 1, commi 376 e 377, della legge n. 244 del 2007 che aveva imposto la riduzione del numero totale dei componenti dell’esecutivo e un vincolo di coerenza con il principio costituzionale delle pari opportunità di cui all’art. 51, comma 1, Cost. (a tale proposito, non può non colpire intanto la genericità della disposizione, non essendo specificato quanti ministri donna potrebbero soddisfare il vincolo di coerenza). In effetti, per la composizione del governo il presidente del consiglio in pectore trascorse «giorni di afflizione» (nota agenzia Ansa, 23 aprile 2008), dovendo destreggiarsi tra gli appetiti degli alleati leghisti e le diverse sensibilità delle varie componenti del proprio neonato partito. In più, come si è ricordato, per l’opposizione del presidente della repubblica, non fu possibile procedere all’ennesimo (ed incostituzionale) decreto legge di «spacchettamento» dei ministeri, cosicché Berlusconi fu «costretto» a rispettare i vincoli della legge n. 244 del 2007. Ma questo limite in realtà, come dimostra al contrario l’esperienza del II governo Prodi, avrebbe potuto convertirsi in un rafforzamento del presidente del consiglio, consentendo allo stesso di esercitare con più forza rispetto ai partiti della maggioranza il potere di scelta dei ministri, di guidare effettivamente l’indirizzo politico del governo e di assumersene la responsabilità assecondando un funzionamento davvero collegiale dell’esecutivo. Così, in un primo momento il governo ricorse ad un decreto legge (d.l. n. 85 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 121 del 2008) per riordinare le attribuzioni della presidenza del consiglio e dei ministeri al nuovo assetto del governo, provvedendo ad alcuni non rilevanti aggiustamenti di alcune attribuzioni (E.C. RAFFIOTTA, Semplificazione del quadro politico e «attuazione» della riforma del governo, in www.forumcostituzionale.it). Tuttavia, anche in questo caso la composizione successivamente lievitò, dapprima con il d.l. n. 90 del 2008 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 123 del 2008) il quale prevedeva che il capo del dipartimento della protezione civile fosse nominato sottosegretario di Stato per fronteggiare l’emergenza rifiuti in Campania; successivamente, la legge n. 172 del 2009, oltre ad istituire il ministero della salute, elevò il numero complessivo dei componenti del governo a 63; infine, l’art. 15, comma 3-bis, del d.l. n. 195 del 2009 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 26 del 2010) elevò il numero massimo dei membri dell’esecutivo a 65 (per tutti, E. LONGO, La disciplina dell’organizzazione del governo italiano nelle ultime tre legislature, in G. DI COSIMO, a cura di, Il governo forte, Macerata, Eum, 2010, pp. 121 ss.). Proprio a tale cifra massima si giunse nell’ottobre 2011, dopo l’approvazione della questione di fiducia al governo posta a seguito della reiezione del disegno di legge sul rendiconto generale dello Stato, con la nomina di ulteriori sottosegretari.

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Ciò detto, la composizione del governo si caratterizzò, da un lato, per l’assenza di vicepresidenti del consiglio (ormai politicamente inutili, data la nuova articolazione della maggioranza) e, dall’altro, per l’alto numero di ministri senza portafoglio (10, per le dimissioni prima di Brancher e poi di Ronchi, a fronte della nomina nel maggio 2009 di Michela Vittoria Brambilla a ministro del turismo e della successiva nomina di Annamaria Bernini a ministro delle politiche europee) per compensare «appetiti» rimasti insoddisfatti nella ripartizione dei ministeri con portafoglio. Il dosaggio dei ministeri risentì, da una parte, dei rapporti tra PDL e lega nord e, dall’altro, degli equilibri interni al partito di maggioranza relativa; la dinamica coalizionale, quindi, sia pure nell’ambito di un’alleanza a perimetro ridotto, si dispiegò lungo linee apparentemente tradizionali: dei 12 ministri con portafoglio, 10 furono assegnati a esponenti del PDL e 2 (interno e politiche agricole) a esponenti della lega nord; la stessa ripartizione quantitativa era riscontrabile per i ministri senza portafoglio (8 ad esponenti PDL e 2 ad esponenti della Lega), a proposito dei quali la lega riuscì a marcare una propria visibilità in settori ritenuti a ragione politicamente strategici (da qui, l’attribuzione a Bossi e Calderoli, rispettivamente del ministero delle riforme per il federalismo e del ministero per la semplificazione normativa). È da rimarcare che la maggioranza dei ministeri chiave (esteri, giustizia, economia, sviluppo economico) erano nelle mani o di fedelissimi del premier o di esponenti provenienti da alleanza nazionale ma considerati tra i più vicini a Berlusconi (difesa; infrastrutture), come fu evidente con le successive dimissioni dei ministri e sottosegretari aderenti a «futuro e libertà» (lasciarono l’esecutivo il solo ministro per le politiche europee Ronchi, il viceministro per lo sviluppo economico Urso ed i sottosegretari Menia e Viespoli). Lo stesso discorso vale per i sottosegretari, alcuni dei quali furono assegnati ad esponenti dell’MPA (tra questi, Enzo Scotti, sottosegretario agli esteri, poi espulso dal partito e divenuto presidente del movimento «noi sud» nel gennaio 2010 e Giuseppe Maria Reina, sottosegretario alle infrastrutture ed ai trasporti, dimissionario nel novembre 2010) e della piccola DC (Giuseppe Pizza fu nominato sottosegretario all’istruzione, università e ricerca). Anche per la nomina dei sottosegretari non mancarono difficoltà: non solo la loro nomina slittò di alcuni giorni, ma non fu possibile nominare in prima battuta viceministri, per mancanza di accordo all’interno della maggioranza. Successivamente furono nominati viceministri Giuseppe Vegas (economia e finanze, dimissionario nel maggio 2009), Adolfo Urso (sviluppo economico, dal giugno 2009 al novembre 2010, allorché si dimise), Paolo Romani (sviluppo economico, dal giugno 2009 all’ottobre 2010, allorché fu nominato ministro), Roberto Castelli (infrastrutture e trasporti, dal maggio 2009), Ferruccio Fazio (lavoro e politiche sociali, dal maggio al dicembre 2009, quando fu nominato ministro della salute), Ca-

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tia Polidori (sviluppo economico, dal 24 ottobre 2011), Salvatore Misiti (infrastrutture e trasporti, dal 24 ottobre 2011). Ai fini della stabilità dell’azione del governo è fondamentale sottolineare la presenza nel governo stesso degli esponenti di primo piano della lega nord, ciò che avrebbe potuto consentire di riportare in seno al consiglio dei ministri la soluzione di contrasti in precedenza arbitrati in sedi extraistituzionali. Peraltro, tale considerazione ha avuto riscontri sono parziali nella prassi, poiché anche nella XVI legislatura il ricorso a vertici di maggioranza, variamente composti, non cessò (già nel settembre 2008 fu convocato un vertice per mettere a punto l’agenda del governo) ed anzi, da un certo momento, essi furono addirittura cadenzati quasi settimanalmente presso una delle residenze private del presidente del consiglio.

7. Il «bipolarismo rigido» nella XVI legislatura. I programmi elettorali, il presidente del consiglio, la fiducia parlamentare e la legge elettorale n. 270 del 2005. Bipolarismo e collegialità del governo. Il primo ministro e l’indirizzo politico del governo. Il nodo della politica economica e finanziaria Come è noto, la legge n. 400 del 1988 aveva cercato, interpretando correttamente l’art. 94 Cost., che costituisce la norma base della forma di governo, di fare del programma di governo l’atto politico primario, destinato a caratterizzare sia l’indirizzo politico del governo che quello della maggioranza e della minoranza parlamentare. Da un lato, infatti, prescrivendo la necessaria approvazione del programma da parte del consiglio dei ministri prima della sua presentazione alle camere da parte del presidente del consiglio, da un lato, il programma avrebbe dovuto divenire la summa delle decisioni collegiali dei ministri e dell’attività di promozione e di coordinamento del presidente del consiglio, dall’altro, l’esistenza di un programma definito da obiettivi e da mezzi adeguati al loro conseguimento avrebbe dovuto consentire alla maggioranza parlamentare di «motivare» in un senso non formale ma sostanziale la concessione della fiducia preventiva prevista dallo stesso art. 94, mentre la minoranza avrebbe avuto la possibilità di motivare, invece, insieme alle ragioni della sua non confidence, quali sarebbero stati gli indirizzi politici alternativi dell’opposizione. Purtroppo, l’interpretazione che è stata data all’art. 2 della legge n. 400 da parte dei numerosissimi governi che si sono succeduti a partire dal 1988 non ha quasi mai corrisposto all’esigenza di rendere il programma di governo (inteso nel senso appena descritto) il centro motore dell’indirizzo politico di maggioranza, perché i governi hanno quasi sempre ritenuto più conveniente presentarsi al parlamento con programmi estremamente generici, mentre le camere hanno accuratamente evitato di «motivare» in re-

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lazione ai contenuti concreti del programma di governo la concessione della fiducia. Nessun risultato ha prodotto, d’altra parte, la nomina, in seno agli esecutivi che si sono succeduti dal 2001 al 2011, di un apposito ministro senza portafoglio per l’attuazione del programma di governo, preposto ad un apposito dipartimento della presidenza del consiglio chiamato a curare «l’analisi del programma di governo e la ricognizione degli impegni assunti in sede parlamentare, nell’ambito dell’unione europea o derivanti da accordi internazionali; la gestione e lo sviluppo di iniziative, finanziate anche con fondi europei, in materia di monitoraggio e comunicazione istituzionale del programma di governo; l’analisi delle direttive ministeriali in attuazione degli indirizzi politico-amministrativi delineati dal programma di governo; l’impulso e il coordinamento delle attività necessarie per l’attuazione e l’aggiornamento del programma e il conseguimento degli obiettivi stabiliti; il monitoraggio e la verifica, sia in via legislativa che amministrativa, dell’attuazione del programma e delle politiche settoriali nonché del conseguimento degli obiettivi economico-finanziari programmati; la segnalazione dei ritardi, delle difficoltà o degli scostamenti eventualmente rilevati; l’informazione, la comunicazione e la promozione dell’attività e delle iniziative del governo per la realizzazione del programma mediante periodici rapporti, pubblicazioni e strumenti di comunicazione di massa (art. 19, D.P.C.M. 1° marzo 2011). Non solo l’esistenza di questo ministero non è riuscita ad invertire la discutibile linea di tendenza che si è sopra analizzata, ma, a ben vedere, la stessa esistenza di un ministro senza portafoglio (e, talvolta, anche di un sottosegretario) in un ambito che dovrebbe essere quello più proprio del presidente del consiglio ha forse contribuito a non rivitalizzare il ruolo del programma di governo, né a rafforzare quello del presidente del consiglio in seno all’esecutivo. Lo stesso vale per iniziative, anche interessanti sul piano teorico, quali l’adozione di apposite direttive del presidente del consiglio sugli indirizzi per garantire la coerenza programmatica dell’azione di governo (cfr. la direttiva 23 dicembre 2004), o, a monte, la scelta di individuare apposite «missioni» nelle quali si articola il programma di governo, ai fini del suo monitoraggio. In conseguenza, il nostro sistema istituzionale è stato testimone di un paradosso in base al quale la definizione degli obiettivi, dei tempi e dei modi di attuazione del programma di governo è sembrata migliore nell’esperienza dei «governi tecnici» degli anni ’90 di quanto non lo sia stata durante la nascita e l’esperienza dei governi più pienamente «politici» ad essi successivi. Da questo punto di vista, il consolidarsi del nostro sistema politico ed istituzionale in una dimensione «bipolare» fra le elezioni del 1996 e quelle del 2005 ha anzi, addirittura introdotto, per ciò che riguarda il tema del

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programma di governo, un’ulteriore distorsione rispetto ad una corretta lettura dell’art. 94 Cost. Infatti, quanto più il sistema politico si è dichiarato bipolare, quanto più esso è stato portato ad attribuire un grande rilievo a quei «programmi elettorali» di partito e di coalizione che si ispessivano sempre di più, dilagando spesso (si veda la «fabbrica del programma» della coalizione dell’ulivo del 2005) ben al di là del modello dei manifestos del sistema britannico e di altri modelli bipartitici. Il grande rilievo politico attribuito ai programmi elettorali non è stato accompagnato, però, dalla constatazione che la possibilità di una loro effettiva trasposizione in atti di governo è inevitabilmente condizionata dalla capacità della maggioranza di trasformare (seguendo le indicazioni degli artt. 94 e 95 Cost.) quei lunghi e generici documenti elettorali in puntuali indirizzi programmatici assunti collegialmente dal governo e presentati al parlamento in occasione della richiesta della fiducia. In questo quadro, che è apparso, a dire il vero, sostanzialmente confuso e forse demagogico, l’acritica accettazione dei principi posti dalla legge elettorale n. 270 del 2005 e dell’enfasi da essa posta sul programma elettorale e sulla indicazione del leader del partito o della coalizione ha finito per rendere addirittura peggiore, rispetto al passato, la definizione del rapporto programmatico fra il governo e il parlamento. La legge n. 270 è stata, infatti, interpretata in un senso addirittura opposto a quello fatto proprio dalla legge n. 400, e ciò in quanto la maggioranza di governo ha attribuito ai «programmi elettorali» presentati dai partiti e dalle coalizioni non soltanto l’incontestabile valore di fonte dell’impegno politico del governo e della responsabilità politica dei partiti e delle coalizioni nei confronti del corpo elettorale, ma anche quello (concettualmente e costituzionalmente diverso) di fondamento del rapporto programmatico e fiduciario fra il governo e le camere, ai sensi dell’art. 94 Cost. (cfr. anche infra, cap. 7). Una prova di questa indebita trasformazione è costituita dalle dichiarazioni programmatiche presentate il 13 maggio 2008 alla camera dei deputati dal presidente Berlusconi in occasione della richiesta di fiducia per il suo IV governo. In quella occasione, il presidente del consiglio giunse, infatti, a teorizzare l’opportunità della presentazione al parlamento di un programma breve (sei pagine) e generico, sulla base della sua convinzione «che sia più opportuno, invece di annoiare (il parlamento) […] con lunghi e pomposi discorsi di carattere settoriale […] (rinviare) agli impegni del programma […] presentato agli elettori […] Quella sarà, giorno dopo giorno, l’agenda per l’azione di governo». La fiducia fu, dunque, chiesta non su un definito programma votato dal consiglio dei ministri, ma, per relationem, su di un generico ed onnicomprensivo programma elettorale, trasformato dal voto di fiducia in un atto di indirizzo politico dotato di coerenza e di organicità.

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In effetti, ed a partire dalla vittoria nelle elezioni dell’aprile del 2008, le dichiarazioni della maggioranza di governo (presidente del consiglio, ministri, capigruppo della coalizione al governo, esponenti politici dei relativi partiti) si richiamarono, nelle più disparate occasioni, proprio alla nuova legge elettorale per sostenere come i principi contenuti in quella legge (indicazione del leader e dei programmi) avessero radicalmente mutato i fondamenti della forma di governo vigente in Italia; e ciò in quanto tutto il sistema politico previsto dalla Costituzione (ed in modo particolare i poteri e le attribuzioni del governo e del presidente della Repubblica, regolate dagli artt. 87-96 Cost.) avrebbero dovuto essere ormai interpretati alla luce della nuova «democrazia diretta» e di quel diretto rapporto fra corpo elettorale e governo che avrebbe attribuito al presidente del consiglio, primo destinatario di quella relazione, una diretta legittimazione a governare; legittimazione dotata di una tale forza politica da rendere, ormai, subordinati ad essa sia i poteri politici del parlamento che quelli di controllo del presidente della Repubblica. In realtà, come ha affermato la corte costituzionale nelle sentt. n. 262 del 2009 e n. 23 del 2011, la previsione di una gerarchia rigida fra le fonti del diritto e l’indiscutibile prevalenza, fra queste, delle norme della Costituzione non possono, invece, essere messe in dubbio nemmeno laddove si tratti di political powers, cosicché l’indicazione del leader e del programma previste dalla legge elettorale del 2005 avrebbero un valore rilevante ma solo sul piano politico e non potrebbero rovesciare quel sistema parlamentare (nomina del governo da parte del capo dello Stato; fiducia «programmatica» da parte delle due camere e sfiducia al governo da parte anche da parte di una sola di esse; scioglimento del parlamento affidato alle finali valutazioni del presidente della Repubblica) tassativamente previsto dalla Costituzione repubblicana. Inoltre, e contrariamente a quanto sostenuto dal presidente del consiglio e dalla maggioranza di governo, rimane da dimostrare che i (pretesi) meccanismi di democrazia diretta abbiano avuto la virtù di rafforzare davvero l’indirizzo politico di governo. Come abbiamo osservato in precedenza, la fermezza del presidente della Repubblica nel rifiutare decreti legge modificativi del d.lgs. n. 300 del 1999 ha avuto come conseguenza quella di permettere la costituzione di un consiglio dei ministri e di un governo non più subordinati alle esigenze di «rappresentanza politica» (in realtà, alle vaste aspettative di potere) dei partiti della coalizione, ma correlati, invece, a criteri di razionalità nella composizione dello stesso consiglio e dell’organo governo complessivamente inteso (12 ministri con portafoglio ed un numero non determinato di ministri senza portafoglio, ma con un limite totale fino a cinquanta tra ministri e sottosegretari); una struttura, dunque, che poteva consentire all’esecutivo di funzionare in base al principio della collegialità ed al presidente del consiglio di esercitare effettivamente i suoi poteri di direzione

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della politica generale del governo e di promozione e di coordinamento dei ministri. Tuttavia, come accennato, questo limite è stato via via incrementato da provvedimenti successivi alla già ricordata legge n. 244 del 2007: così il numero totale dei ministeri con portafoglio è stato elevato a tredici (oltre alla presidenza del consiglio), mentre il numero totale dei componenti del governo è stato elevato a sessantacinque in forza del d.l. n. 195 del 2009 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 26 del 2010). Viceversa, nelle moderne democrazie parlamentari il ruolo di direzione del primo ministro ed i principi di unità e di solidarietà dei ministri riescono a funzionare soltanto quando i governi siano posti nelle condizioni di sviluppare e di assumere decisioni collegiali collegate all’esistenza di un preventivo indirizzo politico generale, sia che si tratti di quel generale programma che la Costituzione italiana pone alla base della fiducia preventiva, sia che si tratti (laddove la fiducia preventiva non esiste) della presentazione di quel più definito programma di governo che è, ad esempio, approvato dal cabinet in occasione del «discorso della corona», in apertura, come accade in Gran Bretagna, dell’annuale sessione del parlamento. L’alternativa a questo modello (che è quello di una collegialità guidata dal primo ministro) è quello della definizione «esistenziale» (giorno per giorno, problema dopo problema, emergenza dopo emergenza) che ha caratterizzato l’esperienza della prima Repubblica (salvo, forse, il periodo storico del primo centro sinistra) e che, paradossalmente, ha continuato a caratterizzare la forma di governo della XVI legislatura, malgrado la adozione di un sistema elettorale con premio di maggioranza e l’esistenza di una effettiva, e larga, maggioranza parlamentare a favore del governo in carica. Nei primi due anni e mezzo della XVI legislatura sembrò, infatti, che la definizione del programma di governo fosse affidata, più che alla collegiale deliberazione del consiglio dei ministri, all’individuale iniziativa dei singoli ministri; iniziativa che si espresse su singoli progetti di riforma (istruzione ed università; funzione pubblica; energia e legislazione sul lavoro; cultura; federalismo fiscale, e così via) che dimostrarono l’intenzione di porre in essere alcune riforme di settore tali da qualificare politicamente l’azione del governo. È significativo, tuttavia, che (ed al di là del giudizio di merito su di esse) poche di queste iniziative ebbero la possibilità di avviarsi verso un’effettiva realizzazione, in quanto quasi tutti i progetti di riforma ben presto si fermarono a causa della mancata definizione collegiale delle priorità da attribuire ad ognuno di essi e per l’assenza di una decisione collegiale di governo sulle risorse finanziarie che sarebbero state disponibili per la effettiva realizzazione di ciascuna di esse. Se si osserva da vicino l’iter dei disegni di riforma governativi, viene in evidenza che, mentre da un lato il parlamento fu chiamato a discutere a

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lungo sulla struttura e sul contenuto dei singoli progetti, il consiglio dei ministri non soltanto si astenne dal prendere le decisioni sul finanziamento delle riforme alle quali ci siamo sopra riferiti, ma approvò, infine, il 14 ottobre 2010, nel pieno della discussione parlamentare su di esse, il disegno di legge di stabilità che, recependo integralmente i contenuti del d.l. n. 112 del 2008, dispose, invece degli attesi finanziamenti, una drastica riduzione della spesa pubblica nel triennio 2009-2011 pari a 13,5 miliardi di euro; riduzione che, per di più, avvenne attraverso una rimodulazione «lineare» (cioè percentualmente uguale) di tutte le previsioni di spesa. In base a quest’ultima decisione (assunta dal consiglio dei ministri nel corso di una riunione, tenuta senza la presenza del presidente del consiglio, durata solo trenta minuti e nella quale fu autorizzato a parlare il solo ministro dell’economia e delle finanze), tutte le riforme in quel momento in discussione in parlamento (salvo quella sulla università, che poté usufruire di un successivo, ma limitato, finanziamento particolare) furono o del tutto bloccate o rinviate agli esiti di una nuova decisione governativa che avrebbe dovuto essere assunta successivamente in quel decreto legge di fine anno che segue, ormai per prassi, all’approvazione (del tutto formale, come abbiamo visto) da parte del consiglio dei ministri del disegno di legge di stabilità. Il processo di formazione degli indirizzi politici del governo che abbiamo descritto e che si è consolidato negli ultimi anni ha finito, dunque, per affidare alla decretazione d’urgenza di fine d’anno (il c.d. «decreto mille proroghe») anche la risoluzione dei problemi che il governo non era stato in grado di risolvere in precedenza, cosicché questo procedimento ha finito per assomigliare, fino al 2010 (almeno per quanto attiene al merito, se non al quantum della spesa pubblica) a quel tradizionale «assalto alla diligenza» che si verificava in parlamento al momento della approvazione della vecchia legge finanziaria. Non sembra, dunque, che il «bipolarismo» abbia, da questo punto di vista, compiuto reali passi in avanti (almeno dal punto di vista della tecnica di governo) rispetto agli anni precedenti al 1993. Inoltre, l’incapacità di risolvere e di armonizzare in sede collegiale i problemi delle riforme e della spesa pubblica sembra aver addirittura acuito il tradizionale conflitto intra-governativo fra i ministri «della spesa» (che sarebbero, almeno teoricamente, interessati a portare aventi processi di riforma nei settori di loro competenza) ed il ministro dell’economia e delle finanze, che ha potuto aggiungere, nel corso dell’ultimo periodo, al suo secolare potere di controllore finale della compatibilità globale del bilancio dello Stato altri, e più forti, poteri che gli derivano da quella centralità che i ministri finanziari hanno acquisito all’interno degli organi europei (eurogruppo; ecofin, consiglio dei ministri dell’economia e delle finanze) ai quali compete la vigilanza sul rispetto dei parametri finanziari stabiliti nei trattati e l’iniziativa per le loro modifiche; tali organi si stanno

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progressivamente trasformando in un «ordinamento sezionale» finanziario dell’unione che appare agire, sotto la guida della banca centrale europea, attraverso decisioni che sono sottoposte soltanto a generali, e poco penetranti, poteri di indirizzo e di controllo da parte degli altri organi politici europei di vertice (si vedano, in proposito, i deboli poteri della Commissione e del parlamento europeo). Per quanto riguarda il modo di funzionare delle forme di governo nazionali, tutto ciò ha contribuito a rendere sempre più problematici i poteri di indirizzo e di coordinamento dei primi ministri nelle decisioni di spesa; infatti, se è vero che nelle forme di governo parlamentari il presidente del consiglio ha dovuto storicamente condividere da sempre con il ministro delle finanze una quota del suo potere di direzione che riguarda la politica della spesa, è anche vero che la competenza dei ministri finanziari a giudicare sulla sostenibilità finanziaria delle proposte di spesa è divenuta progressivamente assoluta e incontestabile da quando la piena attuazione del sistema monetario europeo ha conferito loro un potere di interpretare i vincoli e le condizioni posti dall’ordinamento finanziario dell’unione, che può essere difficilmente messa in discussione, soprattutto quando manchino, come accade in Italia, quegli indirizzi puntuali di governo nella politica economica e finanziaria che possano motivatamente contrapporsi a quelli fatti propri dal ministro dell’economia e delle finanze. Pertanto, le prerogative del ministro dell’economia e delle finanze sono divenute «trasversali», tali da incidere, ad esempio, anche in ambiti quali quello della politica estera: si pensi, in particolare, all’art. 21, comma 8, del d.l. n. 98 del 2011 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011) il quale prevede che, in attuazione dell’art. 80 Cost., gli accordi, i trattati internazionali e gli obblighi di carattere internazionale, in qualsiasi forma assunti, dai quali derivi l’impegno, anche se meramente politico, di adottare provvedimenti amministrativi o legislativi che determinino oneri finanziari sono autorizzati dal ministro degli affari esteri, di intesa con il ministro dell’economia, per i profili di carattere finanziario. Ancora, la legge n. 196 del 2009, ancora più a seguito delle modifiche ad essa apportate dalla legge n. 39 del 2011, ha valorizzato le prerogative del ministro dell’economia non solo nella predisposizione degli strumenti della programmazione finanziaria e di bilancio nonché del monitoraggio dei conti pubblici e, ancor più, nel procedimento legislativo, ormai fortemente caratterizzato dal rispetto dei parametri di sostenibilità finanziaria (artt. 17 ss.), e nella fase di attuazione delle disposizioni legislative: a tale ultimo proposito, l’art. 17, comma 13, della legge n. 196 del 2009 consente al ministro di assumere tempestivamente anche iniziative legislative qualora l’attuazione delle leggi comporti pregiudizi al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica. Di fronte ad una situazione quale quella appena descritta, e di fronte ad un contrasto ormai endemico fra i ministri «della spesa» ed il ministro

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delle finanze, il presidente del consiglio ha finito dunque per dismettere quel ruolo di alta direzione dei processi finanziari che gli competerebbe in base all’art. 95 Cost. ed ha assunto, invece, una ben più modesta funzione di mediazione fra le richieste di spesa, sostenute dai primi, e quella del rigore, sostenuta, invece, e con costante successo, dal secondo. La diminuzione del «peso relativo» del presidente del consiglio rispetto alle decisioni generali riguardanti la spesa è dimostrata anche dallo sviluppo di un settore della spesa pubblica, quello della protezione civile, che è stato, invece, posto sotto la diretta competenza della presidenza del consiglio dei ministri; tale settore è stato abnormemente sviluppato attraverso la speciale normativa sulle emergenze e sui «grandi eventi» che solo nel più recente periodo ha conosciuto alcuni importanti correttivi. Tuttavia, ed al di là della criticabilità delle normative che presiedono a questo intero settore (e che non appaiono in grado di garantire né la trasparenza né l’efficienza dei procedimenti di spesa), è lo stesso suo abnorme sviluppo che costituisce la spia della perdita della capacità del presidente del consiglio di stabilire tempestivamente i tempi e le priorità delle decisioni più rilevanti nella spesa pubblica e di coordinare, poi, con efficienza la loro esecuzione. Tutto questo sottolinea una pericolosa linea di tendenza, già denunciata nel passato, che consiste nella progressiva trasformazione della presidenza del consiglio da organo deputato ad assistere il primo ministro nelle sue funzioni costituzionali di direzione, di promozione e di coordinamento dell’attività dei ministri e del consiglio dei ministri, a organo di diretta gestione di funzioni che vengono attribuite al presidente sulla base di criteri estremamente variabili, che vanno dalla gestione delle situazioni di emergenza alla attribuzione di competenze ritenute utili dal punto di vista politico o clientelare. Da questo punto di vista, sarebbe allora auspicabile una «riforma della riforma» della presidenza del consiglio prefigurata, come detto (cap. 3, par. 2), dall’art. 8 della legge n. 124 del 2015.

8. Il sistema bipolare e la democrazia dei partiti. Il «partito carismatico» e il problema delle minoranze interne. La crisi del luglio 2010 e la dissoluzione della maggioranza di legislatura del 2008 È ora necessario riflettere su alcune ragioni, se si vuole meno istituzionali ed invece più francamente politiche, che sembrano avere minato alla base (contrariamente alle letture ottimistiche dei suoi sviluppi) il consolidamento ed il rendimento istituzionale del bipolarismo italiano; ragioni che hanno finito con il mettere in questione, come si dirà, il presupposto di fondo che qualifica il sistema bipolare, ovvero un governo di legislatura fondato sulla corrispondenza fra la maggioranza che governa e quella vincitrice delle elezioni.

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Anzitutto, e come abbiamo già detto poco sopra, il bipolarismo italiano fino al 2013 si è fondato su un sistema dei partiti che appare lontanissimo dai principi della Costituzione, in quanto i partiti italiani, più che assicurare ai cittadini (che sono i veri destinatari dell’art. 49) il diritto di concorrere alla definizione delle finalità politiche dei partiti stessi ed alla nomina della loro classe dirigente, hanno preferito reggersi, ieri come oggi, su statuti poco democratici che non incontrano limiti e condizioni dall’esterno a causa della colpevole assenza di una legge generale sui partiti (L. ELIA, A quando una legge sui partiti?, in S. MERLINI, a cura di, La democrazia dei partiti, cit., p. 51 ss.). Inoltre, come si è già accennato, gli statuti dei partiti politici italiani, invece di evolversi in un senso favorevole alla affermazione di più sicuri principi di democrazia interna, hanno sviluppato negli ultimi anni ideologie, normative e prassi volte ad affermare il consolidamento ed il rafforzamento della (o delle) leadership di partito, nella convinzione che soltanto i partiti fondati su una preminenza incontestabile della loro classe dirigente o (meglio) del loro unico leader potevano trasformare tale preminenza in un «carisma» che era qualificato da significati simbolici, da virtù politicamente unificanti e dalla possibilità di una capacità di comunicazione popolare tale da fondare in maniera sicura il «mandato» richiesto agli elettori. Come si è ricordato, questo modo di intendere il principio della rappresentanza politica non appare, però, ed anzitutto, conforme alla Costituzione che esclude nell’art. 67, qualsiasi vincolo di mandato sui singoli membri del parlamento ed indica, invece, nel suo art. 49 i partiti politici ordinati con metodo democratico come i soggetti destinati ad elaborare gli indirizzi generali della politica che dovranno poi diventare, attraverso il confronto-concorso fra tutti i partiti, la «politica nazionale». In secondo luogo, come abbiamo detto nelle pagine precedenti, il principio e la prassi della prevalenza e della conservazione, senza un vero confronto democratico, delle classi dirigenti all’interno della maggioranza dei partiti italiani e l’affermarsi dentro ai partiti e nei processi della democrazia rappresentativa dell’ancora più controverso principio carismatico non sembrano aver migliorato le capacità funzionali complessive del governo, perché il soggetto che avrebbe dovuto essere il destinatario del mandato politico del corpo elettorale (il candidato primo ministro, secondo l’art. 14-bis della legge elettorale n. 270 del 2005) non è sembrato in grado di trasformare il generico mandato ricevuto dal corpo elettorale in un coeso, coerente e realizzabile indirizzo politico collegiale del governo. Inoltre, se si analizza il rendimento politico complessivo del modello bipolare a partire dalle elezioni del 2008, ci si rende facilmente conto del fatto che i partiti che si sono più allontanati dai principi della democrazia interna ed hanno puntato, invece, su una forte concentrazione sul leader di partito di quei poteri che sono in grado di connotare politicamente il partito stesso (la scelta della classe dirigente; le decisioni sulle candidatu-

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re; la determinazione e la gestione della linea politica) non sono stati in grado di governare quei processi di dissenso e di differenziazione politica che si sono manifestati al loro interno e che hanno portato, infine, a quelle drammatiche rotture che hanno caratterizzato la XVI legislatura a partire dalla primavera del 2010. Intendiamo riferirci qui, come è evidente, a quella crisi del partito del popolo della libertà che, fondato nel 2008 per iniziativa del leader di forza Italia, Silvio Berlusconi, aveva unificato questo ultimo partito ed alleanza nazionale attraverso uno statuto (approvato dal primo congresso nazionale il 29 marzo 2009) che lasciava intuire l’esistenza di un assetto quasi federale della nuova formazione politica al fine di garantire le diverse ispirazioni originarie dei due partiti che avevano deciso di unirsi (cfr. il comitato di coordinamento ed i tre coordinatori nazionali, distribuiti secondo un criterio che lasciava alla disciolta AN un terzo di essi e delle altre cariche dirigenziali); tale assetto veniva, però, del tutto smentito dalla concentrazione di tutti i poteri rilevanti sia dal punto di vista politico che da quello amministrativo e finanziario nelle mani del presidente (eletto dal congresso, ma senza obbligo di votazione segreta) «coadiuvato» da un ufficio di presidenza (composto, nella quasi totalità, di membri eletti anch’essi dal congresso ma su proposta dello stesso presidente) nell’esercizio di tutte le sue funzioni principali, fra le quali quella di «definire le linee politiche e programmatiche» del partito e quelle di nominarne gli organi e di decidere le nomine e le candidature a tutte le cariche politiche, nazionali e locali. Questa problematica unità del nuovo partito durò, in realtà, meno di un anno, perché già nei primi mesi del 2010 si manifestarono seri dissensi fra una parte della vecchia componente di AN guidata dal presidente della camera dei deputati Gianfranco Fini e le linee politiche e programmatiche stabilite, come da statuto, dal presidente del partito Berlusconi, assunte, in conseguenza, dal partito e dal governo; linee politiche che venivano, invece, contestate dalla «componente» finiana, sia nella loro ispirazione generale (soprattutto riguardo al rapporto fra il «federalismo» e l’unità nazionale; la politica della giustizia; quella delle riforme istituzionali), sia nella concreta attuazione che era loro data da parte del programma di governo. Questa situazione, che ripeteva in gran parte quella che abbiamo già descritta nella crisi del II governo Berlusconi, non poté, però, giovarsi di quella, anche se paradossale, maggiore flessibilità che era, invece, possibile nella gestione delle crisi politiche all’interno di coalizioni di governo composte da partiti diversi; crisi per le quali la c.d. «prima Repubblica» aveva approntato un vero campionario di strumenti attraverso i quali o ad opera del solo primo ministro (le «verifiche») o ad opera del primo ministro e dei leaders di partito (i «vertici») il governo cercava di ricondurre ad unità quell’indirizzo di governo che si manifestava in crisi.

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L’unificazione dei due partiti, alleati ma diversi fino al 2009, pose, infatti, nelle mani del solo Berlusconi, presidente del partito e presidente del consiglio, la risoluzione di una crisi politica che sarebbe stata affrontata in passato distinguendo, secondo tradizione, fra i problemi del governo ed i problemi di partito. Dunque, di fronte all’emergere di un dissenso che diveniva sempre più acuto e che assumeva caratteri sempre più marcatamente politici, il nuovo partito si trovò di fronte a due alternative: quella della mediazione fra la maggioranza e la minoranza (il che implicava il riconoscimento della possibilità dell’esistenza di un’area del dissenso politico all’interno del partito) oppure quella dell’affermazione che le sole linee politiche e programmatiche legittime ed ammissibili sono quelle della maggioranza in base alla interpretazione che di esse è data dal presidente nazionale (cfr. artt. 15 e 16 dello statuto). La permanente contrapposizione fra la minoranza finiana e la maggioranza che faceva capo al presidente Berlusconi condusse nel mese di luglio 2010 alla convocazione della prima direzione nazionale dopo la fondazione del partito. In quella sede, e malgrado i poteri generici attribuiti dallo statuto a questo organo che era il solo nel quale doveva essere rappresentata anche la minoranza (il «concorso alla definizione delle linee politico programmatiche nell’ambito delle deliberazioni congressuali»), si svolse lo scontro politico finale fra la maggioranza e la minoranza. Il risultato finale del dibattito e delle decisioni della direzione resero chiaro che la maggioranza non soltanto considerava errate le posizioni politiche della minoranza (il che sarebbe rientrato nella normale dialettica fra maggioranza e minoranza) ma che la stessa esistenza di una minoranza organizzata attorno a proprie posizioni politiche doveva essere considerata contraria alla logica istituzionale di un partito nel quale la posizione e la interpretazione della linea politica era di competenza del solo presidente nazionale. Fu, infatti, il presidente nazionale ad attuare le decisioni assunte dalla direzione nazionale attraverso la convocazione l’ufficio di presidenza del partito che, coerentemente alla sua composizione ed alla sua natura di organo ausiliario del presidente, deliberò il 30 luglio 2010 (forse al di fuori delle sue competenze, dato che a questo organo sarebbe spettato soltanto di definire, coadiuvando il presidente, le linee politiche e programmatiche: cfr. art. 16) «la assoluta incompatibilità delle posizioni politiche di Fini con i principi ispiratori del popolo della libertà»; il venir meno della fiducia del partito nel ruolo di garanzia del presidente della camera ed il deferimento ai probiviri di alcuni esponenti dell’area finiana. Questa decisione equivaleva, con tutta evidenza, ad una espulsione ed infatti essa fu così interpretata dalla minoranza vicina a Fini che decideva, in conseguenza, di lasciare il partito e di costituire due gruppi parlamentari autonomi che avrebbero appoggiato «dall’esterno» il governo Berlusconi, ritirando da esso i propri esponenti e condizionando, per il futuro,

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il loro appoggio all’inserimento nel programma governativo di quelle richieste politiche che erano state l’oggetto dello scontro interno al popolo delle libertà e causa della scissione del partito. Con la delibera dell’ufficio di presidenza del popolo della libertà e la costituzione dei gruppi parlamentari di «futuro e libertà» venne di fatto meno il partito che si era presentato alle elezioni del 2008 (già prima della sua formale costituzione) come una formazione politica unitaria, aggregata intorno ad un solo programma e ad un solo leader. Apparentemente, questo evento sembrava non differire dalle tante «scissioni» che erano accadute nella storia della Repubblica già a partire dall’Assemblea costituente. Invece, mentre le scissioni all’interno dei partiti non mutavano i caratteri di fondo della forma di governo della cosiddetta prima Repubblica (nella quale il sistema proporzionale escludeva il diretto rapporto fra i partiti e gli elettori, cosicché i due partiti risultanti dalla scissione potevano legittimamente sostenere di essere, l’uno e l’altro, gli interpreti autentici della linea politica del partito originario), in una forma di governo che si asserisce fondata sul bipolarismo la scissione del partito di governo finisce per assumere un significato del tutto contraddittorio rispetto ai caratteri propri del nuovo sistema politico; caratteri che avrebbero dovuto consistere, principalmente, nel rispetto del mandato politico del corpo elettorale e in quel governo di legislatura che si diceva essere la condizione prima per l’alternanza al governo fra la maggioranza e l’opposizione. Da questo punto di vista, anzi, l’interpretazione autentica del sistema bipolare che era stata data nelle elezioni del 2008 dai due maggiori partiti (PDL e PD) aveva introdotto alcuni elementi di novità rispetto a quanto era accaduto nei dodici anni precedenti a partire dalle elezioni del 1996, perché, anche se con alcune differenze, i due partiti avevano entrambi dichiarato una «vocazione maggioritaria» con la quale ci si proponeva di sostituire alla più volte constatata prevalenza degli interessi dei piccoli partiti all’interno delle grandi e composite coalizioni di governo (esemplare quella del II governo Prodi del 2006) una più decisa affermazione dell’indirizzo politico che sarebbe stato dettato dai due più grandi partiti all’interno di più ridotte coalizioni. Da questa «vocazione» erano nate, come abbiamo detto, sia la unificazione di forza Italia con alleanza nazionale, sia la decisione di Veltroni di costituire una coalizione ridotta, estesa solo all’IDV; una decisione che presupponeva quindi una competizione sostanzialmente bipartitica fra PD e PDL. Questa novità era stata interpretata dalle forze politiche che l’avevano introdotta e da una gran parte dei costituzionalisti come un «irrigidimento» del bipolarismo, in quanto la decisione dei più grandi partiti di muoversi, da allora in avanti, con una logica maggioritaria ed il fatto che essa fosse stata premiata dagli elettori del 2008 con la concentrazione del 70% dei voti sul PDL e sul PD, avrebbe condotto le forze politiche a ritenere

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impossibili mutamenti della maggioranza parlamentare nel corso della legislatura, in quanto «legittimata» dal voto. In realtà, una lettura così unilaterale del percorso compiuto dal bipolarismo italiano finì per entrare in contrasto (ed in primo luogo) con i già ricordati principi stabiliti dalla Costituzione a proposito della forma di governo, in base ai quali il governo e la maggioranza parlamentare si stabiliscono in parlamento solo attraverso il voto di fiducia e quello di sfiducia, senza che né il primo né il secondo voto debbano obbligatoriamente ripetere il «patto» contratto con gli elettori. Inoltre, l’accettazione di una rigida consequenzialità nel percorso che avrebbe portato dalla nascita dei partiti «maggioritari» e all’investitura politico-istituzionale di essi attraverso il voto popolare, fino a giungere alla immutabilità di una maggioranza parlamentare direttamente investita nel suo ruolo dalla decisione elettorale, presupponeva la consolidata esistenza in Italia di partiti dotati non soltanto di una «vocazione» maggioritaria ma anche di una reale, consolidata ed affidabile unità interna tale da consentire ai partiti stessi di interpretare univocamente il «mandato» del corpo elettorale e di affrontare unitariamente la decisione di affrontare nuove elezioni quando si manifestassero difficoltà insuperabili nella realizzazione del «patto» sottoscritto con gli elettori. L’esistenza di una evoluzione del bipolarismo italiano in questa direzione si è rivelata, invece, sostanzialmente mitologica, scontrandosi, come abbiamo visto sopra, con l’incapacità dei partiti italiani di costruire un saldo consenso democratico al loro interno e di unificare in un progetto politico unitario i partiti della coalizione.

9. Il complesso andamento della XVI legislatura: la crisi della maggioranza di governo ed i due voti di fiducia del 29 settembre e del 14 dicembre 2010. La maggioranza nuova e le mancate dimissioni del IV governo Berlusconi. Dalla crisi della maggioranza alla crisi del modello bipolare. Le crisi politiche della maggioranza ed il ruolo del parlamento Il «premierato strisciante» indotto dalle elezioni del 2008 non si è quindi accompagnato affatto ad un superamento di quel bipolarismo conflittuale che ha caratterizzato il sistema politico italiano a partire dal 1994 (V. LIPPOLIS, G. PITRUZZELLA, Il bipolarismo conflittuale, cit.). Peraltro, l’inizio della legislatura aveva fatto pensare ad un mutamento anche nei rapporti tra maggioranza ed opposizione, con il PD disponibile ad una opposizione costruttiva e collaborativa su alcune tematiche di rilevanza istituzionale (a cominciare dalle riforme istituzionali), ed il presidente del consiglio che, in sede di replica nel dibattito sulla fiducia al governo al senato, poteva affermare: «Questo dibattito mi ha fatto sentire

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come possibile la concretizzazione di un sogno a lungo inseguito: quello di una democrazia finalmente bipolare, con una destra definitivamente liberale, democratica, occidentale e una sinistra non più subalterna all’ideologia, all’estremismo, al giustizialismo» (senato della Repubblica, 15 maggio 2008, sed. n. 5, res. sten., p. 29). Il 16 maggio, a conclusione del dibattito sulla fiducia al governo, il presidente del consiglio si incontrava a Palazzo Chigi con il leader dell’opposizione per avviare un confronto continuativo tra maggioranza ed opposizione (l’incontro ebbe ad oggetto il tema delle riforme istituzionali). In questo contesto si deve ricordare la decisione del PD di costituire un «governo ombra» presieduto dal segretario Veltroni e composto da 21 membri, tra cui alcuni ministri uscenti. Ma questo clima politico-istituzionale non durò e tornarono presto al pettine i nodi di una premiership anomala rispetto alle altre democrazie consolidate (e su questo non occorre insistere) e di una opposizione debole e divisa al proprio interno, ancora in cerca di un’identità politica e programmatica: da questo punto di vista, all’uscita di scena di Veltroni corrispose anche la precoce fine dell’esperienza del «governo ombra» (Q. CAMERLENGO, Il governo ombra: ascesa e declino, in Quad. cost., 2009, pp. 399 ss.; P.L. PETRILLO, Il governo ombra: vita (breve) e morte (annunciata), ivi, pp. 402 ss.). In particolare, sul primo punto era spesso richiamato il rischio di un «assolutismo maggioritario», evocando lo scenario di un premier che, dopo aver fatto alcune concessioni alla lega (in particolare, in materia di sicurezza e di attuazione dell’art. 119 Cost.), «sultaneggia su un partito cartaceo davvero prostrato ai suoi piedi. Nomina ministri e ministre chi vuole. Caccia chi vuole, come se fosse personale di servizio. Nessuno fiata. I ministri del partito di sua proprietà sono tali per grazia ricevuta. E tornano a casa senza nemmeno un gemito se così decide il padrone» (G. SARTORI, Il sultanato, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. IX). Certamente, sul versante della forma di governo la premiership acquisì una visibilità, soprattutto mediatica, inedita, che portò anche ad alcune non commendevoli polemiche istituzionali con gli organi di garanzia: oltre alle «tradizionali» polemiche con le «toghe rosse», si deve ricordare la rivendicazione della prerogativa esclusiva ed insindacabile del governo ad adottare decreti legge non come strumenti eccezionali (come per la verità si deduce dall’art. 77 Cost.) ma come strumenti ordinari di attuazione del programma di governo e comunque in ogni caso in cui l’esecutivo ritenga di doverli adottare (nella conferenza stampa del 2 ottobre 2008 Berlusconi definì «un atto di coraggio e responsabilità» il ricorso sistematico alla decretazione d’urgenza ed alla questione di fiducia sui disegni di legge di conversione). La polemica con il capo dello Stato a proposito della mancata emanazione del decreto legge che avrebbe imposto l’alimentazione forzata di Eluana Englaro è solo il caso più evidente del tentativo del pre-

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sidente del consiglio di imporre forzature al quadro costituzionale delle attribuzioni (in una dichiarazione alla stampa del 7 febbraio 2009, in esito alla vicenda della mancata emanazione di questo decreto, il presidente del consiglio criticò il presidente della Repubblica, sostenendo che «è dall’altra parte che si vogliono attribuire dei poteri che secondo l’interpretazione mia e del governo non sono del capo dello Stato ma semmai spettano al governo» e criticò altresì la prassi informale di informazione al presidente della Repubblica dei contenuti di decreti legge che poi il consiglio dei ministri provvedeva a deliberare: «L’ipotesi di una prassi che fa intervenire il presidente della Repubblica addirittura prima che si prendano le decisioni è veramente una cosa che fa ridere»). A questo tentativo il capo dello Stato reagì (il 25 giugno Napolitano inviò una preoccupata missiva ai presidenti delle camere evidenziando come il d.l. n. 112 del 2008 appena emanato fosse un atto di grande ampiezza e complessità, in un contesto nel quale già vi era un elevato numero di decreti legge da convertire e quindi il rischio di «ingorghi» in sede parlamentare) e anche con iniziative anche inedite, come la mancata emanazione del decreto legislativo sul c.d. «federalismo municipale», assai rilevante dal punto di vista politico ed istituzionale, e la «lettera-monito» al presidente del consiglio ed ai presidenti delle camere a proposito dei contenuti assunti dal disegno di legge di conversione del d.l. n. 225 del 2010 (c.d. «milleproroghe»). In effetti, nella XVI legislatura l’uso della decretazione d’urgenza, più che nelle legislature precedenti assunse livelli quantitativi ragguardevoli, così come non diminuì il ricorso alle leggi delega che nelle cinque legislature precedenti erano state lo strumento principale per vaste riforme settoriali o intersettoriali. Se l’uso abnorme della decretazione d’urgenza costituiva già un’evidente alterazione del quadro costituzionale, ancora più grave fu la «blindatura» dei disegni di legge di conversione attraverso l’uso ormai sistematico della questione di fiducia che incontrò critiche severe anche da parte del presidente della camera: così, in risposta al ministro Elio Vito, che motivava la questione di fiducia sulla legge di conversione del d.l. n. 185 del 2008, «in onore del lavoro della Commissione […] in omaggio alla centralità del parlamento», ed in sintonia con le critiche dell’opposizione, Fini obiettò che «l’omaggio al parlamento e alla centralità del medesimo lo si fa nello stesso momento in cui si consente alle commissioni di lavorare e si consente ai deputati in aula di esprimersi sugli emendamenti» (camera deputati, 13 gennaio 2009, sed. n. 113, res. sten., p. 4). Le ricorrenti polemiche con le autorità di garanzia costituirono un dato preoccupante e criticabile, nella misura in cui presupponevano una presunta, incolmabile superiorità di un premier ritenuto intangibile in quanto sostanzialmente legittimato dal corpo elettorale. Ma lo stesso è a dirsi nei confronti del parlamento, che a più riprese Berlusconi criticò per la presunta lentezza delle procedure, fino a propor-

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re la bislacca idea di attribuire ai capigruppo la prerogativa di votare al posto dei singoli parlamentari (marzo 2009), subendo la risposta polemica del presidente della camera. Come si è detto, però, anche la XVI legislatura conobbe presto una seconda fase che finì per appannare e non poco la potenziale valorizzazione di una premiership le cui difficoltà politiche, giudiziarie e personali determinarono frizioni istituzionali di notevole pericolosità. In seno al PDL le frequenti posizioni critiche del presidente della camera Fini su temi politicamente assai sensibili (solo per citare alcuni esempi: immigrazione, sicurezza, questioni eticamente sensibili, riforme istituzionali), fino all’aperta contestazione di uno degli slogan preferiti dal presidente del consiglio («il governo del fare»), dimostrandosi sensibile ad istanze delle opposizioni, determinarono, come detto, una progressiva presa di distanza dal presidente del consiglio, la successiva formazione prima dei gruppi parlamentari di FLI, e, quindi, la fondazione del nuovo soggetto politico e l’uscita dei suoi ministri e sottosegretari dal governo. La realtà sottostante al mito del bipolarismo riaffiorò, infatti, con la crisi politica che colpì alla fine del luglio 2010 il partito di governo; tale crisi fu seguita da altri, e più drammatici, avvenimenti, quali, in primo luogo, la decisione dei gruppi parlamentari facenti capo a Gianfranco Fini di costituirsi in partito e di condizionare il sostegno al governo ad una più condivisibile definizione di cinque punti programmatici ancora non avviati ad una realizzazione e considerati «decisivi» dal punto di vista della prosecuzione dell’esperienza di governo (la riforma della giustizia «dal punto di vista dei cittadini»; un federalismo fiscale solidale fra nord e sud; il reperimento di risorse per la realizzazione di grandi riforme strutturali nel sud; una più equa riforma del sistema fiscale; la riforma della immigrazione volta all’accoglienza ed alla integrazione). Il senso politico di queste richieste era, come è chiaro, quello di mettere in discussione quell’interpretazione del programma elettorale e di governo già fatte proprie dalla maggioranza del partito delle libertà. In definitiva, dunque, la posizione in forma ultimativa delle questioni sopra elencate finì con il coincidere con l’apertura di una vera e propria verifica di governo che assomigliava molto, a ben vedere, a quelle della «prima Repubblica». L’apertura di una nuova discussione sull’indirizzo politico del governo era promossa, infatti, non più da una minoranza di partito ma da un gruppo politico che, dichiarandosi del tutto autonomo rispetto al partito di provenienza, era ormai in grado di condizionare l’appoggio all’esecutivo all’accoglimento della sua interpretazione del programma stesso. A ciò si aggiunga il potenziale di coalizione, tutt’altro che marginale, della lega nord, criticato a più riprese dalle opposizioni e da FLI: solo per citare alcuni esempi, è da ricordare nel consiglio dei ministri del 30 maggio 2008 il voto a favore da parte dei ministri della lega sul disegno di legge di ratifica del trattato di Lisbona solo per senso di responsabilità, riser-

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vandosi però un approfondimento nel successivo dibattito parlamentare (successivamente, però, la legge fu approvata all’unanimità); l’imbarazzata ammissione del presidente del consiglio di non avere potuto varare un decreto legge per accorpare i referendum elettorali alle elezioni europee ed amministrative del 2009 per il rischio di una crisi di governo (era noto l’atteggiamento ostile della lega nord rispetto ai referendum «Guzzetta»); la presa di distanza della lega dalla decisione del governo di varare un decreto legge per rendere giorno festivo il 17 marzo 2011. È altresì noto che la stessa lega esercitò un peso determinante in alcune rilevanti scelte politiche (si pensi alla sicurezza o all’attuazione dell’art. 119 Cost., solo per citare due esempi). L’insieme di queste tensioni spiega il ricorso sistematico alle questioni di fiducia che, come in passato, furono sovente utilizzate contro la propria maggioranza (solo apparentemente disciplinata perché progressivamente più «riottosa» rispetto ad alcune iniziative del governo) piuttosto che contro atteggiamenti ostruzionistici delle opposizioni (emblematici furono i casi in cui il governo decise di porre la fiducia su leggi di conversione di decreti legge anche in presenza di pochi emendamenti o all’inizio dell’esame presso il primo ramo del parlamento: così, ad esempio, nella seduta del 23 settembre 2008 il consiglio dei ministri varò la manovra di finanza pubblica per il 2009-2011, autorizzando «preventivamente» il ricorso alla questione di fiducia). Inedito fu l’appello al presidente del consiglio di 101 parlamentari del PDL di non porre la fiducia sulla conversione del d.l. n. 11 del 2009, in materia di sicurezza, affermando la necessità di indispensabili correzioni; non a caso, proprio sullo stesso decreto la maggioranza fu battuta alla camera su un emendamento assai rilevante, riguardante l’estensione del periodo di permanenza degli extracomunitari nei centri di identificazione e, per superare l’ostruzionismo delle opposizioni, venne stralciata la discussa disposizione sulle «ronde», poi rifluita nell’art. 3 della legge n. 94 del 2009. Come accennato, le difficoltà politiche si accentuarono con la formazione dei gruppi di «futuro e libertà» che determinarono una svolta politica nella legislatura con il progressivo sfumare dei riferimenti al (peraltro generico) programma elettorale della coalizione di centro-destra cui Berlusconi si era richiamato nelle dichiarazioni programmatiche rese alla camera il 13 maggio 2008 (in esse si affermava infatti: «Non mi attarderò a lungo sul lungo elenco delle cose da fare e non ripeterò punto per punto gli impegni del nostro programma. Lo abbiamo presentato agli elettori e quello sarà, giorno dopo giorno, l’agenda del nostro governo»; camera deputati, 13 maggio 2008, sed. n. 4, res. sten., p. 4). Questa vicenda si sviluppò fra il settembre ed il dicembre 2010 attraverso un «crescendo» che vide, dopo la (generica) accettazione dei punti programmatici richiesti da FLI da parte del presidente del consiglio, un

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primo voto di fiducia a favore del governo anche da parte di futuro e libertà, la successiva e definitiva rottura politica fra Fini e Berlusconi che si manifestò con la presentazione di una mozione di sfiducia al governo da parte dei gruppi parlamentari finiani (mozione sulla quale convennero anche UDC ed API e che si aggiunse a quella presentata dal PD e dall’IDV), la vittoria alla camera del governo sulle opposizioni per 313 voti contro 311 (14 dicembre 2010) dopo una battaglia molto aspra, destinata ad aprire un periodo di grave crisi sia sul piano politico che su quello istituzionale. Le incertezze politiche ed istituzionali sembravano, tuttavia, essersi ancor più aggravate ed aver assunto una dimensione inedita. La crisi della maggioranza apparve, a ben guardare, assumere sempre più caratteri che sembravano estranee rispetto al quadro delle fisiologiche crisi di maggioranza che avevano contrassegnato l’esperienza politica italiana dell’ultimo quindicennio e la facevano assomigliare, invece, ad una vera e propria crisi di sistema; una crisi, cioè, di quel sistema politico fondato sul bipolarismo, sul quale si era fondata (come si è detto, a partire almeno dal 1996) la nostra forma di governo «materiale». Nelle crisi politiche del recente passato i partiti della maggioranza di governo avevano, infatti, dibattuto e si erano spesso anche scontrati in maniera aspra ma erano sempre riusciti, alla fine, a ricomporre all’interno dello schieramento di maggioranza tutte le componenti originarie di esso; e questo anche se, talvolta, la ricomposizione aveva avuto come prezzo o il cambiamento del presidente del consiglio (così nel 1998: crisi del I governo Prodi e nascita del I governo D’Alema; nel 2000: crisi del II governo D’Alema e nascita del II governo Amato) o crisi politicamente significative (così, nel 2005, a seguito della crisi del II governo Berlusconi e costituzione del III governo guidato dallo stesso presidente del consiglio). Inoltre, quando la maggioranza era entrata definitivamente in crisi (sfiducia al II governo Prodi nel 2008), il presidente della Repubblica aveva dovuto constatare l’impossibilità di dar vita ad un governo con una maggioranza diversa da quella «elettorale», cosicché, conformemente alla «dottrina» del bipolarismo rigido, alle dimissioni del governo aveva corrisposto, alla fine, anche lo scioglimento anticipato della legislatura. Nella crisi della maggioranza verificatasi negli ultimi mesi del 2010 la maggioranza non riuscì più, invece, a ricomporre la propria identità politica originaria che, anzi, cambiò in occasione di due eventi entrambi cruciali dal punto di vista politico e costituzionale. In primo luogo, la quasi-crisi del settembre 2010 fu risolta con un voto di fiducia, espresso da entrambe le camere, su una piattaforma programmatica, articolata in cinque punti (genericamente individuati nelle comunicazioni del presidente del consiglio), assai più limitata rispetto al programma elettorale originario, e solo mascherata da un presunto crisma di priorità (federalismo fiscale, riforma tributaria, riforma della giustizia, sicurezza dei cittadini e immigrazione, piano per il sud); ed è altresì signifi-

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cativo che la conseguita fiducia alla fine di settembre 2010 non abbia impedito ai gruppi di FLI di sottoscrivere, appena due mesi dopo, una mozione di sfiducia, senza che tra l’una decisione e l’altra sussista alcun rapporto di consequenzialità, in un’ottica (si potrebbe dire, «dal sapore antico») di sottovalutazione della rilevanza dei contenuti programmatici. Al dibattito sulla mozione di sfiducia alla camera dei deputati si accompagnò l’approvazione al senato di una anomala risoluzione (si tratta della risoluzione n. 1, 6-00048 del 13 dicembre 2010), sulla quale il governo pose la questione di fiducia, che genericamente rinviava per relationem alle comunicazioni del presidente del consiglio (come le vere e proprie mozioni di fiducia, nonostante il disposto dell’art. 94, comma 2, Cost. che ne impone la motivazione), a loro volta assai generiche nei contenuti, e non del tutto assimilabili a quelle del settembre precedente (si veda il riferimento alle privatizzazioni, effettuato per cercare di ottenere il consenso dell’on. Guzzanti). Il governo si salvò grazie al sostegno determinante di parlamentari fuoriuscenti da altri gruppi (prevalentemente FLI ma anche PD, UDC, IDV) che dettero poi vita ad un nuovo gruppo parlamentare (il gruppo dei c.d. «responsabili», successivamente denominato «popolo e territorio»), ormai determinanti per la sopravvivenza del governo. A questo composito gruppo venne attribuito un esplicito riconoscimento politico con la nomina di Saverio Romano a ministro delle politiche agricole (marzo 2011) e con la successiva nomina di nove sottosegretari, a proposito della quale il capo dello Stato, pur riconoscendo che la scelta dei nominativi «rientra come è noto nella esclusiva responsabilità del presidente del consiglio dei ministri», doveva rilevare «che sono entrati a far parte del governo esponenti di gruppi parlamentari diversi rispetto alle componenti della coalizione che si è presentata alle elezioni politiche», con ciò richiedendo, implicitamente ma chiaramente, un passaggio parlamentare che in effetti avvenne. Tuttavia, la grave crisi economica, i non più latenti contrasti in seno alla coalizione di governo, con l’emersione di una corrente di minoranza all’interno del PDL, guidata dagli ex ministri Scajola e Pisanu, ormai apertamente critica nei confronti del presidente del consiglio, di cui arrivava a chiedere le dimissioni, l’emergere di una dialettica interna perfino nella lega nord nella quale veniva posta in discussione la leadership di Bossi, la fragile maggioranza alla camera aggravarono una crescente instabilità politica. Il culmine venne raggiunto nell’ottobre 2011 con la reiezione dell’art. 1 del disegno di legge sul rendiconto generale dello Stato (ritenuto tale da determinare la reiezione dell’intero testo), che creò una situazione inedita e grave, dato il rilievo istituzionale e politico dello stesso, dimostrato da una prassi, peraltro anteriore al 1992, che aveva visto le dimissioni del governo in casi analoghi. Anche se è quantomeno contestabile che questa vicenda potesse deter-

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minare un obbligo giuridico di dimissioni del governo, peraltro escluso dal presidente della repubblica in una lettera inviata ai capigruppo della maggioranza alla camera, rimane il fatto che la fragilità del governo non apparve superata dalle successive, generiche comunicazioni del presidente del consiglio, approvate dalla camera, dopo che il governo aveva posto la fiducia su una risoluzione di approvazione delle stesse. Ancora una volta, infatti, la maggioranza fu salvata grazie al sostegno determinante del gruppo «popolo e territorio», nonostante che alcuni deputati della maggioranza non avessero partecipato al voto in polemica con la decisione del presidente del consiglio di non dimettersi; né appare trascurabile il fatto che questo passaggio fiduciario fosse stato «richiesto» dal capo dello Stato, nonostante il tentativo del presidente del consiglio di minimizzare la vicenda in questione, qualificandola come un mero «incidente tecnico». È evidente che la dottrina del bipolarismo, sostenuta, come abbiamo ricordato nella sua versione più rigida proprio dal PDL e dal presidente del consiglio, avrebbe imposto, in una situazione quale quella che si è descritta, le dimissioni di un governo che si era salvato per ben due volte solo grazie ad un mutamento dell’originaria maggioranza elettorale. Inoltre, il definitivo abbandono, sul terreno dei fatti, da parte della maggioranza di governo della tesi dell’immutabilità della maggioranza elettorale originaria, nonché l’approdo ad una prassi del tutto coincidente con quella della vituperata «prima Repubblica» (nella quale i governi si facevano in parlamento sulla base di maggioranze variabili), risultò confermata anche dalla già richiamata formazione alla camera dei deputati, su diretta iniziativa del primo ministro (gennaio 2011), di un nuovo gruppo parlamentare, nato per «allargare e rafforzare» la nuova ma debole maggioranza di governo (il gruppo «dei responsabili», poi dal giugno 2011 denominato «popolo e territorio»), che si costituì grazie all’apporto di deputati provenienti da gruppi parlamentari diversi, ivi compreso il «prestito» di alcuni parlamentari del popolo delle libertà, che rese possibile di raggiungere il numero minimo di componenti (20) previsto dal regolamento della camera dei deputati. Il passaggio da una forma di governo (materiale) fondata sul bipolarismo (meno rigido, prima, poi rigido, infine definitivamente evanescente) ad un’altra basata su di un parlamentarismo che, a dire il vero, rischiava di assomigliare più al trasformismo ottocentesco che alla forma di governo della prima Repubblica (che era tributaria del sistema elettorale proporzionale ma che si fondava, pur sempre, su partiti ben identificabili) ha finito per cambiare, infine, anche il ruolo politico ed istituzionale del presidente del consiglio. Se è infatti vero che la leadership politica di Berlusconi presentava, anche fino alla recente crisi, tratti di sicura anomalia, dovuti alle caratteristiche originarie dei due partiti da lui fondati e sui quali pesava un’indubbia impronta, più che personalistica, addirittura «proprietaria», la crisi

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del PDL ne accentuò i caratteri «personali», in quanto, come si è detto, l’espulsione (o, se si preferisce, la diaspora) della minoranza finì per consegnare tutti i poteri di gestione ordinaria e straordinaria nelle mani del solo presidente nazionale; ciò è confermato dal fatto che decisioni così rilevanti dal punto di vista politico ed istituzionale, come quelle che riguardavano il mutamento della maggioranza di governo, furono assunte senza convocare gli organi collegiali del partito, se si eccettua quella dell’ufficio di presidenza, che appariva essere, però, più un organo meramente ausiliario del leader che un organo rappresentativo della totalità del partito. È del tutto evidente che mutamenti così radicali hanno finito per colpire gli equilibri di fondo sui quali si è retta, a partire dal 1948, la nostra forma di governo. Abbiamo brevemente richiamato poco sopra le modalità con le quali il primo ministro in carica guidò la transizione fra il sistema bipolare precedente alla crisi del settembre 2010 ed il sistema successivo, che sembrava fondarsi su maggioranze di governo variabili, determinate direttamente dal presidente del consiglio attraverso un «reclutamento» diretto e personale di deputati e di senatori, avvenuto in maniera del tutto indipendente da un rinnovamento palese di quel «patto di coalizione» che era stato sottoscritto dai partiti di centro destra in occasione delle elezioni del 2008. La «personalità» e l’informalità del cambiamento di maggioranza che in tal modo si realizzò poté così prescindere anche dall’attivazione di qualsiasi procedura di controllo, volta a consentire al parlamento l’espressione di un giudizio e di un voto sui rilevanti cambiamenti nella maggioranza di governo, intervenuti dopo il voto di fiducia del dicembre 2010 che aveva «fotografato», come è proprio di tutti i voti di fiducia, un rapporto politico fra la maggioranza e l’opposizione che avrebbe dovuto rimanere fermo e costante in base ai principi posti dall’art. 94 Cost.; tale disposizione differenzia infatti, come è noto, la maggioranza di governo dalle altre e variabili maggioranze alle quali fa, invece, riferimento l’art. 64 Cost. Questa grave crisi dei rapporti fra il governo ed il parlamento coinvolse, come è ovvio, anche i contenuti programmatici del rapporto di fiducia fra il potere esecutivo e quello legislativo. Secondo la prassi repubblicana, infatti, ad ogni allargamento o mutamento delle maggioranze di governo ha sempre corrisposto, fino ad oggi, l’espressione di un nuovo voto di fiducia parlamentare; il che appare del tutto ovvio se si tiene presente lo stretto rapporto stabilito dall’art. 94 Cost. fra il costituirsi di una maggioranza di governo (o il rinnovarsi di essa) e quel consenso sul programma che rende il sistema realmente «parlamentare». La crisi progressiva del quarto governo Berlusconi, contrassegnata, invece, come si è detto sopra, da una forte spinta trasformistica e dal sostanziale disinteresse per i contenuti programmatici del rapporto fra il go-

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verno e la sua maggioranza, e fra questa ed il parlamento, finì per indurre processi degenerativi del nostro modello politico da una forma di governo parlamentare a un modello a-parlamentare, nel quale i contenuti politici e programmatici sopra richiamati sembravano destinati a fondarsi, più che sul consenso delle camere, sul consenso libero dei partiti; partiti, che apparivano, però, come detto, non essere neppure corrispondenti a quei requisiti di partecipazione democratica degli iscritti, richiesti dall’art. 49 Cost. In questo contesto, la crisi economica forse senza precedenti, per così dire, esaltò i condizionamenti di carattere sovranazionale e internazionale che hanno inciso (e stanno incidendo) in modo determinante nel funzionamento della forma di governo. Paradigmatica la lettera, in un primo tempo riservata, ma poi resa pubblica, inviata al governo italiano dai vertici della banca centrale europea (5 agosto 2011) nella quale si qualificavano le misure in materia di sostenibilità di bilancio e le riforme strutturali già adottate «passi importanti, ma non sufficienti», individuando ulteriori azioni di intervento, fino a richiedere un «decreto legge, seguito da ratifica parlamentare entro la fine di settembre 2011», nonché una revisione costituzionale che rendesse più stringenti le regole di bilancio. In vista poi del vertice dei paesi dell’area euro del 26 ottobre 2011, perdurando la crisi, fallita, per contrasti in seno al consiglio dei ministri ed anche per le riserve del presidente della Repubblica, l’ipotesi di un maxi decreto legge contenente una pluralità di rilevanti riforme strutturali (a cominciare da quella del mercato del lavoro), veniva resa nota una missiva, sottoscritta dal presidente del consiglio (ma non, a quanto è emerso, dal ministro dell’economia), recante una serie di riforme che il governo intendeva attuare. Il contenuto della lettera assunse i caratteri di un programma di governo, più articolato di quello esposto alle camere all’inizio della legislatura, peraltro scavalcando sia il consiglio dei ministri (che non sembrava aver discusso il testo) sia il parlamento (che non risultava essere stato nemmeno informato dell’intenzione del governo). Anche per questo il presidente del consiglio rese nota l’intenzione di porre la questione di fiducia sui contenuti della lettera, con ciò dando luogo ad una situazione a dir poco peculiare nell’ottica dell’art. 94 Cost. (quasi come se si fosse in presenza di un nuovo programma affidato al governo in carica). Infine, certo non priva di conseguenze sul piano della forma di governo (e non solo) fu la decisione, non si capisce se assunta volontariamente dal governo italiano, o sostanzialmente imposta dai partners europei, di sottoporre i conti pubblici ad un’attività trimestrale di monitoraggio da parte del fondo monetario internazionale. Significativo a tale proposito quanto dichiarato dal direttore operativo del FMI Christine Lagarde: «Credo che lo scopo di questo esercizio sia di verificare e attestare in modo indipen-

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dente e come terzi, sulla base della nostra esperienza di tali situazioni, se le autorità italiane e l’Italia in generale stanno realizzando quello che hanno promesso» (6 novembre 2011). Da qui la decisione del capo dello Stato di procedere a consultazioni con i gruppi parlamentari, intese ad assicurare che «gli obbiettivi di risanamento finanziario e di rilancio della crescita economica e sociale assunti dalle autorità italiane nelle sedi europee – da ultimo nelle riunioni del 26 ottobre – sono seriamente riconosciuti come impegnativi dal più ampio arco delle parti politiche e sociali» (cfr. anche infra). È in questo contesto di appannamento della leadership del centro destra che si inserì la decisione del PDL, avallata da Berlusconi, di procedere alla nomina di un proprio segretario politico nella persona del ministro della giustizia Alfano, che a seguito del nuovo incarico, lasciò il governo (luglio 2011). Tale vicenda deve essere sottolineata almeno per tre motivi: innanzitutto, la designazione del nuovo segretario non apparve suffragata da un congresso, a prescindere, ancora una volta, dal rispetto del principio di democrazia interna, di cui all’art. 49 Cost.; in secondo luogo, la designazione di un segretario politico (senza che fosse chiara la sorte dei precedenti tre coordinatori del partito, Verdini, La Russa, Bondi) finiva per essere un ulteriore fattore di appannamento della leadership del presidente del consiglio e di conseguente fragilità del governo; in terzo luogo, le dimissioni dal governo del neo-segretario apparivano del tutto in linea con una tradizione italiana di fattuale incompatibilità tra incarichi di governo e incarichi di partito, affermatasi nel periodo anteriore al 1992, ma del tutto fuori asse rispetto ad una presunta evoluzione in direzione di un assetto di «democrazia maggioritaria». Proprio a livello di governo, infatti, nel corso del 2011 erano cresciuti in modo evidenti i contrasti tra i ministri sulle scelte di politica economica e, in particolare, sui tagli alle spese dei ministeri; di particolare gravità fu lo scontro tra il presidente del consiglio e il ministro dell’economia, con il primo che pareva avere sollecitato in più occasioni il secondo alle dimissioni, sempre però rifiutate. Il culmine dello scontro si verificò nell’ottobre 2011 quando il ministro dell’economia prima sembrò addirittura favorevole allo scioglimento anticipato delle camere, come avvenuto in Spagna, poi non si presentò alla camera al voto sul rendiconto generale dello Stato, contribuendo alla sconfitta del governo, quindi cercò di imporre un proprio candidato alla carica di governatore della banca d’Italia (Grilli, segretario generale del ministero del tesoro) in contrapposizione al candidato preferito dal presidente del consiglio (Saccomanni; la contrapposizione fu risolta con la nomina del vice direttore dell’istituto, Ignazio Visco). Al di là delle apparenze, quindi, soprattutto nella «seconda fase» della XVI legislatura né il principio monocratico (nonostante la sovraesposizione politico-mediatica del premier) né il principio collegiale sono apparsi

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quindi valorizzati in modo significativo rispetto al passato, e ciò, come detto, in primo luogo per le ragioni politico-istituzionali cui si è già accennato. Ma non solo. Lo scontro tra il presidente del consiglio e i ministri di settore, da un lato, e il ministro dell’economia richiama, infatti, i già ricordati crescenti condizionamenti di carattere sovranazionale o internazionale nel tessuto della forma di governo che hanno finito per assumere una rilevanza crescente, incidendo anche sulle prerogative dei diversi organi di governo: proprio di fronte al peso determinante del ministro dell’economia sui contenuti degli strumenti giuridici di governo del bilancio (ribaditi, da ultimo, dalla legge n. 196 del 2009), il presidente del consiglio è apparso più un mediatore fra le diverse istanze dei vari componenti dell’esecutivo e dei partiti della maggioranza piuttosto che un soggetto determinatore di indirizzi unitari (E. COLARULLO, Dieci anni di manovre finanziarie. Gli strumenti giuridici di governo del bilancio: critica e riforma, in P. CARETTI, M.C. GRISOLIA, a cura di, Lo Stato costituzionale. La dimensione nazionale e la prospettiva internazionale. Scritti in onore di Enzo Cheli, Bologna, Il Mulino, p. 261). Peraltro, non mancarono scontri, talvolta malcelati, anche tra ministri di settore, in precedenza assai più sfumati, ovvero, infine, tra ministri del PDL ed il loro partito, con relative minacce di dimissioni poi rientrate (così, in momenti diversi, i ministri Galan, Carfagna, Prestigiacomo), tranne quelle di Bondi nel marzo 2011, in polemica con i tagli imposti al ministero dei beni culturali. In questo stesso contesto, fu significativa la vicenda della nomina del sottosegretario Brancher a ministro senza portafoglio per la sussidiarietà ed il decentramento nel giugno 2010 cui seguirono le immediate dimissioni (6 luglio 2010), sia per la sovrapposizione di competenze con il ministro Bossi, sia, soprattutto, per il suo coinvolgimento in una vicenda giudiziaria, con la conseguente richiesta di applicazione della legge n. 51 del 2010 sul c.d. «legittimo impedimento», criticata aspramente dallo stesso capo dello Stato (cfr. la nota del presidente della Repubblica del 25 giugno 2010, in www.quirinale.it). Sempre per vicende giudiziarie o per scandali relativi a vicende private si ebbero, in momenti diversi, le dimissioni del ministro Scajola, cui seguì un interim prolungato del presidente del consiglio, e del sottosegretario Cosentino. Parallelamente, per i mutati equilibri alla camera dei deputati a seguito della formazione del gruppo di FLI, vi fu un uso inedito delle mozioni di sfiducia tanto contro ministri (Bondi, Calderoli, Romano), in alcuni casi del tutto peculiari (si pensi alle conseguenze, sul piano costituzionale, dell’eventuale approvazione della mozione di sfiducia, presentata nel settembre 2010 contro il presidente del consiglio in quanto ministro ad interim dello sviluppo economico), e atti di censura contro i sottosegretari (Cosen-

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tino; Caliendo), con ciò sollevando il problema (non solo teorico) della loro ammissibilità (sul punto, da ultimo, R. CASSANO, La sfiducia ai sottosegretari: tra prassi, regole e convenzioni costituzionali, in Quad. cost., 2010, pp. 627 ss. la quale ricorda che nella prassi tali atti si qualificano sul piano contenutistico come un impegno al governo ad invitare il sottosegretario a rassegnare le dimissioni; cfr. anche supra, par. 4). In questo scenario di insormontabili difficoltà per il governo, di grande fragilità politica e di conflittualità istituzionale, il capo dello Stato finì per assumere di nuovo, ma in un contesto del tutto diverso da quello della stagione dei governi tecnici, un ruolo di stimolo, se non di supplenza. Furono numerosi in questo periodo i richiami all’esercizio celere ed efficiente delle funzioni parlamentari e governative per fronteggiare la crisi economica (si veda il comunicato del 5 settembre 2011), richiedendo alle forze di opposizione di collaborare, quantomeno non ricorrendo a strumenti ostruzionistici, alla conversione in legge prima del d.l. n. 98 del 2011 (11 luglio 2011) e quindi del d.l. n. 138 del 2011, recante interventi anticrisi (12 agosto 2011). La stessa alta funzione di garanzia anche nei rapporti tra maggioranza e opposizione venne esercitata dopo i pesanti incidenti nell’aula della camera, seguita alla contestazione dell’operato del presidente dell’assemblea da parte dei parlamentari del PDL e della lega: in questo caso, il capo dello stato decise di ricevere al Quirinale i capigruppo di camera e senato, fatta eccezione per FLI e i «responsabili» presenti in un solo ramo del parlamento. L’iniziativa ebbe successo, avendo determinato un, almeno parziale, rasserenamento del clima politico. Come accaduto anche in passato, talvolta gli interventi presidenziali suscitarono qualche perplessità, come ad esempio il comunicato del 1° luglio 2011, nel quale il capo dello stato, annunciando di avere emanato l’ennesimo decreto legge sull’emergenza rifiuti in Campania, affermava che il testo «non appare rispondente alle attese e tantomeno risolutivo». Altrettanto irrituale, ma comprensibile per i motivi che la determinarono, fu la lettera inviata ai presidenti delle camere e al presidente del consiglio a proposito dell’iter di conversione del d.l. n. 225 del 2010 (c.d. «milleproroghe») a proposito del quale il capo dello stato lamentava l’inserimento di disposizioni estranee all’oggetto del decreto, eterogenee e di dubbia coerenza con i principi e le norme costituzionali (22 febbraio 2011). Non è questa la sede per valutare la fondatezza dei rilievi presidenziali, basati sul presupposto che la legge di conversione di un decreto legge non costituirebbe un ordinario esercizio dell’attività legislativa (tesi, questa, fatta successivamente propria dalla corte costituzionale): rimane però il fatto che la lettera, pur denunciando evidenti patologie del procedimento legislativo, nella misura in cui prefigurava, in caso di mancato accoglimento dei rilievi in essa inseriti, la possibilità del rinvio alle camere del disegno di legge di conversione con la conseguente decadenza del decreto

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legge, si poneva come uno strumento spurio, finalizzato a prefigurare il futuro esercizio di una prerogativa tipica, quella di cui all’art. 74 Cost., resa in questo caso più ardua dalle conseguenze che essa avrebbe potuto determinare (la decadenza ex tunc della normativa in vigore). Se a ciò ai aggiunge che la lettera fu resa nota nel momento in cui alla camera si stavano valutando le pregiudiziali di costituzionalità, rimangono i dubbi circa un’iniziativa di questo genere, alla luce dell’irresponsabilità presidenziale di cui all’art. 89 Cost.: in questo senso, anche per i numerosi precedenti di decreti legge «milleproroghe» del tutto «stravolti» in sede di conversione da un’alluvionale attività emendativa eterogenea e frammentaria, sarebbe stata forse preferibile la pubblicazione della lettera ex ante, in sede di emanazione del decreto, come una sorta di «monito» preventivo al parlamento. Certamente, l’uso di queste prerogative presidenziali ha risentito, e non poco, dell’eccezionale contesto politico-costituzionale che si è evidenziato soprattutto a partire dalla seconda parte del 2011. Emblematiche da questo punto di vista le consultazioni del capo dello Stato con i gruppi parlamentari (tranne quelli dell’IDV e di «popolo e territorio») per saggiare la disponibilità all’approvazione dei provvedimenti di riforma richiesti dall’unione europea ma, forse, anche per valutare l’ipotesi di costituzione di un nuovo governo, in quel momento possibile (2 e 3 novembre 2011).

10. Le dimissioni del IV governo Berlusconi e la nascita di un nuovo governo «tecnico»: il governo Monti Nei paragrafi precedenti si è ricordato come la crisi «politica» del IV governo Berlusconi (causata dal distacco dalla maggioranza della «componente» di alleanza nazionale; dalla nascita dei nuovi gruppi parlamentari di «futuro e libertà» progressivamente sempre più critica nei confronti dell’esecutivo e «sostituita» nel sostegno al governo da parlamentari fuoriusciti da formazioni di opposizione; dalle ricorrenti polemiche fra il presidente del consiglio ed il suo ministro dell’economia Tremonti) assunse dei connotati del tutto nuovi dopo la lettera inviata al governo dalla banca centrale europea nell’agosto 2011 che conteneva critiche e stringenti suggerimenti in materia di sostenibilità del bilancio italiano e dopo la decisione del fondo monetario internazionale di sottoporre i conti pubblici del nostro paese ad un monitoraggio trimestrale. Di fronte alla crisi politica in atto, e nel perdurante clima di scontro tra la maggioranza (numericamente sempre più fragile) e le opposizioni (divise tra loro circa le prospettive politiche) il ruolo del capo dello Stato si è rivelato tanto decisivo quanto riconosciuto come tale dalle forze politiche. Così, prima ancora dell’apertura formale della crisi di governo, il 1 novembre 2011 Napolitano sollecitava l’esecutivo ad assumere come assolu-

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tamente urgenti «decisioni efficaci nell’ambito della lettera di impegni indirizzata dal governo alle autorità europee», assicurando che «diversi rappresentanti dei gruppi di opposizione gli hanno manifestato la disponibilità a prendersi le responsabilità necessarie in rapporto all’aggravarsi della crisi», ed ammonendo sul fatto che egli avrebbe ritenuto «suo dovere verificare le condizioni per il concretizzarsi di tale prospettiva». Così, in questa situazione inedita e difficilissima, il capo dello Stato, innovando alla prassi già il 3 novembre 2011 avviava «colloqui informali» con le maggiori componenti di maggioranza e opposizione anche allo scopo di rassicurare le istituzioni europee e internazionali nonché i mercati finanziari (nella nota del Quirinale si legge, infatti: «Credo di poter dire ai nostri partner europei, agli osservatori internazionali, e al mondo degli investitori finanziari, che le forze politiche fondamentali, sia di maggioranza sia di opposizione, sono consapevoli della portata dei problemi che l’Italia deve affrontare con urgenza e attraverso sforzi coerenti e costanti nel tempo. Gli obbiettivi di risanamento finanziario e di rilancio della crescita economica e sociale assunti dalle autorità italiane nelle sedi europee – da ultimo, nelle riunioni del 26 ottobre – sono seriamente riconosciuti come impegnativi dal più ampio arco delle parti politiche e sociali»). Questa situazione, aggravata dal voto contrario del parlamento alla approvazione del bilancio consuntivo dello Stato (8 novembre 2011) indusse il presidente del consiglio a presentare al capo dello Stato le sue dimissioni, accompagnate dalla richiesta di nuove elezioni. Il presidente della Repubblica, così come era già accaduto nel 1994 in occasione delle dimissioni del primo governo Berlusconi (e probabilmente anche in occasione della crisi del primo governo Prodi), rigettò la richiesta di scioglimento anticipato ma respinse anche le dimissioni del governo motivando i due rifiuti con la necessità di consentire al parlamento di approvare quella legge di stabilità che doveva contenere le misure richieste dalla BCE e dalla commissione europea. Tuttavia, la constatazione della esistenza di una crisi ormai irresolubile del governo indusse Napolitano ad elaborare una formula, del tutto inedita nella pur complessa storia dei rapporti fra i presidenti della Repubblica e quelli del consiglio; formula in base alla quale il capo dello Stato accettava le dimissioni del presidente del consiglio, che quest’ultimo dichiarava, però, «irrevocabili» alla presenza del segretario generale del Quirinale: precisando che esse sarebbero divenute effettive dopo l’approvazione da parte del parlamento della legge di stabilità. Approvazione che avvenne molto rapidamente (12 novembre) anche grazie a contatti diretti fra Napolitano ed i capigruppo della camera volti a sollecitare che il testo presentato dal governo non fosse modificato. La notevole espansione dei poteri presidenziali che si realizzò nel corso di questa crisi fu, senza dubbio, determinata da una doppia emergenza: quella politica, che abbiamo appena richiamato, e quella economicofinanziaria che divenne drammatica quando, fra il 9 ed il 10 dicembre, il

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differenziale fra i titoli di stato decennali italiani e quelli tedeschi si innalzò da circa tre punti percentuali ad oltre dieci, mettendo in rilievo che il governo aveva perso, oltre alla fiducia del parlamento italiano, anche quella delle istituzioni politiche e finanziare europee nonché di quelle internazionali. Fu questa la ragione per la quale le consuete procedure politiche e costituzionali fino ad allora seguite in occasione delle crisi di governo cedettero allo «stato di necessità»: anche se il capo dello Stato cercò, nei limiti del possibile, di bilanciare quello «stato di emergenza costituzionale» (immaginato molti anni prima da Esposito) con il rispetto della Costituzione formale. In questo quadro, è importante ricordare che il capo dello Stato nominò, subito prima della apertura delle consultazioni per la formazione del nuovo governo (13 novembre), Mario Monti, ex rettore dell’università Bocconi ed ex commissario alla concorrenza dell’unione europea, senatore a vita. Questa nomina era, se non formalmente, sostanzialmente collegata alla decisione già maturata da Napolitano di affidare l’incarico per la formazione del nuovo governo proprio al prof. Monti che, grazie alla nuova carica di senatore a vita, poteva presentarsi di fronte ai partiti ed ai gruppi parlamentari (consultati dal capo dello Stato il 13 novembre in base alla procedura consuetudinaria derivante dall’art. 92 Cost.) con l’autorevolezza che gli derivava da una doppia investitura presidenziale: volta a significare che il capo dello Stato considerava un governo presieduto da Monti l’ultima risorsa che il sistema politico italiano aveva a sua disposizione per evitare la catastrofe politica ed economica del paese. Nella stessa sera del 13 novembre, Giorgio Napolitano conferì a Monti l’incarico, che fu accettato, secondo la tradizione, con riserva. Anche se quell’incarico risultava essere formalmente «non vincolato», un comunicato della presidenza della Repubblica annunciò, però, che il capo dello Stato aveva dichiarato ai soggetti consultati che egli riteneva necessario che il nuovo governo godesse «del più largo appoggio in parlamento sia da parte dello schieramento uscito vincitore dalle elezioni del 2008, sia da parte della minoranza […] per unire forze politiche diverse in uno sforzo straordinario che l’attuale situazione economico finanziaria esige»; sforzo straordinario che giustificava l’affidamento dell’incarico ad una «personalità indipendente», come il prof. Monti «figura altamente conosciuta e rispettata in Europa e nei più larghi ambienti internazionali», senza che questo fosse considerato una rinuncia a riprendere in futuro il percorso verso una compiuta «democrazia dell’alternanza». Nei due intensi giorni di trattative che seguirono all’incarico, i partiti si dichiararono tutti (con l’eccezione della lega nord) favorevoli ad appoggiare il governo ed il suo programma di risanamento straordinario e dar vita, così, ad un governo che avrebbe dovuto qualificarsi, come richiesto dal capo dello Stato, «di larghe intese». Più forti furono, invece, i contrasti sui contenuti della «formula» governativa, perché se è vero che l’affida-

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mento della presidenza del consiglio ad un non parlamentare poteva richiamarsi ai precedenti del governo Ciampi e del governo Dini (e, quindi, a due «governi tecnici», nel senso chiarito nelle pagine precedenti) quelle due esperienze passate non erano in realtà identiche, perché mentre il governo Ciampi era nato, almeno nella sua impostazione originaria, come un governo tecnico ma che si era dichiarato aperto anche alla partecipazione di esponenti dei partiti politici (anche se scelti dal primo ministro) il governo Dini si era invece caratterizzato per una composizione che aveva escluso programmaticamente la presenza di ministri e di sottosegretari parlamentari o «politici» in quanto esponenti dei partiti o da essi indicati. Fu a questa seconda esperienza che il governo Monti dovette, per necessità, richiamarsi perché la maggioranza e la opposizione, che si erano così duramente divise nel corso della XVI legislatura, non potevano più «ricomporsi» in una vera grande coalizione, in una intesa, cioè, che assumesse un significato politico generale in grado di andare al di là della presente emergenza indicata dal capo dello Stato. Il presidente del consiglio fu, in conseguenza, costretto a costituire una compagine governativa composta, come si dirà fra poco, esclusivamente da non politici e ad accettare, così, la natura tecnica del suo governo, anche se il nuovo presidente del consiglio preferì, nel suo intervento programmatico davanti alle camere, qualificarla nuova compagine governativa come «governo di impegno nazionale». Al di là della composizione del governo, tuttavia, la maggior parte dei partiti e dei gruppi parlamentari volle mettere in risalto (sia nella fase delle consultazioni che negli interventi durante il dibattito sulla fiducia) che il loro impegno a sostenere il governo si sarebbe limitato alla realizzazione di quel programma (per la verità assai impegnativo) che il presidente del consiglio aveva loro esposto nelle consultazioni ed aveva poi precisato nel programma presentato al parlamento il 17 novembre e che consisteva nella attuazione degli impegni presi con l’Europa; nella riduzione e nel riordino della spesa previdenziale e della spesa corrente della P.A.; nella abolizione della esenzione dall’ICI delle abitazioni principali; nella dismissione di parte del patrimonio pubblico; nella riforma delle pensioni, del mercato del lavoro e dei servizi pubblici; nella lotta all’evasione fiscale; nella realizzazione di misure macro e micro economiche per la crescita dell’economia; nella riforma della giustizia civile ed infine nella introduzione, come chiesto specificamente dalla unione europea, del vincolo costituzionale al pareggio del bilancio. Come si vede, il programma presentato dal presidente Monti si proponeva obiettivi molto impegnativi e, tuttavia, i partiti (o, meglio, alcuni dei partiti, in particolare il PDL e IDV) che espressero in parlamento il loro consenso a quel programma vollero anche precisare che il loro atteggiamento significava soltanto la loro disponibilità alla approvazione dei singoli punti di esso e che la somma di quei singoli punti non implicava la

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esistenza di un accordo su quell’indirizzo politico generale del governo (o indirizzo politico di maggioranza) che è, invece, presupposto dagli artt. 94 e 95 Cost.: cosicché sarebbe spettato al governo sostenere di volta in volta in parlamento, ed in maniera convincente per tutti i partiti, l’attuazione dei punti programmatici approvati al momento della fiducia. Questa più limitata disponibilità di una parte del parlamento a sostenere il governo solo sui punti emersi nelle consultazioni ed enunciati nel programma se differenziava il governo Monti dai consueti «governi politici» non consentiva, però, di qualificarlo, come fu sostenuto da alcuni commentatori (si veda, fra gli altri, Stefano Ceccanti) come un «governo del presidente». Come abbiamo già detto nelle pagine precedenti, la nozione di «governi del Presidente» risulta, infatti del tutto incompatibile con il nostro sistema costituzionale, nel quale gli artt. 92 e 94 Cost. non possono non essere letti nel loro evidente collegamento funzionale. Collegamento che, se lascia al presidente della Repubblica un’ampia discrezionalità nella procedura di nomina del governo (e questa discrezionalità fu certo ampiamente utilizzata dal presidente Napolitano in tutta quella fase che andò dalla nomina del prof. Monti a senatore a vita, fino al termine delle consultazioni), trova, però, il suo limite ed il suo fine nella costituzionale necessità che la maggioranza del parlamento esprima, entro dieci giorni dal giuramento, un voto di fiducia, comunque motivato, al governo. Tutto questo esclude che la ampiezza della iniziativa del capo dello Stato nella fase della formazione del governo assuma il significato che il presidente possa, da un lato, imporre al governo un proprio indirizzo politico o che, dall’altro, il governo possa essere considerato responsabile di fronte a soggetti diversi da quelli, le camere, che lo hanno investito nella pienezza delle sue funzioni politiche, come ad esempio il capo dello Stato. In conclusione, mentre il definire alcuni governi come «tecnici» significa sottolineare alcune caratteristiche che riguardano la fase della loro formazione (nella quale è vero che il capo dello Stato può assumere un rilievo maggiore del consueto), il carattere della loro composizione ed i contenuti del loro programma, la definizione di un esecutivo come «governo del Presidente» è accettabile solo se con essa si intende sottolineare solo il particolare rilievo assunto dal capo dello Stato sia nella scelta del presidente del consiglio che in quella fase, invece tutta politica, di «ammonimento e di consiglio» delle forze politiche che il presidente della Repubblica può svolgere durante le consultazioni. Fase che, non a caso, è protetta dalla riservatezza, con il solo, ma importante, limite che emerge dalla necessaria trasparenza dell’operato del presidente, ormai sottolineata dalla consuetudine dei comunicati che accompagnano ogni incontro ed ogni iniziativa del capo dello Stato. Da questo punto di vista, dunque, e malgrado un uso del tutto eccezionale dei poteri di iniziativa propri del presidente della Repubblica che fu-

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rono utilizzati da Napolitano nel corso della formazione del governo Monti (dalla già ricordata nomina preventiva a senatore a vita del presidente «in pectore» al dispiegarsi di contatti ed iniziative che precedettero la apertura formale delle trattative; dalla estensione dei contatti e della ricerca di consensi al governo anche nell’unione europea, fino alla fortissima, quasi drammatica, sollecitazione di una tregua politica fra la maggioranza e la opposizione) non può dedursi da questo che il governo avesse fatto proprio un indirizzo politico proprio del presidente e che il governo Monti avesse ottenuto la fiducia e si mantenesse in vita non grazie al sostegno parlamentare ma a quello del capo dello Stato. Il governo Monti assunse, dunque, ed in conclusione, tutti i caratteri di un governo «tecnico», nato cioè per realizzare un programma difficile ma limitato e la sua «tecnicità» si accentuò anche riguardo alla sua composizione, che fu caratterizzata da un’elevata presenza di professori universitari; di esperti tratti dal mondo delle industrie, di quello del commercio e delle banche; da alti funzionari dei ministeri. Ministri tutti non parlamentari e tutti non ascrivibili, almeno formalmente, a nessun partito politico. Ministri tecnici, dunque, anche se scelti in modo da equilibrare la loro qualificazione con una loro vicinanza culturale più o meno accentuata rispetto ai principali orientamenti politici parlamentari. Il governo risultò snello, essendo composto da dodici ministri con portafoglio, da cinque ministri senza portafoglio e da ventinove sottosegretari. La caratura sicuramente tecnica della quasi totalità dei ministri e l’assunzione da parte del primo ministro della responsabilità esclusiva della loro nomina non deve essere intesa, tuttavia, in senso scolastico. Anzitutto, e per quanto riguarda la responsabilità della proposta dei ministri, la inconsueta «solitudine» del primo ministro nella decisione riguardante le nomine fu temperata da una discreta ma costante presenza del capo dello Stato che utilizzò saggiamente il suo maggior potere nei confronti dell’esecutivo: quello di conoscerne gli orientamenti e di consigliarne le decisioni. Inoltre, la decisione presa da Monti, in accordo con i partiti, di procedere al varo di un governo composto esclusivamente da tecnici, rese necessario (per non isolare del tutto il governo dai partiti) coniugare la provenienza tecnica dei ministri con una attenta valutazione dei loro orientamenti politico-culturali (esemplare, a questo proposito, la divisione dei «ministri professori» fra i «bocconiani» e i docenti della università cattolica e la scelta accurata dei ministri provenienti dalla alta burocrazia) in modo da non squilibrare politicamente il governo e non mettere a rischio quella complessiva «neutralità» che costituiva il fondamento e la ragion d’essere del nuovo esecutivo. Un’ultima osservazione deve essere fatta a proposito dell’interim che il presidente del consiglio si riservò attribuendosi le funzioni di ministro dell’economia.

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Da questo punto di vista, vale la pena di ricordare che i problemi del governo Berlusconi erano stati aggravati, soprattutto sul fronte dei rapporti con l’Europa, da una mai realizzata unità di intenti e di comportamenti fra il presidente del consiglio ed il ministro dell’economia Tremonti. In considerazione di questo precedente, che aveva resa evidente la debolezza degli assetti istituzionali del governo nelle materie economiche e fiscali, ed in considerazione della già ricordata emergenza che riguardava proprio quelle materie, sembrò, dunque, opportuno che il presidente del consiglio si assumesse, anche in ragione del suo prestigio e della sua competenza, l’intera responsabilità della politica economica governativa. Responsabilità che, in quel momento, appariva essere particolarmente rilevante non soltanto di fronte al parlamento ma anche nei confronti dell’unione europea che aveva aperto, come già ricordato, una procedura di monitoraggio sullo stato del nostro bilancio e dei nostri conti pubblici. L’interim del ministero dell’economia sarebbe cessato, tuttavia, nel mese di luglio, al termine della prima, intensa, fase di attività del governo Monti quando, impostate le maggiori riforme che riguardavano la spesa pubblica e negoziato in Europa il fiscal compact, il presidente del consiglio propose al capo dello Stato la nomina di Vittorio Grilli, direttore generale del Tesoro, a nuovo ministro dell’economia e istituì, in seno al governo, un «comitato per il coordinamento della politica economica e finanziaria» da lui presieduto e composto dai ministri competenti in quelle materie. È necessario, a questo punto, concludere il discorso, già iniziato, sul carattere «tecnico» del governo Monti per richiamarci ancora al procedimento di formazione del governo in relazione a due punti fondamentali: la nascita del programma ed il suo contenuto. Nei governi politici il programma di governo nasce, come si è già accennato, da una trattativa fra i partiti della coalizione di governo che è diretta, o almeno «mediata», dal presidente del consiglio incaricato che si assume il compito, spesso difficile, di imprimere una unità di indirizzo politico alle diverse proposte ed ai diversi orientamenti che sono espressi dai partiti. I governi tecnici nascono, invece, come si è detto sopra, in situazioni determinate, come nella crisi del IV governo Berlusconi, da una crisi non ricomponibile della maggioranza di governo e dalla impossibilità di sostituire la vecchia maggioranza con una nuova maggioranza politica in grado di coalizzarsi intorno ad un diverso ma solido indirizzo di governo. È del tutto naturale, dunque, che in quelle crisi eccezionali che richiedono la formazione di un nuovo governo malgrado la inesistenza di un indirizzo politico espresso direttamente da una solida maggioranza parlamentare, la iniziativa sul programma di governo sia rimessa non ai partititi ma al presidente incaricato al quale spetta il difficile compito di trattare con i partiti politici disposti a sostenere il governo acquisendo il loro consenso

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sui capisaldi politici del programma senza rinunciare, però, a quella equidistanza dalle parti che sostituisce la naturale unità di indirizzo politico che è propria dei governi parlamentari politicamente caratterizzati. La eccezionale situazione di crisi economica e finanziaria, la profonda sfiducia fra i partiti della ex maggioranza e della ex opposizione, richiedevano, dunque, come del resto emergeva dal sopra ricordato comunicato del Quirinale, un «passo indietro» dei partiti ed il conferimento al governo di una sostanziale delega fiduciaria riguardante non solo la composizione del governo ma anche, e soprattutto, i punti fondamentali del programma. Le rapide consultazioni fra il presidente incaricato e le delegazioni dei partiti politici durante le due giornate delle trattative di governo mirarono, infatti, proprio a costituire un consenso fiduciario su questi due punti fondamentali. Consenso che incluse l’affidamento al governo della esclusività della iniziativa politica riservando ai partiti la facoltà di esprimere successivamente in parlamento il loro orientamento sulle singole misure che sarebbero state presentate dal governo. Paradossalmente, tuttavia, proprio l’assunzione in proprio nelle mani del governo della responsabilità della costruzione del programma portò a far assumere al programma di governo una importanza molto maggiore di quanto non era avvenuto durante la formazione dei tradizionali governi politici. Il programma presentato da Monti alle camere il 17 novembre 2011 è, infatti, come detto, contrassegnato da un lungo e dettagliato elenco di misure concrete che il governo intendeva presentare al parlamento per corrispondere a quell’«impegno nazionale» destinato a sostituire, durante la vita del governo, la normale dialettica politica di parte. La natura «tecnica» del governo Monti emerse, dunque, come nelle analoghe esperienze dei governi Ciampi e Dini, dalla assoluta prevalenza che il programma di governo assegnava alle cose da fare rispetto alle premesse ed agli obiettivi politici generali che costituiscono, invece, la naturale priorità dei governi politici. Il «passo indietro» dei partiti non consistette, dunque, nel disconoscimento della legittimità della lotta politica ma nella temporanea sospensione di essa in nome di un superiore interesse nazionale imposto dall’emergere di una gravissima crisi nazionale ed internazionale. Del resto la necessità di quell’«impegno nazionale» evocato da Monti nella richiesta di fiducia, fu confermata dal sostegno quasi plebiscitario che le camere espressero al governo (556 voti alla camera; 281 al senato, dato paragonabile solo a quella ottenuta nel 1978 dal quarto governo Andreotti nella stagione della «solidarietà nazionale»). Tali numeri differenziavano profondamente l’esordio del governo Monti rispetto ai precedenti governi tecnici che erano stati varati con un consenso meno vasto e con un condizionamento assai più marcato da parte delle forze politiche. Tuttavia, malgrado la sua larga maggioranza iniziale, la navigazione

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parlamentare del governo Monti fu però assai travagliata perché, se è vero che i partiti si erano impegnati a lasciare al governo la pienezza della proposizione dell’indirizzo politico, essi si erano, però, riservati di esprimersi poi con una sostanziale libertà di giudizio in parlamento al momento della discussione sui singoli disegni di legge governativi. Anche se non è possibile esaminare in questa sede l’attuazione concreta che venne data dal governo Monti già durante i primi mesi della sua esperienza alle proposte contenute nel suo programma, si può, però, sottolineare il fatto che proprio nei disegni di legge politicamente più impegnativi (lavoro, IMU, pensioni, pareggio di bilancio) funzionò quel patto politico siglato fra il governo ed i partiti al momento della formazione del governo. Patto che, come si è accennato, prevedeva una sostanziale «riserva» del governo nella progettazione delle misure di riforma, compensata, però, dal possibile intervento dei partiti sul merito delle riforme (intervento che si manifestò attraverso «vertici» fra Monti ed i segretari di tutti i partiti e i più frequenti incontri fra il presidente del consiglio ed i singoli partiti) e da un più accentuato ruolo dei gruppi parlamentari nella fase parlamentare di discussione e di approvazione dei disegni di legge proposti dal governo. In questo contesto, il governo fu costretto a fare frequentemente ricorso alla questione di fiducia (in totale si tratta di 51 votazioni fiduciarie per l’approvazione di 19 provvedimenti, di cui 15 decreti legge: G. SAVINI, L’attività legislativa tra Parlamento e Governo: continuità e innovazioni nell’esperienza del Governo Monti, Padova, Cedam, 2014, p. 105). Il ricorso ad uno schema classicamente parlamentare nella discussione ed approvazione dei disegni di legge anche di conversione dei decreti legge proposti dal governo portò, come è ovvio, alla posizione, da parte del governo di numerose questioni di fiducia soprattutto sulle questioni che riguardavano il risanamento economico e finanziario, il fiscal compact ed in generale, su tutte le misure considerate rilevanti nei rapporti con l’unione europea. Su questi punti, considerati dai partiti come facenti parte della emergenza e, quindi, di quell’impegno nazionale sopra ricordato, il governo poté contare, alla fine, sull’appoggio dei partiti che si erano impegnati al momento della fiducia (PDL, PD, UDC) mentre il gruppo parlamentare dell’Italia dei valori ben presto passò all’opposizione insieme alla lega nord che non aveva votato la fiducia. I gruppi parlamentari, invece, si allontanarono ben presto dal patto di programma sottoscritto con il governo su una serie di questioni di carattere più accentuatamente politico, quali la riforma della giustizia; quella delle pensioni; le intercettazioni; la corruzione; la riforma della pubblica amministrazione. Fu su questi problemi che si manifestò il limite insuperabile della stessa formula del «governo tecnico», in quanto vennero, alla fine, a scontrarsi il carattere inevitabilmente politico di quei temi e la originaria assenza di un intesa politica generale fra i partiti della coalizione: cosicché le divergenze fra i partiti portarono, prima, al manifestarsi di un

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diffuso ostruzionismo esercitato da singoli gruppi parlamentari contro i disegni di legge controversi (clamoroso fu il caso del «sequestro» ad opera dei partiti del tema della riforma elettorale che pure era compresa nel programma presentato alle camere) poi ad una progressiva «diaspora» dei partiti che avevano votato originariamente la fiducia al governo, i quali bloccarono per mesi (malgrado i ripetuti appelli del presidente della Repubblica) la discussione anche nelle commissioni competenti, espropriate da colloqui diretti, «riservati» ma infruttuosi fra le delegazioni dei partiti. Così, prima l’IDV, e successivamente il PDL, si dissociarono, in maniera diversa, dal governo, che finì, così, per mutare, se non la sua formula, almeno il suo orientamento politico in quanto si trovò ad essere sostenuto da una maggioranza facente capo al PD, alla UDC e ad un’area di centro che si era progressivamente rafforzata attraverso il consueto fenomeno del «transfugismo». Un’area che concordava sempre più pienamente con gli indirizzi di Monti, finendo per identificare in lui non il presidente di un governo tecnico e di emergenza ma un vero e proprio leader politico che avrebbe potuto guidare uno schieramento politico nuovo nelle elezioni che sarebbero seguite, nei primi mesi del 2013, allo scioglimento delle camere al compimento del quinquennio della XVI legislatura. Questo fu, infatti, quello che accadde negli ultimi mesi di vita del governo, complicati da un sempre più difficile raggiungimento degli obiettivi programmati; da una polemica sempre più marcata non soltanto fra i partiti che si erano dissociati dall’esecutivo e quelli che erano rimasti nella maggioranza ma talvolta fra gli stessi gruppi parlamentari della maggioranza e complicati anche dall’approssimarsi dalla scadenza del mandato del capo dello Stato. La vita del governo fu, infine, resa ancora più difficile per l’annuncio, dato inaspettatamente da parte del presidente del consiglio, di voler «salire in politica», dando vita ad un movimento politico autonomo («scelta civica») che si sarebbe presentato alle ormai prossime elezioni. Annuncio, quest’ultimo, che, seppure poteva giovarsi del «precedente» di Lamberto Dini (con la formazione di «rinnovamento italiano») sollevò giustificate perplessità (e, sembra, dissensi fra il presidente del consiglio ed il capo dello Stato) in considerazione della circostanza, già ricordata, che la nomina a senatore a vita del prof. Monti precedentemente al suo incarico di formare il governo aveva avuto il fine di porre la persona del presidente del consiglio al di sopra della contesa partitica, di accentuare il suo carattere di garante e riconoscergli il ruolo di una personalità che aveva impegnato il suo nome e la sua opera non in vista di una carriera politica futura ma per il bene esclusivo della nazione. Gli ultimi mesi del governo Monti assomigliarono, in conclusione, a quanto era accaduto molte altre volte nella nostra storia parlamentare: la crescita progressiva dei dissensi fra i partiti appartenenti ad una coalizione di governo all’approssimarsi delle elezioni politiche per acquisire visibilità e consenso rispetto ai diversi elettorati di riferimento. Con la inevi-

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tabile, conseguente perdita non solo della coesione ma della stessa efficienza della azione governativa. In questa situazione, e perdurando ancora molti di quei problemi strutturali che avevano costretto ad una esperienza così eccezionale, il capo dello Stato cercò ripetutamente di rassicurare l’opinione pubblica nazionale ed internazionale sottolineando che l’Italia avrebbe affrontato la transizione fra le due legislature con un governo non sfiduciato ed in grado, per questo, di continuare a dirigere la nostra situazione economica e finanziaria. Tuttavia, si dovette constatare, alla fine di quella esperienza, che il tentativo di Napolitano di suscitare, attraverso il governo Monti, una solidarietà nazionale che comprendesse la maggioranza e la minoranza per riprendere, dopo la fine della legislatura un percorso condiviso verso una democrazia dell’alternanza, non raggiunse il fine prefisso. Oltretutto, la precoce rottura di quella solidarietà ricercata dal capo dello Stato impedì anche la doverosa riforma della legge elettorale fatta approvare dal governo Berlusconi nel 2005. Legge considerata, paradossalmente, da tutti i partiti, anche da quelli che la avevano approvata, pessima dal punto di vista della governabilità ed incostituzionale: dal punto di vista della governabilità, essa prevedeva quorum diversi fra la camera ed il senato al fine dell’attribuzione del premio di maggioranza; mentre, dal punto di vista della costituzionalità, i quorum prescindevano dal raggiungimento una soglia minima e gli elettori dovevano limitarsi ad esprimere il proprio voto a liste di partito decise unilateralmente dalle direzioni nazionali e regionali dei partiti stessi. Nella fase finale della legislatura, divenne, tuttavia, evidente che anche i partiti della vecchia minoranza che erano favorevoli, in teoria, a modificare quei principi non erano diventati, però, insensibili ai vantaggi che quegli stessi principi avrebbero attribuito alle classi dirigenti di tutti i partiti, piccoli e grandi. Fu, dunque, con quella legge che gli italiani furono, alla fine, chiamati a votare il 23 febbraio del 2013. In conclusione, dal quadro complessivo che riguarda la formazione ed il funzionamento del governo Monti emergono alcune caratteristiche strutturali che differenziano sicuramente quell’esecutivo dalle comuni modalità di formazione e di funzionamento dei governi che nascono attraverso la diretta iniziativa dei partiti. Anzitutto, la assenza, il «passo indietro» compiuto dai partiti durante il procedimento di formazione del governo per quel che riguarda la composizione del governo tecnico ed il suo programma, ha fatto ritenere ad alcuni osservatori che si sarebbe così determinato una sorta di «stato di emergenza» costituzionale risolto soltanto attraverso un uso del tutto eccezionale dei poteri propri del capo dello Stato. Chi ha sostenuto queste tesi ha trascurato di osservare, però, che le norme che regolano nella Costituzione il processo di formazione dei go-

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verni (artt. 92-94 Cost.) attribuirebbero ai partiti un ruolo ben più limitato di quello che si è affermato nella prassi interpretativa della Costituzione. Se è vero, infatti, che spetta ai partiti di contribuire alla determinazione della politica nazionale (art. 49 Cost.) ed appare, dunque, del tutto corretta la prassi che prevede la consultazione dei partiti, dei loro gruppi parlamentari e dei loro leaders prima del conferimento dell’incarico da parte del capo dello Stato (in quanto, senza le indicazioni dei partiti il presidente della Repubblica non potrebbe procedere né alla scelta dell’incaricato, né a quella della «formula politica» del governo), appare, invece, contraria alla Costituzione quella prassi in base alla quale i partiti si sono autoattribuiti poteri sostanziali in ordine alla composizione nominativa del governo ed al suo programma invadendo, così, competenze che la Costituzione attribuisce invece al capo dello Stato, al presidente incaricato ed al consiglio dei ministri. La formazione del governo Monti appare, così, se si ripercorre il procedimento che è stato seguito dal capo dello Stato e dal presidente incaricato, singolarmente più vicina alle norme ed allo spirito della Costituzione dei procedimenti seguiti nella formazione della maggior parte dei «governi politici». Il presidente della Repubblica ha, infatti, nominato il presidente incaricato dopo aver consultato i partiti e dopo aver ricevuto il consenso di una larga parte di questi sull’unico nome sul quale sarebbe stato possibile realizzare una convergenza tale da consentire la formazione di un governo stabile ed efficiente. Il presidente incaricato ha, da parte sua, dato luogo a consultazioni tutt’altro che formali con i partiti politici acquisendo, come si è ricordato più sopra, un largo consenso in ordine ad un governo composto da ministri indicati dallo stesso incaricato e ad un programma discusso con i partiti nei suoi capisaldi politici ma i cui contenuti erano rimessi alla autonoma deliberazione del governo. In definitiva, il largo voto di fiducia ottenuto alla fine del procedimento di formazione del suo governo dal presidente Monti non ha «sanato» nessuna emergenza costituzionale e nessun enlargement of functions del capo dello Stato ma ha, casomai, dimostrato l’adesione del parlamento a quella interpretazione della crisi che era stata data dal capo dello Stato e dal presidente del consiglio. Con tutto questo, non si intende nascondere che, nella vicenda che abbiamo ripercorso, non si sia manifestata una crisi. La crisi c’è stata ed è stata quella, gravissima, dei partiti politici e di quella forma di governo che essi avevano elaborato a partire dalle elezioni del 1996: il bipolarismo, declinato nelle sue diverse versioni ed affondato, infine, come abbiamo detto più sopra, nel «parlamentarismo degenerato» nato dalla crisi del IV governo Berlusconi. Come accadde nel 1993 e nel 1994, quando fu necessario ricorrere ai «governi tecnici» di Ciampi e di Dini, anche nel 2011 la crisi del sistema

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politico è stata così profonda da rendere necessaria una soluzione non partitica della crisi di governo e, tuttavia, il corretto intervento delle istituzioni e la intelligente flessibilità delle norme della Costituzione in materia di forma di governo hanno consentito di non trasformare la crisi dei partiti in una crisi del sistema democratico.

Capitolo Sesto

Gli sviluppi della forma di governo nella XVII legislatura SOMMARIO: 1. L’inizio della XVII legislatura. I risultati delle elezioni del 23 e 24 febbraio 2013 e la fine del «bipolarismo». Il semestre bianco e la crisi di governo. La «commissione dei dieci». – 2. La «storica» rielezione del presidente Napolitano. – 3. La formazione del governo Letta. Il ruolo del capo dello Stato. L’incarico, le trattative, il programma e la fiducia. – 4. La fiducia al governo Letta. Il disegno di legge costituzionale di «deroga» all’art. 138 Cost. La nomina della «commissione per le riforme costituzionali». La crisi della «grande coalizione». La nascita del nuovo centro destra e le dimissioni del governo. – 5. Le consultazioni e la formazione del governo Renzi. Il nuovo governo ed il discorso programmatico del nuovo presidente del consiglio. La composizione del governo. Il presidente della Repubblica, il governo ed il problema delle riforme istituzionali. – 6. Il governo Renzi e l’attuazione del suo programma. Le dimissioni di Napolitano e la elezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica. Il «patto del Nazareno» e l’eclissi della forma di governo parlamentare.

1. L’inizio della XVII legislatura. I risultati delle elezioni del 23 e 24 febbraio 2013 e la fine del «bipolarismo». Il semestre bianco e la crisi di governo. La «commissione dei dieci» I risultati delle elezioni del febbraio 2013 hanno smentito i calcoli dei partiti, e soprattutto di quelli maggiori, convinti che, con il superamento della fase più acuta dell’emergenza economico finanziaria, il sistema politico italiano avrebbe ripreso a funzionare in base ai principi di un modello sostanzialmente bipolare. Il primo elemento da sottolineare è infatti dato dal crollo delle due coalizioni principali (alla camera il centro destra ha perso 7.122.906 voti, ovvero il 41,8% del proprio elettorato; il centro sinistra 3.639.937, ovvero il 26,6% del proprio elettorato) e dal conseguente successo del movimento 5 stelle che ha ottenuto 8.691.406 voti alla camera (25,6%) nelle circoscrizioni nazionali (mai era accaduto nell’Europa occidentale che un partito alla sua prima apparizione in elezioni non fondative di un regime democratico avesse ottenuto un risultato di tal genere); la nuova formazione di Monti (scelta civica) si è fermata al di sotto del 10% e sono praticamente

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scomparsi alcuni partiti significativi della precedente legislatura come l’IDV e la UDC. In questo contesto, i sistemi elettorali di cui alla legge n. 270 del 2005 hanno finito per «regalare» al PD un risultato senza precedenti nel rapporto tra voti e seggi ottenuti (con il 25,4% dei voti alla camera ha ottenuto 292 seggi, un risultato inferiore solo a quello ottenuto nel 1948 dalla DC che aveva ottenuto 305 seggi avendo però il 48,5% dei voti; il tutto esaltato dalla diversità dei votanti: nel 1948 furono il 92,2%; nel 2013 sono stati il 75,2 nelle circoscrizioni nazionali). Il «costo seggio» alla camera è stato di 29.552 voti per la coalizione di centro sinistra, a fronte di circa ottantamila voti per le altre liste (sul punto, in particolare, N. D’AMELIO, La difficile convivenza di due sistemi elettorali, in I. DIAMANTI, a cura di, Un salto nel voto. Ritratto politico dell’Italia di oggi, Roma-Bari, Laterza, 2013, p. 138). Dalle elezioni del 2013 è uscito ridimensionato (per non dire «ripudiato») il bipolarismo, che aveva connotato, sia pure tendenzialmente, il sistema politico italiano dopo il 1996. In definitiva, lo scenario determinato dalle elezioni del 2013, efficacemente definito di «minoranze in-comunicanti», appare, come è stato sostenuto, «necessariamente instabile e provvisorio. Dove nessuno è in grado di tracciare un percorso definito. Di proporre modelli di riferimento, in ambito politico. Dove è difficile ogni mediazione, ogni negoziato, ogni compromesso. E dove nessuno ha la forza di opporsi agli altri» (I. DIAMANTI, 2013: il Paese delle minoranze in-comunicanti, in ID., a cura di, Un salto nel voto, cit., p. XXIV); uno scenario che «sembrava» avere definitivamente acclarato una crisi politica (peraltro risalente), forse paragonabile nella sua gravità solo a quella del 1992-1993 senza però lasciare intravedere nuove prospettive ma solo pesanti incertezze che gli eventi successivi, tra scissioni, formazione di nuovi soggetti politici e persistenti tensioni interne a pressoché tutti i partiti, avrebbero contribuito solo parzialmente a dipanare. In questa situazione, l’esistenza di un premio di maggioranza che avrebbe dovuto consentire comunque una governabilità attribuendo al primo dei partiti una maggioranza in ciascuna delle due camere non ha funzionato perché, mentre il PD è riuscito a sopravanzare alla camera, anche se per poche centinaia di migliaia di voti, il PDL, al senato, nel quale i premi di maggioranza sono stati attribuiti regione per regione, il risultato complessivo è stato tale da non dar luogo a nessuna maggioranza politicamente praticabile. Il procedimento di formazione del nuovo governo, che il presidente della Repubblica ha aperto «con tutte le forze politiche rappresentate in parlamento» il 21 marzo dopo la nomina degli uffici di presidenza delle due camere, si è presentato, perciò, particolarmente difficile perché, come ricordato dal capo dello Stato nel suo comunicato del 22 marzo 2013, i risultati del voto hanno dimostrato «la vastità e l’acutezza del malessere sociale» insieme con l’insoddisfazione dell’elettorato (dimostrata anche dalla altissima

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astensione dal voto) «nei confronti del sistema dei partiti e dei vigenti meccanismi politico-istituzionali». Il comunicato del Quirinale sottolineava, anzitutto, la diversità delle risposte che erano state date al presidente da parte delle forze politiche consultate; risposte che erano variate dalle «istanze di radicale cambiamento» richieste dal movimento 5 stelle alla «esigenza di un governo di larga unione» proposta dalla coalizione guidata dall’on. Berlusconi fino alla prefigurazione di un governo guidato dal partito democratico rappresentata dalla coalizione guidata dall’on. Bersani. Il presidente metteva in rilievo che i risultati del voto e le valutazioni espresse dai partiti impedivano la realizzazione di quella «esigenza di larghe intese tra gli opposti schieramenti» da lui auspicate anche negli anni precedenti ma sottolineava che non toccava comunque a lui «vagliare piattaforme programmatiche su cui dovranno pronunciarsi partiti e gruppi parlamentari». Tuttavia, la necessità costituzionale di far nascere un nuovo governo e la considerazione che i poteri presidenziali di nomina del presidente del consiglio appaiono subordinati «soltanto al fine della formazione di un governo in grado di ottenere la fiducia delle camere» consentivano al capo dello Stato «specie in assenza di risolutivi risultati elettorali, la necessaria discrezionalità anche attraverso la creazione di diverse figure di incarico». In conseguenza, il presidente conferiva «in continuità con eloquenti, appropriati e non lontani precedenti all’on. Pierluigi Bersani l’incarico di verificare l’esistenza di un sostegno parlamentare certo; tale da consentire la formazione di un governo che ai sensi del primo comma dell’art. 94 della Costituzione abbia la fiducia delle due camere. Egli mi riferirà (concludeva il presidente) sull’esito della verifica compiuta appena possibile». Queste parole sottolineano con condivisibili argomentazioni, come i poteri che il capo dello Stato esercita nel procedimento di formazione del governo possono variare, in relazione alla concreta situazione politica che egli deve affrontare, da quel massimo, sopra ricordato, che Napolitano aveva messo in atto nel novembre 2012 a quel ritorno ai precedenti della prima e della seconda esperienza repubblicana che egli ha dovuto ripercorrere, invece, nel marzo 2013. Differenze che sarebbero apparse chiare, confrontando la forza ed il significato quasi ultimativo dell’incarico che egli aveva conferito a Mario Monti con il contenuto del mandato conferito all’on. Bersani il 22 marzo del 2013. Incarico che si richiamava a quei numerosi preincarichi o incarichi ad referendum che erano stati consueti nella storia della Repubblica fondata sul sistema proporzionale ma che erano riapparsi anche successivamente, ad esempio con gli incarichi esplorativi conferiti a Prodi e a D’Alema nel 1998 (anche in quei casi, infatti, il comunicato del Quirinale aveva alluso al compito di «verificare l’esistenza di un sostegno parlamentare certo» e di riferire «nel più breve tempo possibile»); non a caso, Napolitano aggiungeva poi nella dichiarazione alla stampa che il compito attribuito a Bersani avveniva «in conti-

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nuità con eloquenti, appropriati e non lontani precedenti», per prendere atto che la situazione politica determinata dalle elezioni non aveva dato luogo ad una identificabile maggioranza di governo e che sarebbe, dunque, spettato all’incaricato convincere forze politiche disomogenee ad accordarsi per raggiungere quel minimum che è richiesto dalla Costituzione: una maggioranza, anche se relativa, di consensi su un programma, anche se minimo, di governo. D’altra parte, la formula del preincarico era quella che più si attagliava alla situazione politica del momento, dato che l’istituto è normalmente conferito ad un esponente politico potenzialmente idoneo a costituire un governo «ma in modo da non esporlo subito ad un possibile fallimento delle trattative» (L. PALADIN, Diritto costituzionale, cit., p. 378). In realtà, l’on. Bersani rivendicava discutibilmente l’incarico attribuitogli come un incarico ad referendum e ad agendum. Tuttavia, il capo dello Stato lasciava che l’incaricato prolungasse i suoi tentativi di trovare una maggioranza attraverso lunghe e ripetute trattative con tutte le delegazioni dei partiti e dei gruppi. Trattative che non portavano ad alcun risultato non soltanto per le divergenze che si manifestavano sulla formula e sul contenuto del nuovo governo ma anche perché, in realtà, né il PDL né il movimento 5 stelle (che Bersani aveva cercato di coinvolgere nel governo) erano disposti a riconoscere che il candidato primo ministro del PD alle elezioni del 24 febbraio fosse, in realtà, risultato vincitore e che il suo partito avesse, in conseguenza, un titolo politico che lo autorizzava a governare. Infine, dopo circa due settimane di inutili trattative, l’on. Bersani fu costretto a lasciare nelle mani del capo dello Stato una situazione molto difficile (il comunicato del Quirinale si riferiva, in modo ambiguo, al fatto che l’esito delle consultazioni non era stato «risolutivo», tanto che una nota del PD alludeva non ad una rinuncia, ma ad una sorta di «sospensione» del reincarico in attesa di sviluppi politici). Rimangono, da parte di alcuni, perplessità derivanti dal vincolo ad un «sostegno parlamentare certo», non richiesto in altre circostanze (soprattutto nelle prime legislature) in presenza di una situazione politica incerta che renda non del tutto sicuro l’esito della votazione fiduciaria (M. OLIVETTI, Il tormentato avvio della XVII legislatura: le elezioni politiche, la rielezione del Presidente Napolitano e la formazione del governo Letta, in Scritti in onore di A. D’Atena, III, Milano, Giuffrè, 2015, pp. 2221 ss.), come nel caso di specie, in uno dei due rami del parlamento (essendo possibili quantomeno un certo numero di astensioni o di assenze politicamente significative) e quindi rendendo arduo comprendere se si versi nella situazione, costituzionalmente inammissibile, di un governo destinato a vedersi negata la fiducia «al di là di ogni ragionevole dubbio» (R. IBRIDO, I Governi privi della fiducia iniziale: precedenti costituzionali, riferimenti comparativi e ipotesi interpretative, in Dir. pubbl., 2015, p. 804).

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Di fatto, però, il tentativo di Bersani non solo non era giunto a nessuna soluzione certa, ma aveva addirittura reso più difficili i rapporti fra le forze politiche che si dimostravano divise fra il centro destra, favorevole, come si è detto, ad un governo di larghe intese (ma non presieduto da Bersani); il movimento 5 stelle (che riusciva soltanto a giocare un ruolo di interdizione contro i partiti e la democrazia rappresentativa tradizionale); scelta civica, che insisteva sulla riedizione di un governo di tipo tecnico che rimettesse in gioco Monti, ed il PD, profondamente lacerato al suo interno fra le obiezioni della sua ala sinistra e la emergente ed aggressiva leadership politica di Matteo Renzi. In una situazione di normalità politica ed istituzionale, la soluzione più corretta sarebbe stata quella dello scioglimento delle camere e del ritorno alle urne, dato che nelle democrazie rappresentative la impossibilità di funzionamento del parlamento trova il suo arbitro naturale nel corpo elettorale. Come abbiamo ricordato poco sopra, il mandato del presidente della Repubblica era, però, giunto, ormai, ad un mese dalla sua scadenza, il che rendeva impossibile lo scioglimento anticipato del parlamento e rendeva anche impossibile una nuova iniziativa presidenziale nella formazione del governo adeguata alla complessità ed alla presumibile durata della crisi. Questo non impediva a Napolitano di aprire, il 29 marzo, le nuove consultazioni con le forze politiche che si concludevano con l’accertamento «di posizioni nettamente diverse rispetto alle possibili soluzioni da dare alla formazione del nuovo governo» (così, la dichiarazione rilasciata dal capo dello Stato il 30 marzo 2013). È evidente che il presidente non avrebbe potuto procedere ad una formale sospensione della procedura di formazione del governo prevista ed imposta dall’art. 92 Cost. in attesa della nomina del nuovo capo dello Stato (nomina che avrebbe presumibilmente richiesto tempi non brevi), mentre erano, invece, oggettivamente, estremamente limitate le sue «possibilità di ulteriore iniziativa sulla formazione del governo» (cfr. la dichiarazione ult. cit.). In questo senso, l’ipotesi di dimissioni del capo dello Stato, che pure era circolata in quei giorni, non solo non avrebbe risolto i problemi ma avrebbe rischiato «di convertire una crisi politica in crisi istituzionale» (R. IBRIDO, I Governi privi della fiducia iniziale, cit., p. 778), se non altro per i problemi costituzionali derivanti dal coinvolgimento del supplente del capo dello Stato nella formazione del nuovo governo (si consideri, sul punto, che nel settembre 1980 la crisi del secondo governo Cossiga ebbe luogo quando il capo dello Stato si trovava in Cina ma le dimissioni del governo vennero formalizzate al suo ritorno in Italia; fu quindi il Presidente della Repubblica a iniziare le consultazioni che portarono al governo Forlani). In questa difficile situazione, il presidente ha ritenuto solo di poter «concorrere a creare condizioni più favorevoli allo scopo di sbloccare una

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situazione politica irrigidita», attraverso la inedita, e forse discutibile, decisione di nominare una commissione composta da «personalità fra loro diverse per collocazione e competenze […] per formulare su essenziali temi di carattere istituzionale e di carattere economico sociale ed europeo […] precise proposte programmatiche che possano divenire in varie forme oggetto di condivisione da parte delle forze politiche». La commissione era articolata in due gruppi di lavoro, uno in materia istituzionale, l’altro in materia economico-sociale ed europea (del primo furono chiamati a far parte il prof. Valerio Onida, il sen. Mario Mauro, il sen. Gaetano Quagliariello, il prof. Luciano Violante; del secondo il prof. Enrico Giovannini, presidente dell’Istat, il prof. Giovanni Pitruzzella, presidente dell’autorità garante della concorrenza e del mercato, il dott. Salvatore Rossi, membro del direttorio della banca d’Italia, l’on. Giancarlo Giorgetti e il sen. Filippo Bubbico, presidenti delle commissioni speciali operanti nei due rami del parlamento, Enzo Moavero Milanesi, ministro degli affari europei del Governo Monti). Non era la prima volta che un presidente della Repubblica utilizzava i pur vasti poteri a lui concessi dall’art. 92 Cost. per inserire nel procedimento di formazione del governo personalità che non appartenevano al mondo della politica o a quello delle istituzioni, pur largamente inteso, come era accaduto quando, in anni precedenti, erano stati consultati, ad esempio, esponenti delle organizzazioni imprenditoriali o dei lavoratori o, addirittura, nel corso della grave crisi del primo Governo Moro, il comandante generale dell’arma dei carabinieri, gen. De Lorenzo. Tuttavia, la nomina di una commissione di «saggi», che avrebbe dovuto esprimere «precise proposte programmatiche» era, invece, destinata ad inserirsi con particolare rilievo nel procedimento di formazione del governo, in quanto, nella prospettiva fatta propria dal capo dello Stato, quelle proposte avrebbero dovuto essere sottoposte dal futuro presidente incaricato all’attenzione delle forze politiche da lui consultate nella formazione di una parte determinante del programma di governo: quella economica, quella istituzionale e quella concernente il rapporto con l’Europa. In effetti, quella commissione (detta «commissione dei dieci» dal numero dei suoi membri) fu effettivamente costituita e formulò un documento nel quale veniva suggerita l’opportunità di una serie di riforme che cercavano di dare risposte (più o meno convincenti) soprattutto a quelle preoccupazioni riguardanti «il sistema dei partiti e dei vigenti meccanismi politico-istituzionali» (cioè la necessaria riforma della forma di governo vigente) che il presidente aveva espresso nella sua dichiarazione del 22 marzo sopra ricordata. La impossibilità di proseguire le consultazioni a causa della necessità di convocare la seduta comune delle camere e dei delegati regionali per la elezione del nuovo presidente della Repubblica, che avvenne agli inizi di febbraio, accantonò, per il momento, il significato dell’inserimento di una commissione formata da «saggi» di nomina presi-

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denziale nel processo di formazione del governo, rinviando alle decisioni del nuovo capo dello Stato, la conferma o la revoca di quella innovazione. Era chiaro, infatti, che questa innovazione desse luogo a un dibattito, e non solo a livello dottrinale. Lo stesso Napolitano in una dichiarazione il 2 aprile 2013 dovette chiarire, «visto che questa modesta decisione – perché si tratta di una decisione di portata assai limitata – ha dato luogo anche a reazioni di sospetto e interpretazioni francamente sconcertanti», che «qui non si crea nulla che possa interferire né nell’attività del parlamento, anche in questa fase in cui lavora nei limiti noti, né nelle decisioni che spettano alle forze politiche», precisando ulteriormente di essersi trovato «in una condizione di impossibilità a proseguire nella ricerca di una soluzione alla crisi di governo, data la rigidità delle posizioni delle principali forze politiche», per cui «attraverso questi gruppi si può concorrere almeno a creare condizioni più favorevoli allo scopo di sbloccare una situazione politica irrigidita in posizioni inconciliabili». Tuttavia, come si legge nello stesso comunicato, «questo non significa, se mi permettete, che questi gruppi di lavoro indicheranno un tipo o un altro di soluzioni di governo. Indicheranno quali sono, rimettendo un po’ al centro dell’attenzione problemi seri, urgenti e di fondo del paese, questioni da affrontare – sia di carattere istituzionale sia di carattere economico-sociale nel contesto europeo – anche permettendo una misurazione delle divergenze e convergenze in proposito». Sicuramente, la soluzione trovata dal capo dello Stato è inedita perché inedito risultava il blocco nel quale si è trovato il sistema politico (tra le dimissioni di Monti nel dicembre 2012 e, come si dirà la formazione del governo Letta sarebbe trascorso un lasso di tempo record nella storia della Repubblica: 127 giorni), al termine del mandato presidenziale (mai in precedenza un capo dello Stato si era trovato a risolvere una crisi di governo in condizioni paragonabili a quelle dell’inizio della XVII legislatura: V. LIPPOLIS, G.M. SALERNO, La presidenza più lunga, Bologna, Il Mulino, 2016, p. 77). Per questo non sono mancate ricostruzioni del tutto diverse dell’iniziativa presidenziale: infatti, mentre per alcuni si è trattato di un’attività di apprendimento e di studio (e quindi non problematica sul piano della legittimità costituzionale), finalizzata fondamentalmente a «prendere tempo» in attesa di futuri chiarimenti politici, potenzialmente più conseguibili dopo l’elezione del nuovo capo dello Stato (così, ad esempio, V. LIPPOLIS, G.M. SALERNO, La presidenza più lunga, cit., pp. 77-78), altri hanno provato a collegare la scelta presidenziale alla prassi precedente, parlando di una sorta di «mandato esplorativo collegiale» (B. CARAVITA, Navigando a vista, con poco vento, senza GPS e con il cambio di timoniere durante la regata, in www.federalismi.it, 2013, n. 7; A. SAITTA, Dieci «saggi» esploratori, in www.giurcost.org, 2013; rimane però che, rispetto a quello tradizionale, tale anomalo «mandato esplorativo» era problematicamente limitato alla dimensione del programma). Non sono poi mancate voci cri-

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tiche (si è parlato di una scelta «inusuale»: così, A. RUGGERI, La singolare trovata del Presidente Napolitano per uscire dalla crisi di governo (a proposito della istituzione di due gruppi di esperti col compito di formulare «proposte programmatiche»), in www.giurcost.org, 2013, ovvero «eccentrica»: M. AINIS, Soluzione eccentrica, scenario possibile, in Corriere della sera, 31 marzo 2013; cfr. anche A. MORELLI, Tutti gli uomini del Presidente. Notazioni minime sull’istituzione dei due gruppi di esperti chiamati a formulare «proposte programmatiche», in www.giurcost.org, 2013) che hanno messo in evidenza la «sovraesposizione» presidenziale sul terreno della forma di governo (si è parlato, a tale proposito, di «immissione nel regime parlamentare italiano di massicce dosi di «dualismo», difficilmente compatibili con la logica dei regimi parlamentari contemporanei e con la legittimazione democratica debole di un capo dello Stato eletto indirettamente»: M. OLIVETTI, Il tormentato avvio, cit.), esprimendo perplessità sulla scelta presidenziale dei dieci componenti in piena autonomia, senza cioè una previa indicazione da parte dei gruppi parlamentari (G. SCACCIA, Il re della Repubblica. Cronaca costituzionale della presidenza di Giorgio Napolitano, Modena, Mucchi, 2015, p. 48). Di fatto, anche se la novità così introdotta si è prestata a rilievi critici, in un contesto nel quale il capo dello Stato «ha sfiorato nel suo settennato i confini del modello parlamentare», rimane il fatto che essa si è inserita in una «linea di sviluppo che si lega al processo di dissoluzione del sistema dei partiti, che ha caratterizzato la vita pubblica italiana degli ultimi vent’anni» (E. CHELI, Il capo dello Stato: un ruolo da ripensare?, in Il Mulino, 2013, p. 441), mentre è rimasto fermo l’intendimento di Napolitano di procedere alla formazione di un governo che avesse la certezza di non essere sconfitto sulla fiducia iniziale (R. IBRIDO, I Governi privi della fiducia iniziale, cit., p. 781).

2. La «storica» rielezione del presidente Napolitano La traumatica dissoluzione di quella coalizione di unità nazionale che il presidente della Repubblica uscente aveva momentaneamente allontanato al momento della nascita del governo Monti, si è trasferita senza soluzione di continuità nel procedimento di elezione del nuovo capo dello Stato, come dimostrato dalla sequenza di cinque votazioni a vuoto che si sono susseguite in un clima sempre più drammatico, causato dal fatto che il nuovo assetto «tripolare» del parlamento e le sempre più profonde fratture che si manifestavano fra i tre principali partiti rendevano impossibile il raggiungimento di quella maggioranza assoluta che è richiesta dall’art. 83 Cost. per la elezione del capo dello Stato. In questa situazione, malgrado le dichiarazioni rilasciate prima dell’inizio delle votazioni da Giorgio Napolitano che aveva definito «non oppor-

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tuna» la rielezione del presidente in carica perché «l’alternativa meglio si conforma al nostro modello costituzionale di presidente della Repubblica» (in questo richiamandosi testualmente a L. PALADIN, Presidente della Repubblica, cit., p. 183), ben cinque delegazioni dei partiti presenti in parlamento (tra queste, quella del PD, del PDL e di scelta civica) e una delegazione della conferenza dei presidenti delle regioni si sono recate dal presidente uscente per pregarlo di accettare una nuova elezione, in quanto solo sul suo nome avrebbe potuto realizzarsi un consenso tale da evitare una pericolosissima deriva politico istituzionale – dopo che i tentativi di elezione, da parte della coalizione di centro-sinistra, di Franco Marini (prima) e di Romano Prodi (poi) erano naufragate – e questo avrebbe permesso di assicurare al nuovo capo dello Stato una legittimazione ed un consenso che avrebbero consentito di rendere reale quella rappresentazione della unità nazionale alla quale si riferisce l’art. 87 Cost. Malgrado i problemi che gli derivavano, come egli ricordava a più riprese, dalla età avanzata, Napolitano ha finito per accettare questa seconda elezione che, come egli sottolineava, «non si era mai verificata nella storia della Repubblica, pur non essendo esclusa dal dettato costituzionale» (come invece per i componenti elettivi del C.S.M. e della corte costituzionale: artt. 104, comma 6, e 135, comma 3). Come è stato giustamente affermato, la questione della rieleggibilità del capo dello Stato «si rivela, per diversi aspetti, più complessa di quanto non sembri» (L. PALADIN, Presidente della Repubblica, cit., p. 182), dovendo essere inquadrata più generalmente nel quadro delle funzioni e della configurazione istituzionale del Presidente. In sintesi, le ragioni che hanno portato la dottrina a ritenere quantomeno inopportuna la rielezione del presidente uscente (per tutti, M. VOLPI, Considerazioni sulla rieleggibilità del presidente della Repubblica, in G. SILVESTRI, a cura di, La figura e il ruolo del presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano, Milano, Giuffrè, 1985, pp. 498 ss.) si basano non solo sull’eccessivo prolungamento, in capo ad uno stesso soggetto, di una carica «che comporta estremo equilibrio e profonda moderazione» (A. BALDASSARRE, Il capo dello Stato, in G. AMATO, A. BARBERA, a cura di, Manuale di diritto pubblico. II. L’organizzazione costituzionale, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 223), trattandosi di assicurare l’indipendenza e l’imparzialità di quest’ultimo, soprattutto in prossimità della scadenza del mandato, ed evitando il rischio che «l’aspirazione alla rielezione porti il capo dello Stato a privilegiare i rapporti con determinate forze politiche» (A. BALDASSARRE, Il capo dello Stato, cit.; ed è anche per questo, secondo questa parte della dottrina, che la Costituzione pone il «semestre bianco»: L. PALADIN, Presidente della Repubblica, cit., p. 183). È peraltro rimasta senza esito la proposta di costituzionalizzare il divieto di rielezione, collegata alla soppressione del «semestre bianco», contenuta in un messaggio inviato nel settembre 1963 dal presidente Segni

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(tale proposta è stata «ribadita» in un messaggio alle camere del presidente Leone nell’ottobre 1975). Viceversa, parte minoritaria della dottrina ha visto con sfavore la tesi del divieto di rielezione: quasi «profeticamente» quasi quaranta anni fa si era osservato che un divieto di rielezione avrebbe irrigidito inopportunamente la vita politica «impedendo la rielezione magari di quell’unico soggetto che, sulla base della esperienza passata, ha guadagnato la fiducia di tutte le principali forze politiche» (G.U. RESCIGNO, Art. 85, in Commentario della Costituzione – Il presidente della Repubblica, Roma-Bari, Zanichelli-Il foro italiano, 1978, p. 64), mentre minore pregio appare il rilievo secondo il quale la non rieleggibilità avrebbe sanzionato la sua totale irresponsabilità politica (G.U. RESCIGNO, Art. 85, cit.; P. BARILE, Una revisione costituzionale: eleggibilità del presidente della Repubblica e potere di scioglimento, in Rass. parl., 1963, pp. 709 ss.), essendosi osservato che «la vera responsabilità del presidente rientra – se mai – nel tipo diffuso» (L. PALADIN, Presidente della Repubblica, cit., p. 183), che «si attua o dovrebbe attuarsi ogni giorno […] attraverso la sottoposizione del suo operato al vaglio critico ed al controllo […] della pubblica opinione» (V. CRISAFULLI, Una revisione costituzionale: ineleggibilità del presidente della Repubblica e potere di scioglimento, in Rass. parl., 1964, p. 64). In ogni caso, anche prima del 2013 la dottrina maggioritaria aveva escluso che sulla non rieleggibilità si fosse formata una consuetudine o anche solo una convenzione (in particolare, S. GALEOTTI, B. PEZZINI, Presidente della Repubblica nella Costituzione italiana, in Dig. disc. pubbl., Torino, Utet, 1996, pp. 433 ss.), «data l’estrema varietà delle circostanze che hanno preceduto ed in cui si sono svolte le elezioni presidenziali» (L. PALADIN, Presidente della Repubblica, cit., p. 183). In effetti, nella nostra storia istituzionale non sono mancate proposte di rielezione, non andate a buon fine, anche di predecessori di Napolitano, a cominciare già da Einaudi (ricandidato da PSDI e PLI e da alcuni importanti esponenti della DC come Moro e Andreotti), passando per Gronchi (a cui aveva pensato una parte della DC), Saragat (ricandidato dal PSDI e rinunciatario con una lettera che suscitò polemiche perché implicitamente invitava a respingere candidati «autorevoli» come Fanfani e De Martino: P. CALANDRA, I governi, cit., p. 271), Pertini (come attestato recentemente dalla pubblicazione dei diari del segretario generale della presidenza della Repubblica: A. MACCANICO, Con Pertini al Quirinale. Diari 1978-1985, Bologna, Il Mulino, 2014), Cossiga (ricandidato da PRI, PSDI, PLI, nella prospettiva di una revisione costituzionale della forma di governo: S. GALEOTTI, B. PEZZINI, Presidente della Repubblica nella Costituzione italiana, cit.), Scalfaro (la cui rielezione fu ipotizzata da una parte del centro-sinistra anche in questo caso in collegamento con il completamento delle progettate riforme istituzionali), Ciampi (che dovette escludere l’eventualità con un apposito comunicato, il 3 maggio 2006, nel quale si

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giustificava l’indisponibilità non solo per ragioni di età ma anche perché «nessuno dei precedenti nove presidenti della Repubblica è stato rieletto. Ritengo che questa sia divenuta una consuetudine significativa. È bene non infrangerla. A mio avviso, il rinnovo di un mandato lungo, quale è quello settennale, mal si confà alle caratteristiche proprie della forma repubblicana del nostro Stato»). Napolitano è stato rieletto con una larga maggioranza (738 voti) il 20 aprile 2013 ma la mancata elezione dei due candidati precedenti indicati dal PD ha portato alle dimissioni prima del Presidente di questo partito (Rosy Bindi) e quindi del segretario politico, Pier Luigi Bersani. In questo contesto, il secondo mandato di Napolitano corrispondeva in fondo anche ai desiderata del centro destra e della «galassia» dei gruppi centristi, preludendo «naturalmente a un governo di larghe intese» (G. SCACCIA, Il re della Repubblica, cit., p. 52). Napolitano ha voluto ricordare, nel messaggio letto di fronte alle camere riunite ed ai delegati regionali il giorno successivo, nell’occasione del suo giuramento, quella lunga serie «di omissioni e di guasti, di chiusure ed irresponsabilità» che avevano portato il parlamento ed il sistema politico italiano ad uno stallo che non aveva precedenti nei settantacinque anni precedenti di storia repubblicana. In sintesi, il presidente indicava, fra le «omissioni imperdonabili» la mancata riforma della incostituzionale legge elettorale del 2005 (incostituzionale perché priva di un quorum minimo e causa della diverse maggioranze tra camera e senato) ed «il nulla di fatto in materia di sia pur limitate e mirate riforme della seconda parte della Costituzione […] faticosamente concordate e poi affossate (a causa) del tabù del bicameralismo paritario». Inoltre, per chiarire meglio quale era la direzione che egli indicava al parlamento nella prioritaria materia delle riforme istituzionali, Napolitano ha fatto esplicito riferimento a «quell’insieme di obbiettivi e di proposte» che erano contenute «nei documenti dei due gruppi di lavoro (da lui) istituiti il 30 marzo scorso». Infine, il presidente ha invocato la necessaria riforma «dei canali di partecipazione politica e dei partiti politici […] in quanto non c’è partecipazione realmente democratica senza partiti capaci di rinnovarsi o di movimenti politici […] tutti da vincolare all’imperativo costituzionale del metodo democratico». Si trattava, come si vede, di indicazioni diverse che andavano, però, da una giusto ed opportuno richiamo alla necessità di attuare la Costituzione in quelle parti (anche di giustizia e di sviluppo sociale) che i parlamenti delle ultime legislature avevano voluto ignorare, alla esortazione alla sollecita approvazione di riforme costituzionali, che finivano, però, per essere tutt’altro che «limitate e mirate»: come emergeva dal chiaro richiamo alla necessaria abrogazione del «bicameralismo paritario» ed alle complesse proposte contenute nei «gruppi di lavoro» da lui istituiti alla fine del mese di aprile.

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Con questo, il presidente finiva per porre una ipoteca sul contenuto dell’indirizzo politico costituzionale del parlamento e dei governi futuri e finanche sulla formula politica che avrebbe dovuto sostenerli, fino al punto di minacciare le dimissioni qualora si fosse trovato «dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato». Emblematica, a questo proposito, la considerazione finale che poneva in rilievo «il fatto che in Italia si sia diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse è segno di una regressione» che disconosce «le complesse problematiche del governare» che prevedono i tempi dell’alternanza e quelli di soluzioni di governo condivise (si è parlato, a tale proposito di Napolitano anche come «il grande tessitore dell’accordo di governo» (G. SCACCIA, Il re della Repubblica, cit., p. 54).

3. La formazione del governo Letta. Il ruolo del capo dello Stato. L’incarico, le trattative, il programma e la fiducia Sulla base di queste premesse, poste dal capo dello Stato nel suo discorso di insediamento, le consultazioni che Napolitano riprendeva subito dopo il suo giuramento hanno imboccato una strada diversa rispetto a quelle che avevano chiuso la XVI legislatura. Il PD, anzitutto, ha rinunciato alla indicazione di un incaricato che coincidesse con il supposto vincitore delle elezioni e questo ha consentito al capo dello Stato di recuperare, nel conferimento dell’incarico, quella centralità e quella libertà di manovra che egli non aveva avuto fino a che l’on. Bersani ed il PD avevano rivendicato di essere usciti vincitori nelle elezioni di febbraio. In questa situazione, alla opposizione già espressa dal movimento 5 stelle a sostenere un qualsiasi governo di coalizione, si è contrapposta, invece, la disponibilità di forza Italia e dell’area di centro rappresentata da scelta civica ad iniziare trattative per la formazione di un governo che, prendendo atto della inesistenza di un partito «vincitore», avrebbe conferito una «pari dignità politica» ai partiti che sarebbero entrati a far parte di quella larga coalizione che era stata auspicata dal capo dello Stato in occasione del suo giuramento e che, presumibilmente, era stata da lui posta come condizione alla accettazione del suo secondo incarico a quella larga maggioranza che lo aveva votato il 21 marzo, giorno della sua rielezione. A differenza di quanto era accaduto dopo il 24 di febbraio, le trattative per la formazione del nuovo governo sono state, infatti, assai brevi e si sono concluse con l’attribuzione dell’incarico (accettato, secondo tradizione, con riserva) ad Enrico Letta (vicesegretario del PD, ex ministro del governo Prodi e proveniente dall’area cattolico-popolare) che è stato in grado di formare rapidamente un governo politico di coalizione che conteneva membri provenienti dal PD, da forza Italia e dai centristi di scelta civica.

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Il governo è risultato composto da 22 ministri: 13 di essi con portafoglio ed 8 senza portafoglio; a questi si aggiungevano 40 sottosegretari (10 dei quali nominati viceministri). Non mancavano i tecnici (tra questi Fabrizio Saccomanni, direttore generale della Banca d’Italia, nominato ministro per l’economia e le finanze, Massimo Bray, nominato ministro per i beni, attività culturali e turismo, il prof. Carlo Trigilia, nominato ministro senza portafoglio per la coesione territoriale), alcuni dei quali erano stati componenti della commissione dei «saggi» nominati da Napolitano dopo il fallimento del reincarico a Bersani (Moavero Milanesi era confermato ministro per gli affari europei; Enrico Giovannini veniva nominato ministro del lavoro e delle politiche sociali; Gaetano Quagliarello assumeva la carica di ministro senza portafoglio per le riforme istituzionali). È anche interessante osservare che, per sottolineare la essenzialità dell’apporto di forza Italia alla formazione del governo, era anche prevista, riallacciandosi ad esperienze del passato, l’esistenza di un vicepresidente del consiglio nella persona dell’on Angelino Alfano (segretario di forza Italia) e che assumeva anche la carica di ministro dell’interno. Anche se il governo presieduto da Enrico Letta era, dunque, un normale «governo politico» (dopo la terza riedizione, nell’arco di poco più di dieci anni, di un «governo tecnico», quello di Mario Monti) anche se di «larga coalizione» (votavano a favore i gruppi del PD, del PDL, di scelta civica, mentre la lega nord si asteneva), nemmeno il nuovo governo ha potuto prescindere da fibrillazioni politiche, derivanti dall’eterogeneità politica della maggioranza, né dalla eccezionalità delle circostanze che avevano presieduto alla sua nascita. Sul primo versante, già il 4 maggio 2013, ovvero appena quattro giorni dopo la conclusione del dibattito parlamentare sulla fiducia al nuovo governo, il presidente del consiglio era costretto a comunicare al sottosegretario alla presidenza del consiglio, Michaela Biancofiore (esponente di forza Italia) la revoca delle deleghe relative alle politiche sulle pari opportunità, avendo rilasciato dichiarazioni considerate inopportune sull’omosessualità. Successivamente, il 24 giugno il ministro senza portafoglio Josefa Idem era costretta a rassegnare le dimissioni, in relazione al suo coinvolgimento in una vicenda (in verità modesta) di mancata corresponsione di imposte locali ed ancora nel luglio successivo il Ministro dell’interno Alfano era chiamato in causa in relazione all’espulsione della signora Alma Shalabayeva, moglie di Mukhtar Ablyazov, dissidente politico kazako, e di sua figlia; il suo capo di gabinetto, Giuseppe Procaccini, era costretto a rassegnare le proprie dimissioni mentre la mozione di sfiducia presentata contro il ministro era respinta al Senato. Tuttavia, nell’agosto successivo, dopo la condanna definitiva del leader del PDL in relazione al c.d. «processo Mediaset» che ne avrebbe determinato la decadenza da senatore in forza del d.lgs. n. 235 del 2012 (c.d. «Severino»), il governo Letta entrava in fibrillazione, a seguito della richiesta

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del centro destra della grazia per Berlusconi e della ventilata minaccia, in caso contrario, di ritirare l’appoggio all’esecutivo. Ancora una volta, interveniva il capo dello Stato al fine di chiarire, in un apposito comunicato, che «di qualsiasi sentenza definitiva, e del conseguente obbligo di applicarla, non può che prendersi atto [...] In questo momento è legittimo che si manifestino riserve e dissensi rispetto alle conclusioni cui è giunta la corte di cassazione nella scia delle valutazioni già prevalse nei due precedenti gradi di giudizio [...] ma non è accettabile che vengano ventilate forme di ritorsione ai danni del funzionamento delle istituzioni democratiche». Nel settembre successivo il PDL minacciava le dimissioni di tutti i propri parlamentari, nel caso in cui il parlamento avesse deliberato la decadenza del proprio leader (suscitando la reazione immediata del capo dello Stato che in un comunicato doveva stigmatizzare recisamente tale ipotesi che avrebbe determinato «l’effetto, di colpire alla radice la funzionalità delle camere», mentre «non meno inquietante sarebbe il proposito di compiere tale gesto al fine di esercitare un’estrema pressione sul capo dello Stato per il più ravvicinato scioglimento delle camere»); quindi, i ministri del PDL rassegnavano le dimissioni, a seguito di una richiesta in questo senso di Berlusconi dopo una immediata richiesta di chiarimento politico da parte del presidente del consiglio. Tuttavia, dopo un incontro con il capo dello Stato, il presidente del consiglio decideva di non rassegnare le dimissioni, ma di illustrare al parlamento le proprie valutazioni sull’accaduto e sulle prospettive politiche, verificando la permanenza del rapporto fiduciario. Tale decisione faceva emergere una distinzione, all’interno del PDL tra i fautori di una ricomposizione (tra questi i ministri Lorenzin e Quagliariello) e gli esponenti più vicini a Berlusconi, favorevoli all’approvazione di alcuni provvedimenti pendenti in materia economica e, immediatamente dopo, alle elezioni anticipate. Tale dibattito interno al partito sfociava in una spaccatura tra Berlusconi e Alfano (segretario del partito), favorevole, insieme a non pochi parlamentari, a continuare a sostenere il governo. Onde evitare una tale frattura nel partito e nei gruppi parlamentari Berlusconi era costretto ad una clamorosa «marcia indietro» in parlamento (2 ottobre): le dimissioni dei ministri del PDL venivano respinte dal presidente del consiglio, e il governo si vedeva rinnovata la fiducia; si è trattato quindi di un curioso caso di «crisi rientrata» nella sede parlamentare. Tali vicende evidenziano però, in qualche misura, le circostanze eccezionali in cui era nato il governo Letta. La prima stava, anzitutto, nel fatto che le elezioni di febbraio avevano dato vita ad un parlamento privo di una maggioranza politica derivante da una scelta del corpo elettorale. Anzi, la «grande coalizione» che aveva, alla fine, accettato di dar vita al governo derivava dalla straordinarietà, assolutamente inedita, della conferma di un presidente della Repubblica in carica: «scelta eccezionale» alla

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quale Letta aveva voluto subito riferirsi nel discorso programmatico per la fiducia, pronunciato il 29 aprile 2013 di fronte alle due camere, per significare che essa aveva conferito al capo dello Stato una posizione di centralità e di forza nel sistema politico istituzionale come forse non si era mai realizzata nella storia costituzionale repubblicana. Tuttavia, e questo sembra il punto più importante, se è vero che la situazione politico-parlamentare che si era determinata a causa dell’esito delle elezioni e che si era manifestata nella occasione della elezione del presidente della Repubblica poteva essere definita senz’altro anomala ed eccezionale, è anche vero che una tale eccezionalità avrebbe potuto condurre a due esiti ben diversi l’uno dall’altro. Il primo, e forse più congeniale ad una forma di governo parlamentare correttamente intesa, sarebbe stato quello di prendere atto del risultato politicamente «nullo» delle elezioni e della conseguente necessità di un nuovo ricorso al corpo elettorale al quale sarebbe spettato, in base ai principi che reggono le democrazie rappresentative, di intervenire di nuovo per rimuovere il blocco che si era creato nel circuito della democrazia rappresentativa. Se si fosse seguita questa interpretazione, il presidente della Repubblica avrebbe dovuto operare per la formazione di un governo che avrebbe richiesto la fiducia per gestire la situazione politica e quella economica; approvare nell’autunno la legge finanziaria e soprattutto fare approvare una nuova legge elettorale per consentire lo scioglimento delle camere e lo svolgimento di nuove elezioni nei primi mesi del 2014. Il problema della riforma della legge elettorale compariva, in effetti, e con rilievo, nel discorso sul programma del governo pronunciato il 29 aprile da Enrico Letta, il quale dichiarava che il suo governo si sarebbe impegnato a cambiare la legge vigente non solo per la necessità di assicurare, in futuro, maggioranze «ampie e coese», ma anche «per restituire legittimità al parlamento ed ai singoli parlamentari», cancellando il principio affermato dalla legge del 2005 «di parlamentari di fatto imposti con la stessa presentazione delle candidature, senza che i cittadini abbiano la possibilità di indicare il candidato più meritevole». Concetti, questi, assolutamente condivisibili ma che sottovalutavano la gravità del fatto che la legge elettorale del 2005 aveva già dato vita ad un «parlamento di nominati», in quanto, come avrebbe affermato la corte costituzionale pochi mesi dopo, con la sent. n. 1 del 2014, quel «vizio» non era soltanto ingiusto ed inopportuno ma rendeva la legge stessa palesemente incostituzionale, dando luogo ad una situazione paradossale, nella quale un parlamento legittimamente in carica ma sicuramente non rappresentativo del corpo elettorale si apprestava, secondo quanto indicato nel programma di governo, a dar vita ad un processo di riforme della Costituzione e della politica che risultava essere fra i più impegnativi nella storia della Repubblica. Invece, le particolari circostanze nelle quali il presidente Napolitano aveva conferito ad Enrico Letta l’incarico di formare un nuovo governo,

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avrebbero dovuto mettere in evidenza l’esistenza di alcune significative analogie con la situazione verificatasi nel 1993, quando Ciampi aveva ricevuto l’incarico dal presidente Scalfaro. Anche nel 1993, infatti, il presidente della Repubblica si era trovato davanti ad un parlamento che, seppur legittimamente eletto, era divenuto politicamente non più rappresentativo del corpo elettorale a causa della approvazione di quel referendum che aveva profondamente trasformato la legge elettorale del senato. Come abbiamo ricordato, in quelle circostanze il presidente Scalfaro aveva promosso la formazione di un governo, quello di Ciampi, che aveva collegato il proprio mandato ad una riforma della legge elettorale nella direzione indicata dal corpo elettorale; preannunciando la intenzione di dimettersi quando la nuova legge fosse stata approvata. Tutto ciò, nel presupposto che quella mancanza di una piena rappresentatività politica del parlamento che era stata innescata dai risultati del referendum dovesse essere ripristinata nel più breve tempo possibile. Se si tengono presenti, invece, la dichiarazioni rese da Giorgio Napolitano nel suo discorso di insediamento e da lui ripetute nel corso del procedimento che ha portato alla formazione del nuovo governo e quelle contenute nel discorso programmatico del presidente Letta, ci si rende conto che il presidente della Repubblica ed il governo da lui nominato davano una diversa interpretazione della crisi di legittimazione che si era creata dopo le elezioni del febbraio del 2013 e ritenevano che, malgrado un risultato senza vincitori causato non solo dalla «crisi della politica» ma anche da una legge elettorale sbagliata ed incostituzionale, spettasse al parlamento ed al governo in carica farsi carico non solo della gestione della difficile situazione economica e finanziaria ma anche (per riferirci ai titoli di due paragrafi del discorso programmatico del nuovo presidente del consiglio) della «riforma della politica» e della «riforma delle istituzioni». Riforme che venivano, anzi, dichiarate come prioritarie e necessarie anche se avrebbero dovuto essere deliberate da parlamentari che risultavano responsabili, secondo le parole dello stesso presidente del consiglio, non di fronte agli elettori ma alle classi dirigenti dei partiti che li avevano nominati. In conseguenza di questa impostazione, si comprende meglio, allora, il senso di quel metodo delle riforme istituzionali che era enunciato dal presidente del consiglio nel suo discorso programmatico e che è stato, poi, tentato dal suo governo. Metodo che voleva «sottrarre la discussione sulla riforma della carta fondamentale alle fisiologiche contrapposizioni del dibattito contingente» (e, cioè alla normale dialettica fra maggioranza ed opposizione) per far adottare al parlamento le sue decisioni sulla base delle proposte formulate da una Convenzione «aperta anche alla partecipazione di autorevoli esperti non parlamentari e che parta dai risultati dell’attività parlamentare della scorsa legislatura e dalle conclusioni del comitato di saggi istituito dal Presidente […] in attesa che le procedure per un provvedimento costituzionale possano compiersi».

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4. La fiducia al governo Letta. Il disegno di legge costituzionale di «deroga» all’art. 138 Cost. La nomina della «commissione per le riforme costituzionali». La crisi della «grande coalizione». La nascita del nuovo centro destra e le dimissioni del governo Come detto, il governo otteneva, alla fine di aprile 2013, la fiducia da parte di quella «larga coalizione» che era stata auspicata dal presidente Napolitano e che comprese il PD, forza Italia e scelta civica. È opportuno osservare che la decisione di dar vita ad un governo di larga coalizione, che era stata condivisa dal capo dello Stato e dal presidente del consiglio, non derivava, questa volta, tanto dalla necessità di superare una eccezionale crisi economica e finanziaria come era accaduto con il governo Monti (ed infatti, il programma di governo conteneva, su questo punto, obbiettivi palesemente non condivisibili da parte di forza Italia; il che avrebbe causato, pochi mesi dopo, una crisi della coalizione) ma appariva, invece, strettamente collegata proprio all’obbiettivo primario del nuovo governo: quello di dar luogo ad una profonda revisione della Costituzione che avrebbe dovuto comprendere il «superamento del bicameralismo paritario» non solo con la esclusione del senato dal procedimento fiduciario previsto dall’art. 94 Cost., ma con l’introduzione di «competenze differenziate» fra la camera dei deputati ed il nuovo «senato delle regioni e delle autonomie»; la riforma del titolo V della Costituzione; la abolizione delle provincie; la modifica «con scelte coraggiose» della forma di governo. Queste riforme non solo radicali, ma anche da realizzare con estrema urgenza rendevano, però, necessaria una revisione (in forma di una deroga da approvare «una tantum») dello stesso art. 138 Cost. per dar vita alla già ricordata «convenzione costituzionale». Revisione per la quale sarebbero stati comunque necessari almeno i due terzi dei voti favorevoli di ciascuna camera se si voleva evitare la (alta) probabilità di richieste di referendum confermativo, ai sensi del vigente art. 138 Cost., che avrebbero ritardato, contro gli intenti del governo, l’approvazione della grande riforma costituzionale. Tuttavia, le numerose critiche che sono state sollevate alla proposta di nomina di una «convenzione» formata da parlamentari e da «esperti» e la certezza, verificata poco dopo, della impossibilità di raggiungere, dopo il ritiro di forza Italia dalla coalizione, i due terzi dei voti, hanno indotto il governo Letta ad abbandonare quel progetto, trasformato in un d.d.l. costituzionale di deroga all’art. 138 Cost. che istituiva, secondo i modelli del passato, un «comitato parlamentare per le riforme» formato da venti senatori e da venti deputati. Comitato che avrebbe dovuto formulare una pluralità di progetti di revisione degli articoli di cui ai titoli I, II, III e V della parte seconda della Costituzione, afferenti alle materie della forma di Stato, della forma di governo e del bicameralismo, nonché «i coerenti progetti di legge ordinaria di riforma dei sistemi elettorali», divisi per ma-

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teria, da approvarsi entro tempi determinati e rispetto ai quali la facoltà di presentare emendamenti sarebbe stata riservata soltanto allo stesso comitato; al governo; ai presidenti dei gruppi parlamentari; a venti deputati o a dieci senatori (A.S. 813). Il disegno di legge prevedeva anche che le leggi costituzionali, approvate secondo la procedura appena descritta, avrebbero potuto essere sottoposte a referendum anche se approvate con la maggioranza dei due terzi; cosicché la previsione della approvazione dei progetti di riforma «materia per materia» appariva preordinata allo svolgimento di quei referendum che sarebbero stati sicuramente richiesti e che avrebbero potuto avere, così, ad oggetto materie omogenee. Se quest’ultima previsione risultava corretta, e del tutto condivisibile anche alla luce di quella giurisprudenza della corte costituzionale che aveva da tempo condizionato lo svolgimento dei referendum abrogativi proprio alla esistenza di quesiti omogenei, il governo Letta volle, però, inserire ugualmente nel suo progetto di revisione della Costituzione la previsione della nomina di una «commissione per le riforme costituzionali» che fu, poi, effettivamente istituita con decreto 11 giugno 2013 dal presidente del consiglio dei ministri, presieduta dal ministro delle riforme istituzionali e composta da 35 esperti (ai quali si aggiungevano 7 componenti di un «comitato di redazione» interno alla Commissione stessa), per «formulare proposte di revisione della seconda parte della Costituzione […] in riferimento alla forma di Stato, alla forma di governo, all’assetto bicamerale del parlamento, nonché della legislazione ordinaria conseguente, con particolare riferimento alla normativa elettorale». Alla luce di queste indicazioni, la commissione per le riforme costituzionali si presentava, dunque, come un succedaneo di quella «convenzione» giudicata non più proponibile e spostava dal parlamento al governo la indicazione di quel corpo di saggi ai quali sarebbe spettato l’inedito compito di indirizzare il governo ed il parlamento nella formulazione di un progetto di pressoché integrale di riforma della forma di Stato e della forma di governo della Costituzione. Questa decisione appariva assai discutibile non solo in quanto equivaleva a mettere in atto una guida «extra parlamentare» del procedimento di revisione della Costituzione, ma anche perché sottolineava, contro la più corretta interpretazione dello stesso procedimento, che l’iniziativa e la guida di esso sarebbero stati non nelle mani del parlamento ma del governo: anzi, per essere più precisi, del governo e del presidente della Repubblica che aveva dettato i tempi (molto rapidi) della riforma; la sua estensione; alcuni dei suoi obiettivi, come il superamento del bicameralismo, ed anche il suo metodo attraverso la nomina di quella commissione di saggi che era stata da lui istituita alla fine della legislatura precedente. Tuttavia, alla fine del novembre 2013, la persistente «instabilità» causata dai contrasti sulle riforme economiche induceva forza Italia a ritirarsi

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dalla coalizione di governo; tale decisione provocò una scissione all’interno di forza Italia e la nascita di un nuovo partito (il nuovo centro destra, facente capo al ministro dell’interno Alfano) che continuava ad appoggiare il governo, assicurando a Letta una, sia pur esigua, maggioranza, mentre anche scelta civica si sfaldava dopo le critiche di Monti in ordine al disegno di legge di stabilità. Da parte sua, nelle «primarie» dell’8 dicembre Matteo Renzi fu eletto, a grande maggioranza, segretario del PD. Altri problemi derivavano dalla presentazione di una mozione di sfiducia al ministro della giustizia, nell’ambito del c.d. «caso Ligresti» alla quale Letta reagiva «coprendone» l’operato, nonostante le critiche di una parte del PD. In questa situazione, il presidente della Repubblica ha deciso, del tutto correttamente, di rinviare il governo alle camere per una doverosa verifica della permanenza di una maggioranza di governo ed il presidente del consiglio ha chiesto alla camera ed al senato di approvare (11 dicembre) una sua «comunicazione sulla situazione politica generale» che riformulava, in relazione alla nuova situazione politica, il programma presentato al parlamento il 29 aprile e sulla quale Letta poneva la fiducia, ottenendola anche senza l’appoggio di forza Italia. Per quanto riguarda il tema delle riforme, il governo, preso atto che il ritiro dalla maggioranza di forza Italia impediva il raggiungimento dei due terzi dei voti favorevoli alla prevista «deroga» all’art. 138 Cost., si convinceva a tornare al procedimento di revisione costituzionale vigente, concentrando il nuovo percorso delle riforme su quattro obbiettivi: la riduzione del numero dei parlamentari; la abolizione delle provincie; la fine del bicameralismo paritario; la riforma del Titolo V della Costituzione. Riforme che avrebbero dovuto essere raggiunte mediante la presentazione di quattro distinti disegni di legge di modifica della Costituzione. Infine, il «percorso delle riforme» sarebbe stato completato con la presentazione di un disegno di legge di riforma della legge elettorale «orientata verso meccanismi maggioritari» e la cancellazione delle liste bloccate, «negazione di ogni criterio di merito e rappresentanza […] inno alla cooptazione». Appena due mesi dopo, il governo Letta era, però, obbligato a dimettersi non a causa di una nuova crisi parlamentare ma perché il 13 febbraio 2014 la direzione del PD, cioè del maggior partito della coalizione e che esprimeva il presidente del consiglio, si era espresso in maniera critica sui risultati dell’azione di governo nei nove mesi che erano trascorsi dalla sua investitura, auspicando «un mutamento della compagine governativa». Linguaggio con il quale si intendeva indicare non la necessità di un cambiamento delle alleanze di governo ma un mutamento della guida del governo stesso. In altre parole, una «sfiducia» al presidente del consiglio in carica, nonostante che questi avesse presentato un documento programmatico in 50 punti per il rilancio dell’azione del governo.

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Di fronte a questa deliberazione, il presidente Letta si presentava il giorno successivo di fronte al capo dello Stato per presentare le dimissioni «irrevocabili» sue e del governo da lui presieduto: irrevocabilità che induceva il presidente della Repubblica a non chiedere al presidente del consiglio (come, del resto, era avvenuto anche in occasione delle dimissioni irrevocabili del IV governo Berlusconi e del governo Monti) di presentarsi alle camere, dato che, come affermato nel comunicato del Quirinale del 14 febbraio, da una parte «il presidente del consiglio ritiene che a questo punto un formale passaggio parlamentare non potrebbe offrire elementi tali da indurlo a soprassedere dalle dimissioni, anche perché egli non sarebbe comunque disponibile a presiedere governi sostenuti da ipotetiche maggioranze diverse» e, dall’altra, «il parlamento potrà comunque esprimersi sulle origini e sulle motivazioni della crisi allorché sarà chiamato a dare la fiducia al nuovo governo». Affermazione, quest’ultima, senz’altro vera ma che trascurava il fatto che la presentazione alle camere del presidente dimissionario avrebbe consentito al corpo elettorale, già del tutto emarginato, come abbiamo già rilevato, dal circuito rappresentativo primario, di possedere qualche elemento in più sul comportamento dei partiti ai quali gli elettori avevano concesso la loro fiducia al momento del voto.

5. Le consultazioni e la formazione del governo Renzi. Il nuovo governo ed il discorso programmatico del nuovo presidente del consiglio. La composizione del governo. Il presidente della Repubblica, il governo ed il problema delle riforme istituzionali Il comunicato rilasciato dal capo dello Stato il 14 febbraio dopo le dimissioni del governo Letta annunciava che le consultazioni si sarebbero svolte nel più breve tempo possibile per avviare subito quella fase successiva che doveva portare a superare la crisi ed a formare un esecutivo in grado di governare «la delicata fase economica che il paese attraversa […] e per affrontare al più presto l’esame della nuova legge elettorale e delle riforme istituzionali ritenute più urgenti». Questa dichiarazione del presidente della Repubblica metteva in chiaro che il suo ruolo nelle consultazioni che si sarebbero aperte il giorno dopo sarebbe stato non quello di dare vita ad un governo qualsiasi purché appoggiato da una maggioranza parlamentare, ma ad un governo che fosse in grado di assumersi quelle finalità di riforma che il capo dello Stato aveva fatto proprie ad iniziare dalla nomina del governo Monti. Il presidente della Repubblica concludeva, in effetti, entro il 15 febbraio le consultazioni non solo con le delegazioni dei gruppi parlamentari ma anche con quelle dei partiti politici, anche in considerazione del fatto che i leaders di due dei tre maggiori partiti (Matteo Renzi e Beppe Grillo) non erano stati eletti in parlamento.

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D’altra parte, che le consultazioni del presidente della Repubblica dovessero necessariamente estendersi ai partiti derivava anche dalla constatazione che il maggior partito presente in parlamento (il PD) risultava profondamente diviso fra gli orientamenti di un gruppo parlamentare nel quale prevaleva ancora la componente che faceva capo alla vecchia segreteria di Bersani ed una direzione saldamente nelle mani del nuovo segretario Renzi, che era stato eletto con una larga maggioranza attraverso le «primarie aperte» del partito che si erano svolte dopo il risultato non soddisfacente ottenuto nelle elezioni del febbraio 2013. Nei mesi che erano intercorsi fra la sua elezione e la crisi del governo Letta, il nuovo segretario aveva operato un cambiamento radicale (la c.d. «rottamazione») della classe dirigente nazionale e locale del PD ed aveva adottato un nuova linea politica di discontinuità rispetto ai tradizionali orientamenti sociali ed istituzionali del partito: discontinuità che spiega, da un lato, la singolare sfiducia espressa dalla direzione ad un presidente del consiglio appartenente al PD e, dall’altro, la posizione di totale adesione alle tesi presidenziali che sostenevano la assoluta priorità della questione delle riforme istituzionali nell’agenda del nuovo governo che fu assunta da Renzi e dalla delegazione del PD. È da notare che alle consultazioni per la formazione del nuovo governo non partecipavano la delegazione del movimento 5 stelle e quella della lega nord. Quest’ultima avrebbe voluto inserire nelle delegazioni anche amministrazioni locali: sul punto, un comunicato del Quirinale del 14 febbraio precisava che tale proposta «avrebbe dovuto condurre a un allargamento delle delegazioni di tutte le forze politiche in termini chiaramente incompatibili con il carattere e i tempi delle consultazioni». La sintonia realizzatasi tra il presidente della Repubblica ed il segretario del PD sulla questione delle riforme istituzionali spiega la rapidità con la quale il capo dello Stato è stato in grado di assegnare l’incarico a Matteo Renzi e la rapidità delle trattative (18-21 febbraio) svolte dal presidente incaricato, che hanno portato alla conferma delle alleanze politiche già a sostegno del governo Letta (PD; nuovo centro destra; UDC; scelta civica ed altri gruppi minori) ed all’inserimento dei segretari dei maggiori partiti nella compagine del nuovo governo, che è stato in grado di presentarsi alle camere per ottenere il voto di fiducia il 24 febbraio: appena dieci giorni dopo la apertura delle consultazioni da parte del capo dello Stato. Per quel che riguarda la sua composizione numerica, il governo Renzi risulta formato, oltre che dal presidente del consiglio, da 13 ministri con portafoglio, da 3 senza portafoglio e da 44 sottosegretari, fra i quali 9 vice ministri. Una composizione, dunque, più ridotta rispetto a quella dei governi precedenti e pari solo a quella del III governo De Gasperi del 1947. La composizione politica del governo rispecchia, invece, la tradizionale composizione dei governi di coalizione, con una distribuzione di ministri, vice ministri e sottosegretari commisurata all’apporto numerico garantito

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in parlamento dai partiti membri della coalizione e che varia, nella prima composizione del governo, dai 9 ministri e 3 viceministri del PD ad un solo sottosegretario attribuito al «centro democratico». Più interessante è osservare che il radicale cambiamento messo in atto da Renzi nella classe dirigente del PD si riflette nella composizione della compagine governativa, nella quale soltanto 5 ministri risultano aver già ricoperto incarichi ministeriali in governi precedenti: cosicché risulta del tutto disattesa la precedente tradizione politica italiana in base alla quale ai (frequenti) cambiamenti dei presidenti del consiglio corrispondono, invece, una sostanziale continuità nel resto della classe dirigente governativa. La prima conseguenza di questa radicale discontinuità è quella di un forte rinnovamento generazionale nella direzione politica governativa; la seconda, e più problematica, è quella di una composizione della squadra del governo certamente meno esperta rispetto alla tradizione precedente; soprattutto se si pensa al fatto che ministeri di grande rilievo politico, come quello delle riforme e dei rapporti con il parlamento; degli esteri, dello sviluppo economico; della difesa; dell’istruzione, università e ricerca; della pubblica amministrazione sono affidati a ministri privi di una qualificata, precedente esperienza. Si può osservare, inoltre, che, poiché il rinnovamento del governo appare funzionale, più che ad un rinnovamento generale della classe politica, al radicale mutamento del gruppo dirigente realizzatosi nel PD, alla forza politica acquisita dal nuovo presidente del consiglio (che mantenne la carica di segretario del partito) corrisponde un parallelo indebolimento del principio di collegialità del governo derivante dal fatto che i nuovi ministri, e soprattutto quelli del PD, sono approdati alle loro cariche non grazie al riconoscimento di una consolidata «carriera» politico-parlamentare (così come avviene di solito nelle forme di governo parlamentari) ma grazie ad un «motu proprio» del nuovo presidente del consiglio che ha acquisito, anche per questa via, una autorità indiscutibile e forse paragonabile a quella del «sultanato» (per dirla con Giovanni Sartori) berlusconiano negli anni del suo secondo governo. Il governo Renzi ha però conosciuto presto alcune variazioni nella sua composizione: già il 3 marzo sono intervenute le dimissioni di un sottosegretario (Gentile), investito da polemiche per presunte pressioni esercitate sulla stampa affinché non venisse pubblicata la notizia del coinvolgimento di un suo familiare in una indagine giudiziaria. Successivamente hanno rassegnato le dimissioni il ministro delle infrastrutture e i trasporti Lupi (in relazione a vicende riguardanti i cantieri per alcune «grandi opere»), sostituito dal sottosegretario alla presidenza del consiglio Delrio (al suo posto è stato nominato Claudio De Vincenti). Nel dicembre 2015, poi, la camera dei deputati ha respinto una mozione di sfiducia individuale contro il ministro per i rapporti con il parlamento e le riforme istituzionali Maria Elena Boschi in relazione alla crisi della banca dell’etruria (sulla

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stessa vicenda il senato ha respinto nel gennaio 2016 una mozione di sfiducia al governo presentata dal movimento 5 stelle). Assai spinosa è stata poi la vicenda del coinvolgimento di un congiunto del ministro dello sviluppo economico, Federica Guidi in un’inchiesta della procura della Repubblica di Potenza: le dimissioni del ministro non hanno concluso la vicenda, a causa della pubblicazione di intercettazioni telefoniche in cui Guidi comunicava il via libera, previo assenso del Ministro per i rapporti con il parlamento, di un emendamento che avrebbe favorito gli interessi economici del compagno. Il presidente del consiglio ha rivendicato la bontà del contenuto dell’emendamento, con ciò «spostando» in una «questione di governo» i contenuti della vicenda. Ciò detto, nella procedura di presentazione del nuovo governo alle camere appare evidente che la crisi del governo Letta è stata determinata più dalla volontà di giungere ad un radicale cambiamento della classe dirigente di governo che dalla necessità di sottoporre ad una attenta verifica il suo programma e le procedure utilizzate per la sua attuazione. Infatti, per la prima volta nella storia repubblicana, il presidente del consiglio non ha presentato al parlamento un testo scritto contenente gli intendimenti politici e il programma del suo governo, ma si è limitato a pronunciare un discorso che è stato contestualmente stenografato e poi stampato dagli uffici della camera e dal senato. Dalla lettura di quel testo emerge che le opinioni, i giudizi e gli intendimenti che in esso sono contenuti sono da riferirsi non ad una preventiva discussione e deliberazione del consiglio dei ministri ma alla esclusiva iniziativa del presidente del consiglio: che è divenuto, così, il solo «dominus» dell’indirizzo politico del governo, con una innovazione che risulta contraria non soltanto alla consuetudine costituzionale ma anche ai principi introdotti dalla legge n. 400 del 1988 ed in particolare all’art. 2 di quella legge il quale prevede che il programma di governo sia collegialmente deliberato, prima, dal consiglio dei ministri e presentato poi in parlamento dal presidente del consiglio attraverso un testo (evidentemente scritto) che corrisponda alla deliberazione governativa (viceversa, a leggere gli ordini del giorno delle prime sedute del consiglio dei ministri, non risulta che tale deliberazione vi sia mai stata). Per quanto riguarda il suo contenuto, il programma di governo si caratterizza per il rilievo particolare attribuito alla urgenza ed alla priorità delle riforme istituzionali, ad incominciare dal «superamento» del senato, con l’abolizione del voto di fiducia al governo e la sottrazione ad esso dell’approvazione delle leggi di bilancio (nelle dichiarazioni programmatiche al senato, Renzi afferma: «Vorrei essere l’ultimo presidente del consiglio a chiedere la fiducia a quest’aula. Sono consapevole della portata di questa espressione, e anche del rischio di farla di fronte a senatrici e senatori che certo non meritano per qualità personale il ruolo di ultimi senatori a dare la fiducia a un governo, ma è così. Non lo sta chiedendo un governo: lo sta

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chiedendo un paese, lo sta chiedendo l’Italia»); sulla riduzione dei costi della politica da realizzarsi anche trasformando la funzione senatoriale «non come incarico figlio di un’elezione diretta e con una indennità, ma come nel modello tedesco, attraverso l’assunzione di responsabilità dai territori»; sulla riforma del titolo V della Costituzione, garantendo le competenze delle regioni ma introducendo anche una «clausola di intervento della legge statale quando questo sia richiesto da esigenze di unità economica e giuridica dell’ordinamento»; sulla abolizione delle provincie e su una riforma della legge elettorale «che consenta il ballottaggio e che sia ovviamente impostata sulla presenza di una sola camera». Si può notare che rispetto alla ultima fase del governo Letta, il programma del nuovo governo si è caratterizzato non solo per l’abbandono di alcuni obiettivi importanti (ad esempio, la riforma dei regolamenti parlamentari; l’attuazione dell’art. 49 Cost. in tema di democraticità dei partiti politici) ma anche per l’assenza di qualsiasi indicazione sul metodo di adozione delle riforme costituzionali. Assenza che risulta significativa se si ricorda che il governo Letta aveva confermato, dopo l’abbandono del progetto di modifica dell’art. 138 Cost., la sua intenzione di procedere verso la approvazione di quattro separati disegni di legge costituzionali anche al fine di rendere possibile, in futuro, lo svolgimento di referendum confermativi basati su materie (e quindi su quesiti) sostanzialmente omogenei. È poi da sottolineare che la singolarità del governo Renzi sul piano della definizione del programma è poi accresciuta dalla decisione di presentare un’informativa alle camere (16 settembre 2014) sulle linee di attuazione del programma stesso (ma in realtà contenente impegni per mille giorni); informativa cui ha fatto seguito, peraltro, un dibattito ma non un voto parlamentare. Per quanto riguarda l’attività del governo, a parte la «sovraesposizione» del presidente del consiglio, cui si è già alluso, essa per alcuni aspetti appare in continuità con quella degli esecutivi precedenti: così si segnala il continuativo ricorso alla questione di fiducia per l’approvazione dei disegni di legge governativi (58 casi fino al luglio 2016), l’alto numero di decreti legge (52 dall’inizio dell’attività dell’esecutivo fino al luglio 2016, ma molti dai contenuti assai articolati) e dei decreti legislativi (170, attuativi, spesso, di «maxi» leggi di delega, come, ad esempio, quelle relative alla riforma della scuola, del mercato del lavoro, della pubblica amministrazione) e quindi la sistematica compressione delle prerogative parlamentari nel procedimento legislativo. Ovviamente, questa alta produzione di atti con forza di legge ha determinato torsioni evidenti anche sul piano della loro legittimità costituzionale: si consideri, ad esempio, il decreto legge «sblocca Italia» (d.l. n. 133 del 2014) adottato dopo una consultazione pubblica durata circa un mese, e quindi, quantomeno problematico alla stregua dei presupposti di cui all’art. 77 Cost.

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6. Il governo Renzi e l’attuazione del suo programma. Le dimissioni di Napolitano e la elezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica. Il «patto del Nazareno» e l’eclissi della forma di governo parlamentare L’effetto più rilevante della genericità del programma di governo presentato alle camere (meglio, della sua «esistenzialità», dato che il ricorrente richiamo alla esigenza di «grandi riforme» è stato accompagnato dal costante rinvio della definizione di esse alla successiva attuazione del programma governativo) è la incerta distinzione fra l’indirizzo politico proprio della maggioranza di governo e quello della opposizione; incertezza che si è manifestata ben presto nella fase di gestazione della riforma elettorale (approvata in prima lettura dalla camera il 12 marzo 2014) e di quella «riforma del bicameralismo» (d.d.l. A.S. n. 1429) che è stata presentata al senato nell’aprile di quell’anno e che si presenta, in realtà, come una sostanziale modifica della seconda parte della Costituzione, giungendo ad investire ben quattro titoli e 47 articoli del testo costituzionale vigente. L’approvazione in prima lettura alla camera della riforma costituzionale del governo Renzi è stata, tuttavia, preceduta, nel gennaio 2015, dalle dimissioni del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che aveva operato, come abbiamo detto sopra, come il vero «centro motore» del processo delle riforme istituzionali, come ribadito, ad esempio, da una dichiarazione dello stesso capo dello Stato (7 luglio 2014) nella quale, pur affermandosi che «sia stato e sia giusto per il presidente della Repubblica non pronunciarsi sui termini delle scelte in discussione al senato per quel che riguarda, in particolare, il superamento del bicameralismo paritario» si precisava che «senza entrare nel merito di opzioni ancora aperte, è parte della [sua] responsabilità auspicare una conclusione costruttiva, e ampiamente condivisa come è possibile, evitando ulteriori spostamenti in avanti dei tempi di un confronto che non può scivolare, come troppe volte è già accaduto, nell’inconcludenza su materie di riforma più che mai mature e vitali per lo sviluppo del nostro sistema istituzionale». Queste dimissioni erano state già adombrate nello stesso messaggio di insediamento di Napolitano al momento della sua rielezione sia in relazione alla sua tarda età, sia per sottolineare che la sua accettazione del nuovo mandato era stata determinata dalla eccezionalità della situazione politica e dal conseguente «stallo» parlamentare: cosicché l’insediamento del nuovo governo e l’avvio della sua attività consentivano, ormai, quel normale avvicendamento anche nella carica presidenziale che era stata auspicata da Napolitano prima della sua rielezione. I partiti politici si sono presentati, questa volta, all’appuntamento per l’elezione del presidente non così profondamente divisi come era accaduto dopo le elezioni del febbraio 2013. Tuttavia, anche l’elezione del nuovo capo dello Stato, che è avvenuta il 31 gennaio 2015, ha confermato la or-

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mai stabilizzata divisione tripolare del nuovo parlamento; per cui, agli inviti a votare per Sergio Mattarella (importante esponente dell’area cattolico popolare; più volte ministro, autore, fra l’altro, della riforma elettorale del 1993 e giudice costituzionale dal 2011) provenienti dal presidente del consiglio Renzi, si è contrapposta, inizialmente, una differente preferenza espressa da forza Italia (favorevole a Giuliano Amato) ed una esplicita, diversa, candidatura sostenuta, invece, dal movimento 5 stelle. Malgrado queste difficoltà, Sergio Mattarella è stato, alla fine, eletto nella quarta votazione con un quorum (665 voti favorevoli su 1015 votanti) che ha sfiorato i due terzi dei voti e con una maggioranza che ha visto la convergenza del PD; di SEL; dei centristi di Monti; di parte di forza Italia (nel segreto dell’urna) e anche della maggioranza di «area popolare» (nuovo centro destra e UDC). Si può osservare che nel suo sobrio messaggio rivolto al parlamento il 3 febbraio, giorno del suo giuramento, il nuovo presidente ha voluto anzitutto sottolineare che l’agenda sulla quale sarebbe stata misurata la vicinanza delle istituzioni al popolo è rappresentata dal superamento delle nuove povertà, della disoccupazione, dalla necessità di garantire diritti e servizi sociali fondamentali e dal perseguimento «di una robusta iniziativa di crescita da articolare innanzitutto a livello europeo»; nel superamento della crisi della rappresentanza politica. Mentre, per quel che riguarda «il percorso di un’ampia ed incisiva riforma della seconda parte della Costituzione», il nuovo presidente «senza entrare nel merito delle singole soluzioni che competono al parlamento» ha espresso soltanto l’auspicio «che questo percorso sia portato a compimento con l’obbiettivo di rendere più adeguata la nostra democrazia». Auspicio che è apparso come il preannuncio di una più chiara distinzione fra quel ruolo di garanzia, proprio del presidente, e il sempre più accentuato ruolo dell’esecutivo nelle riforme istituzionali che aveva già portato il governo Renzi a presentare al senato il suo complesso disegno di legge recante «Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione» (A.S. n. 1429). Il «percorso» delle riforme iniziato dal governo Renzi si è quindi collegato ai precedenti del 2001 (revisione del titolo V della Costituzione) e del 2005 (riforma della seconda parte della Costituzione, voluta dall’allora maggioranza di centro destra); sia perché l’iniziativa legislativa è stata esercitata dal governo, sia perché, come emerge dalla relazione governativa al disegno di legge costituzionale A.S. n. 1429, il governo si è dichiarato convinto dell’autosufficienza della maggioranza per l’approvazione della riforma. Due circostanze che, nella tecnica della comunicazione politica, avrebbero dato una grande visibilità al governo, legittimandolo davanti alla opinione pubblica come il solo soggetto dotato di volontà riformatrice

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in contrapposizione ad altre forze politiche ancorate, invece, in difesa del vecchio ed inefficiente sistema costituzionale. Occorre rilevare, però, che questo intento iniziale del governo ha incontrato ben presto delle difficoltà quando, ancor prima dell’inizio della discussione nella commissione affari costituzionali del senato, la minoranza del partito democratico ha manifestato la sua contrarietà ad alcuni punti, anche qualificanti, della riforma del bicameralismo; mentre, dalla parte delle opposizioni, alla forte contrarietà del movimento 5 stelle, si è unita la indisponibilità di forza Italia ad essere coinvolta nella riforma al di fuori di un accordo politico più generale che comprendesse anche un’altra parte delle riforme istituzionali quali, ad esempio, la riforma della legge elettorale e quella della giustizia. Proprio per facilitare il percorso parlamentare della riforma, la presentazione al senato del relativo disegno di legge governativo era stata preceduta dalla stipulazione di un accordo fra Matteo Renzi ed il presidente di forza Italia Silvio Berlusconi: accordo che era rivolto a coordinare l’azione politica e parlamentare del maggior partito di governo e quella di uno dei più importanti gruppi di opposizione. Questo patto (noto come «patto del Nazareno» perché stipulato nella via romana che è sede della direzione nazionale del PD) conteneva una serie di impegni reciproci, mai resi pubblici, fra i due partiti che riguardavano soprattutto il contenuto delle riforme costituzionali ed elettorali ma, sembra, anche altre tematiche ad esse connesse come, ad esempio, quella relativa alla giustizia, che interessava particolarmente a forza Italia. L’esistenza ed il contenuto di questo patto sono apparsi subito assai discutibili. Le forme di governo parlamentari, infatti, si basano sulla esistenza di una maggioranza che è identificata ed identificabile sulla base di un indirizzo politico che deve essere conosciuto ed approvato dal parlamento. Questo principio risulta essere particolarmente rigoroso nel nostro ordinamento costituzionale che ha introdotto, attraverso l’art. 94 Cost., il voto preventivo di fiducia al governo: voto che è (o meglio, dovrebbe essere) concesso attraverso una mozione motivata ma che richiede, comunque, come sottolineato sopra, l’esistenza e la approvazione da parte della maggioranza del parlamento di un programma di governo. È del tutto evidente, quindi, che nel nostro sistema politico costituzionale, se possono esistere maggioranze che si differenziano da quella di governo su singole decisioni parlamentari (così come è riconosciuto dall’art. 64 Cost.), la maggioranza politica di governo non può rimanere che una ed una sola e l’esistenza di «maggioranze politiche variabili» risulta del tutto contraria alle intenzioni dei costituenti che vollero collegare (si veda l’approvazione dell’ordine del giorno Perassi) la nascita della maggioranza parlamentare e del suo programma al voto palese ed alla conseguente assunzione di una precisa responsabilità politica dei parlamentari e del governo nei confronti del corpo elettorale.

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Il «patto del Nazareno» si proponeva di affiancare, invece, alla maggioranza di governo che aveva ottenuto la fiducia delle camere il 25 febbraio 2014, una seconda maggioranza fondata su un accordo il cui contenuto era sicuramente politico, in quanto basato sulla definizione di finalità programmatiche comuni fra il partito di forza Italia e il PD e sulla definizione dei mezzi (essenzialmente, l’azione parlamentare) da porre in essere per raggiungerle. Inoltre, questa seconda maggioranza veniva ad affiancarsi a quella legittimamente votata dal parlamento, prescindendo, da un lato, dal consenso dei partiti alleati del PD nel sostegno al governo Renzi e, dall’altro, da qualsiasi «passaggio parlamentare» che consentisse ai parlamentari dei gruppi favorevoli o contrari al governo di esprimersi non solo sul (presumibile) contenuto dell’accordo ma anche sulla sua costituzionale legittimità. Inoltre, che il «patto del Nazareno» abbia dato vita ad una seconda maggioranza parlamentare, che si affiancava illegittimamente alla prima, non era smentito dal fatto che la maggior parte del suo contenuto risultava dedicato al tema delle riforme costituzionali. Infatti, anche se è vero che le riforme della Costituzione sono, o dovrebbero essere, sempre tenute distinte dall’indirizzo politico di maggioranza, è anche vero che il programma del governo Renzi e la presentazione ad opera del governo della riforma elettorale e della riforma del bicameralismo avevano sicuramente inserito tutta la materia delle riforme nell’indirizzo politico governativo e, dunque, il «patto del Nazareno» assumeva un contenuto del tutto diverso da quella legittima ricerca di un «allargamento del consenso sulle riforme costituzionali alle minoranze parlamentari» che lo stesso presidente Napolitano aveva più volte auspicato. Infine, le modalità con le quali quel patto è stato sottoscritto (la sua segretezza; la mancata comunicazione, preventiva e successiva, agli organi dirigenti dei due partiti; il ruolo decisorio assunto dai due leader) si pongono in aperta contraddizione con quel principio del metodo democratico che la Costituzione pone alla base del diritto dei cittadini di associarsi in partititi politici. Il patto, dunque, confermava, da un lato, il tradizionale orientamento di forza Italia da sempre decisamente contraria alla attuazione legislativa dell’art. 49 Cost. e registrava il fatto che quella attuazione (che, pure, era contenuta nel programma del governo Letta ed era comparsa, sia pure fugacemente, nel discorso programmatico del nuovo presidente del consiglio) non rientrava più nell’orizzonte politico del governo Renzi. In effetti, le vicende che sono seguite alla stipulazione del «patto del Nazareno» dimostrano l’ambiguità sottintesa alla decisione del governo Renzi di presentare una riforma così complessa e così pervasiva della Costituzione vigente (è noto che la riforma investe più di quaranta articoli e quattro diversi titoli della Costituzione) presentandola come una iniziativa della maggioranza di governo, ma mirando, in un secondo momento, ad

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associare una parte cospicua della minoranza, per assicurare il raggiungimento del quorum dei due terzi nelle due seconde votazioni parlamentari ed evitare, così, quei rischi del referendum che il governo aveva, invece, accettato di correre al momento della presentazione del suo disegno di legge costituzionale di riforma. L’accordo fra il PD e forza Italia è entrato, tuttavia, in crisi nel corso del mese di luglio 2014 a causa della mancata concessione della grazia a Berlusconi e dei successivi dissensi sulla riforma della giustizia e sul premio di maggioranza assegnato dall’«italicum» non alla coalizione ma alle sole liste di partito. Cosicché, la discussione in senato sulla riforma del bicameralismo ha dovuto registrare, prima, il progressivo distacco del gruppo parlamentare di forza Italia dagli obiettivi contenuti nella riforma, poi la aperta ostilità di quel gruppo alla sua approvazione. Cosicché l’8 agosto 2014 il senato ha approvato (con 183 «sì» e quattro astenuti) la riforma costituzionale proposta dal governo, mentre tutti i gruppi di opposizione (da forza Italia, al movimento 5 stelle, alla lega nord) hanno abbandonato l’aula senza votare. Rendendo palese, così, che la riforma del bicameralismo non avrebbe potuto essere più approvata da quella ampia maggioranza che, nella logica dell’art. 138 Cost., rende superfluo il possibile appello al corpo elettorale Nel presupposto, come fu detto da Mortati, che l’esistenza di un ampio consenso fra i partiti rappresentati in parlamento, rende superfluo l’appello al corpo elettorale. Una interpretazione corretta dell’art. 138 Cost. avrebbe richiesto, a questo punto, o l’abbandono del d.d.l. A.S. n. 1429 e la riproposizione alle camere di un diverso progetto di riforma o, almeno, la sua suddivisione in disegni di legge di modifica della Costituzione distinti materia per materia. Soluzione che avrebbe, così, non solo evitato il possibile svolgimento di un referendum viziato da una palese illegittimità costituzionale, ma avrebbe anche consentito alle camere di esprimere un più motivato giudizio sulle singole proposte di modifica alla Costituzione vigente avanzate dal governo. Invece di optare per una di queste soluzioni, il governo ha accentuato, invece, l’impianto maggioritario della riforma fino al punto di sostituire nella commissione affari costituzionali del senato il presidente ed altri membri, appartenenti alla minoranza del PD, che avevano proposto emendamenti difformi dal testo del governo in tema di composizione e di funzioni del nuovo senato. Dunque, il testo che è stato alla fine approvato dal senato in via definitiva e che sarebbe stato approvato dalla camera dei deputati entro il mese di aprile è quello presentato dal governo, emendato con modeste modifiche, tutte provenienti dall’area della maggioranza, ivi compresa quella riguardante le modalità di nomina dei senatori da parte dei consigli regionali (ma in base alle indicazioni espresse dal corpo elettorale della regione) che è stata formulata da parte della minoranza del PD e che non rappresenta certo una significativa innovazione del disegno di legge costituzionale presentato dal governo.

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È da sottolineare, tuttavia, che la scelta di «blindare» la riforma del bicameralismo nella direzione indicata dal governo senza nulla concedere all’apporto delle minoranze, ha portato alla fine, al momento della votazione in seconda lettura da parte del senato, alla approvazione della riforma solo grazie al voto favorevole, risultato determinante, di un nuovo gruppo parlamentare (promosso dal senatore Verdini e denominato ALA) composto da circa venti senatori provenienti da forza Italia: dando luogo, così, è vero, a quel «coinvolgimento delle minoranze» nella riforma più volte auspicato dal capo dello Stato e dal presidente del consiglio ma realizzandolo secondo i peggiori modelli trasformistici tipici del più vetusto trasformismo parlamentare italiano che la democrazia italiana si era illusa di aver superato grazie alla approvazione, da parte dell’assemblea costituente, dell’ordine del giorno Perassi. Dunque, una «grande riforma» della Costituzione, promossa dal governo in nome della sola maggioranza di governo e divenuta, nel corso del suo iter, la riforma di una «grande maggioranza» («patto del Nazareno») e che avrebbe dovuto raggiungere il quorum dei due terzi nelle due seconde votazioni, ha finito per essere approvata da una maggioranza composta da un gruppo di transfughi da un partito (forza Italia) contrario alla riforma. Si deve, inoltre, ricordare che dopo la seconda deliberazione del senato il presidente del consiglio ha voluto manifestare la sua soddisfazione, aggiungendo che, in caso di referendum, egli avrebbe partecipato attivamente alla campagna per il «sì» e preavvertendo che, in caso di vittoria del «no», egli si sarebbe immediatamente dimesso. Ciò è in effetti avvenuto all’indomani dell’esito, sfavorevole al testo di riforma, del referendum costituzionale svoltosi nel dicembre 2016. Con questa dichiarazione il delicato confine fra la Costituzione intesa come garanzia di tutti e la Costituzione intesa come norma posta a disposizione della maggioranza di governo è decisamente spostato nella seconda direzione, ribadendo, così, che il governo ha voluto attribuire al referendum un carattere di fatto plebiscitario, volto a sollecitare una adesione politica al governo in carica e non a realizzare la espressione di un consapevole giudizio sul contenuto della riforma costituzionale approvata dalle camere, peraltro reso arduo, come si dirà, dall’eterogeneità contenutistica della riforma stessa (ai singoli elettori non è stata data la possibilità di esprimere un diverso voto, ed un diverso giudizio fra le norme che, ad esempio, aboliscono il voto di fiducia del senato e quelle che riguardano, invece, la sua composizione; fra le norme che modificano le competenze regionali e quelle che modificano le modalità di elezione del presidente della Repubblica). La prassi più recente sembra quindi evidenziare un nuovo rapporto che si sta determinando fra la leadership di partito e quella di governo. La forma di governo italiana ha, infatti, sofferto per anni di una singolare anomalia che derivava dal divieto, sancito dallo statuto della DC, che impediva di sommare nella stessa persona la leadership del partito e la ca-

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rica di primo ministro; tale anomalia, se consentiva l’esercizio di un fortissimo controllo sul presidente del consiglio da parte del partito di maggioranza relativa, finiva, però, per indebolirne i poteri politici (di per sé già non rilevanti). È noto che questa anomalia fu superata, ma solo parzialmente, già con il governo Spadolini del 1981 e, poi, in maniera definitiva, a partire dal governo Craxi del 1983, consentendo la possibilità di avere, anche in Italia, presidenti del consiglio più forti nel governo perché più forti anche all’interno del loro partito (peraltro non di maggioranza relativa). Va osservato, però, che questa nuova consuetudine si era affermata, fino ad oggi, in un quadro non difforme da quello europeo, nel quale i rischi che possono derivare dal sommarsi dei poteri che attengono all’esercizio delle due leadership sono compensati dalla presenza di un doppio controllo: quello che viene esercitato dall’interno dello stesso partito di maggioranza e quello che proviene invece dai dispositivi fiduciari propri alle diverse forme di governo. La straordinaria concentrazione del potere nelle mani di una sola persona che è avvenuta nel maggior partito italiana priva, invece, il nostro sistema politico di uno dei due fondamentali pilastri del riequilibrio e del controllo, rendendo impossibile, ad esempio, l’imposizione, da parte dello stesso partito di maggioranza, delle dimissioni di un primo ministro ancora assistito dalla fiducia parlamentare, come è accaduto, invece, negli scorsi anni in Gran Bretagna con la signora Thatcher e, successivamente, con Tony Blair, Gordon Brain e David Cameron, quando il partito conservatore e quello laburista sono stati in grado di far prevalere il superiore interesse di partito su quello personale del primo ministro in carica. La forte concentrazione del potere nelle mani di una sola persona che si sta realizzando nel partito di maggioranza relativa non riguarda, però, soltanto i problemi che attengono all’assetto meramente politico della forma di governo italiana, ma rischia di coinvolgere lo stesso carattere parlamentare della nostra forma di governo. Da questo punto di vista, le dimissioni di Renzi e la successiva formazione del governo Gentiloni aprono una fase nuova, ma non meno problematica, della vita politica italiana. In questa sede, ci si può limitare ad osservare che la crisi del governo Renzi ricorda, per alcuni profili, quella del quarto governo Berlusconi: anche in questo caso, infatti, le dimissioni sono state «congelate» dal capo dello Stato per consentire la rapida approvazione della legge di bilancio; il tutto, in un contesto di pesante incertezza derivante sia dalla perdurante crisi economica, sia dal fatto che, in caso di elezioni anticipate, gli italiani avrebbero dovuto votare con due leggi elettorali profondamente diverse per i due rami del parlamento: il c.d. italicum per la camera (sui profili di legittimità costituzionale del quale la corte costituzionale si pronuncerà il 24 gennaio 2017), e una legge elettorale di tipo proporzionale per il senato (cfr. cap. 7).

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Capitolo Settimo

La prospettiva delle riforme istituzionali (2005-2016) SOMMARIO: Parte I: Il dibattito sulle riforme costituzionali (2005-2014). – 1. Il testo di revisione della seconda parte della Costituzione approvato nella XIV legislatura e respinto nel referendum costituzionale nel giugno 2006. – 2. La legge cost. 20 aprile 2012, n. 1 («Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale»). – 3. Le proposte del “gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali” istituito dal presidente della Repubblica il 30 marzo 2013. – 4. I lavori della commissione “Quagliariello”. – Parte II: Il tormentato percorso di riforma delle leggi elettorali per il parlamento nazionale. – 5. A monte della “rivoluzione” del 2014: l’eterno dibattito sulla riforma elettorale (1993-2013). – 6. Segue: la svolta costituita dalla sent. n. 1 del 2014 della corte costituzionale. – 7. Il sistema elettorale per il senato risultante dalla sent. n. 1 del 2014. – 8. L’italicum: un sistema elettorale per la sola camera dei deputati. – 9. Segue: l’italicum: svolta o porcellum-bis? – 10. Conclusioni: la necessità di un ripensamento globale della legislazione elettorale nel contesto di una forma di governo in discussione. – 11. La nuova disciplina del finanziamento dei partiti politici. – Parte III: La proposta di revisione costituzionale “Renzi-Boschi”. – 12. Il d.d.l. “Renzi-Boschi” ed il metodo delle riforme costituzionali. L’art. 138 della Costituzione. Il problema della revisione della Costituzione e quello delle “grandi riforme”. Le “grandi riforme” ed il referendum costituzionale previsto dal comma 2 dell’art. 138 con i due diversi quorum da esso previsti. – 13. I contenuti del testo di revisione costituzionale: il superamento del bicameralismo paritario e la riduzione del numero dei parlamentari. – 14. La nuova disciplina del procedimento legislativo. – 15. Altri contenuti della riforma: elezione del capo dello Stato; impugnazione delle leggi elettorali per i due rami del parlamento; modifiche agli istituti di democrazia diretta. – 16. Riforma “Renzi-Boschi” e sviluppi della forma di governo: la questione del “combinato disposto” tra revisione costituzionale e italicum. – 17. La revisione del titolo V della parte II della Costituzione. – Parte IV: La forma di governo italiana: problemi e prospettive. – 18. Introduzione: la “presidenzializzazione” degli esecutivi nelle democrazie contemporanee. – 19. Reinterpretazione o revisione degli artt. 92 e 95 Cost.? L’art. 8 della legge Madia.

PARTE I – IL DIBATTITO SULLE RIFORME COSTITUZIONALI (2005-2014) 1. Il testo di revisione della seconda parte della Costituzione approvato nella XIV legislatura e respinto nel referendum costituzionale nel giugno 2006 Dopo il fallimento della commissione “D’Alema”, il dibattito sulle riforme istituzionali proseguì nella stessa XIII legislatura; tra il 1999 e il

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2001 alcune parti del testo di tale commissione, relative alla riforma del titolo V della Costituzione, furono approvate dal parlamento seguendo la procedura delineata dall’art. 138 Cost.: si tratta della legge cost. n. 1 del 1999 (relativa alla forma di governo e all’autonomia statutaria delle regioni di diritto comune), della legge cost. n. 2 del 2001 (che, per così dire, “adatta” i contenuti della legge cost. n. 1 del 1999 alle regioni a statuto speciale), della legge cost. n. 3 del 2001 (che investe l’intero assetto delle competenze regionali, da quella legislativa, a quella amministrativa, a quella finanziaria). Mentre le prime due leggi costituzionali furono approvate a larga maggioranza, non così avvenne con la legge cost. n. 3 del 2001: tale riforma, infatti, approvata al termine della legislatura, ebbe i voti della sola maggioranza di centro sinistra nella seconda deliberazione. Per la prima volta nella storia della Repubblica, una legge costituzionale ricevette consensi nel perimetro della sola maggioranza parlamentare e per la prima volta una legge costituzionale fu sottoposta al referendum di cui all’art. 138 Cost., essendo approvata dal corpo elettorale con il 64,2% dei voti ma con una bassa partecipazione al voto (parteciparono alla consultazione solo il 34,1 degli aventi diritto). Si trattava quindi di una duplice innovazione, peraltro assai problematica: fino al 2001, infatti, la legislazione costituzionale aveva sempre incontrato larghi consensi parlamentari, e ciò anche prima del 1993, quando il PCI, nonostante la conventio ad excludendum, era stato sempre coinvolto nel procedimento di approvazione delle leggi di cui all’art. 138 Cost. (ed anche della legislazione attuativa della Costituzione). Dal 2001 è invece prevalsa una prassi nuova e discutibile per cui maggioranze parlamentari contingenti, espressione anche di leggi elettorali fortemente connotate da criteri maggioritari, hanno provveduto ad approvare, con le sole loro forze, leggi di revisione costituzionale contenutisticamente molto ampie, sottoposte al referendum di cui all’art. 138 Cost. richiesto dagli stessi parlamentari che avevano contribuito all’approvazione del testo. In tal modo, però, è prevalsa un’interpretazione del referendum eventuale previsto nel procedimento di revisione costituzionale come strumento a disposizione delle maggioranze in funzione di “integrazione politica” (e quindi confermativa), con evidenti rischi di un suo uso plebiscitario e non, invece, come nel disegno costituzionale, a garanzia delle minoranze, esprimendo tale consultazione una istanza di conservazione e di freno rispetto all’operato delle camere. Ulteriori dubbi sussistono poi a proposito dell’uso del referendum in relazione a testi di revisione costituzionale ampi ed eterogenei (cfr. infra, par. 12). La tentazione di una “grande riforma” della seconda parte della Costituzione riemerse puntualmente nella XIV legislatura: la sola maggioranza di centro-destra approvò nel 2005 un testo di revisione costituzionale («Modifiche alla parte II della Costituzione»: A.S. 2544-D) che modificava

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in profondità la forma di governo, l’assetto del parlamento, il titolo V, il sistema delle garanzie. In totale, erano modificati, formalmente o sostanzialmente, 50 articoli della seconda parte della Costituzione (oltre a un articolo di una legge costituzionale) e inseriti tre nuovi articoli. Tale testo, però, fu respinto nel referendum costituzionale del 25 giugno 2006, con il 61,3% dei voti e, questa volta, con una buona partecipazione al voto (52,5% degli aventi diritto). Le scelte di fondo della riforma erano riconducibili, in primo luogo, a una profonda trasformazione della forma di governo in direzione del c.d. “premierato forte”, secondo le aspettative di forza Italia e del suo leader (e in quel momento presidente del consiglio) Silvio Berlusconi (mentre alleanza nazionale avrebbe preferito il modello semipresidenziale); al rafforzamento dell’autonomia legislativa regionale, voluto dalla lega nord, problematicamente limitato da un riferimento all’interesse nazionale quale limite generale della legislazione regionale. Parte integrante dell’accordo era poi il superamento della riforma elettorale del 1993 fino a quel momento vigente e il passaggio a sistemi elettorali di tipo proporzionale, corretti da premi di maggioranza, per entrambi i rami del parlamento: proprio questo punto fu l’unico ad essere stato effettivamente attuato, con l’approvazione della legge n. 270 del 2005. Vale la pena di soffermarsi sul testo di revisione costituzionale respinto dagli elettori nel 2006, in quanto il modello di “premierato forte” da esso desumibile sembra ancora oggi incontrare consensi sia a livello politico, sia in una parte della dottrina (costituzionalistica e politologica), in nome di un’evoluzione che porti ad una formale o sostanziale “elezione del governo”. In concreto, sul piano della forma di governo, si ipotizzava un rafforzamento del governo (o, meglio, del presidente del consiglio), a fronte di un ridimensionamento del parlamento e del capo dello Stato. Il nucleo originario del progetto riguardante la forma di governo si ispirava al modello di Westminster perché le trasformazioni subite dal sistema politico italiano in conseguenza dei sistemi elettorali maggioritari in vigore dal 1994 e la sostanziale accettazione della “democrazia dell’alternanza” nelle elezioni del 1996 ed in quelle del 2001 facevano apparire quel sistema come il più adatto a quella diffusa esigenza di men and measures che il referendum sulle leggi elettorali aveva rivelato essere largamente prevalente nel corpo elettorale italiano. Del resto, sia nel 1996 che nel 2001 si era realizzata una sorta di convenzione fra i due contrapposti schieramenti politici, in base alla quale le due coalizioni avevano accettato di indicare un leader, candidato primo ministro, ed avevano approvato un programma elettorale, corrispondente, anche se in maniera embrionale, ai manifestos elettorali dei partiti britannici. In questo senso, appariva almeno in parte mutata l’interpretazione dell’art. 92 Cost. sulla nomina del governo e (in parte) anche quella dell’art.

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95 Cost. Di fronte al riconoscimento del “fatto maggioritario” determinato dall’elettorato, quel ruolo di vero King maker che il capo dello Stato aveva dovuto giocare nel sistema precedente rimaneva, ormai, privo di sostanza. Il vero problema era, però, che le capacità di innovazione della nuova Costituzione materiale e la sua capacità di influire in maniera positiva sull’effettivo funzionamento della forma di governo non sembrava andare molto al di là della determinazione del fatto maggioritario e della instaurazione di più rapide procedure di formazione del conseguente governo di coalizione, essendo invece evidenti le gravi difficoltà di funzionamento dei governi dopo il loro insediamento formale e rimanendo del tutto irrisolti tanto i problemi riguardanti la collegialità governativa, sia la capacità delle coalizioni di superare i poteri di ricatto dei partiti che non esprimevano il leader, attraverso i veti sull’interpretazione del programma e la presentazione di iniziative non condivise dal resto della coalizione. Di fronte a questa situazione, la scelta di forza Italia di proporre un assetto nel quale il primo ministro fosse al centro della complessiva forma di governo andava in una direzione (quella del modello di Westminster) dotato di indiscutibili pregi di stabilità e di efficienza, e tale da compensare anche i possibili effetti centrifughi del federalismo. Il fatto è che questa scelta, parziale, come si dirà, del modello di Westminster si accompagnava ad uno stato di rapporti tra maggioranza ed opposizione in parlamento tale da rimettere in discussione la precedente convergenza fra i due poli a favore di una riforma che stabilizzasse il maggioritario. La scelta della maggioranza di procedere ad una modifica della forma di governo quasi esclusivamente concentrata sul rafforzamento del ruolo del primo ministro finiva, infatti, per mettere in maggiore evidenza le conseguenze negative del funzionamento in senso maggioritario della vigente forma di governo, originariamente pensata in relazione a sistemi elettorali di tipo proporzionale: dunque, dalla nomina dei presidenti delle camere, alla presidenza delle commissioni parlamentari, dall’uso massiccio della questione di fiducia in parlamento, alla nomina (presente e futura) degli organi di garanzia costituzionale, dallo status dell’opposizione in parlamento, alle procedure di revisione della Costituzione, l’opposizione contestava l’abuso del potere di maggioranza fino al punto di interrogarsi sull’opportunità delle scelte fatte nella precedente legislatura a proposito della forma di governo e del ruolo del primo ministro nel sistema maggioritario. Questa situazione spiega la radicalità dello scontro tra maggioranza e opposizione sulla parte del disegno di legge di riforma relativo alla forma di governo e, in particolare, ai poteri riconosciuti al primo ministro. Lo scontro non riguardò l’art. 30 del testo di riforma che riproduceva quasi letteralmente il vigente art. 92 Cost. («Il governo della Repubblica è composto dal primo ministro e dai ministri, che costituiscono insieme il consiglio dei ministri»). E ciò appare in qualche misura paradossale alla luce

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del fatto che proprio tale disposizione è stata costantemente criticata dalla dottrina, avendo in qualche modo “allineato” tre diversi principi diversi di organizzazione interna del governo (quello fondato sulla preminenza del primo ministro, quello collegiale, quello ancorato sul principio della responsabilità individuale dei ministri: cfr. cap. 3, par. 2). Proprio su questo punto, però, il testo evidenziava già un primo fattore di debolezza, poiché, a fronte di un indubbio rafforzamento del primo ministro (nel procedimento di formazione del governo; nel riconosciuto potere di nomina e revoca dei ministri; nella procedura di scioglimento della camera), il principio monocratico e quello collegiale rimanevano nel testo indeterminati nel loro rispettivo equilibrio. Questa lacuna appare però grave se si tiene conto del fatto che il modello Westminster è certamente fondato sul principio di preminenza del prime minister ma anche su un principio di collegialità che ha trovato la sua espressione storica nel cabinet: organo politico ed non “ministeriale” nel quale trovano, normalmente, composizione il principio di preminenza del primo ministro e la necessità del partito di governo di partecipare alla formulazione dell’indirizzo politico governativo. Per quanto riguarda il “nuovo” art. 92 Cost., il centro del dibattito parlamentare ebbe ad oggetto il comma 2 ai sensi del quale il primo ministro non sarebbe stato eletto direttamente dai cittadini ma “indicato” in collegamento con i candidati ovvero con una o più liste di candidati all’elezione della camera dei deputati (unico ramo del parlamento inserito nel rapporto fiduciario). Il presidente della Repubblica avrebbe nominato il primo ministro sulla base dei risultati delle elezioni della camera dei deputati. Le opposizioni di sinistra e di centro-sinistra contestarono la “formalizzazione” dell’indicazione diretta del primo ministro nella scheda elettorale, sostenendo che essa sarebbe stata una sorta di “equivalente sistemico” dell’elezione diretta, ritenuta, non senza ragione, incompatibile con una forma di governo parlamentare. Sul punto, la maggioranza cercò un difficile compromesso, prevedendo che i meccanismi di collegamento tra l’indicazione del primo ministro e l’elezione dei deputati fossero affidati alla futura legge elettorale. Ed in effetti, nonostante la reiezione del testo di revisione costituzionale, la riforma elettorale del 2005 ha imposto il necessario collegamento tra l’elezione dei parlamentari e un “capo unico della coalizione” (o della forza politica), peraltro non inserito come tale sulla scheda elettorale (tale previsione è rimasta, fatto salvo il riferimento alle coalizioni, anche nella nuova legge elettorale c.d. italicum: cfr. infra, par. 9). Supponendo che, come si evinceva dall’art. 92, comma 2, il futuro sistema elettorale potesse “produrre” una maggioranza parlamentare collegata ad un “candidato” primo ministro, il successivo comma 3 prevedeva la sua nomina da parte del presidente della Repubblica «sulla base dei risultati delle elezioni della camera dei deputati». La vera differenza rispetto a

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quanto previsto dal vigente art. 92, comma 2, Cost. era data dal fatto che la nomina avrebbe riguardato il solo primo ministro, poiché la competenza in ordine alla nomina dei ministri sarebbe spettata a quest’ultimo (così, il “nuovo” art. 95, comma 1, Cost.). Riguardo la formazione del governo, il “nuovo” art. 94 prevedeva che entro dieci giorni dalla nomina il primo ministro dovesse illustrare il programma di legislatura e la composizione del governo alle camere. La camera dei deputati si sarebbe espressa con un voto sul programma. Il primo ministro ogni anno era tenuto a presentare il rapporto sulla sua attuazione e sullo stato del Paese. Anche se tale previsione si raccordava, in qualche modo, al vigente art. 94 Cost. sia in relazione al documento da votare, che avrebbe dovuto esprimere l’indirizzo politico dell’intero governo, sia in relazione al significato del voto parlamentare che aveva ad oggetto il primo ministro, l’indirizzo del governo e la sua composizione, la mancata previsione dell’obbligo di mozione motivata e del voto per appello nominale avrebbero impedito che l’approvazione parlamentare avesse il significato di trasformare l’indirizzo del governo in un indirizzo comune del parlamento e dell’esecutivo, come accade (o meglio, come dovrebbe accadere: cfr. cap. 4, par. 2) oggi. Poco comprensibile appariva poi anche la norma che prevedeva un dibattito annuale sull’attuazione del programma di governo e sullo stato del Paese. Il richiamo, quasi letterale, al messaggio sullo stato dell’unione del presidente U.S.A. rischiava di essere solo velleitario, mentre sarebbe stato opportuno più opportuno prevedere un dibattito e un voto della camera sull’indirizzo politico del governo in relazione all’apertura di un’annuale sessione parlamentare, come accade tuttora nel Regno Unito. Ciò detto, la parte più controversa della forma di governo che emergeva dal testo di revisione costituzionale in esame era, però, quella che riguardava, da un lato, il sistema dei rapporti politici all’interno del governo e fra il primo ministro e la sua maggioranza e, dall’altro, le relazioni fra governo e parlamento e fra la maggioranza e le opposizioni. Come si è accennato, il “nuovo” art. 95 Cost. attribuiva al primo ministro il potere di nominare e di revocare i ministri. Il primo ministro, quindi, non sarebbe stato più un primus inter pares, come confermato dal “nuovo” art. 95, comma 2, Cost. ai sensi del quale egli avrebbe determinato (e non più diretto) la politica generale del governo, rimanendone responsabile. Tali prerogative, però, di per sé “naturali” in una forma di governo parlamentare, debbono essere sempre astrattamente inquadrate in un sistema di rapporti all’interno del governo tali da rendere la preminenza del primo ministro correlata, più che ad una superiorità di tipo gerarchico, ad una preminenza di carattere dichiaratamente politico. Sul punto, il modello di Westminster risolve il problema della superiorità politica del primo ministro all’interno dell’ordinamento del cabinet, attraverso un ponde-

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rato equilibrio fra la supremazia del prime minister e la salvaguardia della concorde collegialità dell’organo. Al contrario, nel sistema tedesco, la preminenza politica del cancelliere è affidata al suo potere di emanare, nei confronti dei ministri, le Richtlinien der Politik: direttive politiche di carattere generale che si pongono all’esterno della collegialità del consiglio dei ministri. Da questo punto di vista, il testo in questione appariva ambiguo, oscillando tra il riconoscimento di nuove prerogative in capo al premier e la riaffermazione del principio della responsabilità collegiale dei ministri per gli atti del consiglio dei ministri; e proprio quest’ultimo elemento avrebbe potuto rischiare di rendere del tutto teorico il potere del primo ministro di determinare la politica generale del governo, dato che il consiglio dei ministri sarebbe, con ogni probabilità, rimasto titolare delle attribuzioni più rilevanti in tema di politica generale: dall’approvazione del programma di governo a quella dei disegni di legge governativi, agli atti più rilevanti in materia economica e di bilancio. Tuttavia, il testo in questione appariva ancora più difettoso in altri punti decisivi, ovvero il rapporto fiduciario tra governo e parlamento, quello tra il primo ministro e la sua maggioranza e, infine, lo scioglimento anticipato della camera. Il “nuovo” art. 94 Cost. prevedeva che il primo ministro potesse porre la questione di fiducia e chiedere che la camera dei deputati si esprimesse, con priorità su ogni altra proposta, con voto conforme alle proposte del governo, nei casi previsti dal suo regolamento. La votazione avrebbe avuto luogo per appello nominale. In caso di voto contrario, il primo ministro era obbligato a dimettersi. Non era comunque ammessa la questione di fiducia sulle leggi costituzionali e di revisione costituzionale. Riguardo alla sfiducia, essa avrebbe dovuto essere firmata da almeno 1/5 dei componenti della camera dei deputati e non essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione; per la sua approvazione era richiesta la maggioranza assoluta dei componenti. Nel caso di approvazione, il primo ministro era obbligato a dimettersi e il presidente della Repubblica era tenuto a decretare lo scioglimento della camera dei deputati. L’obbligo delle dimissioni sussisteva anche qualora la mozione di sfiducia fosse stata respinta con il voto determinante di deputati non appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni. In tale caso si sarebbe applicato il “nuovo” art. 88, comma 2, Cost. Tuttavia, qualora fosse stata presentata e approvata una mozione di sfiducia, con la designazione di un nuovo primo ministro, da parte dei deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della camera, il primo ministro si sarebbe dovuto dimettere e il presidente della Repubblica era tenuto a nominare il primo ministro designato dalla mozione. Quanto allo scioglimento, il “nuovo” art. 88 Cost. ne predeterminava i

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casi, ovvero: a) su richiesta del primo ministro, che ne avrebbe assunto la esclusiva responsabilità; b) in caso di morte del primo ministro o di impedimento permanente accertato secondo le modalità fissate dalla legge; c) in caso di dimissioni del primo ministro; d) nel caso di approvazione di una mozione di sfiducia al primo ministro. Tuttavia, non si sarebbe proceduto allo scioglimento nei casi di cui alle lett. a), b) e c), qualora alla camera dei deputati, entro i venti giorni successivi, fosse stata presentata e approvata con votazione per appello nominale dai deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della camera, una mozione nella quale si dichiarasse di voler continuare nell’attuazione del programma e si designasse un nuovo primo ministro. In tale caso, il presidente della Repubblica era tenuto a nominare il nuovo primo ministro designato (così, il “nuovo” art. 88, comma 2, Cost.). Si trattava, quindi, di un modello ibrido, che presentava alcuni elementi comuni al modello vigente nelle regioni e nei comuni (da taluni definito “neoparlamentare”) che però appariva radicalmente diverso dalla forma di governo parlamentare, almeno nella parte in cui poneva una sorta di “equilibrio del terrore” per cui il venir meno del primo ministro avrebbe determinato, salvo l’eccezione di cui al “nuovo” art. 88, comma 2, Cost., lo scioglimento della Camera. Si trattava quindi di un modello che appariva decisamente “squilibrato” e tale da attenuare i contrappesi istituzionali. Ed infatti, il sistema di relazioni fiduciarie che emergeva dalle disposizioni sopra riportate differenziava il testo in esame sia rispetto al modello di Westminster, sia rispetto alla forma di governo tedesca, sia rispetto ad altri modelli intermedi, come quello spagnolo. Le differenze rispetto a Westminster non riguardavano soltanto la compresenza nel “nuovo” art. 94 Cost. della sfiducia e della sfiducia costruttiva, ma anche la filosofia dei rapporti fra il primo ministro e la sua maggioranza che emergeva dal comma 3 dell’art. 94 Cost. che collegava inscindibilmente la sfiducia “semplice” allo scioglimento anticipato della Camera. È vero che anche nel Regno Unito l’approvazione di una mozione di sfiducia contro il governo conduceva nei fatti, fino al 2011, allo scioglimento anticipato della camera dei comuni, vista l’impossibilità politica di sostituire l’originaria maggioranza di governo con una maggioranza diversa (ma si veda ora la tipizzazione e quindi la limitazione dei casi di scioglimento nel fixed-term Parliaments Act 2011). In Gran Bretagna, però, la non mutabilità della maggioranza originaria non coincide in maniera assoluta con l’immutabilità del primo ministro che può essere sostituito quando entri in crisi il rapporto fiduciario con il proprio partito, espresso nella sede degli organi competenti del partito stesso. Invece, nel testo in esame mancava una previsione che consentisse

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questa naturale elasticità propria anche del modello Westminster, poiché esso finiva per consegnare al primo ministro uno strumento di ricatto della propria maggioranza che invece è estraneo all’esperienza britannica. Era poi prevista una doppia possibilità di sfiducia: quella puramente “demolitoria” e quella costruttiva tipica dell’esperienza tedesca (e successivamente “esportata” in altri ordinamenti, con alcune varianti, come la Spagna e il Belgio); ma la differenza è data dal fatto che il testo in esame limitava l’espressione della sfiducia costruttiva ai soli «deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni». Tale “mix” fra un modello di Westminster “estremizzato” ed un modello tedesco, anch’esso corretto in modo “estremo”, avrebbe finito per generare effetti paradossali e quindi non condivisibili. Nel sistema tedesco, infatti, l’assenza della sfiducia a maggioranza, che caratterizza i sistemi realmente parlamentari, protegge totalmente il cancelliere, ma solo finché rimanga ferma l’originaria maggioranza di governo. Quando, invece, il rapporto fiduciario tra il Cancelliere e la sua maggioranza entri in crisi, la sfiducia costruttiva consente alla maggioranza di “licenziarlo”, anche a costo di parziali “ribaltoni” rispetto all’originaria maggioranza di governo. Viceversa, nel testo in esame la sfiducia costruttiva avrebbe potuto essere approvata praticamente solo nel caso in cui essa fosse assentita da tutti i partners della maggioranza e da tutte le componenti interne agli stessi: a meno che la coalizione non potesse raggiungere la maggioranza anche senza l’apporto di una delle sue componenti originarie. In questo caso, però, ci si sarebbe trovati di fronte ad una doppia ed ingiustificabile discriminazione. Per un verso, infatti, la maggioranza originaria, intesa come la coalizione investita del potere di governo da parte del voto popolare, sarebbe cambiata comunque di natura e di legittimazione politica; per un altro verso, poi, la sfiducia costruttiva limitata ai componenti della camera legittimati ad esprimerla (ovvero i soli appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni) avrebbe finito per attribuire ai deputati di minoranza un potere di rappresentanza politica sostanzialmente ridotto. Infatti, il potere di esprimere la fiducia e la sfiducia nei regimi parlamentari non può che appartenere a tutti i deputati e non ai partiti o alle coalizioni di governo: da qui, la contraddizione tra quanto previsto dal “nuovo” art. 94, comma 5, Cost. e l’art. 67 Cost., non modificato, anche perché espressivo di un principio fondamentale della forma di governo repubblicana. L’eccessiva rigidità delle norme che riguardavano la “sfiducia semplice” si sarebbe sommata, quindi, alle condizioni quasi impossibili poste in tema di sfiducia costruttiva limitata alla maggioranza originaria; cosicché, il risultato complessivo del sistema della sfiducia realizzato dalla riforma non era tale da proteggere l’unità e l’omogeneità della maggioranza in funzione del raggiungimento dell’indirizzo politico di governo, ma sembrava, invece, predisposto per tutelare personalmente, più che politicamente, il primo ministro, essendo questi praticamente non rimovibile.

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È in questa prospettiva che dovevano leggersi anche i principi in materia di scioglimento anticipato che apparivano fortemente criticabili. È noto, infatti, che nelle forme di governo parlamentari in cui sono previsti strumenti volti a mantenere stabile e trasparente il rapporto fra il premier e la sua maggioranza, lo scioglimento anticipato è di competenza del primo solo se, ed in quanto, rappresenti la volontà convergente della maggioranza parlamentare. In altre parole, in questi casi, ciò che rileva, nei rapporti fra la decisione di scioglimento chiesta dal premier ed il ruolo del capo dello Stato è che quella proposta consiste, in sostanza, nella comunicazione al secondo di una decisione di autoscioglimento assunta dalla maggioranza parlamentare; decisione sulla quale il corpo elettorale è chiamato a pronunciarsi nelle successive elezioni. Viceversa, nel testo in esame la decisione sullo scioglimento sarebbe stata in capo al solo primo ministro (che infatti ne avrebbe assunto la «esclusiva responsabilità»), sia nell’ipotesi che lo scioglimento conseguisse ad una sua personale iniziativa, sia nel caso in cui esso conseguisse ad una sfiducia “semplice”. Era quindi una prerogativa che il primo ministro avrebbe potuto utilizzare anche “contro” la maggioranza parlamentare, salva l’improbabile ipotesi che “tutta” la maggioranza esprimesse, attraverso la sfiducia costruttiva, un nuovo premier e un nuovo governo. È da ribadire che il testo in esame presentava una sorta di “inversione dell’onere della prova” del tutto estranea alle logiche del funzionamento delle forme di governo che si ispirano a Westminster ma anche del tutto estranea alla forma di governo tedesca nella quale il cancelliere (art. 68 Cost.) può determinare lo scioglimento del Bundestag quando il fallimento della questione di fiducia, da lui posta, dimostra l’assenza di una maggioranza in parlamento. Viceversa, il fine delle nuove norme costituzionali sembrava quello di “tutelare” il primo ministro nei confronti anche della sua maggioranza, rendendo impossibile un giudizio sul suo operato. Non a caso, il capo dello Stato avrebbe dovuto, ai sensi del “nuovo” art. 88, comma 1, lett. b) e c), Cost., sciogliere anticipatamente la Camera anche nei casi di morte o di dimissioni del primo ministro. E ancora una volta queste previsioni avrebbero finito per allontanare la forma di governo italiana dalle principali democrazie parlamentari europee (Regno Unito, ma anche Germania e Spagna, solo per citare alcuni esempi) e ciò perché in queste esperienze il “fatto maggioritario” connota la designazione, in modo paritario, del parlamento e del primo ministro e non solo prevalentemente di quest’ultimo. Sempre sul piano della forma di governo, il capo dello Stato sarebbe stato eletto da una speciale assemblea della Repubblica composta dai deputati, dai senatori, dai presidenti delle regioni e da delegati dei consigli regionali (non più 58 come oggi, ma circa il doppio, fra i quali almeno la metà scelti fra i sindaci e i presidenti delle province) con un sistema di elezione leggermente corretto rispetto a quanto previsto dal vigente art. 83

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Cost. (maggioranza dei 2/3 dei componenti nei primi tre scrutini; dei 3/5 dei componenti nel quarto e quinto scrutinio; maggioranza assoluta a partire dal sesto). Riguardo le competenze, il ridimensionamento delle prerogative più rilevanti (nomina del presidente del consiglio e dei ministri; scioglimento delle camere) è emerso da quanto già detto; né tale ridimensionamento appariva compensato da nuove prerogative che gli sarebbero state attribuite, come la nomina dei presidenti delle autorità indipendenti, del presidente del c.n.e.l. (sentiti i presidenti delle camere), del vicepresidente del c.s.m. (inoltre il capo dello Stato avrebbe avuto il potere di autorizzare il primo ministro a rendere al senato la dichiarazione secondo cui eventuali modifiche proposte dal governo ad un disegno di legge di competenza del senato, già approvate dalla camera, sarebbero state essenziali per l’attuazione del suo programma ovvero per l’esercizio dei poteri sostitutivi di cui all’art. 120 Cost.). Peraltro, il presidente avrebbe visto ridotto il potere di nomina dei giudici costituzionali (da 5 a 4) e dei senatori a vita (soppressi e sostituiti con non più di 3 deputati a vita). Per quanto riguarda il parlamento, era prevista una riduzione del numero dei parlamentari (i deputati sarebbero scesi da 630 a 518; i senatori da 315 a 252) peraltro posticipata di due legislature. Il senato pertanto sarebbe rimasto elettivo (i senatori sarebbero stati eletti contestualmente all’elezione dei consigli regionali), ma non avrebbe potuto essere sciolto. Era poi prevista la partecipazione ai lavori del senato, senza diritto di voto, di rappresentanti delle regioni e delle autonomie locali (all’inizio di ogni legislatura regionale, ciascun consiglio regionale avrebbe eletto un rappresentante tra i propri componenti e ciascun consiglio delle autonomie locali avrebbe eletto un rappresentante tra i sindaci e i presidenti delle province o della città metropolitana della regione). Ai sensi del “nuovo” art. 58 Cost., sarebbero stati eleggibili a senatori di una regione gli elettori che avessero compiuto i 25 anni di età e avessero ricoperto o ricoprissero cariche pubbliche elettive in enti territoriali locali o regionali, all’interno della regione, o fossero stati eletti senatori o deputati nella regione o fossero residenti nella regione alla data di indizione delle elezioni. L’aspetto più rilevante era quindi la trasformazione della seconda camera in un senato federale, quale completamento della riforma del titolo V del 2001: tale camera, esclusa dal rapporto fiduciario, sarebbe stata coinvolta nel procedimento legislativo sulla base di un complesso riparto per cui a seconda delle materie sarebbe stata prevalente la camera dei deputati (nelle materie di competenza esclusiva dello Stato) ovvero il senato (nelle materie di legislazione concorrente). Il procedimento legislativo sarebbe rimasto bicamerale solo in un fascio limitato di leggi per le quali comunque, diversamente dal testo “Renzi-Boschi”, era prevista una procedura di conciliazione per evitare fenomeni di navette. Proprio la complessità e le incertezze del procedimento legislativo co-

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stituivano un ulteriore, evidente limite del testo in esame; né tali incertezze, con i connessi rischi di contenziosi per vizi procedimentali, erano scongiurate dalla previsione (che sarebbe stata fatta propria dal testo “RenziBoschi”) per cui «i presidenti del senato federale della Repubblica e della camera dei deputati, d’intesa tra di loro, decidono le eventuali questioni di competenza tra le due camere, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti, in ordine all’esercizio della funzione legislativa». Infine, riguardo al titolo V, le novità più rilevanti e controverse erano date dal riconoscimento a titolo di “devoluzione” di alcune materie alla competenza piena delle regioni, ma contemporaneamente reinserendo il “famigerato” limite generale dell’interesse nazionale per la legislazione regionale, oltre a riportare alla competenza esclusiva dello Stato alcune materie che nel 2001 erano state trasferite alla competenza concorrente: anche in questo caso, quindi, il testo non brillava certo per linearità di soluzioni.

2. La legge cost. 20 aprile 2012, n. 1 («Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale») Come è stato giustamente affermato, le decisioni di bilancio costituiscono uno dei più significativi indicatori del funzionamento di una forma di governo. Attraverso il bilancio, infatti, il parlamento autorizza il governo, ovvero l’organo che provvede all’elaborazione e all’attuazione dell’indirizzo politico, a «gestire, su base annuale, l’ordinamento finanziario di entrata e di spesa» (P. DE JOANNA, Parlamento e spesa pubblica, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 47-49), per cui il voto parlamentare sul bilancio esprime, in definitiva, uno dei più rilevanti strumenti di verifica del rapporto fiduciario: l’eventuale diniego del bilancio preventivo implica infatti «il rigetto dell’indirizzo politico governativo che nel bilancio si esprime; e pur non obbligando il governo a dimettersi, lascia presagire la caduta dell’intero gabinetto o almeno del singolo ministro interessato (qualora si tratti di una disapprovazione parziale, relativa ad un certo ministero)» (L. PALADIN, Diritto costituzionale, cit., p. 357): nel primo senso, il rigetto da parte della camera nell’ottobre 2011 dell’art. 1 del rendiconto generale dello Stato (documento ontologicamente diverso dal bilancio di previsione, ma tale comunque da influire sulla determinazione dell’indirizzo politico) presentato dal quarto governo Berlusconi non determinò le immediate dimissioni dell’esecutivo; tuttavia, dopo un apposito comunicato del Quirinale che evidenziava con preoccupazione «l’innegabile manifestarsi di acute tensioni in seno al governo e alla coalizione, con le conseguenti incertezze nell’adozione di decisioni dovute o annunciate», tali da mettere a rischio il varo di «adempimenti imprescindibili come l’insieme delle decisioni di bilancio e soluzioni adeguate per i problemi più urgenti del paese, anche in rapporto agli impegni e obblighi europei», le dimissioni del governo sa-

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rebbero sopraggiunte dopo che il rendiconto fu approvato con meno dei 316 voti alla camera che avrebbero attestato la perdurante esistenza di una maggioranza parlamentare a sostegno dell’esecutivo. Sul secondo punto, il primo governo di centro-sinistra presieduto da Aldo Moro si dimise (senza esserne tenuto) nel giugno 1964 dopo la bocciatura di alcuni capitoli del bilancio della pubblica istruzione, che avrebbero destinato fondi alle scuole private, per l’astensione dei parlamentari del PSI, del PSDI e del PRI. Anticipando quanto si dirà più oltre, almeno fino agli anni della grande crisi economica, l’allocazione dei poteri di bilancio in Italia non ha assecondato una tendenza allo spostamento del baricentro in favore del governo (per tutti, F. BASSANINI, S. MERLINI, Introduzione, in ID., a cura di, Crisi fiscale e indirizzo politico, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 13 ss.), essendo invece riscontrabile «un principio di sostanziale co-determinazione dell’indirizzo tra governo e parlamento, che nell’ordinamento italiano, come in altri ordinamenti, si è progressivamente realizzato attraverso un processo di “razionalizzazione” delle decisioni finanziarie in parlamento», e ciò «sulla falsariga di un meccanismo decisionale volto non solo al rafforzamento dell’esecutivo, ma anche al mantenimento di cospicui poteri di indirizzo e di controllo del parlamento» (G. RIVOSECCHI, L’indirizzo politico finanziario tra Costituzione italiana e vincoli europei, Padova, Cedam, 2007, pp. 35 e 38): da questo punto di vista, ha assunto una particolar rilevanza, oltre all’art. 81 Cost., la legislazione attuativa che si è succeduta a partire dalla legge n. 468 del 1978 (leggi n. 362 del 1988; n. 94 del 1997; n. 208 del 1999; n. 196 del 2009, n. 39 del 2011), e le disposizioni contenute nei regolamenti parlamentari. Tale successione di normative non è spiegabile, almeno nelle ultime tappe, se non si tiene conto del fatto che, a partire dall’inizio degli anni novanta, con l’entrata in vigore del trattato di Maastricht, le decisioni di bilancio sono sempre più condizionate da vincoli sovranazionali che, come si dirà, finiscono per assumere un ruolo sempre più pregnante. Ciò detto, fino alla sua revisione ad opera della legge cost. n. 1 del 2012, l’art. 81 Cost., oltre a prevedere la competenza delle camere ad approvare ogni anno i bilanci e il rendiconto consuntivi presentati dal governo (comma 1), prefigurava un contenuto rigido della legge di bilancio perché con essa non si potevano stabilire «nuovi tributi e nuove spese» (comma 3) mentre «ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte» (comma 4). Infine il comma 2 disciplinava l’esercizio provvisorio del bilancio, prevedendo che esso non potesse essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi (comma 2). Si è discusso a lungo sulle caratteristiche della legge di bilancio, ferma restando la sua necessaria periodicità e doverosità; sul piano dei contenuti, l’art. 24 della legge n. 196 del 2009 ha esplicitato nei criteri dell’integri-

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tà, dell’universalità e dell’integrità i profili attuativi dell’art. 81 Cost.: sulla base del criterio dell’integrità, «tutte le entrate devono essere iscritte in bilancio al lordo delle spese di riscossione e di altre eventuali spese ad esse connesse. Parimenti, tutte le spese devono essere iscritte in bilancio integralmente, senza alcuna riduzione delle correlative entrate» (comma 2); sulla base dei criteri dell’universalità e dell’unità, è vietato, salvo eccezioni, gestire fondi al di fuori del bilancio (comma 3). Circa la natura, è apparsa superata la tesi che inquadra il bilancio di previsione come legge meramente formale perché non sarebbe creativa di diritto, contenendo solo provvedimenti di natura amministrativa che non consentirebbero l’esercizio di un’attività emendativa del parlamento per quanto «alquanto circoscritta, dal momento che la definizione dei preventivi di entrata e di spesa presuppone complesse valutazioni tecniche, che non sono operabili efficacemente e sistematicamente se non dai competenti ministeri finanziari» (L. PALADIN, Diritto costituzionale, cit., p. 359); ma tale tesi è chiaramente smentita dalla prassi né la legge cost. n. 1 del 2012 ha innovato sul punto (natura formale hanno invece i rendiconti consuntivi). Come è noto, la struttura “rigida” e a legislazione vigente della legge di bilancio prefigurata dall’art. 81, comma 3, Cost. ha determinato l’introduzione (legge n. 468 del 1978), accanto al bilancio di previsione, di un’altra legge (legge finanziaria e, dall’entrata in vigore della legge n. 196 del 2009, legge di stabilità), approvata contestualmente a quest’ultimo, e avente, come contenuto necessario, innanzitutto l’indicazione del saldo relativo al ricorso al mercato e del saldo netto da finanziare; tale legge nella prassi si è arricchita di una eterogenea quantità di contenuti microsettoriali, spesso risultanti da un’attività emendativa disordinata del parlamento. Il problema dei contenuti omnibus delle leggi finanziarie non è stato risolto, nonostante alcuni tentativi di riforma: la legge n. 362 del 1988, che aveva immaginato la riduzione dei contenuti della legge di finanziaria, e uno o più leggi collegate alla manovra di finanza pubblica, nella prassi ha finito per “spostare” i contenuti eterogenei e omnibus su queste ultime e, in particolare, nel “collegato di sessione” approvato insieme alla legge di bilancio di previsione e alla legge finanziaria. Successivamente, peraltro (legge n. 208 del 1999), si è tornati di nuovo a leggi finanziarie più ricche di contenuti particolari e diversi, per l’approvazione delle quali il governo è ricorso sistematicamente alla questione di fiducia su un maxiemendamento comprendente l’intero testo (così, ad esempio, la finanziaria per il 2007 è risultata composta di un solo articolo e 1364 commi!) soprattutto allo scopo di bloccare un’attività emendativa “fuori controllo” anche da parte dei gruppi di maggioranza. Le leggi attuative dell’art. 81 Cost. e i regolamenti parlamentari hanno delineato un’apposita sessione di bilancio, ovvero un periodo di tempo determinato (nell’ultima parte dell’anno solare) nel quale le camere si dedi-

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cano pressoché totalmente all’esame e all’approvazione dei documenti di bilancio. Sul punto, infatti, l’art. 119, comma 4, del regolamento della camera prevede che durante la sessione di bilancio sia sospesa ogni deliberazione, da parte dell’assemblea e delle commissioni in sede legislativa, di progetti di legge che comportino nuove o maggiori spese o diminuzioni di entrate. Possono tuttavia essere adottate le deliberazioni relative alla conversione di decreti-legge, ai progetti di legge collegati alla manovra contenuta nel documento di programmazione economico-finanziaria approvato dal parlamento, nonché quelle concernenti i disegni di legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali e di recezione e attuazione di atti normativi dell’unione europea, quando dalla mancata tempestiva approvazione dei medesimi possa derivare responsabilità dello Stato italiano per inadempimento di obblighi internazionali o comunitari. In tali casi possono essere disposte, per la discussione in assemblea, sedute supplementari (in termini analoghi è l’art. 126, commi 11 e 12, del regolamento del senato). La legge n. 196 del 2009, fino all’entrata in vigore della legge cost. n. 1 del 2012, individuava, quali strumenti della programmazione: a) il documento di economia e finanza (DEF), da presentare alle camere entro il 10 aprile di ogni anno, per le conseguenti deliberazioni parlamentari; b) la nota di aggiornamento del DEF, da presentare alle camere entro il 20 settembre di ogni anno, per le conseguenti deliberazioni parlamentari; c) il disegno di legge di stabilità, da presentare alle camere entro il 15 ottobre di ogni anno; d) il disegno di legge del bilancio dello Stato, da presentare alle camere entro il 15 ottobre di ogni anno; e) il disegno di legge di assestamento, da presentare alle camere entro il 30 giugno di ogni anno; f) gli eventuali disegni di legge collegati alla manovra di finanza pubblica, da presentare alle camere entro il mese di gennaio di ogni anno; g) gli specifici strumenti di programmazione delle amministrazioni pubbliche diverse dallo Stato. Il DEF, la sua nota di aggiornamento, il disegno di legge di stabilità, quello del bilancio e quello di assestamento erano presentati alle camere dal governo su proposta del ministro dell’economia e delle finanze. L’insieme dei contenuti dei documenti più rilevanti risentiva già dei condizionamenti derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’unione europea: infatti, il DEF, articolato in tre sezioni, conteneva (e contiene), nella prima, lo schema del programma di stabilità destinato all’U.E. e quindi «gli elementi e le informazioni richieste dai regolamenti dell’unione europea vigenti in materia e dal codice di condotta sull’attuazione del patto di stabilità e crescita, con specifico riferimento agli obiettivi da conseguire per accelerare la riduzione del debito pubblico»; nella seconda alcuni conte-

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nuti rilevanti, tra i quali «l’analisi del conto economico e del conto di cassa delle amministrazioni pubbliche nell’anno precedente e degli eventuali scostamenti rispetto agli obiettivi programmatici indicati nel DEF e nella nota di aggiornamento»; nella terza, lo schema del programma nazionale di riforma contenente «gli elementi e le informazioni previsti dai regolamenti dell’unione europea e dalle specifiche linee guida per il programma nazionale di riforma» (art. 10). Un aspetto particolare e interessante è dato dai poteri riconosciuti ai presidenti delle camere nell’esame e nell’approvazione dei documenti di bilancio; poteri alquanto penetranti e tali da assecondare una posizione di assoluta imparzialità di tali cariche (che, per inciso, richiederebbe un vasto accordo tra le forze politiche nella loro elezione, che invece a partire dal 1994 è sistematicamente mancato). In particolare, spetta ai presidenti disporre lo stralcio di proposte che risultino estranee ai contenuti tipici della legge finanziaria (i cui contenuti sono confluiti, come si dirà nella legge di bilancio, ai sensi della legge n. 243 del 2012) e, coadiuvato dalle rispettive commissioni bilancio, accertare se nel disegno di legge finanziaria vi siano disposizioni contrastanti con le regole di copertura stabilite dalla legislazione vigente. Le stesse rilevanti prerogative sono riconosciute anche con riferimento agli emendamenti che debbono essere presentati, salvo limitate eccezioni, necessariamente in commissione bilancio (al senato; alla camera alle commissioni di merito ma solo se riguardino esclusivamente le singole parti di competenza di ciascuna commissione). L’inammissibilità è pronunciata in prima battuta dai presidenti delle commissioni bilancio ma è prevista la possibilità di intervento in seconda battuta del presidente dell’assemblea. Infine, ai sensi dell’art. 21 della legge n. 196 del 2009, il disegno di legge del bilancio annuale di previsione fino alle recenti riforme era formato sulla base della legislazione vigente, tenuto conto dei parametri indicati nel DEF. Ancora oggi, tale disegno di legge espone per l’entrata e, per ciascun ministero, per la spesa le unità di voto parlamentare determinate con riferimento rispettivamente alla tipologia di entrata e ad aree omogenee di attività. Per la spesa, le unità di voto sono costituite dai programmi quali aggregati diretti al perseguimento degli obiettivi definiti nell’ambito delle missioni. Le missioni rappresentano le funzioni principali e gli obiettivi strategici perseguiti con la spesa. Ai sensi del comma 3, in relazione ad ogni singola unità di voto sono indicati: a) l’ammontare presunto dei residui attivi o passivi alla chiusura dell’esercizio precedente a quello cui il bilancio si riferisce; b) l’ammontare delle entrate che si prevede di accertare e delle spese che si prevede di impegnare nell’anno cui il bilancio si riferisce; c) le previsioni delle entrate e delle spese relative al secondo e terzo anno del bilancio triennale; d) l’ammontare delle entrate che si prevede di incassare e delle spese che si prevede di pagare nell’anno cui il bilancio si riferisce, senza distinzione

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fra operazioni in conto competenza ed in conto residui. Formano oggetto di approvazione parlamentare solo le previsioni di cui alle lett. b), c) e d). L’art. 23 specifica poi che in sede di formulazione degli schemi degli stati di previsione, i ministri indichino, anche sulla base delle proposte dei responsabili della gestione dei programmi, gli obiettivi di ciascun dicastero e quantifichino le risorse necessarie per il loro raggiungimento anche mediante proposte di rimodulazione delle stesse risorse tra programmi appartenenti alla medesima missione di spesa. Le proposte sono formulate sulla base della legislazione vigente, con divieto di previsioni basate sul mero calcolo della spesa storica incrementale (comma 1). Il ministro dell’economia e delle finanze valuta successivamente la congruità e la coerenza tra gli obiettivi perseguiti da ciascun ministero e le risorse richieste per la loro realizzazione, tenendo anche conto dello stato di attuazione dei programmi in corso e dei risultati conseguiti negli anni precedenti in termini di efficacia e di efficienza della spesa. Con il disegno di legge di bilancio, per motivate esigenze, possono essere rimodulate in via compensativa all’interno di un programma o tra programmi di ciascuna missione le dotazioni finanziarie relative ai fattori legislativi, nel rispetto dei saldi di finanza pubblica. L’insieme di queste previsioni ha determinato significative innovazioni nei rapporti tra parlamento e governo: da una parte, infatti, «si è passati – dal 1997 ad oggi – da una capillare possibilità di decisione parlamentare su 7.000 capitoli del bilancio di previsione – cui corrispondeva una limitata discrezionalità amministrativa nell’ambito di tali capitoli – ad un intervento parlamentare limitato a macrovoci (in tutto 168) e – corrispondentemente – ad una dilatata discrezionalità amministrativa»; dall’altra, «la concezione della legge di bilancio come legge meramente formale, che fotografa i fattori legislativi di spesa senza poterli modificare (compito spettante alla legge finanziaria o alla legge di stabilità, che poi si ripercuote sul bilancio attraverso la nota di variazioni), viene scalfita dalla possibilità per la legge di bilancio di effettuare rimodulazioni delle dotazioni finanziarie relative a fattori legislativi compensative all’interno di un programma o tra programmi di una medesima missione di spesa» (CAMERA DEI DEPUTATI, osservatorio sulla legislazione, Rapporto 2012 sulla legislazione tra Stato, Regioni e Unione europea, II, t. 2, Roma, camera dei deputati, novembre 2012, p. 393). Come si è detto, la legge n. 196 del 2009 (soprattutto a seguito della legge n. 39 del 2011 e, come si dirà, ancor più dopo l’entrata in vigore della legge cost. n. 1 del 2012) risente in modo decisivo dei poteri riconosciuti in materia all’unione europea e rinvenibili, oltre che dai trattati, da alcuni appositi regolamenti (reg. UE n. 1175 del 2011; n. 473 del 2013) e riconducibili, il primo al c.d. six-pack, il secondo ad uno dei due regolamenti del c.d. two-pack. Come è stato giustamente affermato, «la logica di fondo è quella di un ciclo di bilancio nel quale si svolge un serrato dialogo tra istituzioni europee istituzioni nazionali, diretto a far sì che l’indirizzo

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politico-finanziario di ciascuno Stato membro si muova non solo in piena coerenza con i vincoli del patto di stabilità e crescita, ma anche secondo linee non incoerenti con le previsioni macroeconomiche e con le opzioni di fondo compiute in seno all’unione europea» (L. GIANNITI, N. LUPO, Corso di diritto parlamentare, Bologna, Il Mulino, 2013, p. 252). La procedura di esame dei bilanci degli Stati membri occupa in totale un semestre, che aggiunto al semestre nel quale gli Stati membri sono chiamati ad approvare i propri documenti di bilancio, rende la procedura stessa ormai tale da impegnare le istituzioni per l’intero anno. Il reg. UE n. 473 del 2013 prevede che ogni anno gli Stati dell’area euro ogni anno, preferibilmente entro il 15 aprile e comunque non oltre il 30 aprile, rendano pubblici, nel contesto del semestre europeo, i rispettivi programmi di bilancio nazionali a medio termine conformemente al quadro di bilancio a medio termine. Tali programmi comprendono almeno tutte le informazioni che devono essere fornite nei loro programmi di stabilità e sono presentati insieme ai programmi nazionali di riforma e ai programmi di stabilità. Detti programmi devono essere coerenti con il quadro di coordinamento delle politiche economiche nel contesto del c.d. ciclo annuale di sorveglianza, che include, in particolare, le indicazioni generali fornite agli Stati membri dalla commissione e dal consiglio europeo all’inizio del citato ciclo. Dopo le raccomandazioni di politica economica e di bilancio rivolte agli Stati membri dalla commissione europea, espresse nella prima parte del mese di giugno ed approvate dal consiglio ECOFIN, entro il 15 ottobre gli Stati membri debbono pubblicare i progetti di bilancio per l’anno successivo; entro il 30 novembre la commissione europea esamina tali documenti e nei casi eccezionali in cui, previa consultazione dello Stato membro interessato entro una settimana dalla presentazione del progetto di documento programmatico di bilancio, riscontri un’inosservanza particolarmente grave degli obblighi di politica finanziaria definiti dall’unione nel patto di stabilità e crescita, adotta il proprio parere entro due settimane dalla trasmissione del progetto di documento programmatico di bilancio nel quale si richiede la presentazione di un progetto riveduto di documento programmatico quanto prima e comunque entro tre settimane dalla data del suo parere. La richiesta della commissione deve essere motivata e resa pubblica. La commissione adotta un nuovo parere sul progetto riveduto di documento programmatico di bilancio quanto prima e comunque entro tre settimane dalla presentazione di tale documento. La procedura in questione rivela quindi come ormai la forma di governo italiana non possa non essere inquadrata alla luce dei vincoli europei, anche se essi aprono prospettive e insieme problematiche nuove: si pensi al rapporto tra programma nazionale di riforme e programma di governo con il primo che potrebbe in prospettiva assumere il ruolo anche di strumento di monitoraggio annuale del secondo.

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Tra le problematiche vi è certamente quella del ruolo del parlamento che rischia di risultare ridimensionato: infatti, il termine del 30 novembre per l’espressione del parere della commissione potrebbe rischiare di risultare ancora una volta pregiudizievole per le assemblee elettive, quantomeno per quella parte del lavoro parlamentare sui documenti di bilancio che fosse iniziato prima della pubblicazione del parere stesso. A ciò si aggiunga che, nel caso in cui i documenti di bilancio non siano conformi al parere reso dalla commissione europea, il reg. UE n. 473 del 2013 considera questo comportamento come “aggravante” nelle valutazioni effettuate dalla commissione stessa e dal consiglio nel caso di accertamento di un disavanzo eccessivo (art. 12) (D.A. CAPUANO, E. GRIGLIO, La nuova governance economica europea. I risvolti sulle procedure parlamentari italiane, in A. MANZELLA, N. LUPO, a cura di, Il sistema parlamentare euro-nazionale. Lezioni, Torino, Giappichelli, 2014, p. 245). Un ulteriore fattore che ha inciso fortemente sulla procedura di bilancio è stato la grave crisi economica che ha attanagliato l’eurozona e che ha colpito il nostro paese in modo particolarmente pervasivo. In questo contesto, anche in materia di bilancio, che, ai sensi dell’art. 81 Cost., dovrebbe essere coperta da una riserva di legge formale, si è assistito ad un’impropria utilizzazione della decretazione d’urgenza che ha finito per “surrogare” ampiamente la manovra economica: è il caso del d.l. n. 112 del 2008 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008) che aveva di fatto “anticipato” all’estate i contenuti della legge finanziaria per il 2009, anche prima dell’inizio delle audizioni sul DEF (allora denominato DPEF); si tratta, peraltro, solo del primo esempio di una vera e propria “gestione d’urgenza della politica economica” (C. BERGONZINI, Parlamento e decisioni di bilancio, Milano, Franco Angeli, 2013, pp. 21 ss.), nonostante i dubbi di legittimità costituzionale in relazione all’art. 81 Cost., alla riduzione dei tempi che la conversione dei decreti legge comporta rispetto a quelli ordinari di esame dei documenti di bilancio, alla probabile violazione dei presupposti costituzionali di cui all’art. 77 Cost., essendo l’urgenza riferibile più all’incombente crisi economica che ai contenuti del decreto, e alla luce dei contenuti eterogenei del decreto (C. BERGONZINI, Parlamento, cit., pp. 24 ss.). Con il d.l. n. 112 del 2008, che per inciso ha apportato modifiche anche alla disciplina generale della contabilità dello Stato, si è portata alle estreme conseguenze una tendenza, peraltro già riscontrabile, all’utilizzazione della decretazione d’urgenza come strumento di “accompagnamento” alla legge finanziaria, come strumento di copertura della stessa e come veicolo di contenuti disparati in “aggiramento” dei limiti di esame nella sessione di bilancio. Da questo punto di vista, nemmeno l’adozione della nuova legge di contabilità (la già citata legge n. 196 del 2009) è riuscita a invertire la tendenza, anche perché essa non è stata accompagnata da una coerente revi-

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sione dei regolamenti parlamentari; cosicché nel periodo successivo all’entrata in vigore di tale legge si poteva affermare che «l’obiettivo di razionalizzazione del sistema delle fonti in materia economico-sociale appare mancato. Il risultato è, al contrario, la definitiva frantumazione del quadro normativo, in cui alle problematiche ormai risalenti, evidentemente irrisolte, si sommano quelle derivanti dall’affastellamento dei provvedimenti d’urgenza» (C. BERGONZINI, Parlamento, cit., p. 155). E d’altra parte, più in generale, il mancato adeguamento sostanziale delle procedure di bilancio al mutato contesto politico-istituzionale a partire dal 1994 ha «contribuito in modo assai significativo nel determinare quel carattere di forte incompiutezza che contraddistingue la transizione italiana verso un modello di democrazia maggioritaria» (R. PERNA, Costituzionalizzazione del pareggio di bilancio ed evoluzione della forma di governo italiana, in Il Filangieri, Quaderno 2011, p. 22). Una svolta in questo senso è data dalla legge cost. n. 1 del 2012 che ha introdotto il principio dell’equilibrio di bilancio in Costituzione, con la revisione dell’art. 81 Cost. e con conseguenti modifiche degli artt. 97, 117, 119 Cost. Il nuovo testo dell’art. 81 prevede che «lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico» (comma 1); «il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali» (comma 2); «ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte» (comma 3); «le camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal governo» (comma 4); «l’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi» (comma 5); «il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera, nel rispetto dei principi definiti con legge costituzionale» (comma 6). È noto che la legge cost. n. 1 del 2012 è stata approvata a seguito della sottoscrizione del «trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’unione europea e monetaria» tra 25 Stati membri dell’unione europea (c.d. fiscal compact, cui l’Italia ha dato esecuzione con la legge n. 116 del 2012), il cui art. 3, par. 1, fissa nuove regole sul controllo dei bilanci pubblici degli Stati aderenti «in aggiunta e fatti salvi i loro obblighi ai sensi del diritto dell’unione europea»; in questo quadro è posto l’obbligo a carico degli Stati membri di recepire il principio del pareggio di bilancio «tramite disposizioni vincolanti, permanenti e preferibilmente di natura costituzionale» (art. 3, par. 2).

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Non è questa la sede per indagare le complesse problematiche sottese a questa complessa riforma, a cominciare dall’ambiguità derivante dall’uso della locuzione «pareggio di bilancio» nel titolo della legge costituzionale che non risulta nel testo del “nuovo” art. 81 Cost., laddove si utilizza, diversamente, l’espressione «equilibrio di bilancio» (per tutti, M. LUCIANI, L’equilibrio di bilancio e i principi fondamentali: la prospettiva del controllo di costituzionalità, in Il principio dell’equilibrio di bilancio secondo la riforma costituzionale del 2012, Milano, Giuffrè, 2014, pp. 16 ss.). E sempre in questa sede non può essere indagato il suo impatto sulla garanzia dei sociali e sul complessivo sistema delle autonomie territoriali. È comunque da osservare che l’introduzione dei nuovi vincoli finisce, sul piano interno, per rafforzare indirettamente il governo, come è stato esattamente osservato, perché «nel nuovo contesto risulta completamente ridisegnato il circuito della responsabilità istituzionale che rappresenta il cuore della democrazia parlamentare. Con la fissazione di un vincolo costituzionale rigido al saldo di bilancio accanto alla generale responsabilità politica dell’esecutivo nei confronti del parlamento, a sua volta responsabile nei confronti degli elettori, si sviluppa un ulteriore circuito di responsabilità dell’esecutivo: una responsabilità assai più stringente perché riferita ad un preciso parametro contabile (il saldo di bilancio) e perché operante in due direzioni, nei confronti del parlamento (e quindi dei cittadini) e nei confronti dell’unione europea». Si tratta di una responsabilità «che indurrà l’esecutivo ad un esercizio assai più consapevole ed assai più intenso delle proprie prerogative costituzionali al fine di scongiurare che le singole decisioni di spesa e le dinamiche “spontanee” della legislazione di spesa possano determinare a consuntivo sforamenti nei saldi di bilancio» (R. PERNA, Costituzionalizzazione, cit., pp. 35-36), anche se la riforma non assegna al governo quei poteri di “veto” sulle norme di spesa che in altri ordinamenti costituzionali sono previsti. Il testo però attribuisce alcune interessanti prerogative anche al parlamento, talune delle quali rilevanti sul terreno dei rapporti tra maggioranza e opposizioni (N. LUPO, La revisione costituzionale della disciplina di bilancio e il sistema delle fonti, in Il Filangieri, Quaderno 2011, p. 135): in particolare, sia per l’approvazione della legge “organica” attuativa della legge cost. n. 1 del 2012, sia per la decisione parlamentare di autorizzare il ricorso all’indebitamento in caso di eventi eccezionali, è prescritta la maggioranza assoluta dei componenti, anche se questa previsione è in ogni caso inferiore al 54% dei seggi garantito (sia pure solo alla camera) dalla nuova legge elettorale (italicum). La legge n. 243 del 2012 (ovvero la legge “organica” attuativa della legge cost. n. 1 del 2012) attua, in primo luogo, il meccanismo dell’autorizzazione parlamentare in caso di eventi eccezionali, che l’art. 6, comma 2, individua nei seguenti: a) periodi di grave recessione economica relativi anche all’area dell’euro o all’intera unione europea; b) eventi straordinari, al

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di fuori del controllo dello Stato, ivi incluse le gravi crisi finanziarie nonché le gravi calamità naturali, con rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria generale del paese. In questi casi, è prevista una specifica richiesta di autorizzazione che indichi la misura e la durata dello scostamento, stabilisca le finalità alle quali destinare le risorse disponibili in conseguenza dello stesso e definisca il piano di rientro verso l’obiettivo programmatico, commisurandone la durata alla gravità degli eventi eccezionali. La richiesta è approvata da ciascuna camera a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti (comma 3). In altri casi, il parlamento si vede riconosciuto un coinvolgimento di tipo consultivo (sullo schema di D.P.C.M. attuativo dell’art. 10 in materia di ricorso all’indebitamento da parte delle regioni e degli enti locali) o di tipo solo informativo, come ad esempio, nel caso in cui il governo preveda che nell’esercizio finanziario in corso si determinino scostamenti del conto consolidato o del saldo strutturale rispetto agli obiettivi programmatici (art. 7). Come è stato esattamente osservato, per il parlamento «la possibilità di trasformare questi nuovi poteri in uno strumento di controllo democratico sull’operato del governo dipenderà innanzitutto dalla capacità del parlamento di reinterpretare il proprio intervento nel ciclo di bilancio, spostandolo dalla fase decisionale dell’approvazione della legislazione contabile e finanziaria alla fase del controllo ex ante ed ex post» (D.A. CAPUANO, E. GRIGLIO, La nuova governance economica europea, cit., p. 251). Da questo punto di vista, la legge cost. n. 1 del 2012 prevede che la legge “rinforzata” (perché approvata da entrambe le camere a maggioranza assoluta dei componenti: sul punto, N. LUPO, La revisione costituzionale, cit., pp. 106 ss.), tra l’altro, debba prevedere «l’istituzione presso le camere, nel rispetto della relativa autonomia costituzionale, di un organismo indipendente al quale attribuire compiti di analisi e verifica degli andamenti di finanza pubblica e di valutazione dell’osservanza delle regole di bilancio» (art. 5, comma 1, lett. f). Da parte sua, l’art. 5, comma 4, della stessa legge cost. n. 1 del 2012 prevede che «le camere, secondo modalità stabilite dai rispettivi regolamenti, esercitano la funzione di controllo sulla finanza pubblica con particolare riferimento all’equilibrio tra entrate e spese nonché alla qualità e all’efficacia della spesa delle pubbliche amministrazioni». Emerge quindi una delle coordinate di fondo della legge cost. n. 1 del 2012 ovvero il tentativo di valorizzare prerogative di controllo delle camere, in fondo in continuità con la storica funzione dei parlamenti di controllare l’attività di spesa (e la connessa, decisiva, attività di tassazione) dei governi: da qui l’istituzione di un ufficio parlamentare di bilancio, organismo indipendente che risponde quindi ad una ratio diversa rispetto alla proposta di istituzione di una commissione bicamerale paritetica (che pure era stata proposta in sede di esame del disegno di legge costituzionale poi divenuto la legge cost. n. 1 del 2012).

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Infatti, l’art. 16 della legge n. 243 del 2012, in attuazione della legge cost. n. 1 del 2012, prevede che il consiglio di tale organo sia composto da tre membri nominati d’intesa tra i presidenti delle camere, nell’ambito di un elenco di dieci soggetti di riconosciuta indipendenza e comprovata competenza ed esperienza in materia di economia e di finanza pubblica a livello nazionale e internazionale, indicati dalle commissioni parlamentari competenti in materia di finanza pubblica a maggioranza dei due terzi dei rispettivi componenti, secondo modalità stabilite dai regolamenti parlamentari. I membri del consiglio sono nominati per sei anni e non possono essere confermati; per gravi violazioni dei doveri d’ufficio, i membri del consiglio possono essere revocati dall’incarico con decreto adottato d’intesa dai presidenti delle camere, su proposta delle commissioni parlamentari competenti in materia di finanza pubblica, adottata a maggioranza dei due terzi dei relativi componenti, secondo modalità stabilite dai regolamenti parlamentari. Sulla composizione, da più parti sono stati avanzati dubbi sulla natura collegiale, preferendosi una composizione monocratica, allo scopo di evitare meccanismi di riproduzione delle dinamiche politiche al proprio interno. Ai sensi dell’art. 18, commi 1 e 2, l’ufficio parlamentare di bilancio, anche attraverso l’elaborazione di proprie stime, ed anche su richiesta delle commissioni parlamentari competenti in materia di finanza pubblica, effettua analisi, verifiche e valutazioni in merito a: a) le previsioni macroeconomiche e di finanza pubblica; b) l’impatto macroeconomico dei provvedimenti legislativi di maggiore rilievo; c) gli andamenti di finanza pubblica, anche per sottosettore, e l’osservanza delle regole di bilancio; d) la sostenibilità della finanza pubblica nel lungo periodo; e) l’attivazione e l’utilizzo del meccanismo correttivo degli scostamenti rispetto all’obiettivo programmatico strutturale di cui all’art. 8 della stessa legge e gli scostamenti dagli obiettivi derivanti dal verificarsi degli eventi eccezionali di cui all’art. 6 della stessa legge n. 243 del 2012; f) ulteriori temi di economia e finanza pubblica rilevanti ai fini delle analisi, delle verifiche e delle valutazioni di competenza dell’ufficio stesso. Interessante e problematica è la previsione del comma 3, ai sensi del quale «qualora, nell’esercizio delle funzioni di cui al comma 1, l’ufficio esprima valutazioni significativamente divergenti rispetto a quelle del governo, su richiesta di almeno un terzo dei componenti di una commissione parlamentare competente in materia di finanza pubblica, quest’ultimo illustra i motivi per i quali ritiene di confermare le proprie valutazioni ovvero ritiene di conformarle a quelle dell’ufficio». Sul punto, è stato osservato (C. BERGONZINI, Parlamento, cit., p. 213) che la limitazione della possibilità di interlocuzione dell’ufficio solo su richiesta di una minoranza delle commissioni parlamentari in materia fi-

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nanziaria sia apparsa un filtro eccessivamente riduttivo delle potenzialità dell’ufficio, anche perché la richiesta delle minoranze rischia di trascinarne le analisi e i rapporti «nel vortice della polemica politica» (C. BERGONZINI, Parlamento, cit., p. 214). Ancora più radicalmente si è manifestata la preoccupazione che l’ufficio parlamentare di bilancio, in linea di principio autonomo e indipendente anche dalle camere, determini un aumento dei soggetti competenti in materia di finanza pubblica: «Il governo, che risponde all’unione europea, il parlamento, che sindaca le decisioni governative e ne controlla i risultati, e l’ufficio del bilancio che svolge una funzione di controllo, in parte autonoma, in parte sollecitata dal parlamento», dando luogo ad un assetto non privo di potenziali conflitti (G. VEGAS, Il bilancio pubblico, Bologna, Il Mulino, 2014, 192). Infine, quanto al già ricordato art. 5, comma 4, della legge cost. n. 1 del 2012, a prescindere da quanto esso risulti innovativo rispetto all’esercizio di funzioni di controllo spettanti comunque alle camere, rimane il fatto che ad oggi manca un tessuto di disposizioni attuative a livello di regolamenti parlamentari. In ordine alla legge di bilancio dello Stato, un primo punto da sottolineare, come già accennato, è la specificazione del concetto di “equilibrio” da parte della legge n. 243 del 2012 (artt. 3 e 14) come distinto da quello di “pareggio”, il primo essendo un obiettivo di medio termine definito in sede UE (art. 3, comma 2). Nel bilancio dello Stato l’equilibrio corrisponde a un valore del saldo netto da finanziare coerente con gli obiettivi programmatici definiti in sede europea che successivamente deve essere attestato nel rendiconto: pertanto il saldo può non essere pari a zero ma a condizione che esso sia successivamente ridotto negli anni successivi, sulla base degli obiettivi concordati a livello sovranazionale. L’art. 3 precisa che l’equilibrio dei bilanci si considera conseguito quando il saldo strutturale, calcolato nel primo semestre dell’esercizio successivo a quello al quale si riferisce, è migliore o almeno pari rispetto all’obiettivo di medio termine e, contemporaneamente, assicura il rispetto del percorso di avvicinamento a questo obiettivo, per cui «non si tratta quindi di un equilibrio che necessariamente deve essere riferito a ogni singolo esercizio finanziario ma, con un certo grado di contrasto rispetto al principio dell’annualità del bilancio (di cui al comma 4 dell’art. 81), più che a un obiettivo puntuale, da conseguirsi in un determinato esercizio finanziario, l’equilibrio viene calcolato sulla base del risultato del miglioramento dei saldi così come stabiliti nel programma di rientro dal deficit concordato in sede europea» (G. VEGAS, Il bilancio pubblico, cit., p. 67). L’art. 15 della legge n. 243 del 2012, in attuazione della legge cost. n. 1 del 2012, che non prevede più i vincoli prima esistenti (ovvero una concezione del bilancio a legislazione vigente, di cui all’art. 81, comma 3, nel testo previgente) dispone che il disegno di legge di bilancio rechi disposi-

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zioni in materia di entrata e di spesa aventi ad oggetto misure quantitative, funzionali a realizzare gli obiettivi programmatici indicati dai documenti di programmazione economica e finanziaria e le previsioni di entrata e di spesa formate sulla base della legislazione vigente. Il disegno di legge di bilancio, che viene articolato in due sezioni, costituisce la base per la gestione finanziaria dello Stato (comma 1). In questo senso, si supera il “dualismo” tra legge di bilancio e legge finanziaria (dal 2009, legge di stabilità) che si era imposto fino dalla legge n. 468 del 1978: ed infatti, la prima sezione del disegno di legge contiene, per il periodo compreso nel triennio di riferimento, le disposizioni in materia di entrata e di spesa, con effetti finanziari aventi decorrenza nel triennio considerato dal bilancio. In particolare essa, come la previgente legge di stabilità, contiene, in distinti articoli, con riferimento sia alle dotazioni di competenza sia a quelle di cassa, il saldo netto da finanziare, e il livello massimo del ricorso al mercato finanziario. Non possono essere previste norme di delega, di carattere ordinamentale o organizzatorio, né interventi di natura localistica o microsettoriale (comma 2). La seconda sezione contiene invece le previsioni di entrata e di spesa, espresse in termini di competenza e di cassa, formate sulla base della legislazione vigente. In tale sezione sono riportati quindi, nell’ordine di presentazione e di votazione, in distinti articoli, lo stato di previsione dell’entrata, gli stati di previsione della spesa distinti per ministeri, il quadro generale riassuntivo con riferimento al triennio e, con apposito articolo, è annualmente stabilito l’importo massimo di emissione di titoli dello Stato, in Italia e all’estero, al netto dell’importo di quelli da rimborsare (commi 3 e 4). Come già previsto nella legge n. 196 del 2009, le entrate sono ripartite in titoli, in base alla natura o alla provenienza dei cespiti, entrate ricorrenti e non ricorrenti e tipologie, ai fini dell’accertamento dei cespiti. Per la spesa, il bilancio è articolato in missioni, che rappresentano le funzioni principali e gli obiettivi strategici, e in programmi, quali aggregati diretti al perseguimento degli obiettivi definiti nell’ambito delle missioni. Le unità di voto parlamentare sono costituite, per le entrate, dalle tipologie e, per la spesa, dai programmi (comma 5).

3. Le proposte del “gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali” istituito dal presidente della Repubblica il 30 marzo 2013 A fronte di un percorso di riforme più o meno organiche della Costituzione che fino ad oggi non è andato in porto, sono state numerose le leggi di revisione costituzionale aventi contenuti più o meno puntuali e, tra queste, come si è detto, le più rilevanti attengono alla revisione del titolo V della Costituzione (leggi costt. n. 1 del 1999; n. 3 del 2001) e alla revisione dell’art. 81, da ultimo richiamata.

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Il dibattito sulle riforme istituzionali si è riattivato fino dall’inizio della XVII legislatura, poiché i risultati delle elezioni del febbraio 2013 hanno posto all’attenzione del sistema politico e dell’opinione pubblica alcuni nodi irrisolti, quali la legge elettorale, a maggior ragione a seguito della sent. n. 1 del 2014 della corte costituzionale, mentre è apparso ormai ineludibile quantomeno un ripensamento dell’assetto del parlamento, in direzione del superamento dell’assetto bicamerale paritario, il quale impone che il governo debba ricevere la fiducia di entrambe le camere. È quindi opportuno dare conto delle proposte del “gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali” istituito dal presidente della Repubblica dopo il fallimento del tentativo di formare il nuovo governo da parte dell’on. Bersani e costituito da due parlamentari (il sen. Mauro e il sen. Quagliariello che sarebbe divenuto ministro per le riforme istituzionali nel Governo Letta), oltre che dai proff. Onida e Violante. Come si legge nella relazione finale (rinvenibile nel sito www.quirinale.it), a seguito di una selezione delle «questioni ritenute di maggior rilievo per il superamento della crisi del sistema istituzionale sulla base di valutazioni politiche, del giudizio dei costituzionalisti, dei lavori delle commissioni parlamentari che si sono succedute nel tempo» il gruppo di lavoro si è posto l’obiettivo «di formulare alcune brevi proposte programmatiche che possano divenire, con diverse modalità, terreno di condivisione tra le forze politiche» (n. 2). La relazione tocca quindi sei punti, ovvero: 1) diritti dei cittadini e partecipazione democratica; 2) metodo per le riforme costituzionali; 3) parlamento e governo; 4) rapporti Stato-regioni; 5) amministrazione della giustizia; 6) regole per l’attività politica e per il suo finanziamento. Sul primo punto, si segnala, in particolare: a) la necessità di una legge attuativa dell’art. 49 Cost. anche allo scopo di rilegittimare i partiti politici come strumento a disposizione di tutti i cittadini per partecipare alla vita politica del paese (n. 6); b) una nuova disciplina degli istituti di democrazia diretta, ovvero b1) il rafforzamento del referendum costituzionale immaginato come sempre possibile, e quindi anche nel caso di leggi costituzionali approvate con la maggioranza dei 2/3 dei componenti in entrambe le camere; b2) modifiche alla disciplina del referendum abrogativo con l’elevazione del numero delle sottoscrizioni in relazione all’aumento della popolazione, la collocazione del giudizio di ammissibilità del quesito da parte della corte costituzionale dopo la raccolta di un certo numero di firme adeguate a comprovare la serietà della proposta, la definizione più precisa dei requisiti di ammissibilità anche per fronteggiare il ricorso esasperato alla “tecnica del ritaglio”, la definizione del quorum di validità del risultato calcolandolo nel 50% più uno della percentuale dei votanti nella più recente elezione per la camera dei deputati, il divieto, per un periodo determinato, di ripristino della norma abrogata e, comunque, di aggiramento del risultato referendario; b3) l’elevazione del numero di firme richiesto per la

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presentazione di una proposta di legge di iniziativa popolare cui però dovrebbe corrispondere l’obbligo per le camere di deliberare su di esse; c) l’introduzione di strumenti di democrazia partecipativa (il testo allude, in particolare, al dibattito pubblico sui grandi interventi infrastrutturali). Sul secondo punto, il gruppo di lavoro prefigura una futura legge costituzionale che dovrebbe prevedere una commissione redigente mista, composta, su base proporzionale, da parlamentari ma anche da non parlamentari, incaricata di elaborare proposte di revisione costituzionale «sulla base di documenti parlamentari che indichino i punti oggetto di revisione» e «in dialogo con le commissioni affari costituzionali» (n. 12). Il testo così elaborato sarebbe stato sottoposto all’approvazione delle camere senza possibilità di emendamenti, ma con la possibilità di chiedere (e ottenere) la correzione del testo con appositi ordini del giorno vincolanti per la commissione. È poi previsto in ogni caso il ricorso al referendum di cui all’art. 138 Cost. distinto per parti omogenee. Si tratta quindi di un insieme di proposte successivamente fatte proprie dal governo Letta con la presentazione di un apposito disegno di legge A.S. n. 813 («Istituzione del comitato parlamentare per le riforme costituzionali»), non approvato dalle camere. Sul piano della forma di governo, il gruppo di lavoro, a maggioranza (con la sola opposizione del sen. Quagliariello) ha riproposto il modello parlamentare, in primo luogo perché «l’esperienza italiana, specie quella più recente, ha invece dimostrato l’utilità di un presidente della Repubblica che, essendo fuori dal conflitto politico, possa esercitare a pieno titolo le preziose funzioni di garante dell’equilibrio costituzionale» (n. 13). Tuttavia, anticipando una proposta successivamente fatta propria dalla commissione “Quagliariello” (cfr. infra), si delinea un meccanismo per cui: a) dopo le elezioni, il candidato alla presidenza del consiglio, nominato dal presidente della Repubblica sulla base dei risultati elettorali, si presenta alla sola camera dei deputati (nel presupposto della riforma dell’assetto bicamerale del parlamento) per ottenerne la fiducia; b) il giuramento e il successivo insediamento del presidente del consiglio avvengono dopo aver ottenuta la fiducia della camera; c) il presidente del consiglio che abbia avuto e conservi la fiducia della camera, ha il potere di proporre al capo dello Stato la nomina e la revoca dei ministri; d) il presidente del consiglio può essere sfiduciato solo con l’approvazione a maggioranza assoluta, da parte della camera, di una mozione di sfiducia costruttiva, comprendente cioè l’indicazione del nuovo presidente del consiglio; e) il presidente del consiglio in carica è titolare del potere di chiedere al presidente della Repubblica lo scioglimento anticipato della camera dei deputati, ma solo se non è già stata presentata una mozione di sfiducia costruttiva. Per quanto riguarda l’assetto del parlamento, è suggerito il superamento del bicameralismo paritario, con la trasformazione del senato in una camera delle regioni, costituita dai presidenti delle regioni, da un numero

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di componenti, proporzionale alla dimensione demografica delle regioni, eletti dai consigli regionali anche tra i sindaci. Tale ramo del parlamento sarebbe estraneo al rapporto fiduciario (radicato nella sola camera dei deputati), acquisirebbe le competenze della conferenza Stato-regioni, potendo partecipare al procedimento legislativo con pienezza di attribuzioni solo su alcune proposte di legge particolarmente rilevanti per le autonomie territoriali (e, si noti, tra queste sono inserite, diversamente dal testo di revisione costituzionale Renzi-Boschi, anche l’ordinamento della finanza regionale e locale), mentre per tutte le altre il senato potrebbe chiedere l’esame e proporre emendamenti entro un termine predeterminato, fermo restando la possibilità per la camera di pronunciarsi in via definitiva (peraltro si prefigura anche per alcune categorie di leggi la possibilità che il voto finale della camera debba essere espresso a maggioranza assoluta dei componenti). Riguardo al numero dei parlamentari, il gruppo di lavoro ha proposto una riduzione che la commissione Quagliariello (ma non il testo di revisione costituzionale “Renzi-Boschi”) avrebbe fatto sostanzialmente propria (480 deputati e 120 senatori). Sul piano del funzionamento del parlamento la relazione appare assai articolata, con una serie di proposte assai interessanti ed il cui accoglimento non necessariamente presuppone una revisione della Costituzione (essendo sufficiente una riforma dei regolamenti parlamentari); tra i punti più importanti sono da ricordare: a) l’istituzione di una procedura d’urgenza per i provvedimenti prioritari, di iniziativa governativa (sul punto, si ipotizza però una limitazione del ricorso alla decretazione d’urgenza); b) il divieto dei c.d. “maxi emendamenti”; c) il vincolo di omogeneità per i disegni di legge, ma anche per i singoli articoli e per gli emendamenti; d) la valorizzazione della sede redigente per l’approvazione delle proposte di legge; e) la garanzia dell’esame delle proposte di legge di iniziativa popolare e di quelle di iniziativa dei consigli regionali; f) la previsione di una serie di strumenti a garanzia dei diritti delle opposizioni parlamentari; g) la riduzione del numero delle commissioni parlamentari; h) la previsione dell’istituzione del comitato per la legislazione anche al senato; i) la pubblicità dei lavori delle commissioni parlamentari; l) l’innalzamento del numero di componenti dei gruppi parlamentari (almeno 15 senatori, in attesa della riforma di questo ramo del parlamento; almeno 30 deputati), con l’esclusione della possibilità di autorizzare gruppi in deroga al requisito numerico e, comunque, con la previsione della corrispondenza tra lista di elezione dei parlamentari e gruppo di appartenenza; divieto di costituire componenti del gruppo misto (ad eccezione delle minoranze linguistiche) che non corrispondano a liste nelle quali i parlamentari siano stati eletti; m) adeguamento dei regolamenti parlamentari alla revisione dell’art. 81 Cost. Il gruppo di lavoro ha proposto poi la radicale modifica dell’art. 66

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Cost., attribuendo la competenza a decidere sui titoli di ammissione dei propri membri ad un giudice indipendente e imparziale. Come si dirà anche più oltre, sulla legge elettorale la relazione finale appare aperta a diverse possibilità. In ogni caso, la preferenza sembra andare verso un sistema misto (in parte proporzionale e in parte maggioritario), un alto sbarramento, implicito o esplicito, ed eventualmente un ragionevole premio di governabilità. Collegate alle scelte in materia elettorale sono le proposte relative all’attività politica e al suo finanziamento, contenute nel capitolo sesto della relazione del gruppo di lavoro. Importanti le affermazioni relative al finanziamento dei partiti, poiché tali proposte sono animate da una ratio del tutto diversa da quella che avrebbe animato il d.l. n. 149 del 2013 (cfr. infra, par. 11). Si afferma, infatti, che «il finanziamento pubblico delle attività politiche, in forma adeguata e con verificabilità delle singole spese, costituisce un fattore ineliminabile per la correttezza della competizione democratica e per evitare che le ricchezze private possano condizionare impropriamente l’attività politica» (n. 14). In questo senso, si distingue correttamente il finanziamento dei partiti dal rimborso delle spese elettorali che deve essere giustificato e documentato all’interno di rigorosi tetti di spesa. La Commissione propone inoltre nuove misure per prevenire conflitti di interesse da parte di titolari di cariche pubbliche e una nuova disciplina sui gruppi di interesse con l’istituzione di un apposito albo presso i due rami del parlamento e i consigli regionali, l’istituzione di giunte per la deontologia parlamentare (composte da quattro membri che abbiano avuto in passato una significativa esperienza parlamentare) con funzioni di vigilanza su eventuali conflitti di interesse dei parlamentari, sulla compatibilità delle attività e delle iniziative non parlamentari di deputati e senatori e sulla trasparenza delle loro attività. Per quanto riguarda il titolo V della Costituzione, il gruppo di lavoro propone, diversamente dal testo “Renzi-Boschi”, solo «alcune limitate modifiche all’articolo 117 della Costituzione» (n. 20), e, in particolare: a) lo sfoltimento dell’elenco delle materie di competenza concorrente, con l’assegnazione allo Stato delle materie nelle quali sia evidente lo spessore degli interessi unitari (si pensi, per citare un esempio, alle grandi reti di trasporto e navigazione e ai porti e aeroporti civili di interesse nazionale; b) la spettanza allo Stato dell’individuazione delle infrastrutture di interesse nazionale, automaticamente attribuendo le altre alla competenza regionale; c) l’inserimento di una “clausola di supremazia” in favore della legislazione statale, a tutela della garanzia dei diritti costituzionali e dell’unità giuridica o economica della Repubblica, che potrebbe determinare una limitazione del ricorso alle c.d. competenze trasversali (ad esempio, la tutela della concorrenza, l’ordinamento civile e i livelli essenziali delle prestazioni inerenti i diritti civili e sociali) in funzione di limitazione delle

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competenze regionali. È altresì proposta la completa attuazione della legge n. 42 del 2009 (c.d. “federalismo fiscale”) (n. 21) e delle previsioni contenute nell’art. 118 Cost. con l’adozione di una “carta delle autonomie”.

4. I lavori della commissione “Quagliariello” Si è già accennato nel cap. 6 alla decisione del governo Letta di istituire, con D.P.C.M. dell’11 giugno 2013, una commissione per le riforme costituzionali incaricata di «formulare proposte di revisione della parte seconda della Costituzione, titoli I, II, III e V, con riferimento alle materie della forma di Stato, della forma di governo, dell’assetto bicamerale del parlamento e delle norme connesse alle predette materie, nonché di riforma della legislazione ordinaria conseguente, con particolare riferimento alla normativa elettorale». Tale commissione, presieduta dal ministro per le riforme costituzionali e composta da 35 professori universitari (in larga maggioranza costituzionalisti) cui si è accompagnato un comitato per la redazione delle propose di riforma, composto da 7 membri, ha elaborato una relazione finale, articolata in sei capitoli (ovvero: 1) bicameralismo paritario; 2) procedimento legislativo; 3) titolo V; 4) forma di governo; 5) sistema elettorale; 6) istituti di partecipazione). Come si legge nella premessa di tale relazione, alla base del processo di riforma delle istituzioni è innanzitutto la crisi dei partiti politici «nell’assolvere le loro principali funzioni costituzionali: il raccordo permanente tra la società e le istituzioni; la selezione della classe dirigente; l’elaborazione di strategie»; e proprio su questo punto nella commissione si sono evidenziati orientamenti diversi: il primo basato sul presupposto «che i partiti siano in grado di superare l’attuale crisi per tornare a collegare la rappresentanza della società e il suo governo, in un quadro costituzionale che pur rinnovandosi conservi i necessari elementi di flessibilità propri della forma di governo parlamentare»; il secondo, più scettico, «ritiene che i problemi possano risolversi innanzitutto con la creazione di istituzioni a investitura popolare diretta e l’eliminazione dei troppi poteri di veto, anche come presupposto della rigenerazione del sistema dei partiti» (COMMISSIONE PARLAMENTARE PER LE RIFORME COSTITUZIONALI, Per una democrazia migliore. Relazione finale e documentazione, Roma, Presidenza del consiglio dei ministri, 2014, pp. 31-32). Anche per questo, su alcuni punti rilevanti ma controversi (forma di governo; assetto del parlamento) la relazione presenta più soluzioni alternative e assai diverse tra loro. È infine da sottolineare che la rilevanza dei lavori della commissione è data dal fatto che alcune soluzioni da essa proposte sarebbero state successivamente fatte proprie dal testo di revisione costituzionale “RenziBoschi”. In concreto, la commissione ha individuato come necessarie le seguenti

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proposte di riforma: a) rafforzamento del parlamento attraverso la riduzione del numero dei parlamentari, il superamento del bicameralismo paritario, una più completa regolazione dei processi di produzione normativa e in particolare una più rigorosa disciplina della decretazione di urgenza; b) rafforzamento delle prerogative del governo in parlamento attraverso la fiducia monocamerale, la semplificazione del processo decisionale e l’introduzione del voto a data fissa di disegni di legge; c) riforma del sistema costituzionale delle regioni e delle autonomie locali che riduca significativamente le sovrapposizioni delle competenze e si fondi su una maggiore collaborazione e una minore conflittualità; d) riforma del sistema di governo, che viene prospettata in tre possibili diverse opzioni: razionalizzazione della forma di governo parlamentare; semipresidenzialismo sul modello francese; forma di governo che cerca di farsi carico delle esigenze sottese alle prime due soluzioni, che conduca al governo parlamentare del primo ministro. 1) Sull’assetto del parlamento, in linea di principio la commissione ha proposto l’introduzione di un modello di bicameralismo differenziato, con la trasformazione del senato in una camera rappresentativa degli enti territoriali, da intendersi però (diversamente da quanto si sarebbe desunto successivamente dal testo “Renzi-Boschi”) «sia come territorio che come istituzioni», radicando nella sola camera dei deputati il rapporto fiduciario e la determinazione dell’indirizzo politico, allo scopo: a) di garantire al governo nazionale una maggioranza politica certa, e quindi stabilità; b) di «portare a compimento il processo di costruzione di un sistema autonomistico compiuto» e «non animato da logiche o dinamiche competitive, ma fondato su solide basi cooperative». In questo senso, la differenziazione dovrebbe riguardare le competenze e, in linea di principio, la composizione della seconda camera: quanto alla composizione, si ipotizza che entrambi i rami del parlamento partecipino alla funzione legislativa (ma con una prevalenza da riconoscere alla camera dei deputati), controllino l’azione del governo e valutino le politiche pubbliche (con una prevalenza del senato in alcune di queste prerogative). In particolare, per quanto riguarda il procedimento legislativo, è da sottolineare che, diversamente dal testo “Renzi-Boschi”, la commissione non ha proposto un criterio di ripartizione per materie «che avrebbe dato adito a incertezze e conflitti, in contrasto con i criteri di semplicità, rapidità e immediatezza di comprensione», e ciò anche perché «il sistema politico italiano ha bisogno di avere e trasmettere certezze». In concreto, la commissione ha individuato quattro categorie di leggi: a) leggi costituzionali e di revisione costituzionale; b) leggi ordinarie bicamerali (parte dei commissari ha ritenuto di individuare anche un’ulteriore e distinta categoria di leggi organiche); c) leggi ordinarie con voto prevalente della camera. Mentre le leggi riconducibili alle prime due categorie sarebbero appro-

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vate da entrambe le camere, come nel vigente art. 70 Cost., quelle di cui alla lett. c) sarebbero esaminate e deliberate dalla camera e successivamente sarebbero soggette ad un’eventuale procedura di richiamo da parte del senato (entro un termine tassativo) cui farebbe seguito la definitiva approvazione del primo ramo del parlamento. La commissione ha poi proposto poi una procedura di “voto a data certa” per le sole leggi ordinarie con voto prevalente della camera, che presenta però alcune differenze sostanziali rispetto a quella successivamente fatta propria dal testo “Renzi-Boschi”. Infine, a fronte della previsione della procedura in questione, la commissione ha proposto una limitazione delle possibilità di ricorrere alla decretazione d’urgenza. Quanto all’elezione dei senatori, la commissione non ha proposto una soluzione unanime, essendosi divisa al proprio interno tra sostenitori dell’elezione diretta (ma con la possibilità di componenti di diritto, e tra questi, in primo luogo, i presidenti delle regioni) e fautori dell’elezione indiretta, in questo caso, con alcune importanti variabili (non essendo esclusa, peraltro, l’opzione per un assetto monocamerale, con la costituzionalizzazione del sistema delle conferenze). Infatti, nel caso della scelta per l’elezione indiretta, il modello preferito è risultato quello per cui del senato dovrebbero far parte rappresentanti tanto delle regioni quanto dei comuni, i primi eletti dai consigli regionali, i secondi dai consigli delle autonomie locali: i senatori avrebbero dovuto essere eletti al di fuori dei consigli regionali «per evitare che le stesse persone ricoprano contemporaneamente due funzioni legislative, una presso il consiglio regionale e l’altra presso il senato», visto anche «il carattere particolarmente impegnativo del lavoro del senato» (anche questi elementi segnano una differenza rispetto al testo “Renzi-Boschi”). I sostenitori dell’elezione diretta dei senatori, sia pure in un contesto di superamento del bicameralismo paritario, hanno proposto la contestualità con le elezioni regionali e la decadenza dei senatori stessi in caso di scioglimento dei consigli regionali, al fine di accentuarne il collegamento con il sistema delle autonomie territoriali. Il vantaggio di tale proposta è rinvenuto sia nel superamento del potenziale dualismo tra regioni e comuni nell’elezione della seconda camera, sia nella maggiore legittimazione che conferirebbe ai senatori una più forte capacità di interlocuzione con i poteri locali. È infine da sottolineare che la commissione, diversamente dal testo “Renzi-Boschi”, ha proposto la riduzione del numero dei deputati (da 630 a 480) e un numero di senatori variabile da almeno 150 a non più di 200 (è proposto inoltre che del senato, qualunque sia la composizione, debbano far parte i presidenti delle regioni). La parte della relazione dedicata al tema della riforma elettorale appare sicuramente interessante nonostante che essa, a prima vista, possa apparire, in una qualche misura “superata” dalle vicende politico-istituzio-

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nali successive, a partire dalla sent. n. 1 del 2014 e nonostante che essa abbia un taglio, per così dire, necessariamente generale, viste le connessioni ineliminabili con le possibili scelte in materia di forma di governo e di assetto del parlamento. Nonostante ciò, alcuni punti della relazione, il cui accoglimento determinerebbe il ricorso ad una legge costituzionale, appaiono da sottolineare: a) la proposta di revisione di uniformazione dei requisiti per l’elettorato attivo e passivo delle due camere in caso di mantenimento dell’elezione diretta del senato; b) l’eventuale costituzionalizzazione di principi in materia elettorale ovvero la riconduzione delle leggi elettorali a quelle organiche, sul presupposto che «una legge così delicata come quella elettorale debba essere sottratta al capriccio o all’abuso delle maggioranze occasionali» (COMMISSIONE PARLAMENTARE PER LE RIFORME COSTITUZIONALI, Per una democrazia migliore, cit., p. 72). Peraltro, mentre la prima proposta non appare priva di controindicazioni, quantomeno nel caso di una costituzionalizzazione “limitata” (si pensi all’inserimento di un mero riferimento al tipo generale di sistema elettorale, ad esempio maggioritario o proporzionale, che tuttavia poco dice circa gli effetti concreti che tale sistema è destinato a produrre e che dipendono da un insieme di fattori: non solo la formula prescelta ma anche, ad esempio, la dimensione delle circoscrizioni), la seconda potrebbe rispondere ad un’esigenza garantistica, pur non mancando controindicazioni visto il potenziale irrigidimento di una materia che in alcune parti si presta a manutenzioni potenzialmente continue; peraltro, il testo “Renzi-Boschi” ha distinto sul punto la legge elettorale della camera (approvata con il procedimento “a prevalenza camera”) da quella del senato (approvata con il procedimento bicamerale); c) la soppressione della circoscrizione estero. Si tratta di una proposta del tutto condivisibile per i molti dubbi di costituzionalità della riforma operata in forza delle leggi costt. n. 1 del 2000 e n. 1 del 2001 e per i connessi problemi concreti di funzionamento cui essa ha dato luogo nella prassi. Peraltro, anche in questo caso, il testo “Renzi-Boschi” è sembrato tradire questa prospettiva laddove confermava in toto l’elezione dei 12 deputati eletti nella circoscrizione estero (salvo sopprimere la circoscrizione estero al senato alla luce della mutata configurazione istituzionale di questo ramo del Parlamento). Quali obiettivi di una riforma elettorale sono individuate: a) la riduzione della frammentazione partitica, in ordine alla quale la relazione propone, in alternativa, l’adozione di un sistema elettorale proporzionale corretto da una significativa soglia di sbarramento (5% senza eccezioni), ovvero un sistema proporzionale di assegnazione dei seggi su base circoscrizionale e senza recupero dei resti (sistema caratterizzato da

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una elevata soglia di sbarramento implicita, sul modello di quello previsto in Spagna per l’elezione del Congreso de los Diputados), ovvero, ancora, un sistema analogo a quello delle leggi Mattarella, pur nella consapevolezza dei problemi, già accennati, che questi hanno prodotto nel periodo 1993-2005; b) l’esigenza di favorire la formazione di una maggioranza di governo. Sul punto, la commissione si è divisa sul carattere majority assuring del sistema elettorale, poiché il panorama comparatistico evidenzia che la formazione di una stabile maggioranza di governo, pur favorita dal sistema elettorale, è poi garantita da ulteriori fattori politico-istituzionali, quali il numero ridotto dei partiti, la correttezza dei comportamenti politici e parlamentari, il sistema costituzionali e le prassi che lo animano; c) la necessità di superare il sistema delle liste bloccate lunghe, fatto proprio dalla legge n. 270 del 2005 in favore di un modello che restituisca ai cittadini «la possibilità di scegliere i propri rappresentanti», prendendo in considerazione alternative ritenute tutte praticabili (collegi uninominali, pur senza precisare se collegati a sistemi plurality, majority, o di tipo proporzionale; collegi plurinominali di dimensioni ridotte; circoscrizioni più o meno ampie, con la possibilità di espressione di un voto di preferenza); d) la proposta di circoscrizioni (o collegi) individuati con riferimento alla dimensione demografica e geografica, nel rispetto dei vincoli desumibili dagli artt. 56 e 57 Cost., prestando attenzione all’omogeneità economica e sociale. In prospettiva, è raccomandato un vincolo di coerenza tra le scelte in materia di forma di governo e le scelte in materia elettorale, secondo un approccio già presente nel documento del “gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali” istituito dal capo dello Stato nel marzo 2013. Da questo punto di vista, una parte della commissione ha sostenuto l’opportunità dell’adozione del modello semipresidenziale francese in quanto modello che, attraverso l’elezione diretta del presidente della Repubblica, darebbe unità al sistema politico, assicurando dunque «continuità (la durata in carica del capo dello Stato è fissata in Costituzione e non può essere abbreviata), stabilità (il sistema elettorale crea maggioranze sufficientemente coese), flessibilità (che si consegue sostituendo il primo ministro, per sedare tensioni politiche e per rispondere a esigenze manifestate nell’opinione pubblica), individuazione del vincitore, reputazione» (COMMISSIONE PARLAMENTARE PER LE RIFORME COSTITUZIONALI, Per una democrazia migliore, cit., p. 58). Il sistema elettorale più aderente a questo modello è quello maggioritario sia per l’elezione del presidente che per i deputati che favorirebbe una evoluzione in senso bipolare del sistema politico e una probabile omogeneità politica tra capo dello Stato e camera dei deputati, nel caso in cui i due organi, come in Francia, abbiano la stessa durata e l’elezione della seconda segua immediatamente quella del primo. Un’altra parte della commissione ha manifestato una preferenza per il

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modello parlamentare, sia per i rischi di un’eccessiva concentrazione di potere che il modello francese sembra non scongiurare, sia per la necessità di modifiche profonde dell’intera seconda parte della Costituzione che tale modello inevitabilmente comporterebbe, sia, infine, sia per il fatto che il governo parlamentare ha il pregio di assicurare l’omogeneità di indirizzo tra esecutivo e parlamento «nell’ambito di un sistema equilibrato e flessibile, capace di funzionare in presenza di contesti politici diversi e di adattarsi alle circostanze senza esasperare i motivi di tensione» (COMMISSIONE PARLAMENTARE PER LE RIFORME COSTITUZIONALI, Per una democrazia migliore, cit., p. 60). Sono proposti, peraltro, correttivi in direzione di una razionalizzazione di tale modello, e tra questi il coinvolgimento della sola camera nel rapporto fiduciario, l’introduzione della sfiducia costruttiva, il riconoscimento all’esecutivo di idonei poteri nel procedimento legislativo, allo scopo di consentire una più celere approvazione delle proposte di legge attuative del programma di governo, il rafforzamento delle prerogative del presidente del consiglio in seno al governo, una disciplina dello scioglimento della camera che pur confermandone la natura “duale” chiarisca le responsabilità del governo e del capo dello Stato, quest’ultimo destinato a mantenere essenziali «poteri di controllo, di coordinamento e di influenza legittimati dalla sua posizione super partes» (COMMISSIONE PARLAMENTARE PER LE RIFORME COSTITUZIONALI, Per una democrazia migliore, cit., p. 61). Per quanto riguarda la scelta del sistema elettorale, esso dovrebbe rispondere all’esigenza di contemperare le esigenze della rappresentanza con quelle di contenimento della frammentazione partitica. È stata poi proposta una “forma di governo parlamentare del primo ministro”, accompagnata da una coerente legge elettorale, tale da far «emergere da una sola consultazione degli elettori la maggioranza parlamentare e l’indicazione del presidente del consiglio, in modo da incorporare la scelta del leader nella scelta della maggioranza» (COMMISSIONE PARLAMENTARE PER LE RIFORME COSTITUZIONALI, Per una democrazia migliore, cit., p. 62). In concreto, in tale modello: a) il presidente della Repubblica nomina il primo ministro sulla base dei risultati delle elezioni per la camera, le quali si svolgono con un sistema elettorale che colleghi al deposito di ciascuna lista o coalizione di liste l’indicazione della personalità che la lista o la coalizione candiderebbe alla carica di primo ministro; b) il primo ministro nominato dal presidente della Repubblica espone alla camera il proprio programma chiedendone l’approvazione con voto per appello nominale; c) il primo ministro propone al capo dello Stato la nomina e la revoca dei ministri; d) il primo ministro può chiedere, come già ricordato, il voto a data fissa dei disegni di legge attuativi del programma di governo;

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e) il primo ministro può essere sfiduciato solo con una mozione di sfiducia costruttiva sottoscritta da un quinto dei componenti della camera e approvata con la maggioranza assoluta; f) per evitare che conflitti tra il primo ministro e una maggioranza consolidata attraverso un premio di maggioranza, implicito o esplicito, possano introdurre nel sistema inopportuni fattori di instabilità, si prefigura l’introduzione di alcuni specifici meccanismi istituzionali, peraltro contemplati in altri regimi parlamentari razionalizzati, come Spagna e Germania, finalizzati a regolare il rapporto intercorrente tra la richiesta di scioglimento da parte del primo ministro e la possibilità per la camera di approvare una mozione di sfiducia costruttiva con l’indicazione di un nuovo presidente; g) una procedura analoga dovrebbe essere seguita quando il primo ministro pone la questione di fiducia su un determinato provvedimento e non la ottiene. Si tratta, si potrebbe dire, di una sorta di “ultimo avamposto” della forma di governo parlamentare, con alcuni elementi che ricordano il modello fatto proprio a livello regionale e comunale ma differenziandosi da questo per il fatto di non prevedere la formale elezione (ma solo l’indicazione) del primo ministro in sede di elezione della camera né l’automatismo intrinseco al meccanismo aut simul stabunt aut simul cadent per cui il venir meno del primo determina lo scioglimento della seconda. Di fatto, su almeno un elemento essenziale, ovvero quello riportato sopra nella lett. f), la commissione ha evidenziato posizioni diverse ma tali da determinare esiti assai diversi nella disciplina dei rapporti tra i poteri: così, come si legge nella relazione, «secondo alcuni componenti della commissione occorrerebbe prevedere meccanismi di più intensa razionalizzazione prevedendo che il primo ministro possa chiedere e ottenere lo scioglimento della camera e che la richiesta precluda la presentazione di una mozione di sfiducia costruttiva. Altri componenti invece ritengono che sia preferibile attribuire alla camera il potere di paralizzare la richiesta di scioglimento attraverso la l’approvazione di una mozione di sfiducia costruttiva» (COMMISSIONE PARLAMENTARE PER LE RIFORME COSTITUZIONALI, Per una democrazia migliore, cit., p. 63). In ogni caso, una componente essenziale di tale modello è data dal sistema elettorale: sul punto, si propone un sistema elettorale proporzionale con clausola di sbarramento unica, rigorosamente selettiva (5% dei voti), premio di maggioranza al 55% dei seggi per la coalizione o la lista singola più votata che abbia superato una determinata soglia, per alcuni da collocarsi intorno al 40% dei seggi, per altri addirittura al 50%, con l’eventuale previsione di un turno di ballottaggio. È quindi fondamentale, e ontologicamente diverso da quanto previsto tanto nella legge n. 270 del 2005 quanto nell’italicum, il riferimento alla so-

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glia calcolata sui seggi, con l’ulteriore, problematica conseguenza di non computare i voti delle liste sotto soglia, nella logica di «disincentivare la formazione di coalizioni fortemente eterogenee, utili per vincere ma inadatte a governare» (COMMISSIONE PARLAMENTARE PER LE RIFORME COSTITUZIONALI, Per una democrazia migliore, cit., p. 72). Più opinabile la soluzione proposta dalla commissione (successivamente ripresa dall’italicum) circa il turno di ballottaggio, laddove si esclude la possibilità di ulteriori apparentamenti alle due coalizioni ammesse. In questo caso, infatti, la logica del ballottaggio potrebbe portare a ritenere possibile l’allargamento delle coalizioni, come avviene nei comuni con popolazione superiore ai quindicimila abitanti, pur avendo dato luogo, in questo caso, ad un contenzioso relativo al “valore” in termini di seggi di tale apparentamento. Sugli istituti di democrazia diretta, la commissione ne ha proposto un rafforzamento, sia nella prospettiva di una valorizzazione del principio di partecipazione, sia quale correttivo dei congegni di rafforzamento del circuito parlamento-governo. In concreto, si prevede l’introduzione di un referendum collegato ad una proposta di iniziativa popolare non approvata (o approvata con modificazioni sostanziali) dal parlamento entro un determinato termine, il mantenimento del referendum abrogativo nei confini originariamente assegnatigli (sembrerebbe di capire, ad esempio vietando i referendum c.d. “manipolativi”), il potenziamento della petizione, anche attraverso l’uso dei nuovi mezzi di comunicazione elettronica, la previsione di strumenti di democrazia partecipativa nel procedimento di adozione degli atti normativi secondari. Infine, per quanto attiene alla riforma del titolo V, la commissione, pur riconoscendo alcuni seri limiti della riforma operata nella legge cost. n. 3 del 2001 e quindi auspicando interventi di riforma che eliminino, per quanto possibile sovrapposizioni, incongruenze ed incertezze anche attraverso la trasformazione del senato in una camera rappresentativa delle autonomie territoriali, si è divisa tra quanti hanno auspicato un ripensamento della stessa in direzione di un rafforzamento delle prerogative statali, e una posizione numericamente minoritaria che, al contrario, ha proposto un mantenimento se non un rafforzamento delle autonomie territoriali. Non si è quindi registrata una posizione unanime, ad esempio, sul mantenimento della potestà concorrente, preferendo un assetto binario (potestà legislativa esclusiva statale/potestà residuale regionale anche espressamente individuata) temperato da una clausola di “supremazia” che però, diversamente dal testo di revisione costituzionale “Renzi-Boschi”, avrebbe dovuto essere approvata a maggioranza assoluta dei componenti della camera (per alcuni, tale legge avrebbe dovuto essere ricondotta a quelle “bicamerali”) e, secondo alcuni componenti della commissione, dalla possibilità per lo Stato di delegare la propria potestà legislativa alle regioni (o anche ad alcune di esse).

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PARTE II – IL TORMENTATO PERCORSO DI RIFORMA DELLE LEGGI ELETTORALI PER IL PARLAMENTO NAZIONALE 5. A monte della “rivoluzione” del 2014: l’eterno dibattito sulla riforma elettorale (1993-2013) Come nel 1993 anche il 2015 ha visto una nuova riforma elettorale (legge n. 52 del 2015, c.d. italicum) indotta da un “vincolo” esterno al Parlamento, dato, nel primo caso, dall’esito del referendum abrogativo parziale sulla legge per il Senato, e, nel secondo caso, dalla sent. n. 1 del 2014 della corte costituzionale che ha dichiarato incostituzionale le parti più qualificanti della legge n. 270 del 2005 (c.d. “legge Calderoli” o “porcellum”); e ciò per «la storica tradizione dei policy makers italiani di muoversi a rimorchio di pressioni ambientali, piuttosto che di un’iniziativa o disegno autonomo, specie quando si tratta di compiere scelte difficili e controverse» (A. PAPPALARDO, La nuova legge elettorale in Parlamento: chi, come e perché, in S. BARTOLINI, R. D’ALIMONTE, a cura di, Maggioritario ma non troppo, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 33). Con l’approvazione della legge n. 52 del 2015 sono quindi tre le leggi elettorali adottate nell’arco di un ventennio, a dimostrazione di una instabilità sconosciuta alle altre democrazie consolidate (P. IGNAZI, Perché l’italicum va modificato, in La Repubblica, 24 gennaio 2014) e sconosciuta fino al 1992 anche con riferimento all’Italia (con la sola, parziale eccezione della c.d. “legge truffa”). L’instabilità delle leggi elettorali è spiegabile avendo riguardo, da un lato, al funzionamento dei metodi di trasformazione dei voti in seggi da esse delineati, dall’altro a motivazioni più squisitamente politiche. Le leggi Mattarella, oggi da più parti rimpiante ma diffusamente criticate nella loro vigenza, furono il frutto non di una libera scelta della classe politica ma la conseguenza inevitabile del referendum del 1993; oltre a delineare sistemi elettorali con alcuni non marginali elementi di differenza per i due rami del parlamento, esse contenevano alcuni aspetti discutibili ormai colpevolmente dimenticati nel dibattito politico attuale, quali la disciplina dello scorporo nella legge elettorale della camera che aveva favorito la prassi delle c.d. “liste civetta” fino all’incredibile vicenda della mancata elezione di 11 deputati nelle elezioni del 2001 (per tutti, L. SPADACINI, Regole elettorali e integrità numerica delle Camere, Brescia, Promodis, 2003). Fu però il mantenimento di una quota proporzionale pari al 25% dei seggi per i due rami del parlamento che formò oggetto di obiezioni e polemiche, sia per la logica diversa che animava la parte maggioritaria e quella proporzionale (A. BARBERA, La rappresentanza politica: un mito in declino?, in Quad. cost., 2008, p. 882). Ma tale critica finiva per sottovalutare un altro fenomeno, ovvero la c.d. “proporzionalizzazione” della parte

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maggioritaria (ovvero la spartizione bilanciata dei collegi uninominali, soprattutto di quelli considerati “sicuri”, tra i diversi partners delle coalizioni) che avrebbe impedito la realizzazione delle promesse della riforma del 1993, a cominciare dalla riduzione della frammentazione partitica (R. D’ALIMONTE, L’uninominale incompiuto, in Il Mulino, 1994, pp. 55 ss.). Rimane il fatto che già dal 1994 furono depositate richieste referendarie allo scopo di sopprimere la quota proporzionale dichiarate inammissibili (due volte: corte cost., sentt. n. 5 del 1995 e n. 26 del 1997), successivamente ripresentate in termini parzialmente nuovi ma bocciate dal corpo elettorale prima nel 1999 e poi nel 2000 (per tutti, A. GIGLIOTTI, L’ammissibilità dei referendum in materia elettorale, Milano, Giuffrè, 2009). Parallelamente alla via referendaria furono presentate più proposte di riforma, talvolta nel quadro di progettazioni riguardanti anche innovazioni costituzionali relative alla forma di governo, in alcuni casi discutibili sul piano della legittimità costituzionale (così le proposte di innestare sulla parte maggioritaria del sistema elettorale un premio di maggioranza) o condizionate da logiche del tutto contingenti, come la proposta, ispirata al modello tedesco (c.d. “Franceschini-Villone”) ma corretta con la previsione di un premio di maggioranza, presentata alla fine della XIII legislatura (A.S. n. 3812). La stessa sorte è toccata alla legge n. 270 del 2005; a parte i problemi di funzionamento dei sistemi elettorali da essa delineati e le questioni di legittimità costituzionale di cui si dirà nel par. 6, anche in questo caso il doppio canale di riforma (in via referendaria e in via legislativa) prese corpo appena dopo la sua prima applicazione. È da ricordare che l’approvazione della legge n. 270 del 2005 fu dettata da un insieme di ragioni diverse, in primo luogo dalla convenienza politica del centro-destra di superare il sistema dei collegi uninominali, assolutamente favorevole per il centro sinistra ma del tutto penalizzante per la “casa delle libertà” (R. D’ALIMONTE, I rischi di una nuova riforma elettorale. In difesa del «mattarellum», in Quad. cost., 2004, in particolare pp. 509 ss.). In secondo luogo, la dichiarata preferenza di un partner allora fondamentale per il centro-destra quale l’Udc per sistemi di tipo sostanzialmente proporzionale e il probabile “scambio” tra questa riforma e la progettata revisione costituzionale relativa, tra l’altro alla forma di governo (tema caro a forza Italia ma anche ad alleanza nazionale) e ai rapporti tra Stato e regioni (con l’introduzione della c.d. devolution fortemente voluta dalla lega nord) contribuiscono a spiegare l’abbandono delle leggi elettorali del 1993. Sul punto non è certo casuale il fatto che i sistemi elettorali introdotti con la legge Calderoli (soprattutto quello della camera) risultassero congeniali proprio rispetto a quel modello di “premierato assoluto” (per usare le parole di L. ELIA, Il premierato assoluto, in ID., La Costituzione aggredita, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 61 ss.) che il progetto di riforma costituzionale approvato nella stessa XIV legislatura in parallelo alla

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riforma elettorale faceva proprio: il premio di maggioranza (nella versione majority assuring nel sistema elettorale per la camera) senza la fissazione di una soglia minima di voti per conseguirla, la previa indicazione del “capo unico della coalizione”, le generose soglie di sbarramento per i partiti che accettavano di confluire in una coalizione erano contenuti tanto coerenti con una forma di governo “semiparlamentare” quanto dissonanti con la Costituzione vigente, come fu sostenuto da più parti già durante l’esame parlamentare della legge n. 270 del 2005. A queste caratteristiche deve poi aggiungersi la previsione di liste bloccate, senza la reintroduzione del voto di preferenza (come invece avrebbe voluto l’Udc) allo scopo di rafforzare il ruolo dei vertici (soprattutto nazionali, ma anche locali) nella scelta dei candidati e quindi nel controllo successivo sugli eletti. In questo senso, la stessa previsione dei premi di maggioranza regionali nel sistema elettorale del Senato, probabilmente inserita a seguito di un rilievo informale del presidente della Repubblica, fu probabilmente accettata dalle diverse forze del centro destra non solo per i rischi derivanti da un possibile rinvio della nuova legge a pochi mesi dalla fine della legislatura, ma anche perché nella nuova architettura istituzionale il senato sarebbe stato estromesso dal rapporto fiduciario: in questo senso, le innovazioni introdotte dalla legge n. 270 del 2005 avrebbero potuto essere interpretate come “transitorie”, destinate cioè a essere superate una volta entrata in vigore la revisione costituzionale; e ciò evidenzia un’evidente analogia, come si dirà, con l’italicum (legge n. 52 del 2015). Come è noto, il collegamento tra la legge n. 270 del 2005 e la progettata revisione costituzionale è stato spezzato dalla reiezione di quest’ultima nel referendum del giugno 2006 (ancora una volta, come sarebbe avvenuto con l’italicum); la legge “Calderoli” ha potuto, per così dire, dispiegare in pieno tutti i dubbi di costituzionalità che essa suscitava. Ciò detto, le proposte di revisione della legge elettorale del 2005 hanno portato, anche in questo caso a soluzioni anche assai diverse tra loro (si pensi alle differenze tra la c.d. “bozza Chiti” dell’aprile 2007, le proposte di riforma esaminate dalla Commissione affari costituzionali del senato alla fine della XV legislatura, la c.d. “bozza Malan” discussa dal senato al termine della XVI legislatura). Quanto alla via referendaria, anch’essa ha seguito itinerari diversi: mentre i c.d. referendum “Guzzetta” (che si proponevano di eliminare il collegamento in coalizione nella legge n. 270 del 2005 ed eliminare la possibilità per i candidati di presentarsi in più di una circoscrizione), non hanno raggiunto il quorum di partecipazione nella consultazione del giugno 2009, i referendum “Morrone” (che si proponevano di “ripristinare” le leggi Mattarella) sono stati dichiarati inammissibili dalla corte costituzionale (sent. n. 13 del 2012). Come si è accennato, le proposte di legge di riforma elettorale si sono inserite quasi sempre all’interno di più generali progettazioni di revisione della forma di governo; tuttavia, il percorso riformatore ha grandemente

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sofferto di una programmatica, e perciò irrecuperabile, scissione fra la riforma del sistema elettorale e la modifica della forma di governo. Non è certo il caso di ricordare le connessioni e le mutue interazioni fra l’assetto e il rendimento di una forma di governo e le scelte operate a livello di leggi elettorali (sul punto, rimangono di grande attualità le considerazioni di L. ELIA, Governo (forme di), cit., pp. 634 ss.) e l’inammissibilità di una dissociazione dei due piani, come del resto si evince anche dalla giurisprudenza costituzionale (sent. n. 4 del 2010). A ciò si aggiunga che, come le proposte di revisione costituzionale, anche i diversi progetti di riforma elettorale hanno evidenziato talvolta una natura, per così dire, “congiunturale”, essendo fin troppo condizionate dal contesto politico-istituzionale del momento o, comunque, essendo concepite con finalità politiche transeunti: per cui, sia sul piano della revisione della forma di governo, sia sul piano della legislazione elettorale, non può stupire che dagli stessi attori politici siano stati proposti, praticamente in contemporanea, quasi si trattasse di succedanei, modelli in realtà profondamente diversi quanto a ratio e a rendimento istituzionale. Questo approccio disorganico ha connotato in particolare l’ultimo ventennio della nostra storia istituzionale, con pochissime eccezioni. Peraltro, il processo di riforma elettorale si è accompagnato al sistematico fallimento di tutti i tentativi di innovazione sul piano della forma di governo; e questo elemento è da rimarcare nella misura in cui sulle leggi elettorali (e sulle loro riforme) si sono scaricate aspettative che queste ultime (da sole) non possono soddisfare. Da qui anche l’inserimento nelle leggi elettorali ancora in vigore di disposizioni chiaramente incidenti sul terreno della forma di governo, quali, nell’ambito della legge n. 270 del 2005, come detto, l’indicazione del “capo unico della coalizione” e l’obbligo per le coalizioni e i partiti di depositare, all’atto della presentazione dei contrassegni elettorali il programma elettorale. L’obbligo per le coalizioni (o per i partiti che si presentino da soli) di indicare il «capo unico della coalizione», con la precisazione che «restano ferme le prerogative spettanti al presidente della Repubblica previste dall’articolo 92, comma 2, della Costituzione» (come è noto, sembra che questo inciso sia stato inserito dietro «suggerimento» del Quirinale) nella vigenza della legge n. 270 del 2005 non ha posto problemi di costituzionalità ma solo, per così dire, di «utilità». Come è stato esattamente sottolineato, l’indicazione, ma non sulla scheda elettorale, dell’unico «capo della coalizione» non è apparso configgente con le prerogative del capo dello Stato, almeno non più della prassi, instaurata già dal 2001, di inserire il nome del candidato presidente del consiglio nei contrassegni delle due coalizioni principali (C. DELL’ACQUA, Indicazione del premier e poteri del Quirinale, in Quad. cost., 2001, pp. 133 ss.). Tale previsione, pur apparendo «interessante per definire il contesto in cui convergono elementi contraddittori di tipo coalizionale, plebiscitario ed organizzativo oligarchico,

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che si collegano, invece, alla recente storia della Repubblica» (F. LANCHESTER, La rappresentanza in campo politico, cit., p. 186), è stata ritenuta equivalente rispetto all’ipotesi in cui dalle elezioni fuoriesca una maggioranza parlamentare unita intorno ad un leader pacificamente destinato ad essere indicato al capo dello Stato quale futuro presidente del consiglio (in questo senso, L. CARLASSARE, Governo, parlamento e presidente della Repubblica, cit., pp. 96 ss.; M. VOLPI, La natura, cit., pp. 166 ss.). Da questo punto di vista, come si è detto, il nome del «capo unico della coalizione» non figurava sulla scheda elettorale e quindi, mancava un elemento essenziale, previsto invece nelle elezioni regionali dalla legge n. 43 del 1995, ancora prima dell’entrata in vigore della legge cost. n. 1 del 1999, ovvero la possibilità di un voto a quest’ultimo che fosse determinante al fine dell’assegnazione del premio di maggioranza. La disposizione non si traduceva quindi in un vincolo giuridico al capo dello Stato, ipotizzabile solo attraverso una revisione dell’art. 92 Cost. che prevedesse l’elezione diretta del presidente del consiglio (R. BALDUZZI, M. COSULICH, In margine alla nuova legge elettorale politica, in Giur. cost., 2005, pp. 5191-5192); del resto, come si è detto, la tesi dell’improponibilità di un cambiamento di governo in corso di legislatura non trova riscontri nel testo costituzionale vigente, che anzi contiene disposizioni che sembrano andare nella direzione opposta (si pensi agli artt. 67 e 94 Cost.), cosicché anche parte della dottrina più sensibile ad una tale evoluzione a Costituzione vigente ritiene che questa potrebbe radicarsi stabilmente solo in una, peraltro problematica, convenzione costituzionale per cui «se viene meno la fiducia del parlamento, non resta altra soluzione che decretarne lo scioglimento anticipato, sottoponendo ogni decisione al corpo elettorale» (A. RUSSO, La legge 270 del 2005 e la sua interazione col sistema dei partiti e coi loro assetti organizzativi: rafforzamento del ruolo del leader, apparentamenti e dinamica degli accordi elettorali «praeter legem», fra il sogno di un bipartitismo stile Westminster e la persistente realtà del governo di coalizione, in G. MOSCHELLA, P. GRIMAUDO, a cura di, Riforma elettorale e trasformazione del «partito politico», Milano, Giuffrè, 2008, p. 182). Nello stesso senso, tale indicazione, sempre sul piano giuridico, non era tale da alterare la più complessiva posizione costituzionale del presidente del consiglio: a questo proposito, disattendendo un rilievo della difesa dell’on. Berlusconi, e dell’avvocatura dello Stato, la corte costituzionale, nella nota sent. n. 262 del 2009 sul c.d. «lodo Alfano» (legge n. 128 del 2008) ha affermato nettamente che la formale indicazione preventiva del capo unico della coalizione, in quanto contenuta in una fonte di rango legislativo, «non è idonea a modificare la posizione costituzionale del presidente del consiglio dei ministri» (considerato in diritto, n. 7.3.2.3.1). Tale affermazione è stata ripresa più recentemente nella sent. n. 23 del 2011, a proposito della legge n. 51 del 2010, laddove si osserva che «la disciplina elettorale, in base alla quale i cittadini indicano il «capo della forza politi-

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ca» o il «capo della coalizione», non modifica l’attribuzione al presidente della Repubblica del potere di nomina del presidente del consiglio dei ministri» (considerato in diritto, n. 5.2). Peraltro, anche il «vincolo politico» che tale indicazione realizzava poteva essere assai modesto, a seconda del contesto. Così, nelle elezioni del 2006 l’individuazione di Berlusconi come «capo unico» della coalizione di centro destra non impedì la rivendicazione della premiership da parte di Gianfranco Fini nel caso in cui AN avesse conquistato più voti di forza Italia (ciò che comunque non avvenne); nella XV legislatura, la previa «investitura» plebiscitaria delle primarie di coalizione dell’autunno del 2005 e l’indicazione di Prodi quale «capo unico» di una coalizione non impedirono alla coalizione di centro-sinistra nel gennaio 2008 di proporre al capo dello Stato un mandato esplorativo al presidente del senato, diretto a verificare la possibilità di costituire un nuovo governo funzionale all’approvazione di un progetto di riforma della legge elettorale. Nella XVI legislatura il deterioramento dei rapporti interni alla maggioranza, culminato nella presentazione, e successiva reiezione, di una mozione di sfiducia al IV governo Berlusconi, fece emergere, sia pure confusamente, l’ipotesi sia di un esecutivo di centro destra presieduto da un esponente diverso dal «capo unico della coalizione», sia di un governo istituzionale, sia, infine, di un governo tecnico a termine sostenuto dai gruppi di opposizione e da FLI. Nella XVII legislatura, infine, nessuno dei presidenti del consiglio (Letta, Renzi, Gentiloni) era stato indicato capo unico della coalizione di centro-sinistra. Se quindi, fino a oggi, questa previsione non ha determinato problemi di sorta, a diverse conclusioni si potrebbe giungere a proposito dell’italicum, dato il diverso sistema elettorale introdotto da tale legge (cfr. infra, par. 9). Potenzialmente più interessante appare l’obbligo, previsto dall’art. 14bis del D.P.R. n. 361 del 1957 (come modificato dalla legge n. 270 del 2005 e ancora in vigore anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 52 del 2015, c.d. italicum), di deposito del programma elettorale all’atto di presentazione dei contrassegni elettorali; obbligo che grava sui singoli partiti e, prima dell’entrata in vigore della legge n. 52 del 2015, sulle coalizioni (in quest’ultimo caso, il programma era unico). Tale innovazione avrebbe potuto e potrebbe rappresentare uno strumento per rafforzare l’identità programmatica dei partiti e quindi del futuro governo, in un contesto che vede nel programma elettorale l’ideale punto di congiunzione tra legittimazione governativa e legittimazione parlamentare. Da questo punto di vista, la disposizione in esame appare però eccessivamente fiduciosa nell’immaginare un continuum tra programma elettorale e programma di governo, che non solo è opinabile sul piano teorico (essendo rimaste inalterate le disposizioni costituzionali sulla formazione

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dell’esecutivo), ma presuppone una fissità del primo del tutto utopistica, data l’inevitabile necessità di aggiornamenti anche per esigenze imprevedibili ex ante. Come è stato esattamente osservato, la differenza fondamentale tra programma elettorale e programma di governo attiene al fatto che il primo attiene alla rappresentanza, l’altro al rapporto fiduciario, per cui confondere i due piani comporterebbe «una distorta applicazione del principio di maggioranza, in virtù della quale i vincitori delle elezioni sarebbero i soli ad avere, oltre al diritto di governare, la possibilità di rappresentare, con il conseguente azzeramento del ruolo delle opposizioni» (F. GRANDI, Programma elettorale versus indirizzo ideologico, in Pol. dir., 2009, pp. 693-694, nt. 7). Tuttavia, nonostante la trasformazione politico-istituzionale avvenuta a partire dal 1992, i programmi elettorali, e gli stessi programmi di governo, non si sono caratterizzati certo per concretezza, e per questo non sono mai stati in grado di indirizzare efficacemente e realmente lo svolgersi dell’indirizzo politico di maggioranza che dovrebbe essere costituito dal risultato non meramente esistenziale dell’incontro fra l’indirizzo politico del governo e quello proprio del parlamento. Così, nei fatti il programma elettorale ha integrato solo un debole vincolo politico nella formazione dell’indirizzo politico, che ormai deve fare i conti anche con i condizionamenti derivanti dai vincoli sovranazionali (R. CHERCHI, Il governo, cit., p. 399) e con una dinamica coalizionale che ha visto sovrapposizioni tra il programma di coalizione ed i programmi dei singoli partiti della maggioranza, necessari per marcare l’identità dei singoli partners della coalizione. La maggiore celerità che ha contraddistinto, almeno all’inizio della legislatura, la formazione dei governi, è sembrata tradursi mutatis mutandis in una sorta di investitura «di formula politica» più che programmatica, non dissimile da quella che ha caratterizzato tante fasi del periodo 19481991 (P. CIARLO, Mitologie, cit., p. 129), tale quindi da imporre al governo una attenta e puntuale riflessione sulle soluzioni da presentare alla valutazione del parlamento (A. D’ANDREA, Accordi di governo, cit., p. 80). Emblematica di questa sostanziale continuità sono, in primo luogo, le evanescenti dichiarazioni programmatiche dei presidenti del consiglio ex art. 94 Cost., e quindi il carattere solo formale dell’approvazione da parte del consiglio dei ministri delle dichiarazioni programmatiche del presidente del consiglio (art. 1, comma 2, lett. a, legge n. 400 del 1988), nonché la perdurante assenza di motivazione della mozione di fiducia che, come si è detto, ha contribuito a radicare la mancanza di una definizione sufficientemente delineata dell’indirizzo politico di governo. Tutti questi elementi hanno contribuito ad esaltare l’eterogeneità delle coalizioni di governo anche dopo il 2001, allorché, come detto, per la prima volta dalle elezioni è uscito definitivamente consolidato un assetto bipolare del sistema politico. Ma anche dopo l’entrata in vigore della legge

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n. 270 del 2005, queste linee di tendenza non sembrano essere state poste in discussione, poiché, salvo forse, ma solo per alcuni profili, proprio l’esperienza del governo Renzi, le necessità politiche della coalizione hanno imposto adeguamenti continui alle modalità di azione dell’esecutivo ed ai tempi dell’azione programmatica: ancora oggi, «il programma resta così il collante tra governo e maggioranza, ma si adatta, con deformazioni e continui compromessi, alle torsioni che gli impone il quadro politico, di cui diventa normalmente satellite» (P. CALANDRA, I governi, cit., p. 11), nonché ad esigenze anche imprevedibili sul piano fattuale, sorte successivamente. Le considerazioni che precedono rendono quindi ragione del fatto che, se il programma elettorale ed il programma di governo costituiscono vincoli assai labili per l’azione del governo, è essenziale l’attività di attuazione-integrazione del programma, così come gli aggiornamenti dello stesso conseguenti alle rapide trasformazioni che fattori imprevedibili ex ante possono indurre. Tali attività chiamano in causa insieme il presidente del consiglio ed i ministri di settore. Ma anche in questo caso, i poteri del primo debbono fare i conti costantemente con una lettura attenta dei rapporti politici che tenga conto degli equilibri di coalizione (R. CHERCHI, Il governo, cit., p. 405). In ogni caso, però, il caso italiano dimostra in questo ambito la sostanziale emarginazione del parlamento, quando invece proprio in Gran Bretagna, che è considerata la patria del c.d. «premierato forte», le sessioni della camera dei comuni si aprono con il discorso della corona, che contiene il programma annuale, corredato dalla presentazione degli atti che dovranno essere discussi e approvati. Su queste indicazioni si apre il confronto parlamentare tra maggioranza ed opposizione sui rispettivi indirizzi programmatici generali. Questo tipo di approccio richiama la necessità di innovazioni che possono non involgere il terreno costituzionale ma, più propriamente, quello dei regolamenti parlamentari (per tutti, P. CARETTI, La forma di governo, in Rass. parl., 2005, p. 597), riguardando, in primo luogo, le tematiche della programmazione dei lavori parlamentari e, più a monte, le problematiche, in parte ancora irrisolte, dei rapporti tra il circuito governo/maggioranza parlamentare (sul cui continuum nel caso italiano è lecito dubitare, data la dialettica interna alla maggioranza che certo non è scomparsa anche nell’attuale legislatura), da un lato, e opposizioni, dall’altra.

6. Segue: la svolta costituita dalla sent. n. 1 del 2014 della corte costituzionale Come detto, le elezioni del 2013 hanno costituito un terreno insieme fertile e problematico per addivenire al superamento della legge n. 270 del 2005.

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Per comprendere gli svolgimenti successivi, è opportuno ricordare brevemente i tratti caratterizzanti della legge n. 270 del 2005. Essa delineava due sistemi elettorali diversi per camera e senato, accomunati da tre istituti: a) un premio di maggioranza in favore della lista o coalizione di lista più votata; b) soglie di sbarramento differenziate per le coalizioni, le liste singole e le liste facenti parte di coalizioni; c) impossibilità per gli elettori di esprimere voti di preferenza. In concreto, per la camera il sistema elettorale prevedeva un riparto proporzionale dei seggi a livello nazionale (con successivo “ribaltamento” in 26 circoscrizioni di ampiezza regionale o infraregionale). La lista (o coalizione di liste) più votata otteneva 340 seggi, ovvero il 54% dei seggi (non erano computati né i voti della circoscrizione estero né, discutibilmente, quelli della Valle d’Aosta); il sistema era quindi majority assuring. Le soglia di sbarramento per le coalizioni era fissata al 10% a livello nazionale; quella per le singole liste al 4%, mentre quella delle liste all’interno delle coalizioni con più del 10% era fissata al 2% anche se conseguiva la rappresentanza anche la lista più votata tra quelle sotto il 2%. Per il senato, l’art. 57 Cost. era ritenuto preclusivo di un riparto dei seggi a livello nazionale: i seggi erano quindi attribuiti a livello regionale e a livello regionale erano calcolati il premio di maggioranza (55% dei seggi), le soglie di sbarramento per le coalizioni (20%), per le liste singole (8%), per le liste all’interno delle coalizioni (3%). Entrambi i sistemi elettorali sembravano favorire quindi un assetto del sistema politico insieme bipolare e frammentato (date le generose soglie di sbarramento), nel quale anche i voti delle liste sottosoglia erano comunque utili per la vittoria della coalizione. L’altro elemento da sottolineare è dato dal fatto che il sistema elettorale per il Senato non era majority assuring, poiché l’irrazionale modello dei primi di maggioranza regionali dava vita ad una sorta di “lotteria” tale da rendere difficile ad una stessa coalizione il conseguimento della maggioranza assoluta dei seggi. Così, proprio questa diversità, unitamente al successo del movimento 5 stelle, ha prodotto nelle elezioni del 2013, in primo luogo, una situazione di ingovernabilità, attestata, come detto (cap. 6), dal fallimento del preincarico a Bersani e dall’inedita decisione del capo dello Stato di nominare due gruppi di lavoro incaricati di elaborare proposte in materia di riforme istituzionali e un’agenda di lavoro in materia economico-sociale ed europea. Tuttavia, la vera svolta in materia di riforma elettorale è stata indotta dalla sent. n. 1 del 2014 della corte costituzionale della quale sono due gli aspetti essenziali che in questa sede debbono essere sottolineati. Ovviamente, il primo punto riguarda l’assenza nella legge n. 270 del 2005 di una soglia minima in voti o in seggi per il conseguimento del premio di maggioranza. È noto che su questo punto la corte, pur riconoscendo che la finalità di garantire la stabilità del governo del paese e di rendere più rapido il pro-

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cesso decisionale «costituisce senz’altro un obiettivo costituzionalmente legittimo», censura l’assenza di detta soglia nella misura in cui è tale da «trasformare, in ipotesi, una formazione che ha conseguito una percentuale pur molto ridotta di suffragi in quella che raggiunge la maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea. Risulta, pertanto, palese che in tal modo esse consentono una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare, incompatibile con i principi costituzionali in base ai quali le assemblee parlamentari sono sedi esclusive della “rappresentanza politica nazionale” (art. 67 Cost.), si fondano sull’espressione del voto e quindi della sovranità popolare, ed in virtù di ciò ad esse sono affidate funzioni fondamentali, dotate di “una caratterizzazione tipica ed infungibile” […], fra le quali vi sono, accanto a quelle di indirizzo e controllo del governo, anche le delicate funzioni connesse alla stessa garanzia della Costituzione (art. 138 Cost.): ciò che peraltro distingue il parlamento da altre assemblee rappresentative di enti territoriali». È poi inciso il principio democratico perché «dette norme producono una eccessiva divaricazione tra la composizione dell’organo della rappresentanza politica, che è al centro del sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo parlamentare prefigurati dalla Costituzione, e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto, che costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare, secondo l’art. 1, secondo comma, Cost.». L’assenza di soglie per il conseguimento del premio di maggioranza viola altresì il principio fondamentale di eguaglianza del voto che «pur non vincolando il legislatore ordinario alla scelta di un determinato sistema, esige comunque che ciascun voto contribuisca potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi (sent. n. 43 del 1961) ed assume sfumature diverse in funzione del sistema elettorale prescelto» (considerato in diritto, n. 3.1). Ma proprio da questo punto di vista, la sentenza non appare chiarissima laddove, da un lato, sembra far assurgere questi principi a vincoli in linea di principio inderogabili per il legislatore elettorale, ma, dall’altro, ragionando in termini di ragionevolezza e proporzionalità, sembra però non ritenere irrilevante la scelta in concreto fatta dal legislatore circa il sistema elettorale: ciò appare in particolare nel passo in cui si afferma che l’assenza della soglia rovescia «la ratio della formula elettorale prescelta dallo stesso legislatore del 2005, che è quella di assicurare la rappresentatività dell’assemblea parlamentare» e, soprattutto laddove afferma che «in ordinamenti costituzionali omogenei a quello italiano, nei quali pure è contemplato detto principio e non è costituzionalizzata la formula elettorale, il giudice costituzionale ha espressamente riconosciuto, da tempo, che, qualora il legislatore adotti il sistema proporzionale, anche solo in modo parziale, esso genera nell’elettore la legittima aspettativa che non si determini uno squilibrio sugli effetti del voto, e cioè una diseguale valutazione del “peso” del voto “in

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uscita”, ai fini dell’attribuzione dei seggi, che non sia necessaria ad evitare un pregiudizio per la funzionalità dell’organo parlamentare (BVerfGE, sent. 25 luglio 2012, n. 3/11; ma v. già la sent. 22 maggio 1979, n. 197 e la sent. 5 aprile 1952, n. 1)» (considerato in diritto, n. 3.1). È evidente che la prima interpretazione finirebbe per smentire la giurisprudenza pregressa della corte (peraltro richiamata dalla sentenza in commento) la quale ha sempre negato che il principio di eguaglianza del voto si estenda al risultato concreto della manifestazione di volontà dell’elettore, che dipende esclusivamente dal sistema elettorale prescelto. La seconda interpretazione, secondo cui la censura di costituzionalità si lega all’incoerenza dell’assenza di una soglia minima di voti per il conseguimento del premio di maggioranza alla formula elettorale prescelta dal legislatore, lascia il legislatore futuro libero di scegliere anche modelli maggioritari che però, sia nella variante plurality che in quella majority, non impediscono certo, per citare ancora la sent. n. 1 del 2014, «una eccessiva divaricazione tra la composizione dell’organo della rappresentanza politica e della forma di governo parlamentare prefigurati dalla Costituzione, e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto» (considerato in diritto, n. 3.1). Da questo punto di vista, non vi è dubbio che il premio induce una “torsione” potenzialmente ampia (anche se, almeno teoricamente, eventuale, dato che esso non scatta se il partito o la coalizione più votata a livello nazionale ottenga la maggioranza assoluta dei seggi) rispetto ad un riparto proporzionale dei seggi; torsione che, su un piano generale, è comunque intrinseca al concetto stesso di sistema elettorale, nel quale le preferenze degli elettori si debbono tradurre in un numero limitato di seggi. Tuttavia, ammessa la possibilità di un sindacato di ragionevolezza sul «grado di distorsione in concreto proposto», in qualche modo prefigurata dalle sentt. nn. 15 e 16 del 2008, e quindi, anche ammesso che «le differenze di peso dei voti ‘in uscita’ sono giustificabili soltanto in quanto ragionevoli, ossia in qualora l’effetto distorsivo funzionale alla formazione di stabili maggioranze di governo non appaia assolutamente abnorme e sproporzionato» (E. GROSSO, Riformare la legge elettorale per via giudiziaria? Un’indebita richiesta di ‘supplenza’ alla corte costituzionale, di fronte all’ennesima disfatta della politica, in www.rivistaaic.it, 2013, n. 4, p. 5), occorre chiedersi quale possa essere la “disproporzionalità” in concreto tollerabile e, soprattutto, se la “rappresentanza democratica” tolleri o meno alterazioni in senso maggioritario (un tentativo di “oggettivizzare” tale “disproporzionalità” è rinvenibile in G. LODATO, S. PAJNO, G. SCACCIA, Quanto può essere distorsivo il premio di maggioranza? Considerazioni costituzionalistico-matematiche a partire dalla sent. n. 1/2014, in www.federalismi.it, 2014, n. 9). Sul punto, è sufficiente ricordare che analoghi rilievi di “disproporzionalità” avrebbero ben potuto essere rivolti, come si è implicitamente accennato, anche alle leggi Mattarella, pure basate su una diversa ratio di fondo.

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Parafrasando quanto contenuto nella relazione del presidente della corte costituzionale sulla giurisprudenza costituzionale del 2013, l’arco delle scelte del legislatore è sì «molto ampio» ma altrettanto problematico, dovendosi evitare che «venga irragionevolmente alterato il rapporto di proporzionalità, e quindi l’equilibrio tra rappresentanza e governabilità», realizzabile certo con una molteplicità di strumenti ma «a condizione che l’una o l’altra non subiscano riduzioni così drastiche da mettere in pericolo le condizioni minime di democraticità del sistema o della sua possibilità di funzionamento», finalizzata, quest’ultima, «a rendere efficace ed attuabile l’indirizzo politico del governo e della sua maggioranza parlamentare, vero motore del sistema, come emerge dagli artt. 92 ss. della stessa Costituzione» (il testo della relazione è rinvenibile in www.cortecostituzionale.it.). Anche per quanto riguarda la questione delle liste bloccate la sentenza della corte appare discutibile e comunque apre non pochi interrogativi laddove ritiene che le liste bloccate “lunghe” violino il principio di conoscibilità dei candidati da parte degli elettori; e tale sistema non è comparabile con altri sistemi elettorali, vigenti in altre esperienze costituzionali, caratterizzati o «da liste bloccate solo per una parte dei seggi», o «da circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali)» (considerato in diritto, n. 5.1). Ma da questo punto di vista, si aprono più problemi: in primo luogo, è da chiedersi se davvero una lista bloccata corta soddisfi in pieno il requisito della conoscibilità, visto che, per usare un passo della stessa sent. n. 1 del 2014, anche in questo caso «alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna eccezione, manca il sostegno della indicazione personale dei cittadini, che ferisce la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione» e che, a rigore, sussiste una alterazione per l’intero complesso dei parlamentari «del rapporto di rappresentanza fra elettori ed eletti», determinandosi, anche in questo caso «la libertà di scelta degli elettori nell’elezione dei propri rappresentanti in Parlamento, che costituisce una delle principali espressioni della sovranità popolare, e pertanto contraddicono il principio democratico, incidendo sulla stessa libertà del voto di cui all’art. 48 Cost.» (considerato in diritto, n. 5.1). Tuttavia, anche ammesso di poter superare questo problema, quando una lista bloccata è ammissibile perché “corta”? Ed ancora, posta la rilevanza di quanto affermato dalla corte, siamo davvero sicuri che il principio di conoscibilità sia assicurabile “a rime obbligate” solo dal voto di preferenza e, in particolare, dalla preferenza unica (domanda che si deve porre, a maggior ragione, anche nell’ottica della rappresentanza di genere, tenendo inoltre conto che la preferenza unica non è mai stata imposta nelle elezioni dei rappresentanti italiani al Parlamento europeo)?

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Sul primo punto, non è irrilevante ricordare che il voto di preferenza è relativamente poco usato nelle democrazie consolidate, mentre le liste bloccate anche lunghe sono praticate anche in alcune esperienze costituzionali menzionate nell’ordinanza di rimessione alla corte (tra queste la Germania: è noto infatti che la metà dei seggi del Bundestag è eletta con un sistema proporzionale basato su liste bloccate che in alcuni Länder sono particolarmente lunghe; lo stesso è a dirsi per la Spagna per le circoscrizioni di Madrid e Barcellona. La presenza di una molteplicità di ordinamenti che hanno compiuto questa scelta è ricordata dalla stessa corte europea dei diritti dell’uomo proprio con riferimento all’esperienza italiana. Nella pronuncia Saccomanno c. Italia, infatti, la corte di Strasburgo afferma che il sistema delle liste bloccate, almeno con riferimento all’elezione di una delle camere legislative, è fatto proprio, in tutto o in parte, da ben 13 Stati membri della cedu su 22: corte europea dei diritti dell’uomo, sez. II, 13 marzo 2012, ric. 11583/08, Saccomanno ed altri, c. Italia). È poi da aggiungere che nell’esperienza italiana il voto di preferenza non è mai stata una modalità univoca di selezione delle candidature, non avendo mai trovato applicazione né per il senato né per i consigli provinciali (in entrambi i casi trovavano applicazione sistemi elettorali di tipo proporzionale basati su collegi uninominali, senza quindi la possibilità per l’elettore di scegliere un candidato). Tuttavia, le considerazioni che precedono non vogliono certamente giustificare le attuali e non sporadiche prassi deteriori che il sistema delle liste bloccate ha prodotto anche sulla qualità della rappresentanza. Peraltro, ciò che rende la legge n. 270 del 2005 assai discutibile non è il sistema in sé delle liste bloccate quanto, per così dire, il “combinato disposto” della scelta del legislatore di liste bloccate lunghe, della riconosciuta possibilità di candidarsi in tutte le circoscrizioni (possibilità che non è venuta meno anche dopo la sent. n. 1 del 2014) e, infine, della assenza di una legislazione che imponga meccanismi di selezione partecipata delle candidature. Nella vigenza della legge n. 270 del 2005 la facoltà per i candidati di presentarsi in tutte le circoscrizioni ha dato luogo ad effetti paradossali e censurabili (nelle elezioni del 2006 ben 200 deputati e 33 senatori sono stati proclamati solo in sede di apertura della legislatura ma le candidature multiple sono state ampiamente praticate anche nelle elezioni del 2013) e, attraverso il meccanismo dell’opzione, che spesso ha riguardato una pluralità di candidati nella stessa lista, ha impedito agli elettori di avere un’idea anche solo approssimativa di quali avrebbero potuto essere gli eletti nella propria circoscrizione. In questo contesto, deve essere inserito anche il terzo elemento, ormai evidenziato dalla dottrina maggioritaria, ovvero l’assenza di una legge, attuativa dell’art. 49 Cost., che imponga almeno meccanismi di partecipazione e di trasparenza nella determinazione delle candidature (in questo

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senso, un limitato passo avanti è costituito dal d.l. n. 149 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 13 del 2014, il quale prevede che i partiti che intendano avvalersi dei benefici previsti dal decreto stesso debbano fissare nei loro statuti, tra l’altro, le modalità di selezione delle candidature per le elezioni dei membri del parlamento europeo spettanti all’Italia, del parlamento nazionale, dei presidenti delle regioni, dei consigli regionali, dei sindaci e dei consigli comunali: art. 1, comma 2, lett. l). Da questo punto di vista, l’esperienza comparatistica dimostra la varietà di soluzioni possibili per superare il meccanismo delle liste bloccate; accanto al voto di preferenza, sono da ricordare quantomeno i sistemi elettorali basati su collegi uninominali (anche in presenza di formule elettorali di tipo proporzionale, come per il Senato fino al 1993), i diversi modelli di liste “flessibili” o “semi-rigide”, i modelli fondati su preferenze obbligatorie, senza considerare ulteriori varianti costituite dalla possibile utilizzazione del c.d. “panachage” o dalla possibile previsione del c.d. voto di preferenza “negativa”, nella quale si consente all’elettore di cancellare i nomi dei candidati non graditi (sul punto, per tutti, A. FLORIDIA, «Scendere in campo»: l’accesso alla competizione elettorale tra barriere formali e incentivi politici, in R. D’ALIMONTE, C. FUSARO, a cura di, La legislazione elettorale italiana, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 92 ss.). Con riferimento agli insistiti riferimenti al voto di preferenza, contenuti nell’ordinanza della cassazione, è da ricordare che nell’esperienza italiana esso ha mostrato evidenti controindicazioni, tra le quali l’incremento dei costi delle campagne elettorali, l’aumento della conflittualità interna ai partiti, l’effetto di conservazione della classe politica, degenerazioni localistiche della rappresentanza, e, soprattutto in alcune parti del territorio nazionale, anche un uso sistematico di tale modalità di voto, associata a fenomeni di clientelismo o a possibili infiltrazioni criminali. Peraltro, quest’ultimo elemento non può essere enfatizzato, perché, come proprio l’esperienza italiana ha dimostrato, il sistema delle liste bloccate pone minori problemi in quanto i meccanismi di selezione delle candidature interne ai partiti funzionino e siano trasparenti; ma proprio questo presupposto non sembra essersi verificato nella prassi (pur con le debite eccezioni), oscurando quel «ruolo costitutivo dei partiti politici nella vita dei Paesi democratici» ribadito dalla corte Edu in ciò distinguendosi dall’ordinanza della cassazione alla base della sent. n. 1 del 2014 (corte europea dei diritti dell’uomo, sez. II, 13 marzo 2012, n. 61 della parte in diritto). Da questo punto di vista, nell’esperienza italiana la fragilità della partecipazione democratica e la crescente autoreferenzialità delle forze politiche rendono il tema della scelta dei candidati (dei quali il sistema del voto di preferenza costituisce una delle possibilità) essenziale per stabilire un rapporto di responsabilità tra eletto ed elettore. Come si è detto, è però solo in via legislativa che questo complesso tema può essere adeguatamente affrontato.

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7. Il sistema elettorale per il senato risultante dalla sent. n. 1 del 2014 Prima di parlare dei contenuti della proposta di legge di riforma della legge n. 270 del 2005 (c.d. italicum), è opportuno soffermarsi sul sistema elettorale per il senato quale risulta a seguito delle ablazioni operate dalla sent. n. 1 del 2014 (quello per la camera è stato sostituito dall’italicum); e ciò per la banale ragione che esso è destinato a trovare applicazione in caso di scioglimento anticipato delle camere prima dell’approvazione di una eventuale riforma. Sul punto la sent. n. 1 del 2014, richiamando pronunce precedenti relative a giudizi di ammissibilità di referendum abrogativi sulle leggi elettorali nazionali (sentt. n. 47 del 1991, n. 32 del 1993, n. 5 del 1995, n. 26 del 1997, n. 13 del 1999; nn. 15, 16 del 2008, n. 13 del 2012, che si richiamano alla sent. n. 29 del 1987, relativa ad un giudizio di ammissibilità di un referendum sull’abrogazione di alcuni articoli della legge istitutiva del c.s.m.), ha avuto cura di precisare che la normativa destinata a rimanere in vigore per effetto della dichiarazione di incostituzionalità delle disposizioni oggetto delle questioni sollevate dalla cassazione «è “complessivamente idonea a garantire il rinnovo, in ogni momento, dell’organo costituzionale elettivo”», trattandosi di leggi costituzionalmente necessarie e quindi indispensabili per assicurare il funzionamento e la continuità degli organi costituzionali, e dovendosi altresì scongiurare il rischio di paralisi del potere di scioglimento anticipato delle camere da parte del presidente della Repubblica (considerato in diritto, n. 6). Ad avviso della corte, in linea con quanto affermato nell’ordinanza di rimessione, la normativa risultante dalla pronuncia di incostituzionalità parziale, delinea un meccanismo di riparto dei seggi di tipo proporzionale, senza attribuzione di premi di maggioranza, e con la possibilità per l’elettore di esprimere un voto di preferenza, essendo precluso alla corte ogni valutazione circa l’opportunità ovvero l’efficacia di tale meccanismo. Sul punto, peraltro, la corte non ha voluto gravarsi nemmeno del compito di «mera “cosmesi normativa” e di ripulitura del resto per la presenza di frammenti normativi residui» di cui parla l’ordinanza di rimessione della cassazione (cass. civ., sez. I, 17 maggio 2013, n. 12060, in diritto & giustizia, 17 luglio 2013, n. 5.1 della parte in diritto). Infatti, anche a seguito della sent. n. 1 del 2014, rimane un riferimento al premio di maggioranza nell’art. 1, comma 2, del D.P.R. n. 361 del 1957 (lo stesso contenuto normativo è presente anche nell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 533 del 1993, con riferimento al Senato), così come rimangono formalmente in vigore disposizioni attuative della disciplina del premio di maggioranza (così, ad esempio, nell’art. 83 del D.P.R. n. 361 del 1957 rimane un riferimento al comma 1, n. 5, nel successivo n. 7; nel d.lgs. n. 533 del 1993 non è toccato un riferimento all’art. 17, comma 4, dichiarato incostituzionale, nel successivo comma 6).

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Tuttavia, non è questo l’aspetto più discutibile della sentenza in questione. Si pensi, in primo luogo, alla disciplina del voto di preferenza, “introdotto” dalla sent. n. 1 del 2014, che in questa parte si atteggia come una pronuncia additiva, ma privo di una disciplina espressa; quantomeno in questa parte, quindi, la sentenza non sembra avere soddisfatto il requisito dell’immediata applicabilità della disciplina di risulta. Sul punto, la corte qualifica tale mancata disciplina tra gli «eventuali apparenti inconvenienti» che non incidono sull’operatività del sistema elettorale e che possono essere risolti, in primo luogo, mediante gli ordinari criteri di interpretazione delle disposizioni vigenti, ovvero «anche mediante interventi normativi secondari, meramente tecnici ed applicativi della presente pronuncia e delle soluzioni interpretative sopra indicate», ferma restando, ovviamente, di interventi correttivi, modificativi ovvero integrativi da parte del legislatore. Questo passaggio della sentenza appare invero assai discutibile, nella misura in cui, in primo luogo, esso, per così dire, “derubrica” la mancata disciplina del voto di preferenza ad un mero “eventuale, apparente inconveniente”. Viceversa, laddove previsto, il voto di preferenza è regolato in modo analitico dalla legge, quantomeno con riferimento al numero di preferenze esprimibili, alle modalità di espressione del voto (indicazione del numero, ovvero del cognome del candidato), alle cause di nullità del voto stesso (come si può evincere agevolmente dalla sent. n. 47 del 1991 della corte costituzionale, dichiarando ammissibile il referendum sulla preferenza unica che coinvolgeva ben 7 disposizioni contenute nel D.P.R. n. 361 del 1957). Mentre, quindi, è quantomeno opinabile il riferimento al ricorso ai criteri di interpretazione delle disposizioni vigenti, che certo non possono surrogare l’assenza di una disciplina espressa dei profili essenziali della materia, l’eventuale ricorso a regolamenti (attuativi … della sent. n. 1 del 2014!) in questa materia deve fare i conti con l’esistenza di una riserva di legge in materia di legislazione elettorale in senso stretto, che non dovrebbe consentire il ricorso a fonti secondarie non meramente applicative di disposizioni legislative (per tutti, R. BALDUZZI, Art. 34, l. n. 81/93, in Art. 128 Supplemento, Comm. Cost., Bologna-Roma, Zanichelli-Il foro italino, 1995, pp. 1085 ss.). Come si è accennato, quelli risultanti dalla sent. n. 1 del 2014 sono sistemi elettorali proporzionali ma non certo privi di elementi di forte irrazionalità. Si pensi, innanzitutto, alla disciplina delle coalizioni e alla diversa, connessa modulazione delle soglie di sbarramento che, già de iure condito, ha suscitato in dottrina dubbi sia in punto di ragionevolezza (G. AZZARITI, Legge elettorale, rappresentanza e Costituzione, in Giur. it., 2013, pp. 1453 ss.), sia ancora più, alla stregua del principio di eguaglianza anche “in entrata” (così, L. CARLASSARE, Maggioritario, in www.costituzionalismo.it., p. 5). Ebbene, tale irragionevolezza è ancora più manifesta a seguito del-

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l’eventuale soppressione del premio, poiché l’apparentamento in coalizione sarebbe unicamente finalizzato a consentire alle formazioni minori di giovarsi delle più generose soglie di sbarramento (non sarebbe più attuale la giustificazione del collegamento in coalizione, in quanto finalizzato alla disciplina del premio di maggioranza: corte cost., sent. n. 429 del 1995), in tal modo però attribuendo alle forze politiche maggiori un’impropria arma di ricatto (tale arma è, vigente il premio, parzialmente “neutralizzata” dal fatto che i voti di tutte le liste apparentate, anche quelle che non superino la soglia di sbarramento, sono comunque utili ai fini del conseguimento del premio): e ciò sarebbe tanto più grave in quanto l’apparentamento non porterebbe più alcun vantaggio alla coalizione (sia pure nella logica di un sistema proporzionale) ai fini della ripartizione dei seggi (potrebbe in questo caso porsi un problema di compatibilità anche con l’art. 49 Cost., alterando le condizioni stesse del concorso alla determinazione della politica nazionale: sul punto, M. LUCIANI, Il voto e la democrazia, Roma, Editori riuniti, 1991, pp. 37 ss.).

8. L’italicum: un sistema elettorale per la sola camera dei deputati È giunto ora il momento di affrontare i contenti della proposta di riforma c.d. italicum, approvato definitivamente dalla camera il 4 maggio 2015 (legge n. 52 del 2015). Come è noto, la proposta prende le mosse da una lettera del segretario del PD in data 2 gennaio 2014 inviata a tutte le forze politiche presenti in parlamento nella quale era evidenziata la necessità di un accordo su una riforma elettorale, prospettando tre diversi modelli e, in particolare: a) uno ispirato alla legge elettorale spagnola, con la divisione del territorio nazionale in 118 circoscrizioni di limitata dimensione nelle quali sarebbero stati eletti 4 o 5 deputati, con una soglia di sbarramento al 5% e la previsione di un premio di maggioranza del 15% (92 seggi); b) uno ispirato al sistema elettorale della camera risultante dalla legge n. 277 del 1993, e quindi con la previsione di 475 collegi uninominali e l’allocazione del 25% dei seggi restanti in parte a titolo di premio di maggioranza (nella misura del 15%), in parte a titolo di “diritto di tribuna” (per il 10%); c) l’ultimo ispirato alla legge elettorale per i comuni superiori ai quindicimila abitanti, con la previsione cioè di un doppio turno di coalizione e attribuzione del 60% dei seggi a quella vincitrice e attribuzione proporzionale del restante 40%; è proposta una soglia di sbarramento al 5% mentre è lasciata aperta la questione dell’individuazione delle circoscrizioni (plurinominali o uninominali, in quest’ultimo caso, sembra di capire, secondo un modello simile a quello previsto per le elezioni provinciali) e della possibilità di espressione di un voto di preferenza (il testo della lettera di Matteo Renzi è rinvenibile in www.ilsole24ore.com).

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Come si vede, si tratta di sistemi elettorali del tutto diversi l’uno dall’altro quanto alla ratio che li anima, e non certo “variazioni sul tema”. Pur trattandosi di proposte appena abbozzate in poche righe, si può affermare che la terza, che è quella a partire dalla quale è stato elaborato l’italicum, è l’unica che appare majority assuring, pur presentando il rischio di non superare il rilievo dell’eccesso di torsività contenuto nella sent. n. 1 del 2014 e pur apparendo un unicum nel panorama delle democrazie consolidate. Tali rilievi di costituzionalità sono riferibili del resto anche alle altre due proposte e segnatamente alla seconda che somma la logica maggioritaria insita nell’elezione del 75% dei deputati con la previsione di un premio di maggioranza pari al 15% (è da notare che la proposta in questione non è affatto nuova, trovando il proprio antecedente già nel dibattito sulla riforma elettorale nella XII e nella XIII legislatura). Ciò detto, l’approvazione di una nuova legge elettorale era stata concordata nel già richiamato “patto del Nazzareno” ma anche in questo caso forza Italia non ha approvato l’italicum a seguito della rottura con il PD determinata, da ultimo, dall’elezione di Mattarella alla presidenza della Repubblica. Ciò detto, è noto che le proposte di riforma elettorale, assegnate in un primo tempo alla prima commissione permanente del senato, sono state “trasferite” alla camera, a seguito di una richiesta del PD. L’esame della proposta di legge c.d. italicum è stata discussa nella prima commissione permanente della camera assai rapidamente (la nuova proposta di testo unificato del relatore è stata presentata nella seduta del 24 gennaio 2014; nella seduta del 28 gennaio è stata avviata una discussione in particolare sul fatto che molti emendamenti già presentati dal PD erano stati nel frattempo ritirati; nella seduta del 30 gennaio 2014, durata in totale cinque minuti, è stato posto in votazione il mandato al relatore a riferire in senso favorevole all’assemblea sul testo unificato), cosicché in tale sede non sono stati affrontati né i nodi contenutistici più rilevanti del testo né sono stati corretti errori tecnici, in parte “riparati” nel corso dell’esame in aula (si pensi, in particolare, al complesso meccanismo della “restituzione” dei seggi dal livello nazionale alle circoscrizioni, oggetto di una sorta di maximendamento, n. 1.900, approvato dall’aula, o all’individuazione dei collegi uninominali nella regione Trentino Alto Adige, non essendo chiaro come essa dovesse avvenire, mancando una espressa previsione di una delega legislativa). Un tale modo di procedere è apparso non poco discutibile alla stregua dell’art. 72, comma 4, Cost., che, prevedendo per le proposte di legge in materia elettorale la c.d. “riserva di assemblea”, presuppone la necessità di un esame adeguatamente meditato delle stesse (sul punto, per tutti, A.A. CERVATI, Art. 72, in Commentario della Costituzione – La formazione delle leggi, tomo I, 1, Bologna-Roma, Zanichelli-Il foro italino, 1985, p. 161 ed i riferimenti bibliografici ivi riportati).

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Venendo ora ai contenuti della proposta di legge, essa, pur ispirandosi al terzo dei modelli prospettati nella lettera di Renzi del 2 gennaio scorso, appariva discostarsene per alcuni profili essenziali (determinazione del premio di maggioranza; disciplina del ballottaggio; individuazione delle soglie di sbarramento), tanto che, più che un modello nuovo, tale proposta di legge appariva una sorta di “novellazione” della legge n. 270 del 2005 che non sembrava superare le questioni di legittimità costituzionale affrontate dalla sent. n. 1 del 2014. Prima di esaminare più da vicino i contenuti di tale proposta, è il caso di ricordare che essa riguarda il solo sistema elettorale della camera dei deputati, essendo stato stralciato l’art. 2 della proposta di legge riguardante il sistema elettorale del senato, sul presupposto della futura approvazione della proposta di revisione costituzionale riguardante la modifica dell’assetto del parlamento che avrebbe dovuto rendere il senato stesso non più eletto a suffragio diretto. Come già accennato, in questo senso l’italicum presenta un evidente punto di contatto con la legge n. 270 del 2005, anch’essa approvata prefigurando una futura (ma poi non avvenuta) revisione costituzionale; e, per inciso, si tratta di un punto di contatto assai discutibile, perché in evidente dissonanza con il principio di gerarchia delle fonti normative, trattandosi di leggi attuative di previsioni costituzionali non ancora in vigore, ma problematiche alla stregua della Carta fondamentale ancora in vigore (sul punto, è da ricordare che nel corso dell’esame in seno alla camera era stato presentato un emendamento, il n. 2.0405, c.d. “emendamento Lauricella”, che condizionava l’entrata in vigore della riforma elettorale alla previa entrata in vigore della revisione costituzionale o, in mancanza, a decorrere dalla data della prima riunione delle nuove camere della legislatura successiva a quella in corso, con ciò rendendo possibile in pratica l’eventuale rinnovo delle camere con i sistemi elettorali di cui alla legge n. 270 del 2005, così come risultanti dalla sent. 1 del 2014 della corte costituzionale). A parte le evidenti ricadute politiche di tale scelta (ad esempio, in caso di scioglimento anticipato delle camere dopo l’eventuale approvazione dell’italicum le soglie di sbarramento per le liste in coalizione sarebbero state più basse al senato, 3%, che alla camera, 4,5% peraltro abbassata nel corso dell’esame parlamentare), la limitazione della riforma ad uno solo dei due rami del parlamento appare insieme rilevante e problematica. In effetti, come le vicende successive all’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 avrebbero evidenziato, la mancata riforma della legge elettorale del senato consegna, in mancanza della riforma di questo ramo del parlamento, due sistemi elettorali del tutto diversi, uno solo dei quali (quello della camera) connotato dalla previsione di un premio di maggioranza in favore della lista o della coalizione più votata al primo o al secondo turno di votazione. Il rischio insito in questa scelta non è solo quello di equilibri politici

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diversi nei due rami del Parlamento: in effetti, appare sostenibile il rilievo di Massimo Luciani secondo il quale la presenza di un premio solo alla camera «finisce per essere privo di ragionevolezza. E quindi cade nello stesso vizio che la corte ha folgorato nella sua prima sentenza del 2014» (S. BUZZANCA, Luciani: “L’italicum funziona solo se si riforma il senato, in La Repubblica, 5 marzo 2014). Peraltro, in presenza di due camere elette a suffragio universale e diretto da due corpi elettorali diversi, qualunque siano le soluzioni escogitate a livello di legislazione elettorale, l’eventualità di esiti diversi delle elezioni per i due rami del parlamento non può essere del tutto scongiurata; e ciò anche per l’eventualità che gli stessi elettori votino diversamente nelle due consultazioni, come già avvenuto fin dal periodo di vigenza delle leggi Mattarella (A. CHIARAMONTE, Un “Parlamento diviso”? All’origine delle differenze di voti e di seggi tra Camera e Senato, in Polena, 2005, pp. 5 ss.). Questo problema appare assai più rilevante rispetto a quello dell’introduzione del premio di maggioranza nazionale nel sistema elettorale del senato, che non sembra trovare ostacoli nell’art. 57, comma 1, Cost. (nonostante ciò, come è noto, proprio in ossequio a tale disposizione fu introdotta nella legge n. 270 del 2005 l’anomala previsione dei premi di maggioranza regionali: sul punto, sia consentito un rinvio al mio La base regionale dell’elezione del senato: uno «scoglio» costituzionale per la legislazione elettorale in attesa di una futura (ma incerta) revisione dell’assetto bicamerale del parlamento, in Le regioni, 2013, pp. 495 ss. ed ai riferimenti bibliografici ivi contenuti). Sul punto, correttamente l’art. 2 del testo licenziato dalla prima commissione permanente della camera prevedeva l’introduzione del premio di maggioranza nazionale al senato, garantendo però che a ciascuna regione spettasse esattamente il numero di seggi ad essa spettante, eliminando l’eventualità del fenomeno di “slittamento” di seggi. Certo, come si dirà più oltre, in tal modo è possibile che non vi sia corrispondenza tra gli eletti di una regione e l’andamento del voto nella stessa poiché nessun sistema elettorale può riuscire a garantire simultaneamente l’assegnazione nazionale dei seggi (per di più corretta dal premio di maggioranza), la rappresentanza territoriale (con l’attribuzione a ciascuna regione del numero esatto di seggi ad essa spettante) e la garanzia del rispetto del voto popolare in ciascuna regione quanto ad individuazione degli eletti. Ma soprattutto non era scongiurato il rischio che in tal modo ottenessero il premio di maggioranza liste (o coalizioni di liste) diverse nei due rami del parlamento. In questo senso, appariva seriamente discutibile l’introduzione nel sistema elettorale anche del senato del ballottaggio tra le due coalizioni più votate, che figurava nell’art. 2 della proposta di riforma elettorale licenziata dalla prima commissione permanente della camera; tale previsione, in-

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fatti, avrebbe potuto dare luogo, dati i corpi elettorali diversi per camera e senato, ad esiti francamente paradossali (quali un doppio ballottaggio tra coalizioni diverse nei due rami del parlamento o un ballottaggio solo per una delle camere qualora nell’altra una coalizione avesse superato il 40% dei voti al primo turno).

9. Segue: l’italicum: svolta o porcellum-bis? Occorre a questo punto chiedersi se il progetto di riforma della legge n. 270 del 2005 sia qualificabile come un disegno riformatore sistemico, ovvero se configuri come un tentativo di adeguamento alla sent. n. 1 del 2014 ovvero ancora, anche al di là delle intenzioni, come un sostanziale aggiramento dei contenuti di quest’ultima. Occorre in primo luogo ricordare che alla base della proposta di legge vi erano alcuni obiettivi fondamentali che possono essere riassunti come segue: a) contenere la frammentazione: partitica, evidente, in primo luogo, nell’innalzamento delle soglie di sbarramento (4,5% per le liste coalizzate; 8% per quelle singole o per quelle che facessero parte di coalizioni con meno del 12% dei voti a livello nazionale); b) assicurare la governabilità, attraverso il mantenimento del premio di maggioranza per la coalizione o il partito più votato in un’ottica majority assuring, ma con la fissazione di una soglia minima di voti (37%) e con la previsione del ballottaggio tra le prime due formazioni più votate (coalizioni o partiti); c) superare il modello di liste bloccate lunghe, non confermando la previsione del voto di preferenza ma attraverso un complesso meccanismo di assegnazione dei seggi in collegi plurinominali. Tuttavia, nel corso dell’esame al senato, alcuni dei capisaldi di questo disegno riformatore sono stati in tutto o in parte corretti (peraltro, rispetto all’attività emendativa delle opposizioni si è fatto ricorso all’approvazione di un “emendamento canguro”) e il governo, nel successivo esame alla camera ha fatto discutibilmente ricorso alla questione di fiducia (per quanto riguarda le elezioni per il parlamento nazionale, l’unico precedente in materia era dato dalla c.d. legge truffa) per imporre l’approvazione definitiva del testo (sull’interpretazione dell’art. 116 reg. camera, cfr., per tutti, i diversi contributi rinvenibili in N. LUPO, G. PICCIRILLI, a cura di, Legge elettorale e riforma costituzionale: procedure parlamentari «sotto stress», Bologna, Il Mulino, 2016). I capisaldi dell’italicum (legge n. 52 del 2015), definitivamente approvato, come si evince dall’art. 1 dello stesso, sono allora i seguenti: a) le liste dei candidati sono presentate in 20 circoscrizioni elettorali suddivise nell’insieme in 100 collegi plurinominali, fatti salvi i collegi uninominali nelle circoscrizioni Valle d’Aosta/Vallee d’Aoste e Trentino-Alto Adige/Südtirol, per le quali sono previste disposizioni particolari;

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b) in ciascuna lista i candidati sono presentati in ordine alternato per sesso; i capilista dello stesso sesso non eccedono il 60% del totale in ogni circoscrizione; nessuno può essere candidato in più collegi, neppure di altra circoscrizione, salvo i capolista nel limite di dieci collegi; c) l’elettore può esprimere fino a due preferenze, per candidati di sesso diverso tra quelli che non sono capolista; d) i seggi sono attribuiti su base nazionale con il metodo dei quozienti interi e dei più alti resti; e) accedono alla ripartizione dei seggi le liste che ottengono, su base nazionale, almeno il 3% dei voti validi, salvo quanto stabilito ai sensi della lett. a); f) sono attribuiti comunque 340 seggi alla lista che ottiene, su base nazionale, almeno il 40% dei voti validi o, in mancanza, a quella che prevale in un turno di ballottaggio tra le due con il maggior numero di voti, esclusa ogni forma di collegamento tra liste o di apparentamento tra i due turni di votazione; g) sono proclamati eletti, fino a concorrenza dei seggi che spettano a ciascuna lista in ogni circoscrizione, dapprima i capilista nei collegi, quindi i candidati che hanno ottenuto il maggior numero di preferenze; h) i collegi elettorali sono determinati con decreto legislativo da emanare entro il termine e secondo i principi e i criteri direttivi stabiliti dalla presente legge; i) la legge trova applicazione solo con riferimento alla camera dei deputati, a decorrere dal 1° luglio 2016. Venendo ora agli aspetti più qualificanti della nuova legge, la disciplina del premio di maggioranza suscita più di una perplessità. La prima, generale, è data proprio dal mantenimento di questo istituto che costituisce una peculiarità italiana, essendo previsto tanto per l’elezione del parlamento nazionale (nell’italicum per la camera) quanto per quella dei consigli regionali e comunali (sul punto, per tutti, A. CHIARAMONTE, Il premio di maggioranza: cosa è, come varia, dove è (stato) applicato, in A. CHIARAMONTE, G. TARLI BARBIERI, a cura di, Il premio di maggioranza. Origini, applicazioni e implicazioni di una peculiarità italiana, Roma, Carocci, 2011, pp. 15 ss.). È noto che il premio di maggioranza è stato riproposto nell’italicum allo scopo di innestare su un sistema proporzionale un congegno finalizzato a garantire allo stesso un carattere majority assuring. Nel testo approvato dalla camera in prima lettura il premio era attribuito alla lista ovvero alla coalizione di liste più votata, al primo turno ovvero al ballottaggio. Il riferimento alle coalizioni è stato criticato da una parte della dottrina innanzitutto perché, come è dimostrato anche dalla prassi del periodo 2006-2013, il premio costituisce un elemento “costrittivo” per le formazioni politiche che non ha mai garantito il mantenimento in vita per l’intera durata della legislatura della coalizione uscita vincitrice dalle elezioni.

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Una seconda conseguenza del premio alle coalizioni è quella di favorire aggregazioni eterogenee (“acchiappatutto”): questo fenomeno rischiava di essere, se possibile, ancora più accentuato nell’italicum, visto che l’ampliamento del perimetro delle coalizioni avrebbe potuto essere determinato sia allo scopo di aumentare le probabilità di superare la soglia del 37% dei voti, sia per assicurarsi la possibilità di addivenire al ballottaggio (e ciò nell’eventualità, tutt’altro che peregrina, di una competizione ancora tripolare). Rimanevano poi, anche alla stregua della sent. n. 1 del 2014, tutti i dubbi relativi ad un eccesso di torsività nel riparto dei seggi: a questo riguardo, infatti, il progettato nuovo sistema elettorale non sembrava, parafrasando quanto affermato dall’ex presidente della corte costituzionale, Silvestri, garantire «l’equilibrio tra rappresentanza e governabilità»; da un lato, infatti, il premio di maggioranza appariva potenzialmente ridotto (essendo contenuto tra un minimo di 321 seggi a un massimo di 340), ma, dall’altro, la distorsione in eccedenza tra seggi ottenuti e voti espressi risultava comunque non irrilevante (15%) e addirittura potenzialmente anche assai significativa nel caso di ballottaggio tra due coalizioni che al primo turno avessero ottenuto un numero di voti relativamente esiguo. Né si può ritenere che la previsione del ballottaggio avrebbe potuto ritenersi di per sé “sanante”, poiché, se è vero che tale innovazione avrebbe consentito di allocare il premio di maggioranza a seguito, per così dire, di una decisione del corpo elettorale, è altresì vero che il numero di voti cui commisurare l’attribuzione dei seggi rimaneva quello del primo turno, dato anche il divieto, in vista del ballottaggio, di collegamenti con ulteriori liste (come si dirà, questo problema rimane anche nella versione definitiva dell’italicum). Peraltro, la previsione di un ballottaggio tra liste o coalizioni appariva (e appare) per più versi anomala e non rinvenibile in nessuna altra legge elettorale di paesi di democrazia avanzata. È appena il caso di ricordare che detto ballottaggio non è assimilabile a quello previsto in Francia per l’elezione dei componenti dell’assemblea nazionale (in quel caso, il ballottaggio avviene non tra coalizioni o liste ma tra i candidati in collegi uninominali) né a quello previsto in Italia nelle elezioni comunali (o da ultimo anche nella legge elettorale toscana) essendo in quel caso riferito all’elezione del vertice monocratico nel contesto di una forma di governo diversa da quella statale. A ciò si aggiunga che il ballottaggio era (ed è anche nel testo definitivamente approvato) appena tratteggiato nella proposta di legge, mentre esso avrebbe necessità di una regolamentazione analitica anche nella legislazione elettorale di contorno (si pensi alla disciplina della comunicazione politica). Alla luce delle considerazioni che precedono, nel testo definitivamente approvato si è previsto, da un lato, l’innalzamento della percentuale per l’accesso al ballottaggio (dal 37 al 40% dei voti) e, dall’altro, l’eliminazione

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dell’apparentamento in coalizione, per cui il premio finisce per essere attribuito al solo partito più votato al primo, ovvero al secondo turno. Sull’insieme di queste innovazioni si può osservare quanto segue: la proposta di innalzare la soglia di voti oltre la quale si ha diritto al premio di maggioranza appare condivisibile, ancorché non risolutiva, dato che, come si evince dalla relazione della presidente della 1a commissione permanente del senato, «il disegno di legge approvato dalla camera dei deputati sembra infatti solo prefigurare la soluzione, senza definire compiutamente l’istituto, che andrebbe comunque regolato entro l’alveo dei due valori che la corte chiama a bilanciare: il valore della governabilità e quello della rappresentanza». Viceversa, l’attribuzione del premio alla lista più votata (al primo ovvero al secondo turno), se ha il vantaggio di eliminare il fenomeno di coalizioni costituite prevalentemente allo scopo di lucrare il premio, rischia, almeno potenzialmente, di accrescere i problemi di torsività cui si è già alluso, qualora il premio stesso sia attribuito al ballottaggio. In effetti, come è stato giustamente affermato, «in un quadro molto frammentato, tripolare o addirittura quadripolare, visto il crescente successo della lega, è realistica l’ipotesi che una forza politica acceda al ballottaggio con un consenso anche di molto inferiore al 25% e poi prevalga, vedendo più che raddoppiati i voti conseguiti nel primo turno. Si riprodurrebbe in tal modo, seppure al secondo turno, un effetto distorsivo analogo a quello che è stato già dalla corte censurato nella legge n. 270 del 2005. Sotto questo profilo, la legge elettorale in esame non segna una netta discontinuità rispetto a quella che va a sostituire, costituendone semmai una filiazione» (G. SCACCIA, La legge elettorale “italicum” fra vincoli sistemici ed equilibri costituzionali, in Questione giustizia, 2015, 1, p. 18); a ciò si aggiunga che la legge in questione non impone né una soglia minima di voti per l’accesso al ballottaggio né una partecipazione minima di votanti nel turno di ballottaggio. In alternativa, sarebbe stato ben possibile, come proposto anche dalla Commissione “Quagliariello”, attribuire il premio di maggioranza alla coalizione con il maggior numero di seggi, anziché con il maggior numero di voti. Si tratta, in effetti, di un’alternativa che il legislatore non ha fatto propria per evitare il rischio che il premio potesse prescindere dai suffragi ottenuti dalle coalizioni (o dalle liste) più votate (si pensi al caso di una coalizione fortemente connotata da microformazioni), in tal modo riproponendo i problemi anche di costituzionalità sopra evidenziati, senza prendere in considerazione alternative pure praticabili (si pensi all’eventualità di prevedere un premio di maggioranza eventuale dopo una prima ripartizione dei seggi in circoscrizioni di media ampiezza, anziché a livello nazionale). Più in generale, è il carattere majority assuring del sistema elettorale di

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cui alla legge n. 52 del 2015 a suscitare perplessità, perché detta caratteristica, che consegna matematicamente una maggioranza in capo alla lista più votata, rende inevitabilmente torsivo il sistema elettorale, con ciò ponendo problemi alla stregua di quanto stabilito nella sent. n. 1 del 2014. Appare sul punto condivisibile la riserva espressa, in seno alla commissione “Quagliariello”, da Enzo Cheli e Valerio Onida rispetto ad una delle proposte di riforma elettorale prefigurata dalla stessa Commissione: «Non concordiamo sulla tesi secondo cui il sistema elettorale dovrebbe assicurare che vi sia sempre e comunque uno e un solo partito (o gruppo o lista) vincitore unico delle elezioni, così che la maggioranza debba sempre e senz’altro risultare dalle elezioni: in tal modo escludendo la possibilità di coalizioni post-elettorali fra partiti che concordino un programma comune di governo, e tanto più di “grandi coalizioni” fra partiti che competano fra loro alle elezioni quando nessuno di essi si assicuri la maggioranza da solo. Le coalizioni non devono servire solo a vincere le elezioni (per poi magari dividersi dopo il voto e durante la legislatura) ma devono formare se del caso la maggioranza sulla base di accordi programmatici e di governo. Perciò non concordiamo con la tesi per cui si dovrebbe necessariamente attribuire, nell’ambito di un sistema proporzionale, un premio di maggioranza tale da rendere sempre possibile al partito vincitore di governare da solo: anche se è possibile attribuire dei contenuti “premi di governabilità” per favorire la formazione di una maggioranza in Parlamento. In ogni caso non concordiamo sulla configurazione del secondo turno “di coalizione”, con ballottaggio fra le due forze più votate al primo turno, come uno scontro essenzialmente personale fra i leaders delle due forze: concezione che si adatta bene alla logica della forma di governo prospettata come terza ipotesi fra semi-presidenzialismo e parlamentarismo, ma non alla logica del parlamentarismo razionalizzato» (COMMISSIONE PARLAMENTARE PER LE RIFORME COSTITUZIONALI, Per una democrazia migliore, cit., p. 71, nt. 8). Ed in effetti, che questo rischio potenzialmente sussista è testimoniato dal fatto che la legge n. 52 del 2015 mantiene la discutibile previsione che fa obbligo alle liste elettorali, in sede di presentazione dei contrassegni elettorali, di indicare il «capo unico della forza politica» (art. 2, comma 8); come si è detto (par. 5), nella vigenza della legge n. 270 del 2005 tale indicazione non ha comportato conseguenze rilevanti sul piano della forma di governo; ma così potrebbe non essere nella vigenza della legge del 2015 perché in essa «il capo della forza politica (non più della coalizione) alla quale viene garantito il 54% dei seggi sarebbe di fatto eletto dal popolo. E tale concezione acquisterebbe maggiore forza nel turno di ballottaggio quando al voto popolare sono sottoposti solo i simboli dei due primi partiti e i loro rispettivi capi. In pratica la nomina del presidente del consiglio da parte del capo dello Stato sarebbe a rime obbligate e la fiducia iniziale della camera si trasformerebbe in uno stanco e inutile rito. Ma ciò equi-

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varrebbe ad un accantonamento della forma di governo parlamentare» (M. VOLPI, Italicum due: una legge elettorale abnorme, in Questione giustizia, 2015, 1, p. 15). Un secondo aspetto riguarda le soglie di sbarramento, che nel testo finale della legge è fissata al 3% dei voti a livello nazionale, con una sola eccezione in favore delle liste presentate esclusivamente in una regione ad autonomia speciale, il cui statuto preveda una particolare tutela di minoranze linguistiche, che abbiano ottenuto in detta regione almeno il 20% dei voti (art. 2, comma 25, che sostituisce l’art. 83 del D.P.R. n. 361 del 1957). Questa deroga è giustificabile in forza del combinato disposto degli artt. 3, 6 e 116 Cost. (sul punto, per tutti, E. PALICI DI SUNI, Intorno alle minoranze, Torino, Giappichelli, 2002, pp. 52 ss.; O. PETERLINI, Funzionamento dei sistemi elettorali e minoranze linguistiche, Milano, Franco Angeli, 2012), come si evince anche dalla giurisprudenza costituzionale (in particolare, sentt. n. 438 del 1993 e n. 356 del 1998) che, proprio con riferimento alla tutela delle minoranze linguistiche, sembra ammettere deroghe (ovvero «crepe», come è stato sottolineato) al principio di generalità della rappresentanza politica che, come si evince anche dalla sent. n. 438 del 1993, «non può non estendere la propria efficacia anche nei confronti del diritto all’elezione politica», alle minoranze essendo «costituzionalmente garantito il diritto di esprimere in condizioni di effettiva parità la propria rappresentanza politica» (sul punto, per tutti, L. CARLASSARE, Problemi attuali della rappresentanza politica, in N. ZANON, F. BIONDI, a cura di, Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica, Milano, Giuffrè, 2001, pp. 55 ss.). La disciplina contenuta nel testo definitivamente approvato, se risolve i problemi di legittimità costituzionale derivanti dalla pluralità delle soglie fatte proprie nel testo approvato in prima lettura dalla camera (12% per le coalizioni; 8% per le liste non coalizzate; 4,5% per le liste all’interno delle coalizioni con più del 12%) e il paradosso per cui i voti delle liste sottosoglia erano comunque utili per la vittoria della coalizione, ne apre però altri. In prima battuta, i problemi della determinazione della soglia non riguardano la sua quantificazione (la corte europea dei diritti dell’uomo non ha negato che una soglia nazionale del 10% dei voti sia, in linea di principio, contraria al principio di libera espressione del voto, di cui all’art. 3, del I protocollo aggiuntivo alla Cedu, pur potendo essa comunque apparire legittima in presenza di particolari situazioni storico-politiche e di alcuni correttivi che ne mitighino gli effetti e pur tenendo conto, più in generale, del margine di apprezzamento attribuito agli Stati in generale anche «en recherchant le point d’equilibre entre le principes de la juste représentation et de la stabilité gouvernementale»: corte europea dei diritti dell’uomo, sez. II, 13 marzo 2012, n. 74 della parte in diritto). Viceversa, come è stato esattamente sostenuto (G. SCACCIA, La legge

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elettorale “italicum”, cit., p. 20), un aspetto criticabile è dato, per così dire, dal “combinato disposto” tra soglia di sbarramento e premio di maggioranza; e ciò in quanto «in questo caso vi è un effetto moltiplicatore della distorsione del voto. Nell’italicum, in effetti, l’istanza di governabilità – che potrebbe giustificare soglie di sbarramento – è già assicurata grazie al premio, che converte in maggioranza parlamentare una minoranza politica […] In questa luce prospettica, l’effetto congiunto del premio e delle soglie pone dubbi di conformità al principio di proporzionalità – che la corte costituzionale ha elevato a metro di giudizio della legge elettorale – visto che lo sbarramento rappresenta un mezzo non strettamente necessario al fine della maggiore governabilità. E come è noto, il principio di proporzionalità, come declinato dalla giurisprudenza costituzionale, nel solco di quella amministrativa, euro-unitaria e convenzionale, impone di impiegare il “mezzo più lieve” fra quelli astrattamente idonei al raggiungimento di un obiettivo di interesse pubblico». A parte queste considerazioni, l’insistenza a livello politico sulla necessità di soglie di sbarramento alte ha finito per sottovalutare le cause non elettorali della frammentazione, sia “pre” che “post” elettorali, che invece hanno un’importanza centrale nella conformazione del sistema politico, essendo ispirate ad una logica di “pluralismo estremo” al di là della (o contro la) ratio dei sistemi elettorali adottati dopo il 1993. Tra le prime, si debbono ricordare, ad esempio, la disciplina della presentazione delle liste elettorali, a proposito della quale l’italicum prevede un non irrilevante innalzamento delle firme richieste (la presentazione delle liste nei collegi plurinominali deve essere sottoscritta da almeno 1.500 e da non più di 2.000 elettori: art. 2, comma 10), senza però incidere minimamente sui discutibilissimi casi di esenzione già consentiti dall’art. 18-bis, D.P.R. n. 361 del 1957, e la disciplina della comunicazione politica (legge n. 28 del 2000). Tra le seconde, viene in evidenza, in particolare, la disciplina della composizione dei gruppi parlamentari e, alla Camera, delle componenti politiche del gruppo misto, tutta improntata ad una logica di favor nei confronti delle microformazioni politiche (solo per citare un esempio, nel dicembre 2016 alla camera si contano 11 gruppi parlamentari e 8 componenti politiche del gruppo misto; al senato 9 gruppi e 8 componenti politiche del gruppo misto). Ma ancora, l’argomentazione secondo cui i problemi della governabilità in Italia sarebbero riconducibili soprattutto al (vero o presunto) potere di ricatto dei piccoli partiti non sembra corrispondere del tutto al vero, poiché la diffusa instabilità politica nella XVI legislatura, fino alla crisi del quarto governo Berlusconi, è stata tutta e soltanto imputabile a dinamiche interne al partito di maggioranza relativa; dinamiche che hanno condotto, come è noto, alla nascita di “futuro e libertà”, così come nell’attuale legislatura l’indebolimento e poi la crisi del governo Letta è stata determinata prevalentemente da dinamiche interne al PD.

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Nel testo della proposta di riforma elettorale approvato dalla camera in prima lettura non era prevista la possibilità per gli elettori di esprimere uno o più voti di preferenza, essendo quindi previsto il mantenimento delle liste bloccate. Tale scelta, sia pure abbandonando le abnormi liste lunghe di cui alla legge n. 270 del 2005, si portava dietro, in primo luogo, le obiezioni desumibili dalla sent. n. 1 del 2014: se pure, infatti, il sistema dei collegi plurinominali sarebbe stato destinato a dare luogo a “listini” brevi, sarebbe rimasta intatta «la circostanza che alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna eccezione» sarebbe mancato «il sostegno della indicazione personale dei cittadini»; né d’altra parte, un ipotetico collegio plurinominale al quale fosse stato assegnato un numero di seggi pari a sei avrebbe potuto essere assimilabile, sempre per usare le parole della sent. n. 1 del 2014, a «circoscrizioni elettorali di dimensioni talmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto». Era poi da considerare un ulteriore elemento, di grande rilevanza, ovvero la riconosciuta possibilità per uno stesso candidato di essere incluso in liste con il medesimo contrassegno fino ad un massimo di otto collegi plurinominali (art. 1, comma 10, della proposta approvata dalla camera dei deputati): tale previsione, inserita per massimizzare le possibilità di elezione degli esponenti di spicco di partiti medio-piccoli, dato il complesso (e poco prevedibile) meccanismo di allocazione dei seggi nei collegi plurinominali, appariva decisiva nel minare la possibilità per gli elettori di godere di ogni margine di scelta dei propri rappresentanti. A ciò si aggiunga l’assenza di una legislazione che imponesse o quantomeno incentivasse seriamente meccanismi di selezione partecipata delle candidature. Come è noto, il senato ha modificato il testo prevedendo che in ciascun collegio plurinominale le liste debbano essere composte da un capolista bloccato (il primo ad essere eletto) e da candidati sui quali gli elettori possono esprimere uno o due (se per candidati di sesso diverso) voti di preferenza. Solo i capilista possono candidarsi fino a un massimo di dieci collegi. La soluzione infine fatta propria dal legislatore è andata incontro a diffuse critiche, legate sia alla riproposizione del voto di preferenza che alla compresenza del sistema dei capilista bloccati. Sul primo punto, come si è ricordato, il voto di preferenza è relativamente poco usato in altri ordinamenti, mentre le liste bloccate anche lunghe sono praticate anche in alcune democrazie consolidate. A ciò si aggiunga che nell’esperienza italiana il voto di preferenza ha mostrato evidenti controindicazioni e non è mai stata una modalità univoca di selezione delle candidature, non avendo mai trovato applicazione né per il senato né per i consigli provinciali.

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Tuttavia, le considerazioni che precedono non vogliono certamente giustificare le non sporadiche prassi deteriori che il sistema delle liste bloccate ha prodotto anche sulla qualità della rappresentanza. Sul secondo punto, la coesistenza tra voti di preferenza e candidature bloccate, oltre a dare luogo ad un regime giuridico diverso per candidati che stanno nella stessa lista, finisce per rendere il voto di preferenza rilevante per l’elezione solo per la lista che abbia conseguito il premio; per le altre sarebbero sporadici i casi di collegi nei quali esse riuscirebbero ad eleggere più di un candidato. Inoltre, come è stato osservato, il capolista può presentarsi in dieci collegi e quindi la sua opzione per uno dei collegi in cui risulta eletto può manipolare la volontà degli elettori, consentendo l’elezione di candidati che hanno ottenuto una percentuale di preferenze rispetto ai votanti del collegio anche inferiore a quella del primo dei non eletti nel collegio prescelto dal capolista (M. VOLPI, Italicum due, cit., p. 13): il perdurante meccanismo dell’opzione per i capilista eletti in più collegi appare di dubbia costituzionalità perché in definitiva finisce per rimettere agli stessi l’elezione di altri parlamentari, in una logica nella quale appare, in definitiva, ferito lo stesso principio democratico. Infine, il meccanismo dei capilista bloccati lascia aperto il problema della selezione delle candidature all’interno dei partiti, non essendo state accolte proposte emendative all’italicum che avrebbero introdotto o incentivato le consultazioni primarie (come si è detto, ad oggi, l’unica debole ed ambigua previsione in questo senso è contenuta nell’art. 3 del d.l. n. 149 del 2013). Ma ancora, la scelta della legge n. 52 del 2015 per capilista bloccati non può essere adeguatamente apprezzata a prescindere dal complesso meccanismo di assegnazione dei seggi alle liste; meccanismo, se possibile, ancora più complesso di quello previsto dalla legge n. 270 del 2005 per la camera. Come in quest’ultima legge i seggi sono assegnati innanzitutto a livello nazionale e quindi “restituiti” in primo luogo a circoscrizioni regionali e quindi (e questa è la novità dell’italicum) ai collegi plurinominali costituiti entro queste ultime. In questo complesso meccanismo di assegnazione dei seggi “a cascata” per le liste di consistenza elettorale media o piccola risulta difficile prevedere quali siano i collegi uninominali più vantaggiosi per i propri leaders: da qui, la scelta del discutibile modello delle pluricandidature.

10. Conclusioni: la necessità di un ripensamento globale della legislazione elettorale nel contesto di una forma di governo in discussione Per le ragioni già dette, ma anche nella consapevolezza della necessità di un approccio sistemico, che parta dalla consapevolezza «dell’intreccio

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che lega le riforme costituzionali, attinenti al funzionamento delle istituzioni di governo, con riforme della politica (da attuare con leggi ordinarie e regolamenti parlamentari) relative al buon funzionamento dei processi politici», sarebbe fondamentale un percorso riformatore che investa, oltre ai sistemi elettorali in senso stretto (che, almeno nel breve periodo, non risentiranno della possibile approvazione di progetti di revisione costituzionale relativi all’assetto del Parlamento) «la democraticità interna ed il finanziamento dei partiti; la disciplina della comunicazione politica; la prevenzione e la repressione della corruzione e dei conflitti di interesse; la previsione delle condizioni di candidabilità, eleggibilità e compatibilità del personale politico» (E. CHELI, Forma di governo e legge elettorale, in Il Mulino, 2014, p. 204). E su questo punto non si possono non condividere le osservazioni della commissione Quagliariello (COMMISSIONE PARLAMENTARE PER LE RIFORME COSTITUZIONALI, Per una democrazia migliore, cit., p. 65). Un tale metodo non è stato seguito nell’attuale legislatura. Anzi, dopo la reiezione del testo di revisione costituzionale “Renzi-Boschi” nel referendum del 4 dicembre 2016 la sorte dell’italicum appare quantomeno incerta, sia perché pendono dinanzi alla corte costituzionale numerose questioni di legittimità costituzionale su tale legge (esse riguardano, tra le altre, la determinazione del premio di maggioranza e la disciplina dei capilista bloccati), sia perché comunque appare insostenibile ipotizzare nuove elezioni politiche con sistemi elettorali tanto diversi per i due rami del parlamento (proporzionale con premio di maggioranza ed eventuale ballottaggio per la camera; proporzionale su base regionale per il senato). Sono destinati a rimanere ancora insolute prospettive di riforma in ambiti, attualmente privi di regolamentazione, che concernono i rapporti tra partiti e istituzioni, da una parte, e poteri privati, dall’altro; da questo punto di vista, ancora preziose appaiono le indicazioni contenute nella relazione del gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali istituito dal presidente Napolitano il 30 marzo 2013: nel capitolo sesto, dedicato alle «regole per l’attività politica e per il suo finanziamento», oltre alle tematiche del finanziamento dei partiti (n. 14), e del controllo dei costi della politica (n. 15), vengono analizzate le tematiche del conflitto di interesse (n. 16) e, soprattutto, delle lobbies (n. 17). Solo quest’ultima tematica è stata disciplinata ma non in via legislativa bensì con una mera deliberazione della giunta per il regolamento della camera il 26 aprile 2016 («Regolamentazione dell’attività di rappresentanza di interessi nelle sedi della camera dei deputati»).

11. La nuova disciplina del finanziamento dei partiti politici Tra le riforme più significative della XVII legislatura vi è anche quella riguardante la disciplina del finanziamento dei partiti. Come è noto, la legislazione italiana sul finanziamento dei partiti con-

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sta di una congerie di atti normativi che si sono succeduti a partire dal 1974: nel più recente periodo dopo la legge n. 96 del 2012 (che, in particolare, ha imposto una consistente riduzione dei rimborsi elettorali) è stato adottato il d.l. n. 149 del 2013 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 13 del 2014) che a regime introduce un meccanismo di contribuzione del tutto nuovo. Tale decreto non sembra apprezzabile né come riforma organica (senza considerare il fatto che esso presenta numerose incongruenze, problemi interpretativi e di coordinamento con la normativa previgente) né, probabilmente, come punto di arrivo di un percorso riformatore. È in particolare rilevante l’impatto della legislazione elettorale, alla luce delle incertezze che gravano sulla sorte della legge n. 52 del 2015 (c.d. italicum), visto che la disciplina del finanziamento dei partiti costituisce una parte importante della c.d. “legislazione elettorale di contorno”. Rimane poi sullo sfondo la questione dell’attuazione dell’art. 49 Cost. (come si dirà, il d.l. n. 149 del 2013 solo indirettamente detta una disciplina dell’ordinamento dei partiti politici) che costituisce un tema tanto rilevante da affrontare quanto non semplice da realizzare sia per l’instabilità del sistema politico italiano, ancora in cerca di nuovi assetti, e per questo connotato da continue scissioni e ricomposizioni, sia, a monte, per la crisi di legittimazione dei partiti politici che ha assunto «proporzioni crescenti e particolarmente vistose, prima per effetto della concorrenza delle organizzazioni degli interessi sia sul terreno della rappresentanza che su quello della concertazione dell’indirizzo politico e, poi, sotto la pressione della frammentazione crescente delle domande provenienti da società complesse» (P. RIDOLA, Dalla Repubblica dei partiti alla Repubblica dei cittadini. L’attuazione dell’art. 49 della Costituzione, in Partiti politici e ordinamento giuridico. In ricordo di Francesco Galgano, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2015, p. 19). Ciò detto, la ragione profonda dell’approvazione della più recente legislazione in materia di finanziamento dei partiti è data dalla rilevanza delle tematiche del contenimento della spesa pubblica e, in questo ambito, dei “costi della politica”. Tuttavia, gli effetti prodotti nel dibattito politico da questa ondata di denunce e di polemiche dovrebbero indurre a qualche riflessione critica, nella misura in cui hanno prodotto soluzioni legislative talvolta tecnicamente opinabili e soprattutto hanno contribuito ad assecondare una disordinata produzione normativa tanto demagogicamente sbandierata quanto frammentaria nei contenuti. Prima di entrare nel merito delle scelte operate dal d.l. n. 149 del 2013, è opportuno soffermarsi sulla ratio che lo ha determinato, ovvero il superamento del sistema di contribuzione pubblica diretta in favore di un diverso modello centrato su contribuzioni private e su meccanismi di finanziamento pubblico indiretto assai meno cospicui sul piano quantitativo rispetto a quelli previsti nella legislazione previgente.

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Si tratta di una scelta da valutare anche alla luce del fatto che i partiti ricevono contributi statali nel 77% delle democrazie liberali consolidate e nel 73% delle democrazie che hanno conosciuto un processo di consolidamento democratico (L. MEZZETTI, Finanziamenti e condizionamenti del partito politico, in Associazione italiana dei costituzionalisti, Annuario 2008. Partiti politici e società civile a sessant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, Napoli, Jovene, 2009, p. 112). Sembra quindi confermato che «il finanziamento della politica, nonostante i possibili scandali, rimane una necessità e anzi un’affermazione chiara della insostituibilità democratica, della pari dignità e della nobiltà della politica di fronte ad altre attività del vivere associato» (P. BORIONI, Risorse per la politica. Il finanziamento dei partiti fra tradizione e innovazione, Roma, Carocci, 2005, p. 20), per cui nelle democrazie contemporanee appare imprescindibile una normativa che non ponga a rischio valori fondamentali quali l’eguaglianza dei cittadini, la libertà degli elettori, l’autonomia degli eletti «e che eviti di esporla a fenomeni degenerativi in grado di minarne le basi» (L. MEZZETTI, Finanziamenti, cit., p. 113). In questo senso, le critiche ai modelli fondati sul finanziamento pubblico si scontrano con alcune obiezioni di fondo (sul punto, da ultimo, F. BIONDI, Il finanziamento pubblico dei partiti politici, Milano, Giuffrè, 2012). In particolare, la corte costituzionale nella sent. n. 151 del 2012, abbracciando una interpretazione estensiva della competenza concorrente in materia di sistema di elezione dei consiglieri regionali (art. 122, comma 1, Cost.), ha affermato che quest’ultima, «comprensiva, nella sua ampiezza, di tutti gli aspetti del fenomeno elettorale […] include, perciò, la normativa concernente le campagne elettorali per il rinnovo dei consigli regionali ed il rimborso, ove previsto, delle spese sostenute dai movimenti e partiti politici per tali campagne». In particolare, la riconducibilità di tale previsione ai principi fondamentali in materia elettorale si spiega con la necessità «che il suddetto rimborso sia effettuato secondo regole uniformi in tutto il territorio nazionale al fine di assicurare non solo l’uguale libertà del voto a tutti gli elettori, a qualunque regione appartengano (art. 48 Cost.), ma anche la parità di trattamento di tutti i movimenti e partiti politici che partecipano alle competizioni elettorali (art. 49 Cost.) […] avendo essa l’obiettivo di garantire l’uguale esercizio dei diritti politici tutelati dalle indicate disposizioni costituzionali e di evitare irragionevoli discriminazioni nel godimento degli stessi. Tale obiettivo sarebbe, infatti, pregiudicato ove si consentisse alle regioni di adottare leggi in tema di rimborsi o finanziamenti dell’attività elettorale regionale, con il conseguente rischio di disparità di accesso alle risorse di provenienza pubblica da parte dei movimenti politici e dei partiti, in ragione delle diversità economiche fra le regioni, delle scelte da queste operate in materia e del differente radicamento territoriale delle forze politiche» (considerato in diritto, n. 6.1.3).

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Anche se probabilmente la pronuncia in questione appare viziata da un approccio troppo sensibile alle esigenze unitarie, rimane l’affermazione forte dei principi costituzionali cui la disciplina dei rimborsi (strumento di sostanziale finanziamento pubblico) è ancorata. In definitiva, anche questa sentenza sembra confermare il fatto che «una qualche forma di finanziamento pubblico della politica esiste in ogni democrazia, in quanto esso rappresenta, in misura maggiore o minore a seconda delle specificità delle singole esperienze, la effettiva e concreta garanzia che ogni cittadino possa accedere al processo politico, in condizioni di parità secondo il principio d’uguaglianza, concorrendo “alla determinazione della politica nazionale” così come scrive l’art. 49 della nostra Costituzione» (G. AMATO, Analisi e orientamenti sulla disciplina dei partiti per l’attuazione dei principi di cui all’articolo 49 della Costituzione, sul loro finanziamento nonché sulle forme esistenti di finanziamento pubblico, in via diretta o indiretta, ai sindacati, in Rass. parl., 2012, p. 756). Anche la corte europea dei diritti dell’uomo, in una recente decisione (sentenza 10 maggio 2012, Özgürlük ve Dayanisma Partisi (ÖDP) c. Turchia), e la corte costituzionale tedesca hanno insistito sulla necessità che la legislazione sul finanziamento dei partiti garantisca l’eguaglianza delle chances tra i partiti. Da parte sua, il consiglio d’Europa sembra sconsigliare un modello di finanziamento dei partiti fondato solo su un polo privato per il rischio che esso possa favorire, almeno indirettamente, fenomeni corruttivi (conseil de l’Europe, Comité des Ministres, Recommandation Rec (2003)4 sur les règles comune contre la corruption dans le financement des partis politiques et des campagnes électorales, adottata dal Comitato dei Ministri l’8 aprile 2003). Il d.l. n. 149 del 2013 supera in toto la legislazione previgente fondata su un discutibile sistema di rimborsi elettorali, assai cospicuo nel loro ammontare (anche se progressivamente ridotto a partire dal 2007 e, in particolare, dalla legge n. 96 del 2012), e in realtà costituito da contribuzioni finanziarie dirette (e dunque sostanzialmente non commisurate alle spese sostenute nelle consultazioni elettorali), sottratte da ogni forma di controllo circa la loro utilizzazione (ciò che nella prassi ha determinato non poche distorsioni). Il decreto introduce un sistema fondato, in primo luogo: a) su un sistema di finanziamento privato fiscalmente agevolato; b) sulla destinazione volontaria nella misura del 2‰ dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, mentre il precedente sistema, fondato sui rimborsi delle spese elettorali, troverà applicazione fino al 2017. Si tratta quindi di un modello destinato ad assicurare ai partiti risorse assai meno cospicue rispetto a quelle garantite dalla legislazione previgente. I beneficiari sono individuati innanzitutto nei partiti che siano iscritti nel registro di cui all’art. 4 e ne facciano richiesta annuale (art. 7, comma 4). Condizione per l’iscrizione nel registro è che il partito si doti di uno

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statuto, redatto nella forma dell’atto pubblico, il quale, oltre a contenere le indicazioni essenziali di riconoscimento (simbolo; denominazione), nel rispetto della Costituzione e dell’ordinamento dell’unione europea, deve indicare: 1) l’indirizzo della sede legale nel territorio dello Stato; 2) il numero, la composizione e le attribuzioni degli organi deliberativi, esecutivi e di controllo, le modalità della loro elezione e la durata dei relativi incarichi, nonché l’organo o comunque il soggetto investito della rappresentanza legale; 3) la cadenza delle assemblee congressuali nazionali o generali; 4) le procedure richieste per l’approvazione degli atti che impegnano il partito; 5) i diritti e i doveri degli iscritti e i relativi organi di garanzia; le modalità di partecipazione degli iscritti all’attività del partito; 6) i criteri con i quali è promossa la presenza delle minoranze, ove presenti, negli organi collegiali non esecutivi; 7) le modalità per promuovere, attraverso azioni positive, l’obiettivo della parità tra i sessi negli organismi collegiali e per le cariche elettive, in attuazione dell’art. 51 Cost.; 8) le procedure relative ai casi di scioglimento, chiusura, sospensione e commissariamento delle eventuali articolazioni territoriali del partito; 9) i criteri con i quali sono assicurate le risorse alle eventuali articolazioni territoriali; 10) le misure disciplinari che possono essere adottate nei confronti degli iscritti, gli organi competenti ad assumerle e le procedure di ricorso previste, assicurando il diritto alla difesa e il rispetto del principio del contraddittorio; 11) le modalità di selezione delle candidature per le elezioni dei membri del parlamento europeo spettanti all’Italia, del parlamento nazionale, dei consigli delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano e dei consigli comunali, nonché per le cariche di sindaco e di presidente di regione e di provincia autonoma; 12) le procedure per modificare lo statuto, il simbolo e la denominazione del partito; 13) l’organo responsabile della gestione economico-finanziaria e patrimoniale e della fissazione dei relativi criteri; 14) l’organo competente ad approvare il rendiconto di esercizio; 15) le regole che assicurano la trasparenza, con particolare riferimento alla gestione economico-finanziaria, nonché il rispetto della vita privata e la protezione dei dati personali. Lo statuto può inoltre prevedere disposizioni per la composizione extragiudiziale delle controversie insorgenti nell’applicazione delle norme statutarie, attraverso organismi probivirali definiti dallo statuto medesimo, nonché procedure conciliative e arbitrali (art. 3). Si tratta di un insieme di previsioni potenzialmente interessanti ma ancora insufficienti a garantire un’organica attuazione dell’art. 49 Cost.: da un lato, infatti, tali previsioni risultano, in alcune parti fondamentali, del tutto generiche (ad esempio, si parla di diritti e doveri degli iscritti, senza ulteriori specificazioni, così come la selezione delle candidature potrebbe essere rimessa alla discrezionalità del vertice del partito, non imponendosi modalità ispirate al principio democratico), e comunque tali da riferirsi ai soli partiti che intendano avvalersi dei benefici finanziari di cui

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allo stesso d.l. n. 149 del 2013 (non a caso, l’art. 2, comma 2, prevede che l’osservanza del metodo democratico, ai sensi dell’art. 49 Cost., è assicurata «anche», e quindi non solo, «attraverso il rispetto delle disposizioni del presente decreto»). I partiti che intendano accedere ai benefici finanziari di cui al d.l. n. 149 del 2013 debbono trasmettere copia autentica dello statuto alla «commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici» (che risulta composta da cinque membri, di cui uno designato dal primo presidente della corte di cassazione, uno designato dal presidente del consiglio di Stato e tre designati dal presidente della corte dei conti. Tutti i componenti sono scelti fra i magistrati dei rispettivi ordini giurisdizionali con qualifica non inferiore a quella di consigliere di cassazione o equiparata). La commissione, verificata la presenza nello statuto degli elementi indicati all’art. 3, procede all’iscrizione del partito nel registro nazionale. Qualora lo statuto non sia ritenuto conforme alle disposizioni di cui allo stesso art. 3, la commissione, anche previa audizione di un rappresentante designato dal partito, invita, tramite il legale rappresentante, ad apportare le modifiche necessarie. Contro l’eventuale provvedimento di diniego è ammesso ricorso al giudice amministrativo nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione in forma amministrativa o dalla notificazione di copia integrale del provvedimento stesso. Lo statuto dei partiti e le relative modificazioni sono pubblicati nella gazzetta ufficiale, entro un mese, rispettivamente, dalla data di iscrizione nel registro ovvero dalla data di approvazione delle modificazioni. Peraltro, tale iscrizione è condizione necessaria ma non sufficiente ai fini del conseguimento dei benefici finanziari, poiché è richiesto anche: 1) per quanto riguarda le risorse derivanti da finanziamenti privati fiscalmente agevolati, che i partiti abbiano conseguito nell’ultima consultazione elettorale almeno un candidato eletto sotto il proprio simbolo, anche ove integrato con il nome di un candidato, alle elezioni per il rinnovo del senato, della camera, dei membri del parlamento europeo spettanti all’Italia o in uno dei consigli regionali o delle province autonome di Trento e di Bolzano, ovvero abbiano presentato nella medesima consultazione elettorale candidati in almeno tre circoscrizioni per le elezioni per il rinnovo della camera dei deputati o in almeno tre regioni per il rinnovo del senato della Repubblica, o in un consiglio regionale o delle province autonome, o in almeno una circoscrizione per l’elezione dei membri del parlamento europeo spettanti all’Italia; 2) per quanto riguarda la destinazione volontaria nella misura del 2‰ dell’i.r.p.e.f., che i partiti abbiano conseguito nell’ultima consultazione elettorale almeno un candidato eletto sotto il proprio simbolo alle elezioni per il rinnovo del senato, della camera o dei membri del parlamento europeo spettanti all’Italia, non rilevando quindi l’ipotesi di eletti nei consigli regionali (art. 10, comma 1). In alternativa, è previsto che possano accedere ai due tipi di risorse an-

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che i partiti registrati ai sensi dell’art. 4: 1) ai quali dichiari di fare riferimento un gruppo parlamentare costituito in almeno una delle camere secondo le norme dei rispettivi regolamenti, ovvero una singola componente interna al gruppo misto; 2) che abbiano depositato congiuntamente il contrassegno elettorale e partecipato in forma aggregata a una competizione elettorale mediante la presentazione di una lista comune di candidati o di candidati comuni in occasione del rinnovo del senato, della camera dei deputati o delle elezioni dei membri del parlamento europeo spettanti all’Italia, riportando almeno un candidato eletto (in quest’ultimo caso, deve trattarsi di partiti registrati prima della data di deposito del contrassegno). Il d.l. n. 149 del 2013 non sopprime l’art. 1, comma 4, della legge n. 157 del 1999 che prevede un rimborso riconosciuto ai comitati promotori dei referendum abrogativi, ma solo se dichiarati ammissibili dalla corte costituzionale e se abbiano raggiunto il quorum di validità e di partecipazione al voto, nonché ai comitati promotori di referendum costituzionali per le richieste effettuate ai sensi dell’art. 138 Cost. Per quanto riguarda i primi, appare fondata la proposta di allargare i presupposti del rimborso, quantomeno con riferimento ai referendum dichiarati ammissibili ma nei quali non sia stato raggiunto il quorum di partecipazione. Tra i problemi evidenziati dalla dottrina a proposito delle scelte fondamentali operate dal d.l. n. 149 del 2013 si possono ricordare i seguenti: a) tale decreto mira a finanziare i soggetti più che l’attività, in linea con la legislazione previgente; b) i requisiti previsti per l’individuazione dei beneficiari finiscono per favorire i partiti esistenti. Si tratta di una caratteristica costante della legislazione italiana sul finanziamento dei partiti, che appare fortemente discutibile nella misura in cui finisce per operare una potenziale discriminazione, oltre a comportare un effetto di “sclerosi” sul sistema politico; c) quanto ai soggetti destinatari dei benefici finanziari, la lett. a) del comma 1 legittima al finanziamento privato agevolato, in alternativa al conseguimento di un eletto in uno dei rami del parlamento nazionale, o al parlamento europeo o in un consiglio regionale, i partiti che abbiano presentato candidati in sole tre circoscrizioni (su 26) alla camera, in tre regioni per il senato, in una sola circoscrizione per il parlamento europeo, in un solo consiglio regionale (o in uno dei consigli provinciali del Trentino Alto Adige). Questa scelta suscita perplessità in punto di ragionevolezza, laddove pone sullo stesso piano la presentazione di candidati in una circoscrizione al parlamento europeo e la presentazione in un unico consiglio regionale (e, ipoteticamente, quindi, anche solo in alcune circoscrizioni provinciali, se consentito dalle singole leggi elettorali regionali). L’art. 10, comma 2, del decreto consente un repêchage ai fini dell’accesso a entrambe le forme di contribuzione, in due casi, ovvero, innanzitutto in favore dei partiti registrati ai quali dichiari di fare riferimento un gruppo parlamentare in uno dei due rami del Parlamento ovvero una componente

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interna del gruppo misto. Si tratta di una scelta del tutto discutibile perché sembra incentivare, o quantomeno assecondare, la deteriore prassi del più recente periodo che ha visto la proliferazione dei gruppi e delle componenti politiche del gruppo misto, vero volano della “frammentazione” parlamentare; d) sempre con riguardo all’individuazione dei beneficiari, è da ricordare che al d.l. n. 149 del 2013 ha fatto seguito la riforma della legge elettorale per la camera (legge n. 52 del 2015). Sul punto, con riferimento al requisito dell’elezione di almeno un candidato, previsto all’art. 10, comma 1, lett. a), è da notare che, da una parte, la legge n. 52 del 2015 pone una soglia di sbarramento (pari al 3% a livello nazionale) che si applica a tutte le formazioni politiche, mentre, come è noto, la legge n. 270 del 2005 era più generosa con le formazioni politiche apparentate in coalizione, meno per le liste non apparentate. In ogni caso, questo requisito, anche a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 52 del 2015, sembra mantenere una plausibilità. Viceversa, il riferimento alle “circoscrizioni” dovrebbe essere aggiornato tenendo conto dell’articolazione in collegi plurinominali fatta propria dalla stessa legge n. 52 del 2015; e) si mantengono i divieti già individuati dall’art. 7 della legge n. 195 del 1974, come modificato, da ultimo, dall’art. 9, comma 28, della legge n. 96 del 2012. Non si impedisce quindi alle concessionarie di pubblici servizi, e più in generale a soggetti che ricevono contribuzioni pubbliche, di finanziare i partiti: si tratta di una scelta discutibile, visti i possibili conflitti di interessi. Sono anche possibili donazioni estere, che sono soggette ad un obbligo di dichiarazione a carico del solo partito ricevente (garantendone quindi l’anonimato!) e non incontrano limitazioni quantitative (art. 4, comma 4, legge n. 659 del 1981), nonostante l’orientamento assai prudente sul punto manifestato dal consiglio d’Europa. Ancora, il d.l. n. 149 non impedisce ai partiti di finanziare altri partiti: tale possibilità esalta un fenomeno di dipendenza di partiti da altri soggetti politici, in aperta violazione dell’art. 49 Cost.; in secondo luogo, tale fenomeno costituisce un’ulteriore incentivazione per le microformazioni partitiche (o addirittura per le “liste civetta”) che appaiono destinatarie nella prassi di contributi da parte di partiti più rilevanti. Infine, continua a non essere vietata la possibilità per le singole persone giuridiche di finanziare contemporaneamente più partiti, in alcuni casi anche appartenenti a schieramenti politici diversi, in una logica sicuramente opaca e quindi discutibile che avrebbe richiesto una disciplina legislativa sicuramente più stringente; f) il decreto valorizza il principio di trasparenza, anche se, in punto di conoscibilità dei donatori, innova in termini fortemente problematici la disciplina dell’art. 4, comma 3, della legge n. 659 del 1981, che impone una dichiarazione congiunta del donatore e del legale rappresentante del donatario presso la presidenza della camera dei deputati. La disposizione in esame prevede infatti che ai finanziamenti o ai con-

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tributi erogati in favore dei partiti politici iscritti nel registro di cui all’art. 4 del d.l. n. 149 del 2013 e che non superino nell’anno l’importo di centomila euro, effettuati con mezzi di pagamento, diversi dal contante, che consentano di garantire la tracciabilità dell’operazione e l’esatta identità dell’autore, non si applichino le disposizioni di cui all’art. 4, comma 3, della legge n. 659 del 1981: tali donazioni non sono quindi soggette ad un regime di pubblicità. In tal caso, infatti, i rappresentanti legali dei partiti beneficiari delle erogazioni sono tenuti a trasmettere alla presidenza della camera dei deputati l’elenco dei soggetti che hanno erogato finanziamenti o contributi di importo superiore, nell’anno, a cinquemila euro, e la relativa documentazione contabile, entro tre mesi dalla percezione. L’elenco dei soggetti che hanno erogato i predetti finanziamenti o contributi e i relativi importi sono pubblicati in maniera facilmente accessibile nel sito internet ufficiale del parlamento italiano e, come allegato al rendiconto di esercizio, nel sito internet del partito politico (art. 5, commi 5 e 6). Tali previsioni però possono trovare applicazione solo nei confronti dei soggetti che abbiano prestato il proprio consenso, ai sensi degli articoli 22, comma 12, e 23, comma 4, del d.lgs. n. 196 del 2003. Rimane però il fatto che alla base della scelta del legislatore del 2013 nella direzione della tutela della riservatezza è anche la segnalazione del garante della protezione dei dati personali del 7 febbraio 2014 nella quale si afferma che la pubblicazione nei siti internet dei dati relativi ai donatori «in base alla normativa in materia di protezione dei dati personali, comporta una “diffusione” di dati personali “sensibili”». Pertanto, il garante ha esplicitamente chiesto al parlamento di valutare «l’opportunità di non derogare a tale importante principio, al fine di non comprimere eccessivamente un diritto fondamentale della persona, riconosciuto anche dalla carta dei diritti fondamentali dell’unione europea. Ciò, nelle forme che saranno ritenute più opportune, anche prevedendo modalità di pubblicità alternative alla pubblicazione sul sito, ferma restando l’accessibilità dei dati da parte degli aventi diritto per una piena controllabilità degli stessi». Tuttavia, se questo è l’impatto del principio di riservatezza, occorre interrogarsi sulle conseguenze che essa pone in un contesto nel quale le sovvenzioni private hanno assunto un rilievo ormai centrale nel modello di finanziamento dei partiti. La preoccupazione che la riservatezza possa contribuire ad espandere aree di opacità e conflitti di interesse almeno potenziali non è infondata: in questo contesto, cioè, la risposta alla domanda “chi finanzia chi”? appare sempre più centrale, una volta superata l’epoca in cui il finanziamento pubblico diretto (ipocritamente mascherato da rimborsi delle spese elettorali) costituiva la maggior parte delle risorse a disposizione dei partiti; g) un altro aspetto qualificante del d.l. n. 149 è l’introduzione della facoltà per ciascun contribuente di destinare il 2‰ della propria imposta sul reddito delle persone fisiche a favore di un solo partito politico iscritto

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che soddisfi i requisiti di cui all’art. 10, comma 1, lett. b) e comma 2. Per quanto riguarda la funzionalità di questo meccanismo, i primi dati appaiono alquanto deludenti: in effetti, nel 2014 la destinazione del 2‰ è stata decisa da poco più di 16.000 cittadini per un totale di poco più di trecentomila euro: una cifra irrisoria, imparagonabile a quella che i partiti percepivano in forza della legge n. 157 del 1999, anche considerando che il fondo stanziato ai sensi del d.l. n. 149 è di oltre sette milioni di euro. Appena migliori sono i dati relativi al 2015. Anche dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 149 del 2013 rimangono alcuni nodi irrisolti, il principale dei quali è dato dal finanziamento delle fondazioni politiche: sul punto, il d.l. n. 149 del 2013 (art. 5, comma 4 e 6, comma 1) non contiene una disciplina esaustiva.

PARTE III – LA PROPOSTA DI REVISIONE COSTITUZIONALE “RENZI-BOSCHI” 12. Il d.d.l. “Renzi-Boschi” ed il metodo delle riforme costituzionali. L’art. 138 della Costituzione. Il problema della revisione della Costituzione e quello delle “grandi riforme”. Le “grandi riforme” ed il referendum costituzionale previsto dal comma 2 dell’art. 138 con i due diversi quorum da esso previsti Nella discussione che ha accompagnato il percorso del d.d.l. A.S. n. 1429 sulla riforma del bicameralismo, il “focus” dei consensi e dei dissensi si è concentrato, come è del resto naturale, sui contenuti di questo disegno di legge, presentato dal governo Renzi come l’atto più rilevante di un programma di “grandi riforme” che avrebbe caratterizzato l’azione del nuovo esecutivo rispetto ai precedenti governi Monti e Letta. In realtà, e proprio in materia di riforme costituzionali, il governo Letta aveva, su diretto impulso del presidente della Repubblica, preannunciato la presentazione di un progetto di riforme sostanziali (fra queste anche quella del bicameralismo) che avrebbe dovuto essere preceduto da una riforma delle norme vigenti sulla revisione della Costituzione (art. 138) in modo da rendere più veloce il procedimento decisionale del parlamento e consentire anche un costruttivo confronto fra le opposizioni e quella pluralità di partiti che sostenevano, all’inizio, il suo governo. È noto, a questo proposito, che il governo Letta oscillò fra il progetto di una “convenzione” di nomina bicamerale, aperta agli esperti e dotata di funzioni redigenti, e quel disegno di legge costituzionale di modifica (meglio, di deroga) all’art. 138 Cost. che, in linea con i precedenti del 1993 e del 1997, istituiva un “comitato parlamentare per le riforme”, formato da venti deputati e da venti senatori che avrebbero dovuto formulare una se-

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rie di progetti di riforma della Costituzione, divisi per materia e con limitata emendabilità; da approvarsi entro tempi determinati e sottoponibili a referendum anche se approvati con un quorum superiore ai due terzi dei parlamentari. Rispetto ai precedenti del 1993, del 1997 e del governo Letta, il governo Renzi ha, invece, presentato il suo progetto di riforma costituzionale come un disegno di legge di revisione inserito nella vigente procedura prevista dall’art. 138 Cost.; con un mutamento del “metodo delle riforme” che ha cancellato quella tradizione di commissioni, comitati speciali e deroghe temporanee all’art. 138 inaugurato dalla commissione De Mita-Jotti, proseguito dalla commissione D’Alema e ripreso infine, come appena sottolineato, dal governo Letta, riferendosi, invece, alla diversa tradizione inaugurata dalla modifica del titolo V della Costituzione realizzata nel 2001 e proseguita, come si è accennato, con la riforma costituzionale fatta approvare dal governo Berlusconi nel 2005 e caduta, poi, ad opera del referendum del 2006. Riforma (quest’ultima) che, in alcune parti, è sembrata avere ispirato il disegno di legge A.S. n. 1429 presentato da Renzi e da Boschi non soltanto rispetto al metodo ma anche rispetto al merito, in quanto entrambi i disegni di legge erano rivolti ad introdurre modifiche non a singole norme o titoli della Costituzione, ma revisioni così estese da configurare un cambiamento complessivo della seconda parte della stessa. Appare, dunque, singolare come la presentazione del testo di revisione costituzionale A.S. n. 1429, che interveniva su 47 articoli contenuti in quattro titoli della Costituzione vigente, non abbia suscitato la nascita di vivaci discussioni e polemiche volte a valutare, prima ancora del contenuto di quella riforma, il problema delle condizioni in base alle quali il vigente art. 138 Cost. consente di approvare riforme così pervasive del testo vigente. A questo proposito, è bene tenere ben distinti due diversi problemi, ovvero: i limiti alla revisione costituzionale rispetto al contenuto delle modifiche proposte; i limiti alla revisione che derivano dalla procedura speciale prevista dall’art. 138 Cost. Mentre il primo dei due problemi ha sollecitato, da sempre, una forte attenzione dei costituzionalisti e della stessa giurisprudenza costituzionale che ha elaborato, in proposito, teorie ormai consolidate, quali quella dei principi supremi quali limiti impliciti (corte cost., sent. n. 1146 del 1988), il tema dei limiti alla revisione che derivano invece dalla procedura prevista dall’art. 138 Cost. sembra essersi concentrato quasi esclusivamente sulla problematica della modificabilità dello stesso art. 138. Un problema certo fondamentale nella storia delle riforme costituzionali che ha provocato vivaci discussioni nel passato ma che sembra essere stato ormai superato da un’esperienza storica (quella delle “deroghe temporanee”, accennata sopra), certamente più che discutibile ma ormai trasformata in una consolidata tradizione costituzionale.

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Invece, ed a ben guardare, rimane aperto il problema dell’interpretazione del vigente art. 138 in relazione alle due diverse ipotesi in esso contenute (ovvero, approvazione con la maggioranza assoluta o con i 2/3 dei componenti nella seconda votazione) che sono correlate alla (possibile) richiesta di referendum, consentita nella prima ipotesi e vietata, invece, nella seconda. La differenza fra le due procedure può sembrare, in apparenza, non molto significativa se non si tiene presente, invece, che all’atto della presentazione di un disegno di legge di riforma costituzionale il proponente non può sapere non solo se il testo sarà approvato o meno, ma ignora anche se, in caso di approvazione del disegno, esso sarà approvato, nella seconda deliberazione di ciascuna delle due camere, con il voto favorevole della maggioranza dei 2/3 dei componenti o della sola maggioranza assoluta. Una differenza che può condurre ad esiti radicalmente diversi della procedura di riforma della Costituzione perché, come è noto, qualora la approvazione avvenga (nella seconda votazione delle due camere) con la maggioranza dei 2/3 non può farsi luogo a referendum, mentre se la approvazione avviene con la sola maggioranza assoluta, 1/5 dei membri di ciascuna camera, cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali possono chiedere la effettuazione di un referendum popolare sul disegno approvato dalle camere. Tenendo presenti queste disposizioni dell’art. 138 Cost., appare, dunque, evidente che, quando un disegno di legge costituzionale investa una pluralità di disposizioni della Costituzione riferibili a materie diverse, l’assenza della maggioranza dei 2/3 nella seconda delle due votazioni di ciascuna delle camere porterà alla conseguenza che, in caso di richiesta di referendum, gli elettori saranno chiamati ad esprimere un (solo) sì o un (solo) no su di un testo che contiene, invece, una pluralità di modifiche alla Costituzione; il che non consentirà agli elettori di esprimere un giudizio differenziato fra le modifiche che essi approvano e quelle che essi, invece, rifiutano. L’esito prodotto da una riforma approvata con la procedura sopra descritta produrrà, però, l’effetto di annullare quella effettiva partecipazione del corpo elettorale alla procedura di modifica della Costituzione che è invece prescritta dall’art. 138 Cost. La mancanza della possibilità di esprimere un giudizio effettivo e differenziato rischia, dunque, di attribuire ai referendum un carattere di adesione o di rifiuto plebiscitario rispetto al risultato complessivo e per così dire politico della revisione stessa. In conclusione si può dire che un quesito referendario che chiama gli elettori ad esprimere un giudizio unitario su quesiti che sono, in realtà, diversi manca di quei requisiti di omogeneità e di univocità che la corte costituzionale ha sempre ritenuto, nella sua giurisprudenza riguardante i referendum abrogativi, essere una condizione essenziale per consentire una espressione reale e non simbolica della volontà popolare: infatti, nella

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“storica” sent. n. 16 del 1978 la corte ha affermato che l’inammissibilità dei referendum abrogativi che contengano una pluralità di domande eterogenee è giustificata con la violazione della «logica dell’art. 75 Cost.», discostandosi essi «in modo manifesto ed arbitrario dagli scopi in vista dei quali l’istituto del referendum abrogativo è stato introdotto nella Costituzione, come strumento di genuina manifestazione della sovranità popolare» (considerato in diritto, n. 3): in questo senso, tale pronuncia sembra avere una portata riferibile anche a tipologie referendarie diverse da quella di cui all’art. 75 Cost. e ciò anche perché, come si evince dalla sent. n. 496 del 2000, all’interno dell’art. 138 Cost. «l’intervento del popolo non è a schema libero, poiché l’espressione della sua volontà deve avvenire secondo forme tipiche e all’interno di un procedimento, che, grazie ai tempi, alle modalità e alle fasi in cui è articolato, carica la scelta politica del massimo di razionalità di cui, per parte sua, è capace, e tende a ridurre il rischio che tale scelta sia legata a situazioni contingenti» (considerato in diritto, n. 4.2). Se tutto questo è vero, si deve dunque ritenere che l’art. 138 Cost. consenta revisioni puntuali della Carta fondamentali e non già “riforme organiche” di essa (sul punto, per tutti, per tutti, R. ROMBOLI, Il referendum costituzionale nell’esperienza repubblicana e nelle prospettive di riforma dell’art. 138 Cost., in A. PISANESCHI, L. VIOLINI, a cura di, Poteri, garanzie e diritti a sessanta anni dalla Costituzione: scritti per Giovanni Grottanelli de’ Santi, Milano, Giuffrè, 2007, pp. 573 ss.; A. PACE, Ancora sulla doverosa omogeneità del contenuto delle leggi costituzionali, in Giur. cost., 2015, pp. 2303 ss.). D’altra parte, che il referendum possa trasfigurare impropriamente in un plebiscito è un rischio intrinseco soprattutto da quando esso, anziché, come secondo la ratio dell’art. 138 Cost., strumento a disposizione delle minoranze (per tutti, A. BALDASSARRE, Il referendum costituzionale, in Quad. cost., 1994, p. 252; S.P. PANUNZIO, Riforma delle istituzioni e partecipazione popolare, in Quad. cost., 1992, p. 556. È anche a questa stregua che l’art. 138 Cost. non prevede alcun quorum di partecipazione), è divenuto un mezzo utilizzato dalla maggioranza per “legittimare” una proposta di revisione costituzionale approvata in seconda lettura con una maggioranza inferiore ai 2/3 dei componenti in ciascuno dei due rami del Parlamento (lo stesso era avvenuto sul progetto di revisione della seconda parte della Costituzione respinto nel 2006); il tutto aggravato dall’improprio collegamento tra l’esito del futuro referendum e la sopravvivenza del governo (e del presidente del consiglio) che a più riprese è stato fatto trapelare a proposito del testo “Renzi-Boschi”. Non a caso, proprio la presenza del referendum ed il suo possibile inserimento nel procedimento di revisione della Costituzione hanno finito per assumere un notevole rilievo in tutte le leggi costituzionali che hanno introdotto quelle “deroghe” all’art. 138 Cost. vigente che sono state sopra ri-

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chiamate e che apparivano generalmente orientate a prevedere la possibilità di richiesta del referendum stesso anche quando la approvazione delle riforme proposte avvenisse con la maggioranza dei 2/3. La ragione sottintesa a questo tipo di soluzione sembra evidente. Di fronte a proposte di revisioni complesse della Costituzione (come quelle che erano contenute nei disegni di legge sopra richiamati) la minoranza soccombente in parlamento avrebbe potuto comunque rivolgersi al corpo elettorale, destinato a funzionare come arbitro sulla opportunità di quei cambiamenti, anche radicali, della Costituzione che erano connessi alla temporanea “deroga” dell’art. 138. Deve essere sottolineato, però, che la previsione di questo rafforzamento del potere di controllo da parte delle minoranze costituiva il necessario contrappeso rispetto a quel deciso allargamento dei poteri delle commissioni o comitati parlamentari che, sia nella bicamerale del 1993 che in quella del 1997, e nel disegno di legge costituzionale presentato dal governo Letta, venivano dotati di poteri referenti o di fatto redigenti; allargamento che era destinato, a ben guardare, non solo a rendere più spedito il percorso delle riforme ma anche a rendere più agevole il coagularsi attorno ad esse di una maggioranza più ampia rispetto a quella prevista dal comma 1 dell’art. 138 Cost.: cioè della maggioranza dei 2/3. Nella più che trentennale esperienza delle “grandi riforme” che va dalla commissione Bozzi del 1983 al disegno di legge costituzionale “RenziBoschi” del 2014 emerge, dunque, l’esistenza di una doppia, quasi schizofrenica coscienza. Da un lato, si colloca, infatti un percorso delle riforme fondato sulla temporanea modifica dell’art. 138 Cost. attraverso procedure che appaiono volte a facilitare il raggiungimento alla maggioranza dei due terzi. Procedure che prevedono, però, quasi sempre la possibilità di articolare la grande riforma in disegni di legge costituzionale separati sui quali il referendum viene qualificato come possibile malgrado la maggioranza dei 2/3. Dall’altro, si colloca un diverso percorso che si ricollega alla modifica del titolo V della Costituzione realizzato nel 2001; alla tentata riforma costituzionale del governo Berlusconi del 2005 ed al disegno di legge costituzionale “Renzi-Boschi”. Un percorso che appare fondato sulla convinzione che revisioni anche complesse della Costituzione possano essere introdotte anche con sola la maggioranza assoluta e che l’esistenza del referendum non obblighi ad articolare le c.d. “grandi riforme” in parti omogenee e separate. È, invece, evidente che, a meno che il referendum non venga del tutto escluso dal procedimento di revisione costituzionale (il che sarebbe, però, contrario ai principi fondamentali della Costituzione), la sola eventualità della sua richiesta impone che le revisioni della Costituzione (sia che si tratti di semplici emendamenti, sia che si tratti di più complesse riforme) vengano assunte con modalità tali da essere compatibili con il senso ed il significato che sono propri dell’istituto referendario e che debbono essere

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osservate anche in riferimento a quel referendum che la Costituzione inserisce nel procedimento di revisione costituzionale. Tuttavia, anche nella fase parlamentare del procedimento di cui all’art. 138 Cost. non sono mancate torsioni e aspetti discutibili che si sono palesati anche a proposito della proposta di legge costituzionale “Renzi-Boschi”. In primo luogo, nella prima deliberazione, che, come è noto, definisce il testo (giacché, come si dirà, nella seconda non sono possibili emendamenti), al Senato si è ritenuto applicabile in modo rigido il principio della limitazione dell’attività emendativa nel caso di navette (A. CELOTTO, Riforma costituzionale 2015, in Libro dell’anno del diritto 2016, Roma, Istituto enciclopedia italiana, 2016, pp. 302-303 e i riferimenti bibliografici ivi contenuti). Certamente, la presentazione da parte di un gruppo di opposizione (la lega nord) al senato di milioni di emendamenti ha probabilmente contribuito a questo esito, il quale però sembra sottovalutare le peculiarità del procedimento di revisione costituzionale «che rende effettiva non solo, peraltro, la possibilità di emendamenti direttamente collegati alle modifiche apportate dall’altro ramo del Parlamento, ma anche di ulteriori emendamenti, privi di qualsiasi nesso funzionale con le precedenti modifiche» (A. CELOTTO, Riforma costituzionale 2015, cit., p. 303); e ciò sia perché il procedimento di revisione costituzionale «non è una variante che si innesta su un procedimento di formazione della legge da considerare in modo unitario. Si tratta invece di un procedimento a sé stante […], con norme che presentano un contenuto parzialmente coincidente con quelle poste per il procedimento di formazione della legge ordinaria» (M. VILLONE, Legge costituzionale, in Enc. giur. it., XXI, Roma, Treccani, 1990, p. 3), sia perché l’approvazione di una legge ordinaria dovrebbe presupporre una particolare ponderazione delle scelte, allo scopo di evitare incoerenze e disarmonie in un testo destinato per sua natura, a porsi al vertice della produzione normativa. A sostegno di tale tesi si può ricordare anche il parere della giunta per il regolamento della camera dei deputati, approvato nella seduta del 5 maggio 1993, che, proprio sul presupposto della «particolare disciplina del procedimento di revisione costituzionale», ha ritenuto ammissibili emendamenti interamente soppressivi di un comma radicalmente modificato dal senato (camera dei deputati, giunta per il regolamento, 5 maggio 1993, res. somm., p. 4); ed è significativo che nella stessa seduta l’allora presidente della camera, Giorgio Napolitano sollecitasse una «riflessione su una prassi interpretativa che, se pienamente giustificata nel caso di navette tra camera e senato per quanto riguarda i progetti di legge ordinaria, non altrettanto sembra esser convincente qualora sia trasferita nell’esame di un progetto di legge costituzionale» (camera dei deputati, giunta per il regolamento, 5 maggio 1993, cit., p. 3). Di fatto, proprio questa dubbia interpretazione del regolamento del se-

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nato (artt. artt. 121 e 104, comma 3), unita alla necessità, tutta politica, di trovare un accordo all’interno del PD sulle modalità di elezione del futuro senato, hanno condotto all’approvazione di un emendamento, introdotto nel novellato art. 57, comma 5, Cost. («La durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti, in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi, secondo le modalità stabilite dalla legge di cui al sesto comma»), che, oltre ad apparire discutibile anche dal punto di vista linguistico (il periodo è retto infatti dalla locuzione “la durata del mandato dei senatori”), avrebbe determinato, come si dirà, non poche incertezze applicative rispetto al sistema di selezione dei componenti della seconda camera. In tal modo, come è stato esattamente osservato, si sarebbe finito per esaltare il ruolo delle fonti attuative (nel caso di specie, della futura legge elettorale del senato) rispetto alla capacità prescrittiva della Costituzione, con la conseguenza di ampliare la discrezionalità delle determinazioni degli organi politici. D’altra parte, che una interpretazione ragionevolmente estensiva del combinato disposto degli artt. 121 e 104, comma 3, del regolamento del senato fosse pienamente sostenibile, lo si deduce anche dal fatto che nella seconda deliberazione nell’ambito del procedimento di cui all’art. 138 Cost. non è possibile la presentazione di emendamenti o ordini del giorno ovvero pregiudiziali o sospensive (art. 99, reg. camera; art. 123, reg. senato), consistendo essa in unico voto sul complesso della proposta di legge costituzionale: si è ritenuto, quindi, che tale deliberazione non dia luogo ad un “ciclo legislativo completo”, garantito dalla riserva di assemblea di cui all’art. 72, comma 4, Cost. Tale limitazione è apparsa giustamente di dubbia legittimità, tanto che sarebbe auspicabile una revisione dei regolamenti parlamentari: in effetti, come è stato giustamente sottolineato, «non vi è nulla in Costituzione che autorizzi a pensare che la seconda deliberazione non presupponga anche essa un “ciclo legislativo” completo, garantito dalla riserva di assemblea ex art. 72,4. Del resto la interpretazione dei regolamenti è in questo senso. Solo che essa è monca», poiché a questa non si applica l’approvazione «articolo per articolo» che è fondamentale nel procedimento legislativo ordinario (A. MANZELLA, Il Parlamento, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 377; G. RIVOSECCHI, Fattore tempo e garanzie procedurali nella fase parlamentare del procedimento di revisione costituzionale (a proposito della «soluzione Alfonso Tesauro», in Studi in onore di V. Atripaldi, II, Napoli, Jovene, 2010, pp. 1221 ss.). Sono evidenti le conseguenze di tali previsioni sia sul livello di attenuazione dell’aggravamento procedurale presupposto dall’art. 138 Cost. sia sulla ratio stessa del termine di tre mesi tra la prima e la seconda deliberazione di ciascuna camera, che dovrebbe consentire un’adeguata ponderazione, eventualmente prodromica a modifiche del testo (anziché alla sola approvazione o reiezione dell’intero testo).

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Occorre quindi ribadire con forza questi punti di criticità perché, come affermato dalla corte costituzionale nella nota sent. n. 496 del 2000, «la decisione politica di revisione è opzione rimessa in primo luogo alla rappresentanza politico-parlamentare», mentre il corpo elettorale «in sede referendaria non è disegnato dalla Costituzione come il propulsore della innovazione costituzionale». Se si osserva (anche alla luce di queste considerazioni) il percorso della riforma proposta nel disegno di legge “Renzi-Boschi”, si può notare che nella sua prima fase il “patto del Nazareno” ha avuto non soltanto lo scopo di assicurare un percorso rapido e senza ostacoli al disegno di legge governativo ma anche quello di poter giungere alla sua approvazione con il quorum dei 2/3 previsto dal comma 3 dell’art. 138 Cost. evitando, così, come accennato sopra, i rischi del referendum. L’accordo fra il PD e forza Italia è entrato, tuttavia, in crisi nel luglio 2014 a causa della mancata concessione della grazia a Berlusconi e dei successivi dissensi sulla riforma della giustizia e sul premio di maggioranza assegnato dall’italicum non alla coalizione ma alle sole liste di partito. In conseguenza, l’8 agosto 2014 il senato approvava con 183 sì e 4 astenuti la riforma costituzionale proposta dal governo, mentre tutti i gruppi di opposizione abbandonavano l’aula senza votare. Rendendo, così, palese che la riforma del bicameralismo non avrebbe potuto più essere approvata da quella ampia maggioranza che, nella logica dell’art. 138 Cost., rende superfluo il possibile appello al corpo elettorale. Una interpretazione corretta dell’art. 138 Cost. avrebbe richiesto, a questo punto, o l’abbandono del d.d.l. A.S. n. 1429 e la riproposizione alle camere di un diverso progetto di riforma o, almeno, la sua suddivisione in disegni di legge di modifica della Costituzione distinti materia per materia. Soluzione che avrebbe, così, non solo evitato il possibile svolgimento di un referendum viziato da una probabile illegittimità costituzionale, ma avrebbe anche consentito alle camere di esprimere un più motivato giudizio sulle singole proposte di modifica alla Costituzione vigente avanzate dal governo. Invece di optare per una di queste soluzioni, il governo ha accentuato, invece, l’impianto maggioritario della riforma fino al punto di sostituire nella commissione affari costituzionali del senato il presidente ed altri membri, appartenenti alla minoranza del PD, che avevano proposto emendamenti difformi dal testo governativo in tema di composizione e di funzioni del nuovo senato. Dunque, il testo che è stato alla fine approvato dal senato e dalla camera (con il voto finale espresso dalla camera dei deputati il 12 aprile 2016) risultava essere quello presentato dall’esecutivo con modeste modifiche, tutte suggerite, per di più, dalla stessa maggioranza di governo. Ed è da sottolineare in questo senso che già il 28 luglio 2014 impropriamente il presidente del consiglio inviava una lettera ai senatori della maggioranza quasi prefigurando una crisi di governo nel caso di man-

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cata riforma o di approvazione della stessa con modifiche “qualificanti”. Come si è ricordato, la scelta di “blindare” la riforma del bicameralismo nella direzione indicata dal governo senza nulla concedere all’apporto delle minoranze, ha portato alla fine, al momento della votazione in seconda lettura da parte del senato e della camera dei deputati all’approvazione della riforma solo da parte della maggioranza di governo (più il gruppo ALA, formato da parlamentari fuoriusciti da forza Italia), mentre tutte le minoranze hanno abbandonato, ancora una volta, l’aula al momento della votazione. Non si può non mettere in rilievo che questo esito ha suscitato gravi perplessità, perché la prima “grande” riforma di quella Carta fondamentale che fu approvata a stragrande maggioranza rischiava, così, di trasformare una Costituzione nella quale poteva identificarsi la quasi totalità degli italiani in una “Costituzione di maggioranza” che non appariva in grado di rappresentare e di garantire quella parte non indifferente delle forze politiche e dell’opinione pubblica che erano risultate escluse dalla sua elaborazione e dalla sua approvazione finale. Da questo punto di vista, è auspicabile che anche la bocciatura del testo “Renzi-Boschi” nel referendum costituzionale del dicembre 2016 determini nel sistema politico un serio ripensamento delle prassi fin qui seguite in punto di revisioni costituzionali.

13. I contenuti del testo di revisione costituzionale: il superamento del bicameralismo paritario e la riduzione del numero dei parlamentari Venendo ai contenuti del testo di riforma respinto dal corpo elettorale, un primo rilievo attiene alla sua qualità redazionale: come è stato affermato anche da autori complessivamente favorevoli alla revisione costituzionale, «la fattura del testo lascia a desiderare» e, anche se «le difficoltà politiche che la riforma ha incontrato durante i lavori parlamentari possono spiegare queste incompiute linguistiche […] è opportuno riconoscerlo, non le giustificano» (M. D’AMICO, G. ARCONZO, S. LEONE, Come cambia la Costituzione? Guida alla lettura del testo costituzionale, Torino, Giappichelli, 2016, pp. 73 e 75). L’ambiguità del testo in alcune parti di grande rilevanza istituzionale, come accennato, era destinata ad esaltare il ruolo delle fonti attuative rispetto alla capacità prescrittiva della Costituzione, con la conseguenza di ampliare i poteri della legislazione ordinaria e quindi della maggioranza parlamentare (A.A. CERVATI, Revisione costituzionale. Valori costitutivi e modifiche testuali, in Libro dell’anno del diritto 2016, Roma, Treccani, 2016, p. 297). Né appare persuasiva la tesi, da più parti avanzata a livello politico, per cui il testo “Renzi-Boschi” avrebbe comunque potuto essere modificato dopo una sua “sperimentazione”, perché questa eventualità sottovalutava pericolosa-

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mente una caratteristica intrinseca al testo costituzionale, ovvero la sua necessaria stabilità. Sempre in premessa, alcuni motivavano la loro contrarietà al testo di revisione costituzionale sul presupposto del “combinato disposto” con la nuova legge elettorale per la camera (legge n. 52 del 2015, c.d. italicum), come se il superamento della seconda potesse determinare un diverso giudizio rispetto al primo. Ora, anche se l’italicum, nel caso di entrata in vigore del testo di revisione, poneva almeno qualche dubbio per la sua indubbia torsività e per il conseguente «spostamento dell’asse istituzionale a favore dell’esecutivo» (G. ZAGREBELSKY, con F. PALLANTE, Loro diranno, noi diciamo. Vademecum sulle riforme istituzionali, Roma-Bari, Laterza, 2016, p. 79; cfr. anche par. 16), rimane il fatto che il testo “Renzi-Boschi” presentava limiti tali da condurre ad un giudizio comunque negativo, anche se le motivazioni che sono alla base di alcuni dei suoi contenuti apparivano, in linea di principio, anche condivisibili. È il caso, ad esempio, della riforma del senato. Il superamento di un modello bicamerale paritario appariva infatti, in linea di principio, una scelta condivisibile e da più parti auspicata ormai da anni. Tuttavia, le soluzioni sul punto fatte proprie nel testo di riforma erano discutibili, sia quanto alle modalità di elezione dei propri membri, sia quanto alla definizione delle funzioni. Il “nuovo” art. 55, comma 4, Cost. radicava nella sola camera dei deputati (la cui composizione sarebbe rimasta quella attuale) la titolarità del rapporto di fiducia con il governo, l’esercizio della funzione di indirizzo politico, la titolarità della funzione legislativa (salvo le prerogative del senato su cui cfr. infra) e quella di controllo dell’operato del governo. Da parte sua, ai sensi del successivo comma 5, «il senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica. Concorre all’esercizio della funzione legislativa nei casi e secondo le modalità stabiliti dalla Costituzione, nonché all’esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’unione europea. Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’unione europea. Valuta le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche dell’unione europea sui territori. Concorre ad esprimere pareri sulle nomine di competenza del governo nei casi previsti dalla legge e a verificare l’attuazione delle leggi dello Stato». Per quanto riguarda la composizione del Senato, il “nuovo” art. 57, comma 1, Cost. prevedeva che il senato fosse composto da novantacinque senatori «rappresentativi delle istituzioni territoriali» e da cinque senatori che avrebbero potuto essere nominati dal presidente della Repubblica; i senatori sarebbero stati eletti dai consigli regionali e dai consigli delle

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province autonome di Trento e di Bolzano con metodo proporzionale tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, tra i sindaci dei comuni dei rispettivi territori (comma 2). Sul punto, oltre alla stravagante previsione dei cinque senatori di nomina presidenziale che, così come gli ex presidenti della Repubblica, non hanno a che vedere con le autonomie territoriali (trattandosi di soggetti che «hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario»: art. 59, comma 2 Cost., nel testo risultante dall’art. 3 della proposta), si deve osservare che il “metodo proporzionale” per l’elezione dei senatori sarebbe stato comunque una fictio per quegli enti (la maggioranza) che erano chiamati ad eleggerne pochissimi (10 enti avrebbero eletto 2 senatori; 2 enti 3). Ancora più gravi incertezze emergevano però a proposito del sistema di elezione dei senatori: ai sensi dell’art. 57, comma 5, Cost., «la durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti, in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi, secondo le modalità stabilite dalla legge di cui al sesto comma». A sua volta, il successivo comma 6 specificava: «Con legge approvata da entrambe le Camere sono regolate le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del senato della Repubblica tra i consiglieri e i sindaci, nonché quelle per la loro sostituzione, in caso di cessazione dalla carica elettiva regionale o locale. I seggi sono attribuiti in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun consiglio». Come si vede, si trattava di un tessuto normativo ambiguo e assai discutibile anche sul piano redazionale. In particolare, non era chiaro quale fosse la portata prescrittiva della previsione della «conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi» rispetto ad una potestà, quella dell’elezione con metodo proporzionale, che era in capo al consiglio regionale (art. 57, comma 2, Cost.) e se essa si applicasse ai candidati consiglieri regionali ovvero anche ai candidati sindaci (peraltro eletti da un corpo elettorale diverso da quello dei consiglieri regionali): era quindi quantomeno controverso se il comma 5 finisse per imporre una sorta di elezione diretta “mascherata”, da valutare alla stregua dei nuovi art. 55, commi 4 e 5, Cost. (e per inciso, in questa direzione andava chiaramente il disegno di legge “Chiti-Fornaro” che il presidente del consiglio alla vigilia del referendum aveva proposto come testo base in vista dell’esame della futura legge elettorale per il senato). Il quadro era reso ancora più complicato alla luce del comma 6 dello stesso art. 57 Cost., ai sensi del quale i seggi senatoriali dovevano essere attribuiti «in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun consiglio». Come è evidente si trattava di due parametri assai diversi, ancorché espressi in modo tutt’altro che preciso: sembrava comunque di ca-

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pire che, mentre il riferimento ai «voti espressi» era riferibile ai risultati delle ultime elezioni regionali (ma allora esso si sarebbe applicato anche per l’elezione dei sindaci?), quello alla «composizione di ciascun consiglio» alludeva alla consistenza dei gruppi consiliari che teneva conto, in prima battuta, dei contenuti delle leggi elettorali regionali, pressoché tutte connotate da forti premi di maggioranza e soglie di sbarramento assai variabili nella loro consistenza, con il rischio di una sottorappresentazione dei partiti medi e piccoli (U. DE SIERVO, Un tentativo di riforma costituzionale con troppi gravi difetti, in www.osservatoriosullefonti.it, 2015, n. 1, p. 4); e ciò non poteva non destare serie preoccupazioni circa l’esercizio di alcune competenze, a cominciare da quella relativa all’elezione di due componenti della corte costituzionale. In definitiva, sarebbe stata la legge elettorale per il senato (per inciso: approvata con il procedimento bicamerale, e quindi con il coinvolgimento pieno della seconda camera) a sciogliere questo “groviglio” costituzionale (E. ROSSI, Una Costituzione migliore? Contenuti e limiti della riforma costituzionale, Pisa, Pisa University Press, 2016, pp. 37 ss.). A ciò si aggiunga che l’attuazione del vincolo di “conformità” di cui all’art. 57, comma 5, Cost., avrebbe richiesto un complicato “intarsio” tra le previsioni della legge elettorale per il senato e le leggi elettorali regionali, espressione di una autonomia normativa che sarebbe rimasta limitata dai soli principi fondamentali fissati dallo Stato. La nuova configurazione del senato appariva quindi quantomai ambigua, trattandosi di un ramo del parlamento ridimensionato nella composizione (100 membri, computandosi i 5 senatori di nomina presidenziale) ma che, per le non chiare modalità della sua elezione e per l’assenza di vincolo di mandato e riconoscimento pieno delle guarentigie di cui all’art. 68 Cost. in capo ai propri membri, avrebbe potuto ben atteggiarsi come una sorta di camera politica svincolata dal rapporto fiduciario. Rimaneva poi singolare il fatto che il testo di riforma prevedesse l’istituzione di una camera rappresentativa delle istituzioni territoriali, nello stesso momento in cui le autonomie territoriali nella proposta stessa risultavano alquanto ridimensionate (cfr. infra, par. 17). Anche le competenze del senato apparivano delineate dal “nuovo” art. 55 Cost. in modo generico e quindi tale da richiedere un processo di larga attuazione-integrazione ad opera di fonti sub-costituzionali. Tale rilievo appare significativo non solo perché le competenze del parlamento (anche quelle di ciascuno dei suoi rami) dovrebbero essere delineate in modo sufficientemente analitico già a livello costituzionale (a maggior ragione nel caso di competenze “in concorso” tra i due rami del parlamento, nel quadro del superamento di un assetto bicamerale paritario) ma anche perché alcune di esse erano declinabili in modo tale da quantomeno “interferire”, o comunque da richiedere un coordinamento, con il rapporto di fiducia del quale era titolare la sola camera dei deputati

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ai sensi del novellato art. 55, comma 4, Cost. o comunque con le altre competenze ad essa spettanti in forza di tale disposizione. Il pensiero corre, in particolare, ma non solo, almeno potenzialmente alla competenza relativa alla partecipazione alle decisioni dirette alla formazione e soprattutto all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’unione europea (che non si capiva come si coordinasse con le previsioni di cui al “nuovo” art. 70 Cost., ovvero se essa attribuisse al senato il compito di esaminare necessariamente le leggi statali attuative di atti normativi dell’unione europea); lo stesso poteva dirsi per la competenza relativa alla valutazione dell’attività delle pubbliche amministrazioni, nonché dell’attuazione delle leggi dello Stato che avrebbe dovuto essere quantomeno coordinata con la funzione di controllo sull’operato del governo in capo alla camera dei deputati di cui al “nuovo” art. 55, comma 4. Tali competenze, come quella relativa alla valutazione delle politiche pubbliche, apparivano comunque potenzialmente assai significative, ma tali da far emergere il dubbio che si trattasse di funzioni «del tutto sproporzionate alle presumibili capacità organizzative del nuovo organo» (P. CARETTI, Venti domande su Regioni e riforme costituzionali, in Le Regioni, 2015, p. 105). Quanto alla competenza relativa alle nomine, non appariva chiaro con quale organo il senato dovesse “concorrere”: probabilmente si trattava della camera dei deputati, ma anche in questo caso i rapporti tra i due rami del parlamento non erano disciplinati espressamente. Altre competenze del senato ponevano poi un’esigenza di coordinamento con altri organi: era il caso della funzione di raccordo tra lo Stato e le autonomie territoriali, attualmente esercitata dal sistema di conferenze (Stato/regioni; Stato/città e autonomie locali; unificata) e, più in generale, delle competenze attribuite al senato “in concorso” o “in partecipazione”, presumibilmente con la camera. In ogni caso, dal “nuovo” art. 55 Cost. si traeva l’impressione che il senato si vedesse attribuito un insieme di competenze potenzialmente significative e non certo tali da “declassare” la seconda camera ad una sorta di “dopolavoro” per i suoi componenti che, ricordiamolo, avrebbero dovuto esercitare un doppio incarico (che poteva diventare triplo: si pensi ai presidenti delle regioni o ai sindaci delle dieci città individuate dalla legge n. 56 del 2014 che sono di diritto sindaci metropolitani), senza un’indennità specifica (ai sensi del “nuovo” art. 69 Cost.): da qui i dubbi sulla reale efficienza di questa nuova camera (E. ROSSI, Una Costituzione migliore?, cit., pp. 50 ss. e 68 ss.) e, comunque, la necessità di rinvenire un coordinamento, assai difficile da configurare, tra lavori del senato e quelli dei consigli regionali, anche perché, ai sensi del “nuovo” art. 64, ultimo comma, Cost., «i membri del Parlamento hanno il dovere di partecipare alle sedute dell’Assemblea e ai lavori delle Commissioni». Per quanto riguarda la camera dei deputati, essa sarebbe rimasta inalterata nella sua attuale composizione: la sperequazione che si veniva a de-

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terminare con il senato sarebbe stata destinata a riverberarsi sulle prerogative del parlamento in seduta comune (che conservava le competenze attuali, fatta eccezione per l’elezione dei cinque componenti della corte costituzionale) a proposito delle quali il “peso” dei deputati si sarebbe inevitabilmente accresciuto. Il testo di riforma conteneva un’interessante previsione, inserita nell’art. 64 Cost., ai sensi della quale «il regolamento della Camera dei deputati disciplina lo statuto delle opposizioni». Si trattava di una previsione spiegabile proprio alla luce del fatto che è attraverso la fiducia che emerge l’opposizione (o le opposizioni) parlamentare. Rimane il fatto però che l’avere demandato pressoché in toto la disciplina dello “statuto delle opposizioni” al regolamento della camera (fatta eccezione per l’impugnazione delle leggi elettorali per i due rami del parlamento dinanzi alla corte costituzionale), comportava, come possibile conseguenza, la “consegna” alla maggioranza, in assenza di un accordo ampio tra le forze politiche, del compito di definire i diritti delle opposizioni; non era infatti modificata la maggioranza attualmente prevista per l’approvazione dei regolamenti parlamentari (maggioranza assoluta dei componenti, inferiore quindi a quella garantita al partito vincitore dall’italicum).

14. La nuova disciplina del procedimento legislativo Sulla disciplina del procedimento legislativo la dottrina maggioritaria ha evidenziato i rischi derivanti da una moltiplicazione dei procedimenti legislativi sulla base di materie (ne sono stati contati almeno cinque, anche se alcuni autori ne rinvengono ulteriori: E. ROSSI, Una Costituzione migliore?, cit., pp. 83 ss.); e ciò inficiava, almeno in parte, la scelta di fondo del testo, ovvero quella di abbandonare un modello centrato sull’allocazione della potestà legislativa a entrambi i rami del parlamento, in favore di un nuovo assetto basato sulla prevalenza della camera dei deputati (art. 70, comma 3, Cost.). Si è osservato che una tale scelta era una conseguenza inevitabile dell’abbandono del bicameralismo paritario: ma sul punto ci si può limitare ad osservare che, anche a seguire tale opinione, il prezzo pagato alla riforma in tanto avrebbe potuto risultare sopportabile in quanto essa avesse introdotto quella “camera delle regioni” da tante parti auspicata. Viceversa, per le ragioni che si sono accennate, è tutt’altro che certo che fosse questo il modello risultante dal testo di revisione costituzionale. L’inevitabile flessibilità interpretativa delle espressioni linguistiche utilizzate nell’art. 70 Cost., talvolta poco rigorose, unita alla moltiplicazione delle materie, rendeva fin troppo probabile la moltiplicazione dei conflitti e quindi la possibilità di un’esplosione del contenzioso costituzionale che

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rischiava di aggiungersi a quello esistente tra lo Stato e le regioni (che, peraltro, il testo di revisione costituzionale non contribuiva a risolvere: cfr. infra, par. 17). Per cercare di dipanare i possibili conflitti, il “nuovo” art. 70, comma 6, Cost. prevedeva che «i presidenti delle camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti». A parte ulteriori dubbi interpretativi, è più che dubbio che da una tale previsione potesse dedursi l’insindacabilità sul piano giurisdizionale delle leggi per violazioni relative al loro procedimento di approvazione. A ciò si aggiungano le perplessità relative all’elenco delle leggi che avrebbero dovuto seguire il procedimento bicamerale (art. 70, comma 1, Cost.): perplessità che riguardavano la loro eterogeneità ma soprattutto le gravi lacune proprio con riferimento alle leggi relative a materie di interesse delle regioni o degli enti locali (si pensi, per citare alcuni esempi, alle leggi statali che ponevano «norme generali e comuni» di cui all’art. 117, comma 2, Cost., alle leggi di cui al novellato art. 117, comma 4, Cost. a quelle che avrebbero previsto la c.d. “clausola di supremazia”, alla generalità delle leggi statali attuative dell’art. 118 e 119 Cost.): si tratta di uno degli aspetti più criticabili del testo di revisione costituzionale, perché, in definitiva, l’emarginazione del senato nel procedimento di approvazione delle leggi in questione finiva per snaturare la configurazione della seconda camera come assemblea che avrebbe dovuto (ma il condizionale, per ciò che si è detto, è d’obbligo) rappresentare le istituzioni territoriali. Il procedimento legislativo bicamerale riguardava peraltro ben 16 leggi statali, alcune delle quali rilevanti sul piano dell’attuazione costituzionale (ma non si capisce perché, ad esempio, fossero comprese le leggi relative ai referendum popolari e le altre forme di consultazione di cui al novellato art. 71 Cost. ed escluse altre, parimenti rilevanti, come la legge recante «le altre norme necessarie per la costituzione e il funzionamento» della corte costituzionale), altre decisive sul piano politico-istituzionale (si pensi all’inserimento delle leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati relativi all’appartenenza dell’Italia all’unione europea, a proposito dei quali era da chiedersi se tale categoria comprendesse anche i trattati, come il fiscal compact, che non sono formalmente trattati dell’unione europea). Su queste leggi il consenso del senato rimaneva così essenziale, tanto che l’esame dei disegni di legge con procedura bicamerale poteva iniziare anche da questo ramo del parlamento (art. 72, comma 1, Cost.); né erano previste procedure finalizzati a limitare i fenomeni di navette. Un’ultima considerazione riguarda l’ultimo periodo dell’art. 70, comma 1, ai sensi del quale le leggi approvate con procedimento bicamerale «ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma». Tale disposizione, pure in sé condivisibile allo scopo di garantire una

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maggiore “stabilità” a tali leggi e di limitare i fenomeni della c.d. “legislazione omnibus”, rischiava anch’essa di alimentare un ulteriore contenzioso laddove rendeva costituzionalmente cogente un vincolo di omogeneità contenutistica e limitava il ricorso all’abrogazione per incompatibilità (per tutti, M. LUCIANI, Appunti per l’audizione innanzi la 1a commissione – affari costituzionali – del senato della Repubblica, 28 luglio 2015, in www.senato.it, pp. 5-6; E. ROSSI, Procedimento legislativo e ruolo del senato nella proposta di revisione della Costituzione, in Le Regioni, 2015, p. 211). L’art. 70, comma 4 prevedeva poi uno speciale procedimento di formazione delle leggi con le quali sarebbe stata fatta valere la “clausola di supremazia statale” di cui al novellato art. 117, comma 4, Cost. (cfr. infra, par. 17). Secondo quanto previsto dall’art. 70, comma 4, Cost., «l’esame del senato della Repubblica per le leggi che danno attuazione all’articolo 117, quarto comma, è disposto nel termine di dieci giorni dalla data di trasmissione. Per i medesimi disegni di legge, la camera dei deputati può non conformarsi alle modificazioni proposte dal senato della Repubblica a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri componenti». Anche questa disposizione non appariva chiarissima. Infatti, l’obbligo per la camera di pronunciarsi a maggioranza assoluta dei componenti sembrava scattare solo qualora il senato avesse proposto modifiche a sua volta con la maggioranza assoluta dei componenti, cosicché paradossalmente l’incidenza delle determinazioni senatoriali in questo ambito appariva in qualche modo pregiudicata dalla previsione di un quorum rafforzato. Era poi incerta la sorte delle proposte di modifica deliberate dal senato a maggioranza semplice, non essendo chiaro se esse fossero inammissibili ovvero superabili dalla camera a maggioranza semplice. Al termine di queste considerazioni, il “nuovo” senato, sia per la sua composizione, sia per lo status dei propri componenti (assenza di vincolo di mandato), sia per la nuova disciplina del procedimento legislativo difficilmente sarebbe riuscito a realizzare quella funzione di raccordo sul piano della normazione primaria che sola avrebbe potuto contenere l’attuale abnorme contenzioso tra Stato e regioni.

15. Altri contenuti della riforma: elezione del capo dello Stato; impugnazione delle leggi elettorali per i due rami del parlamento; modifiche agli istituti di democrazia diretta Vi sono altri contenuti della riforma che meritano di essere menzionate, sia pure brevemente. Sull’elezione del presidente della Repubblica, l’art. 83, comma 3, Cost.,

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era modificato prevedendo che dal quarto scrutinio fosse sufficiente la maggioranza dei 3/5 dell’assemblea e dal settimo scrutinio la maggioranza dei 3/5 dei votanti. Si trattava di una modifica assai criticabile, anche a prescindere dalle scelte legislative in materia elettorale, in quanto con tale previsione si sarebbe reso possibile, a partire dal settimo scrutinio, sia pure teoricamente, l’elezione di un capo dello Stato, per così dire, “di minoranza”, essendosi introdotto un quorum non riferito ai componenti. Sul punto, è sufficiente ricordare quanto ebbe a scrivere Livio Paladin: «Tanto i quorum richiesti per l’elezione quanto la durata in carica del capo dello Stato fanno […] intendere che i costituenti non hanno voluto stabilire un necessario collegamento fra il titolare di quest’organo e la maggioranza di governo, ma hanno cercato […] di svincolarlo dalle forze sulle quali si regge in quella fase il raccordo governo-parlamento». Ed infatti i quorum previsti dall’art. 83 mirano a «garantire al capo dello Stato una base parlamentare e politica più larga (ed eventualmente diversa) da quella che sostiene il governo in carica» (L. PALADIN, Diritto costituzionale, cit., p. 443). D’altra parte, il fatto che nella prassi il numero dei votanti dovrebbe auspicabilmente coincidere con quello dei componenti del Parlamento in seduta comune, nulla toglie circa il discutibilissimo significato istituzionale di questa proposta che non sembrava rispondere nemmeno all’esigenza di favorire una più celere elezione del capo dello Stato. Il testo “Renzi-Boschi” introduceva poi il giudizio preventivo della corte costituzionale sulle leggi che disciplinano l’elezione dei componenti delle camere su ricorso presentato da una minoranza dei componenti di una di esse (1/4 dei deputati o 1/3 dei senatori) entro dieci giorni dall’approvazione delle leggi stesse (prima dei quali esse non avrebbero potuto essere promulgate: art. 13). Inoltre, l’art. 39 (recante «Disposizioni transitorie») conteneva un’apposita previsione (comma 10) finalizzata a rendere possibile il ricorso diretto delle minoranze parlamentari sulle leggi elettorali per camera e senato approvate nella legislatura in corso alla data di entrata in vigore della riforma “Renzi-Boschi” e quindi anche sulla legge n. 52 del 2015 (si sarebbe trattato di un ricorso diretto ma non preventivo, trattandosi di una legge in vigore). Su tali previsioni sembrano condivisibili le riserve mosse da una parte della dottrina, che aveva evidenziato la disarmonia di tale nuova forma di controllo rispetto al modello italiano di giustizia costituzionale il cui positivo rendimento costituisce un dato ragionevolmente condiviso, oltre a esprimere preoccupazioni non infondate circa i rischi di sovraesposizione politica della corte costituzionale (E. CATELANI, Pregi e difetti di questa fase di revisione costituzionale: proposte possibili, in www.osservatoriosulle fonti.it, 2015, n. 1, p. 3). Inoltre, l’art. 13 non appariva privo di ambiguità o di aspetti criticabili:

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innanzitutto, non era chiaro se l’oggetto dell’impugnazione, individuato nelle «leggi che disciplinano l’elezione dei membri della camera dei deputati e del senato della Repubblica», comprendesse anche la c.d. “legislazione di contorno”; in secondo luogo, la facoltà di impugnazione sembrava riconosciuta a 1/3 dei senatori anche in relazione alla legge elettorale per la camera, con ciò attribuendo a una minoranza del senato una prerogativa che pareva asimmetrica rispetto alla disciplina del procedimento legislativo (il testo di revisione costituzionale riconduceva la legge elettorale per la camera non a quelle “bicamerali” ma a quelle rimesse alla competenza prevalente della camera stessa); infine, la disposizione non regolava la questione, invero decisiva, del seguito dell’eventuale pronuncia di accoglimento parziale, non essendo chiaro se anche in tale ipotesi trovasse applicazione il divieto di promulgazione di cui all’ultima parte della disposizione in esame. Infine, un ultimo punto rilevante del testo di riforma era costituito da un insieme di previsioni che intervenivano sugli istituti di democrazia diretta. Per quanto riguarda il referendum abrogativo, si prevedeva un abbassamento del quorum di partecipazione, individuato nella maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della camera dei deputati, qualora la proposta referendaria fosse stata presentata da almeno ottocentomila elettori. La ratio di tale modifica sembrava quella di un favor per l’istituto referendario, spiegabile alla luce del fatto che la mancanza del quorum di partecipazione ha costituito lo scoglio sul quale si è infranta la maggior parte dei referendum nel più recente periodo. Tuttavia, la soluzione fatta propria dal testo “Renzi-Boschi” si prestava ad alcuni rilievi critici, relativi non tanto all’abbassamento potenzialmente molto forte del quorum di partecipazione (visto il costante calo della partecipazione al voto anche nelle elezioni del parlamento nazionale), quanto, piuttosto, alla «irrazionalità della previsione di un diverso quorum di validità in ragione del numero di firme raccolte dai promotori […] essendo del tutto evidente che il diverso effetto non ha alcuna connessione con il presupposto che lo origina» (E. ROSSI, Una Costituzione migliore?, cit., p. 159). A ciò si aggiunga che tale innovazione non si sarebbe applicata ai referendum proposti dai consigli regionali, dando quindi luogo ad una disparità di trattamento non facilmente giustificabile (M. LUCIANI, Appunti, cit., p. 7). Il testo “Renzi-Boschi” prevedeva poi l’inserimento di un ulteriore comma all’art. 71 Cost., così formulato: «Al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche, la legge costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali. Con legge approvata da entrambe le camere sono disposte le modalità di attuazione». Come è stato giustamente osservato, si trattava di una previsione assai

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generica, non priva di ambiguità, ed il cui valore «non va oltre quello simbolico», traducendosi in un rinvio ad una legge costituzionale e, successivamente ad una legge “bicamerale” (E. LAMARQUE, Il referendum abrogativo e l’iniziativa legislativa popolare (artt. 71 e 75 Cost.), in F.S. MARINI, G. SCACCIA, a cura di, Commentario alla riforma costituzionale del 2016, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2016, p. 174). Ciò detto, le stesse locuzioni “referendum propositivi” e “d’indirizzo” si prestavano a numerosi interrogativi innanzitutto circa la loro natura, i loro limiti e i loro effetti. È infatti da ricordare come l’allargamento delle tipologie referendarie avrebbe dovuto tenere conto della scelta dei Costituenti per una democrazia fondamentalmente rappresentativa che, come tale, rende «impensabile un uso sistematico del referendum e degli altri strumenti di democrazia diretta, tale che si possa basare su di essi la politica generale del Paese» (L. PALADIN, Le fonti del diritto italiano, Bologna, Il Mulino, 1996, p. 293); né erano da sottovalutare i rischi di un uso plebiscitario degli strumenti di democrazia diretta. D’altra parte, il referendum propositivo non sembrava collegato ad una iniziativa popolare non esaminata dal parlamento ovvero da questo respinta (come previsto nell’art. 97 del testo elaborato dalla commissione “D’Alema”). Infatti, a proposito delle proposte di legge di iniziativa legislativa popolare, il testo “Renzi-Boschi” si limitava a elevare da cinquantamila a centocinquantamila il numero di firme richieste, limitandosi ad un generico rinvio ai regolamenti parlamentari con riguardo alle forme e ai limiti della garanzia della loro deliberazione. Da ultimo il riferimento, contenuto nel novellato art. 71 Cost. ad «altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali», sembrava alludere a istituti propri della c.d. democrazia partecipativa; tuttavia, anche in questo caso la genericità della disposizione non consentiva di capire a quali di essi si riferisse, né ai limiti e agli effetti di tali strumenti di consultazione.

16. Riforma “Renzi-Boschi” e sviluppi della forma di governo: la questione del “combinato disposto” tra revisione costituzionale e italicum Un problema assai discusso è stato quello dell’impatto della riforma “Renzi-Boschi” sul terreno della forma di governo, anche alla luce del “combinato disposto” tra la riforma stessa e la già ricordata nuova legge elettorale per la camera (legge n. 52 del 2015). Come si è accennato, il testo di revisione costituzionale non interveniva sugli artt. 92 ss. Cost., ad eccezione della limitazione del rapporto fiduciario alla sola camera dei deputati. Questa novità, di per sé condivisibile, «non interessa solo la posizione relativa dei due rami del parlamento, ma

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riguarda anche e soprattutto il governo, rafforzandone la posizione e ponendolo al riparo dai rischi di destabilizzazione derivanti dalla possibilità di maggioranze diverse (qualitativamente, o anche solo quantitativamente) alla camera e al senato, facendo tesoro di alcune negative esperienze recenti» (M. LUCIANI, Introduzione, in F.S. MARINI, G. SCACCIA, a cura di, Commentario, cit., p. XVIII). Un primo dubbio atteneva al fatto che, a fronte della previsione in termini generali della nuova procedura di voto a data certa, attivabile in dipendenza di un presupposto piuttosto generico (quale il riferimento alla deliberazione di «un disegno di legge indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo», data l’evanescenza dei programmi di governo nell’esperienza italiana), le limitazioni apportate alla decretazione d’urgenza dal novellato art. 77 Cost. apparivano tutto sommato assai poco innovative, limitandosi a costituzionalizzare limiti impliciti individuati de iure condito dall’art. 15 della legge n. 400 del 1988 ovvero limiti affermati in recenti pronunce della corte costituzionale (si pensi al controverso requisito dell’omogeneità riferito sia al testo del decreto, sia, in senso lato, alla legge di conversione), mentre non era chiaro se la discutibilissima possibilità per il governo di porre la questione di fiducia nel procedimento legislativo fosse venuta meno con riferimento alla camera dei deputati. Un secondo dubbio, come detto, era relativo al problema del “combinato disposto” tra revisione costituzionale e italicum. Sul punto, a fronte di chi giustificava pienamente tale “combinato disposto” (così, ad esempio, S. CECCANTI, Il combinato disposto tra italicum e riforma costituzionale confermato dal voto amministrativo, in Cambiare la Costituzione? Un dibattito tra i costituzionalisti sui pro e i contro della riforma, Rimini, Maggioli, 2016, pp. 193 ss.), si era obiettato (E. CHELI, La forma di governo nel disegno della riforma costituzionale, ivi, pp. 197 ss.), che il processo riformatore «introduce […] un’ulteriore variante che viene a spostare l’asse dell’originaria forma di governo parlamentare a basso tasso di razionalizzazione adottata nel 1948 verso un modello di governo parlamentare del primo ministro che può trovare un’assonanza, peraltro molto vaga, nel modello parlamentare del Regno Unito» (p. 198), soprattutto perché la nuova legge elettorale «mira a definire una maggioranza parlamentare certa intorno ad un singolo partito e, pertanto, in grado di trasformare una leadership di partito in una premiership di governo indipendentemente dall’esistenza di una reale maggioranza politica nel paese. Con la conseguente riduzione sia del potere di scelta del presidente del consiglio da parte del capo dello Stato sia del potere di mediazione del parlamento nella soluzione delle crisi di governo» (p. 199) giungendo alla conclusione che tale esito fosse foriero di aspetti critici ma solo in dipendenza di altre scelte del legislatore di revisione costituzionale, quali il nuovo assetto del parlamento, la disciplina del procedimento legislativo, il nuovo riparto di competenze legislative tra lo Stato e le regioni.

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In questo senso, un ulteriore fattore da considerare era dato dal carattere majority assuring del sistema elettorale delineato dalla legge n. 52 del 2015 che, secondo alcuni, avrebbe consentito l’“elezione” del governo (nello stesso senso, si è già accennato al perdurante obbligo, per ogni lista in competizione, di indicare, in sede di presentazione dei contrassegni elettorali, il “capo” della forza politica: M. VOLPI, Italicum due, cit.). Rinviando a quanto si è detto nel par. 9 circa gli aspetti criticabili della nuova legge elettorale della camera, si era affermato che «l’italicum converte quindi l’elezione dei membri del parlamento in elezione diretta del capo del governo che carpirà in tal modo il flusso di sovranità e di legittimazione prodotto dal voto del corpo elettorale dissolvendo la rappresentanza politica, fondamento della democrazia moderna» (G. FERRARA, Modifiche costituzionali e forma di governo, in Questione giustizia, 2016, n. 2, p. 40). Similmente, si era osservato che «ballottaggio, premio di maggioranza alla singola lista, soglie di accesso, voto bloccato sui capilista consegnano la camera nelle mani del leader del partito vincente nella competizione elettorale, senza che sia necessario raggiungere una soglia minima di consensi. Se poi la camera dovesse comunque essere riottosa, con il voto a data fissa il governo assume il controllo dell’agenda parlamentare, eventualmente anche a scapito delle competenze regionali […] Aggiungendo l’azzeramento della rappresentatività del senato […] emerge una forma di governo incentrata su un uomo solo al comando. Vale a dire, non una democrazia, ma un’autarchia elettiva» (G. ZAGREBELSKY, con F. PALLANTE, Loro diranno, noi diciamo, cit., p. 79). Ed è significativo che analoghe preoccupazioni fossero condivise anche da una parte della dottrina complessivamente favorevole al testo di riforma (M. D’AMICO, G. ARCONZO, S. LEONE, Come cambia la Costituzione?, cit., pp. 92 ss.). A ciò si aggiunga che, ai sensi del “nuovo” art. 57 Cost., il sistema elettorale per il senato avrebbe potuto connotarsi per un impianto drasticamente maggioritario (anche se poi le scelte in materia sarebbero state effettuate dalla futura legge approvata con procedimento bicamerale), sia pure soggetto a possibili, successivi “aggiustamenti” visto che questa camera non si sarebbe rinnovata integralmente (e anche questo aspetto avrebbe potuto rivestire un peso non irrilevante nella dinamica istituzionale). Un’ulteriore preoccupazione riguardava le conseguenze della nuova legislazione elettorale sull’elezione degli organi di garanzia. Sul punto, l’italicum garantisce alla lista vincitrice 340 seggi su 630 (anche se è ragionevole immaginare che essa possa conseguire un’ulteriore quota di seggi nella circoscrizione estero), ovvero circa il 54% dei seggi e quindi un numero inferiore ai 3/5 necessari per eleggere i tre giudici della corte costituzionale che secondo il testo “Renzi-Boschi” sarebbero spettati alla camera, mentre assai difficilmente la lista vincitrice ai sensi dell’italicum avrebbe potuto avere da sola i 3/5 dei componenti in senso al parlamento in seduta comune che sarebbe rimasto competente ad eleggere 1/3 dei

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componenti del c.s.m. Per quanto riguarda il capo dello Stato, si rinvia a quanto detto circa l’abbassamento del quorum di elezione a partire dal settimo scrutinio. Da questo punto di vista, le incertezze relative al futuro sistema elettorale per il senato non avrebbero dato alcuna certezza relativamente all’elezione dei due componenti della corte costituzionale ad esso spettanti, cosicché non si poteva escludere che essi fossero eletti anche dalla sola maggioranza.

17. La revisione del titolo V della parte II della Costituzione L’ultima parte del testo “Renzi-Boschi” è dedicata alla “riforma della riforma” del Titolo V. Il testo assecondava un approccio riformatore che valorizzava fin troppo le prerogative statali, ridimensionando l’autonomia legislativa regionale; anche perché era tutto da dimostrare che un robusto riaccentramento di funzioni potesse produrre effetti positivi nell’attuazione di quelle politiche pubbliche oggi rimesse, in tutto o in parte, alle regioni. In questo senso, una scelta discutibilissima era quella che non rendeva inapplicabile tale “riforma della riforma” alle regioni a statuto speciale ma anzi ne rafforzava l’autonomia statutaria, che avrebbe potuto essere rivista solo d’intesa con le regioni stesse (art. 39, comma 11, del testo di riforma). Tali disposizioni suscitavano notevoli perplessità, in primo luogo perché finivano con l’ampliare la distanza, in termini di spazi di autonomia, tra le regioni a statuto ordinario e le regioni ad autonomia particolare, in un momento nel quale l’attualità delle specialità è oggetto di discussione a livello dottrinale e non solo. Venendo ora alle novità relative alle regioni a statuto, ordinario, il “nuovo” art. 117 Cost. introduceva quattro principali novità: 1) una redistribuzione delle materie, con un robustissimo incremento di quelle ricondotte alla potestà legislativa esclusiva dello Stato; 2) l’individuazione espressa di ambiti materiali rimessi alla potestà legislativa regionale residuale, accompagnata dalla conferma della previsione secondo la quale essa era destinata a trovare applicazione «in ogni materia non espressamente riservata alla competenza esclusiva dello Stato»; 3) l’eliminazione, almeno apparente, della potestà legislativa concorrente; 4) l’introduzione di una sorta di “clausola di supremazia” per cui «su proposta del governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale» (comma 4). 1) Sul primo punto colpiva, come già accennato, il riaccentramento alla potestà legislativa esclusiva dello Stato di numerosi ambiti materiali (essi salirebbero a 49!), anche al di là di quanto necessario per correggere alcune storture dell’attuale formulazione dell’art. 117 Cost. (per tutti, U.

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DE SIERVO, I più che discutibili contenuti del progettato art. 117 della Costituzione, in Scritti in ricordo di P. Cavaleri, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2016, p. 294). Era poi decisivo lo spostamento alla potestà legislativa esclusiva dello Stato del «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario» che nella prassi più recente ha costituito il titolo trasversale più penetrante e intrusivo dello Stato rispetto all’esercizio della potestà normativa regionale e che a seguito dell’entrata in vigore del testo di riforma avrebbe consentito allo Stato interventi anche di puro dettaglio (A. BRANCASI, L’autonomia finanziaria regionale, in G. CERRINA FERONI, G. TARLI BARBIERI, a cura di, Le regioni dalla Costituente al nuovo senato della Repubblica, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2016, p. 96). 2) Il testo di riforma non sembrava superare (anzi, per certi profili, sembrava esaltare) un limite di fondo anche dell’attuale art. 117 che ha finito per aumentare il contenzioso costituzionale, ovvero le frequenti sovrapposizioni tra titoli materiali allocati allo Stato o alle regioni, tanto più in quanto, salvo la clausola di supremazia, il criterio fondamentale di ripartizione tra lo Stato e le regioni era ancora connotato da rigidità e da frequenti imprecisioni nella definizione degli ambiti competenziali, ormai ridotti a un fascio di materie di competenza esclusiva dello Stato e a un fascio di materie di competenza residuale delle regioni, accompagnate peraltro, come detto, alla riproposizione della clausola per cui quest’ultima si esplicava, altresì, «in ogni materia non espressamente riservata alla competenza esclusiva dello Stato». 3) La proposta sopprimeva la potestà concorrente, sul presupposto, assai opinabile alla stregua della giurisprudenza costituzionale, che essa abbia determinato l’espansione del contenzioso costituzionale tra lo Stato e le regioni. La proposta “Renzi-Boschi” non sembrava quindi tenere conto adeguatamente della necessità, in un ordinamento complesso, di una legislazione integrata tra Stato e regioni, sulla base di una chiara individuazione delle rispettive responsabilità (U. DE SIERVO, Realtà attuale delle funzioni e del finanziamento delle regioni, in N. ANTONETTI, U. DE SIERVO, Che fare delle regioni?, Roma, Rodorigo, 2014, p. 204) e con l’istituzione, in funzione di raccordo, di una “vera” camera delle autonomie. A ciò si aggiunga che, a fronte della soppressione della potestà concorrente, la proposta in esame allocava allo Stato numerose competenze qualificate in termini di «disposizioni generali e comuni», «disposizioni di principio», «profili ordinamentali generali», «norme […] tese ad assicurare l’uniformità sul territorio nazionale», mentre altre materie erano declinate lungo il crinale degli interessi (nazionali o regionali), ed altre ancora alludevano ad una competenza statale per profili “strategici” (sul punto, per tutti, A. RUGGERI, Una riforma che non dà ristoro a regioni assetate di autonomia, in Le regioni, 2015, pp. 251-252). Non era chiaro se a tale ri-

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parto, invero pericolosamente ambiguo, potessero applicarsi i punti di arrivo della legislazione e della giurisprudenza costituzionale formatasi nella vigenza dell’art. 117, comma 3, Cost. E soprattutto non era chiaro se tali variegate espressioni in questione fossero equivalenti sistemici o alludessero a spazi di normazione eterogenei, più o meno estesi nei singoli casi, dato che i confini del concorso tra la legislazione statale e la legislazione regionale, declinati in termini diversi, avrebbero potuto essere sindacati in modo differenziato dalla corte costituzionale (G. RIVOSECCHI, Introduzione al tema: riparto legislativo tra Stato e regioni: le c.d. “disposizioni generali e comuni”, in www.gruppodipisa.it, 2014, p. 6). I rischi di confusione e di moltiplicazione del contenzioso costituzionale apparivano quindi seri. 4) La proposta in oggetto costituzionalizzava un istituto che certo superava la rigidità nella definizione dell’assetto delle competenze ma in una logica squisitamente centralistica: la c.d. clausola di supremazia, di cui all’art. 117, comma 4, Cost., era declinata infatti in termini assai generali, per non dire generici (la disposizione consentiva questa possibilità «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale»), e per di più attivabile solo su proposta del governo, senza alcun riferimento né ai meccanismi di coinvolgimento delle autonomie regionali, oggi necessari a partire dalla “celebre” sent. n. 303 del 2003 della corte costituzionale, né ad un ruolo forte del senato, che pure avrebbe ben potuto essere configurato, ove si fosse scelta la via dell’approvazione con legge necessariamente bicamerale. A ciò si aggiunga che il novellato art. 117, comma 4, Cost. non alludeva nemmeno al rispetto dei principi di ragionevolezza e proporzionalità. In definitiva, tale potere dello Stato appariva di difficile giustiziabilità da parte della corte costituzionale (P. CARETTI, La potestà legislativa regionale nelle proposte di riforma del titolo V della seconda parte della Costituzione, in in G. CERRINA FERONI, G. TARLI BARBIERI, a cura di, Le regioni, cit., p. 46). Appariva poi insieme discutibile e paradossale che questa previsione non si applicasse alle regioni a statuto speciale.

PARTE IV – LA FORMA DI GOVERNO ITALIANA: PROBLEMI E PROSPETTIVE 18. Introduzione: la “presidenzializzazione” degli esecutivi nelle democrazie contemporanee Nel contesto dell’evoluzione della forma di governo italiana, indotta, in particolare, da un articolato processo di riforma delle leggi elettorali nazionali, sembra avanzare in seno all’esecutivo un processo di tendenziale

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valorizzazione del principio monocratico non senza strappi e contraddizioni, nel quadro di una «transizione infinita» che nemmeno nelle elezioni del 2008 sembra avere trovato un sicuro punto di approdo. La tendenza alla presidenzializzazione degli esecutivi (G. PASQUINO, a cura di, Capi di governo, Bologna, Il Mulino, 2005; A. DI GIOVINE, A. MASTROMARINO, a cura di, La presidenzializzazione degli esecutivi nelle democrazie contemporanee, Torino, 2007; T.E. FROSINI, C. BASSU, P.L. PETRILLO (a cura di), Il presidenzialismo che avanza, Roma, Carocci, 2009), riscontrabile quale tendenza generale a livello comparatistico, appare determinata, più che da congegni costituzionali o dall’afferenza ad una determinata forma di governo, da fattori extraistituzionali, quali, in primo luogo, le «modalità di strutturazione e funzionamento del party government», cosicché «quando cambiano queste configurazioni, cambiano di conseguenza i poteri del capo di governo» (G. PASQUINO, Conclusioni ragionevolmente comparate, in ID., a cura di, Capi di governo, cit., p. 342; cfr. sul punto, per tutti, L. ELIA, Governo (forme di), cit., p. 672). Da questo punto di vista, però, l’evoluzione della forma di governo italiana appare difficilmente decifrabile: se, infatti, con le elezioni politiche del 2001 il sistema politico italiano sembrava assumere un formato bipolare, prodromico ad un possibile radicamento di un assetto di democrazia maggioritaria, essa è sembrata entrare in crisi con la fine del governo Berlusconi IV, la successiva formazione di un esecutivo tecnico e i risultati delle elezioni del 2013 che sembravano consegnare uno scenario di instabilità. Il percorso verso un assetto di democrazia maggioritaria è sembrato però riprendere, per alcuni versi inaspettatamente con la formazione del governo Renzi, e il percorso di riforme istituzionali da esso promosso (nuova legge elettorale per la camera; revisione costituzionale c.d. “Renzi-Boschi”); tuttavia, l’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, le successive dimissioni dell’esecutivo e la formazione del governo Gentiloni consegneranno, con ogni probabilità, un finale di legislatura caratterizzato da un nuovo, debole esecutivo e dall’approvazione di nuove leggi elettorali che, se di tipo proporzionale, aprirebbero una fase del tutto nuova. In definitiva, l’esperienza italiana sta assecondando un assetto ibrido, sospeso tra un modello di governo di coalizione, assai debitore, per alcuni aspetti, dell’esperienza anteriore al 1992, ed un modello di «democrazia di investitura» (nella quale «il corpo elettorale è chiamato a scegliere un leader, ma non una coalizione e un programma, o, se si vuole, il programma consiste in poche e generalissime indicazioni date dal candidato nel corso della campagna elettorale, che gli consentono, se eletto, di cambiare indirizzo nel corso del mandato e anche di rimodellare la propria maggioranza»: M. VOLPI, Forme di governo e revisione della Costituzione, Torino, Giappichelli, 1998, p. 12), mentre l’auspicato approdo verso una «democrazia di indirizzo» appare ancora una chimera. Nella «democrazia di indirizzo» «la scelta di un leader è strettamente

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connessa a quella del programma e del partito o della coalizione di maggioranza e il primo è responsabile dell’attuazione dell’indirizzo politico verso il corpo elettorale, ma anche verso il partito o la coalizione vincente» (M. VOLPI, Forme di governo, cit.). La «democrazia di indirizzo» presuppone quindi un sistema partitico sufficientemente strutturato, sia sul piano dell’organizzazione che su quello della cultura politica: «In conseguenza di questo radicamento temporale, territoriale e culturale, la leadership è espressione di un processo discorsivo elaborato all’interno di un partito inteso come istituzione, e dunque dotato di una propria identità e consistenza che esistono, e resistono, indipendentemente dai fenomeni di personalizzazione. Conseguentemente, il voto popolare, per quanto espressivo e orientato dai fenomeni di personalizzazione, resta in maniera consistente un voto determinato dalla cultura politica – da una specifica cultura politica – e non solo dal corto circuito tra interessi concreti e carisma del leader. Nella democrazia immediata, invece, questo aspetto è assente» (M. DOGLIANI, Forma di governo, in F. TUCCARI, a cura di, Il governo Berlusconi. Le parole, i fatti, i rischi, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 138). Le possibili evoluzioni della forma di governo sono quindi qualificate con espressioni diverse tra loro, che però nel linguaggio politico italiano sono state interpretate, talvolta impropriamente, nel senso di un «plusvalore costituzionale» che dovrebbe essere riconosciuto al vertice dell’esecutivo, in quanto «eletto dal popolo», con il conseguente ridimensionamento del ruolo non solo delle istituzioni di garanzia, ma anche del parlamento e, al suo interno, dell’opposizione (P. CARETTI, Principio maggioritario e democraticità del sistema costituzionale, in www.costituzionalismo.it.). Tuttavia, si è già sostenuta l’insostenibilità teorica, ed alla luce della prassi, di questa tesi.

19. Reinterpretazione o revisione degli artt. 92 e 95 Cost.? L’art. 8 della legge Madia Occorre a questo punto chiedersi se, anche alla luce della reiezione del testo “Renzi-Boschi” nel referendum costituzionale del dicembre 2016, sia necessario un ripensamento delle scelte costituzionali sia nei rapporti tra parlamento e governo sia in tema di rapporti tra gli organi necessari interni all’esecutivo. Sul primo punto, rimangono i nodi irrisolti relativi al coinvolgimento di entrambi i rami del parlamento nel rapporto fiduciario nonché alla composizione e alle funzioni della seconda camera. Si tratta di tematiche che nella prossima legislatura dovranno essere riconsiderate, anche se, auspicabilmente, in forme diverse rispetto al testo respinto nel referendum costituzionale nel dicembre 2016. Sul secondo punto, è senz’altro vero che gli artt. 92 e 95 Cost., anche per ragioni storiche, non brillano per chiarezza, allineando, senza chiarir-

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ne i rapporti, il principio monocratico, quello collegiale e, infine, la responsabilità dei ministri per gli atti del loro dicastero. In questo senso, però, la legge n. 400 del 1988 continua a rivestire un ruolo fondamentale di interpretazione delle disposizioni costituzionali; ed è significativo, come si è detto, che essa rifiuti, in primo luogo, una concezione «assolutista» della stessa collegialità propria del consiglio dei ministri, che anzi perde il ruolo di organo di elaborazione dell’indirizzo politico governativo, attribuendo al presidente del consiglio alcune prerogative fondamentali al riguardo. A ciò si aggiunga che la flessibilità delle disposizioni di cui agli artt. 92 e 95 Cost. si presta con ogni probabilità ad assecondare anche un’interpretazione ulteriore in chiave di valorizzazione del principio della direzione politica monocratica che fino ad oggi non c’è stata, anche, e per certi aspetti, soprattutto per motivi politici, cosicché «il mutamento delle condizioni può consentire, e di fatto ha consentito e consente, un’applicazione evolutiva o più efficace delle stesse regole costituzionali» (V. ONIDA, Il «mito» delle riforme costituzionali, in Il Mulino, 2004, p. 23), dato che l’elasticità funzionale del quadro costituzionale ha risentito, fino ad anni recenti, della debolezza del presidente del consiglio, spesso ostaggio dei partiti e in balia delle forze costituzionali (M. MEZZANOTTE, La figura del presidente del consiglio tra norme scritte e prassi, in Pol. dir., 2001, p. 328). Da questo punto di vista, di grande interesse appare la delega contenuta nell’art. 8 della legge n. 124 del 2015 che, in materia di revisione dell’ordinamento della presidenza del consiglio e dell’organizzazione dei ministeri, prevede «all’esclusivo fine di attuare l’articolo 95 della Costituzione e di adeguare le statuizioni dell’articolo 5 della legge 23 agosto 1988, n. 400», che siano definite: 1) le competenze regolamentari e quelle amministrative funzionali al mantenimento dell’unità dell’indirizzo e alla promozione dell’attività dei ministri da parte del presidente del consiglio dei ministri; 2) le attribuzioni della presidenza del consiglio dei ministri in materia di analisi, definizione e valutazione delle politiche pubbliche; 3) i procedimenti di designazione o di nomina, di competenza, diretta o indiretta, del governo o di singoli ministri, in modo da garantire che le scelte, quand’anche da formalizzarsi con provvedimenti di singoli ministri, siano oggetto di esame in consiglio dei ministri; 4) la disciplina degli uffici di diretta collaborazione dei ministri, dei vice ministri e dei sottosegretari di Stato, con determinazione da parte del presidente del consiglio dei ministri delle risorse finanziarie destinate ai suddetti uffici, in relazione alle attribuzioni e alle dimensioni dei rispettivi ministeri, anche al fine di garantire un’adeguata qualificazione professionale del relativo personale, con eventuale riduzione del numero e pubblicazione dei dati nei siti istituzionali delle relative amministrazioni; 5) le competenze in materia di vigilanza sulle agenzie governative na-

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zionali, al fine di assicurare l’effettivo esercizio delle attribuzioni della presidenza del consiglio dei ministri, nel rispetto del principio di separazione tra indirizzo politico e gestione; 6) la razionalizzazione con eventuale soppressione degli uffici ministeriali le cui funzioni si sovrappongono a quelle proprie delle autorità indipendenti e viceversa; individuazione di criteri omogenei per la determinazione del trattamento economico dei componenti e del personale delle autorità indipendenti, in modo da evitare maggiori oneri per la finanza pubblica, salvaguardandone la relativa professionalità; individuazione di criteri omogenei di finanziamento delle medesime autorità, tali da evitare maggiori oneri per la finanza pubblica, mediante la partecipazione, ove non attualmente prevista, delle imprese operanti nei settori e servizi di riferimento, o comunque regolate o vigilate; 7) l’introduzione di maggiore flessibilità nella disciplina relativa all’organizzazione dei ministeri, da realizzare con la semplificazione dei procedimenti di adozione dei regolamenti di organizzazione, anche modificando la competenza ad adottarli; introduzione di modifiche al d.lgs. n. 300 del 1999, per consentire il passaggio dal modello dei dipartimenti a quello del segretario generale e viceversa in relazione alle esigenze di coordinamento; definizione dei predetti interventi assicurando comunque la compatibilità finanziaria degli stessi, anche attraverso l’espressa previsione della partecipazione ai relativi procedimenti dei soggetti istituzionalmente competenti a tal fine. Anche se la crisi del governo Renzi e le incerte prospettive politiche dell’ultima parte della legislatura rendono tutt’altro che certa l’attuazione di queste previsioni, esse appaiono comunque di grande interesse sul piano istituzionale. Un primo nodo problematico attiene al riferimento all’art. 95 Cost. e alla necessità di adeguare l’art. 5 della legge n. 400 del 1988. Sul primo punto, la necessità di attuare l’art. 95 Cost. presuppone che il legislatore delegato possa procedere a precisare e valorizzare le competenze del presidente del consiglio, in un contesto però nel quale non potrebbe essere inciso il principio di collegialità che ex art. 95, comma 2, Cost., è stato declinato dalla legge n. 400 del 1988 nel senso per cui è il consiglio dei ministri che «determina la politica generale del governo e, ai fini dell’attuazione di essa, l’indirizzo generale dell’azione amministrativa; delibera altresì su ogni questione relativa all’indirizzo politico fissato dal rapporto fiduciario con le camere. Dirime i conflitti di attribuzione tra i ministri» e, in questo senso, è chiamato ad approvare «le dichiarazioni relative all’indirizzo politico, agli impegni programmatici ed alle questioni su cui il governo chiede la fiducia del parlamento» (art. 2, che non può essere inciso dai futuri decreti legislativi). E questo punto è da ribadire nonostante la “crisi della collegialità” da

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più parti evidenziata, e la tendenza alla “presidenzializzazione” dell’esecutivo riscontrabile, in qualche misura, nella stessa legge Madia, che spiega anche il ridimensionamento di quel modello di “governo a direzione plurima dissociata” che ha connotato l’esperienza italiana anche dopo la svolta del 1992-1994 (come è stato giustamente affermato, tale definizione «se in qualche misura è ancora applicabile, non affonda più (o almeno non solo) le sue radici nelle dinamiche delle coalizioni e del sistema dei partiti, ma in un complesso (e assai poco trasparente) intreccio di relazioni fiduciarie personali e di pressioni, provenienti tanto da spezzoni dell’apparato pubblico quanto da centri di potere esterni»: M. CUNIBERTI, L’organizzazione del governo tra tecnica e politica, in www.gruppodipisa.it, 2015, pp. 32-33). Non a caso, l’art. 8, comma 1, lett. c), n. 3), sopra riportato prevede che le proposte di nomina, quand’anche da formalizzarsi con provvedimenti di singoli ministri, siano oggetto di esame in consiglio dei ministri. Ciò detto, la necessità di adeguare l’art. 5 della legge n. 400 del 1988 sembra presupporre anche la possibilità di modifiche all’insieme delle sue disposizioni ma forse, soprattutto, la possibilità di un tessuto di previsioni attuative laddove la delega prevede che siano definite le «competenze regolamentari e quelle amministrative funzionali al mantenimento dell’unità dell’indirizzo e alla promozione dell’attività dei ministri da parte del presidente del consiglio dei ministri». Tale previsione non appare chiarissima quantomeno con riferimento alle competenze regolamentari, che se lette alla luce dell’art. 12, comma 1, lett. e), della legge n. 59 del 1997 («garantire alla presidenza del consiglio dei ministri autonomia organizzativa, regolamentare e finanziaria nell’ambito dello stanziamento previsto ed approvato con le leggi finanziaria e di bilancio dell’anno in corso»), richiamato tra i principi e criteri direttivi della delega, potrebbero determinare un’ulteriore espansione di quella anomala delegificazione, attraverso i D.P.C.M. di cui agli artt. 7 e 9 del d.lgs. n. 303 del 1999, che sarebbe così estesa dall’organizzazione della presidenza all’esercizio delle funzioni del presidente del consiglio. Senza che in questa sede possano essere analizzati gli interessanti contenuti dell’art. 8 della legge n. 124 del 2015 sopra riportati, vi sono diversi dubbi sul livello di “irreversibilità” della riforma Madia, e non solo per i dubbi sulla sua concreta possibilità di attuazione: essa, infatti, non ha incontrato il consenso dei gruppi di opposizione e dei sindacati e non è stata capace di incontrare attenzione e consenso nell’opinione pubblica; e d’altra parte, l’influenza della stabilità finanziaria sembra essere decisiva rispetto agli intenti di modernizzazione qualora queste due strategie d’azione non siano rese, almeno in prospettiva, sinergiche (F. DI MASCIO, A. NATALINI, La riforma della pubblica amministrazione: centralizzazione e ricomposizione dell’unità amministrativa, in M. CARBONE, S. PIATTONI, a cura di, Politica in Italia. I fatti dell’anno e le interpretazioni. Edizione 2016, Bologna, Il Mulino, 2016, p. 181).

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Tuttavia, a prescindere da tale rilievo, anche se l’art. 8 della legge n. 124 del 2015, come già i dd.llgs. nn. 300 e 303 del 1999, si pone, almeno per alcuni profili, come “anticipatore” di un percorso di revisione costituzionale che però, a seguito del referendum costituzionale del dicembre 2016, non ha avuto esito, esso non è affatto incompatibile con il quadro costituzionale vigente. Anzi, consentendo una equilibrata valorizzazione delle prerogative del presidente del consiglio, l’art. 8 sembra evidenziare la non necessità di un ripensamento delle scelte costituzionali in tema di rapporti tra gli organi necessari del governo ma semmai l’opportunità di un’interpretazione evolutiva dell’art. 95 Cost. In questo senso, sarebbero auspicabili ulteriori interventi che valorizzino il monitoraggio e la valutazione dell’azione di governo (in qualche modo “costringendo” a definire meglio strategie e quindi linee programmatiche): da questo punto di vista, di grande interesse appare il protocollo di intesa del maggio 2015 tra l’ufficio per il programma di governo presso la presidenza del consiglio e l’ispettorato generale del bilancio presso il ministero dell’economia e delle finanze-ragioneria generale dello Stato per la condivisione di informazioni derivanti dal sistema informativo delle note integrative della ragioneria generale dello Stato e dal monitoraggio dello stato di attuazione del programma di governo «finalizzata a favorire una maggiore focalizzazione delle note integrative al bilancio dello Stato sugli obiettivi del programma di governo ed una maggiore integrazione tra ciclo del bilancio e ciclo di programmazione strategica». Del resto la valorizzazione del profilo programmatico del governo sarebbe essenziale non solo nell’ottica dell’unitarietà dell’indirizzo politico perché esso gioverebbe anche alle prerogative del parlamento, interlocutore dell’esecutivo nel rapporto fiduciario. Similmente, una struttura ormai ampiamente (e discutibilmente delegificata) come quella della presidenza del consiglio potrebbe valorizzare ulteriormente funzioni come quelle preposte all’attività normativa del governo e soprattutto alla qualità della normazione, che costituiscono una sfida sulla quale non si può più tardare. Se la legge Madia costituisce un interessante esempio di riforma istituzionale, condivisibile nelle sue linee di fondo, andrebbe recuperata anche una interpretazione del quadro costituzionale più aderente alle esigenze di una equilibrata valorizzazione del principio monocratico che nel più recente periodo è avvenuta in modo discontinuo e soprattutto prevalentemente, se non esclusivamente, sul piano politico. A dimostrazione di quanto il quadro politico influisca sull’interpretazione dell’art. 95 Cost., si può ricordare la vexata quaestio del potere di revoca dei ministri da parte del presidente del consiglio, ad avviso della parte maggioritaria della dottrina impraticabile a Costituzione vigente. È noto che la sent. n. 7 del 1996 non ha risolto questo nodo interpreta-

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tivo, mentre ha ammesso la sfiducia individuale ai ministri, anche contro una parte non irrilevante della dottrina che si era pronunciata per l’incostituzionalità dell’istituto, inquadrando la stessa nel contesto dei principi costituzionali desumibili dagli artt. 92 ss. Cost., e in particolare alla luce della tesi secondo cui la responsabilità individuale dei ministri, di cui all’art. 95 Cost., è indissolubilmente collegata (nel senso che ne costituisce la necessaria specificazione) all’indirizzo politico generale del governo, in un equilibrio nel quale il singolo ministro interpreta individualmente l’interesse di settore del proprio dicastero, e, tuttavia, quell’interesse deve comporsi con il comune indirizzo politico in un quadro che non sta al singolo ministro di decidere o giudicare. Di fatto, fino a oggi anche la mozione di sfiducia individuale ha conosciuto una prassi piuttosto limitata, risultando difficilmente praticabile sul piano politico, perché di fatto tale da incidere sulla sopravvivenza stessa del governo. La revoca dei ministri nella prassi non è mai stata tentata, perché, stante la dinamica coalizionale, la sua utilizzazione avrebbe avuto come conseguenza la crisi di governo: in effetti, nella prassi più recente si sono avuti solo casi di «quasi-revoca» di ministri tecnici (si vedano, ad esempio, le dimissioni del ministro Ruggiero nel II governo Berlusconi), mentre in altri casi, soprattutto in passato, dissensi tra il presidente del consiglio ed i ministri o tra ministri, che avrebbero potuto essere composti con il riconoscimento del potere di revoca, hanno provocato la crisi di governo (si pensi al II governo Spadolini) o situazioni di «pre-crisi». Da questo punto di vista, è sintomatico, ad esempio, il previo «assenso» del leader della lega nord alla richiesta del presidente del consiglio di dimissioni del ministro Calderoli alla fine della XIV legislatura. Oltre a non essere espressamente prevista dalla Costituzione, la revoca è apparsa alla dottrina maggioritaria impraticabile alla luce della tesi che inquadra il presidente del consiglio come primus inter pares, negando l’esistenza di un rapporto fiduciario tra quest’ultimo e i singoli ministri. Tuttavia, l’inesistenza di una preminenza del presidente del consiglio all’interno del governo è stata affermata, più ancora che da considerazioni di carattere teorico, principalmente dalla prassi che, come si è ripetutamente affermato, ha esaltato il ruolo dei partiti a partire dalla formazione del governo e dalla nomina dei ministri (per tutti, P.A. CAPOTOSTI, Accordi di governo, cit., pp. 192 ss.): in tal modo, poiché i ministri erano di fatto i «rappresentanti» dei partiti in seno al governo, non aveva senso porsi il problema dell’esistenza di un rapporto di fiducia personale tra presidente del consiglio e ministri (per tutti, L. PALADIN, Governo italiano, cit., p. 696). Viceversa, come si era osservato già a proposito del «caso Mancuso», la revoca «non è vietata e può utilmente rispondere all’esigenza di tutelare l’unità ed omogeneità del governo, nonché la sua stessa funzionalità, dinanzi a diverse possibili vicende che investano la credibilità personale o lo

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spirito di corretta collaborazione di singoli ministri, o il loro stato di salute, senza che da queste vicende, strettamente relative ad un singolo ministro, debba derivarne la fine dell’esistenza dell’intero governo» (U. DE SIERVO, Sei domande ai costituzionalisti provocate dal «caso Mancuso», in Giur. cost., 1995, p. 4690). In questo senso, la sfiducia individuale costituisce un correttivo limitato, e non solo per le difficoltà pratiche della sua attuazione (tale strumento si è rivelato di fatto inutilizzabile per l’opposizione; non a caso, la sfiducia a Mancuso è stata pronunciata dalla maggioranza con il tacito assenso del presidente del consiglio: L. CARLASSARE, Governo, parlamento e presidente della Repubblica, cit., p. 83): l’inammissibilità della revoca dovrebbe indurre il presidente del consiglio a chiedere al parlamento di sfiduciare un ministro che non accetti di dimettersi anche nel caso in cui la richiesta di dimissioni sia avallata dal proprio partito (A. REPOSO, Lezioni, cit., p. 201). La sua sola previsione, infatti, ha finito per ridimensionare il presidente del consiglio, apparendo funzionale ad una concezione di governo «per feudi»: «Quella che poggia su una coalizione di spartizione dei ministeri con un presidente del consiglio «travicello»: intravista nei peggiori momenti della vita pubblica italiana» (A. MANZELLA, Il parlamento, cit., p. 399). Viceversa, nell’ottica di un governo di legislatura, l’eventuale dissenso di un ministro assume un significato nuovo e più grave, rispetto al quale non sembra più possibile evocare come scenario risolutivo la mozione di sfiducia individuale o, peggio, la crisi dell’intero governo: appare invece ormai possibile affermare «l’esistenza di una responsabilità politica del singolo ministro verso chi è alla guida del governo, che, nel nostro ordinamento, in base all’art. 95 Cost., «dirige la politica generale del governo e ne è responsabile» (L. CARLASSARE, Governo, parlamento e presidente della Repubblica, cit., p. 87). Né tale auspicata innovazione finirebbe per alterare il rapporto fiduciario tra governo e parlamento, poiché, come è stato giustamente osservato, tali alterazioni conseguono anche, di fatto, a rimpasti o dimissioni: così, nel caso di una revoca, su proposta del governo o del parlamento, potrebbe sempre seguire un dibattito parlamentare con la successiva verifica della perdurante permanenza del rapporto fiduciario (P. CARETTI, Sei domande, cit., p. 4670). A questa rinnovata interpretazione dei poteri del presidente del consiglio dovrebbe accompagnarsi una interpretazione adeguatrice o anche ad una revisione di alcune disposizioni conseguenti della legge n. 400 del 1988 che inquadrano il presidente del consiglio come organo che «ha le chiavi del sistema, ma la macchina è predisposta dal consiglio dei ministri (e dai partiti che lo sostengono)» (M. MEZZANOTTE, La figura, cit., p. 331).

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Finito di stampare nel mese di gennaio 2017 nella Stampatre s.r.l. di Torino – Via Bologna, 220