Dinamiche e strategie del colloquio clinico 8843037404, 9788843037407

Il colloquio clinico è un incontro rappresentato da andamento e modalità di conduzione in assoluto singolari: pur essend

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Dinamiche e strategie del colloquio clinico
 8843037404, 9788843037407

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UNIVERSITÀ

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707

PSICOLOGIA

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Roberto Pani

Samanta Sagliaschi

Dinamiche e strategie del colloquio clinico

Carocci editore

r•

ristampa, settembre 2007 edizione, marzo 2006 © copyright 2oo6 by Carocci editore S.p.A., Roma r•

Finito di stampare nel settembre 2oo7 per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino

ISBN 978-88-430-3740-7

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. r7r della legge 22 aprile 1941, n. 6 3 3 ) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume

anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Introduzione

I. I. I.

Orientamenti sul colloquio clinico

Definizione di colloquio r.r.r.

1 .2 .

9

Il colloquio clinico l r.r.>. Il primo colloquio

I tratti caratteristici del colloquio r.2.r.

15

La relazione di aiuto

La letteratura sul colloquio

r8

Teorie cliniche dell'interazione l r.3.2. La trial therapy l I.3·3· Intersoggettività l I.3·4· Le scene modello l I.3·5· Il colloquio con l'elaboratore è possibile? l r.3.6. Mutamenti epistemologici che investono le teorie del colloquio

r.3.1.

2.

Aspetti dinamici del colloquio clinico

55

2.1. 2.2. 2.3. 2 .4 . 2 .5 .

Gli aspetti psicologici I l conduttore L'utente Il setting Le fasi e le regole del colloquio

55 59 62 64 65

2.5.r. Il primo contatto l 2.5.2. Il primo incontro l 2.5.3. Le domande l 2.5-4- La registrazione

2.6. 2.7. 2.8. 2.9. 2 . r o. 2. r 1.

L a comunicazione non verbale L e difese nel colloquio Il problema della menzogna L a suggestione nel colloquio Le metafore nel colloquio clinico Deontologia della relazione di aiuto 7

79 84 89 94 97 98



Il colloquio clinico nell'infanzia

103

J.I. J.2. 3-3 3+ 3 · 5· 3.6.

Il metodo clinico di J ean Piaget L a comunicazione con il bambino La relazione clinica con il bambino L'assessment del bambino La situazione prefissata di Winnicott Scale d i valutazione del bambino

IOJ ro6 1 12 1 17 1 19 121

Test di valutazione dello sviluppo e test di intelligenza l Test di personalità l 3.6.3. La tecnica dello scarabocchio di Winnicott

3.6.1. 3.6.2.



Il colloquio clinico nell'adolescenza

137

4· I . 4.2. 4-3 -

L'adolescente Approcci teorici dell'adolescenza Il primo colloquio

137 1 40 1 46

4·3·L

Obiettivi del colloquio l 4·3·2. L'impiego dei test

4+ 4·5·

Il rapporto terapeutico La restituzione

153 156



Differenti ambiti di applicazione del colloquio

159

5 ·!. 5.2. 5 · 3· 5 -4 5·5· 5.6. 5·7· 5.8. 5 ·9 · 5 .!0. 5·1 I. 5.12. 5·13.

Introduzione Il colloquio d i selezione per l a psicoterapia Interventi sulla crisi (crisis management) Il colloquio criminologico Il colloquio giuridico I l colloquio peritale I l colloquio di selezione del personale Il colloquio di orientamento Il colloquio a scuola Il colloquio di motivazione Il colloquio nell'adozione Il colloquio di ricerca L'intervista sociologica

159 1 60 1 62 1 65 170 173 174 179 1 82 1 85 186 1 88 191

Bibliografia

1 95

8

Introduzione

In una gelida giornata di inverno, due porcospini pie­ ni di freddo si strinsero uno all'altro per riscaldarsi. Ma si accorsero di pungersi reciprocamente con gli aculei; allora si separarono e, così, sentirono nuova­ mente freddo. Prova e riprova, i porcospini riuscirono a trovare quella giusta distanza che consentiva loro di scambiarsi un po' di calore senza pungersi troppo (Bellak, 1970, trad. it. p. 9).

Il colloquio clinico costituisce un incontro caratterizzato da andamen­ to e modalità di conduzione assolutamente peculiari. In particolare, pur esistendo in parte una standardizzazione dei comportamenti e degli accorgimenti tecnici, tale momento viene vis­ suto in forma " personalizzata " , non solo in riferimento al tipo di pro­ blema del paziente, ma anche in base alle caratteristiche professionali e alla personalità dell'intervistatore. Ciò che conta nel colloquio è in­ nanzitutto la relazione dinamica che si instaura tra i partecipanti, che non solo rende efficace e terapeutico lo strumento, ma ne detta altre­ sì le condizioni di sviluppo e le modalità operative. Questo non è va­ lido solo in relazione al colloquio clinico vero e proprio, bensì nelle sue applicazioni in ambiti disciplinari differenti. Il colloquio deve molto alla psicoanalisi e costituisce nell'ambito della psicologia clinica il contesto privilegiato in cui il clinico può co­ noscere il paziente, attraverso un'indagine approfondita delle sue di­ namiche psicologiche, dei suoi sentimenti e dei suoi comportamenti. Benché il colloquio all'apparenza possa costituire un contesto nel quale sia possibile ai due interlocutori esprimersi in maniera libera e spontanea, esso rappresenta in realtà un sistema nel quale è necessa­ ria una complessa preparazione del conduttore e un complesso lavoro di costruzione e di ricerca. Il colloquio clinico va vissuto come un momento a duplice arti­ colazione: 9

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

1 . finalizzato, da un lato, alla messa in relazione dei due interlocutori che devono dar vita a un rapporto " umano " diretto e personale; 2. dall'altro, alla creazione di un momento di verifica nel corso del quale vengono messe in luce le problematiche psicologiche manifeste e i contenuti non consapevoli del paziente. Ciò che consente al colloquio clinico di " funzionare" anche in termini terapeutici è il suo costituirsi come un complesso di compor­ tamenti e vissuti capaci di suscitare modifiche tanto nel paziente quanto nell'operatore. Il momento dell'interazione tra terapeuta e paziente deve perciò essere vissuto in forma costruttiva e creativa, così da rappresentare per entrambi una fase di verifica, di confronto e di crescita. Laddove queste dinamiche non si verificano, l'incontro clinico resta sterile e fine a se stesso. Tutto ciò chiarisce come all'interno del colloquio clinico vi siano inevitabili difficoltà ed imprevisti che possono essere gradualmente superati solo mediante l' acquisizione da parte dei partecipanti di una "fiducia" sia reciproca, sia nei confronti delle possibilità e della vali­ dità dello strumento. Negli ultimi anni è andata manifestandosi una tendenza alla ride­ finizione del campo e degli strumenti osservativi utilizzati nell'indagi­ ne clinica e psicopatologica tramite contributi provenienti da diversi settori disciplinari convergenti. Si tratta di un'evoluzione importante dal punto di vista dei riferi­ menti teorici: si passa infatti da un atteggiamento " obiettivante" che segue un procedimento indiziario (metodo di Sherlock Holmes) a una posizione cognitivo- costruttivista che più o meno implicitamente ha come referente psicologico l'opera di James ( 1 890) e di Kelly ( 1 95 5 ) , e come referente epistemologico la Teoria dei sistemi con­ temporanea. Il "paradigma indiziario " si è posto per almeno un decennio come riferimento d' obbligo per un buon numero di clinici. Una posizione siffatta prevede la ricerca serrata e la scoperta di qualcosa da parte del clinico. Questa posizione risulta radicata nel paradigma di scienza ottocentesca e la troveremo applicata anche nel­ la psichiatria " classica" a proposito del paradigma osservativo adotta­ to da Kraepelin con la relativa induzione iatrogena di patologia mi­ sconosciuta a causa dell'adozione del paradigma stesso. Tali scelte metodologiche si sposavano con lo stile della semeioti­ ca medica che si era rivolta ad un sistema di connessioni e di indagini capace di risalire a una realtà occulta attraverso indizi e tracce spesso sottili. Questa opzione epistemologica colloca in primo luogo la patoIO

IKTRODUZIONE

logia dentro i confini del paziente e considera l'osservatore neutrale. Tutti coloro che hanno inteso il processo clinico come un processo di "scoperta" hanno più o meno chiaramente basato le loro posizioni su di un paradigma ottocentesco con relativi inconvenienti. Il fondamento di un'alternativa a tali posizioni è reperibile vice­ versa nella riflessione epistemologica di Bateson ( 1 97 9 ) e nel suo modo innovatore di ridisegnare i confini delle entità coinvolte nei processi conoscitivi, mentre sul versante delle strategie cliniche è rile­ vante l'opera di Malan ( 1 97 6 ) che allontana la tecnica dalle opzioni fìlosofiche della metapsicologia freudiana. Secondo Bateson ( 1 97 2 , tra d. it. p. 147) l'elaborazione dell'infor­ mazione si attua in un'unità cibernetica che ha confini diversi da quelli del senso comune occidentale. Si consideri un individuo che stia abbattendo un albero con un'ascia - nota Bateson - ogni colpo d'ascia è modificato o corretto secondo la forma del­ l'intaccatura lasciata nell'albero dal colpo precedente. Questo procedimento autocorrettivo ( cioè mentale) è attuato da un sistema totale, albero-occhi-cer­ vello-muscoli-ascia-colpo-albero; ed è questo sistema totale che ha caratteri­ stiche di mente immanente. [ . ] Ma non è questo il modo con cui l'occi­ dentale medio vede la sequenza degli eventi che caratterizzano l' abbattimen­ to dell'albero. Egli dice: «lo taglio l'albero», e addirittura crede che esista un agente delimitato, !' "io" che ha compiuto un'azione "finalistica" ben delimi­ tata su un oggetto ben delimitato (ivi, p. 366). .

.

I processi "mentali " , pertanto, non sono più collocati all'interno del­ l' epidermide del soggetto ed anche la patologia non potrà più esservi confinata. Nella prospettiva costruttivista la via privilegiata per operare su di un'organizzazione relazionale è la costruzione di un nuovo livello di tale organizzazione, là dove la posizione tradizionale consisteva nella neutralizzazione dell'interazione tra osservatore ed osservato che con­ duceva ad una buona "osservazione" . Così questa posizione episte­ mologica prevede che l'attuarsi della chiusura di un nuovo sistema, che verrebbe a ridefinire i confini tra paziente-terapeuta- ambiente, di­ venga l'atto con cui inizia un processo conoscitivo e si definisce l' am­ bito in cui esso si attua. Nel colloquio clinico - com'è concepito da Malan ( I 976) - si ve­ rificano queste condizioni nelle quali appaiono rilevanti soprattutto le strategie utilizzate dal clinico per orientarsi. Il problema è cioè quello di valutare le condotte possibili del paziente in funzione della terapia e, in particolare, nella terapia con quello specifico terapeuta che lo sta intervistando (ibid. ) . II

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

Una simile precisazione, che ha una certa rilevanza epistemologi­ ca, pone l'attenzione su un processo definito come " orientamento" per la coppia che si sta incontrando. Si tratta dell'adozione di una strategia conoscitiva assai differente sul piano epistemologico rispetto a quella di considerare "la struttura " del paziente o la sua idoneità alla terapia come fossero qualità site in qualche parte, magari la men­ te, del paziente e pertanto in qualche modo obiettivabili dal processo di valutazione. La scelta di campo che intendiamo sottolineare, inve­ ce, conduce in un ambito costruttivista e ridefinisce in tale direzione l'epistemologia del colloquio di valutazione e di eventuale valutazione degli "outcome" del processo di follow up. Il terapeuta non si trova impegnato a " s coprire " una struttura profonda, o fantasie supposte inconsce, ma ad esplorare un dominio costruito nell'hic et nunc in interazione col paziente. È in questo dominio che si svolge il pro­ cesso di orientamento rilevante sul piano clinico. Un processo siffatto ha luogo tramite l'attuazione di una chiusura organizzazionale di un nuovo sistema comprendente paziente e terapeuta. Il clinico costrui­ sce una valutazione " come un sarto costruisce un vestito " , provando­ la in incontri successivi con l'utente. Tutto questo è presente in letteratura ma, come già abbiamo ri­ scontrato in molti altri settori, il limite delle varie proposte viene marcato costantemente dalla necessità di far quadrare il cerchio della clinica attraverso la metapsicologia. Ciò limita grandemente le possi­ bilità di sviluppo di nuovi approcci. In questo volume presentiamo al lettore una breve rassegna della letteratura sul colloquio, ci soffermiamo sulle dinamiche e sulle stra­ tegie che awengono al suo interno, poniamo l' attenzione sul collo­ quio in età infantile e in età adolescenziale ed esaminiamo, inoltre, i differenti contesti di applicazione dello strumento.

12

I

Orientamenti sul colloquio clinico

I.l

Definizione di colloquio

Il termine " colloquio" deriva dal latino eu m loqui, "parlare insieme" . Con questa premessa è chiaro che anche nel linguaggio d'ogni giorno con questo vocabolo si fa riferimento a ogni momento di incontro e relazione sia formale che informale. «Il colloquio è presente nell'e­ sperienza quotidiana sotto forma di esperienza disimpegnata, i cui turni sono regolati da esigenze solo in parte oggettive, e comunque negoziati tra i due parlanti» (Rizzi, 2004, p. 99). Il colloquio comporta la presenza di due soggetti in relazione asimmetrica tra loro, invero uno dei partecipanti pone delle questioni all'altro che ha una funzione di ascolto. Esso implica lo stabilirsi di una dinamica di dipendenza dell'utente nei confronti del conduttore (Carli, 1 995 ) . A tal proposito, s i può definire il colloquio come un particolare tipo d i test in cui il processo di conoscenza avviene attraverso la creazione di una rela­ zione tra gli interlocutori in cui l'esperto tenterà di sospendere ogni atteggia­ mento valutativo nei confronti dell'altro, esprimendo apertura affettiva e di­ sponibilità. L'apertura affettiva e la disponibilità hanno la funzione di favori­ re nel richiedente la percezione di essere accolto come persona unica, nella sua individualità (Bastianoni, Simonelli, z oor, pp. 8-9) .

«Il colloquio è uno spazio di narrazione intenzionale garantito da re­ gole codificate (setting) che da un lato costituiscono la cornice deli­ mitante "la trama" dall'altro permettono la costruzione di un pensie­ ro sull'accadente che consente di dare senso alla relazione» (Monte­ sarchio, Venuleo, 2002, p. 1 2). Lis, Venuti, De Zordo ( r 99 5 , p. 8) considerano il colloquio

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

un particolare tipo di strumento caratterizzato da uno scambio verbale in una situazione dinamica di interazione psichica che permetta lo svilupparsi di un processo di conoscenza. Per raggiungere tale obiettivo ci si basa sul consenso, tra conduttore e partecipante, a discutere, parlare, trattare insieme un tema o un argomento. Per facilitare la comunicazione, il conduttore usa tecniche non direttive, consente al soggetto di sentirsi valorizzato, non sotto­ posto a giudizio valutativo, trattato come persona da un'altra persona di cui percepisce la disponibilità.

Canestrari, Ricci Bitti, Caterina ( r 995 , p. 147) affermano che «il col­ loquio [. . ] oltre che fornire informazioni sulla base della testimonian­ za verbale del soggetto, permette una conoscenza diretta, si potrebbe dire " dal vivo " , della sua dinamica interpersonale». .

r . I . I . Il colloquio clinico Il colloquio clinico è lo strumento che consente la conoscenza del rapporto tra utente e consulente, permette di ottenere informazioni sulla personalità, le inclinazioni, gli ideali, i conflitti di una persona, fino a giungere all'individuazione della struttura di personalità del­ l'individuo. Il colloquio clinico si presenta come «l'incontro tra una persona che soffre e cerca aiuto e una che si suppone capace non solo di for­ nire l' aiuto richiesto, ma di offrire qualcosa di più del semplice ascol­ to: una diagnosi e un intervento in grado di ridurre il dolore» (Ba­ stianoni, Simonelli, 2ooi, p. 5 7 ) . n colloquio clinico psicologico è infatti simile ad altri tipi d i intervista, in quanto è motivato dalla richiesta di un individuo che ne consulta un altro, definito un esperto, per ottenere una qualche forma di aiuto; se ne diffe­ renzia per il tipo di aiuto che il richiedente si aspetta, che riguarda la com­ prensione di una sofferenza e dei mezzi per ottenere sollievo e giovamento [... ]. L'uso di una tecnica o di un'altra non deve rispondere a una scelta teorica aprioristica, ma alla finalità del colloquio, che è quella di raccogliere nel modo più completo possibile i dati necessari per la valutazione dei biso­ gni del paziente (Gislon, r 9 8 8 , pp. 37-40) . Il colloquio, in ambito clinico, può essere diagnostico e terapeutico. Il primo, secondo Lis, Venuti, De Zordo ( I 99 5 , p. 1 2 5 ) è: «quel tipo di colloquio che si svolge tra uno psicologo ed una persona, che in questo caso chiameremo paziente, che a lui si rivolge direttamente o venga inviata per un qualche problema o disagio psicologico ricono­ sciuto dalla persona stessa o da altri».

I. ORIDJTAME:'oJTI SUL COLLOQUIO CLINICO

I . I . 2 . Il primo colloquio Lai ( I 9 8o, pp . 63-4), così definisce il primo colloquio tra un cliente (R) e uno psicoterapeuta (A) : La situazione di primo colloquio ci appare dunque caratterizzata da una per­ sona R che si incontra per la prima volta con una persona A in un luogo determinato S, avendo sia R che A, mentre parlano o ascoltano, un certo orientamento, manipolativo o identificatorio, verso il mondo delle cose o ver­ so il mondo dei significati; ed è caratterizzato soprattutto da questo, che l'o­ rientamento di R, come costituisce uno degli elementi concorrenti a determi­ nare l'orientamento di A, così è suscettibile di essere modificato in un verso o in un altro dall'orientamento di A.

«Il primo colloquio è potenzialmente una situazione conoscitiva unica e specifica. La sua particolarità, dal punto di vista sia emotivo che cognitivo, è rappresentata proprio dal fatto di essere una condizione nuova, in cui non sono ancora in atto modalità di relazione già note ed organizzate» (Lang, Orefice, I 98 9 , p. 90). 1.2

I tratti caratteristici del colloquio

È possibile pensare al colloquio come ad una forma specifica di nar­

razione (Montesarchio, Margherita, I 99 8 ; Grassi, 2002), Infatti, lo psicologo si occupa delle seguenti narrazioni: a) la narrazione dello psicologo, riguarda l'opportunità di pensare i testi narrativi dell'utente e di congiungerli; b) la narrazione dell'utente, formata da esperienze cognitive ed emo­ tive, sogni, fantasie che si esternano mediante discorsi, comportamen­ ti, condotte non verbali; c) il colloquio come narrazione comune, tenuto conto degli scopi del­ l'intervento attribuisce significato alla trama del testo relazionale, come una narrazione aperta a trasformazioni . Come sostiene Giovannini (2 ooo) , la dinamica del colloquio non è fortuita ma dipende dall'influenza reciproca e dall'interazione tra conduttore del colloquio e utente. Il colloquio-intervista può assumere una delle seguenti strutture (Trentini, I 99 5 a ) : a) intervista a due, prevede l a presenza d i un intervistatore (inse­ gnante, terapeuta, ricercatore ecc.) e di un intervistato (allievo, cliente ecc. ) ; b ) intervista a pane!, comprende una commissione con diversi mem-

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

bri in qualità di intervistatori e un intervistato (ad esempio commis­ sioni di selezione); c) intervista a tandem, include due intervistatori ( con ruolo uguale o differente) e un intervistato (ad esempio colloqui di ricerca) ; d) intervista in pubblico, comprende due soggetti attori del colloquio o dell'intervista ma in presenza di altri individui che fungono da spet­ tatori presenti sia fisicamente che psicologicamente (ad esempio col­ loquio in classe) ; e) intervista collettiva, quando si ha un intervistatore e un insieme di intervistati in un ambito in cui i partecipanti rivestono di volta in vol­ ta individualmente il ruolo di intervistato (ad esempio intervista in inchieste televisive in diretta); /) intervista in gruppo, incorpora un intervistatore e un interlocutore nel contesto di un piccolo gruppo (ad esempio colloquio con un componente della famiglia in presenza di altri componenti) ; g ) intervista di gruppo, ingloba u n intervistatore e u n gruppo d i per­ sone (ad esempio psicoterapie di gruppo) . Occorre innanzitutto chiarire l'obiettivo principale del colloquio e definire poi i sotto-obiettivi di quel singolare colloquio che avrà luo­ go in quella determinata ora, in quel determinato giorno. Ciascun colloquio ha degli obiettivi specifici ( Semi, 1 9 85 ) . Si parla di colloquio per aree quando viene maggiormente struttu­ rato, vengono cioè poste al cliente domande precise; si parla invece di colloquio libero quando il cliente può esprimersi con maggiore li­ bertà (Lis, Venuti, De Zordo, 1 9 95 ) . È possibile diversificare il colloquio dall'intervista per il differente grado di strutturazione. Invero, l'intervista prevede domande prefissa­ te dall'intervistatore secondo modalità stabilite. Distinguiamo: - l'intervista strutturata, le domande e il loro susseguirsi sono rigo­ rosamente prestabiliti; - l'intervista semistrutturata, connotata da meno rigidità nella for­ mulazione delle domande, tiene conto dell'andamento della situazio­ ne e della forma di risposta dell'intervistato; - l'intervista non strutturata, la formulazione delle domande è legata a determinati temi inseriti in una lista costruita precedentemente; - il colloquio, elargisce a chi lo conduce più libertà nell'enunciare le domande, può essere soggetto a varianti in rapporto alla relazione che si instaura tra gli interlocutori. Il colloquio costituirebbe lo strumento d'élite in ambito clinico, dove il focus è sulla modalità con cui l'individuo riferisce le informa­ zioni richieste; l'intervista lo sarebbe invece in ambito di ricerca, dove sono rilevanti le informazioni riferite dall'intervistato. Di conseguen16

I. ORIDJTAME:'oJTI SUL COLLOQUIO CLINICO

za, il colloquio si propone di conoscere approfonditamente il sogget­ to (colloquio intensivo), viceversa l'intervista non può indagare appro­ fonditamente il mondo interiore del soggetto (intervista estensiva) . Il colloquio intensivo può essere impiegato in contesti differenti, ad esempio intervento psicoterapeutico, colloquio di orientamento ecc. L'intervista estensiva ricorre abitualmente ai questionari e viene usata ad esempio durante censimenti e referendum (Bastianoni, Simonelli, 2oo r ; Trentini, 2oool . A seconda della centratura su uno dei due poli della relazione, possiamo effettuare una distinzione tra intervista centrata sull'intervi­ statore e intervista centrata sull'intervistato. Nel primo caso «chi pro­ gramma, organizza e gestisce il colloquio, è per così dire il punto fo­ cale della relazione, ne scandisce i tempi, i contenuti, gli sviluppi» (Trentini, 2ooo, p. 3 3 ) ; nel secondo caso «l'intervistatore attiva una relazione focalizzata sull'interlocutore, assecondandolo nei contenuti, nelle scansioni, nelle tappe della relazione» (ibid. ) . L'intervista può essere condotta mediante uno dei seguenti stili: - stile duro, l'intervistatore formula o impone le domande cosicché le risposte sono dipendenti da un ordine; - stile amichevole/permissivo, l'intervista viene condotta in maniera aperta, l' intervistato ha una certa libertà all'interno del colloquio; - stile consultivo, i due attori del colloquio tendono a collaborare; la condotta del conduttore si adegua anche all'utente; - stile partecipativo, le parti coinvolte tendono a rimanere indipen­ denti ai fini del colloquio . L'eventuale insorgenza di conflittualità vie­ ne gestita dall'intervistatore (Trentini, 2 ooo) . 1 . 2 . r . La relazione di aiuto La relazione di aiuto è un tipo di relazione umana (Mucchielli, r 98 3 ) che presenta analogie con l e relazioni amicali, pastorali, familiari. Ognuna di esse, infatti, è finalizzata a soddisfare necessità umane pri­ marie (Brammer, 1 9 7 3 ) . I l colloquio è u n tipo di comunicazione interpersonale che utilizza il linguaggio e i segni non verbali, vale a dire posture, mimica, tono; è una comunicazione a senso unico dato che lo sforzo per comprendere l' altro non è reciproco ma appartiene all'intervistatore (Mucchielli, 1 9 8 3 , trad. it. p. 45 ) . «La personalità dei soggetti che si trovano faccia a faccia, così come le loro personali relazioni affettive, costituis cono delle variabili del colloquio, vale a dire dei fattori che intervengono sul " clima" del colloquio, sul suo modo di svolgersi, sul grado di sod­ disfazione o di insoddisfazione dei partner nel colloquio». !7

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

In questo modo le variabili specifiche del colloquio (variabili af­ fettive, variabili esterne di spazio/tempo, di contesto sociale, di ap­ partenenza a gruppi sociali) definiscono le condotte dei partecipanti. Occorre tenere sempre a mente l'obiettivo del colloquio consistente nel fare emergere la realtà dell'utente per comprenderla e portare il soggetto ad esprimere il suo disagio, le sue difficoltà. I .J

La letteratura sul colloquio

Alla fine degli anni quaranta alcuni studiosi (Appel, Strecker, 1 93 6 ; Whitehorn, 1 944; Ebaugh, 1 948 ; Coleman, 1 947; Powdermaker, 1 948) iniziano a riconoscere l'importanza degli aspetti emotivi della relazio­ ne tra paziente e psichiatra nel momento della raccolta anamnestica. Tali aspetti sembrano in grado di condizionare l' andamento del collo­ quio e la raccolta degli elementi atti all'individuazione di una corretta diagnosi (Lang, 1 9 8 9 ) . Solo negli anni cinquanta il colloquio, quale relazione complessa connotata dagli atteggiamenti reciproci di intervi­ statore e intervistato, diviene oggetto di analisi sistematica. Per Sullivan ( 1 954) il colloquio psichiatrico è anzitutto una " co­ municazione vocale " in cui l'intervistatore non effettua una semplice osservazione dei dati che emergono dal colloquio, ma vi partecipa at­ tivamente, sia con le proprie reazioni emotive sia sentendosi parte in­ tegrante di una situazione sociale: lo psichiatra è cioè un "osservato­ re-partecipante " . Il colloquio si qualifica quindi come una situazione di reciproca influenza, fondata su un processo bilaterale, in cui l'intervistato è in­ fluenzato dall'intervistatore che ne subisce a sua volta l'influenza. Secondo Sullivan il colloquio si articola in diverse fasi. Nella fase iniziale l'intervistatore accoglie la persona e raccoglie notizie sulle motivazioni che l'hanno spinta a rivolgersi ad un esperto cercando di individuare il bisogno reale del paziente. La seconda fase, definita di riconoscimento, mira a fornire allo psichiatra un quadro dell'identità e dei problemi dell'intervistato. Segue la fase dell'indagi­ ne dettagliata nella quale lo psichiatra verifica le impressioni riportate in quella precedente e le trasforma in ipotesi. Per Sullivan in ogni colloquio è sempre presente l'ansia, originata dalle difese messe in atto dal paziente allo scopo di proteggere la sti­ ma di sé; l'intervistatore deve tener sempre conto di tali reazioni più o meno manifeste. Nella fase finale l'operatore, anche se dovesse con­ siderare concluso il suo lavoro e decidesse di non rivedere il paziente, deve consolidare i progressi fatti nel corso del colloquio il cui scopo 18

I. ORIDJTAME:'oJTI SUL COLLOQUIO CLINICO

è quello di soddisfare l'intervistato. Lo psichiatra riassume quindi le sue impressioni e, qualora il colloquio dovesse avere seguito, comuni­ ca all'intervistato le prescrizioni in cui egli si deve impegnare. Taie modello di colloquio si fonda sulla convinzione che la perso­ nalità si manifesti nelle relazioni interpersonali e che esse siano il campo specifico della psichiatria (Sullivan, I 9 3 8 , I 94o) . Per Rogers ( I 9 5 I ) bisogna evitare di considerare il colloquio come una relazione statica di tipo unilaterale, tra un esperto che " sa" e un paziente che "non sa" . Egli approda ad un modello di colloquio differente da quello elaborato da Sullivan. lnvero, Rogers ritiene che la tendenza ad oggettivare il cliente di­ venga facilmente una difesa dell'intervistatore timoroso di rimanere coinvolto nella relazione. Chi conduce il colloquio deve invece porsi in una condizione di comprensione " empatica" del paziente, facendo sì che le autodescrizioni da questo fornite siano la fonte diretta di informazioni sull'individuo e che la personalità del paziente venga così rivelata da quanto egli dice di se stesso. A sua volta lo psicotera­ peuta non si pone in una posizione " giudicante" , ma si rende dispo­ nibile al paziente, sapendolo ascoltare. Tale concezione del colloquio nasce dalla convinzione che esista nel soggetto una disposizione alla maturazione, che può essere osta­ colata da esperienze che turbano l'immagine che egli ha di sé ponen­ dolo in una situazione di " disaccordo interno " . È sulla base di questi assunti fondamentali che Rogers ( I 9 5 I ) s ot­ tolinea l'importanza per l'intervistatore di non fare domande, di non dare interpretazioni, ma di lasciare libero l'intervistato, as coltando ciò che egli ha da dire. Sulla scia di Sullivan si pone anche la Fromm-Reichmann ( I 95 o ) che condivide l'assunto del ruolo dello psichiatra come "osservatore partecipante" . Kahn e Canne! ( I 9 5 7 ) concepiscono - secondo la tradizione ro­ gersiana - il colloquio come un " continuo flusso di comunicazione" tra intervistato e intervistatore, flusso in cui le forze che possono ostacolare la comunicazione sono state eliminate o ridotte. Alla fine degli anni sessanta compaiono le interviste strutturate e semistrutturate che hanno lo scopo di consolidare l' attendibilità dello psichiatra, riducendo l'influenza di variabili quali, ad esempio, la tec­ nica adottata dall'intervistatore o le risposte fornite dal paziente; si tratta di un'alternativa al colloquio, che appare all'epoca uno stru­ mento scientificamente poco attendibile per la formulazione di una diagnosi valida e "oggettiva" . L'intervista, inoltre, consente di elimiI9

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

nare quelle componenti ansiogene e quelle reazioni emotive cui il cli­ nico è soggetto durante il colloquio . Secondo Kahn e Cannel ( 1 95 7 , trad. it. p. 3 0 ) l'intervista è: una forma specializzata di interazione verbale, iniziata per uno scopo parti­ colare, e messa a fuoco sulla stessa area specifica di contenuto, con la con­ seguente eliminazione del materiale estraneo. Più ancora, l'intervista è una forma di interazione in cui il rapporto di ruolo dell'intervistatore e dell'in­ tervistato è estremamente specializzato e le sue caratteristiche specifiche di­ pendono dallo scopo e dal carattere dell'intervista.

Schafer ( 1 954) ha sviluppato ipotesi degne di attenzione sulla dinami­ ca dell'esaminatore e dell'esaminato nel suo lavoro riguardante l' inter­ pretazione psicoanalitica del test di Rorschach in cui ha preso in con­ siderazione il rapporto interpersonale avente aspetti realistici e non realistici che si riscontra durante il test . Egli mostra che anche quan­ do si impiega un test, tra esaminatore ed esaminando si struttura una relazione animata da variabili di tipo personale e soggettivo; tali va­ riabili hanno effetti sull'interpretazione cosicché non vanno ignorate ( Stella, Ugazio, Porcelli, 1 992 ) . L a convinzione che s i debba agire in modo diverso a seconda dei singoli " casi " che si presentano è tipica viceversa dell'approccio psi­ coanalitico . Già Freud ( I 9 1 3 - 1 4), riguardo all'inizio del trattamento aveva consigliato agli analisti di non standardizzare la tecnica, cioè di far parlare il paziente lasciando a lui la scelta del "punto di parten­ za " . Questo non significa che la funzione dell' analista debba essere "passiva" nel senso stretto del termine. Lo psichiatra o l'intervistatore deve quindi valutare le modalità con cui l'individuo fornisce le informazioni che lo riguardano, perché queste dipendono dal suo disturbo psichico. L'obiettivo è individuare, attraverso la patologia del soggetto, la relazione clinica, orientando il colloquio su alcuni nuclei specifici, se­ condo modelli di tipo psicodinamico e suscitando nel paziente reazio­ ni di tipo emotivo. La funzione dell'intervistatore non è quindi "pas­ siva " in senso stretto poiché, nonostante la patologia del paziente orienti le modalità d'indagine, l'andamento e l'esito del colloquio di­ pendono in larga parte anche dagli elementi introdotti dall'esaminato­ re: il linguaggio da questo adottato e la capacità di instaurare con il soggetto una relazione " empatica " . Emergono dunque alcune raccomandazioni generali che il clinico deve considerare quando si rivolge all'intervistato. Awalersi di un linguaggio tecnico è - per la maggior parte degli 20

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autori - un errore, soprattutto se l'intervistato non ha una cultura tale da consentirgli di comprendere le parole dell'esaminatore. Ciò può infatti aumentare lo stato d'ansia in cui si trova il paziente, osta­ colando l'instaurarsi di una reazione emotiva utile al colloquio. L' atteggiamento empatico dell'intervistatore nei confronti dell'esa­ minato è la seconda componente che influenza l'esito del colloquio: il soggetto deve percepire un reale interesse da parte dell'esaminatore, una partecipazione emotiva ai suoi problemi. Gli anni ottanta sono estremamente significativi per ciò che con­ cerne la struttura teorica del colloquio clinico: in questo periodo, in­ fatti, viene raggiunta la piena consapevolezza che non esiste " un mo­ dello" di colloquio applicabile in tutte le situazioni, ma che l' approc­ cio al paziente è caratterizzato da molte variabili, tra cui le capacità dello psicologo clinico, il tipo di disturbo psichico da cui è affetto il paziente, l'ambiente stesso in cui il colloquio si svolge. Il colloquio clinico si qualifica quindi come uno strumento di grande importanza, valido ed efficace nella misura in cui viene utilizzato in modo flessi­ bile. Kernberg ( I 9 8 I ) elabora un modello di intervista strutturale che tiene conto di quanto appena detto . L'esaminatore non può seguire una traccia prestabilita perché ogni intervista varia a seconda del di­ sturbo psichico del paziente e della personalità di chi la conduce. Semi (I 98 5) considera la raccolta dell'anamnesi del paziente di minore importanza rispetto alla sua realtà psichica. Ogni colloquio, per l' autore, è fondato su tre regole: I . la regola de/linguaggio: questa regola impone che l'operatore uti­ lizzi il linguaggio del paziente, ma non lo subisca in modo passivo. La regola del linguaggio implica considerare i rapporti tra linguaggio e cultura etnica, tra linguaggio e personalità, e l'apprendimento del linguaggio nel bambino; 2 . la regola della frustrazione: l' esaminatore deve evitare di soddisfare i bisogni consci ed inconsci del paziente, esclusi ovviamente quelli che lo aiutano ad avere una concezione più chiara di sé ( questa rego­ la si basa sul principio economico) ; 3· l a regola della reciprocità: questa regola significa che a l termine del colloquio il paziente deve sentire di aver ricevuto almeno tanto quan­ to ha dato. Semi ( 1 9 8 5 ) suddivide il colloquio secondo una scansione di tipo temporale in : preliminari, inizio e riconoscimento, fase libera, valuta­ zione della fase libera e costituzione dell'ipotesi di lavoro, uso clinico dell'ipotesi di lavoro ed esito del colloquio, conclusione reale del colloquio. 21

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Durante la fase libera del colloquio, l'intervistatore lascia che il paziente parli di sé concentrandosi non solo su quello che dice, ma su come lo dice. La fase conclusiva si articola in due tempi : vi è innanzitutto la chiusura materiale del rapporto tra intervistatore ed intervistato e successivamente, nel dopo- colloquio, un'ulteriore chiusura " emotiva" , di grande valore sia per il paziente che per lo psicologo, vissuta ov­ viamente in modo diverso a seconda del ruolo e della personalità di ciascuno . Sono state effettuate molteplici ricerche sperimentali sull'intervi­ sta, in particolare negli Stati Uniti, partendo dall'ipotesi che il collo­ quio sarebbe analizzabile scientificamente, controllabile e manipolabi­ le in laboratorio . Vengono impiegate situazioni sperimentali di labora­ torio (experimental analogues) simili alla circostanza di intervista, ma esposte al ris chio dell' artificialità. Mediante l' analisi delle variabili presenti nella relazione tra intervistatore e intervistato, tali studi mira­ no a controllare e a prevedere l'andamento dell'intervista e la condot­ ta delle persone coinvolte nell'interazione ( Stella, Ugazio, Porcelli, 1 9 92 ) . Negli anni cinquanta- sessanta gli studi sul colloquio erano in­ dirizzati specialmente all'analisi del contenuto (Henry, Moscovici, 1 968; Bardin, 1 97 7 ) e al condizionamento verbale (Greenspoon, 1 962; Kanfer, 1 96 8 ) al fine di controllare e influenzare il comportamento verbale dell'intervistato. Dagli anni cinquanta gli studi di Matarazzo e collaboratori sono rivolti alle proprietà formali del colloquio. La valutazione della perso­ nalità è legata all'interazione che si instaura tra un soggetto e l' altro (ad esempio paziente-terapeuta) che permette all'individuo di esterna­ re i suoi modelli comportamentali relazionali (Saslow, Matarazzo, Gu­ ze, 1 9 5 5 ) cosicché l'intervistatore ricoprirebbe il ruolo di variabile in­ dipendente e l'intervistato di variabile dipendente. L' autore, come strumenti di ricerca, utilizza l' Interaction Chronograph, ideato da Chapple ( 1 94 2 ) , l'Interaction Recorder e il Multiple Interaction Recar­ der. L'Interaction Chronograph comprende una cabina di osservazio­ ne dotata di specchio unidirezionale e di un sistema per la registra­ zione. La cabina include alcuni tasti connessi all'impianto di registra­ zione e pertinenti ai due individui interagenti; premendoli l'osservato­ re registra i tempi interattivi dei due partecipanti. Le variabili tempo­ rali sarebbero gli indicatori dei comportamenti e degli stati motiva­ zionali sottostanti . Il limite di questi programmi è forse quello di spiegare il contesto interattivo unicamente per mezzo dell'analisi temporale. Cassotta, Feldstein e Jaffe ( 1 9 64) hanno elaborato l'Automatic Vo22

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cal Transaction Analyser, un sistema automatico di registrazione com­ puterizzata dei modelli temporali di interazione intervistatore-intervi­ stato. Alcuni ricercatori tra i quali Webb ( 1 97 2 ) hanno ideato l'intervi­ sta automatica in cui l'intervistatore è assente fisicamente, le risposte derivanti da un'anteriore audioregistrazione sono automatiche, vengo­ no rimossi gli stimoli non verbali (ad esempio pastura, espressioni facciali ) , si assiste ad una ripetizione degli interventi dell'intervistato­ re-variabile indipendente in diverse interviste. I limiti vanno ascritti al fatto che le comunicazioni dell'intervistatore sono generiche così come i temi affrontati e l'ambito del colloquio distorto. Heller ( I 97 2 ) sostiene che la relazione tra intervistatore e intervi­ stato è una " relazione reciprocamente condizionata" , nella quale la condotta di ognuno influisce su quella dell'altro. Molte ricerche hanno preso in esame gli agenti che favoriscono la comunicazione tra intervistatore ed intervistato. Identifichiamo due correnti. La prima tende a rilevare peculiarità quali posizione sociale, età, sesso, tipo di personalità degli individui interagenti ( soprattutto dell'intervistatore) che agevolerebbero lo scambio comunicativo; la se­ conda, della quale si sono occupati molti studiosi (ad esempio Sieg­ man, Pope, Heller, Marlatt) in questi ultimi anni, si focalizza sulle variabili del processo comunicativo e analizza le modalità di condu­ zione che rendono scorrevole la comunicazione. «Sembra quindi necessario che ci si orienti, più che a ricercare uno stile di intervista ritenuto ottimale in tutte le situazioni e quin­ di necessariamente astratto, ad individuare le condizioni, sia relative ai soggetti che alle situazioni contestuali, in base alle quali scegliere lo stile relazionale più appropriato» (Stella, Ugazio, Porcelli, 1 9 9 2 , p. 5 1 ) . I. 3 . I.

Teorie cliniche dell' interazione

Si tratta di adottare una strategia conoscitiva differente da un classico procedimento di tipo "indiziario " che postula: I. la possibilità di ottenere una conoscenza oggettiva e potenzial­ mente esaustiva della realtà del paziente; 2 . l'esistenza di una realtà " interna" al paziente, contrapposta ad una realtà " esterna" ed altrettanto " oggettiva " ; 3 · l'attribuzione al terapeuta di particolari " doti" e competenze pro­ fessionali che permetterebbero l'accesso a dimensioni nascoste. Si so­ stiene, viceversa, la possibilità di modificare nella seduta ciò che ap­ pare come la " realtà oggettiva " , creando una differente e nuova "real-

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tà" altrettanto "oggettiva" . Occorre allora che nella seduta si possano valutare le condotte possibili del paziente in funzione della terapia e, più specificatamente, della terapia con quel particolare psicoterapeu­ ta. Il terapeuta deve quindi focalizzare la sua attenzione sul processo di orientamento che riguarda la specifica coppia in interazione nel presente. È dunque nel dominio costituito nel presente della seduta che si svolge tale processo, attraverso l'attuazione di una chiusura or­ ganizzazionale di un nuovo sistema che comprende paziente e psico­ terapeuta. In ambito psicoanalitico possiamo ritrovare taluni nuclei tematici di quelli che a buon diritto possiamo ritenere sottostare al senso co­ mune. Tra questi il fatto di intendere il processo conoscitivo come attività intesa a " riprodurre" una realtà che da questo processo do­ vrebbe essere indipendente e che ad esso preesisterebbe. Tali proces­ si, nella genesi di disturbi, sarebbero così sottoposti a deformazioni o a rimozioni secondo quanto esplicitato nelle considerazioni teoriche degli Studi sull'isteria ( r 892-95 ) scritte da Breuer. È sulla scorta di tali assunti non esplicitati, e quindi non soggetti a critica e correzione, che anche oggi molti autori sostengono che l'efficacia della terapia psicoanalitica dipenda dalla sua capacità di ap­ portare "verità" ad un apparato mentale che di essa parrebbe nutrirsi quale fosse un "buon cibo " . In ciò viene ripresa, anche se trasfigura­ ta, la tradizionale considerazione dell'insight psicoanalitico quale fat­ tore primariamente terapeutico in un processo di "scoperta" delle origini di un disturbo o comunque di un evento psichico. In tal modo si dà per scontato che un soggetto conoscente possa scoprire o rappresentarsi la realtà antologica, e che questa percezione potenzialmente corretta possa essere disturbata da forze rimoventi o da proiezioni. Si considera cioè il processo percettivo come riprodu­ zione di una realtà esterna al soggetto che può essere disturbato da forze inconsce. Freud e Breuer ( r 892-95 ) così intendevano quando, prima della definizione dei fenomeni transferali, ritenevano di avere a che fare con una percezione distorta della figura del medico . Nella tradizione psicoanalitica permangono posizioni innatiste che fanno ri­ ferimento all'attivazione di idee innate o preconcezioni che riflette­ rebbero la struttura fondamentale del mondo. A tutto ciò sono com­ presenti posizioni empiriste che portano all'idea di un apparato men­ tale capace di trattare elementi bruti provenienti dall'attività dei sensi da " fuori " , dal mondo esterno, cui a sua volta viene contrapposto un mondo interno. Ed anche questi elementi sono considerati sostanzial­ mente indipendenti da chi o cosa li tratta ed elabora (Lakoff, John­ son, r 98 o ) .

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Come sempre il riferimento agli eventi clinici porta quanto meno ad un ampliamento del ventaglio dei problemi da affrontare e da chiarire. Si pone un antico problema di interesse filosofico allo psi­ coanalista che ascolta un paziente descrivere come " minacciosa" la stanza dell'analisi, oppure "più ampia" della seduta precedente, o più luminosa, oppure che nota per la prima volta una pianta estremamen­ te appariscente. Ossia come potremmo conoscere la corrispondenza tra la rappresentazione realistica o adeguata della stanza e quella de­ formata dalle proiezioni o rimozioni del paziente con la stanza cui si riferiscono. Forse per questo molti autori oggi rifiutano l'atteggiamento che vuole il terapeuta detentore della percezione adeguata e il paziente di quella patologica. È stata in effetti la psicoanalisi stessa sviluppando i concetti di transfert, controtransfert e proiezioni a permettere di con­ siderare in tal modo questi eventi. Ma ciò mantenendo un indebito residuo delle teorie psicologiche implicitamente utilizzate fin dai tem­ pi degli Studi sull'isteria (Freud, Breuer, 1 892-95 ) . Oggi s i tende a considerare i n primo luogo l a dimensione della relazione terapeutica un vero e proprio nuovo sistema caratterizzato da una specifica fenomenologia. Si è infatti costituita una " chiusura" di un nuovo sistema: il sistema terapeutico che comprende paziente e terapeuta. Si attua un processo che aiuta il paziente a spiegarsi com'è che vede o fa le cose nel modo in cui le fa. Non si tratta dunque di un processo di spiegazione intesa nell'accezione tradizionale, bensì di un processo interattivo in cui si genera qualcosa di nuovo dovuto ai con­ tributi del paziente e del terapeuta. Il processo terapeutico non è in­ teso cioè come un viaggio alla scoperta del mondo interno , ma piut­ tosto come un'esperienza complessa in cui acquisire conoscenza di ta­ lune invarianti e regolarità pertinenti o derivate dalla nostra esperien­ za. Un processo costruttivo di qualcosa che si svolge, ampliandosi, come una spirale aperta verso l'altro. Tale accezione dell'attività tera­ peutica viene a valorizzare pienamente l'opinione di chi non ritiene disgiungibili conoscenza e terapia in psicoanalisi. La conoscenza ac­ quisita su di sé nel trattamento psicoanalitico non riguarda la realtà antologica e non può quindi neppure porsi il problema della verifica o della falsificazione di tale conoscenza, ma piuttosto può essere o no attuabile nella vita e quindi portare allo sviluppo di un modo perso­ nale e creativo di organizzare la propria esperienza di eventi occor­ renti, di confrontare ciò e utilizzarlo o ripeterlo o non ripeterlo, ri­ spetto ad ulteriori eventi. Un tale processo costruttivo contiene vari livelli di circolarità, nei

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quali peraltro non sono rinvenibili elementi di fondazione. Tali livelli spaziano dalla circolarità fondamentale dell'organizzazione vivente al livello cognitivo attraverso l'organizzazione ricorsiva del funzionamen­ to del sistema nervoso. Al livello cognitivo le nostre costruzioni co­ stituiscono anche il nostro modo di conoscere, la nostra condotta. Tutto questo viene dispiegandosi nelle condizioni del setting durante il lavoro terapeutico. La psicoterapia psicoanalitica è esaminata dall'epistemologia clini­ ca come un tipo particolare di interazione umana in cui si attua una chiusura organizzativa di un nuovo sistema comprendente paziente/ terapeuta. L'approccio proposto nello studio dell'interazione terapeu­ tica conduce ad una completa ristrutturazione del campo di indagine in cui attuare la ricerca sulla psicoterapia che attualmente soffre di una limitata coerenza con l'oggetto di indagine. Secondo Freud la ve­ rifica della validità di un intervento è reperibile in ciò che accade suc­ cessivamente all'intervento, e in questo crediamo che dovrebbe essere individuato lo spazio per qualsiasi ricerca di verifica empirica sull' ef­ fetto della terapia. La ricerca si attua in tale prospettiva all'interno del processo terapeutico o all'interno di specifiche condizioni che ne evocano aspetti e che possono essere create allo scopo. Infatti, una peculiarità delle varie tecniche di impostazione psicoa­ nalitica è il trattamento di ciò che avviene nell'hic et n une della sedu­ ta, nell'interazione attuale tra terapeuta e paziente. Questa interazione non si riduce a quella tra paziente e terapeuta, ma consiste nell'inte­ razione di numerose entità, variamente denominate nella letteratura, corrispondenti all'ampia varietà di modi in cui un soggetto, o più soggetti, vengono definendo processi di pensiero e di riflessione su qualcosa su cui hanno deciso di riflettere. Goudsmit ( 1 989a) ha di­ stinto, riprendendo parte della tradizione ermeneutica, due movimen­ ti nell'interazione psicoterapeutica: I. dal fare al dire; 2. dal dire al fare. Questi due movimenti divengono a loro volta oggetto dell'intera­ zione, nel senso che paziente e terapeuta saranno portati a riflettere su questi movimenti nel momento in cui sono in grado di definirli. Si verifica cioè uno spostamento dell'attenzione e ciò secondo un timing che implica che quanto sopra si attui a determinate condizioni tali da mas simizzarne l'effetto. Questi sono passi di un'interazione autoreferenziale che viene a definire un dominio di eventi e che può essere chiamata chiusura organizzativa . 26

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Atwood e Stolorow ( 1 9 84) fanno riferimento in proposito ad un processo di concretizzazione. All'interno di questo dominio si usa distinguere tra setting (pro­ cesso contenitore) ed eventi clinici (oggetto, contenuto) . L a suddivisione proposta d a Goudsmit ( 1 9 89a) può così essere esplicitata: naming: ciò che veniva fatto viene detto (movimento di verbaliz­ zazione). a) "N" trasforma una parte del processo di interazione in oggetto verbale su cui è possibile riflettere ed intervenire. b) Passaggio di livello durante l'interazione verbale per cui tal une particolarità di questa (lapsus) divengono oggetto dell'interazione stessa. Questo nuovo oggetto del discorso potrà essere definito come " descrizione" del processo da cui è derivato, e ne contiene talune proprietà. c) In ogni processo di interazione può essere costruito un oggetto di discussione frutto di "N". execute: ciò che veniva detto viene fatto (movimento verso l' agire o il ripetere). a) "E" trasforma in un processo di interazione qualcosa che veniva detto ( si parla del diavolo e si sente odore di zolfo). b) Passaggio da un oggetto di discussione ad una condotta impronta­ ta al primo. L'ov (oggetto verbale) può essere chiamato "prescrizio­ ne" di questo processo, ne è il modello . Questo nuovo processo avrà talune proprietà dell'ov da cui è derivato. c) Per ogni ov può essere costruito un processo di interazione frutto di "E". Varela (!979) effettua la seguente distinzione: oggetti: possono essere concepiti dagli attori (A), non possono es­ sere eseguiti, sono generati da processi. - processi: non possono essere concepiti da A, possono essere ese­ guiti, generano oggetti . L'oggetto dipende (James, 1 890) dall'atto che lo ha generato: tut­ te le distinzioni e i significati prodotti da una persona derivano da condotte interattive sia interne che esterne a un ambiente. Un ov è in tal modo il passo intermedio tra due processi, cioè la generazione di un ov consiste nell'esecuzione di processi "N" ed "E" attraverso i quali l'ov risulta correlato a processi precedenti e suc­ cessivi. Nell'interazione si genera un processo in grado di generare a sua volta oggetti di livello inferiore. Si può trattare, a tale proposito, di qualcuno che interagisce con qualcun altro o di qualcuno che intera-

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gisce con se stesso, connotando le proprie azioni . Possono darsi due interazioni verbali contemporanee (oggetti) . L'interazione verbale di livello superiore riguarderà la generazione dell'oggetto (interazione verbale) di livello inferiore (Casonato, 1 99!) . Nella situazione terapeutica si attua una conoscenza empatica che coinvolge la dinamica paziente/terapeuta. Questa forma di conoscenza è stata considerata basarsi sulla capa­ cità, più o meno accentuata, del terapeuta di mettersi nei panni del paziente o di percepire le situazioni da un vertice comune. L' adozio­ ne di una prospettiva che ponga al centro dell'indagine il fatto che nella terapia sia stata creata una particolare situazione " transizionale" viene a porre la necessità di una ridefinizione epistemologica dei pro­ cessi conoscitivi in atto coerente col riconoscimento che, data la real­ tà transizionale, l'abituale distinzione soggetto/oggetto nel processo conoscitivo della terapia viene a cadere. In tale prospettiva potremmo considerare che i soggetti (terapeuta/paziente) si muovono in una realtà che si articola da un livello pre-riflessivo di strutture o processi corrispondenti a quei processi primari che von Bertalanffy ( 1 969) ha ritenuto stabilizzazioni di processi (o strutture) su cui si può articola­ re un livello secondario di processi e sistemi. L'evento costituitivo della conoscenza empatica in terapia si deve situare a questo livello pre-riflessivo che viene messo in comune, così che terapeuta e paziente potranno articolare la propria conoscenza su di un medesimo mondo condiviso in cui i confini sé-altro- ambiente abituali sono ristrutturati o aboliti. Il terapeuta può cioè comprendere empaticamente, o essere là dove il paziente lo cerca, proprio perché si situa nel medesimo mon­ do " transizionale" in cui il paziente stesso si colloca. Tutto questo rende ragione inoltre dell'importanza del riferimento e dell'attenzione all' hic et n une: solo il riferimento alla realtà transizionale che si è creata permette l'elaborazione nel momento attuale. Le intera­ zioni "profonde" si possono verificare solamente in tale " spazio " . Winnicott h a sottolineato l'importanza della distinzione tra "pro­ fondo" nella terapia e "precoce " nell'ontogenesi. L'autore cerca infat­ ti di precisare il campo di un fondamentale equivoco ingeneratosi nella tradizione psicoanalitica . Infatti, l'idea che il transfert funzioni come una sorta di "macchina del tempo" che attualizza situazioni di vita precoci o precostituite si sviluppa sin dal pensiero di Freud per accentuarsi in quello della Klein e nelle generazioni successive di ana­ listi. È infatti sulla base di tale equivoco che gli psicoanalisti si sono sovente ritenuti specialisti della vita interiore dell'infanzia, che in real­ tà supponevano semplicemente di osservare trovandosi a contatto 28

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solo con racconti sull'infanzia di pazienti adulti o situazioni relaziona­ li " arcaiche" nell' attualità della realtà clinica. È merito dello psicoana­ lista inglese aver sottolineato per primo questo importante miscono­ scimento della natura sostanzialmente differente di ciò che è profon­ do rispetto a ciò che è precoce. Nella tecnica dello scarabocchio si sviluppa una situazione in cui il terapeuta, consapevolmente, cerca di creare le condizioni per il ve­ rificarsi di modalità di interazione "profonde" e di stati arcaici da un punto di vista psicologico. Tali interazioni profonde possono caratterizzarsi per i livelli di profondità e per la loro natura prevalentemente " non verbale" ben­ ché possano realizzarsi tramite interpretazioni, disegni e commenti che fungono da attivatori di tali stati interattivi. Si tratta di situazioni intime e profonde ben note ai terapeuti che contraddistinguono cer­ tamente gli approcci psicoanalitici. La capacità di realizzare tali stati e tali situazioni apre la strada alla possibilità di sortire un effetto dal­ l' attività clinica capace di incidere realmente sulle strutture pre- rifles­ sive che governano la condotta. Un aspetto importante della tecnica dello scarabocchio si lega alla valutazione della sua efficacia come intervento breve. Un criterio prettamente psicoanalitico enunciato da Winnicott si centra sul recu­ pero o sullo stimolo della capacità di giocare intesa come naturale processo elaborativo che supporta la salute mentale del bambino . La capacità di giocare è l'esito ricercato dalla tecnica dello scara­ bocchio. Vorremmo sottolineare come un criterio prettamente winni­ cottiano nella valutazione dell' efficacia di una psicoterapia sia proprio la " capacità di giocare" . Winnicott ( 1 9 7 1 , 1 9 8 9 ) n e sottolinea l'importanza in più di un'oc­ casione, in primo luogo riguardo ai bambini, anche piccolissimi, e in secondo luogo riguardo agli adulti. La capacità di giocare corrispon­ de cioè alla fine del sintomo, alla ripresa dello sviluppo nel bambino con una maggiore flessibilità rispetto agli eventi della propria vita nell'adulto. 1 . 3 . 2 . La trial therapy Habib Davanloo fu professore alla McGill University a Montreal dove sviluppò un progetto di psicoterapia breve molto ambizioso. La caratteristica più importante di questo progetto psicoterapico che fu denominato a "fuoco ampliato" (broad /ocused) (Davanloo, 1 97 8 , 1 980), consisteva nell'accettare i n psicoterapia almeno u n trentacin­ que per cento dei pazienti psichiatrici, includendo patologie piuttosto

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severe c10e con problemi preedipici, casi di grave fobia e depressi con eventuali differenti aspetti focali da risolvere. Per trattare casi clinici con diagnosi anche severa egli si attiene a scrupolosi colloqui preliminari in cui cerca di: a) formulare una diagnosi clinica il più possibile corretta; b) formulare una diagnosi dinamica delle capacità di adattamento dell'Io, con attenzione ai conflitti consci, inconsci, ai meccanismi di difesa e alla cause interne ed esterne dei problemi. La diagnosi clinica iniziale non è poi tanto importante ai fini dell'inizio della psicotera­ pia, ma viene dato molto valore ad un assaggio delle modalità di rea­ zione del paziente che dovrebbe provare di essere in grado di tollera­ re le successive provocazioni per awantaggiarsene. La modalità psicoterapeutica consiste nell'assumere un ruolo par­ ticolarmente attivo e provocatorio, cercando di: 1 . liberare i sentimenti celati, interpretando le resistenze e le difese; 2. interpretare la relazione di transfert; 3 · proporre, quando sia utile, dei legami tra le figure significative e il rapporto con gli eventi passati ed attuali, sempre utilizzando il tran­ sfert. Scopo della psicoterapia che può durare da poche sedute sino a quaranta, è quello di sostituire un modello nevrotico con uno meno patologico. Sin dall'inizio, come per Malan ( 1 96 3 ) , viene imposto il limite di tempo (time limit) che non può essere prolungato, ma il nu­ mero delle sedute può essere inferiore al previsto ( di solito circa venticinque) . Il lavoro dello psicoterapeuta si attiene allo schema dei due triangoli IAD cioè Impulso, Angoscia, Difesa e TCP cioè Transfert, re­ lazioni Correnti, relazioni Passate. Il procedere della terapia di Da­ vanloo risulta molto attivo e provocatorio, mirante cioè a scalfire la rimozione. La sua psicoterapia cerca di mettere continuamente a confronto le parti consce, preconsce ed inconsce del paziente con connessioni che vanno dal passato al presente recente, poi al tempo attuale e infine al " qui e ora" . In particolare, l'aggressività viene messa in rilievo dallo psicotera­ peuta con coraggiosa sfida, offrendo un modello sicuro, o almeno ras­ sicurante, affinché il paziente impari a non temerla e a prenderne co­ scienza. Davanloo cerca di evitare l'instaurarsi della nevrosi di tran­ sfert e la regressione come ogni forma di dipendenza affettiva. A differenza di Malan, non considera molto importante la motiva­ zione del paziente a farsi curare, vedendola inclusa nella resistenza e nel tipo di patologia presentata. La psicoterapia si conclude quando il

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paziente ha sviluppato un discreto insight emotivo e cognitivo nei confronti del problema nucleare . Il successo nei risultati terapeutici sembrerebbe molto alto a di­ stanza di sei o sette anni di indagine longitudinale (follow up) : le ri­ cadute sarebbero inferiori al quaranta per cento. Se la tecnica così pressante si presta ad essere criticata all'inizio facendo apparire i pa­ zienti come dei perseguitati, in seguito l'osservazione che gli stessi p a­ zienti rinunciano ai sintomi nevrotici e per giunta si dimostrano rico­ noscenti al terapeuta, consegna a questo procedimento un' aria quasi miracolosa. Ci appare particolarmente significativa la struttura di intervista strutturata proposta da Davanloo ( 1 97 8 , 1 9 8o) secondo le modalità della trial therapy. Ci appaiono soprattutto efficaci le mosse che l' au­ tore si propone di attuare per creare il campo di esplorazione del col­ loquio. Tale strategia di conduzione dell'intervista è definita e codifi­ cata all'interno di una concezione tradizionale, ma risulta suscettibile di un'interpretazione nel framework costruttivista che andiamo pro­ ponendo come costruzione di una dimensione esperienziale in cui i processi indagati sono riprodotti, cosicché il terapeuta può studiarli dal punto di vista di un sistema posto internamente alla dinamica da chiarire. La concezione tradizionale portava a individuare alcune fasi del­ l' intervista connesse linearmente che si succedono l'una all'altra. Vi­ ceversa, la nostra concezione, che possiamo ritrovare in modo non esplicito nella tecnica di intervista di Davanloo ( 1 97 8 , 1 9 8o), prevede la costruzione successiva di livelli entro i quali si svolge l'orientamen­ to . Il livello che abbiamo definito "profondo " dal punto di vista del­ l'interazione corrisponde a un livello di complessità clinica più eleva­ to in grado di spiegare altri livelli che in esso saranno inclusi. Questo perciò permette la costituzione di un focus su cui imperniare il trat­ tamento. Come ha sostenuto Davis ( 1 990, p. 7 9 ) : «L'intervista procede abi­ tualmente secondo una forma a spirale che richiede la ripetizione del­ le fasi precedenti». In un tale modo di concepire l'interazione trovia­ mo l'intuizione teorica in conflitto con la teoria esplicitamente adotta­ ta e derivata dalla metapsicologia: i livelli successivi includono i pre­ cedenti piuttosto che succedersi linearmente. Passiamo dunque ad esaminare le fasi, o meglio i livelli, che si costituiscono nell'intervista secondo Davanloo ( 1 9 8 8b) e che ripro­ porremo in termini costruttivisti. Seguendo un assunto metapsicologico Davanloo ( 1 97 8 , 1 986) ha definito la sua una tecnica per liberare l'inconscio. Ciononostante,

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malgrado tali pesanti vincoli teorici la struttura dell'intervista che propone appare assai fruttuosa e suscettibile di sviluppi. L' autore ha strutturato il suo sistema per impostare una trial therapy per la valu­ tazione dell'utilizzabilità della sua tecnica di terapia dinamica intensi­ va breve secondo una " sequenza dinamica centrale" che consiste in fasi successive. Ogni fase ha degli scopi specifici con specifiche mosse di tecnica per realizzarli. Le risposte provenienti dal paziente agli in­ terventi dell'intervistatore sono valutate al fine di determinare quando lo scopo di ogni fase è stato ottenuto, cosi da procedere per la fase successiva. Davis ( 1 990) ritiene che le fasi della sequenza dinamica centrale raramente seguano una successione lineare, e piuttosto si ve­ rifichi un andamento a spirale in cui spesso diverse fasi operano si­ multaneamente. Davanloo ( r 9 88b) così descrive le fasi dell'intervista:

- Fase r : a) indagine volta a d esplorare l e difficoltà del paziente e la sua capa­ cità iniziale di rispondere;

b) identificazione e chiarificazione rapida delle difese del paziente. - Fase 2 : Pressione che stimoli la resistenza nella forma di una serie di difese

- Fase ; : Chiarificazione delle difese: a) chiarificazione, sfida alle difese, far emergere e sviluppare il tran­ sfert e una resistenza accentuata; b) sfida diretta verso l'alleanza terapeutica; c) far riconoscere al paziente le sue difese che hanno paralizzato il suo funzionamento; d) rivolgere il paziente contro le sue difese. Fase 4: Resistenza di transfert : a) chiarificazione e sfida della resistenza di transfert; b) rotta di collisione con la resistenza di transfert con speciale riferi­ mento a quella mantenuta dal Super-io; c) esaurimento della resistenza e comunicazione dell'alleanza tera­ peutica inconscia. - Fase 5 : Crisi intrapsichica: a) alta tensione nei complessi sentimenti transferali, breccia dei sen­ timenti di transfert - elemento chiave della de-repressione dell'in­ cons cio; b) fase interpretativa. - Fase 6: Analisi sistematica del transfert che conduca ad una riso­ luzione della resistenza residua con una parziale o maggiore de-re­ pressione del passato prossimo e dei conflitti remoti. - Fase 7: Indagare, completando l'approccio dinamico fenomenolo-

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gico alla psicopatologia del paziente, storia medico-psichiatrica, socia­ le, genetico-evolutiva. - Fase 8 : Visione diretta della struttura del nucleo nevrotico multi­ focale e della sua relazione col sintomo del paziente e con i suoi di­ sturbi del carattere, e stesura di un piano terapeutico (Davanloo, 1 988b, pp. 99- 1 00 ) . L o scopo dell'intervista è quello d i esplorare l e difficoltà del pa­ ziente in termini di sintomi psichiatrici e di relazioni correnti rilevan­ ti. L'approccio viene definito dinamico-fenomenologico e viene pro­ posto in termini teorici non dissimili da quelli di Kernberg ( r 976, 1 984) o di Pao ( 1 97 9 ) . L o scopo esplicito dell'intervista è quello d i permettere al valuta­ tore di determinare approssimativamente la gamma dei disturbi men­ tali del paziente e se questi può essere un candidato potenziale per la liberazione dell'inconscio. Diviene rilevante, una volta verificata que­ sta pos sibilità, determinare il tipo specifico di liberazione dell'incon­ scio utile al paziente. L' autore ha progettato la "valutazione psicodia­ gnostica " per mettere in grado il valutatore di determinare la proce­ dura più efficace di accesso al particolare inconscio del paziente in questione. Possiamo rinvenire facilmente caratteristiche del tutto clas­ siche nella teorizzazione di questa modalità di intervista a causa del­ l' applicazione di concetti metapsicologici e di concezioni cliniche ad essi correlate. Comunque, la prassi e le mosse relazionali che ne fan­ no parte sono molto più libere dai vincoli metapsicologici di quanto gli stessi autori paiano credere (Casonato, 1 99 1 ) .

La struttura interattiva dell'intervista Cercheremo di mostrare come il colloquio della trial therapy, sistema­ rizzato da Davanloo ( 1 9 8 0 ) , possa essere sviluppato in modo costrut­ tivista come metodo di definizione consensuale di un campo e dei suoi oggetti : di una realtà transitoria specifica della seduta, di uno spazio, o campo, transizionale utili e adatti a fini clinici. La struttura del colloquio segue la costituzione di livelli di comu­ nicazione e interazione più o meno profondi nella dimensione espe­ rienziale co- definita da terapeuta e paziente. Il colloquio permette cioè di costituire prima e orientarsi poi in questa delimitata realtà. Essa si è definita con le condizioni del setting e condensa in sé, nel­ l' unico modo conoscibile, i temi essenziali del paziente come vengono esprimendosi nel rapporto con il terapeuta. Questi sviluppa l'intera­ zione in modo da delimitare nuove partizioni dell'esperienza nella se­ duta. Tali " entità" , costituite nell'interazione, interferiranno con l'in33

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terazione stessa modificando la condotta di orientamento dei soggetti. La "profondità" dell'interazione viene così costruita attraverso mosse relazionali che sovvertono progressivamente le regolazioni linguistiche e relazionali del colloquio extraclinico. Vediamo dunque la rilettura costruttivista del colloquio secondo la tecnica di Davanloo ( r 9 8o) che, a causa della sua sistematizzazione e diffusione, si pone come caso esemplare particolarmente nitido a fini espositivi, a differenza delle sedute psicoanalitiche che finis cono con l' avere strutture più deformabili e quindi più difficilmente indi­ viduabili. Quanto segue è la rilettura costruttivista dell'intervista di questo autore, che nella versione originale è definita utilizzando molti con­ cetti metapsicologici; abbiamo cercato di ricostruirla secondo la con­ cettualizzazione dell'interazione terapeutica da noi precedentemente illustrata che riprende e sviluppa il modello della costruzione di livelli dell'interazione proposto da Goudsmit ( r 9 89a).

- Fase 1 a) indagine della reattività del paziente attraverso l'esplorazione delle sue difficoltà. Lo psicoterapeuta stimola la co- costruzione di un pri­ mo livello relazionale che appare strettamente affine ad interazioni extracliniche rispetto alla profondità che la relazione assumerà suc­ cessivamente; b) lo psicoterapeuta cerca di definire e individuare le strategie usate dal paziente in rapporto con lui. Tutto ciò è in grado di fornire al terapeuta informazioni sulle modalità relazionali del paziente e sui co­ strutti semantici con i quali egli si orienta nel reale. In questa sottofa­ se l'intervistatore consolida l'interazione attraverso un suo rapido orientamento nel primo livello interattivo costituitosi. L'intervistatore definisce e delimita cioè talune strategie relazionali del paziente e le spiazza " chiarificandole" , cioè trasformandole da un processo relazionale in atto in un oggetto verbale (ibid. ) su cui si a t­ tua un nuovo processo relazionale di diverso livello .

- Fase 2 a) il terapeuta attua una pressione psicologica che permette il dispie­ gamento da parte del paziente delle mosse relazionali che utilizza ti­ picamente nelle situazioni di difficoltà. In questa fase si verifica un'e­ stensione, o generalizzazione, della strategia dell'intervistatore e della collaborazione dell'intervistato. Si attua cioè la co- costruzione della resistenza, intesa come fenomeno clinico e un utilizzo di tutto ciò nella costruzione delle fasi del processo dell'intervista. La resistenza non viene scoperta ma è costruita come partizione dell'esperienza. 34

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Fase 3 a) il terapeuta " chiarifica" le difese, cioè trasforma il processo clinico in atto in un oggetto verbale. Si attua una verbalizzazione di livello più profondo rispetto alla precedente secondo il modello della co­ struzione ricorsiva di Goudsmit ( 1 989a). A questo punto l'intervista­ tore " sfida le difese" mirando a suscitare fenomeni transferali con un conseguente incremento della resistenza. Queste mosse relazionali dell'intervistatore nel processo di costruzione della relazione si carat­ terizzano per la comparsa di fenomeni transferali. L'intervistatore cioè introduce se stesso nella costruzione di un oggetto verbale attraverso la " chiarificazione" delle difese; quest' azio­ ne contribuisce a suscitare il transfert dell'intervistatore assumendo un aspetto relazionalmente anomalo rispetto al senso comune in un modo che orienta lo sviluppo dell'interazione sempre più al di fuori delle regole socialmente condivise. Il transfert non viene cioè scoper­ to, bensì è costruito attraverso una specifica strategia conoscitiva che tende a definire degli oggetti e dei processi che includono il tera­ peuta; b) l'intervistatore " sfida" le difese, le descrive come oggetti definiti e condivisi col paziente mettendo in luce le difficoltà relazionali che tali approcci relazionali creano al paziente. Si verifica ancora un passag­ gio da un processo non verbale ad un oggetto verbale su cui può iniziare lo sviluppo di un processo di livello successivo; c) il terapeuta fa appello all'alleanza terapeutica esplicitandola e quindi trasformandola in un " terzo " che viene in aiuto della coppia contro le " resistenze" . Questo passo riorienta il focus del colloquio sull'interazione attuale tra paziente e terapeuta; d) l'intervistatore adesso spiega al paziente, utilizzando quanto si è concretizzato nell'interazione, come le sue strategie relazionali abbia­ no paralizzato il suo funzionamento. Si trasformano cioè le mosse di­ fensive (processo) del paziente nella situazione attuale in un oggetto verbale che viene collocato in una posizione negativa rispetto al modo di presentarsi del paziente. Le mosse difensive sono ora un og­ getto " terzo " esterno ai soggetti dell'interazione, contro le quali si ri­ volge la coppia; e) l'intervistatore tende ad una ridefinizione del campo di interazio­ ne che possa permettere al paziente di modificare le proprie strategie difensive. La fase 3 termina con una riorganizzazione relazionale del dominio dell'intervista, potenzialmente generalizzabile in ambito ex­ traclinico. A questo punto sono stati ridefiniti i confini delle entità in interazione nella seduta. Le " difese " sono un oggetto verbale su cui l'intervistatore e il paziente possono operare attraverso un nuovo pro35

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cesso che si basa sull'alleanza e nel contempo contribuisce a raffor­ zarla.

- Fase 4 a) a questo punto l'interazione è focalizzata sull'interazione stessa cosicché sono disponibili fenomeni transferali sui quali agire . Viene co- definito un oggetto verbale " resistenza di transfert " che permette un collegamento e una generalizzazione con altre situazioni. Si attua allora un processo su tale oggetto verbale che nel contempo sanci­ sce l'identità di tale oggetto verbale e induce contemporaneamente il paziente ad utilizzare, in riferimento all'intervistatore, un' estensio­ ne di strategie utilizzate in precedenza e che potevano essere solo des critte; b) l'intervistatore attiva un processo non verbale, definendo contem­ poraneamente nell'interazione una parte del dominio clinico su cui centrare il focus dell'interazione attuale. Questo è il "luogo " nucleare dell'intervista e mette in gioco nell'interazione processi che per defi­ nizione consensuale erano collocati in una posizione "interna" al sog­ getto e a lui gerarchicamente superiore. Attraverso questa mossa, tale entità diviene " esterna" al soggetto in modo che è possibile fronteg­ giarla con più strumenti relazionali e psicologici; c) si esaurisce la resistenza e l'intervistatore definisce un nuovo og­ getto verbale che viene a delimitare e definire parti dell'interazione. Tale oggetto è l'alleanza terapeutica inconscia: l'intervistatore ha due alleati, l' alleanza terapeutica e l' alleanza terapeutica inconscia.

- Fase 5 a) l'intervistatore stimola una co- definizione di processi attivi nell'in­ terazione che sono trasformati in oggetti verbali corrispondenti a sen­ timenti diretti all'intervistatore nelle loro complesse sfaccettature emotive. Questo è un meccanismo chiave dell'interazione profonda e dell'attivazione di modalità relazionali arcaiche. Con la costituzione di questo livello "profondo" dell'interazione si costruisce il focus rela­ zionale su cui può essere impostata la psicoterapia; questa presuppo­ ne un dialogo intrapsichico tra interlocutori interni, emissari di vissu­ ti, voci, esperienze passate significative per il soggetto che lavorano in una specie di teatro della mente, collocate in un certo periodo del tempo mentale del soggetto; b) se tutto il processo ricorsivo attuatosi durante l'intervista ha se­ guito una modalità interpretativa nel senso definito da Goudsmit ( 1 989a), questo momento riguarda specificamente l' emissione da par­ te dell'intervistatore delle più tradizionali asserzioni psicoanalitiche, che seguono le linee definite dalle narrative rese disponibili dalle va­ rie teorie cliniche psicoanalitiche.

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Fase 6, che consiste in un movimento che dall'interazione "pro­ fonda" tende a spostare l'interazione a livelli più superficiali, mag­ giormente vicini alle forme extracliniche. Si attua una costruzione in­ terattiva in cui il passato remoto, il passato prossimo e il presente sono connessi attraverso gli elementi transferali disponibili nella sedu­ ta. Vengono ricapitolate fasi precedenti dell'intervista e di situazioni extracliniche.

- Fase 7 a) l'intervista, situata su di un livello di interazione simile a intera­ zioni extracliniche, si rivolge alla fenomenologia dei disturbi del pa­ ziente raccogliendo informazioni e costruendo la storia medica, psi­ chica, sociale ed evolutiva di questi; b) l'intervista si dirige sempre più verso la superficie dell'interazione mano a mano che si avvicina il termine della seduta. L'indagine anamnestica si verifica in questo momento poiché i rapporti tra pas­ sato e presente in senso psicologico si sono modificati nel corso della seduta. - Fase 8 , nella quale viene esplicitato il nucleo nevrotico multifocale del paziente e la sua relazione col sintomo presentato da questi e con i suoi disturbi caratteriali. Questa mossa prelude alla presentazione di un progetto terapeuti­ co al paziente e alla discussione delle sue implicazioni pratiche per l'intervistato. L'intervista si conclude al livello da cui era iniziata rispetto ai li­ velli di interazione possibili e sperimentati effettivamente. Questo li­ vello include una serie di esperienze attuali o passate che prima non erano incluse. Si è attuato dunque un orientamento dell'intervistatore nel dominio delle interazioni cliniche possibili con tale paziente. Su tale materiale l'intervistatore potrà costruire ulteriori ipotesi. Sulla base di tale conoscenza relazionale diviene possibile proporre una te­ rapia (Casonato, r 9 9 r ) . r . 3 . 3 . Intersoggettività Un problema centrale che si pone nell'ambito del progetto di ricerca sulla psicoterapia concerne un processo in corso in cui si sviluppa un'organizzazione (Atwood, Stolorow, r 9 84) che delinea dei processi dei quali possiamo riconoscere la specifica identità e un utilizzo nuo­ vo degli schemi di condotta disponibili. Tale identità organizzazionale può essere accessibile all'indagine attraverso un esame dei racconti che possono essere raccolti tramite sedute, interviste e altri metodi di rilevazione. 37

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Le storie possono essere definite come ciò che viene detto o può esserlo riguardo alla vita, i sui obiettivi e la propria partecipazione a quanto si ritiene che la caratterizzi. Un sottoproblema da esaminare nell'ambito di una simile indagi­ ne è la rottura e ristrutturazione di precedenti identità di strutture interattive (sé) . Infatti, la confluenza di sistemi nella costituzione di un nuovo si­ stema può implicare una distruzione parziale o totale dei sistemi in questione e la loro ridefinizione in rapporto con nuovi sistemi intera­ genti. D'altra parte, l' alterazione del funzionamento dei sistemi, in virtù degli eventi che ne perturbano il funzionamento, non può essere riconosciuta dal sistema stesso se non nei termini della sua stessa struttura che può esprimersi al livello della sua storia. Il sistema cioè tenderà a porsi nei confronti del nuovo sistema di cui fa parte in ana­ logia alla propria posizione nel sistema di cui faceva parte, tendendo a mantenere una prospettiva già presente e individuabile nei racconti del paziente e nella sua condotta narrativa . Gli eventi oggetto della ricerca possono essere individuati in ciò che viene o può venire raccontato riguardo al sistema, la cui identità è stata abolita o modificata. La situazione attuale generalmente è omologata al nuovo sistema che altrimenti sarebbe sconosciuto, anche se l'identità di questi non si è ancora " chiusa " . Tutto ciò può essere raccontato . Questa operazione cognitiva viene ad influenzare ai vari livelli il processo stesso di costituzione della nuova identità e le sue modalità operative in senso lato. Ciò è rilevante dal punto di vista del terapeuta in quanto può co­ stituire una sorta di processo occulto che vincola lo sviluppo del pro­ getto a schemi tanto difficilmente individuabili quanto indesiderabili che possono essere considerati " rimossi " , cioè non direttamente ac­ cessibili nel dominio esplorabile della nuova identità. 1. 3 + Le scene modello Analista e paziente costruiscono scene modello (Lichtenberg, 1 9 8 9 ) allo scopo d i organizzare le informazioni precedentemente incom­ prensibili, integrare ulteriormente le conoscenze precedenti, e dare inizio ad un'ulteriore esplorazione dell'esperienza e delle motivazioni dell'analizzando . Le scene modello che analista e paziente costruisco­ no e modificano durante il corso dell' esplorazione analitica trasmetto­ no ad ognuno dei due, in forma grafica e metaforica, eventi significa­ tivi e fatti ripetutisi nella vita dell'analizzando. L'informazione utiliz­ zata per dar forma alle scene modello viene ricavata dalle narrative

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dei pazienti, dalle loro configurazioni transferali svelate o rappresen­ tazioni di ruolo. Nel creare le scene modello, gli analisti sono guidati dalla loro conoscenza circa lo sviluppo normale e patologico. Le sce­ ne modello evidenziano e inglobano le esperienze rappresentative di importanti temi motivazionali, consci e inconsci. Le scene modello si rifanno a tre costrutti: I. una forma di concezione di analista e paziente che sintetizza le comunicazioni significative fornite dall'analizzando e riguardanti la sua vita; 2. una forma di concezione dei teorici analitici e degli studiosi del­ l'infanzia che riassume le esperienze evolutive significative; 3 · una concezione (fantasia inconscia o convinzione patogena) posse­ duta dall'analizzando, la quale riassume le significative esperienze problematiche vissute nel passato (ibid. ) . Il concetto di scene modello : I. è un mezzo per definire l'esperienza relativa a qualsiasi età; 2 . fornisce un valido strumento clinico per spostarsi dall'esperienza generale a quella specifica o particolare del singolo paziente; 3 · fornisce un costrutto teorico che include i contributi dei recenti progressi evolutivi compiuti in psicoanalisi; 4· consente una spiegazione analitica attraverso la quale è possibile integrare passato e presente, primo piano e sfondo, e accesso empati­ co al transfert e alla capacità dell'analisi di fornire risposte. Le scene modello derivano da una varietà di fonti. La scena può essere tratta dalla letteratura quando l'analista riconosce che essa de­ scrive un tema universale, come il mito edipico, o che cattura una specifica configurazione idiosincratica, come nel caso dell'eroico capi­ tano inglese che elegantemente cola a picco con la propria nave. Al­ tre scene modello possono derivare dal trauma infantile, come nel caso del bambino che venne spinto nella sala operatoria. Possono de­ rivare da eventi ordinari dell'infanzia che finiscono con l'occupare una posizione centrale per una particolare persona. Eventi di questo tipo includerebbero la bambina che dà uno strattone all' abito della madre mentre quest'ultima si irrigidisce, o il bambino durante i primi passi che si allontana dalla madre, si rende conto della distanza e si volge indietro , lanciando una sguardo per ricevere rassicurazione o conferma. Le scene modello possono definire l'esperienza relativa a qualsiasi età e qualsiasi motivazione. Le scene modello che si riferiscono alle esperienze normali o pa­ tologiche della prima e seconda infanzia possono recare con sé l'es­ senza delle relazioni e delle motivazioni di un adulto . Lichtenberg ( I 989) descrisse la scena modello di una paziente con 39

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l'immagine di una bambina che dava uno strattone alla gamba della madre o alla gonna della stessa, percependo l'irrigidimento del corpo della madre la quale opponeva resistenza alle molestie della figlia. Questa scena modello illustra uno specifico pattern di ripetizioni di amore e attenzione non corrisposti che continua nella vita adulta del paziente, caratterizzandola. Altri esempi di scene modello relative al­ l'infanzia che gli analisti hanno utilizzato per organizzare e spiegare le scoperte nelle analisi degli adulti sono quelle dei bambini molto pic­ coli che si sforzano di trattenere le feci e oppongono resistenze all'e­ ducazione degli sfinteri (Erikson, 1 950) e quelle dei bambini molto piccoli che si allontanano dalle proprie madri per esplorare l'ambien­ te e, una volta accortisi della distanza, si volgono indietro per lanciare uno sguardo atterrito allo scopo di essere rassicurati (Mahler, Pine, Bergman, 1 9 7 5 ) o uno sguardo eccitato allo scopo di ricevere l'ap­ provazione per le loro rischiose avventure. Le scene modello catturano e definiscono le esperienze evolutive che si verificano durante l'infanzia, la fanciullezza, l'adolescenza o la vita adulta corrente. La rappresentazione può essere (o può non esse­ re) un' esperienza vissuta, reale in quanto sottoposta all'influenza e al­ l' elaborazione dell'esperienza successiva. Le scene modello includono le elaborazioni e le trasformazioni fantasticate alle quali sono soggette tutte le esperienze. Il concetto di scene modello è più ampio dei ri­ cordi di copertura (Freud, 1 8 99) e addirittura li include, e condivide certe funzioni dei processi di distanziamento dagli eventi (Kohut, 1 97 1 ) . In sintesi, i ricordi di copertura vengono creati dal paziente per descrivere un'esperienza indifferente vissuta allo scopo di impedire ( difendersi da) l'emergere, a livello della consapevolezza, di un qual­ cosa che viene visto come disturbante se conos ciuto . Al contrario, le scene modello vengono create dal paziente e dall' analista insieme per descrivere qualcosa che era precedentemente sconosciuto a partire da una d- concezione di ciò che è conosciuto . Lo scopo dei ricordi di copertura è di celare o oscurare; lo scopo delle scene modello è di dare una piena e completa rappresentazione affettiva e cognitiva per oscurare le configurazioni ripetitive dell' esperienza. r. 3. 5 . Il colloquio con l'elaboratore è possibile? Già negli anni cinquanta alcuni studiosi di scienza dei computer sot­ toposero dei volontari a un semplice esperimento : essi si recavano in una stanza vuota, trovavano delle istruzioni: "può dire tutto quello che vuole" , e iniziavano a parlare ad un registratore, e continuavano

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così settimana dopo settimana fino a circa 3 00 sedute. La lunghezza di una psicoanalisi di quei tempi. Questa situazione si rivelò assai interessante mostrando che il mo­ nologo con la macchina non era poi tanto diverso dal dialogo con un terapeuta, anzi talora mostrava qualche vantaggio rispetto al terapeuta umano. Sono passati ben quarantacinque anni da quei lontani esperimenti e i nostri personal computer hanno una potenza inimmaginabile per l'utente medio di solo pochi anni fa. Colby, l'autore del programma, è uno scienziato dei computer che è stato anche analista didatta a San Francisco . Egli, allievo di Bern­ feld, è stato professore di Psichiatria alla University of California di Los Angeles dopo essere stato professore di Scienza dei computer a Stanford. Traferitosi a Los Angeles presso il dipartimento di Psichia­ tria e Scienze bio- comportamentali ha sviluppato un progetto di ri­ cerca di lunga durata che partendo dai problemi posti dalla compren­ sione del linguaggio naturale ha condotto alla messa a punto di Parry, un programma che simulava la paranoia. Constatando che allo stato dell' arte non esistono terapie efficaci della paranoia né di tipo farma­ cologico, né di tipo psicoterapeutico, l'autore ha pensato di sviluppa­ re i risultati delle sue ricerche su Parry per mettere a punto un pro­ gramma che potesse svolgere un effetto terapeutico nella paranoia. La disponibilità di programmi in grado di simulare molto efficace­ mente varie patologie mentali e di comprendere il linguaggio naturale dell'interazione psicoterapeutica - che, secondo gli studi di Colby, consta di circa 2 00 interazioni - permette di creare sedute o intere terapie . Sono molti anni che Colby si occupa delle applicazioni dei calco­ latori alla terapia dei disturbi del comportamento, del linguaggio, del­ l'umore. A partire dalle prime ricerche negli anni sessanta nelle quali si sforzava di costruire aiuti linguistici per bambini autistici che non erano in grado di parlare, attraverso gli studi condotti con Roger Schank (un altro grande dell'intelligenza artificiale) e pubblicati, nel 1 9 7 3 , con il titolo di Computer Models o/ Thought and Language, giunse a metà degli anni settanta ad occuparsi della simulazione su calcolatore dei processi sottostanti alle manifestazioni di paranoia. Un risultato notevole è che già all'inizio degli anni ottanta il mo­ dello di paranoia Parry era riuscito a superare il test di Turing, un test in cui psichiatri esperti dovevano cercare di distinguere i discorsi generati dal modello di simulazione da quelli prodotti da un vero pa­ ziente paranoico . Poiché il gruppo dei clinici non riuscì a distinguere la simulazione dal paziente reale, fu dimostrata la fedeltà del modello,

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quantomeno a livello di equivalenza funzionale e di congruità fra in­ put e output. Rimane ovviamente aperto lo spinoso problema dell'equivalenza strutturale, che mira in generale a chiarire se gli algoritmi e le struttu­ re utilizzate dal modello rispecchino qualcosa di presente "in realtà " ; in altri termini, appurato che il modello s i comporta come il paziente reale, si tratta di chiarire in che misura i processi sottostanti siano simili. È un problema fondamentale di tutta la modellistica, che in questa sede non possiamo tuttavia affrontare. Va peraltro sottolineata la notevole capacità mostrata già da questi lavori nel riprodurre il lin­ guaggio naturale umano, ben superiore a quella posseduta dai primi programmi quali Eliza, Shrdlu, Racter. Gli studi di Colby progrediscono, l'ultimo decennio ha visto infat­ ti Colby impegnato su vari versanti: da una parte vi è il tentativo di chiarire i rapporti fra psicoanalisi e scienze cognitive, dall'altra vi sono gli sforzi di costruire "motori di inferenza psicologica " quali Guru, un programma in grado di simulare una conversazione umana su temi psicoterapeutici. Fino al nuovo Computer Companion, pro­ getto volto a sviluppare un programma analogo ad un alter ego con cui interagire e con cui consigliarsi o intrattenersi. Queste esperienze, unitamente ai principi clinici della psicoanalisi freudiana e delle terapie cognitive, sono confluite nel programma te­ rapeutico di cui abbiamo dato un esempio in apertura. Il tentativo è estremamente coraggioso se si considera quanto forti siano ancora oggi, in ambito psicoterapeutico, le componenti legate alle varie orto­ dossie di scuola e quanta importanza viene attribuita a componenti impalpabili e/o ineffabili, non operativamente individuabili con sicu­ rezza, come ! ' " empatia" o la " capacità di entrare in risonanza" . Ciò sicuramente non crea un terreno favorevole alla ricerca scientifica che ha potuto nascere e svilupparsi proprio in seguito all'abbandono del principio di autorità e alla definizione operativa delle entità sulle qua­ li lavorare. Non vi è dubbio che l'opinione secondo cui bisognerebbe " capi­ re" il paziente per poterlo " curare" sia molto diffusa: questo non si­ gnifica necessariamente che sia una posizione fruttuosa. Se abbando­ niamo il principio di autorità e ci volgiamo a cercare altri principi che possano fondare con maggiore concretezza i nostri discorsi psico­ logici e psicoterapeutici, scopriamo che da molto tempo ormai le scienze biologiche e mediche concettualizzano gli organismi viventi come sistemi che scambiano con il loro ambiente materia ed energia, e presentano l'importante caratteristica dell' autopoiesi, la capacità cioè di organizzarsi e di costruirsi da soli .

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Il punto è importante e merita una digressione. In quanto organi­ smi viventi, anche gli esseri umani sono sistemi autopoietici, sia per quanto riguarda il versante fisico, sia dal punto di vista psicologico. Noi ci costruiamo da soli, approfittando beninteso delle opportunità offerte dall' ambiente, e sottostando ai vincoli che l' ambiente stesso ci pone, ma nelle nostre interazioni con il mondo fisico e sociale circo­ stante manteniamo un elevato livello di libertà e di plasticità evolutiva (vale a dire, data una certa struttura fisica o psicologica possiamo evolvere verso altre configurazioni che, seppure non totalmente arbi­ trarie, non risultano tuttavia predeterminate in maniera rigida e asso­ luta) . Possiamo metterei a dieta, e modificare il nostro peso corporeo, esponendoci al sole cambiamo colore della pelle, possiamo imparare una lingua straniera o liberarci da fobie o ossessioni seguendo oppor­ tune strategie. Un corollario importante di questo modo di vedere le cose è che nessun sistema autopoietico può essere "guarito " da qualcuno o qual­ cosa: è esso stesso a guarirsi da solo. Un medico può sì fare una sutu­ ra dopo un'operazione o ingessare una gamba rotta o ancora sommi­ nistrare antibiotici, ma saranno le capacità di autocostruzione dei tes­ suti a rimarginare le ferite e a saldare le ossa e sarà il sistema immu­ nitario a combattere l'infezione. In altri termini, se non è possibile "guarire" direttamente un paziente, risulta spesso utile implementare nell'ambiente circostante opportune condizioni, in grado di facilitare il compito dell'organismo . Dato che il sistema cognitivo umano non è concepibile se non nel suo continuo e fondamentale rapporto con il corpo, quanto detto per il versante biologico vale anche per gli aspetti psicologici, che rap­ presentano uno dei massimi prodigi adattativi della nostra specie. Non è un caso che la depressione, uno stato di disagio psicologico assai diffuso che colpisce con sintomi di maggiore o minore gravità una persona su quattro in qualche momento della sua esistenza, pre­ senti numerosi correlati di tipo fisico (affaticamento, insonnia, o al contrario, eccessivo bisogno di dormire, perdita dell'appetito ecc. ) , e non è un caso che talune forme di attività fisica possano contribuire ad alleviarla. Solo l'individuo è in grado di ripristinare un rapporto corretto con l'ambiente e un intervento terapeutico utile nel caso della depres­ sione sembra consistere in una riflessione, condotta per un adeguato periodo di tempo, sulle proprie strategie coinvolte in un episodio de­ pressivo. Da questo punto di vista numerose ricerche anche autorevo­ li e recenti hanno mostrato che, con questo tipo di trattamento su base cognitiva, i pazienti ricavano vantaggi durevoli e presentano 43

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meno ricadute di chi viene trattato esclusivamente con farmaci anti­ depressivi che non permettono di apprendere nuove strategie di condotta. Il programma di cui stiamo parlando serve a questo: facilitare l' apprendimento di informazioni sulla depressione e sui modi con cui affrontarla, e ad aiutare la persona depressa nell'individuazione e nel­ la formulazione esplicita delle strategie cognitive che hanno condotto alla depressione e che possono aiutare ad uscirne. Le notevoli capaci­ tà interattive mostrate dal software nella comprensione e nella produ­ zione del linguaggio naturale risultano assai utili nel sollecitare la ri­ flessione da parte dei pazienti : a questo riguardo, si potrebbe facil­ mente cadere nella tentazione di attribuire al programma una sorta di consapevolezza e/o di capacità di empatia . Da un punto di vista tera­ peutico, tuttavia, la tentazione va evitata, non solo perché è inutile, ma si rivela addirittura nociva, nella misura in cui rischierebbe di de­ responsabilizzare il soggetto che al contrario deve essere protagonista attivo della propria trasformazione. Deve essere ben chiaro che ognu­ no si cura e si guarisce da sé, attraverso i propri sforzi costanti. Per questo motivo nel corso del programma viene sovente ricordato che non si tratta di un terapeuta umano o anche solo di una sua simula­ zione. L'aspetto scarno, quasi austero, del programma nella sua inter­ faccia con grafica a caratteri contribuisce a mantenere le distanze nei confronti dell'utente (sebbene, trattandosi di pazienti depressi, po­ trebbe valer la pena rendere la grafica un poco più amichevole, in modo da non aggravare il loro stato ) . Nella situazione attuale l a consapevolezza crescente dei limiti del­ la maggior parte dei luoghi comuni psicoanalitici porta a ripensare alle caratteristiche fondamentali delle psicoterapie in una prospettiva scevra delle più tradizionali suddivisioni di scuola o di gruppo. Pertanto alcuni dei luoghi comuni più saldamente radicati nel pensiero di terapeuti e psicoanalisti inerenti alla differenza tra psicoa­ nalisi e psicoterapia sono ormai messi in discussione da molti autori in diverse parti del mondo. Vengono toccate, in questo dibattito, alcune delle questioni cru­ ciali della definizione dell'area di specificità della psicoanalisi, della psicoterapia psicoanalitica e di altre forme di psicoterapia che tra l'al­ tro si tende a dare per scontato debbano essere divise da un qualche confine. Un " muro " che appartiene al paesaggio familiare a tal punto da passare quasi inosservato, salvo poter fantasticare la sua caduta e gli orizzonti di collaborazione che ciò potrebbe creare. Dal lavoro di discussione della natura di questa divisione che viene portata avanti da diversi autori (ad esempio Migone, 1 9 9 1 ) 44

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emerge la stretta dipendenza tra aspetti dell'ormai annoso dibattito e presupposti psicoanalitici che devono essere condivisi e accettati perché si possa apprezzarne l'andamento e le sottili questioni da esso suscitate. Cercheremo di sottolineare la loro natura di assunti teorici nasco­ sti derivati o dalla metapsicologia o dal mito psicoanalitico sulla diffe­ renza tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica, e sulla differenza tra psicoanalisi e metodi suggestivi . Durante la storia della psicoanalisi infatti fu dedicato, da parte di Freud e dei suoi continuatori, il massimo impegno a creare il mito che la psicoanalisi fosse radicalmente differente dalla suggestione. Questo mito trova peraltro negli scritti di Freud disconferme signifi­ cative. Oggi si può viceversa sostenere che la psicoanalisi è una forma di suggestione (Chertok, Stengers, I 9 8 9 , I 9 9 I ; Stolorow, I 99o; Foss­ hage, I 99 I ) , perfezionata da Freud e dai suoi seguaci, che si diffe­ renzia per la maggiore raffinatezza da quella della metà dell'Ottocen­ to. Specificamente per il fatto che la psicoanalisi opera nel dettaglio dell'attività conoscitiva ( comportamento) del paziente e del terapeuta. Infatti, la peculiarità di una buona suggestione psicoanalitica è quella di operare dall'interno del dominio cognitivo di paziente-terapeuta, piuttosto che suggerire dall'esterno al paziente come accade nelle tec­ niche più antiche. Così non ha più senso il dibattito sulla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica, mentre si aprirà un nuo­ vo campo di discussione basato sulla constatazione che «la psicotera­ pia psicoanalitica non può sostituire la psicoanalisi, essa è psicoanali­ si» (Fosshage, I 99 I , p. 7 I ) . Vediamo invece i termini più tradizionali del dibattito così come è stato presentato di recente da Migone ( I 99 I ) . Eissler: psicoanalisi vs cura magica (suggestiva) Eissler è un auto­ re molto citato cui anche Migone fa riferimento per la sua sistematici­ tà che fa apparire chiaro e rigoroso ciò che in verità è confuso da un punto di vista epistemologico . La ben nota "psicoanalisi coi parame­ tri " proposta da Eissler altro non è che una grossolana imitazione della descrizione razionale di un esperimento classico, e presenta una ricostruzione assai artificiosa di quello che effettivamente accade in un trattamento psicoanalitico. La sua concezione della psicoanalisi lo rende cieco nei confronti della ripetuta osservazione clinica che la condizione psicoanalitica efficace può realizzare attraverso vie diverse. Da un punto di vista teorico questo è il principio di equifinalità se­ condo cui si può giungere alla costituzione di un determinato pro­ cesso attraverso differenti percorsi. Beninteso questo principio dovuto alla Teoria generale dei sistemi non implica affatto che qualsiasi per45

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corso porti ai medesimi risultati, ma che ai medesimi risultati si possa pervenire per vie differenti (Bertalanffy, I 969) . Comunque la " cura razionale" di cui parla Eissler è una cura sug­ gestiva, altrettanto magica, ma più inconsapevole di esserlo rispetto a quella di Alexander ( I 96 3 ) che Eissler accusa di magia in modo del tutto ingiustificato . Inoltre, è suggestiva e propagandistica anche la sua definizione come razionale in un periodo storico in cui la raziona­ lità veniva identificata con la validità di qualsiasi cosa. La concezione della terapia " razionale" , man mano che le mode cambiavano e i pro­ blemi si accumulavano, ha mostrato sempre più il bisogno per poter soprawivere dell' aggiustamento ad hoc costituito dall'infondata " teo­ ria degli affetti" ( Chertok, Stengers, I 989, I 99 I) che oggi affligge il lessico psicoanalitico insieme a quell'altra iattura che è il dolore mentale. Gill, a partire dagli anni cinquanta, sistematizza in due categorie i criteri che permetterebbero di distinguere tra psicoanalisi e psicotera­ pia. Vediamo comunque di riassumere le osservazioni principali che possono portare a tali definizioni e che costituiscono una tipica ope­ razione di limatura e lubrificazione di aspetti obsoleti della psicoana­ lisi in cui Gill è un grande maestro.

Criteri intrinseci i criteri intrinseci che caratterizzerebbero specifica­ mente la psicoanalisi sono: a) centralità dell' analisi del transfert; b) risoluzione del transfert tramite l'interpretazione; c) neutralità dell' analista; d) induzione di una regressione di transfert. a) Centralità dell'analisi del trans/ert Una delle caratteristiche pecu­ liari della psicoanalisi secondo il senso comune è l'analisi del tran­ sfert. Benché siano in uso espressioni come " risoluzione del tran­ sfert '' , appare ormai evidente che il transfert non scompare con la fine della terapia, ma anzi si stabilizza e sostiene gli effetti a lungo termine della psicoanalisi. Attualmente si nota che vi sono almeno cinque diverse concezioni psicoanalitiche del transfert supportate da differenti modelli teorici. Si dibatte se il transfert sia costruito dalla terapia o " emerga " da essa: quindi quale sia l'entità del contributo del terapeuta allo sviluppo del transfert (Miller, I 99 r ) . Sembra plau­ sibile considerarlo una peculiarità psicoanalitica della suggestione pra­ ticata in psicoterapia . Nel dominio dell' " analisi del transfert" si situe­ rebbe la specificità della suggestione psicoanalitica: una suggestione che entra nel dettaglio della condotta del paziente tramite l'interpre-

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tazione. Dunque, l'interpretazione del transfert, soprattutto hic et nunc e passato/presente, costituirebbe una suggestione sulla sugge­ stione propria dell'approccio psicoanalitico e responsabile della mag­ giore potenza di tale metodo rispetto a tecniche suggestive che non utilizzano tale suggestione sulla suggestione. Questo sarebbe il fonda­ mento del " salto di qualità " tra suggestione classica e magnetismo animale e il trattamento improntato a criteri psicoanalitici. b) Interpretazione Spesso si è sostenuto che l'interpretazione sia lo strumento esclusivo della psicoanalisi. Essa, come nota Spence (1982 ) , non può essere considerata esatta o inesatta, e quindi efficace vs sug­ gestiva come intese Glover (193 1 ) e come hanno frainteso numerosi filosofi della scienza che si sono interessati alla sua validità ed atten­ dibilità. Ciò derivava soprattutto dal riferimento al modello della "scoperta" di contenuti inconsci e della " spiegazione" dei sintomi al paziente tramite l'interpretazione come fattori terapeutici della psi­ coanalisi. Oggi si tende a considerare il modello della "scoperta" e della "spiegazione" come frutto teorico del tentativo di Freud di tro­ vare una legittimazione del suo procedimento terapeutico fornendo­ gli una veste " scientifica " secondo i canoni di scientificità del suo tempo. Poiché l'interpretazione è sempre da considerarsi una forma raffi­ nata di suggestione, essa potrà piuttosto soddisfare o no criteri di adeguatezza rispetto alla possibilità di agire come suggestione di se­ conci' ordine, oppure come suggestione esterna al dominio cognitivo del paziente e quindi avere un effetto labile o dannoso alla personali­ tà dello stesso attraverso i meccanismi cognitivi messi in luce da Se­ merari (199 ! ) . c) Neutralità L'idea di neutralità dell'analista proviene dalla tradi­ zione positivista così «l'interpretazione è vista come la descrizione dei fatti da parte di un osservatore obiettivo» (Fos shage, 1 9 9 1 , p. 6 7 ) . Ciò contrasta coi risultati della filosofia della scienza contemporanea e con la messe di osservazioni cliniche sul ruolo del controtransfert nell'organizzazione dell'esperienza clinica. Gill ( I 984) ha sottolineato che le procedure di astinenza inducono un intenso " transfert iatroge­ no " , e forse potremmo affermare che tutto il transfert è iatrogeno, cioè suggestivo in quanto costruito attivamente dalle strategie del te­ rapeuta. Oggi la condotta dell'analista non può più essere definita neutrale, benché siano ovviamente da distinguere forme di interazio­ ne col paziente che giovano all'andamento del trattamento e sortisco­ no effetti terapeutici diretti o indiretti e condotte scorrette o patoge­ ne. Queste ultime non potranno però più essere considerate come espressione di una mancanza di neutralità, ma richiederanno una spe-

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cifìca teorizzazione clinica capace di rendere ragione dei loro effetti negativi. d) Regressione di trans/ert L' idea di nevrosi di transfert è stata rite­ nuta matura per il pensionamento (Cooper, 1 9 8 7 ) e altrettanto quella di regressione. Alcuni autori hanno mostrato l'esistenza di un model­ lo del transfert " macchina del tempo" che attraverso la regressione avrebbe permesso di accedere ai livelli profondi e rimossi del pazien­ te. Oggi tutto questo non è sostenibile, ma l'accesso alle strutture co­ gnitive può essere spiegato sulla base delle attuali conoscenze di psi­ cologia cognitiva, di neurofìsiologia e neuropsicofarmacologia in ma­ niera assai più soddisfacente. Inoltre, non è necessario tornare al pas­ sato per agire sugli effetti attuali (la memoria) di ciò che può essere accaduto nel passato. Attualmente si tende a riconoscere l'utilizzo, da parte del paziente " regredito" , di schemi più o meno arcaici indotti dalla condotta e dal controtransfert del terapeuta. Un simpatico lapsus di un terapeuta so­ stenitore della regressione in gruppo esprime la natura di questo pro­ cesso; descrivendo una situazione gruppale di presunta regressione a livelli fetali egli disse: «Si vedeva chiaramente che nuotavano nel li­ quido semiotico».

Criteri estrinseci Gill presenta anche dei criteri estrinseci per distin­ guere tra psicoterapia e psicoanalisi: a) frequenza delle sedute; b) uso del lettino; c) struttura della personalità del paziente (analizzabilità ) ; d) validità della formazione dell'analista. a) Frequenza delle sedute

Bisogna notare che, come già segnalò Alexander ( r 9 63 ) non esistono studi seri sull' effetto e l'utilità di un determinato numero di sedute piuttosto che un altro. Nei paesi occi­ dentali si tende a considerare psicoanalisi un trattamento a tre, quat­ tro o cinque sedute settimanali a seconda delle nazioni. Negli stessi paesi la psicoterapia è caratterizzata da una, due o tre sedute. Esi­ stono altresì le "psicoterapie intensive" praticate alla Tavistock Clinic a quattro o cinque sedute settimanali con uso del lettino. Per di più se Freud praticava sei sedute la settimana, col diffondersi dell' abitu­ dine al weekend il numero massimo si è modificato a cinque. Inoltre con la progressiva estinzione di pazienti non in training disposti a sottoporsi a cinque sedute in tutte le parti del mondo si va scoprendo che forse cinque, quattro o tre sedute non sono poi così necessarie come si credeva in precedenza. D'altra parte vi è chi ritiene che l' ele-

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vato numero delle sedute garantisca soprattutto un buon reddito an­ che in presenza di un numero esiguo di pazienti fortemente motivati e dotati di reddito adeguato. Rispetto alla durata delle sedute i criteri sono alquanto !abili e, come segnalò Greenson ( 1 97 8 ) , paiono più legati all'ottimizzazione dell'uso del tempo a fini economici, piuttosto che a criteri terapeutici. La durata classica di 5 5 /5 0 minuti si è ridotta a 45 e talora a 40. Tra gli effetti nefasti dell'idealizzazione della "vera" psicoanalisi a cinque sedute vi è il fatto che paziente ed analista creano collusivamente una situazione di serie B quando non seguono strettamente certe caratte­ ristiche. Gli effetti sul paziente che si possono osservare in corso di consultazione sono in genere un danno all'autostima dello stesso. Dal punto di vista della conduzione del trattamento l'idealizzazione di una psicoanalisi che ormai non esiste e l'implicita svalutazione di quello che si va facendo realmente aumenta i rischi di rotture del set­ ting. Viceversa data l'estrema varietà delle situazioni valide ed efficaci des critte in letteratura e in sedi informali, si può avanzare l'ipotesi che sia opportuno utilizzare il principio (teorico) dell'equifinalità e cercare di stabilire con chiarezza quali sono le condizioni cliniche "psicoanalitiche" da realizzare per un buon trattamento indipenden­ temente dalla presenza del tale o talaltro sottosistema clinico . Il nu­ mero delle sedute è un sottosistema clinico del setting e ciò rende ragione della possibilità di operare con differenti numeri di sedute, e attraverso differenti fenomenologie cliniche e controtransferali che ri­ sultano pur sempre "psicoanalitiche" . b) Uso del lettino Quanto sopra vale anche rispetto all'uso del letti­ no o della sedia o del tappeto (setting islamico) o della stuoia (setting del sud-est asiatico) ecc. Il principio di equifinalità sottostà alla possibilità di istituire e mantenere condizioni cliniche psicoanalitiche attraverso decorsi clini­ ci differenti. Anche altri sottosistemi del setting (isolamento, associazioni libe­ re, contratto ecc.) sono sottoposti al principio di equifinalità. Il setting si può definire dunque come una condizione clinica da realizzare e mantenere attraverso specifiche azioni cliniche indipen­ dentemente dalla presenza di parte o di tutti i sottosistemi clinici de­ scritti dalla tradizione psicoanalitica. Preferiamo parlare di sottosiste­ mi clinici del setting piuttosto che di "regole" da applicare poiché è riscontrabile proprio l' equifinalità nella generazione di un sistema te­ rapeutico efficace attraverso distinte strategie di differenti terapeuti. Le rotture del setting possono essere comprese in prospettiva sistemi49

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ca sulla base dei concetti di schismogenesi, doppio legame, omeoresi, retroazione, reazione a catena ecc. c) Analizzabilità Sulla struttura dei pazienti in relazione all' analiz­ zabilità si è detto tutto e il contrario di tutto; comunque oggi pare impensabile farne un criterio dis criminante visti i numerosi contributi sul trattamento degli stati più gravi . Inoltre, l'idea stessa di struttura della personalità si è liquefatta nel riconoscimento del ruolo svolto, nelle patologie più gravi, dalla famiglia come da ambienti cronica­ mente traumatici tra i quali alcuni comprendono anche la psicoanalisi stereotipata (Peterfreund, 1 9 8 3 ; Stolorow, Brandchaft, Atwood, 1 98 7 ) . Alcuni autori inoltre ritengono le psicosi di transfert frutto di errori di tecnica piuttosto che dimostrazione post hoc di una struttura borderline preesistente (Branchaft, Stolorow, I 984) . d ) Validità della formazione dell'analista I criteri per definire un analista " ben formato " sono cambiati molto nel tempo, dalla sicura fede nell'esistenza dell'inconscio enunciata da Freud fino ai sottili problemi posti da individui compiacenti sottolineati da Gitelson ( 1 95 6 ) , Winnicott ( 1 965 ) e Gaddini ( 1 984). I criteri della formazione riproducono in maniera impressionante quelli adottati da Mesmer: completezza e profondità. I problemi di Mesmer con Deslon ricalca­ no d'altra parte numerose vicende penose che funestano ricorrente­ mente l'ambiente psicoanalitico . È sorprendente il fatto che una società di psicoanalisi possa non ritenere valida l'analisi svolta con un analista didatta autorevole di una società aderente alla medesima organizzazione internazionale. Sembrerebbero cioè prevalere criteri di appartenenza istituzionale supportati da strutture antropologiche: è bravo chi appartiene alla propria "tribù " . D'altra parte ogni candidato potrebbe, e dovrebbe, " rendere" una certa cifra nel corso della sua formazione psicoanaliti­ ca ma anche di altre psicoterapie, così che si tende a scoraggiare più che altro gli allievi che non rendono avendo già pagato qualcun altro . Il problema dei ciarlatani viene spesso agitato per poter chiedere " ri­ gore" nella formazione e spesso per spillare quattrini per supervisioni supplementari di dubbia utilità. Feyerabend ( 1 97 8 ) ha mostrato come il problema dei ciarlatani sia sempre esistito e non sia mai stato ri­ solto con l' aumento del controllo, poiché esso è proprio frutto di un eccesso di controllo che diminuisce la variabilità e finisce per favorire coloro che sono capaci di sottoporsi al controllo piuttosto che quelli capaci di fare terapia. Goudsmit ha parlato di " terapeuti selvatici" giocando sul classico termine svalutativo " selvaggi " per sottolineare l'importanza di un pool di variazioni per permettere la sopravvivenza 50

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e l'adattamento a condizioni mutevoli nel tempo come ci è noto dalla teoria dell' evoluzione (Casonato, 1 99 1 ) . I problemi della psicoterapia e della psicoanalisi non finiscono co­ munque con i dibattiti sulla natura delle differenti tecniche. I. 3 .6.

Mutamenti epistemologici che investono le teorie del colloquio

Negli ultimi anni è andata manifestandosi una tendenza alla ridefini­ zione del campo e degli strumenti osservativi utilizzati nell'indagine clinica e psicopatologica attraverso contributi provenienti da diversi settori disciplinari convergenti. Si tratta di un passo rilevante per quanto concerne i riferimenti teorici: ci si sposta infatti da un atteggiamento "obiettivante" che se­ gue un procedimento indiziario ad una posizione cognitivo-costrutti­ vista che più o meno implicitamente ha come referente psicologico l'opera di James ( I 89o) e come referente epistemologico la Teoria dei sistemi contemporanea. Il "paradigma indiziario " si è posto per almeno un decennio come riferimento d' obbligo per un buon numero di analisti . Una posizione siffatta, al di là delle suggestioni suscitate dalla possibilità di paragonarsi a Sherlock Holmes, è tutt'altro che un'inno­ vazione, ed appare piuttosto come un'astuzia per un salvataggio ad hoc di alcuni concetti metapsicologici . lovero, il principio ispiratore di una tale posizione è pur sempre quello della ricerca serrata e della scoperta di qualcosa da parte del­ l' analista. Questa posizione risulta radicata nel paradigma di scienza ottocentesca, e la troveremo applicata nella psichiatria attraverso il paradigma osservativo adottato da Kraepelin con la relativa induzio­ ne di patologia misconosciuta a causa dell'adozione del paradigma stesso. Tali scelte di fondo si sposavano con lo stile della semeiotica me­ dica che si era rivolta ad un sistema di connessioni e di indagini ca­ pace di risalire ad una realtà occulta attraverso indizi e tracce spesso sottili. Questa posizione colloca in primo luogo la patologia dentro i confini del paziente e considera l'osservatore neutrale. Tutti coloro che hanno inteso il processo psicoterapeutico come un processo di "scoperta" hanno più o meno chiaramente basato le loro posizioni su di un paradigma ottocentesco con relativi inconvenienti clinici. Il fondamento di un' alternativa a tali posizioni è reperibile invece nel lavoro di Bateson ( 1 97 2 , trad. it. p. 3 66) e nel suo modo innova51

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tore di ridisegnare i confini delle entità coinvolte nei processi cono­ scitivi. Secondo l' autore l'elaborazione dell'informazione si attua in un'u­ nità cibernetica che ha confini diversi da quelli del senso comune occidentale. Si consideri un individuo che stia abbattendo un albero con un'ascia - nota Bateson - ogni colpo d'ascia è modificato o corretto secondo la forma del­ l'intaccatura lasciata nell'albero dal colpo precedente. Questo procedimento autocorrettivo ( cioè mentale) è attuato da un sistema totale, albero-occhi-cer­ vello-muscoli-ascia-colpo-albero; ed è questo sistema totale che ha caratteri­ stiche di mente immanente [. .. ]. Ma non è questo il modo con cui l'occi­ dentale medio vede la sequenza degli eventi che caratterizzano l' abbattimen­ to dell'albero. Egli dice: «lo taglio l'albero», e addirittura crede che esista un agente delimitato, !' "io" che ha compiuto un'azione "finalistica" ben delimi­ tata su un oggetto ben delimitato.

I processi "mentali" non sono pertanto più collocati all'interno dell'e­ pidermide del soggetto e anche la patologia non potrà più esservi confinata. Nella prospettiva costruttivista la via privilegiata per operare su di un'organizzazione relazionale è la costruzione di un nuovo livello di tale organizzazione, laddove la posizione tradizionale consisteva nella neutralizzazione dell'interazione tra osservatore ed osservato che con­ duceva ad una buona "osservazione" . Così questa posizione episte­ mologica prevede che l' attuarsi della chiusura di un nuovo sistema che verrebbe a ridefinire i confini tra paziente-terapeuta-ambiente di­ venga l'atto con cui inizia un processo conoscitivo, al fine di definire l' ambito in cui esso si attua. Nel colloquio clinico appaiono rilevanti le strategie utilizzate dal terapeuta per orientarsi clinicamente. Il problema è cioè quello di va­ lutare le condotte possibili del paziente in funzione della terapia, e in particolare nella terapia con quello specifico terapeuta che lo sta in­ tervistando. Una simile precisazione ha una certa rilevanza epistemo­ logica: infatti porre l'attenzione su di un processo definito come "orientamento " rispetto ad una terapia specifica per la coppia che si sta incontrando è già una scelta di campo. Si tratta dell'adozione di una strategia conoscitiva assai differente sul piano epistemologico ri­ spetto a quella di considerare "la struttura" del paziente o la sua ido­ neità alla terapia come fossero qualità site in qualche parte, magari nella mente, del paziente e pertanto in qualche modo obiettivabili dal processo di valutazione. La scelta di campo che intendiamo sottoli­ neare, al contrario, conduce in un ambito costruttivista e ridefinisce

I. ORIDJTAME:'oJTI SUL COLLOQUIO CLINICO

in tale direzione l'epistemologia del colloquio di valutazione e di eventuale valutazione degli outcome del processo di follow up. Il te­ rapeuta non si trova impegnato a "scoprire " una struttura profonda o delle fantasie supposte inconsce, ma ad esplorare un dominio co­ struito nell' hic et n une in interazione col paziente. È in questo domi­ nio che si svolge il processo di orientamento rilevante sul piano cli­ nico . Un processo siffatto ha luogo tramite l'attuazione di una chiu­ sura organizzazionale di un nuovo sistema comprendente paziente e terapeuta. Quanto sopra è presente, almeno in parte, nel sapere clinico. È possibile rinvenire in letteratura situazioni o strategie che ben corri­ spondono ad una prospettiva che considera il definirsi di una nuova dimensione peculiare della seduta come il luogo dell'esplorazione clinica. Come già abbiamo riscontrato in molti altri settori, il limite viene marcato costantemente dalla necessità di far quadrare il cer­ chio della clinica attraverso la metapsicologia. Questo fa sì che le possibilità di sviluppo di approcci assai qualificati subiscano limiti ingravescenti. In questa direzione l'adozione radicale di un approc­ cio costruttivista unita ad un drastico abbandono della metapsicolo­ gia sembra promettere nuovi spazi di sviluppo e di precisazione per la clinica. Nel 1 902 James pubblicò, raccogliendo le sue Conferenze di Gif­ ford tenute a Edimburgo nel I 9 o r - 0 2 , il volume Le varie /orme del­ l' esperienza religiosa che fonda un nuovo campo di indagine: la Scien­ za delle religioni, che in seguito verrà chiamato Psicologia clinica. James era convinto che il sostegno della vita religiosa non fossero le ragioni invocate dai teologi, ma piuttosto una gamma di esperienze rese concrete: voci, risposte, preghiere, conversazioni con l'ignoto, mutamenti sentimentali, liberazione dalla paura. Tali esperienze oggi sono chiamate anche " fattori curativi" della psicoterapia. J ames rite­ neva che la religione fosse qualcosa di psicologicamente più primor­ diale della ragione, ma altrettanto potente: la fede infatti ha un effet­ to curativo; una conversione religiosa costituisce una cura e attiva una catena di cambiamenti nella personalità di un individuo. Anche i miracoli hanno a che fare con la Psicologia clinica; le guarigioni miracolose sono documentate, proprio come ogni medico ha visto pazienti guariti dai placebo. Tali guarigioni sono solitamente, e in modo ingiustamente squalificante, attribuite a suggestione. Si so­ stiene cioè che il paziente o non era realmente malato o che, se lo era ed è guarito, deve esserci qualche imbroglio. Viceversa, l' effetto della suggestione viene ritenuto da James una delle azioni possibili e legitti­ me nella psicologia umana. lnvero, James riconobbe che il medico ot53

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

tiene di più con l'efficacia morale della sua presenza sul paziente e la sua famiglia che con qualsiasi altra cosa, anticipando diverse forme di psicoterapia. Oggi questi interessi classici della psicologia clinica americana si scorgono in filigrana nei riferimenti di Schafer ( r 9 8 3 ) a Della certezza di Wittgenstein ( 1 95 0 ) , come nella posizione di Spence ( r 9 8 2 ) riguar­ do la natura "suggestiva " della psicoanalisi che fa uso di asserzioni pragmatiche per creare una determinata verità narrativa. In definitiva, si tratta della discussione fìlosofica sulla costruzione di realtà condivi­ sibili e terapeutiche i cui fondamenti si collochino semplicemente in una relazione interpersonale.

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2

Aspetti dinamici del colloquio clinico

2. 1

Gli aspetti psicologici

Il colloquio clinico è una tecnica di osservazione della condotta uma­ na, strutturata al fine di raccogliere informazioni a scopo diagnostico, terapeutico e di orientamento. Il colloquio ha ottenuto diffusa autorevolezza anche fuori dall'am­ bito clinico e i suoi limiti intrinseci, secondo l'epistemologia positivi­ stica, ci appaiono viceversa strumenti epistemologicamente idonei ad acquisire conoscenze in ambito clinico . Le diverse utilizzazioni del colloquio comportano adattamenti del­ le sue caratteristiche applicative dal momento che le possibili forme di colloquio devono essere funzionali alle discipline nelle quali il col­ loquio viene utilizzato. Schematizzando, il colloquio può risultare strumento efficace in ambito : - psicologico, per il quale lo scopo del colloquio (tanto diagnostico quanto psicoterapeutico) e le sue modalità di approccio concernono le dinamiche personali e interpersonali degli individui coinvolti nel­ l'interazione; - psicologico-sociale, per il quale lo scopo e le sue modalità di svol­ gimento si riferiscono alle dinamiche delle credenze e degli atteggia­ menti sia individuali che di gruppo; - sociale, nel momento in cui gli scopi e le modalità di conduzione sono inerenti ad eventi già oggettivati o comunque considerati come dati. Esistono problematiche comuni a tutte le possibili forme di col­ loquio: - quella relativa alla suggestione generata dalle formule utilizzate per interrogare; - quella dovuta all'interferenza della personalità dell'esaminatore, 55

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

che può suscitare emozioni e/o risposte particolari da parte dell'in­ tervistato; il problema della valutazione critica della testimonianza del sog­ getto, che può subire aggiustamenti, più o meno volontari, in quanto a fedeltà e completezza; il problema del contenimento della distorsione interpretativa in cui l'intervistatore appare comunque soggetto nella fase di rielabora­ zione del materiale a fini sintetici . Il problema che emerge con maggior chiarezza concerne il fatto che il colloquio clinico costituisce una messa in relazione tra due in­ dividui (intervistato e intervistatore) che tendono inevitabilmente a interrelarsi attraverso complessi procedimenti di comunicazione e di influenzamento reciproco. In particolare è possibile rilevare all'interno di queste relazioni al­ cune forme ricorrenti di rapporto basate su: imitazione, con la quale l'intervistato si adegua e fa propri alcuni approcci e comportamenti dell'intervistatore, sia in termini di gestua­ lità, che di linguaggio, che di atteggiamento verbale e corporeo; rinforzo, per il quale a seguito di un premio elargito, volontaria­ mente o involontariamente, dall'intervistatore all'intervistato in pre­ senza di un determinato comportamento, si genera un rinforzo del comportamento stesso per effetto di un processo di condizionamento; equilibrio, inteso come specifico "punto di equilibrio" che si in­ staura all'interno di un rapporto interattivo come è quello del collo­ quio, nel momento in cui si realizza l'integrazione armonica di tutte le componenti che entrano a far parte del processo. Da ciò segue che, quando una delle componenti del grado di intimità stabilita tra i due partecipanti si altera, si determinano mutamenti complementari nelle altre dirette a ripristinare l'equilibrio perduto. In merito alla relazione e interazione che si instaurano tra intervi­ statore e intervistato occorre fare riferimento a quanto in proposito è emerso per effetto degli studi psicoanalitici riguardo alla teoria e al­ l' applicazione del colloquio clinico. Nell'ottica freudiana l'interazione è il punto d' appoggio del pro­ cesso conoscitivo e scientifico; l'oggetto di conoscenza risulterebbe dipendente e in relazione all'individuo che lo conosce. Secondo questa nuova prospettiva è il legame che si istituisce tra intervistatore e analizzato che consente di arrivare a conoscere l'indi­ viduo e i suoi comportamenti, pur mantenendo la necessaria distanza e differenziazione tra oggetto e soggetto nel colloquio e quindi nel­ l'indagine conoscitiva. Secondo tale approccio l' uomo, essendo costi­ tuito in forma predominante di relazioni, può essere conosciuto sol-

2. ASPETTI DINAMICI DEL COLLOQUIO CLI C\II CO

tanto attraverso un'indagine di tipo relazionale, poiché solo nell'ope­ razione di awicinamento e diversificazione fra il sé e l'oggetto si co­ stituisce geneticamente la possibilità conoscitiva, ponendo con questo le premesse perché si possa presumere di intervenire sui comporta­ menti mentali dell' uomo e, dunque, anche modifìcarli. Questa premessa cambia radicalmente il problema del colloquio, non solo in termini di articolazione e strutturazione, ma soprattutto in termini di principio dal momento che, così facendo, il colloquio clinico cessa di strutturarsi in forma di semplice intervista per diven­ tare a tutti gli effetti un momento di interazione e di interscambio tra due componenti che tendono inevitabilmente ad influenzarsi recipro­ camente. Si pone così il problema epistemologico della neutralità dell' osser­ vatore nel processo conoscitivo e dell'inevitabile influenzamento reci­ proco nella comunicazione interpersonale. L'oggetto di conoscenza e di intervento si manifesta all'operatore anche in funzione del suo stes­ so comportamento, il che implica la necessità, per chi conduce il col­ loquio, di acquisire consapevolezza dell'influenza del proprio com­ portamento così da poterla gestire in modo funzionale all'obiettivo prefìssato . Sulla base di questa nuova interpretazione cambia radicalmente non solo la funzione del colloquio, ma il ruolo stesso dell'intervistato­ re che passa da "mero spettatore" di comportamenti ed eventi, che gli sono estranei, a parte in causa del processo ed elemento determi­ nante della manifestazione dei processi psichici dell'intervistato e/o del paziente. In realtà, secondo l'ottica freudiana, è proprio la relazio­ ne tra paziente e intervistatore che diviene oggetto primario di cono­ scenza e costituisce il solo possibile terreno su cui costruire la terapia, dal momento che la storia del paziente, la sua vita e la costruzione del mondo interiore non possono essere conosciute se non nel loro manifestarsi nell'interazione con il terapeuta durante il colloquio o il processo analitico o psicoterapeutico. È fondamentale - come nell'ambito di ogni relazione interperso­ nale - lo scoprirsi dei processi cosiddetti di transfert e controtran­ sfert, ossia della costruzione della " realtà clinica " attraverso l'intera­ zione. Freud ha elaborato gradatamente il concetto di transfert partendo dalla nozione di spostamento : nel transfert il paziente sposta sull' ana­ lista i propri conflitti intrasoggettivi che - a loro volta - sono residui delle relazioni intersoggettive reali o fantasmatiche che il paziente ha vissuto nell'infanzia. Il transfert si presenta positivo o negativo in base alla qualità del sentimento del paziente, che può essere affettuo57

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

so oppure ostile, riproponendo l'ambivalenza della relazione con genitori . Il fenomeno è stato diversamente interpretato: secondo Freud può essere la manifestazione di una resistenza al lavoro analitico e alla rie­ vocazione di memorie e fantasie del passato, oppure una coazione a ripetere lo stile dei rapporti parentali vissuti all' epoca del complesso edipico, oppure un'attualizzazione dei conflitti inconsci che nel tran­ sfert tendono a riprodursi in modo corrispondente all'atemporalità e alla capacità allucinatoria dell'inconscio. Secondo l'impostazione junghiana il fenomeno del transfert va ascritto nel più ampio fenomeno della proiezione, che ha la sua radi­ ce in un inconscio attivato bisognoso di esprimersi. L'intensità del transfert corrisponde alla significatività del contenuto proiettato . La tesi kleiniana interpreta il transfert come rivelatore delle rela­ zioni oggettuali dei primissimi anni di vita: il paziente infatti, di fron­ te ai conflitti e alle ansie presenti nel rapporto terapeutico, tende ine­ vitabilmente ad agire secondo le stesse modalità usate nel lontano passato . Strettamente connesso al transfert è il controtransfert, che si defi­ nisce come il vissuto emotivo globale dell'analista nei confronti del paziente e che rappresenta lo strumento di cui l' analista dispone per giungere ad una conoscenza approfondita del soggetto. Il controtran­ sfert sarebbe espressione dell'identificazione dell'analista con gli og­ getti interni dell' analizzando e le reazioni di controtransfert consenti­ rebbero di arrivare a conclusioni sul carattere specifico degli aweni­ menti psicologici che si svolgono all'interno del paziente, soprattutto di quelli che, non riuscendo a trovare espressione attraverso le parole, possono essere percepiti solo attraverso i sentimenti che fanno sorge­ re nel terapeuta. Freud definisce il controtransfert come la controtraslazione che insorge nel medico per l'influsso dei pazienti sui suoi sentimenti in­ consci. Per questo Freud ritiene il controtransfert un elemento di ostacolo al progresso della terapia, dal momento che invalida l'atteg­ giamento di impassibilità e il distacco emotivo che il terapeuta (a specchio) dovrebbe tenere. Secondo Freud esiste nell'analista una predisposizione al contro­ transfert ed una realtà analitica attraverso la quale egli fa esperienza. Il controtransfert è fusione di presente e passato, intima connes­ sione tra realtà e fantasia, tra esterno e interno, tra cosciente ed in­ consciO. Jung invece - partendo dal concetto secondo cui il trattamento analitico sarebbe anzitutto relazione - considera il controtransfert in-

2. ASPETTI DINAMICI DEL COLLOQUIO CLI C\II CO

dispensabile alla terapia, come strumento di conoscenza e di parteci­ pazione. Tale funzione positiva implica che l' eventuale resistenza del terapeuta nei confronti del controtransfert (intesa come difesa dalle influenze del paziente) produca solamente dei risultati negativi . Il pa­ ziente esercita la propria influenza (anche se inconsciamente) sul tera­ peuta, provocandone mutamenti a livello inconscio che assumono la forma di controtransfert . Il controtransfert, secondo J ung, non va re­ spinto, ma piuttosto accolto e controllato perché è alla base di quella reciprocità informativa e trasformativa determinante ai fini della riu­ scita della terapia. Ancora una posizione differente sul tema è quella sviluppata da Melanie Klein che assimila la relazione dell'analista, nei confronti del paziente, ad un contenitore materno nel quale il paziente può modifi­ care il suo modo di leggere l'esperienza, introiettando le modalità con le quali è stato trattato. In questa prospettiva il controtransfert è visto come lo strumento privilegiato per comprendere la natura della rela­ zione che si instaura tra terapeuta e paziente. Affinché il colloquio e il processo analitico funzionino occorre, dunque, che si inneschi un processo di fluttuazione tra terapeuta e paziente, basato proprio sul continuo intersecarsi e riproporsi di transfert e controtransfert attra­ verso il quale il paziente conosce se stesso e contemporaneamente consente al terapeuta di conoscerlo e, a sua volta, di conoscere se stesso. 2.2

I l conduttore

Ogni partecipante porta con sé al colloquio le caratteristiche dell'ope­ ratore competente e dell'utente, i compiti che ciascuno deve assolvere nel colloquio e i problemi che entrambi incontrano nello svolgimento di esso. Il conduttore del colloquio appartiene a determinati gruppi di riferimento per età, sesso, razza, etnia, religione (Kadushin, 1 9 7 2 ) ; i suoi compiti riguardano l a facilitazione conversativa, relazionale e il processo di conoscenza. «Il conduttore è un professionista in grado di svolgere un collo­ quio psicologico, è dunque un esperto nella " conversazione" e nella creazione di un ambiente accogliente che consenta una migliore co­ noscenza dell' altro» (Bastianoni, Simonelli, 200 1 , p. 1 7 ) . L e caratteristiche personali del conduttore influenzano lo svolgi­ mento del colloquio-intervista (Trentini, 1 995a) . Il risultato del collo­ quio è legato alle qualità personali dell'intervistatore che, secondo la maggior parte degli autori, devono essere: «alto livello di intelligenza, 59

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

età non troppo giovane, buon adattamento sociale, interesse verso i problemi degli altri, ricchezza di vita interiore, carattere prevalente­ mente introverso, capacità di saper ascoltare, capacità di ispirare fidu­ cia, riservatezza, spirito critico, cordialità, sensibilità» (Passi Tognaz­ zo, 1 99 1 , p. 3 0 ) . Per Bastianoni e Simonelli ( 2 00 1 , p . 20) il conduttore del collo­ quio è un soggetto: - adulto e maturo da un punto di vista psicologico, con una personalità integrata; motivato al proprio compito; disponibile al rapporto sociale e alla relazione con gli altri; dotato di buone competenze comunicative e di capacità di ascolto; capace di accettare l'altro per ciò che è; capace di mettersi dal punto di vista dell'altro; capace di inserire il comportamento dell'altro nell'ambito del contesto sociale e culturale al quale appartiene; - capace di comprendere aspetti culturali dell'altro, diversi dalla propria cultura di appartenenza; - in grado di provare empatia e comprensione per l'altro, vivendo emotiva­ mente il disagio altrui pur senza un eccessivo coinvolgimento personale che invaliderebbe la capacità di comprensione della situazione; - in grado di effettuare valutazioni psicologiche non moralizzanti o giudi­ canti nei confronti dell'altro; - in grado di mantenere l'atteggiamento di neutralità nei confronti dell'al­ tro e di quanto comunica; autenticamente interessato all'altro e al suo mondo interiore; - capace di comunicare con tatto e sensibilità.

Per Semi ( 1 9 8 5 , p. 1 2 ) i prerequisiti mentali che si richiedono al con­ duttore del colloquio sono: «una disponibilità attenta e rispettosa, una curiosità non invadente, una capacità di essere attivamente neu­ trale, una coscienza sufficiente del proprio stile comunicativo (e quin­ di anche delle sue indicazioni o controindicazioni ad affrontare certi tipi di persone)». Nella conduzione di un colloquio è basilare che vi sia nell'opera­ tore una teoria di riferimento affinché possa formulare delle ipotesi da indagare teoricamente. Gli errori che si possono presentare nel corso di un colloquio e che chi lo conduce deve essere in grado di evitare sono (Castelli, Giovannini, 1 99 8 ) : 1 . effetto alone (Thorndike, 1 92 0 ) , u n aspetto conosciuto condiziona la valutazione di altri aspetti non dipendenti da esso; 2. errore logico (Newcomb, 1 93 d , che consiste nel collegare sempre 6o

2. ASPETTI DINAMICI DEL COLLOQUIO CLI C\II CO

tra loro tratti differenti della personalità, nel rappresentarsi un grup­ po di tratti conformi tra loro; 3 · pregiudizio contagioso (Rice, 1 92 9 ) , convinzione caratterizzata da pregiudizi e stereotipie che può essere estesa da un'area tematica al­ l' altra del colloquio; 4· effetto indulgenza (Sears, 1 9 3 6 ) , cioè la tendenza ad essere buoni nel giudicare e nel formulare la diagnosi. Il fine di chi conduce il colloquio dovrebbe in ogni caso essere quello di rappresentare per il cliente un " sostegno " al conseguimento della consapevolezza di sé, dei propri disagi, delle necessità, degli ideali ecc. Chi gestisce il colloquio dovrebbe, pertanto, stabilire un clima che consenta all'utente l'espressione di sé. Determinate circostanze possono essere di ostacolo al realizzarsi della relazione con l'utente: ad esempio quando il conduttore lascia presupporre un'apertura maggiore di quanto ci sia realmente, ma­ schera il rifiuto nei confronti dell'utente, teme di entrare in contatto con il vissuto di un soggetto considerato disturbato oltre il grado che è disposto a gestire. La condotta non autentica da parte del profes­ sionista può essere conseguente a condizioni interattive e specifiche dell'utente (Bonsante, 1 99 8 ) : 1 . pregiudizio, per cui il conduttore potrebbe scegliere d i limitare o abolire il contatto interpersonale trovandosi in difficoltà in presenza di un pregiudizio del cliente nei suoi riguardi; 2. coalizione, quando il professionista e l'utente dirigono l' attenzione al di fuori del processo interpersonale e si alleano contro un antago­ nista esterno (ad esempio un familiare, un collega) , a discapito dell'al­ leanza di lavoro; 3 · collusione, un silente accordo tra i due attori che giungono ad ac­ cogliere l'immagine che l'altro presenta di sé, benché non autentica; 4· bisogno di dipendere affettivamente e psicologicamente, per cui il cliente si "aggrappa" all'operatore che riceve gratificazione nel rico­ prire un ruolo protettivo che gli impedisce di essere presente in modo autentico; 5· bisogno di un modello, quando il cliente idealizza il conduttore as­ segnandogli un ruolo positivo, e quest' ultimo può sentirsi gratificato tanto da non voler scontentarlo con una relazione più vera; 6. deficit nella percezione emozionale dell'altro, per cui il conduttore può sentirsi frustrato e assumere una posizione di ritiro per l'assenza di individuazione del suo sforzo di autenticità da parte dell' utente. Mucchielli ( 1 98 3 ) riprende i tipi di intervento verbale dell'intervi­ statore - considerati da Porter e Rogers nelle loro ricerche - che non

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DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

favoriscono l'espressione del cliente e che portano ad un colloquio orientato dall'intervistatore: 1 . risposta di valutazione o di giudizio morale: l'intervistatore fa riferi­ mento a norme e valori (ad esempio richiesta a pensare in un de­ terminato modo, accettazione o non accettazione) e pone l'altro in uno stato di inferiorità e di disparità morale (senso di colpa, angoscia, inibizione) ; 2 . risposta interpretativa: l'intervistatore distorce il pensiero dell'u­ tente proiettando la propria modalità di comprensione, la sua teoria, mentre l'individuo si sente frainteso e se tale modalità prosegue egli può reagire resistendo o disinteressandosi al colloquio; 3 · risposta di supporto affettivo: atteggiamento paternalistico o mater­ no dell'intervistatore che vuole confortare il cliente, può generare però in quest'ultimo condotte di dipendenza, rifiuto di essere trattato con commiserazione; 4· risposta inquisitiva: l'investigazione e la richiesta di altre informa­ zioni da parte del conduttore inducono l'utente a reagire ostilmente o a rispondere per " desiderabilità sociale" ; 5 · risposta soluzione del problema: l'intervistato propone una soluzio­ ne al cliente affinché possa risolvere le sue problematiche (ad esem­ pio dandogli un consiglio o rinviandolo ad altri ) . 2.J

L'utente

L'utente è colui «che si reca spontaneamente o viene inviato da altri a svolgere il colloquio, allo scopo di raggiungere una certa conoscen­ za di sé attraverso la relazione interpersonale che stabilirà con il con­ duttore» (Bastianoni, Simonelli, 2 00 1 , p. 2 5 ) , allo scopo di giungere ad un processo di conoscenza che lo riguarda. L'utente rientra in un gruppo specifico per razza, età, classe, oc­ cupazione, religione, etnia e appartiene a un sesso; porta, altresì, con sé le sue modalità di condotta, la sua storia, le relazioni con gli altri (Kadushin, 1 9 7 2 ) . Pertanto, le caratteristiche strutturali dell'intervista­ to sono degne di considerazione, non solo al fine del colloquio , ma anche come elemento dell'interazione (Trentini, 1 99 5 a ) . U n a variabile da considerare è che l'individuo p u ò essere più o meno motivato a prendere parte ad un colloquio. Si è in presenza di una motivazione estrinseca quando l'incontro non viene chiesto dal soggetto; si è in presenza di una motivazione intrinseca quando la ri­ chiesta di interazione proviene dal soggetto (Kahn, Cannel, 1 95 7 ; Lis, 1 99 3 ; Castelli, Giovannini, 1 99 8 ) . Rispetto ai comportamenti a moti62

2. ASPETTI DINAMICI DEL COLLOQUIO CLI C\II CO

vazione estrinseca, quelli a motivazione intrinseca sono autodetermi­ nati . Ciononostante, le condotte a motivazione estrinseca possono di­ venire autodeterminate se avvertite dall'individuo come coese con la rappresentazione di sé (Rigby, Deci, Patrick, Ryan, 1 99 2 ) . Deci e Ryan ( 1 9 9 1 ) distinguono quattro stili di regolazione del comporta­ mento inerenti a un grado sempre maggiore di autodeterminazione: L esterna, quando i comportamenti sono indirizzati da presumibili premi e/o punizioni; 2. introiettata, laddove i comportamenti vengono eseguiti per dovere per non sentirsi in colpa o con una bassa autostima; 3· identificatoria, allorquando i comportamenti sono considerati rile­ vanti dal punto di vista personale; 4· integrata, nel momento in cui i comportamenti raggiungono il più elevato livello di autodeterminazione, per l'integrazione di identifica­ zioni disgiunte in un senso di sé coerente. È preferibile parlare di intervista quando si è in presenza di una motivazione estrinseca, vale a dire che l'interazione ha luogo indipen­ dentemente dall' adesione o dal consenso di ambedue i partecipanti, i quali sono privi di una motivazione effettiva, di un consenso a stabili­ re una relazione interpersonale atta al raggiungimento degli scopi del colloquio. Nel caso in cui, viceversa, sussiste una motivazione intrinseca (con il consenso di entrambi gli attori ai fini del colloquio) «si struttura cioè quella situazione di campo nella quale un soggetto percepisce tanto se stesso quanto l'altro soggetto che a sua volta lo percepisce; e ciascuno di essi ha coscienza di percepire e di essere a sua volta per­ cepito» (Trentini, 1 995a, p. 2 8 ) . L'operatore, per condurre il colloquio i n modo valido, dovrebbe essere a conoscenza delle tecniche difensive che lo potrebbero coin­ volgere (Ancona, Cristante, 2 ooo) : evasione, quando i soggetti tendono a parlare del tempo, del loro lavoro e di cose neutrali. Il rischio è che l'operatore si mostri imba­ razzato cosicché in presenza di tale misura collusiva avrà difficoltà a qualificare l'altro mediante il materiale verbale raccolto; - seduzione, quando gli individui parlano liberamente di sé eserci­ tando su chi conduce il colloquio una forma di seduzione. All'opera­ tore rimane la sensazione che l'altro abbia guidato la situazione a suo vantaggio; ribellione verso l'autorità - rappresentata dall'operatore - che deve essere annientata. L'assenza comunicativa e collaborativa si pre­ figgono questo scopo. L'operatore, sentendosi attaccato ingiustamen-

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

te, può tendere a reagire negativamente contro-aggredendo l'utente per dimostrare la propria superiorità psicologica, morale e verbale. Sia il conduttore che l'utente nutrono delle aspettative sul collo­ quio che possono variare a seconda dei differenti contesti di applica­ zione o di quel determinato colloquio. N el caso del conduttore esse sono collegate all'obiettivo del colloquio, per quanto concerne l' uten­ te esse sono connesse alla domanda latente e affettiva rispetto al col­ loquio. 2 .4

Il setting

I vocaboli " set" e "setting" derivano da to set, verbo inglese che vuoi dire "installare, fissare, sistemare " . Winnicott, nel I 94 I , si avvalse di questi termini per indicare uno stesso ambito di analisi. Il setting può essere definito come l'insieme delle condizioni e delle regole che consentono lo svolgersi del colloquio psicologico (Montesarchio, Venuleo, 2 002 ) . Secondo Grassi (2 002 , p. I 4 7 ) : il racconto d i qualsiasi fatto psichico s i snoda all'interno d i una certa corni­ ce, appunto il setting, che contiene la relazione e che garantisce l'adeguato svolgimento delle operazioni tecniche; lo spazio, il tempo e i rispettivi ruoli dei protagonisti di un colloquio rispondono infatti a precisi dettami socio­ culturali che delineano la condivisione dell'evento da parte degli interlocuto­ ri, proprio in virtù di un contesto istituzionale e organizzativo.

Il setting esterno si riferisce al luogo fisico in cui avviene il colloquio, alla sua durata; il setting interno riguarda invece le abilità dell'opera­ tore di stabilire una relazione che conduca al decorso del colloquio (Lis, Venuti, De Zordo, I 995 ) . Particolare attenzione meritano gli aspetti ambientali, in quanto il paziente riceve stimoli non solo dalla persona dell'operatore, ma dal­ l'intero ambiente in cui il colloquio ha luogo. La stanza nella quale si svolge il colloquio deve essere un ambien­ te a sé stante, accuratamente separato dal resto dello spazio per mez­ zo di una porta chiusa. La porta chiusa, che ha valore simbolico, de­ finisce la stanza del colloquio come uno spazio all'interno del quale è possibile affrontare argomenti e discorsi che non potrebbero essere affrontati " fuori" e che non raggiungeranno mai l'esterno. Anche per quel che concerne l' arredamento, il setting terapeutico deve avere ca­ ratteristiche peculiari che lo rendano accogliente per l'analizzato e che lo distacchino il più possibile dall' atmosfera ospedaliera e/o p si-

2. ASPETTI DINAMICI DEL COLLOQUIO CLI C\II CO

chiatrica. La stanza e l'arredamento della stanza destinati al colloquio sono elementi materiali di presentazione nei confronti del cliente, che simboleggiano aspetti di chi conduce il colloquio e divengono un mezzo di conoscenza che l'utente ha dell'operatore. Benché la stanza possa essere utilizzata da più di una persona (ad esempio in una struttura pubblica) , è importante che ci sia qualche fattore di perso­ nalizzazione dell'ambiente. Il setting acclude, altresì, l'aspetto e l'a t­ teggiamento posturale del conduttore ( Semi, 1 9 85 ) ; «tutti questi dati messi assieme da un lato concorreranno a costituire l'immagine che il paziente si farà di noi, dall'altro saranno dei parametri o delle co­ stanti di cui talvolta bisognerà tener conto quando ci si porrà il com­ pito di valutare criticamente e razionalmente l'andamento del collo­ quio» (ivi, p. 2 2 ) . Nella stanza d i consultazione ci saranno giocattoli nel caso in cui il professionista lavori con bambini. In sintesi, il setting è un ambiente che favorisce il sentirsi accolti (Lis, 1993 ) . 2 .5

Le fasi e le regole del colloquio

Per condurre un colloquio non si possono seguire regole fisse. Come enuncia Kaneklin ( 1 99 2 , p. 8 3 ) «quando l' utente arriva le sue prime parole sono dei gesti e il primo linguaggio utilizzato è quello del pro­ prio corpo». Come sostiene Kadushin ( 1 97 2 , trad. it. p. 67 ) : Ciò che avviene i n qualsiasi colloquio è il risultato di ciò che l'utente e l'ope­ ratore portano con loro all'incontro e l'interazione fra quella data coppia di partecipanti, in quel momento della storia del loro contatto reciproco. L'in­ terazione è "reciprocamente condizionata" ; ogni persona infatti risponde al comportamento dell'altra, ognuno è causa parziale del comportamento del­ l' altra. Il colloquio è un sistema in cui ogni partecipante ricerca, accetta o rifiuta gli sforzi messi in atto dall'altro per influenzarlo.

2 .5 . 1 . Il primo contatto Chi stabilisce il primo contatto? Si tratta del cliente o di qualcun al­ tro per lui? Il cliente può prendere autonomamente l'iniziativa e ri­ volgersi ad uno psicologo presso un servizio privato o pubblico per un certo disturbo senza che i familiari ne siano a conoscenza; può delegare altri (familiari, istituzioni ecc . ) ; gli altri (familiari, educatori

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

ecc.) possono assumersene l'iniziativa, talvolta discrepante con la vo­ lontà del soggetto designato. Quando si tratta di bambini, adolescen­ ti, persone disturbate l'iniziativa è di competenza di altre persone con un ruolo genitoriale nei loro confronti (Iacono, Adamo, r 9 8 9 ) . L'approccio iniziale del cliente con il servizio o con l o psicologo è rappresentato dalla modalità secondo cui ha luogo la telefonata per fissare l'appuntamento. Mediante il telefono si raccolgono le informa­ zioni basilari che formano le ipotesi di lavoro iniziali . Di conseguen­ za, la segnalazione consente all'operatore di avere un'indicazione sul cliente, sul suo stato e sul suo disagio (Lis, r 9 9 3 ) . I l cliente può presentare il proprio problema i n modo allarmante; essere riluttante ad esprimerlo; tendere a dire pochissimo o, al con­ trario, troppo di sé; manifestare titubanza presentando il problema per poi ritrarlo e riproporlo ancora (Iacono, Adamo, r 9 8 9 ) . Prendiamo i n considerazione l e difese istituzionali del colloquio nel caso in cui il committente non sia l'utente (Cadi, r 995 ) : nel modello liturgico, il colloquio è analogo a un cerimoniale; si verifica quando viene vissuto semplicemente come un evento istitu­ zionale o quando il professionista non è in grado di tenere testa alla resistenza dell'utente; nel modello agonistico, il colloquio è affine a un gioco competitivo con risultato incerto; la relazione si svolge competitivamente quando l'operatore considera la resistenza dell'utente come una sfida. L'ope­ ratore mira a raccogliere informazioni ricorrendo alla seduzione, al­ l'imbroglio e l'utente, dal canto suo, può mostrarsi disinteressato o irruente. Quando l'interlocutore è nel contempo committente e utente del­ l' attività del conduttore del colloquio (ad esempio terapeutico, di orientamento) la motivazione è al livello più alto, la sua indipendenza è assicurata nel grado in cui egli stabilisce la finalità, controlla il ri­ sultato, autorizza il professionista al suo ruolo; il professionista ri­ sponde dell'operato all'interlocutore. Se l'interlocutore è utente ma non committente di chi svolge il colloquio, il professionista risponde del suo lavoro solo a un committente esterno e si possono verificare due circostanze diverse: r. l'interlocutore aderisce agli intenti del committente avallando il ruolo del conduttore; l'interlocutore ricopre così soggettivamente la posizione di committente; 2. l'interlocutore non aderisce agli intenti del committente non aval­ lando il ruolo del conduttore; l'interlocutore è oggetto dell'esercizio di potere del conduttore del colloquio. Infine, se l'interlocutore non è 66

2. ASPETTI DINAMICI DEL COLLOQUIO CLI C\II CO

né committente, né utente, l'interlocutore non è direttamente coinvol­ to negli esiti del colloquio (ad esempio nel colloquio di ricerca) (Bel­ lotto, Zatti, 1 995 ) . Meltzer ( 1 967) afferma che il disagio presente nei soggetti autori­ feritisi è superiore nei soggetti che vengono inviati da altri . In linea di massima questo va considerato unicamente un segnalatore anche se il cliente che ammette autonomamente il bisogno di aiuto manifesta una maggiore consapevolezza del suo disagio. Lo psicologo, considerando la richiesta effettuata dal soggetto, fis­ serà un appuntamento se si sentirà in grado di poter fare qualche cosa per lui. Carli ( 1 995 ) sostiene che il colloquio è una relazione tra due indi­ vidui in un determinato contesto. L'autore ipotizza che il legame tra domanda e contesto «ci possa aiutare a configurare il processo di co­ noscenza del colloquio stesso» (ivi, p. 70); «attraverso il colloquio si pretende di descrivere l' " altro " , di definirne strutture e tratti come se si trattasse sempre di un individuo decontestualizzato [. . .] i tratti o le strutture di personalità che vengono utilizzati dagli psicologi dipen­ dono dai modelli di analisi cui fa riferimento. E tali modelli di riferi­ mento sono chiaramente orientati dal contesto in cui gli psicologi operano» (ivi, p. 7Ù Analizzare la domanda implica aprire uno spazio di elaborazione anche a quel che è implicito ma non ancora esprimibile, contenuto nella richiesta di intervento e poi agito nella relazione (Carli, 2003 ) . Riguardo al processo conoscitivo nella percezione interpersonale del colloquio, Carli ( 1 989) propone un modello inerente ai fattori in­ terponenti . Il modello ingloba: - una fase input, attinente alle fonti di informazione che contribui­ scono ad organizzare la conoscenza dell'altro (informazioni derivanti dall'interlocutore, dall'ambiente, informazioni anteriori sull'interlocu­ tore); - una fase output, che determina quali possono essere le risposte strutturate tenuto conto della conoscenza ottenuta nella relazione, in concordanza alla percezione interpersonale sopraggiunta. Secondo l'autore (ibid. ), nel colloquio è fondamentale l'influenza ambientale riscontrabile nella dimensione istituzionale, vale a dire ruolo e cultura entro i quali si struttura il colloquio, e nell'influenza che ne risulta per lo svolgimento del colloquio in relazione alla sua natura ( di orientamento, di ricerca ecc. ) . Le probabili risposte del professionista legate alla situazione potranno essere: - componente attributiva, che solitamente viene agita alla fine del

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colloquio ed è basata sull' attribuire all'utente caratteristiche specifiche in rapporto al modello di categorie impiegato; componente di aspettativa, che si riferisce all'atteggiamento previ­ sto dall'utente ed è connessa all' elemento attribuito; componente affettiva, che riguarda le condotte positive o negative e la risposta di attrazione o ripugnanza verso l'utente a partire dal presupposto che non esiste una neutralità affettiva del professionista. Secondo Carli ( 1 995, p . 56), la relazione tra l'operatore e l' utente si propone di fornire al primo informazioni atte ad avere un suo giu­ dizio sull'interlocutore. L'operatore dovrà utilizzare l'esperienza di rapporto colloquiale al fine di trasformare la sua conoscenza sull'interlocutore, al fine di passare da uno stato iniziale di informazione sull'altro, considerato insufficiente, a uno stato terminale soddisfacente, vale a dire adeguato alla formulazione del giudizio entro l'area progettata.

È quella che l' autore definisce "un'azione di tipo trasformativo" .

I giudizi che vengono formulati fanno riferimento alla distinzione ideata da Brunswik ( 1 956) e Ryle ( 1 94 9 ) . Il primo individua i giudizi riguardanti : variabili manifeste, che si possono osservare direttamente nell'altro (altezza, colore degli occhi ecc . ) ; variabili latenti, che concernono caratteristiche d i personalità, va­ lori, comportamenti, sentimenti. Il secondo delinea i giudizi: episodici, inerenti a una specifica sequenza o episodio comporta­ mentale delimitabile dall'osservatore; disposizionali, che hanno valenza predittiva per chi li formula e sono inerenti a caratteristiche stabili del soggetto osservato. Inoltre, individuiamo i giudizi episodici di fatti mam/esti, i giudizi

episodici di caratteristiche latenti, giudizi disposizionali di fatti manife­ sti, giudizi disposizionali di caratteristiche latenti che vengono espressi sulla base di una relazione con l'altro e della sua conoscenza. Pertan­ to, con il colloquio psicologico si tende a conoscere l'altro indirizzan­ dosi alla formulazione di giudizi disposizionali di fatti o di caratteri­ stiche latenti. L'obiettivo trasformativo del colloquio psicologico, in quanto struttura orga­ nizzativa, può essere riassunto nella formulazione da parte dell'operatore di giudizi disposizionali di caratteristiche latenti a carattere esplicativo. L'uti­ lizzazione di questi giudizi potrà essere compresa nell'ambito del contesto istituzionale entro cui il colloquio si realizza (Carli, 1 99 5 , p. 5 8) . 68

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2 . 5 . 2 . Il primo incontro Nel corso del primo incontro lo psicologo vede il soggetto o i sogget­ ti che hanno fissato il colloquio; tale colloquio servirà a dare indica­ zioni sull'opportunità di rendere esplicite con l'utente le attese e i contenuti motivazionali, di appurare la possibilità di stabilire l' allean­ za di lavoro, di capire se l'individuo è accessibile o no psicologica­ mente. Se questo avviene si susseguiranno altri colloqui atti a pianifi­ care un intervento fronteggiando temi inerenti alla vita del soggetto. Il professionista valuta altresì la propria capacità di presa in carico del caso (Lis , 1 993 ) . L a relazione professionista-paziente è una variabile basilare al fine di giungere ad un'adeguata valutazione delle caratteristiche del cliente e alla comprensione del suo problema. Innanzitutto è importante la creazione di un clima di collaborazione. L'attenzione dovrebbe essere sempre indirizzata ai bisogni dell'utente e non ai propri, fatto che comporta l' abilità di tollerare le frustrazioni derivanti da questo. Oc­ corre valutare altresì i sentimenti del cliente poiché egli si trova in una condizione di sensibilità e di vulnerabilità, si mostra in uno stato di disagio, di sofferenza, di imbarazzo per dover chiedere aiuto. È opportuno dare al cliente il sostegno emotivo che si presume necessa­ rio (Gislon, 1 9 8 8 ) . Volendo approfondire l e differenti fasi che attraversa lo sviluppo del colloquio, un necessario riferimento deve essere fatto alle proble­ matiche relative al primo colloquio . L'espressione "primo colloquio" è ricca di significato in quanto dice che l'o­ peratore assume una posizione volta a capire le diverse situazioni che gli vengono presentate, e che si sente in grado di poter rispondere in modo ade­ guato e realistico collocandosi al livello dei bisogni e problemi che gli si pre­ sentano. Ma ancora più questa espressione assume significato in relazione alla organizzazione in cui l'operatore lavora e che nel colloquio rappresenta: a questo livello quanto espresso sopra va letto nel senso che tale possibilità è prevista e accettata a livello istituzionale (Kaneklin, 1 99 2 , p. 8o) .

In termini generali si può dire che la rilevanza del primo colloquio è data dal fatto che il paziente affronta di norma tale occasione con un'immagine stereotipata di sé, formata sulla base di quello che ritie­ ne di credere della propria personalità e soprattutto di quello che ri­ tiene gli altri possano credere di lui, temendo che la sua natura e la sua caratterizzazione siano comunque immutabili. Proprio per questo motivo il primo colloquio assume massima ri­ levanza, in quanto si presenta come l'occasione nella quale il terapeu-

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ta ha la possibilità di convincere il paziente delle sue potenzialità evo­ lutive, innescando sin dalle prime mosse un rapporto che si caratte­ rizzi per dinamicità. Di fatto nei primi colloqui abbiamo poco o nulla per concludere, abbiamo invece molto per iniziare a partire da ciò che sentiamo e da che cosa ha detto e fatto il paziente. Il paziente ci ha raccontato mol­ te cose: molte di queste le abbiamo capite, molte ci sono parse si­ gnificative. È evidente che essendo il primo colloquio un momento determi­ nante dell'intera relazione terapeuta-paziente e dell'eventuale riuscita della terapia questa fase rappresenta un passaggio sicuramente critico, in quanto ogni colloquio iniziale è in genere fondato su una mancan­ za di conoscenza del paziente da parte del terapeuta e degli obiettivi dell'intervistatore da parte dell'intervistato . Il problema che si pone è di approccio generale alla terapia : in fase di primo colloquio, il pa­ ziente tende a spostare l'attenzione del terapeuta alla sua esperienza attuale, mentre obiettivo e compito di chi gestisce la situazione è quello di riportare il paziente al qui ed ora, chiarendo le modalità di un colloquio che può essere costruttivo soltanto sulla base della mes­ sa in relazione attuale dei pensieri, delle sensazioni e delle problema­ tiche tanto del paziente quanto del terapeuta. Il problema è anche dato dal fatto che sia il terapeuta che il pa­ ziente non sanno esattamente " cosa fare" nell' ambito del primo collo­ quio e, pur avendo la netta percezione (soprattutto il terapeuta) del­ l'importanza di questa fase iniziale, per lo più si trovano a procedere in maniera sperimentale. Il problema del " che fare " è presente come interrogativo di fondo di tutto il primo colloquio e se sul piano intrapsichico rimanda costantemente l'ope­ ratore a domande scomode relative al " che cosa posso" , sul piano relazio­ nale lo può aiutare a non agire attivisticamente per non essere attivo, ad evitare dannosi scaricamenti dell'utente preceduti da movimenti seduttivi (ivi, p. 8 z ) .

Perché il primo colloquio possa funzionare, occorre che da parte di tutti e due i partecipanti venga compiuto uno sforzo, consistente nel non superare i limiti (temporali e spaziali) del setting terapeutico, mantenendosi all'interno della situazione del presente, pur con la ne­ cessaria condizione di angoscia e di instabilità che questa di norma comporta. Passando poi ad analizzare nel dettaglio le differenti fasi che si succedono nel corso del colloquio clinico, va detto che il meccanismo

2. ASPETTI DINAMICI DEL COLLOQUIO CLI C\II CO

di relazione tra terapeuta e paziente si innesca già prima che il collo­ quio stesso abbia luogo, nel momento cioè della richiesta di appunta­ mento che, per sua stessa natura costituisce una sorta di anticipazione fantasmatica del colloquio e inizia ad interessare reciprocamente tan­ to il paziente quanto il terapeuta, attivandone le aspettative e orien­ tandoli l'uno nei confronti dell'altro. I preliminari dell'incontro contengono già tutti gli elementi mate­ riali e psichici che fanno da cornice al colloquio e che ne consentono il successivo svolgimento . Il setting deve essere dunque sufficientemente accogliente da met­ tere il paziente a proprio agio, senza per questo perdere in professio­ nalità. Ai preliminari - che riguardano l'approccio iniziale e la delimi­ tazione del tempo e del luogo dell'appuntamento - fa seguito l'inizio del colloquio nel quale si presenta un duplice ordine di problemi ri­ guardanti le informazioni preliminari, inerenti alla vita del paziente, che servono per stabilire una conoscenza di base delle motivazioni che lo hanno spinto alla richiesta di un colloquio, e la scelta del tipo di colloquio (che avviene nella fase iniziale) , in riferimento sia alle caratteristiche professionali e metodologiche del terapeuta sia alle ca­ ratteristiche e alle problematiche del paziente. I tipi di colloquio utilizzabili sono sostanzialmente due: libero op­ pure guidato. Nel primo caso il terapeuta si mette in ascolto (lascian­ do il paziente libero di mostrarsi spontaneamente così com'è), e svi­ luppa il colloquio in forma di conversazione apparentemente non professionale ( Semi, 1 9 8 5 ) . Questa tecnica essendo figlia della psicoanalisi n e condivide uno degli aspetti teorici fondanti, cioè il rifiuto di spezzare l' unità dell'in­ dividuo, pena la perdita della sua stessa essenza. Il colloquio clinico non orientato si presenta dunque come una tecnica semplice che mira ad osservare un fenomeno complesso, quale l'insieme dell'apparato psichico del paziente e le sue dinamiche profonde ( Semi, 1 992 ) . Per ottenere un simile risultato il terapeuta deve limitarsi a far accomoda­ re il paziente, invitandolo a parlare liberamente degli argomenti che ritiene più opportuni. Nel caso del colloquio guidato invece il terapeuta "pilota" l' anda­ mento del colloquio, invitando il paziente a parlare di alcuni specifici argomenti . Nel corso della prima fase del colloquio avviene tra tera­ peuta e paziente il "riconos cimento " , cioè una verifica della validità o no delle impressioni e/o informazioni che sono state ricavate nella fase precedente il primo incontro. «Per riconoscimento intendiamo la chiarificazione ed esplicitazione (all'interno della coppia che si co7I

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

stituisce per lo svolgimento del colloquio) degli specifici ruoli del conduttore e del soggetto. [ . . . ] Una presentazione reciproca di en­ trambi è parte integrante di questa fase» (Lis , Venuti, De Zordo, 1 99 5 . p. 7 Ù Superata l a fase iniziale, il colloquio si sviluppa attraverso una "fase libera" nella quale il paziente inizia realmente ad aprirsi. Vi sono alcuni modi tipici di presentazione del paziente che pos­ sono essere schematizzati come segue ( Semi, 1 9 85 ) : 1 . Presentazione del sintomo o dei sintomi che lo spingono a rivolgersi al terapeuta. Tale metodo contiene un'implicita domanda, non solo di aiuto, ma soprattutto di chiarificazione di quelle che potranno essere le modalità di sviluppo del colloquio e della successiva terapia. Comunque, in ogni caso, la presentazione del sintomo in prima battuta, ac­ compagnata da uno stop del paziente subito dopo, sta a significare un tenta­ tivo di separazione tra la sindrome psicopatologica e se stessi come persone. Attenzione: non è affatto detto che questo sia il desiderio del paziente. Può anche darsi che sia un test che il paziente sta facendo a noi, per vedere se ci interessiamo a lui come persona o se invece stiamo ponendo le cose in termi­ ni "medici " (ivi, p. 45 ) .

2 . Racconto della propria storia . Spesso viene presentato dal paziente non in forma di vera premessa alle sue problematiche e alle motiva­ zioni che lo hanno condotto a cercare un colloquio, ma come un modo per presentarsi al terapeuta sotto una luce precedentemente decisa dal paziente. 3 · Descrizione del proprio ambiente. Costituisce un' esposizione delle premesse alla presentazione vera e propria e mira a sottolineare la differenza tra il paziente e il contesto che lo circonda, così da per­ mettergli di acquistare importanza agli occhi del terapeuta. Nel corso della fase libera del colloquio, oltre all'importanza rive­ stita dal tipo di apertura utilizzata dal paziente, è importante il tipo di "risposta" data dal terapeuta alla personalità e al comportamento del soggetto analizzato. Tre elementi sono particolarmente rilevanti: - la tollerabilità o no del paziente, data dal fatto che anche il tera­ peuta può essere soggetto a sentimenti di simpatia/antipatia, attrazio­ ne/repulsione, nei confronti del paziente. «Ognuno ha una propria struttura mentale, delle proprie caratteristiche, delle proprie inclina­ zioni ed idiosincrasie: ciascuno si trova meglio con una persona e peggio con un'altra. E ci sono delle persone che - o perché ci procu­ rano sentimenti di acuto fastidio e disgusto o per qualsiasi altro moti-

2. ASPETTI DINAMICI DEL COLLOQUIO CLI C\II CO

vo - non tolleriamo. O che magari tolleriamo ma non in quel conte­ sto» (ivi, p. 49); - la tolleranza della libertà di parola da parte del paziente, elemento che si manifesta in maniera particolarmente sentita nel corso del pri­ mo colloquio, durante il quale può emergere nel paziente angoscia o frustrazione per il fatto di trovarsi a parlare in tutta libertà, senza po­ tere (o dovere) rispondere a specifiche domande. Il terapeuta deve comunque manifestare la massima disponibilità nel concedere spazio alla libera espressione del paziente, salvo intervenire là dove questo manifesti un'aperta difficoltà espressiva o comunicativa; - la tolleranza degli stop da parte del paziente, che costituisce un aspetto rilevante del rapporto tra terapeuta e paziente, nel momen­ to in cui il primo interviene interrompendo la libera espressione del secondo. Spesso le interruzioni vengono interpretate in maniera negativa, non solo in quanto il paziente è di norma refrattario ad ascoltare, ma anche perché vi possono essere casi in cui valuta l'intervento del tera­ peuta come insufficiente rispetto alle sue aspettative. N el caso in cui il paziente dimostri invece massima tolleranza nei confronti degli stop è anche possibile che si tratti di una strategia mirante a manipolare le osservazioni fatte, ai fini di spostare l'asse e il tema del colloquio su un piano che dal punto di vista inconscio si dimostri per lui più co­ modo. Inoltre, nella fase centrale del colloquio, che si sviluppa successi­ vamente a quella dell'ascolto, lo psicologo - senza imporre domande al paziente, ma rilanciando piuttosto certi contenuti e poi !asciandolo parlare - deve indagare su ciò che non è stato detto da lui spontanea­ mente, cercando di colmare le lacune del discorso e focalizzando l' at­ tenzione sugli elementi rimasti in ombra. Per quanto riguarda la fine del colloquio, esiste una conclusione " clinica " nella quale il terapeuta formula al paziente una proposta di terapia, segnando uno stacco con il colloquio sin lì svolto. In questa fase il paziente può anche non accettare la proposta del terapeuta, ma il momento della conclusione rimane comunque un passaggio che lascia aperta una serie di possibili rielaborazioni. Nel­ l' ambito di una situazione privata, prima del saluto c'è il pagamento; l'onorario deve essere dignitoso e appropriato. In realtà il colloquio dal punto di vista psicologico non finisce in questa fase né riesce mai a concludersi. «Si può dire, innanzitutto, che il colloquio da un certo punto di vista non finisce mai; poniamo che il paziente sia stato suffi­ cientemente incisivo da porvi una serie di interrogativi e da farvi pro­ vare una serie di sentimenti: può darsi che egli vi torni in mente alcu-

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DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

ni anni dopo, magari in una situazione extraprofessionale. E altrettan­ to può accadere al paziente» (ivi, p. 85 ) . L a valutazione del professionista s i appoggerà sui contenuti del colloquio: dati anamnestici, motivazioni della richiesta di aiuto, difficoltà at­ tuali e passate, storia personale dall'infanzia ad oggi (rapporti familia­ ri e sociali, relazioni emotive rilevanti nelle varie fasi della vita, carrie­ ra scolastica e lavorativa) , storia medica; comportamenti e sentimenti consci del cliente, come il cliente vive se stesso, i suoi problemi, le aspettative future, le sue risorse, i suoi interessi, le sue abilità, funzionamento emotivo e mentale attuale, esperienze emotivamente significative; materiale associativo inconscio, al quale approfondendo alcuni dati (ad esempio ricordi infantili, sogni) sarà possibile accedere. In determinati casi (ad esempio con psicotici, con soggetti non collaborativi) i dati raccolti non sono sufficienti per avere un quadro completo. Alle volte ci si può, quindi, avvalere di altre fonti di infor­ mazioni al fine di ottenere notizie fondamentali: può rivelarsi utile ef­ fettuare dei colloqui con uno o più familiari del paziente o con ope­ ratori che si sono occupati del paziente . Altre volte possono venire utilizzati i test psicologici (test proietti­ vi come il Rorschach , test di intelligenza come il wAIS Wechsler Adult Intelligence Scale ecc.) per avere ulteriori dati sul funziona­ mento e sulla personalità del cliente che possono integrare i dati già noti in vista della valutazione diagnostica e del presumibile program­ ma di trattamento. Quando si tratta di valutare un soggetto con disturbi affettivo­ emotivi bisognerebbe accludere gli esami fisici e neurologici che pos­ sono condurre ad una diagnosi e a decisioni cliniche più precise (Gi­ slon, 1 9 8 8 ) . Consideriamo, inoltre, l'interpretazione che secondo l a Lang (zoo3 , p. 34) si pone il seguente obiettivo: «aiutare il paziente a otte­ nere una maggiore conoscenza di sé o una più accurata percezione della realtà. Quando il clinico fa uso dell'interpretazione, esprime il modo in cui egli stesso vede il paziente e la sua situazione». Spesso a distanza di qualche giorno dal colloquio restano solo le sensazioni positive, e il paziente ricorda solo di aver finalmente trova­ to un luogo ed una persona su cui riversare le proprie angosce. Anche per il terapeuta il colloquio non è mai concluso ma resta in forma di " deposito" psichi co cui il professionista può attingere, sia nel corso del proseguimento di quella specifica terapia, sia nello svi­ luppo di altre terapie e altri colloqui. -

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2. ASPETTI DINAMICI DEL COLLOQUIO CLI C\II CO

A questo punto è necessario ricordare l'utilizzo, nell' ambito del­ l'interazione tra paziente e terapeuta, di alcune fondamentali " regole del gioco " - messe in luce da Semi ( 1 9 8 5 ) - sulla base delle quali è possibile costruire la trama dell'intero colloquio: la regola del lin­ guaggio, quella della frustrazione e quella della reciprocità. Per quanto riguarda la prima regola del linguaggio essa raccoman­ da al terapeuta di osservare il linguaggio del paziente, le possibili espressioni dialettali, il tipo di vocabolario prevalente, la ricchezza o povertà del lessico, al fine di utilizzare - soprattutto nelle riformula­ zioni - uno stile di espressione a lui familiare. Il terapeuta ha comun­ que l'obbligo di non usare un linguaggio tecnico-scientifico (preferen­ do un linguaggio chiaro e di uso corrente) e di mantenere quell' ela­ sticità e quell' apertura mentale che gli consentano, di volta in volta con pazienti diversi, di situarsi quanto più possibile al loro livello linguistico . Vi è poi la regola della frustrazione la quale prescrive di non sod­ disfare i desideri consci ed inconsci del paziente ad eccezione di quello di avere una più chiara conos cenza di sé. L'operatore in questo caso deve evitare di diventare per il pazien­ te strumento di soddisfazioni sostitutive, indirizzandone i desideri verso vie di realizzazione più soddisfacenti . Tuttavia, questa regola va applicata con competenza e solo laddove sia stata compresa adeguata­ mente la struttura di personalità del soggetto, evitando di servirsene come giustificazione razionale per la propria maleducazione e il pro­ prio sadismo. L'ultima regola è quella della reciprocità, per la quale il paziente deve aver ricevuto al termine del colloquio almeno quanto ha dato. Un buon terapeuta non dovrebbe mai lasciar uscire un paziente a "mani vuote" perché il soggetto, che ha offerto del materiale prezioso sulla sua situazione psichica, ha il diritto di ricevere in contraccambio il concetto migliorato di ciò che ha trasmesso. La regola della reci­ procità ha inoltre un'utile funzione di salvaguardia della salute menta­ le del terapeuta, in quanto evita che l'immedesimarsi nei problemi e nei conflitti dei pazienti possa lasciare in lui riattivati conflitti e pro­ blemi personali superati con difficoltà. Nella TAB. 2 . 1 vengono riassunte le fasi del colloquio. Per esaminare l'efficacia di una comunicazione facciamo riferi­ mento alle regole conversazionali di Grice ( 1 9 7 5 ) : I. quantità, relativa alle informazioni da dare, cioè fornire la quantità di informazioni richieste e non dare più informazioni di quelle ri­ chieste;

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DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

TABELLA 2 . 1

L e fasi del colloquio Fasi del colloquio r.

Introduzione

Elementi contenuti nelle fasi

Creazione, da parte di chi conduce il colloquio, di un clima in cui entrambi i partecipanti possano sentirsi a proprio agio: - accoglimento (chi è l' utente, chi è il conduttore, quali sono i contesti di appartenenza, quanto è il tempo a dispo­ sizione) - motivo del colloquio (qual è il problema) - scopo del colloquio (si diversifica a seconda che si tratti di un primo incontro, successivo, finale con l'individuo)

2 . Svolgimento

Raccolta di informazioni e loro elaborazione

3a. Conclusione

Riassumere i contenuti considerati ed elaborati nel corso del colloquio deve fungere da cornice del colloquio sintetizzando i motivi per i quali si è svolto l'incontro e pianificando le attività (cosa fare, come, quando)

3b. Chiusura

Costituisce il momento del congedo, deve avvenire con lo stesso clima di disponibilità e apertura delle fasi iniziali (l'u­ tente non deve avvertire disinteresse nei suoi confronti e non deve sentirsi "liquidato" )

2 . qualità, vale a dire apportare u n contributo vero, quindi non dire quello che si ritiene falso e non dire ciò per cui non si possiedono prove adeguate; 3 · relazione all'argomento, implica comunicare informazioni perti­ nenti e comunicare informazioni rilevanti; 4· modo, inerente alla modalità con cui si dice ciò che viene detto, che richiede chiarezza nell'espressione, ordine nell'espressone, evitare l' ambiguità, evitare una prolissità non necessaria. Se tali principi vengono ribaltati possiamo tratteggiare le strategie elusive della relazione interpersonale per evitare di fornire informa­ zioni di sé. Benché la menzogna rappresenti il principale mezzo elusi­ vo non permette di autoimbrogliarsi, a differenza delle seguenti tatti­ che che danno l'illusione di essere in comunicazione con l'altro (Ben­ sante, 1 9 9 8 ) : a) porre domande; b) parlare di terzi; c) parlare di sé in relazione a terzi (i vissuti emozionali di chi parla sono diretti ad altre persone anziché all'interlocutore); d) mostrarsi indecisi senza prende­ re posizione, dicendo banalità, tergiversando, apparendo enigmatici; e) interrompere; /l ricorrere a verità parziali ( eludere ciò che è sgradi­ to) ; g) essere reticenti (tacendo o mostrandosi logorroici senza fornire

2. ASPETTI DINAMICI DEL COLLOQUIO CLI C\II CO

informazioni su di sé); h ) utilizzare la forma impersonale; i) divagare con premesse, esempi. 2 . 5 . 3 . Le domande Il conduttore dovrebbe formulare le domande in modo chiaro affin­ ché possano essere facilmente capite dall'utente senza generare disa­ gio e possano facilitare la realizzazione di un' atmosfera rassicurante e accogliente. Le domande possono essere (Bastianoni, Simonelli, 2 o o r ) : dirette, atte ad indagare aspetti conoscitivi; indirette, confacenti a ricavare dati inerenti ad emozioni e senti­ menti; - proiettive, formulate invitando, ad esempio, il soggetto a immagi­ nare una circostanza di fantasia. Il professionista dovrebbe (Kadushin, I 9 7 2 ; Breakwell, I 99o; Lis, Venuti, De Zordo, I 9 9 5 ; Giovannini, I 998, 2 ooo) : I . formulare un domanda alla volta; 2. enunciare domande non equivoche in modo da generare una sola interpretazione nel cliente; 3· eludere espressioni che possano sottendere atteggiamenti giudiziali o valutativi verso l'utente; 4· formulare le domande lentamente affinché l'utente possa com­ prendere; 5 . prestare attenzione all'aggettivazione per evitare rischi di sugge­ stione; 6. utilizzare proporzionalmente domande aperte (non richiedono una risposta specifica e l'utente è libero di interpretare la domanda) e chiuse (implicano una risposta specifica) ; 7 · evitare l e domande con il "perché" i n quanto inquisitorie e pseu­ doinformative; 8. evitare le domande con negazione o con doppia negazione; 9· evitare le domande retoriche che suggeriscono la risposta; I o . aver chiaro ciò che si desidera ottenere da ciascuna domanda. Le domande, inoltre, mettono a fuoco un determinato contenuto; evidenziano probabili collegamenti tra i molteplici aspetti di una si­ tuazione; permettono di instaurare un legame tra settori tematici; la successione delle domande e delle risposte costituisce uno schema di disposizione della narrazione; le domande prospettano una rappre­ sentazione della realtà; circoscrivono l'attenzione dal generale al parti­ colare o viceversa; consentono di cambiare argomento o condotta re­ lazionale. In alcuni casi le domande possono sopperire alle divagazio77

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

ni dell'individuo e alla sua difficoltà di soffermarsi su di una specifica questione. Nel corso di un colloquio può accadere che una domanda non trovi un'adeguata risposta in riferimento allo scopo per cui era stata enunciata dal conduttore. Affinché il soggetto fornisca altre informa­ zioni è possibile ricorrere a cenni di assenso con il capo, a espressioni di comprensione e di interessamento (ad esempio " capisco " , " s ì " , "bene " ) . Quando u n argomento non risulta approfondito è auspicabi­ le affidarsi alle seguenti tecniche di rilancio neutre che consentiranno al cliente di sentirsi accettato e ascoltato (Giovannini, 2ooo l : il rilancio a specchio, vale a dire l a ripetizione d i u n concetto o di una frase pronunciata dal cliente fermandosi ad aspettare che egli unisca ulteriori contenuti; - la ripresa o riflessione, quando si desiderano informazioni su di un argomento si interviene riprendendo il contenuto da approfondire con espressioni come "provi a raccontarmi qualcosa di più " , "vorrei che continuasse, mi sembra rilevante" ; - l a rz/ormulazione, il conduttore ripete con altre parole quel che il cliente ha detto per ottenere la sua conferma. Con la parola p robe Kahn e C annel ( I 9 5 7 ) si riferiscono a frasi neutre (ad esempio "vorrei comprendere meglio " , " cosa vuole dire? " ) , pause, commenti volti a ricavare risposte dettagliate senza es­ sere condizionate dal conduttore. Le tecniche di probing controllato non direttivo si prefiggono di incrementare l' efficacia interattiva e di motivare l'individuo a comunicare adeguatamente; tra queste vi è la tecnica del riepilogo che è data dal ricapitolare le opinioni dell'utente al fine di aiutarlo ad analizzare le proprie condotte in maniera più appropriata. Quando si ottengono il rifiuto di fornire risposte, rispo­ ste parziali (il soggetto dà risposte incomplete rispetto a ciò che si vuole indagare) , risposte mancate (il soggetto resta in silenzio o ri­ sponde evitando il problema), risposte non pertinenti (il soggetto non fornisce l'informazione richiesta), risposte inesatte (il soggetto forni­ sce risposte ambivalenti che assegnano un'immagine alterata dei suoi sentimenti) è preferibile affidarsi ai probes per trattare tali risposte inadeguate. Le risposte inadeguate possono dipendere dal fatto che l'utente non ricorda ciò che gli è stato chiesto, non comprende l'obiettivo della domanda, non capisce il significato perché il linguaggio è trop­ po complesso, non ha elementi per rispondere, non considera la do­ manda pertinente ai fini del colloquio, non è in grado di verbalizzare ciò che vorrebbe riportare, non vuole collaborare con quel determi-

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nato professionista. Ne deriva che per fronteggiare le risposte inade­ guate è necessario appurare le cause che le hanno generate. 2. 5 + La registrazione Nella maggior parte dei casi chi conduce il colloquio prende appunti per non dimenticare determinate cose, e solo in un momento succes­ sivo il colloquio viene trascritto . È possibile ottenere una precisa regi­ strazione dei dati mediante l'impiego del registratore o del videoregi­ stratore, previo consenso dell'utente; anche in questa circostanza i dati andranno poi trascritti. L'uso del registratore o del videoregistra­ tore potrebbe agevolare l'informazione a svantaggio della relazione, viceversa la trascrizione in seguito al colloquio avvantaggia la relazio­ ne a danno dell'informazione (Lis, Venuti, De Zordo, r 9 9 5 ) . Il regi­ stratore potrebbe fare sorgere nell'intervistato timori, ansia, inibizione oppure desiderio di mettersi in mostra. 2 .6

La comunicazione non verbale

Un momento particolarmente rilevante nell'ambito del colloquio è l' approccio iniziale tra le due persone coinvolte: spesso, infatti, la pri­ ma forma di interazione è una comunicazione non verbale, inconscia­ mente attuata dal paziente e talora consciamente rielaborata dal tera­ peuta. A tale proposito bisogna considerare il fenomeno della diffi­ coltà di valutazione clinica indotta dal paziente stesso attraverso le sue condotte, ciò è rilevante in medicina dove capita che la condotta di uno specifico paziente " confonda" l'agire clinico di un medico pe­ raltro corretto ad un punto tale da indurre a tralasciare esami o giun­ gere direttamente ad una diagnosi erronea. Proprio questa prima forma di comunicazione, pure necessaria­ mente limitata, suscita una serie di risposte - tanto consce quanto in­ consce - da parte dell'operatore, che possono assumere forma di sim­ patia, aggressività, fastidio, partecipazione o azioni indotte ecc. Vi è anche una contemporanea reazione da parte dell'intervistato nei riguardi del terapeuta (o dell'istituzione nella quale egli opera) che talora ricava dalla riflessione sul colloquio una sensazione di in­ differenza da parte dell'operatore, percepito come una mera figura "professionale " , per nulla coinvolta a livello emotivo nel rapporto cli­ nico che sta nascendo. Già nel primo colloquio si instaurano delle situazioni di transfert e controtransfert e di " identificazione proietti va" o di " enactment"

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DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

che, oltre a costituire una sorta di prerequisito indispensabile dell'a­ nalisi dell'interazione costituiscono anche una motivazione al prose­ guimento della terapia. In generale si può affermare che i concetti (o le sensazioni) espressi dal paziente nel corso del primo colloquio siano la rappre­ sentazione di quello che il paziente può in quel momento effettiva­ mente esprimere, intendendo con ciò che egli non abbia altre possibi­ lità comunicative, né altri messaggi da trasmettere. Proprio per queste ragioni l'operatore tiene - o dovrebbe tenere - in massima considera­ zione i contenuti espressi (o manifestati non verbalmente) nel corso del primo approccio, considerando che (proprio con riferimento alla logica dell' hic et n une) questi possono rappresentare una guida inso­ stituibile per la successiva costruzione della terapia . Particolarmente rilevante non solo nel corso del primo colloquio, ma nell' ambito di tutta la terapia, è la comunicazione non verbale de­ finibile come l'insieme di tutte le risposte umane che non possono essere descritte come parole espresse manifestamente, tanto oralmen­ te quanto per iscritto. La comunicazione non verbale assume massima rilevanza nel cor­ so del colloquio clinico in quanto fornisce al terapeuta informazioni più ampie in merito al paziente, sia nel caso in cui l'interlocutore de­ cida deliberatamente di ingannarlo, sia nel caso in cui abbia invece inconsciamente bloccato o represso le informazioni che vorrebbe tra­ smettere. I codici comunicativi non verbali sono multiformi e integrano la comunicazione verbale (Quadrio, Galardi, 1 9 9 7 ) . Dal punto di vista operativo i segnali espressi attraverso la comu­ nicazione non verbale hanno una triplice funzione espressiva: definiscono, condizionano e limitano il sistema; contribuiscono a regolare il sistema, indicando la gerarchia tra gli interlocutori; comunicano il contenuto del messaggio in maniera talvolta più ef­ ficiente di quanto non avvenga per mezzo dei segnali linguistici. I differenti comportamenti non verbali nell'ambito della comuni­ cazione umana hanno cinque possibili funzioni fondamentali (Argyle, 1 9 7 2 ; Ekman, Freisen, 1 969; Lis , Venuti, De Zordo, 1 995 ) : di ripetizione, di quanto espresso a livello verbale; di contraddizione, nei confronti di quanto espresso vocalmente. Di norma in questo caso l'interlocutore dà maggiore importanza al mes­ saggio non verbale, in quanto più spontaneo e più difficile da simula­ re, o se si trova in presenza di due messaggi non verbali contradditto-

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ri concede maggior credito a quello considerato più difficile da creare " artificialmente " ; d i sostituzione, l'affermazione verbale può essere sostituita dal messaggio non verbale; di accentuazione, attraverso la quale i movimenti del capo e del corpo sottolineano alcune parti della comunicazione verbale; di regolamentazione e di controllo della comunicazione verbale, per mezzo della quale con un cenno del capo, un movimento degli occhi o un cambiamento di posizione, viene indicato ad uno dei par­ tecipanti al colloquio il comportamento successivo da tenere, cioè se deve continuare a parlare o se deve invece concedere maggiore spazio all'interlocutore. Nell'ambito del colloquio clinico (e più in generale della terapia) la comunicazione non verbale svolge un ruolo assolutamente fonda­ mentale, dal momento che consente - tanto al terapeuta quanto al paziente - di disporre di una conoscenza dei reciproci comportamen­ ti e convinzioni assai più ampia di quanto non awerrebbe con la semplice comunicazione verbale. È quindi possibile cogliere attraverso i movimenti del corpo, del volto, delle mani, attraverso l'intonazione della voce, il suo ritmo e le sue inflessioni, attraverso le configurazioni spaziali che i corpi intera­ genti assumono, il significato delle emozioni, degli atteggiamenti, dei conflitti - sia consci che inconsci - che il soggetto sta vivendo e che non esprime verbalmente. Ciò trova giustificazione nel fatto che, di norma, questo tipo di comunicazione non è sottoposta a vincoli razionali e consci, ma si esplica sulla base di un'involontaria tendenza dell'individuo a manife­ starsi e a comunicare all'interlocutore il proprio stato e le proprie emoztom. Vi sono alcune modalità di comunicazione non verbale ricorrenti la cui osservazione non può non rientrare nell'attenzione che il tera­ peuta pone al comportamento globale del soggetto. Esse sono costi­ tuite da (Ugazio, I 992; Lis, Venuti, De Zordo, I 9 9 5 ; Quadrio, Ga­ lardi, I 99 7 ) : I . Movimenti del corpo o comportamenti cinesici, nei quali vengono fatti rientrare le gesticolazioni, i movimenti del tronco , degli arti e delle mani, le espressioni della mimica facciale e la pastura. Comune­ mente questo tipo di comportamenti viene distinto in : a) comportamenti emblematici, dati da azioni non verbali che possie­ dono però una " traduzione" verbale espressamente definita, in riferi­ mento alle differenti abitudini e tipologie culturali . Condotte non ver-

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bali di questo tipo vengono sovente utilizzate quando il canale verba­ le è bloccato o inibito, ad esempio da tabù sociali o culturali; esse vengono generalmente utilizzate al fine evidente e cosciente di comu­ nicare un messaggio ben preciso; b) comportamenti illustratori, consistenti in azioni non verbali che sono direttamente correlate al linguaggio o che lo accompagnano al fine di illustrare ciò che viene espresso verbalmente. Si tratta di movi­ menti che accentuano o sottolineano una parola o una frase e che, delineando una relazione spaziale o emotiva, raffigurano un' azione dell'organismo; c) display affettivi, consistenti in configurazioni facciali che indicano gli stati affettivi, attraverso una ripetizione, una sottolineatura o una contraddizione delle affermazioni verbali; d) comportamenti di regolazione, nella forma di azioni non verbali che sostengono e regolano l' alternarsi del discorso tra due o più per­ sone, segnalando all'interlocutore il comportamento successivo da te­ nere; e) comportamenti di adattamento, che si sviluppano durante l'infanzia come sforzi adattivi finalizzati al soddisfacimento di bisogni quali l'e­ secuzione di azioni, il controllo delle emozioni, lo sviluppo dei con­ tatti sociali ecc. I comportamenti di questo tipo non sono facilmente codificabili, poiché si tratta di frammenti estremamente variabili di comportamenti aggressivi, sessuali o intimi che rivelano predilezioni, caratteristiche o idiosincrasie personali che possono essere completa­ mente mascherate nell' ambito delle interazioni verbali . 2 . Caratteristiche fisiche, costituiscono degli elementi che restano so­ stanzialmente immodificati nel contesto interattivo del colloquio e si caratterizzano per il fatto di essere degli importanti stimoli non ver­ bali non legati ai movimenti. Inoltre, anche l'abbellimento, l' abbiglia­ mento, il trucco sono indicatori ricchi di significato. 3 · Paralinguaggio, sta a rappresentare il modo in cui un messaggio verbale viene emesso, indipendentemente dal suo significato. Nell'am­ bito del paralinguaggio rientrano elementi quali : la qualità della voce (tono e controllo della voce, ritmo del discorso, tempo, controllo del­ l' articolazione, risonanza ecc . ) e le vocalizzazioni (caratterizzatoti vo­ cali, qualificatori vocali, segregati vocali ecc. ) . 4 · Fattori ambientali, nei quali rientrano tutti quegli elementi che in­ fluenzano la comunicazione umana, pur senza farne parte direttamen­ te; esprimono simbolicamente la loro funzione mediante accurate tracce di disposizione di arredamento, dello spazio, di disposizione prevista delle persone.

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Si può dire che la componente comunicativa verbale sia associa­ ta più strettamente a una funzione cognitiva mentre quella non ver­ bale a una funzione attitudinale e sociale. In particolare - e il caso del colloquio è in questo senso emblematico - l'osservazione della comunicazione non verbale viene oggi riconosciuta fondamentale complemento di quella verbale, alla luce della considerazione per cui le possibilità espressive e comunicative dell'individuo vengono valutate con sempre maggiore attenzione, sia in funzione del loro ruolo che nella modificazione del comportamento e nella composi­ zione del carattere . La valutazione degli aspetti non verbali della comunicazione assume dunque una notevole importanza nello svolgersi del colloquio, sia esso di ricerca che diagnostico o terapeutico. In tutti e tre i casi, facendo riferimento allo psico­ logo, il suo modo di porsi, le sue posture, la mimica facciale, il tono della voce favoriranno o meno l'instaurarsi della relazione e l'esito finale del collo­ quio (Lis, Venuti, De Zordo, 1 995 , p. 5 8 ) .

Gli aspetti non verbali dell'utente saranno rilevanti p e r individuare gli stati emotivi alla base dell'eloquio verbale, mentre gli aspetti non verbali di chi conduce il colloquio verranno analizzati dall'individuo che ne deriverà la sensazione di tranquillità o disagio, di comprensio­ ne o non comprenswne ecc. Il silenzio non va considerato come mancanza di comunicazione, bensì come forma di espressione - intenzionale o non intenzionale significativa (Quadrio, Galardi, r 99 7 ) . Come evidenziano Lis, Venuti, D e Zordo ( r 995 ) , esso può avere significati differenti : può essere privo di comunicazione; può essere connesso ad aspetti emozionali, sentimenti del cliente in una determinata circostanza; può rappresentare una resistenza al colloquio; può riferirsi alla volontà di stabilire un'alleanza terapeutica; può derivare da un momento riflessivo e di insight dell'individuo posto di fronte ad una tematica specifica. All'interno di un medesimo colloquio il silenzio può avere signifi­ cati diversi e si rivela un errore tentare di riempire i silenzi senza di­ scriminare tra pause significanti e silenzi disagevoli. Il silenzio del conduttore può rappresentare un modo per riflettere in merito a quanto riferito dall' utente, una difesa riguardo a ciò che ha ascoltato, una momentanea mancanza di contenuti da comunicare, un silenzio empatico (Giovannini, 2ooo l .

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

2 .]

Le difese nel colloquio

Al di là della natura e dei meccanismi di funzionamento generali del colloquio, occorre qui ricordare che esistono alcuni comportamenti e aspetti che si manifestano in maniera ripetuta nei differenti casi di colloquio clinico, dimostrando di costituire una costante insita nella natura stessa di tale strumento di indagine. Tra questi il più rilevante appare senza dubbio l' esistenza, nel corso di tutto lo svolgimento dell' incontro , di una forte tensione emotiva dell'utente in direzione dell'intervistatore. Si tratta di un sen­ timento composto da valenze differenti che vanno dall' ansia al timo­ re, al risentimento, alla speranza di risultati soddisfacenti. Appare evidente come questi sentimenti - peraltro generalmente contraddittori - non possano fare a meno di influire sulle modalità dell'incontro stesso, tanto a livello conscio quanto soprattutto a livel­ lo inconscio, dal momento che non solo nella cura psicoanalitica, ma anche nel colloquio stesso, provvedono ad innescare, sin dal primo incontro, il processo di transfert e in risposta quello del controtran­ sfert. Tra questi atteggiamenti poi, particolare importanza assumono i meccanismi di difesa, messi in atto tanto dal paziente quanto dal te­ rapeuta. Per meccanismi di difesa si intendono i vari modi adottati dall'Io - a livello inconscio - sia per proteggersi da movimenti affettivi dolo­ rosi legati a qualche situazione spiacevole più o meno frequente sia per cercare una soluzione a conflitti che possono insorgere con le al­ tre parti dell'apparato psichico o con l' ambiente (A. Freud, 1 9 3 6 ) . Tali meccanismi d i difesa sono processi mentali attraverso i quali l'individuo realizza la strutturazione dinamica del proprio mondo in­ terno e cerca di trovare delle soluzioni per evitare la spiacevolezza interiore e l'ansia. Indipendentemente dall'uso che se ne fa nell'ambito del colloquio clinico, gli atteggiamenti di difesa costituiscono una "naturale" com­ ponente della psiche a carattere adattivo e sono utilizzati dall'indivi­ duo per difendersi dai conflitti con se stesso o con gli altri. L'utilizzo massiccio di meccanismi difensivi, fisiologico nelle prime fasi evoluti­ ve della psiche umana, diviene patologico in fasi successive dello svi­ luppo. Se è vero che la finalità ideale delle differenti forme di difesa psichica è sempre positiva e concerne la possibilità di risolvere con­ flitti e frustrazioni, è anche vero che i meccanismi di difesa possono assumere una valenza patologica, nel momento in cui nella loro appli­ cazione debbono continuamente rinnovare il processo di rimozione,

2. ASPETTI DINAMICI DEL COLLOQUIO CLI C\II CO

pena il riemergere di impulsi inaccettabili. In questo caso, i meccani­ smi di difesa invece di ottenere un effetto di cessazione della depres­ sione, provocano conseguenze nevrotiche. Bisogna distinguere tra le misure difensive messe in atto nel corso di un colloquio a motivazione estrinseca - dove vengono usate delle difese caratteriali (a carattere preconscio o conscio) - e quelle uti­ lizzate nel caso del colloquio a motivazione intrinseca, che consistono in difese di natura psiconevrotica a carattere inconscio. I meccanismi difensivi caratteriali, pur essendo più superficiali e pertinenti alla di­ namica dell'Io, a causa della loro natura alloplastica, presentano mag­ gior difficoltà diagnostica in quanto trascinano più facilmente l'opera­ tore in una dinamica collusiva. Quelli psiconevrotici invece - perti­ nenti alle profonde dinamiche dell'Es - in ragione della loro natura autoplastica lasciano più libero l'osservatore esterno cosicché egli può, una volta riconosciuti i propri, rilevare con maggiore oggettività quelli del paziente. I primi si manifestano nei casi in cui il colloquio non è espressamente voluto dal paziente o perché gli è imposto dal­ l' esterno o perché, pur voluto a livello conscio, viene di fatto osteg­ giato a livello inconscio dall'intervistato. In questo caso l'obiettivo del paziente è quello di ottimizzare al massimo l'incontro, volgendone il più possibile l'esito al proprio interesse, utilizzando come tecnica principale quella del silenzio, intesa come rifiuto del contesto stesso nel quale ci si trova costretti. Il silenzio nel corso del colloquio può avere una doppia funzione: essere utilizzato in maniera sostitutiva, là dove diviene canale comuni­ cativo in condizioni di impossibilità di utilizzo del codice verbale, op­ pure può essere usato in maniera alternativa quando la scelta di non parlare è rappresentativa di una precisa volontà di rifiutare il contesto del colloquio o della terapia. Anche da parte del terapeuta può essere attuata la strategia del silenzio, generalmente per comunicare in modo empaticamente più immediato con il paziente e per delimitare ulteriormente il set del colloquio psicologico, sottolineando il fatto che il paziente non si tro­ va di fronte ad un interlocutore " normale" che formula delle doman­ de in attesa di precise risposte, ma semplicemente di fronte ad un " contenitore umano " che è disposto ad accogliere tutti i discorsi che possono essere fatti. Nel caso in cui invece l'intervistato decida di non utilizzare il silenzio, ma di partecipare in modo costruttivo al col­ loquio, vengono comunque messe in atto delle difese caratteriali che hanno il significato di vere e proprie misure di sicurezza e che - per effetto di una duplice articolazione tanto conscia quanto inconscia finiscono per inserire l' esaminatore in un rapporto causa-effetto,

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sulla medesima base di espressione della dinamica transfert-contro­ transfert . Se il terapeuta risponde in modo specifico alle difese caratteriali finisce per colludere con queste, non riuscendo a ricavare dal collo­ quio le informazioni necessarie. Tra queste misure di sicurezza tre appaiono particolarmente diffu­ se (Ancona, 1 995 ; Castelli, Giovannini, 1 9 9 8 ) : a) Tecnica dell'evasione, per l a quale il paziente s i pone i n una con­ dizione di sudditanza nei confronti dell'autorità, con una conseguente sensazione di timore e con un' altrettanta conseguente necessità di mantenere l' appoggio e la protezione di tale figura, per sua stessa na­ tura rassicurante. Manifestazione di questo tipo di atteggiamento è un colloquio im­ postato su argomenti il più possibile generici e "neutri " , tali da con­ sentire una " donazione di sé" da parte dell'intervistato, senza che vengano però affrontati temi troppo personali o coinvolgenti. La ri­ sposta del terapeuta è in questo caso standardizzata, basata su una sensazione di fastidio e irritazione, motivata dal trovarsi impossibilita­ to a definire, anche se solo a livello iniziale, le caratteristiche domi­ nanti dell'intervistato. b) Tecnica della seduzione, per la quale il soggetto intervistato inizia a parlare liberamente di sé, fornendo una serie di informazioni che possono di volta in volta favorirlo o danneggiarlo, ma impostando la conversazione sulla base di un tentativo di seduzione nei confronti del terapeuta, tale cioè da costringere l'intervistatore a diventare un alleato del paziente e ad accettarlo come soggetto connotato da va­ lenze prevalentemente positive. Di norma questa seduzione si svilup­ pa attraverso il tono della verbalizzazione fino a dichiarazioni di ade­ sione e fedeltà ad una serie di standard etici e morali che si presup­ pongono condivisi dal terapeuta. Anche in questo caso la risposta dell'intervistatore è generalmente negativa, dal momento che matura in lui la convinzione di essere stato in qualche modo raggirato dal paziente e di trovarsi involontariamente coinvolto in un capovolgi­ mento dei ruoli canonici del rapporto intervistatore-intervistato. c) Tecnica della ribellione, nei riguardi dell'autorità con la quale il soggetto esaminato dimostra di considerare il momento del colloquio come una vera e propria battaglia nella quale la figura del terapeuta deve essere comunque sottomessa. Questa tecnica si rivela, sin dalle prime battute del colloquio, come il tentativo di creare una superiorità psicologica e caratteriale da parte dell'intervistato sul terapeuta, attraverso attacchi verbali di-

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2. ASPETTI DINAMICI DEL COLLOQUIO CLI C\II CO

retti, riguardanti la figura dell'operatore stesso o la natura e le po­ tenzialità del colloquio . Se queste sin qui indicate sono le risposte difensive comunemente attuate dal paziente, anche il terapeuta sviluppa una serie di difese in risposta a quelle subite. Seguendo la stessa schematizzazione sopra riportata, va detto che di fronte alla tecnica dell'evasione, l' esaminatore mostra di norma un atteggiamento di imbarazzo, manifestando al paziente la propria per­ plessità nei confronti di un atteggiamento eccessivamente comunicati­ vo e contemporaneamente facendogli capire che non lo disturberà al di là di un certo limite. Per quel che concerne le contromisure difensive adottate dal tera­ peuta nei confronti della tecnica di seduzione, va detto che - in ri­ sposta alla forte ostilità latente dell'intervistato - l'esaminatore tende a rispondere, da un lato, con un atteggiamento intellettualistico e ra­ zionalizzante mirante a mantenere il colloquio nei limiti della massi­ ma scientificità possibile, dall' altro con un atteggiamento masochistico che, consentendo al paziente di abusare della propria presunta situa­ zione di seduzione, tende a farlo sentire colpevole. Per quel che concerne, infine, le risposte difensive alla formula della ribellione si ha un comportamento speculare: si assiste cioè ad un tentativo dell'esaminatore di porsi in posizione di superiorità nei confronti dell'esaminato, cercando di capovolgere il meccanismo in­ nescato dal paziente per non perdere il proprio prestigio. Tutte queste risposte di controtransfert finiscono in genere per fa­ vorire le volontà difensive espresse dal paziente, dal momento che non solo il terapeuta fornisce risposte emotive scarsamente controlla­ bili, ma addirittura rischia di spostare l'attenzione dallo sviluppo di una terapia a vantaggio del paziente alle proprie esigenze in termini di difesa. Proprio in relazione alle modalità difensive di paziente e terapeu­ ta, si esplicita al meglio la continua interattività del colloquio, dal momento che questo ininterrotto difendersi l'uno dall' altro provoca una costante modificazione non solo dei rapporti tra i due compo­ nenti, ma anche dei loro reciproci sentimenti inconsci. Nel caso del colloquio a motivazione intrinseca il paziente mette in atto una diversa serie di risposte difensive, tra le quali particolar­ mente significative risultano essere (Trentini, r 9 9 5 b ) : r . l' introiezione, che consiste nell'operazione mentale d i assorbire qualche aspetto del mondo esterno o di incorporare un oggetto o la sua immagine. Lo scopo di questo tipo di difesa è fare proprio ciò che si dimostra positivo e piacevole sul piano p sichico, riget-

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tando tutto quello che sembra poter provocare spiacevolezza o ansia; 2. la proiezione, che consiste nell'esteriorizzare una propria caratteri­ stica o un proprio stato d'animo sopra un'altra persona, così da vive­ re tale aspetto come appartenente ad un altro anziché a se stessi. La proiezione può essere di tipo: a) assimilativo, quando si tratta di un'assegnazione inconsapevole dei propri tratti, atteggiamenti o processi soggettivi ad altri (ritenere che gli altri sentano e agiscano come noi); b) di ripudiamento, quando vengono attribuiti ad altri propri deside­ ri, colpe o problemi personali; 3· l'interiorizzazione, che rappresenta l'operazione con la quale le re­ lazioni intersoggettive si trasformano in relazioni intrasoggettive e tende a sovrapporsi ai processi di introiezione e/o di identificazione; 4· la fissazione, che è il processo per cui, in relazione a specifiche situazioni affettivo-emotive, avviene un'interruzione dello sviluppo evolutivo centrato sul fatto che la libido sia più o meno fortemente legata a persone, relazioni, immagini, eventi carichi dal punto di vista emozionale; 5 . la regressione, che si sviluppa quando il comportamento di un individuo ritorna ad uno stadio che di norma è considerato primi­ tivo . Questa forma di difesa si manifesta con reazioni affettive molto infantili, oppure per effetto di una riduzione delle capacità intellettivo- discriminative o un restringimento del campo degli inte­ ressi; 6. la sublimazione, che consiste nel dare una differente direzione al­ l' energia psichi ca derivante dalle pulsioni sessuali o aggressive primi­ tive che vengono indirizzate verso nuovi canali di estrinsecazione e verso nuovi fini socialmente tollerabili; 7· la rimozione, che consiste nel processo psichico con cui una per­ sona elimina dalla propria consapevolezza e respinge nell'inconscio le rappresentazioni di determinati contenuti, quali ad esempio gli istinti sessuali o aggressivi dotati di particolare carica emozionale. Con la rimozione l'individuo può uscire dall'ansietà o dai sentimenti di col­ pevolezza connessi a tali rappresentazioni; 8. la razionalizzazione, che è il processo per cui un individuo accetta razionalmente ciò che non è per nulla accettabile sul piano affettivo, inventando delle ragioni plausibili che forniscono una spiegazione ed una giustificazione di determinati atti e comportamenti; 9· l'isolamento, che può essere un processo di isolamento vero e pro­ prio, nel qual caso si separa il piano emotivo e il piano intellettivo, ottenendo il risultato che le esperienze, i ricordi e le percezioni che

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sono in qualche modo spiacevoli o penosi siano privati del loro aspet­ to emozionale; oppure può essere un processo di rimozione con isola­ mento, in cui le pulsioni e i desideri rimossi vengono esaminati accu­ ratamente dalla coscienza senza che quest'analisi metta in relazione tali sentimenti con i comportamenti attuati dall'individuo; Io. l'intellettualizzazione, che è un meccanismo con cui l'individuo dà una strutturazione concettuale ai propri conflitti e alle proprie di­ namiche emotive, così da poterli controllare e governare . Questo tipo di difesa costituisce un modo con cui l'individuo cerca di mantenere un controllo conscio su quello che dice, trasformando le componenti emotive in componenti intellettuali; I I . l'identificazione, che è un processo mediante il quale un soggetto assimila dentro di sé l'immagine mentale di un altro individuo, cosic­ ché sente, pensa e agisce come ritiene avvenga nell'altro; I 2 . l'identificazione proiettiva, che consiste nel proiettare il sé globale su un oggetto esterno che diviene, a livello fantasmatico, posseduto e controllato dalle parti proiettate con le quali viene assimilato; I 3 . la negazione, che è l'operazione mentale tramite cui un individuo respinge circostanze, aspirazioni intollerabili e sgradevoli; 14· la formazione reattiva, che si riferisce all'evoluzione di condotte che sono l'opposto degli impulsi rimossi, ma che non sono del tutto accettabili sotto il profilo sociale; I 5 . lo spostamento, il processo mediante il quale definite cariche af­ fettive vengono trasferite da un individuo a un altro, può riguardare oggetti, animali, esseri umani. z.S

Il problema della menzogna

Freud nell'opera Psicopatologia della vita quotidiana ( I 9o r ) sottolinea come gli errori che accadono nella vita di ogni giorno ( dimenticanze di nomi familiari, lapsus, errori di lettura e di scrittura) non costitui­ scano eventi incidentali, bensì episodi ricchi di significato che eviden­ ziano conflitti psicologici interni. Non è per nulla più difficile dichiarare a parole un sentimento falso che uno autentico : di solito né l'una né l'altra dichiarazione ri­ sulterà molto eloquente, elaborata o convincente. È la voce, il corpo, l'espressione del viso a dare un significato all'enunciazione verbale di un sentimento . In queste poche righe sono racchiuse le direzioni in cui si svolge la ricerca di Ekman ( I 9 8 5 ) sulle strategie utilizzate dalle persone per creare delle non-verità, delle costruzioni cioè in cui un

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

soggetto, venendo incontro ad aspettative di un altro soggetto, trarrà un vantaggio . La strategia di colui che vuole costruire una situazione caratteriz­ zata da aspetti di illusione a suo vantaggio ricercherà qualcosa che l'interlocutore vuole o ha bisogno di credere; la vittima dell'inganno diverrà così il più importante collaboratore nella costruzione di que­ sta non-verità. L' autore espone i risultati di ricerche pluriennali sull'e­ spressione delle emozioni in soggetti che mentono. Ekman e Friesen ( 1 974, 1 976), Ekman, Friesen e Scherer ( 1 976) esaminando i movimenti del corpo, la mimica facciale, la voce, le rea­ zioni del sistema neurovegetativo delineano alcuni indizi rivelatori della menzogna: lapsus, tentativo mal riuscito di nascondere la verità, dovuto alla soppressione (deliberata nel caso della menzogna) dell'intento di dire qualcosa; tirate declaratorie, causate da eccedenza di emozioni ingovernabili; circonlocuzioni e discorsi elusivi, usati per rendere più credibile la menzogna. Chi mente sceglie tra falsificare, cioè presentare informazioni false come se fossero vere, e dissimulare, cioè mascherare informazioni vere. Per quel che concerne le espressioni delle emozioni differenzia­ mo tra dissimulazione mancata di un 'emozione, quando il mentitore non riesce ad inibire certe tracce della menzogna !asciandole filtrare, e simulazione mancata, quando la comunicazione non verbale eviden­ zia manifestazioni emotive utilizzate per nascondere quelle che affio­ rano naturalmente (Anolli, Ci ceri, I 997 ) . Alcune situazioni storiche sono esemplificative di questi processi: la discussione tra Hitler e Chamberlain alla vigilia dell'invasione della Cecoslovacchia, la strategia utilizzata da Nixon durante l'inchiesta sullo scandalo Watergate per far fronte alle rivelazioni dinnanzi alla commissione d'inchiesta del suo collaboratore John Dean. Tipicamen­ te ha valore clinico la strategia utilizzata da un paziente suicidario per ingannare i medici riguardo al suo stato e riuscire a farsi dimettere per potersi suicidare. Dall' esame di queste tipiche situazioni pratiche che si prestano ad esemplificare le interazioni nelle quali un soggetto vuole mante­ nere un'illusione in un altro soggetto è possibile individuare una se­ rie di tecniche utilizzate per mas cherare emozioni, per simulare fal­ se emozioni , per creare indizi svianti e piccoli errori in grado di in­ gannare coloro che non si fiderebbero di qualcosa che va troppo bene. 90

2. ASPETTI DINAMICI DEL COLLOQUIO CLI C\II CO

Il clinico deve infatti, benché si trovi in una situazione privile­ giata di osservazione, almeno intuire il labirinto dei doppi e tripli giochi per cui quando sembra che la situazione sia esattamente quella che appare, l' alternativa che segue immediatamente in ordi­ ne di probabilità è che la situazione sia del tutto contraffatta; quando la contraffazione sembra estremamente evidente, la possi­ bilità più probabile subito dopo questa è che non ci sia nulla di falso. Ekman ( 1 9 8 5 ) esamina anche "il piacere della beffa " nella co­ struzione di un inganno, i modi per giustificare l'inganno e le strategie per difendere l' inganno dai sospetti della vittima. Strana­ mente la maggior parte delle persone si presta ad essere ingannata dalle apparenze facendo più attenzione alle fonti meno degne di fede, cioè alle parole e alla mimica facciale. Colui che mente de­ dicherà infatti la massima cura alla scelta delle parole, rallentando - ricorda Ekman - l'eloquio e spesso riducendo o modificando la gestualità, effetti che possono permettere il riconoscimento del­ l'inganno . I gesti illustratori diminuiscono, possono comparire gesti emble­ matici visibili, se non si è allenati, solo al videotape rallentato. Talune microespres sioni compaiono per 2 5 0 msec. e solo clinici esperti o soggetti specificamente impratichiti le notano. Le manipolazioni corporee sono significative dal punto di vista della frequenza, della capacità di indurre un senso di menzogna, della facilità a controllarle in una direzione voluta. La mimica facciale ha un posto particolare nello studio della menzogna. In realtà il viso è un sistema duplice, che comprende espressioni scelte intenzionalmente e altre che emergono in maniera spontanea, a volte senza che l'interessato nemmeno possa sapere cosa va dipingendosi sul suo volto. Si tratta talvolta di pattern mi­ miei appresi e cristallizzati da tanto tempo da costituire ormai un repertorio stabile ed automatizzato : una sorta di vocabolario mimico a cui attingere secondo le circostanze. Poiché il movimento della muscolatura facciale può essere involontario è persino possibile che il vero e il falso si mostrino in parti diverse del viso contempora­ neamente. Anche la voce esprime emozioni, permette di camuffarle, o di creare false espressioni emozionali. Così le pause pos sono essere trop­ po lunghe o troppo frequenti, come può essere presente un'esitazione al momento di iniziare a parlare o brevi pause durante l'eloquio. Tal­ volta in situazioni di turbamento la voce diviene più acuta, soprattut­ to in caso di rabbia. Nondimeno, tali caratteristiche non sono sempre 91

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

TABELLA 2 . 2

Indizi comportamentali e significato connesso Indizi

di

menzogna

Lapsus Tirate oratorie Linguaggio involuto Pause ed errori di linguaggio Voce più acuta Voce più grave Discorso accelerato, voce più alta Discorso rallentato, voce più bassa Gesti emblematici Diminuzione dei gesti illustrativi Aumento dei gesti manipolatori Respiro rapido e poco profondo Sudore Deglutizione frequente Microespressioni Espressioni soffocate

Muscoli facciali involontari Ammiccamento aumentato Dilatazione pupillare Lacrime Rossore Pallore Fonte:

Informazione rivelata

Può essere specifico all'emozione; può rive­ lare informazioni non attinenti all'emozione Può essere specifico all'emozione; può rive­ lare informazioni non attinenti all'emozione Linea di difesa non preparata; oppure emo­ zioni negative, soprattutto paura Linea di difesa non preparata; oppure emo­ zioni negative, soprattutto paura Emozione negativa, probabilmente collera e/o paura Emozione negativa, probabilmente tristezza Probabilmente collera, paura e/o eccitazione Probabilmente tristezza e/o noia Può essere specifico all'emozione; può rive­ lare informazioni non attinenti all'emozione Noia; linea difensiva non preparata; oppure soppesare ogni parola Emozione negativa Emozione, non specifico Emozione, non specifico Emozione, non specifico Qualunque emozione specifica Emozione specifica; oppure può indicare solo che un'espressione è stata interrotta, ma non quale Paura e tristezza Emozione, non specifico Emozione, non specifico Tristezza, dolore, riso incontrollato Imbarazzo, vergogna e collera; forse senso di colpa Paura o collera

Ekmann ( r 9 8 5 , trad. it. pp. 208-9).

correlate ad una menzogna, talvolta sono tratti caratteriali ormai cri­ stallizzati oppure manifestazioni di emozione o senso di colpa in per­ sone sincere che temono di non essere credute. La voce, all'interno del colloquio, può avere influenza sulla valutazione reciproca tra in­ tervistatore e intervistato in relazione a sincerità, competenza, fiducia, autorevolezza.

2 . ASPETTI DINAMICI DEL COLLOQUIO CLI:-.JICO

TABELLA 2 . 3

Tipi d i informazione e indizi connessi

Tipo di informazione

Indizio comportamentale

Discorso involuto, pause, errori nel di­ scorso, diminuzione dei gesti illustra­ tivi Lapsus, tirate oratorie, gesti emblema­ tici Lapsus, tirate oratorie, microespressio­ ni, espressioni soffocate Discorso involuto, pause, errori del di­ scorso, voce più acuta, discorso accele­ rato e voce più alta, muscoli facciali involontari, pallore Voce più acuta, discorso accelerato e voce più alta, rossore, pallore Voce più grave, discorso rallentato e voce più bassa, muscoli facciali invo­ lontari, lacrime, sguardo abbassato, rossore Rossore, sguardo abbassato o distolto Aumento dei gesti illustrativi, voce più acuta, discorso accelerato e voce più alta Diminuzione dei gesti illustrativi, di­ scorso rallentato e voce più bassa Discorso involuto, pause, errori nel di­ scorso, voce più grave, aumento dei gesti manipolatori Cambiamenti respiratori, sudore, de­ glutizione, espressione soffocata, am­ miccamento aumentato, dilatazione della pupilla

Linea difensiva non preparata Informazione non attinente ad emozio­ ni (fatti, progetti, fantasie) Emozioni (ad esempio felicità, sorpre­ sa, dolore) Paura

Collera Tristezza (forse senso di colpa e ver­ gogna) Imbarazzo Eccitazione Noia Emozioni negative Qualunque emozione

Fonte:

Ekmann ( r 9 8 5 , trad. it. p. z r o).

Il colloquio, in quanto comunicazione "tipicamente " vocale dai precisi confi­ ni temporali, viene semanticamente, formalmente e relazionalmente regolato in modo determinante dalla voce, che consente ai due interagenti un com­ plesso gioco di rivelazione e mascheramento, di attribuzione e presentazione della propria identità, di reciproca influenza, nonché di strutturazione e sud­ divisione dell'interazione sociale (Anolli, Ciceri, 1 9 9 7 , p. 8 3 ) .

Le TABB. 2 .2 e 2 . 3 sintetizzano l e informazioni derivabili dagli indizi di menzogna. 93

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

2 .9

La suggestione nel colloquio

Nella tecnica suggestiva, nella costruzione e manipolazione dell'ime­ razione verbale, esistono delle similarità tecniche con le modalità adottate da psicoterapeuti di formazione psicoanalitica e da psicoana­ listi nell'interazione col paziente. Inoltre, "interazioni suggestive" sono comuni nelle relazioni umane, benché differiscano in talune pe­ culiarità a seconda del tipo. Il rinvenimento di tutto ciò nell'interazio­ ne psicoanalitica e psicoterapeutica non deve pertanto essere inteso come una svalutazione di tale metodo o un suo appiattimento. Si tratta quindi di: 1. individuare meglio similarità e differenze nelle varie interazioni umane e psicoterapeutiche; 2. evitare la tentazione di spiegare in termini di suggestione taluni effetti della psicoterapia; 3 · tentare di render ragione di effetti e similarità nei due tipi di in­ terazione in questione sulla base di un quadro teorico più generale delle interazioni psicoterapeutiche ed umane. La differenza tra l'interazione psicoterapeutica ed un altro genere di interazione umana si esprime nelle caratteristiche della chiusura or­ ganizzativa di questa. Similarità e differenze tra psicoterapia e sugge­ stione classica si situano pertanto nelle modalità di costruzione del­ l'oggetto dell'interazione e nei rapporti tra condotte nell'interazione e oggetto dell'interazione. Il problema da risolvere attraverso la tecnica professionale che si pone al suggestionatore è quello di ottenere una condotta desiderata del soggetto mediante la costruzione consensuale di un oggetto, o di una realtà, tale per cui il soggetto farà seguire una condotta appro­ priata per lui in quelle circostanze che "vede" pararsi dinnanzi a sé e coincidente con quella desiderata dal suggestionatore. Il tipo di oggetto o realtà da costruire può risultare estremamente variabile e più o meno differente da altre realtà di possibili soggetti osservatori o di controllo. La caratteristica costante sarà il suo valore di "realtà" e "verità" attribuitogli dal soggetto ed ottenuto attraverso la tecnica dell'induzione ipnotica nelle sue molteplici varietà. Tale tecnica di induzione può essere definita ipnotica o suggestiva sulla base di finalità, setting e tradizioni culturali, ma è un modo, tra i tan­ ti possibili, di condurre un'interazione umana, costruendo oggetti del­ l'interazione e condotte alternativamente. In questo genere di interazione suggestionatore e suggestionato costruiscono una realtà attraverso una serie di passi successivi. 94

2. ASPETTI DINAMICI DEL COLLOQUIO CLI C\II CO

Il discorso del suggestionatore crea " confusione" e successivamen­ te una situazione in cui il suggestionato è portato ad attribuire al sug­ gestionatore suoi propri pensieri . Sulla base di questo il soggetto sarà portato ad avere fiducia, a credere nel suggestionatore proprio come crede a quello che lui stesso pensa, o pensa riguardo a ciò che sta pensando. Il suggestionatore potrà introdurre nella rete così costituita ulteriori idee che consolideranno i confini della realtà in un modo desiderato tra i molti possibili. A questo punto il suggestionato, adot­ tando condotte "libere e adeguate" a tale realtà, attuerà alcune con­ dotte desiderate dal suggestionatore. Un soggetto, infatti, genera la realtà in cui svolgerà la sua condot­ ta attraverso un processo di costruzione progressiva di natura autore­ ferenziale. Si tratta di un particolare processo a feedforward che ge­ nera un oggetto identico a quello da cui deriva, ricostituendone le condizioni generative e quindi stimolandone l'ulteriore autoriprodu­ zione: sia essa una " conversione religiosa" o l' esito di una psicotera­ pia nella vita quotidiana. Similarità e differenze tra psicoterapia e suggestione si situano nei passi e nelle specificità tecniche nello svol­ gimento di tale processo. A questo punto possiamo forse distinguere due posizioni differen­ ti adottate dal suggestionatore classico e dallo psicoterapeuta. Tali posizioni sono relative alla definizione della natura del sistema in cui operano, ma non altrettanto alle modalità di operare. In sintesi, potremmo dire che ambedue le interazioni vengono a definire una realtà. Nel caso della suggestione il suggestionatore sug­ gerisce, implicitamente o esplicitamente, una mappa di tale realtà che a sua volta ridefinisce o ribadisce talune particolarità o confini di questa realtà. In altri termini interpreta la " realtà" secondo particolari vincoli posti da tale realtà costruita secondo livelli successivi che per così dire restringono progressivamente i confini della realtà stessa, e quindi l' ambito in cui può definirsi la condotta del soggetto ed in cui egli può attuare delle scelte. Ciò sia che tale condotta sia definibile dall' esterno come una suggestione terapeutica o come una truffa. Le interazioni umane contengono regole per utilizzarle, per co­ struire livelli dell'interazione. Essi forniscono agli attori mappe per orientarsi nell'interazione stessa, per definire confini e percorsi condi­ visibili della realtà che si è messa in comune. Nell'interazione psicoterapeutica si costruisce, dunque, una realtà la cui mappa è fornita dal paziente (alleanza terapeutica o collusione, a seconda dei casi) ed i cui confini sono ridefiniti dalla partecipazione del terapeuta all'uso di tale mappa. Questo richiede un adeguamento, una ricostruzione di tale mappa che a sua volta articola diversamente 95

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

i confini di tale realtà. In termini visivi la suggestione costruisce una struttura ad imbuto in cui si attuano progressivamente le condotte del soggetto, la psicoterapia a spirale aperta verso l'alto. Le modalità verbali nelle quali si attuano queste interazioni non sono in sé suggestive, ma piuttosto risultano essere parti del processo di integrazione intersoggettiva volto alla costituzione di un discorso e di una realtà condivisa che potranno evolversi in senso suggestivo classico o psicoterapeutico sulla base della considerazione del pazien­ te come sistema aperto (suggestione) o della sua considerazione come sistema chiuso in senso organizzativo (psicoterapia) . La prima posi­ zione non rispetta l' autonomia del sistema, ma anzi la infrange attra­ verso un particolare modo di utilizzare l'autonomia del sistema per violare l'autonomia del sistema stesso. La seconda posizione rispetta l' autonomia del sistema e ne utilizza le caratteristiche per promuo­ verne un allargamento. Quindi, le modalità verbali di interazione se­ gnalate hanno una diversa rilevanza nel contesto psicoterapeutico e suggestivo e risulta possibile meglio elucidarle nel quadro di una più generale teoria delle interazioni umane in grado di evidenziare l'ado­ zione di due punti di vista differenti: quello esterno al sistema e quel­ lo che comprende l' autonomia del sistema. Per questi stessi motivi un'azione suggestiva, con i suoi presupposti generali, attuata in ambito psicoanalitico in modo protratto può avere effetti iatrogeni. Mesmer, nella seconda metà del Settecento, teorizza l'uso del fluido magnetico come strumento fondamentale della terapia; egli non ritiene che il flui­ do sia benefico in sé, ciò che lo definisce come salutare è l'intenzione con la quale il terapeuta opera. Il fluido magnetico diverrà perturbato­ re se l'intenzione con cui lo si dirige è perturbatrice; viene ricono­ sciuta in tal modo l' esistenza di un " magnetismo selvaggio" il cui pro­ totipo sono gli esorcismi di padre Kaspar Gassner da Ratisbona. Si tratterebbe di un uso del fluido incapace di guarire in maniera radica­ le per la mancanza dell'adeguata intenzione salutare; inoltre, benché capace di produrre effetti osservabili, questo magnetismo male orien­ tato e padroneggiato sarebbe incapace di guarire radicalmente perché incapace di generare crisi perfette. E, come in seguito affermeranno anche gli psicoanalisti, il mesmerismo guarisce solo a condizione che si attui un trattamento completo, ininterrotto sino all'eliminazione dei disturbi. I trattamenti e le crisi incomplete saranno considerate "mali­ gne" e foriere di conseguenze incresciose. Per potersi orientare clinicamente all'interno del sistema terapeu­ tico occorre anche che l'intervistatore, e il terapeuta poi, mettano in atto una serie di strategie relazionali volte a ridefinire i confini psico­ logici tra presente, passato e futuro del paziente: si pone perciò la

2. ASPETTI DINAMICI DEL COLLOQUIO CLI C\II CO

questione della manipolazione del " tempo" nella seduta, all'interno del senso comune che condividiamo coi pazienti . Il paziente si presenta al colloquio con una propria storia perso­ nale, con un particolare passato che agisce, definendolo, sul significa­ to del presente; allo stesso modo anche il presente agisce sul passato, che risulta così influenzato dagli eventi e dalle relazioni presenti. In altre parole si viene a costituire un anello ricorsivo dove presente e passato si definiscono reciprocamente. L'interpretazione dei sogni è cioè uno degli strumenti " inventati" da Freud per trattare l'esperienza soggettiva della propria esistenza e del trattamento in un modo che permette nel presente della seduta di co­ struire un proprio futuro attraverso la ricognizione del proprio passato. Passato, presente e futuro appaiono non più come momenti della vita del paziente tra di loro rigidamente determinati, ma come anelli connessi ricorsivamente nel presente del colloquio. La strategia di conduzione della seduta in una prospettiva costrut­ tivista è costruzione di un dominio esperienziale all'interno del quale i processi indagati sono riprodotti e studiati dall'intervistatore in quanto sistema interno alla dinamica da chiarire. Ciò implica la costruzione di più livelli entro cui si svolge l'orienta­ mento nella realtà onirica: il livello "profondo" corrisponde ad un livel­ lo di complessità clinica più elevato in grado di spiegare altri livelli in esso inclusi e costituisce il focus su cui imperniare l'interpretazione. Tale sequenza dinamica si verifica con un andamento a spirale in cui spesso diverse fasi operano simultaneamente. Così si costituisce una dimensione esperienziale codefinita nel presente della seduta sul passato del paziente in funzione del futuro (la terapia) . Questa di­ mensione esperienziale ingloba in sé la particolare " realtà" del pa­ ziente. Sosteniamo che sia questo un modo ricorsivo di intendere l'interpretazione. 2. 10

Le metafore nel colloquio clinico

La maggior parte del nostro sistema concettuale è di natura metafori­ ca (Lakoff, Johnson, 1 9 8o ) . La parola "metafora" deriva dal greco meta che significa " sopra " , e phorein che significa " trasportare o por­ tare da un posto all'altro" . Secondo Bateson ( 1 979) l a metafora è la struttura che connette e che delinea il collegamento emotivo degli organismi viventi. La Psico­ terapia con le metafore (PM), infatti, si basa sul principio della meta­ fora come la struttura che connette. 97

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

«Le metafore sono degli specchi che riflettono le immagini che ab­ biamo di noi stessi, della vita e degli altri» (Kopp, 1 9 9 5 , trad. it . p. 7 ) . L a P M è una prospettiva che mette i n risalto l a comunicazione metafo­ rica tra terapeuta e cliente. All'interno di questa struttura sono identifi­ cabili le metafore originate dal terapeuta e le metafore originate dal cliente. «Il linguaggio metaforico di un cliente incarna la struttura me­ taforica della realtà individuale di quel cliente» (ivi, pp. r 1 9- 2 0 ) . L' approccio della P M è fondato sulla tesi secondo cui i soggetti, l e famiglie, i gruppi organizzano la realtà i n forma metaforica. Gli interventi che considerano le metafore generate dal cliente aiuta­ no il terapeuta e il cliente a comprendere meglio il sistema di pensiero di quest'ultimo; tale sistema si riflette nel suo utilizzo delle metafore. Per pervenire allo scopo il terapeuta favorisce nell'utente la ricerca delle immagini metaforiche dentro di sé; il terapeuta rispetta l'esperienza e le scelte del cliente accogliendo quel che si manifesta nel corso del proces­ so di elaborazione e trasformazione, cosicché è il cliente a disporre dei mezzi per elaborare e cambiare le proprie immagini metaforiche. Le metafore includono influenze culturali soggettive, di conse­ guenza le metafore generate dal cliente evidenziano l'esperienza per­ sonale e il sistema di significati di ogni persona. «Allo stesso modo, le metafore dei primi ricordi infantili sono immagini dell'infanzia di un individuo che rispecchiano i quadri mentali di una persona nella sua unicità, i quali a loro volta risentono dell'influenza della cultura e del­ l' appartenenza etnica, a loro volta mediate dalla famiglia e dal sistema sociale in cui la persona è cresciuta» (ivi, p. 1 2 ) . Sue e Zane ( r 9 8 7 ) affermano che proprio perché le metafore origi­ nate dal cliente sono "prossimali" all'interazione tra terapeuta e cliente dovrebbero poter essere connesse a un esito terapeutico positivo. Mediante la PM è possibile analizzare e trasformare le metafore linguistiche e i ricordi della prima infanzia al fine di giungere a dei cambiamenti terapeutici. 2.1 1 Deontologia della relazione di aiuto Con la promulgazione del Codice deontologico degli psicologi italia­ ni, nel 1 99 7 , sono affiorati quattro obiettivi (Calvi, 2ooo ) : r . l a tutela del cliente che avanza una domanda orientata a soddi­ sfare una necessità; 2. la tutela del professionista verso i colleghi; 3 · la tutela della categoria professionale; 4· la responsabilità verso la società.

2. ASPETTI DINAMICI DEL COLLOQUIO CLI"IICO

Le norme deontologiche sono applicabili ad ogni tipo di collo­ quio-intervista (clinico, di ricerca ecc. ) . Nell'ambito del colloquio è importante l a difesa dell' autonomia per quanto concerne la scelta delle metodologie, delle tecniche, degli strumenti e del loro impiego. Come recita il Codice deontologico: Lo psicologo accetta unicamente condizioni di lavoro che non compromettano la sua autonomia professionale ed il rispetto delle norme del presente codice, e, in assenza di tali condizioni, informa il proprio Ordine. Lo psicologo salva­ guarda la propria autonomia nella scelta dei metodi, delle tecniche e degli stru­ menti psicologici, nonché della loro utilizzazione; è perciò responsabile della loro applicazione ed uso, dei risultati, delle valutazioni ed interpretazioni che ne ricava. Nella collaborazione con professionisti di altre discipline esercita la piena autonomia professionale nel rispetto delle altrui competenze (art. 6).

L'operatore che conduce un colloquio (di orientamento, di selezione, peritale ecc. ) deve essere in possesso di competenze idonee. Lo psicologo è tenuto a mantenere un livello adeguato di preparazione pro­ fessionale e ad aggiornarsi nella propria disciplina specificatamente nel setto­ re in cui opera. Riconosce i limiti della propria competenza ed usa, pertanto, solo strumenti teorico-pratici per i quali ha acquisito adeguata competenza e, ave necessario, formale autorizzazione. Lo psicologo impiega metodologie delle quali è in grado di indicare le fonti ed i riferimenti scientifici, e non suscita, nelle attese del cliente e/o utente, aspettative infondate (art. 5 ) . L o psicologo accetta il mandato professionale esclusivamente nei limiti delle proprie competenze. Qualora l'interesse del committente e/o del destinatario della prestazione richieda il ricorso ad altre specifiche competenze, lo psicologo propone la consulenza ovvero l'invio ad altro collega o ad altro professionista (art. 3 7 ) .

Per quanto attiene al rapporto professionale tra l o psicologo e il cliente, come descrive il Codice deontologico: Nell'esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all'autodeterminazione ed all'autonomia di coloro che si avval­ gono delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dal­ l'imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religio­ ne, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socioeconomico, sesso di ap­ partenenza, orientamento sessuale, disabilità. Lo psicologo utilizza metodi e tecniche salvaguardando tali principi, e ri­ fiuta la sua collaborazione ad iniziative lesive degli stessi. Quando sorgono conflitti di interesse tra l'utente e l'istituzione presso cui

99

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

lo psicologo opera, quest'ultimo deve esplicitare alle parti, con chiarezza, i termini delle proprie responsabilità ed i vincoli cui è professionalmente te­ nuto. In tutti i casi in cui il destinatario ed il committente dell'intervento di sostegno o di psicoterapia non coincidano, lo psicologo tutela prioritaria­ mente il destinatario dell'intervento stesso (art. 4 ) .

Inoltre, come stabilito dal Codice deontologico, deve sussistere il consenso informato. L' utente deve essere adeguatamente informato su prestazione, finalità, modalità del colloquio. Lo psicologo, nella fase iniziale del rapporto professionale, fornisce all'indivi­ duo, al gruppo, all'istituzione o alla comunità, siano essi utenti o committen­ ti, informazioni adeguate e comprensibili circa le sue prestazioni, le finalità e le modalità delle stesse, nonché circa il grado e i limiti giuridici della riser­ vatezza. Pertanto, opera in modo che chi ne ha diritto possa esprimere un con­ senso informato. Se la prestazione professionale ha carattere di continuità nel tempo, do­ vrà esserne indicata, ove possibile, la prevedibile durata (art. 24).

Per quanto attiene al colloquio di ricerca, fondamentali sono il con­ senso alla ricerca, la garanzia della confidenzialità e dell'anonimato delle informazioni acquisite ( de Cataldo Neuburger, r 9 95 ) . Nella sua attività di ricerca lo psicologo è tenuto ad informare adeguatamen­ te i soggetti in essa coinvolti al fine di attenerne il previo consenso informa­ to, anche relativamente al nome, allo status scientifico e professionale del ri­ cercatore ed alla sua eventuale istituzione di appartenenza. Egli deve altresì garantire a tali soggetti la piena libertà di concedere, di rifiutare ovvero di ritirare il consenso stesso. Nell'ipotesi in cui la natura della ricerca non consenta di informare pre­ ventivamente e correttamente i soggetti su taluni aspetti della ricerca stessa, lo psicologo ha l'obbligo di fornire comunque, alla fine della prova ovvero della raccolta dei dati, le informazioni dovute e di ottenere l'autorizzazione all'uso dei dati raccolti. Per quanto concerne i soggetti che, per età o per altri motivi, non sono in grado di esprimere validamente il loro consenso, questo deve essere dato da chi ne ha la potestà genitoriale o la tutela, e, altresì, dai soggetti stessi, ove siano in grado di comprendere la natura della collaborazione richiesta. Deve essere tutelato, in ogni caso, il diritto dei soggetti alla riservatezza, alla non riconoscibilità ed all'anonimato (art. 9 ) .

L'atteggiamento " adeguato " dell'operatore può essere riassunto con i seguenti punti (Mucchielli, r 9 8 3 ) : I OO

2. ASPETTI DINAMICI DEL COLLOQUIO CLI"-IICO

individualizzazione dell'aiuto; libera espressione delle sensazioni del cliente; impegno autentico dell'operatore, senza coinvolgimento emozionale; accettazione del cliente nella sua dignità e nella sua realtà; assenza di giudizio; autodeterminazione del cliente; segreto professionale. lnvero, il segreto professionale rappresenta la base del rapporto professionale: Lo psicologo è strettamente tenuto al segreto professionale. Pertanto non rivela notizie, fatti o informazioni apprese in ragione del suo rapporto pro­ fessionale, né informa circa le prestazioni professionali effettuate o program­ mate, a meno che non ricorrano le ipotesi previste dagli articoli seguenti (art. I I ) .

Tale obbligo può venire meno in determinate circostanze: Lo psicologo si astiene dal rendere testimonianza su fatti di cui è venuto a conoscenza in ragione del suo rapporto professionale. Lo psicologo può derogare all'obbligo di mantenere il segreto professio­ nale, anche in caso di testimonianza, esclusivamente in presenza di valido e dimostrabile consenso del destinatario della sua prestazione. Valuta, comun­ que, l'opportunità di fare uso di tale consenso, considerando preminente la tutela psicologica dello stesso (art. 1 2 ) . Nel caso di obbligo di referto o di obbligo di denuncia, lo psicologo li­ mita allo stretto necessario il riferimento di quanto appreso in ragione del proprio rapporto professionale, ai fini della tutela psicologica del soggetto. Negli altri casi, valuta con attenzione la necessità di derogare totalmente o parzialmente alla propria doverosa riservatezza, qualora si prospettino gravi pericoli per la vita o per la salute psicofisica del soggetto e/o di terzi (art. r 3 ) .

Infine, u n aspetto imprescindibile della relazione professionale è co­ stituito dall' onorario: Lo psicologo pattuisce nella fase iniziale del rapporto quanto attiene al com­ penso professionale (art. 2 3 ) . Allo psicologo è vietata qualsiasi attività che, in ragione del rapporto pro­ fessionale, possa produrre per lui indebiti vantaggi diretti o indiretti di ca­ rattere patrimoniale o non patrimoniale, ad esclusione del compenso pattuito (art. 2 8 ) . Nell'esercizio della s u a professione allo psicologo è vietata qualsiasi for­ ma di compenso che non costituisca il corrispettivo di prestazioni professio­ nali (art. 30).

IOI

3

Il colloquio clinico nell'infanzia

J. I

Il metodo clinico di Jean Piaget

Negli anni venti, quando si definiva il meccanismo metodologico del­ la psicoanalisi, andava sviluppandosi anche il programma di ricerca piagetiano col quale spesso la ricerca psicoanalitica sull'infanzia sarà messa a confronto. Jean Piaget era per formazione uno studioso di scienze naturali, e fu proprio il suo interesse giovanile di "bambino prodigio" per la ge­ netica e l'embriologia che lo spinse, fin dall'inizio della sua carriera professionale, a ricercare un nesso logico tra biologia e psicologia, tra processi organici e processi cognitivi. Si dedicò, quindi, alla ricerca di modelli sistematici di pensiero che fossero il corrispettivo della gerar­ chia biologica formata dalle cellule, dall 'organismo e dalla specie. Egli riteneva che dallo studio dello sviluppo dell'intelligenza fosse possibi­ le costruire una sorta di embriologia dell'intelligenza. Piaget fu però anche uno psicoanalista regolarmente iscritto alla Società svizzera di psicoanalisi dal I 920 al I 9 3 2 . Nel I 920 presentò uno studio psicoanalitico sullo sviluppo e scrisse poi diversi lavori "psicoanalitici" . I suoi modelli dello sviluppo inizialmente saranno una versione differente del modello degli stadi freudiano e solo col tempo Piaget riuscirà ad affrancarsi da tale tradizione, sviluppando a partire dagli anni cinquanta - una concezione vieppiù basata sulla Cibernetica e la Teoria dei sistemi . Piaget fu inoltre un epistemologo, il suo approccio è quello logico e la sua metodologia riunisce le tecniche cliniche della psicoanalisi e i procedimenti standard della ricerca sperimentale. La nascita dei suoi tre figli lo portò ad accostarsi in maniera con­ tinuativa con soggetti in sviluppo: fu proprio in questo periodo che Piaget mise a punto le tecniche di osservazione del comportamento IOJ

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

di manipolazione dei bambini e riconobbe l'interconnessione tra pro­ cessi percettivi e processi concettuali. Come Freud, Piaget ha elaborato una teoria dello sviluppo infan­ tile che ha contribuito a dare dimensioni originali allo studio e alla comprensione del bambino. Una caratteristica comune alla teoria pia­ getiana e alla psicoanalisi è il tentativo di spiegare il comportamento umano nell'ambito di un sistema unitario e non attraverso l'uso di dati quantitativi. Nell'introduzione a La rappresentazione del mondo nel fanciullo ( 1 92 6 , trad. it. p . 1 0 ) , Piaget espone le scelte metodologiche generali per lo studio del pensiero infantile: l'esame clinico partecipa così dell'esperimento, nel senso che il clinico si pone problemi, formula ipotesi, varia le condizioni, e infine controlla ogni ipotesi in base alle reazioni provocate dalla conversazione. Ma l'esame clinico partecipa anche dell'osservazione diretta, nel senso che il buon clinico, pur dirigendo, si lascia dirigere, e tien conto di tutto il contesto mentale, invece di cadere vittima di " errori sistematici" come spesso accade allo sperimenta­ tore puro.

L'originalità del metodo piagetiano sta proprio nell'aver fatto conver­ gere l'osservazione diretta del bambino con il metodo del colloquio clinico di origine psicoanalitica, al fine di comprendere le sottigliezze del pensiero infantile. Infatti, durante gli anni trascorsi a Parigi, dove Simon gli diede l'incarico di standardizzare i test di Burt per i bambini francesi, Pia­ get iniziò a studiare le modalità del ragionamento infantile e si accor­ se che il metodo statistico non era abbastanza duttile per cogliere il contenuto del pensiero dei bambini. Inoltre, il metodo dei reattivi (test) - sostiene Piaget - se utilizzato per cogliere il contenuto del pensiero infantile mostra almeno due limiti: da un lato falsa, o per lo meno rischia di falsare, l'orientamento mentale del fanciullo, essendo le risposte necessariamente decontestualizzate; dall'altro, deviando l'o­ rientamento mentale del bambino, trascura questioni essenziali, inte­ ressi spontanei e iniziative originali del fanciullo. Proprio per questi motivi sembrerebbe più appropriato per Piaget utilizzare l'osservazio­ ne come metodo di indagine. «Ogni ricerca sul pensiero infantile deve partire dall'osservazione, e ritornarvi per controllare le esperienze che l'osservazione può avere ispirate» afferma l'autore ( 1 92 6 , trad. it. p. 6 ) . I l metodo d i Piaget permette d i considerare l e domande sponta­ nee dei fanciulli e non, come nel caso dei test, solo risposte standar-



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dizzate su una scala o su una tabella; secondo Piaget è proprio par­ tendo dalle domande spontanee del bambino che si può awiare lo studio su un dato gruppo di spiegazioni infantili. Tuttavia, egli sottolinea la presenza di alcuni limiti sistematici an­ che in questo tipo di indagine, relativi principalmente alla tendenza egocentrica del pensiero infantile. I bambini non manifestano sponta­ neamente le loro credenze nel corso dell'interazione comunicativa: questo awiene sia nei rapporti tra bambini, che tra bambino e adul­ to. Nel primo caso il linguaggio è utilizzato prevalentemente in fun­ zione dell'azione o del gioco mentre, nell'interazione con gli adulti, generalmente il bambino esprime attraverso domande le richieste di informazioni, senza con ciò rivelare le proprie personali spiegazioni . Un primo limite, pertanto, è dato quindi dal fatto che l'osservazione pura non permette di cogliere i pensieri inesprimibili ossia «gli atteg­ giamenti mentali, gli schemi sincretici, visuali e motori , tutte quelle preconnessioni delle quali si sente l' esistenza quando si parla con un fanciullo . Occorre conoscere anzitutto queste preconnessioni e, per farle affiorare, è necessario applicare metodi speciali» (ivi, p. 9 ) . Secondariamente, l'osservazione pura non permette d i distinguere il giocare dalla credenza, e la credenza dalla fabulazione. Per questi motivi Piaget ritiene opportuno superare il metodo dell'osservazione "pura" e, pur senza ricadere negli inconvenienti dei reattivi, cercare di ottenere i principali vantaggi dell'esperimento. Per Piaget è pertanto necessario " un terzo metodo " : l'esame clini­ co. Tale metodo consiste in un'interazione verbale a catena tra bam­ bino e sperimentatore, attraverso cui quest'ultimo cerca di compren­ dere la linea di ragionamento seguita dal bambino nelle sue risposte. Piaget sostiene l'opportunità di utilizzare il metodo clinico nello studio della psicologia infantile, per lo meno in quei punti dove l'os­ servazione infantile lascia incompiuta la ricerca. Per di più, con tale metodo, sembra possibile arrivare a indagare i legami inespressi che alimentano la rappresentazione che il bambino elabora del mondo e anche il contesto mentale che sta alla base delle differenti risposte che egli può fornire come una riflessione, un gioco, degli interessi ecc. Anche se il metodo clinico sembra più vago e incerto rispetto al metodo dei reattivi, prestando particolare attenzione all' elaborazione delle interpretazioni, è possibile - secondo Piaget (ivi, p. I I ) - ri­ solvere tale limite : le cose non sono affatto semplici, e conviene sottomettere a una critica serra­ ta il materiale così raccolto [col metodo clinico] . Infatti lo psicologo deve

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ovviare alle incertezze del metodo degli interrogativi, affinando la propria sensibilità interpretativa. Qui, di nuovo, due pericoli contrari minacciano il principiante: infatti, a tutto ciò che il fanciullo ha detto, egli può attribuire il massimo o il minimo valore.

Piaget sottolinea alcune precauzioni che il ricercatore dovrebbe prendere: 1 . fondare il colloquio sulla base delle domande poste spontanea­ mente dai bambini e raccolte in occasioni precedenti; 2. imparare il linguaggio dei bambini. Quest'ultimo punto è partico­ larmente importante per due ragioni: a) in rapporto alla padronanza del linguaggio da parte del bambino; b) in rapporto alla formulazione verbale delle domande da parte del­ lo sperimentatore. Nelle opere successive di Piaget, insieme a uno sviluppo del suo pensiero, troviamo una trasformazione del suo metodo: una maggiore formalizzazione della situazione sperimentale, una raccolta di dati più facilmente quantificabile, un campione più ampio di soggetti . Una critica mossa a Piaget sul piano metodologico era infatti quella di aver elaborato una teoria utilizzando un numero esiguo di soggetti - proprio quello che è stato rimproverato agli psicoanalisti quindi un campione non rappresentativo, facendo inoltre ricorso a dati raccolti in modo estemporaneo. Per alcuni autori, la "libertà" metodologica mostrata da Piaget deriva dalla necessità di non sacrificare il fine ultimo della sua ricerca - il reperimento di dati significativi relativi al problema indagato laddove i canoni metodologici preesistenti, comunemente accettati, si mostravano del tutto inadeguati (Caramelli, 1 9 84) . Piaget era in realtà consapevole della fertilità dello studio di casi singoli, come avviene per la patologia psichiatrica, nelle scienze naturali e in psicoanalisi. 3·2

La comunicazione con il bambino

Il colloquio clinico con i bambini presenta un problema di fondo dato dal fatto che alla base della comunicazione sta, non soltanto la capacità di capire le parole dell'interlocutore, ma anche l' abilità di in­ terpretare il senso delle parole comunicate in relazione al contesto nel quale sono espresse e la possibilità di capire come l'altro decodifica il messaggio ricevuto e vi reagisce. Nel bambino questo tipo di feed­ back è scarso e nel colloquio tra adulto e bambino sono, dunque, privilegiati codici comunicativi e linguistici non verbali. Questo pone ro6



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il problema, a livello clinico e terapeutico, di disporre di strumenti di valutazione validi sia in ambito applicativo che di ricerca, con riferi­ mento a: - cosa valutare attraverso il colloquio clinico ( quali aspetti, quali abilità ecc . ) ; - come valutare i l bambino ( cioè con quali tecniche e quali stru­ menti); - quando valutare il bambino attraverso il colloquio (in quale età, periodo o stadio dello sviluppo psicologico e comunicativo) . Il colloquio clinico con il bambino è soggetto a dinamiche che si distaccano decisamente da quelle delle varie forme di colloquio con l'adulto, anche perché nel primo caso interagiscono nel rapporto tra terapeuta e bambino anche le dinamiche psicologiche e i comporta­ menti della famiglia del paziente, dal momento che, il più delle volte, il soggetto manifesta il proprio disagio in riferimento a stimoli che gli provengono dall'ambiente familiare. Un punto che differenzia significativamente la terapia dell'adulto da quella del bambino è proprio il fatto che il piccolo paziente non decide spontaneamente di sottoporsi a questo tipo di cura ma vi è " costretto" dai genitori che, in maniera del tutto personale, stabili­ scono il criterio di normalità e/o di anormalità del proprio figlio. Questo significa che l'approccio iniziale del bambino al colloquio clinico è da principio funzionale a quello che i genitori pensano di questo tipo di terapia, ed evolve solo nel momento in cui il giovane paziente riesce a vivere in maniera "libera" (dalle influenze dei geni­ tori) il proprio rapporto con il terapeuta. La differenza tra analisi dei bambini e analisi dell'adulto non si ferma alla sola " involontarietà" della prima, ma concerne tutto lo svolgimento della terapia e tutti gli aspetti della relazione tra piccoli pazienti e terapeuti. Relativamente al transfert va detto che nel corso del colloquio i bambini ripetono mediante la regressione le loro rela­ zioni oggettuali conformi ai diversi livelli di sviluppo, rivivendole sul­ la persona del terapeuta che viene investito dalle valenze libidiche o aggressive del bambino cui si deve aggiungere la considerazione del terapeuta come " nuovo oggetto" , cioè come referente in grado di as­ sicurare al piccolo paziente una serie di nuove esperienze capaci di sostenerlo nel suo cammino di sviluppo . Non sempre il terapeuta viene legato al bambino da rapporti og­ gettuali, spesso invece la relazione tra i due si basa su rapporti di esteriorizzazione, cioè su processi nei quali il terapeuta viene utilizza­ to dal piccolo paziente per rappresentare l'una o l'altra parte della sua personalità. Grazie all'innescarsi di questi processi egli diviene

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

per il bambino di volta in volta simbolo del suo Es (in quanto eserci­ ta un'influenza di ordine seduttivo, tollerando gli aspetti di liberazio­ ne della fantasia, del pensiero e del comportamento del piccolo) , una sorta di Io ausiliario (in quanto aiuta il bambino nella sua lotta con­ tro l'angoscia), un Super-io esterno (quale giudice morale di ciò che emerge attraverso la liberazione dell'Es ) . Considerando l e differenti forme comunicative utilizzate sponta­ neamente dal bambino, decodificabili attraverso il colloquio clinico, occorre per prima cosa fare riferimento alle caratteristiche della co­ municazione verbale che egli è in grado di instaurare. Al riguardo sorgono dei problemi in termini di differenze esistenti tra i due interlocutori: il bambino, per la scarsa consistenza della struttura linguistica e del vocabolario, oltre che per la ridotta capacità di simbolizzare, ha spesso difficoltà ad esprimersi adeguatamente con la parola cui corrisponde una struttura di pensiero di tipo rappre­ sentativo, nella quale l'elaborazione mentale è particolarmente scarsa. Questo diverso modo di strutturare il pensiero e di esprimerlo in for­ ma verbale fa sì che l'adulto consideri il bambino ancora meno capa­ ce di effettuare elaborazioni mentali di quanto non sia realmente, con la conseguenza di innescare un processo di limitazione della comuni­ cazione tra individui appartenenti a fasce di età così lontane. Il linguaggio non verbale è una forma comunicativa particolar­ mente utilizzata dal bambino nella dinamica interazionale, tanto in generale quanto nello specifico ambito del colloquio. Il linguaggio che si sviluppa da questo tipo di comunicazione è del tutto soggetti­ vo, dal momento che in questa forma espressiva entrano in gioco non solo una grande varietà di componenti istintive, ma anche una serie di componenti imitative e culturali che vengono apprese dal bambino nel contesto familiare e sociale in cui vive. La personalizzazione e soggettivizzazione del linguaggio non ver­ bale si sviluppa sin dai primi mesi di vita del bambino, dando luogo ad una serie di codici di comunicazione che, dapprima decodificabili solo dalla madre, successivamente divengono veicolo di espressione per tutto il contesto sociale nel quale il bambino si muove. Il volto costituisce sin dai primi mesi di vita un importante canale di interazione tra l'adulto e il bambino: esso rappresenta l'area del corpo più importante e specializzata sul piano comunicativo, veico­ lando l'espressione delle emozioni e manifestando gli atteggiamenti interpersonali . La rapidità e l'immediatezza espressiva proprie del volto, infatti, rendono particolarmente efficaci i messaggi non verbali prodotti nel corso della comunicazione interpersonale. L'importanza della componente espressivo-motoria nella vita so-

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ciale degli individui ha inizio sin dal primo giorno di vita: le reazioni comportamentali sono percepibili dall' ambiente circostante, produ­ cendo segnali rilevanti di interazione (Ricci Bitti, 1 9 8 8 ) . L a comunicazione non verbale diviene intenzionale e quindi signi­ ficativa nel momento in cui il bambino elabora una serie di schemi mentali elementari che gli consentono di utilizzare i propri comporta­ menti istintivi, sia a scopo di apprendimento (mantenendo e ripeten­ do comportamenti che raggiungono lo scopo voluto) che a scopo co­ municativo ( eliminando i comportamenti che non raggiungono gli obiettivi richiesti ) . L a comunicazione non verbale a base istintiva (mimica facciale, gestualità ecc . ) si sviluppa nel momento in cui il bambino non ha la possibilità di sollecitare l' adulto in maniera più attiva, con la conse­ guenza che, anche in questa forma espressiva, il bambino si trova a svolgere un ruolo passivo, che assume valenze comunicative solo se è l' adulto a stimolarne l'efficacia e la funzione . Ciò implica una diffi­ coltà di comunicazione anche non verbale, sia in situazioni di "nor­ male" interazione sociale, sia nel caso specifico del colloquio clinico, nel quale la comunicazione non verbale svolge un ruolo di massima importanza ai fini dell'instaurarsi di una effettiva conoscenza e inter­ relazione tra i due interlocutori. In questa forma primitiva di comunicazione, particolare rilevanza riveste la " ricerca del volto dell'adulto" attraverso lo sguardo . Si trat­ ta della prima forma di comunicazione intenzionale, che si sviluppa sin dai primi giorni di vita, in grado di stabilire precocemente - o di rafforzare - la comunicazione reciproca tra adulto e bambino. Solo in una fase evolutiva successiva - cioè alla comparsa della motricità volontaria, costituita da mimica e gesto - il bambino ha la possibilità di partecipare più attivamente alla comunicazione con l'a­ dulto, esprimendo i propri bisogni e sentimenti attraverso il linguag­ gio del corpo e del gesto . In questa fase il bambino non solo utilizza il linguaggio non verbale per scopi comunicativi ma se ne serve anche per soddisfare il proprio bisogno di esplorazione del mondo, allo sco­ po di conoscere l' ambiente che lo circonda. Questa forma primitiva di comunicazione consente al bambino di far evolvere il proprio svi­ luppo cognitivo, portandolo ad elaborare la capacità di simbolizzazio­ ne di oggetti e persone e arricchendolo - per mezzo dell'imitazione dell'adulto - di forme gestuali in grado di suscitare una risposta pre­ cisa da parte dell'interlocutore. Succhiare, piangere, sorridere, arrampicarsi, sono alcuni dei comportamenti sensoriali e motori che il bambino attiva sin dalla nascita per entrare in con-

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DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

tatto con le persone che si prendono cura di lui. Nove mesi di vita intraute­ rina rendono pronto il bambino ad affrontare l'ambiente che lo circonda e in cui dovrà continuare a vivere. [ . . . ] Le notevoli capacità di attenzione e com­ portamento interattivo di un bambino appena nato diventano sempre più evidenti e, se sostenuto da un adulto, può rispondere selettivamente agli sti­ moli sia positivi che negativi che gli provengono dall'ambiente (Venuti, 1 99 8 , p. 2 8 9 ) .

Anche il linguaggio non verbale - che pure è d i per sé i n grado di collocare il bambino all'interno del contesto sociale nel quale vive e di mettergli a disposizione tutta una serie di strumenti di interazione con gli altri - richiede di essere rafforzato attraverso gli obiettivi che si prefigge e quindi di essere ascoltato e capito dall'adulto, ricevendo­ ne una risposta e fungendo concretamente da mezzo di comunicazio­ ne. La risposta dell'adulto all' espressione e alla comunicazione non verbale del bambino è fondamentale perché questo possa sviluppare forme differenti e progressivamente più evolute di comunicazione e la possibilità che il bambino comunichi fattivamente con l' adulto è con­ seguenza del fatto che quest'ultimo consideri il bambino come indivi­ duo a sé stante, dotato di esigenze personali ed autonome, in grado di esprimere bisogni individuali e specifici. Quanto detto emerge con particolare evidenza nel caso in cui, per motivi familiari o per effetto di un'istituzionalizzazione precoce, il bambino si dimostra incapace non solo di comunicare in maniera " chiara " con l'adulto, ma anche di considerarsi persona autonoma, con il conseguente instaurarsi di una situazione di sottostima di sé. Le madri disturbate, più o meno nevrotiche, ambiziose, immature, intrusive o iperprotettive non sono in grado, sia pure per motivi diversi, di sviluppare la preoccupazione materna primaria, intesa come un adattamento del tutto particolare che implica un dare molto generosamente, ma al tempo giusto, e permettere poi, altrettanto generosamente, che il bambino si separi e si svi­ luppi come persona autonoma. Quello della madre dovrebbe quindi essere un adattamento attivo prima alla condizione di dipendenza assoluta dell'in­ fante, poi alle sue esigenze di stanziamento (Gatti Pertegato, 1 99 1 , p. 1 42 ) .

Esiste poi come forma espressiva caratteristica e privilegiata il "lin­ guaggio del gioco " , importantissimo ai fini terapeutici e diagnostici, poiché il gioco si colloca tra la realtà psichica interna e il mondo esterno, consentendo al bambino di assorbire da quest'ultimo una se­ rie di informazioni e di stimoli da utilizzare in base alle sue esigenze e possibilità di apprendimento e assimilazione. Il gioco svolge una duplice funzione per la maturazione del bambino: consente alla riIIO



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produzione concreta dell' esperienza precedente di sostituire quell' ela­ borazione mentale che il bambino non è ancora in grado di effettuare e consente pure una catarsi, rendendo possibile il passaggio da una posizione di debolezza e dipendenza ad una posizione di autonomia e di autostima. Erikson evidenzia come nel gioco il bambino riesca ad ottenere una soddisfazione " allucinatoria" della sua esigenza di prota­ gonismo, sperimentando di essere, nell' atmosfera Iudica, quello che non potrebbe e non vorrebbe essere nella vita reale. Anche il linguag­ gio del gioco però " comunica " solo se il bambino percepisce l'esi­ stenza di una sorta di accordo tacito con l'adulto che deve porsi sul suo stesso piano espressivo e utilizzare uguali codici comunicativi lu­ dici. Il bambino tende così a fare partecipe l'adulto del suo gioco e questo diventa non unicamente messaggio non intenzionale di un vis­ suto, ma altresì condizione per comunicare con un modulo specifico : quello ludico, in una dimensione particolare né soggettiva né oggetti­ va ma partecipe dell'una e dell'altra. Per ultimo va considerato quello che si definisce "linguaggio del sintomo " , inteso come capacità del bambino di esprimersi (special­ mente nell'ambito del proprio nucleo familiare) mostrando dei sinto­ mi che sottolineino la sua esistenza come individuo separato dagli al­ tri e dotato di una posizione psicologica autonoma e specifica . I sin­ tomi manifestati a questo scopo non si riferiscono tanto alla "posizio­ ne" reale del bambino nell' ambito del nucleo familiare, quanto piut­ tosto al suo modo di porsi (e quindi di recepirsi) nel fantasma dei genitori, ossia nella rappresentazione mentale che, sin da prima della sua nascita, essi hanno del loro rapporto col figlio. Il " sintomo " con cui il bambino si esprime - pur avendo una valenza negativa in quan­ to rappresentativo di uno stato di malessere - diviene, in certi casi, il solo mezzo che il bambino riesce ad utilizzare per comunicare con i propri genitori . Trattandosi di uno strumento comunicativo non facilmente deco­ dificabile, il linguaggio del sintomo per diventare espressivo richiede sempre la presenza del terapeuta come tramite tra gli intelocutori. In questo caso tale linguaggio cifrato funge da messaggio anche per il terapeuta che, partendo dall'osservazione e dall'analisi di questo, può avviare il lavoro di ricostruzione del disagio che lo ha generato. La comunicazione con il bambino, indipendentemente dal lin­ guaggio da lui utilizzato per esprimersi, dipende sempre e in misura molto rilevante dalla risposta che incontra nell'adulto e proprio in quanto i linguaggi a disposizione del bambino sono "parziali" , non strutturati, limitati dallo sviluppo mentale e psicologico di questo, è III

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

necessario che l' adulto colmi le lacune del suo piccolo interlocutore, non soltanto sforzandosi di utilizzare i medesimi codici espressivi, ma soprattutto concedendogli quanto più possibile attenzione e conside­ razione, al fine di stimolarlo a sviluppare le sue capacità espressive e comunicative. 3·3

La relazione clinica con il bambino

Il colloquio clinico con i bambini si attua anche nel caso in cui - con soggetti di età inferiore ai dodici anni - si voglia condurre un' attività di ricerca finalizzata a studiare le caratteristiche fondamentali dei pro­ cessi percettivi e cognitivi, la formazione delle strutture intellettuali di base e quella delle nozioni, convinzioni e conoscenze più diffuse (P et­ ter, 1 995 ) . Nello svolgimento del colloquio con i bambini s i incontrano diffi­ coltà ricorrenti, relative alla struttura generale della psicologia del bambino e alle differenti fasi evolutive che questo attraversa. Una pri­ ma difficoltà scaturisce riguardo alle modalità con cui questo tipo di colloquio deve essere condotto, tenendo presente che la limitazione dell'indagine alla sola versione "verbale" rischia - nel caso dei bambi­ ni - di inficiare i risultati dell'incontro e della terapia. In questo caso il colloquio deve essere considerato non come una richiesta verbale di informazioni che debbono ottenere risposte anch'esse verbali, quanto piuttosto come un contesto interattivo nel quale si devono formulare domande alle quali il bambino può rispondere secondo la forma espressiva e comunicativa che gli è più congeniale (Canestrari, Ricci Bitti, 1 975 ) . I l termine colloquio sembrerebbe implicare, d i necessità, uno svolgimento in termini verbali, ma ammettere questo come dato di fatto significherebbe riconoscere come unico linguaggio comunicativo la forma verbale mentre, pur rilevandone la maggior adeguatezza ad esprimere contenuti sfumati ed articolati, dobbiamo prendere atto dell'esistenza accanto ad essa di espressioni grafiche, mimico-gestuali, manipolazioni di oggetti, ugualmente utilizzabili nel dialogo con il te­ rapeuta (Petter, 1 995 ) . L'utilizzo d i forme d i comunicazione non verbali all'interno del colloquio clinico non si ha solo nei casi nei quali il bambino non ha ancora acquisito un'adeguata padronanza del linguaggio verbale, ma anche in tutti i casi di colloqui terapeutici con bambini nei quali si renda necessario concedere il massimo spazio alla comunicazione istintiva e "libera" del paziente. II2



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Un esempio di colloquio in forma non verbale potrebbe essere la situazione in cui, per studiare la sensibilità di un bambino di poche settimane di vita ai colori, o la sua preferenza per certi colori, gli si presentano in modo sistema­ tico coppie di oggetti identici tranne che per il colore, osservando quale dei due oggetti della coppia egli fissa per più tempo, o quale tenta di prendere, e registrando eventuali differenze significative nei tempi di fissazione o nelle frequenze di scelta (ivi, p. 2 7 3 ) .

I l limite d i questo tipo d i comunicazione è dato dal fatto che il collo­ quio si può sviluppare solo sulla base di domande semplici riferibili ad oggetti o situazioni presenti nel setting terapeutico, senza che mai si renda possibile un progressivo sviluppo delle domande e delle loro conseguenti risposte. Quando il colloquio con il bambino può svilupparsi sulla base di una comunicazione verbale, sorgono difficoltà in relazione a due ordi­ ni di motivi : 1 . i bambini piccoli sono coinvolti da interessi di tipo ludico dai quali è di norma difficile distoglierli anche in presenza del terapeuta; la comunicazione verbale resta in questo modo circoscritta ad argo­ menti che poco hanno a che vedere con il colloquio e che riguardano invece oggetti o argomenti specifici che catturano l' attenzione del pa­ ziente in quel preciso momento; 2. i bambini si caratterizzano per una mancanza di coerenza nel flus­ so del pensiero che, nel corso del colloquio, si riflette sulle modalità di sviluppo della conversazione che rimane in genere circos critta al presente senza che il bambino riesca a prestare attenzione a quanto da lui espresso sino a quel momento o a quanto espresso in prece­ denza dall'interlocutore (Petter, 1 9 95 ) . A causa d i questa difficoltà neanche l'intervento del terapeuta - o dell'interlocutore adulto - riesce a conseguire risultati significativi: il colloquio può infatti svilupparsi in forma coerente solo se anche il bambino è in grado di parteciparvi prestando sufficiente attenzione al dialogo e dimenticando il presente nel quale è totalmente immerso per proiettarsi in una dimensione più ampia. Anche quando l'età del bambino - superati i quattro o cinque anni - consente l'instaurarsi di un colloquio significativo con il tera­ peuta, restano problemi relativi alla possibilità di ottenere risposte at­ tendibili (Diatkine, Simon, 1 97 2 ) . Il bambino sottoposto al colloquio clinico tende infatti a produrre risposte generiche, casuali o fabulate, non fornendo un quadro reale di quanto gli viene chiesto, ma proponendo spesso al terapeuta una sorta di racconto fantastico comprendente awenimenti recenti o passati, ai 113

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quali vengono aggiunti particolari non reali che, nell'ottica del pazien­ te, costituiscono un sistema infallibile sia per catturare l'attenzione del­ l'operatore sia per porsi in posizione di forza nei suoi confronti. Vi è poi un'altra tipologia di risposte non utilizzabili dall'operato­ re fornite dal bambino in conseguenza di domande suggestive o im­ plicative. Dobbiamo, a questo riguardo, tenere presente che i bambini sono tanto più facilmente esposti all'azione suggestiva (spesso involontaria, e inconsapevole, di un adulto) quanto più sono giovani. Le ragioni risiedono sia in certe ca­ ratteristiche delle loro strutture cognitive (come la scarsa differenziazione tra i vari livelli di realtà, o come l'irreversibilità del pensiero che rende loro dif­ ficile decentrarsi dal contenuto mentale del momento per prendere in consi­ derazione il carattere di verità del fatto dato per certo in una domanda im­ plicativa) , sia nella loro dipendenza psicologica dall'adulto, soprattutto quan­ do quest'ultimo è una persona che ai loro occhi gode di grande prestigio (l'insegnante, i genitori o chi svolge una ricerca e viene loro presentato, di solito, dall'insegnante o dai genitori) (Petter, 1 995 , p. 2 7 8 ) .

Queste difficoltà impongono a l rapporto tra terapeuta e bambino ca­ noni comunicativi e interattivi particolari. Fondamentale è che il terapeuta consideri il bambino come un individuo in sé completo, non limitando il suo comportamento o i suoi disturbi al contesto familiare e sociale nel quale si muove ma sforzandosi di fargli prendere coscienza dei suoi problemi e della sua personalità, a prescindere dalle difficoltà derivanti dai rapporti con gli adulti che lo circondano (Klein, 1 95 0 ) . Perché questo avvenga è necessario che il terapeuta s i metta quanto più possibile al "livello " del piccolo paziente, utilizzando co­ dici di comunicazione verbale e non verbale che siano facilmente ac­ cessibili al bambino e che facciano parte della sua sfera cognitiva ed espressiva. Al di là delle parole è il comportamento del bambino verso i ge­ nitori, verso gli oggetti, verso il terapeuta, che va analizzato e capito nel suo significato autentico . Lo scopo è quello di rendere il bambino più attento e consapevo­ le dei suoi problemi, e quindi capace di utilizzare l'elaborazione men­ tale e il linguaggio simbolico. Molto più che nel caso di pazienti adulti, il terapeuta che abbia a che fare con l'infanzia deve prestare attenzione alla sfera non verbale della comunicazione, sia per quel che concerne la risposta del piccolo paziente che per quel che riguarda la formulazione delle domande. Al fine di consentire al bambino la massima possibilità di esprimersi lirq



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beramente, il colloquio deve concedere ampio spazio al gioco, dal momento che l' analisi di questo strumento consente di giungere ai contenuti rimossi e agli affetti latenti. Nel gioco il bambino si presenta infatti meno controllato e difeso, poiché la situazione di "fantasia" e di non realtà gli consente di espri­ mere i propri impulsi e desideri senza dover temere le reazioni dell'a­ dulto, i suoi giudizi o le sue punizioni. Il colloquio clinico col bambino deve molto all' apporto delle tec­ niche elaborate nell'ambito della psicoanalisi infantile la quale, da qualunque scuola provenga, si presenta costruita intorno all'utilizzo del gioco. Già Freud ( 1 90 8 ) , parlando per la prima volta del gioco del bam­ bino e paragonandolo alla creazione poetica, afferma che attraverso il gioco il bambino crea un proprio mondo, riordinando le cose pre­ senti e passate secondo il suo volere e la sua idea. Il gioco attraverso cui il bambino, riproducendo le esperienze spiacevoli cerca un modo di padroneggiarle, diventa così un testo da decifrare. In merito all'utilizzo del gioco nel colloquio col bambino un con­ tributo rilevante è stato fornito da Melanie Klein (il cui ingresso sulla scena psicoanalitica risale all'inizio degli anni venti), che per prima ha teorizzato l'uso dei giocattoli nella terapia infantile come qualcosa di esattamente analogo all'utilizzo delle libere associazioni nella terapia degli adulti (Vegetti Finzi, 1 9 8 6 ) . Per l a Klein ( 1 95 0 , trad . i t . p . 2 2 ) «il gioco è infatti i l mezzo di espressione più importante del bambino», esprime un significato sim­ bolico rilevante che può e deve essere indagato e interpretato in quanto il linguaggio del gioco è lo stesso utilizzato nell'espressione onirica. «Nel gioco i bambini riproducono simbolicamente fantasie, desideri, esperienze. Nel farlo si servono dello stesso linguaggio, della stessa forma di espressione arcaica e filogeneticamente acquisita che ci è ben nota nei sogni» (Klein , 1 9 2 6 , trad . it. p. 1 5 6 ) . L'utilizzo del gioco come strumento d i conoscenza e d i indagine psicologica del piccolo paziente deve avvenire - secondo la Klein attraverso un'attenta considerazione sia del materiale prodotto nello svolgimento del gioco, sia del modo con cui il bambino sceglie vo­ lontariamente il tipo di giocattolo , l'interpretazione dei ruoli, la se­ quenza dei giochi ecc. Perché l'interpretazione del gioco possa avve­ nire occorre che il setting infantile sia attentamente preparato, crean­ do un ambiente terapeutico particolare dotato di un lavandino per consentire giochi con l'acqua, ricco di giocattoli, pupazzi ed anche oggetti d'uso quotidiano messi a completa disposizione del bambino in modo che egli possa, al termine dell'ora, riporli in un cassetto per115

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

sonale da cui recuperarli nell'incontro successivo. Ciascun bambino deve avere a disposizione matite colorate, carta, forbici, aghi, filo, pezzi di legno e spago. Inoltre, gli arredi dello studio dell' analista de­ vono essere scelti a tal scopo e sono a disposizione del fanciullo (Klein, 1 95 0 ) . Secondo l' autrice, per comprendere il gioco del bambino: dobbiamo valutarlo in relazione a tutto il comportamento durante l'ora di analisi, non dobbiamo accontentarci di coglierne isolati significati simbolici, per straordinari che essi possano essere. Dobbiamo invece tenere presenti tutti i meccanismi ed i modi di rappresentazione che sono gli stessi che ca­ ratterizzano il lavoro onirico, e non dobbiamo perdere mai di vista il rappor­ to di ogni singolo fattore con la situazione totale. L'analisi dei bambini ci ha indicato ripetutamente che un singolo giocattolo o il singolo particolare di un gioco possono assumere i più diversi significati. Ci è possibile afferrarne completamente il senso solo quando conosciamo le altre correlazioni nel contesto del gioco stesso e ci è chiara la situazione analitica generale della quale fanno parte (ivi, trad. it. p. 2 1 ) .

Diversamente dalla Klein, Anna Freud h a dedicato massima attenzio­ ne all'importanza del sogno nella terapia infantile. «Anna Freud ritie­ ne che il più facilmente trasferibile all'analisi infantile sia l'interpreta­ zione dei sogni perché i bambini non sono ancora giunti a svalutare l' attività onirica come fa invece il razionalismo» (Vegetti Finzi, 1 9 8 6 , p. 269). L' analisi del sogno prenderebbe il posto delle libere associazioni che - secondo la Freud - sarebbero utilizzabili solo sporadicamente, in quanto il bambino rifiuta di operare la sospensione del pensiero cosciente non comprendendone le finalità terapeutiche. Oltre all'analisi del materiale onirico, la Freud teorizza l'utilizzo del disegno come ulteriore sostituto delle libere associazioni: elabo­ rando dei disegni nell' ambito del setting terapeutico il bambino ha la possibilità di lasciare emergere i propri contenuti profondi, in una forma totalmente libera da costrizioni di carattere esterno. Seguendo l'impostazione di Melanie Klein, Donald Winnicott affronta il pro­ blema della terapia con il bambino privilegiando l' attività del gioco. Questo gioco, che deve essere spontaneo e non compiacente avviene, per Winnicott ( I 97 r l , in un' area intermedia tra la realtà psichica in­ terna e il mondo esterno e la psicoterapia stessa si svolge nella so­ vrapposizione tra due aree di gioco: quella del piccolo paziente e quella del terapeuta. Giocare è un particolare modo di agire e tratta­ re la realtà in forma soggettiva e il linguaggio infantile non sarebbe mai in grado di trasmettere da solo tutte le sottigliezze che possono II6



' IL COLLOQUIO CLINICO NELL I:-.I FANZIA

invece essere colte tramite un' attenta osservazione dell' espressione Iu­ dica (ibid. ) . Winnicott considera il rapporto psicoterapeutico come un' espe­ rienza di gioco condiviso dove il terapeuta non assiste dal di fuori interpretando, ma si immerge nell' atmosfera Iudica o dove - come nello squiggle game - terapeuta e paziente intervengono a turno sullo stesso disegno, secondo i propri desideri del momento. Nel corso della terapia il gioco diviene il collegamento tra analista e piccolo paziente, in una relazione che mette i due attori della sedu­ ta analitica sullo stesso piano di libera espressione di sé. Winnicott teorizza, nella compenetrazione delle esperienze di gio­ co di paziente e terapeuta, l'esistenza di una zona intermedia - deno­ minata spazio transizionale - dove i confini psichici si fondono, si in­ frangono le barriere tra esterno e interno e la persona può libera­ mente esprimersi in forma giocosa, fantastica, creativa ecc. 3-4

L'assessment del bambino

Il tipo e la quantità di informazioni che si pos sono ottenere durante un assessment possono variare molto in dipendenza del tipo di pro­ blema presentato o inferito. L'obiettivo della valutazione è: 1. esaminare la natura e la gravità del problema; 2 . identificare le pos sibili cause, siano esse sociali, familiari, indivi­ duali, organiche o più spesso una combinazione di queste; 3· prospettare al bambino e alla famiglia un trattamento. Durante questa procedura è importante comunicare disponibilità sia al bambino che ai genitori. La formulazione dei risultati dell'assessment del bambino com­ prende: caratteristiche principali, una diagnosi, indicazione di proba­ bili cause del disturbo, un orientamento riguardo alle modalità di trattamento, e una valutazione prognostica su quello che è possibile aspettarsi di ottenere. In linea di massima una scheda di valutazione dovrebbe essere scritta, ma quantomeno il clinico dovrà farsi un'idea abbastanza chiara sui punti indicati anche se l'organizzazione del la­ voro non prevedesse la redazione di una scheda. Il processo di assessment viene influenzato dai seguenti fattori: le risorse disponibili, come spazio, strumentazione, privacy; il tempo disponibile; le aspettative di coloro che hanno stabilito il contatto; chi si presenta per la valutazione clinica; 117

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

il tipo di motivazione di chi si presenta; la natura specifica del problema che può richiedere procedure più o meno sofisticate; - le competenze e gli orientamenti teorici del clinico; i dati anamnestici disponibili e le risorse disponibili effettivamente nella valutazione attuale. Per attuare una valutazione approfondita sarebbe necessario rac­ cogliere dati sui punti seguenti, nel caso di tempo e disponibilità li­ mitata i dati essenziali saranno soprattutto quelli in corsivo :

a) Natura e gravità del/dei problema/t� frequenza e situazioni in cui si verifica, /attori che lo scatenano o lo limitano, /attori ritenuti rilevanti dai genitori. b) Altri problemi attuali : mal di testa, mal di stomaco, sensazioni uditive o visive, attacchi o crisi di vario genere, problemi di alimen­ tazione, problemi di evacuazione, disturbi del sonno o dell'addor­ mentamento. Stato delle relazioni coi fratelli e coi genitorz� affettività,

accordo/disaccordo. Relazioni con altri bambini, amici o amici speciali. Livello di atti­ vità, attenzione, concentrazione. Umore, tristezza, energia, sentimenti suicidari, depressione, tristezza, senso di miseria. Livello di ansia in generale, paure o timori specifici . Risposta alla frustrazione, capacità di sopportazione, comportamento antisociale, aggressività manifesta. Attitudine allo studio e alla frequenza scolastica . Interessi sessuali e condotta sessuale, giochi sessuali, tic, altri sintomi. c) Livello di sviluppo attuale: sviluppo del linguaggio, comprensione, complessità del discorso, abilità spaziale, coordinazione motoria. d) Struttura familiare: genitori, età, occupazione, attuali condizioni fi­ siche e mentali. Storia di malattie fisiche o mentali, informazioni sui nonni. Fratelli, età, problemi di rapporto, malattie mentali o fisiche. Organizzazione della casa: stanze, con chi e dove dorme.

e) Funzioni familiari: qualità della relazione dei genitori, reciproco af /etto, capacità di comunicazione e di soluzione dei problemi, condivisio­ ne dell'attenzione ai bambini. Qualità della relazione genitore!figlz� in­ terazioni positive con piacere reciproco; livello di critica al bambino, ostilità, rifiuto. Relazioni tra fratelli, modelli relazionali prevalenti in famiglia, alleanze familiari, comunicazione privilegiata, esclusione di membri, confusione intergenerazionale. /) Storia personale: gravidanza e complicazioni di questa, farmaci, febbri, infezioni ecc. Parto, peso alla nascita, eventuali cure speciali praticate dopo la nascita. Relazione madre-bambino iniziale, depres­ sione puerperale, modelli di alimentazione iniziali. " Carattere" preco­ ce, consolabilità, irregolarità e regolarità di condotta, "bambino diffiII8



' IL COLLOQUIO CLINICO NELL I:-.I FANZIA

cile" o no. Tappe evolutive fuori dalla norma (precocità e ritardi) ; malattie pregresse, incidenti, ospedalizzazioni. Separazioni d i durata su­ periore ad una settimana, genere di accudimento sostitutivo ; storia scolastica, progresso negli studi, difficoltà eventuali. g) Osservazione della condotta e dello stato emotivo: aspetto, segni

di dismorfismz; stato generale, evidenze di maltrattamenti. Livello di at­ tività, movimenti involontari, capacità di concentrarsi, umore, espressio­ ni e segni di tristezza, ansia, tensione, senso di miseria, capacità di rela­ zionarsz; capacità di interagire con l'esaminatore, contatto visivo, elo­ quio spontaneo, inibizione/disinibizione. Relazione coi genitorz; affetto mostrato, risentimento, facilità di separazione. Abitudini e manierismi, deliri, allucinazioni, disturbi del pensiero. Livello di coscienza, evi­ denze di "piccolo male" . h) Osservazione delle relazioni familiari: modelli di interazione, rap­ porti e legami intergenerazionali (confusione o chiarezza ) , capacità di comunicazione tra i membri della famiglia, atmosfera emozionale del­ la famiglia, calore reciproco, tensioni, critiche. i) Esame fisico. Esame neurologico di routine: notare la simmetria facciale, movimenti oculari ( capacità di seguire il dito dell'esaminato­ re, coordinazione), capacità di prensione, capacità di sovrapporre dita e pollice in rapida successione, livello di vigilanza, capacità di dise­ gnare una figura umana, mancino o destrimane nella prensione e nel disegno, capacità di ricopiare, capacità di saltare in alto e in basso. Udito: capacità di ripetere numeri pronunciati ad un paio di metri di distanza. l) Prendere in considerazione la necessità di richiedere valutazioni specifiche da altri specialisti o la necessità di indagini strumentali. 3 ·5

La situazione prefissata di Winnicott

Secondo Winnicott ( r 9 5 8 ) è possibile costruire una molteplicità di " situazioni prefissate" in grado di sottolineare gli interessi e le ansie infantili: nella prassi clinica tale situazione può essere attuata da qual­ siasi medico ed è in grado di fornire un'area di studio per la salute del paziente. Winnicott sottolinea come il bambino osservato insieme alla ma­ dre possa fornire importanti elementi sul grado del suo sviluppo emozionale . Winnicott costruì il suo metodo di osservazione clinica durante la sua esperienza come pediatra definendo una " situazione prefissata" che si basava sulla dotazione di cui ogni medico dispone senza richiedere speciali attrezzature o strumenti. Egli cercava di indi119

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

viduare una serie di comportamenti " sani" o "patologici " dei bambini in quella situazione da lui definita. I parametri che definiscono l'osservazione diretta in ambito di va­ lutazione clinica sono secondo Winnicott : a) la definizione di un flusso naturale dell'interazione; b) una situazione prefissata che richieda all'osservatore una disciplina tale da rendere possibile l'attribuzione di ciò che accade esclusiva­ mente all' azione del bambino o della coppia madre-bambino; c) l'importanza del contatto emotivo nel rapporto tra osservatore e osservato. Inoltre, i fenomeni emotivi sono utilizzati con scopi conoscitivi, mentre il rapporto in cui l'osservatore è coinvolto mostra tre aspetti differenti: l'osservatore, la madre e il bambino . L'osservatore, secondo Winnicott, si trova ad agire in un campo di esperienza in cui il processo di conoscenza clinica si realizza attra­ verso una forma di identificazione emotiva nei confronti della coppia madre-bambino simile a quella che caratterizza il legame tra la madre e il piccolo . L'osservatore si trova cioè coinvolto in un contesto ana­ logo a quello della madre che è in grado di comprendere, in ogni momento, come si sente il bambino, grazie alla preoccupazione ma­

terna primaria. L' ambiente per l'osservazione clinica o assessment di Winnicott è una " situazione prefissata" . Questa, come nota l'autore (Winnicott, 1 9 5 8 , trad. it. pp. 66-7) è quella in cui si trova ogni bambino che viene condotto nel mio reparto per una consultazione. [ . ] Ho scelto una stanza di una certa ampiezza perché molto si può vedere e fare nel tempo necessario a madre e bambino per raggiungermi entrando dalla porta che si trova al lato opposto della mia scri­ vania. In questo breve tempo già si stabilisce un contatto con la madre, e probabilmente con il bambino, attraverso l'espressione del mio viso, e ho la possibilità di ricordarmi del caso quando non si tratti di un nuovo paziente. Se si tratta di un bambino di pochi mesi chiedo alla madre di sedersi di fronte a me, con l'angolo del tavolo che ci divide. La madre si siede con il bambino sulle ginocchia. D'abitudine pongo un abbassalingua di metallo luc­ cicante ad angolo retto sul bordo del tavolo ed invito la madre a tenere il bambino in modo che, se questi lo volesse, potrebbe facilmente afferrarlo. Di solito la madre afferra ciò che intendo, e riesco facilmente a farle capire che vi sarà un periodo di tempo in cui lei ed io dovremo intervenire il meno possibile in modo da poter attribuire ciò che accade esclusivamente all'inizia­ tiva del bambino. È facile intuire che le madri mostreranno, almeno in parte, attraverso la loro capacità o relativa incapacità di seguire questo suggerimen­ to, il loro modo di essere e di fare in casa; se temono l'infezione, se nutrono .

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' IL COLLOQUIO CLINICO NELL I:-.I FANZIA

forti riserve morali contro l'introduzione in bocca di oggetti o se sono irrita­ bili ed impulsive, queste loro caratteristiche verranno svelate.

La situazione semplice delineata da Winnicott permette dunque di osservare le caratteristiche tipiche, in una situazione di debole stress, dell'interazione madre-bambino, come diverse ulteriori dinamiche fa­ miliari : se ad esempio la madre verrà accompagnata dalla suocera, dal marito da un'amica o dagli altri bambini . La madre potrebbe condurre il bambino per mano, oppure te­ nerlo in braccio e ciò potrebbe essere raffrontato con la sua età e/o con l'entità presunta dalla madre della sua malattia. Ciò vale anche rispetto all' autonomia concessa al bambino all'interno dello studio, all'intimità con esso dimostrata durante il colloquio o con l'indiffe­ renza rispetto alle sue azioni. Il merito della proposta winnicottiana è la semplicità della situa­ zione proposta e la sua capacità di fornire dati rilevanti rispetto all'in­ dagine clinica . Per Winnicott tale strumento di osservazione clinica può essere inoltre adattato alle esigenze dell'osservatore e qualsiasi deviazione da un comportamento " normale" predefinito può risultare pertanto fa­ cilmente osservabile, significativo e utilizzabile a scopi valutativi. Winnicott sottolinea inoltre la necessità di una complementarità tra osservazione diretta e osservazione clinica; egli sostiene che la psi­ coanalisi ha molto da imparare da coloro che osservano direttamente i lattanti, la coppia madre-neonato e i bambini piccoli nell' ambiente in cui vivono naturalmente. Secondo Winnicott però neppure l'osser­ vazione diretta è in grado di costruire da sola una psicologia della prima infanzia. 3 ·6

Scale di valutazione del bambino

La valutazione psicologico-clinica può iniziare sin dal primo mese di vita. A tale proposito, presso alcuni ospedali pediatrici italiani sono istituiti consultori per lattanti nei quali si eseguono esami non solo somatici e neurofisiologici, ma anche psicologico- clinici che, con un'impostazione preventiva, offrono l'opportunità ai genitori di segui­ re il bambino nel corso del suo sviluppo. Il lavoro di valutazione psicologico- clinica durante la primissima infanzia sarebbe di grande utilità per alcune popolazioni di bambini, come è stato ampiamente verificato in molte nazioni europee, in par­ ticolare in Francia. I2 I

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

Questo genere di servizi è necessario per individuare precocemen­ te l'insorgere di disturbi dello sviluppo, evitando con adeguati inter­ venti ritardi significativi di apprendimento o lo strutturarsi di vere e proprie condizioni psicopatologiche. In particolare, sarebbe necessaria un'attenzione nei confronti dei bambini che sono nati pretermine (prima delle quarantadue settimane di gestazione) e sottopeso, dei bambini nati in seguito a gravidanze difficili o a rischio, dei bambini che nascono con sofferenza del si­ stema nervoso, nonché dei bambini che vivono in condizioni sociali considerate " a rischio psicopatologico " . 3 . 6 . r . Test di valutazione dello sviluppo e test di intelligenza Il colloquio e i test sono gli strumenti più comunemente e tradizio­ nalmente impiegati dagli psicologi per la valutazione clinica. Il colloquio clinico nel campo dell'età evolutiva deve opportuna­ mente considerare gli aspetti cognitivo- comportamentali dello svilup­ po. È soprattutto attraverso la somministrazione dei test che è possi­ bile raccogliere informazioni sul comportamento e sul funzionamento cognitivo dei bambini piccoli. Non è scopo di questo volume prendere in considerazione detta­ gliatamente tali strumenti professionali propri della pratica clinica dello psicologo, ma sarà utile soffermarsi su alcuni principi generali sui quali si fondano i test di intelligenza per fornire a coloro che si occupano dell'educazione infantile alcuni elementi di base e di orien­ tamento generale. Nel 1 8 90, per la prima volta, venne impiegato il termine " test mentale" dallo psicologo americano James McKeen Cattell per indi­ care delle prove prevalentemente di dis criminazione sensoriale, som­ ministrate individualmente ad alcuni studenti delle scuole superiori e a universitari, con lo scopo di ottenere una misurazione delle loro funzioni intellettuali. Tuttavia, risultò che le prestazioni individuali alle prove sensoriali erano in disaccordo con la valutazione degli in­ segnanti. È merito di Alfred Binet e del suo collaboratore Theodore Simon aver ideato, nel 1 905 , una Scala metrica dell'intelligenza, che può es­ sere considerata il prototipo di tutti i test di intelligenza elaborati fino ad ora. Binet faceva parte di una Commissione del ministero francese del­ la Pubblica istruzione per la creazione di classi speciali riservate ai bambini ritardati. Pertanto, era necessario che la Scala metrica del­ l'intelligenza non solo evidenziasse le differenze individuali sul piano I22



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quantitativo, ma soprattutto fornisse la possibilità di cogliere l'intelli­ genza globale del bambino, cioè doveva cogliere gli aspetti più pro­ priamente individuali e clinici del comportamento intelligente. La Scala di Binet doveva evidenziare le attività fondamentali dell'intelli­ genza: le capacità di giudizio, di comprensione e di ragionamento. Negli anni successivi, I 90 8 - I I, Binet raggruppò le prove della Scala in rapporto alle diverse età del bambino, che si estendevano dai tre anni fino all'adolescenza. In tal modo, vennero raggruppati gli item corrispondenti al livello di età cronologica del bambino, cioè quelle prove che potevano esse­ re superate dai bambini normali di quell'età, i comportamenti dei quali erano presi come campione di riferimento. Binet e Simon, per portare alcuni esempi, avevano evidenziato che i bambini di tre anni sono in grado di dire il proprio cognome, di mostrare il proprio naso, gli occhi e la bocca, di ripetere due cifre e una frase di sei sillabe; mentre i bambini di quattro anni di età, potevano dire il proprio sesso, nominare degli oggetti di uso dome­ stico come una chiave, una moneta e un coltello, ripetere tre cifre e confrontare la lunghezza di due linee. Invece, un bambino di cinque anni dovrebbe essere in grado di confrontare due scatole di peso di­ verso, copiare un quadrato, contare quattro monete, ricomporre un gioco di pazienza di due pezzi. E così di seguito, sono state indivi­ duate delle prove standard per ciascun livello di età. Binet e Simon, pertanto, costruirono delle scale di misurazione composte da stimoli adeguati per ottenere la reazione da valutare in base all'età. La nozione moderna di età mentale (assente nel lavoro di Binet) ha consentito di classificare i bambini in termini di sviluppo, sugge­ rendo il confronto con la loro età cronologica. In altri termini, è as­ sunto che l'età mentale corrisponda all'età cronologica nel corso dello sviluppo del bambino, per cui un bambino all'età di tre anni dovreb­ be possedere un'età mentale corrispondente. William Stern e Otto Lipmann ( I 9 I 2 ) introdussero il concetto di Quoziente di intelligenza (or) , owero il rapporto tra l'età mentale e l'età cronologica del soggetto moltiplicato I oo, per eliminare i possi­ bili decimali ottenibili dalla frazione ( QI EM!Ec x I o o) . In tal modo, un bambino con età mentale corrispondente alla sua età cronologica avrà un QI r oo. Il crescente interesse degli psicologi per i primi anni dello svilup­ po portò nella seconda metà degli anni quaranta all' elaborazione del­ le prime prove di valutazione dei lattanti : i baby test. È merito di =

=

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DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

Arnold Gesell ( I 949) aver costruito delle " s chede di sviluppo" per osservare e valutare le linee di sviluppo del comportamento infantile - tra i due anni e mezzo e i sei anni - nella vita quotidiana in quat­ tro principali aree: motoria, linguistica, di adattamento e sociorela­ zionale. Una scala di valutazione molto utilizzata in ambito clinico per la sua semplicità e immediatezza di somministrazione, costruita sulla base delle osservazioni di Gesell, è la Scala di sviluppo del I 949 di O dette Brunet e Irène Lézine ( I 9 5 I ) . Essa può essere somministrata da uno a trenta mesi e consente di ottenere informazioni per la valu­ tazione attraverso domande rivolte ai genitori e test applicati ai bam­ bini su quattro campi dello sviluppo : il controllo posturale e la mo­ tricità; la coordinazione oculo-motrice o il comportamento di adatta­ mento di fronte agli oggetti; il linguaggio; le relazioni sociali, com­ prendendo in quest'ultima categoria l'autocoscienza, le relazioni inter­ personali, l'adattamento a situazioni sociali e i giochi. I materiali impiegati sono molto semplici, come per esempio dei cubi di legno colorati, un campanello, uno specchio, un libro carto­ nato, una salvietta, una tavoletta ad incastro ecc. Per portare alcuni esempi di aspetti della valutazione a tre diverse età, si può notare che al primo mese viene valutato se il neonato sol­ leva momentaneamente la testa quando viene condotto in posizione seduta, se reagisce al suono di un campanello, se fissa lo sguardo sul viso dell'esaminatore ecc.; all'età di sei mesi viene osservato se il bambino, coricato sul dorso, può sbarazzarsi di una salvietta posta sulla sua testa, se è in grado di stare seduto con un sostegno, se alla vista di un cubo posto sul tavolo lo afferra ecc.; all'età di diciotto mesi, il bambino può spingere una palla con un piede, costruire una torre di tre cubi, indicare due figure, dire almeno sei parole ecc. A partire dal quarto mese è così pos sibile calcolare un Quoziente di sviluppo (os) dividendo l'età di sviluppo - ottenuta attraverso la somma degli item superati - per l'età reale. Come strumento di valutazione dello sviluppo cognitivo merita di essere ricordato il test dell'intelligenza del " bonhomme" (Draw-a-Man Test) di Florence Goodenough ( I 92 6 ) per i bambini dai quattro ai dodici anni. Al bambino viene data la consegna di disegnare con molta cura e attenzione un ometto. La valutazione del disegno viene effettuata sulla base del numero dei particolari che vengono espressi e sulla loro organizzazione spa­ ziale; viene assegnato un punto per la presenza di ogni particolare e la sua proporzione, come la testa, le gambe, le braccia, il tronco, il 1 24



' IL COLLOQUIO CLINICO NELL I:-.I FANZIA

collo, gli occhi, il naso, le orecchie, i vestiti ecc. Dopo aver individua­ to il numero degli elementi presenti nel disegno, viene calcolato il QI secondo la solita formula (EMIEc X I Oo ) , anche se il test non offre una misura sicura dello sviluppo intellettivo, poiché nel disegnare una fi­ gura umana possono interferire delle componenti emotive, che po­ trebbero portare a delle omissioni di elementi. A tale proposito, il disegno della figura umana è stato studiato da Machover ( I 9 5 I ) con un approccio psicodinamico per cogliere gli aspetti emozionali proiet­ tati dal bambino. La WISC-R ( Wechsler Intelligence Scale /or Children-Revised) (Wech­ sler, I 974) è un test di intelligenza generale, include dodici subreattivi, tra questi due vengono utilizzati come alternativi o sup­ plementari; comprende una parte verbale (informazione, comprensio­ ne, ragionamento aritmetico, analogie, vocabolario e memoria di cifre come complementare) e una parte di performance (ricostruzione di figure, completamento di figure, disegno con cubi, costruzione di fi­ gure, associazione di simboli e numeri o labirinti come complementa­ re) . Si giunge a tre tipi di QI: verbale, non verbale e totale. La WIPPSI-R ( Wechsler Preschool and Primary Scale o/ Intelligence-Re­ vised) (Wechsler, I 9 89), comprendente undici subtest, sei verbali e cinque di performance, è adatta per misurare l'intelligenza globale in bambini dai quattro ai sei anni. Le Matrici Progressive Standard di Raven (Raven, I 93 8a, I 93 8b ) ven­ gono ideate come un test scarsamente influenzabile da fattori cultura­ li, comprendono 6o disegni, ognuno mancante di una parte che il bambino deve completare scegliendo tra le alternative proposte; le Matrici Progressive Colorate (Raven, I 947; Raven, Court, Raven, I 97 8 ) sono indicate tra i quattro e gli undici anni, includono 36 pro­ blemi aventi lo scopo di verificare nel bambino l'abilità osservativa e lo sviluppo del ragionamento analogico; le Matrici Progressive Avan­ zate (Raven, I 962 ) comprendono 48 item con figure che devono esse­ re completate, vengono usati con soggetti che presentano abilità intel­ lettuale elevata o superiore alla media. La Bayley (Bayley, I 969), applicabile tra i 2 e i 30 mesi, si prefigge di rilevare la fase di sviluppo del bambino sia a livello mentale che ma­ torio e possibili biforcazioni dallo sviluppo normale. Le Scale di Utzgiris e Hunt ( I 975 l , basate sulla teoria di Piaget ( I 93 6 , 1 93 7 , 1 945) dello sviluppo mentale, si propongono d i individuare lo stadio di sviluppo del fanciullo. 125

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

Le British Ability Scales (Elliott, Murray, Pearson, 1 97 7 ) consentono di individuare i bambini con difficoltà di apprendimento . Il Miller Assessment /or Preschoolers (Miller, 1 9 8 2 ) ha il fine di indivi­ duare i bambini di età prescolare che possono presentare problemi relazionali nel campo scolastico e lievi ritardi nello sviluppo. Il Battelle Developmental Inventory (Newborg, Stock, Wnek, Guidu­ baldi, Svinicki, 1 9 84) consente di mettere in evidenza eventuali ritardi nello sviluppo del bambino.

È importante ricordare che i test di sviluppo e di intelligenza sono

strumenti che completano il colloquio di valutazione psicologico-cli­ nica; essi consentono, di fronte a uno stimolo standard, la spiegazione del comportamento stesso. Bisogna infine ribadire che il QI è solo una misurazione indicativa e flessibile, che ha un valore molto ridotto rispetto al comportamento e alle reazioni del bambino durante la somministrazione delle prove. Il clinico è molto attento agli aspetti qualitativi del comportamento infantile piuttosto che a quelli quantitativi. 3 .6.2 . Test di personalità I test di personalità permettono una valutazione qualitativa dei pro­ cessi psichici che concorrono all'organizzazione della personalità. Tra i test di personalità si possono distinguere: r . questionari; 2 . test proiettivi. r . I questionari sono poco usati con il bambino per la lunghezza dell'esecuzione, assomigliano al Minnesota Multiphasic Personality In­ ventory (MMPI) non utilizzabile però prima dei sedici anni (non è sta­ to validato per i giovani adolescenti) . 2 . I test proiettivi s i basano sul concetto di proiezione: non esiste percezione neutra e ogni percezione si basa su un lavoro di costruzio­ ne in funzione della problematica del soggetto. I test proiettivi forni­ scono uno stimolo percettivo ambiguo che facilita la proiezione dei temi affettivi rilevanti. I proiettivi si dividono in due categorie: gli strutturali, di cui il più rilevante è il Rorschach, forniscono indicazioni su come l'indivi­ duo coglie la realtà, come organizza la propria personalità, vive le sue esperienze; i !ematici, invece, evidenziano alcuni contenuti significativi della personalità (sentimenti, bisogni, conflitti, aspirazioni, timori ecc.) e tra questi il più conosciuto è il TAT. 126



' IL COLLOQUIO CLINICO NELL I:-.I FANZIA

Test strutturali Il test proiettivo di Rorschach fu presentato, nel I 92 I , da Hermann Rorschach ( I 9 3 7 ) . Lo psichiatra svizzero riunì macchie d'inchiostro da lui selezionate, osservazioni cliniche e basi teoriche delle sue inda­ gini in uno strumento di grande importanza clinica. Applicato al bambino dal I 92 5 (da Loepfe), è uno dei test più utilizzati, senza al­ tri limiti d'età al di fuori delle possibilità espressive verbali. Le idee di Rorschach e le sue dieci tavole leggermente asimmetri­ che fanno parte dell'equipaggiamento standard di ogni psicologo an­ cora oggi . Le dieci tavole che compongono il test furono selezionate tra mi­ gliaia di macchie sperimentali. Il test comprende dieci tavole: cinque grigie e nere, due grigie e rosse, tre policrome fatte di macchie non rappresentative che comportano una simmetria assiale. Il test viene somministrato presentando in successione le dieci ta­ vole e registrando ciò che il soggetto vi vede e i comportamenti cor­ relati. In seguito, al soggetto si chiederà di chiarire i motivi per cui ha circoscritto le varie macchie nel modo in cui le ha definite. La valutazione è successiva . L'applicazione del Rorschach si ha attualmente nel campo della salute mentale in istituzioni pubbliche e private e nella pratica pro­ fessionale. Tuttavia vi sono possibilità di applicazione nella selezione del personale. Si fa uso di applicazioni collettive del Rorschach non solo per il servizio militare, ma anche nelle industrie, negli ospedali e nelle cliniche. Il Rorschach ha ampliato la conoscenza delle funzioni intellettuali, ha contribuito alla comprensione di deviazioni della personalità e ha assunto una posizione di primo piano nella psicopedagogia. Esso ha favorito anche un nuovo approccio allo studio delle interrelazioni tra cultura e personalità. L'interpretazione considera i dati tratti da parecchi livelli. Bisogna dapprima valutare l'aspetto formale delle risposte e il loro contenuto al di fuori dell'interpretazione della problematica del bambino stu­ diando successivamente: le modalità della percezione; le modalità dell'espressione; i contenuti delle risposte. Quando questi livelli siano stati considerati, l'interpretazione pas­ sa attraverso diversi assi interpretativi: - asse dello sviluppo libidico (piano dell' oralità, analità, genitalità); I27

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

asse dei processi difensivi (natura dell'angoscia, tipo di difesa uti­ lizzata) ; - asse delle rappresentazioni dell'Io e delle immagini parentali. Il resoconto finale del Rorschach contiene perciò due tipi di n­ sultati: a) la valutazione si basa sui modi di percezione, sull' aspetto formale delle risposte e sul loro contenuto immediato : percentuale delle rispo­ ste globali in rapporto ai dettagli, importanza dei dettagli bianchi, qualità delle determinanti formali, frequenza delle risposte cinestesi­ che e delle risposte colore che permettono di definire vari tipi di riso­ nanza intima ( extratensivo, introverso, ambieguale o coartato) ; nume­ ro delle risposte totali e per ogni tavola, numero delle risposte banali, umane o animali ecc. Lo psicogramma così ricavato permette di sta­ bilire alcuni profili di personalità, di valutare nel bambino il livello di sviluppo genetico e di ottenere una prima valutazione del suo modo di percepire la realtà; b) la natura dei processi psichici che permettono l' articolazione tra il livello percettivo e il livello fantasmatico per comprendere come il bambino articoli il reale con il suo mondo immaginario.

Test tematici Il TA T ( Thematic Apperception Test) di Murray ( 1 94 3 ) è formato da trentuno tavole che rappresentano una scena con personaggi in situa­ zioni ambigue, dei quadri senza personaggi o con ombre indistinte. L'ultima tavola è bianca. Alcune delle immagini sono identiche per tutti i soggetti, altre si differenziano a seconda dell'età e del sesso. Il test si somministra in due sedute presentando all'individuo ogni volta dieci figure diverse, vale a dire venti globalmente. Di fronte ad ogni tavola il paziente deve narrare una storia che inventa partendo da ciò che le tavole gli suggeriscono. Questo test può essere applicato dagli undici- dodici anni . Il CAT (Children 's Apperception Test) di Bellak e Bellak ( 1 9 5 2 ) , ispira­ to al TAT, è destinato ai bambini dai tre ai dieci anni. Nelle dieci ta­ vole vengono raffigurati animali in situazioni differenti che si propon­ gono di fornire informazioni inerenti a molteplici temi: modo di vive­ re la situazione edipica, problemi orali, rivalità tra fratelli, atteggia­ menti con i caregiver ecc. Il bambino viene incoraggiato a dire cosa succede in ogni immagine, quali azioni compiono gli animali, cosa è accaduto prima e ciò che accadrà poi. I28



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Favole della Diiss. La Diiss ( 1 950) ha ideato un test basato su dieci brevi favole o storie nelle quali un protagonista si trova in una determi­ nata situazione che rappresenta uno stadio di sviluppo (orale, anale, edipico ecc . ) ; la situazione descritta si può concludere in vari modi. Il metodo di storie da completare è stato inventato dalla Thomas, nel 1 9 3 7 , come strumento di valutazione del bambino . La Diiss, nel 1 940, sviluppò una nuova serie di favole in uso tuttora. Si tratta di un metodo basato su concetti di derivazione psicoanalitica riguardo allo sviluppo affettivo del bambino. Le favole ideate dalla Diiss sono un mezzo per individuare rapidamente la struttura narrativa cui fan­ no riferimento le credenze patogene del bambino, e il grado di gravi­ tà dei problemi. Il test può servire come punto di partenza per una psicoterapia. L'esame si articola nel modo seguente: si dice al fanciullo che gli racconteremo delle piccole storie delle quali egli dovrà indovinare il seguito . Egli potrà dire tutto quello che pensa a riguardo dato che non vi sono risposte giuste o sbagliate. Ai più grandi il metodo va applicato presentandolo come prova di immaginazione. Si dice che possono rispondere tutto ciò che pensano perché sono prove di im­ maginazione più che di intelligenza. Ognuno può avere idee diverse. Si racconta la storia nella forma diretta e si dà vita ad alcuni partico­ lari secondari; bisogna fare attenzione a non dare indicazioni che pos­ sano influenzare il bambino. Il Blacky Pictures Test (Blum, 1 95 0 ) include dodici tavole che illu­ strano le avventure del cane Blacky; è uno strumento proiettivo basa­ to sulla teoria psicoanalitica, verte su variabili psicologiche come i meccanismi di difesa, la relazione oggettuale, lo sviluppo psicosessua­ le. Viene chiesto al bambino di raccontare una storia e, in seguito, per ogni vignetta gli vengono poste delle domande che si propongo­ no di analizzare i ruoli e le dinamiche relazionali. È utilizzabile con bambini di età inferiore a cinque anni. Il Patte Noir (Corman, 1 9 6 1 a, 1 9 6 1 b ) è applicabile dai quattro-cinque ai dieci- dodici anni . Il test presenta una serie di disegni che hanno come protagonista un maialino con una zampa nera in situazioni fo­ calizzate sui diversi conflitti infantili: oralità, analità, rivalità fraterna, punizione, abbandono, centrati attorno a genitori e fratelli. Inizial­ mente viene chiesto al bambino di raccontare una storia per ogni fi­ gura; successivamente il fanciullo viene sollecitato a dividerle in due gruppi, cioè da una parte quelle che gli piacciono e dall'altra tutte quelle che non gli piacciono, e a motivare quindi la sua scelta e dire chi gli piacerebbe essere. L'interpretazione è fondata sulla teoria psi129

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

coanalitica, vengono presi in considerazione i meccanismi di difesa, le tendenze inconsce ecc. Il Test di Rosenzweig (Rosenzweig, Fleming, 1 95 5 ) permette una va­ lutazione della tolleranza alla frustrazione. Lo strumento utilizza delle immagini come stimoli, al fine di ottenere una misura quantitativa della capacità di tollerare la frustrazione . Esso fa uso di un insieme di cartoncini, ciascuno dei quali riproduce un disegno in cui un perso­ naggio ostacola un altro nel raggiungimento dei suoi obiettivi . Il sog­ getto deve riempire il fumetto del personaggio frustrato con una ver­ balizzazione indicante la sua reazione alla circostanza ostacolante. Dalle risposte viene valutato principalmente il fattore aggressività e in particolare la direzione nella quale essa viene incanalata (extrapuniti­ va se orientata nei confronti dell'ambiente; intrapunitiva se rivolta contro il soggetto stesso ) . I l Test del villaggio (Arthus, 1 949) si basa sulla costruzione d i u n vil­ laggio. Pur misurando principalmente l'attività creativa del soggetto, tende ad evidenziare a quali sollecitazioni del mondo esterno la per­ sona è maggiormente sensibile e come le percepisce, qual è il modo in cui assimila questi dati e li trasforma in una sua realtà propria ed originale, come prende coscienza del suo Io e, infine, come le sue energie sono accumulate e come vengono liberate in occasione di de­ terminate attività. Utilizzabile senza difficoltà anche con soggetti mol­ to giovani, si rivela molto utile in terapia non prevedendo, da parte dell'esaminatore, una speciale preparazione al suo utilizzo. Lo Scena Test (von Staabs, 1 9 5 5 ) comprende una grande quantità di giochi: animali, persone umane adulte, bambini e neonati, piccoli og­ getti di casa ecc. coi quali il bambino è invitato a costruire uno sce­ nario o ad inventare una storia. Questo test è utile con bambini tra i due e i sei anni. Utilizzando il materiale del test, i soggetti giungono a costruire delle scene in qualche modo connesse con le loro problematiche, con le loro esperienze, con i loro conflitti. Da queste scene è possibile ottenere informazioni che si riferiscono al contesto familiare, al lega­ me del soggetto con le persone che lo circondano, alle modalità in base alle quali vive le proprie esperienze, dati che, alle volte, nell'a­ namnesi non vengono presentati dal soggetto e dai familiari nella loro giusta prospettiva. Il reattivo è un metodo d'indagine e di trattamen­ to psicologico che concorre alla comprensione dell'atteggiamento in­ teriore dell'individuo verso il mondo degli uomini e delle cose, so­ prattutto riguardo alla sua vita affettiva e agli elementi psichici pro-



' IL COLLOQUIO CLINICO NELL I:-.I FANZIA

fondi. Fornisce, altresì, dati sulla struttura complessiva della persona­ lità del soggetto, sulle sue inclinazioni e sulle modalità caratterologi­ che. Il test consente di pervenire alle radici psicologiche profonde di condotte psichiche inadatte e rappresenta un importante strumento diagnostico e terapeutico. Il Roberts Apperception Test /or Children (McArthur, Roberts, 1 9 8 2 ) , applicabile tra i sei e i quindici anni, ricorre a una serie d i disegni rappresentanti figure umane che includono alcuni temi: affetto dei ge­ nitori, rivalità fraterna, paura, conflitto con i genitori, sessualità, so­ stegno materno, interazione tra pari, aggressione fisica, liberazione dall'aggressività (Lis, 1 9 93 ) . Il bambino deve raccontare una storia prendendo spunto dalle sedici vignette, rispondendo agli stimoli pre­ sentati verranno evidenziati aspetti della sua personalità. Il Family Relations Test - Children's Version (Bene, Anthony, 1 97 8 ) , mediante il quale è possibile individuare i sentimenti dei bambini nei confronti dei componenti della famiglia e la percezione dei sentimenti che gli altri provano nei suoi riguardi.

Test grafici Il Test dell'albero ( Kock, 1 949) può essere applicato dai quattro-cin­ que anni, può essere d' aiuto per comprendere alcuni aspetti, i più nascosti, della personalità. L'albero , infatti, rappresenta l'essenza della persona, il suo sé; eventuali disarmonie nel disegno saranno indice di disarmonie nella personalità. La somministrazione richiede foglio e matita; la consegna è la seguente: "Disegna un albero " . Nell'interpre­ tazione del test si devono tener presenti tutti i particolari del disegno: la collocazione dell' albero nel foglio (in alto, in basso, al centro) , le caratteristiche della chioma, la presenza di elementi specifici (fiori, funghi, farfalle, nidi ecc . ) . Meritano un' attenzione particolare le radi­ ci, simbolo dell'affettività, delle emozioni, del rapporto tra madre (ra­ dici) e figlio (tronco); il tronco, che esprime la sicurezza del bambino; la chioma (unione di tronco e radici), che rappresenta l' apertura del bambino verso l' ambiente esterno. Per il Test del disegno della famiglia (Appel, 1 93 1 ; Porot, 1 9 5 2 ; Cor­ man, r 967) si fa sedere il bambino a un tavolo adeguato alla sua sta­ tura, con un foglio di carta bianca e una matita. La consegna è: "Di­ segna la tua famiglia" oppure " Disegna una famiglia, una famiglia di tua invenzione " . Lo psicologo deve essere presente, infatti il modo in cui il bambino procede è quasi importante più del risultato. L'inibizione può manifestarsi in improvvisi arresti, sia all'inizio sia

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

nel corso del disegno; inoltre è rilevante il punto in cui il disegno è stato iniziato e con quale personaggio, l'ordine mediante il quale i diversi membri della famiglia vengono disegnati. È degno di considerazione il tempo impiegato per disegnare que­ sto o quel personaggio, la cura nei particolari o la tendenza ossessiva a ritornare sullo stesso punto . Di ciascun personaggio, domandiamo: ruolo, sesso, età e preferen­ ze affettive : " Chi è il meno felice ? " "Perché ? " , "E tu, di questa fami­ glia, chi preferisci ? " , " Supponi di far parte di questa famiglia, chi vorresti essere ? " . L e reazioni affettive nella prova sono di molto valore: stati d'im­ barazzo, mutamenti d' umore, tristezza, gioia, collera, possono essere in relazione con il rapporto tra il bambino e il personaggio o la scena che sta disegnando. È di grande interesse annotare la composizione della famiglia rea­ le, poiché la maggiore o minore fedeltà ha importanza, infatti ogni omissione o deformazione di personaggi è espressione di qualche problema. 3 . 6 . 3 . La tecnica dello scarabocchio di Winnicott La tecnica dello scarabocchio è dovuta a una felice intuizione di Winnicott ( 1 9 7 1 , 1 9 89) che si sforza di utilizzare appieno il poco tempo disponibile per consultazioni con bambini che in ogni caso non si possono sottoporre a un trattamento prolungato. Winnicott ridefinisce in termini psicoanalitici uno strumento che la tradizione avrebbe voluto esclusivamente diagnostico. Quindi l'au­ tore stimola il passaggio da un atteggiamento puramente oggettivante volto a conoscere attraverso lo strumentario testistico i contenuti pa­ tologici della mente del paziente a un agire che nel contempo è dia­ gnostico e terapeutico. La consultazione winnicottiana con la tecnica dello scarabocchio va oltre anche l' assessment psicoanalitico del paziente, proponendosi obiettivi terapeutici limitati ma concreti. Bisogna distinguere, secondo Winnicott, le situazioni nelle quali la tecnica viene usata in funzione dell' avvio di una terapia a lungo ter­ mine. Infatti, per l'autore questa tecnica permette di sviluppare in modo molto pratico la relazione terapeutica anche in funzione di un trattamento a lungo termine. Il terapeuta si presenta come un dottore che si occupa dei pro­ blemi dei bambini e propone al piccolo paziente un "gioco " . Il gioco consiste nel fatto che il terapeuta traccerà sul foglio uno scarabocchio



' IL COLLOQUIO CLINICO NELL I:-.I FANZIA

e il bambino lo completerà trasformandolo in un disegno, tracciando poi a sua volta uno scarabocchio libero su un nuovo foglio che il te­ rapeuta completerà. In tal modo si instaura un gioco in cui i giocatori attuano mosse interpretativo-relazionali attraverso scarabocchi, dise­ gni ed eventuali commenti. Dico al bambino: «Facciamo un gioco. Io lo so a cosa vorrei giocare e ades­ so te lo faccio vedere». Tra me e il bambino c'è un tavolo, con della carta e due matite; prima di tutto prendo un po' di carta e divido i fogli a metà, per dare l'impressione che quello che facciamo non è poi così terribilmente im­ portante, quindi comincio a spiegare: «Il gioco che vorrei fare non ha nessu­ na regola. Prendo la matita e faccio così...». Qui è probabile che chiuda gli occhi e faccia uno scarabocchio alla cieca. Vado avanti nella spiegazione e dico: «Tu mi fai vedere se ti sembra che assomigli a qualcosa e se lo puoi far diventare qualcosa, poi ne fai uno tu e io vedrò se posso fare qualcosa con il tuo» (Winnicott, r989, trad. it. p. 3 2 6 ) .

Tutto ciò viene a definire quella che Winnicott chiama " area d i gio­ co " o " transizionale " . Tale area consta di una realtà definita interatti­ vamente dai due partecipanti e situata in una zona " intermedia" che non si colloca all'interno di nessuno dei due, né all'esterno di essi, e che pertanto viene definita "transizionale" . Si tratta di una nuova realtà che viene creata per il fatto stesso di instaurare un certo tipo di relazione terapeutica connotata da modali­ tà psicoanalitiche nell'interazione terapeuta-paziente. La creazione di un'area intermedia caratterizza, quindi, questo approccio terapeutico basato sulla costruzione di una realtà peculiare alla terapia. Un aspetto ulteriore che caratterizza le mosse iniziali che defini­ scono il "luogo" della terapia corrisponde alla " regola fondamentale" nel sowertimento delle regole della comunicazione quotidiana, che caratterizza ogni approccio strutturalmente psicoanalitico. Il fatto che lo scarabocchio sia completato nella direzione di quel­ lo che ci vede il paziente corrisponde alla comunicazione senza cen­ sura di quello che passa per la testa o si traduce nella percezione (proiettiva) dell' attuale realtà clinica che si va sperimentando. Tale as­ sunto riprende anche la concezione del gioco in psicoanalisi infantile quale equivalente delle associazioni libere. Una volta che si è costituita questa realtà clinica, terapeuta e pa­ ziente si trovano coinvolti e devono orientarsi nel rapporto e interagi­ re tra loro. Questo è un secondo livello generale della terapia che si sviluppa con la tecnica dello scarabocchio. L'area transizionale che si è definita contiene ora personaggi, con­ dotte, oggetti, problemi che veicolano nell'attualità problemi e temati133

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

che tipiche del paziente (e del terapeuta) e che divengono soggette a un processo di elaborazione e trasformazione. Questa nuova organizzazione costituita dal legame paziente- tera­ peuta deve muoversi nella realtà transizionale che co-emerge rispetto a tale organizzazione. L'interazione può essere descritta secondo strutture tipiche e variazioni di esse dovute all'influenza di fattori mi­ nori che stimolano derive della struttura elementare dell'interazione triadica attuale: paziente-terapeuta- ambiente clinico. L'adozione di una prospettiva che ponga al centro dell'indagine il fatto che nella terapia sia stata creata una particolare situazione "tran­ sizionale" viene a porre la necessità di una ridefinizione dei processi conoscitivi in atto, coerente col riconoscimento che l'abituale distin­ zione soggetto- oggetto nel processo conoscitivo della terapia viene a cadere. In tale prospettiva potremmo considerare che i soggetti (tera­ peuta e paziente) si muovono in una realtà che si articola da un li­ vello preriflessivo di strutture. L'evento costituitivo della conoscenza empatica in terapia si deve situare a questo livello preriflessivo che viene messo in comune, così che terapeuta e paziente potranno articolare la propria conoscenza su un medesimo mondo condiviso in cui i confini sé-altro-ambiente abi­ tuali sono ristrutturati o aboliti . Il terapeuta può cioè comprendere empaticamente, o essere là dove il paziente lo cerca, proprio perché si situa nel medesimo mondo " transizionale" in cui il paziente stesso si colloca. La prospettiva winnicottiana sottolinea l'importanza della distin­ zione tra "profondo " nella terapia e " precoce" nello sviluppo. L'auto­ re cerca infatti di precisare il campo di un fondamentale equivoco ingeneratosi nella tradizione psicoanalitica. Invero, l'idea che il tran­ sfert funzioni come una sorta di " macchina del tempo" che attualizza situazioni di vita precoci o precostituite si sviluppa sin dal pensiero di Freud per accentuarsi in quello della Klein e nelle generazioni suc­ cessive di analisti . È merito di Winnicott aver sottolineato per primo questo importante misconoscimento della natura sostanzialmente dif­ ferente di ciò che è profondo rispetto a ciò che è precoce. Nella tecnica dello scarabocchio si sviluppa una situazione in cui il terapeuta, consapevolmente, cerca di creare le condizioni per il ve­ rificarsi di modalità di interazione profonda e di stati arcaici da un punto di vista psicologico. Tali interazioni profonde possono caratte­ rizzarsi per il loro livello di profondità e per la loro natura preva­ lentemente non verbale benché possano realizzarsi tramite interpreta­ zioni, disegni e commenti che fungono da attivatori di tali stati inte­ rattivi. La capacità di realizzare tali stati e tali situazioni apre la straI 34



' IL COLLOQUIO CLINICO NELL I:-.I FANZIA

da alla possibilità di sortire dall' attività clinica un effetto capace di incidere realmente sulle strutture preriflessive che governano la con­ dotta. La tecnica dello scarabocchio è anche intervento breve che si cen­ tra sul recupero, o sulla stimolazione, della capacità di giocare intesa come naturale processo elaborativo che supporta la salute mentale del bambino. La capacità di giocare è l'esito ricercato della tecnica dello scara­ bocchio. Winnicott ne sottolinea l'importanza in più di un'occasione; la capacità di giocare corrisponde cioè alla fine del sintomo e alla ri­ presa dello sviluppo nel bambino, e a una maggiore flessibilità rispet­ to agli eventi della propria vita nell'adulto. Come precisa Winnicott ( 1 98 9 ) , il gioco dello scarabocchio non è un test e il consulente par­ tecipa con la sua spontaneità quasi quanto il bambino.

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4

Il colloquio clinico nell'adolescenza

4· 1

L'adolescente

Il termine " a dolescenza" deriva dal verbo latino adolescere che vuol dire " crescere, maturare " . Per la psicologia essa è una situazione mar­ ginale in cui hanno luogo nuovi adattamenti che differenziano il com­ portamento infantile da quello adulto in una determinata società. Per la sociologia l'adolescenza è il periodo di mutazione dallo stato di di­ pendenza infantile allo stato di indipendenza adulta. L'adolescenza comporta differenze tra diversi soggetti e culture (Muus, 1 962 ) e si divide in fasi (Gislon, 1 993 ) : - preadolescenza ( dai nove agli undici/ dodici anni), i cambiamenti fisici e pulsionali generano conflitti e fantasie. L'Io dà inizio a un processo di riorganizzazione suscitato dai processi di identificazione a volte conflittuali - con le figure parentali e non parentali; - prima adolescenza ( dagli undici/ dodici ai quattordici anni), inizia il processo di ricerca della propria identità. Sono presenti problemati­ che inerenti al sé corporeo e alle pulsioni, capacità di autocritica, pensiero astratto, vi è la ricerca di nuovi oggetti (legame con un ami­ co ideale) ; - adolescenza vera e propria ( dai quattordici ai diciassette anni), di­ stacco sia interno che esterno dai genitori, sviluppo di legami stabili in ambito non familiare, formazione culturale e professionale, caratte­ rizzazione della propria identità in campi differenti; - tarda adolescenza (dai diciassette ai venti anni), la struttura del ca­ rattere si rinsalda, si pongono le basi per la separazione reale dai ca­ regiver, si ha il raggiungimento dell'autonomia e dell'individualità. L'adolescenza è un periodo di cambiamenti fisici e di risonanze psicologiche sul soggetto. Il corpo rappresenta un elemento costituti­ vo basilare dell'identità e le sue trasformazioni influenzano la perce­ zione che il soggetto ha di sé. Rispetto ai processi di differenziazione 137

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

e di complessità sociale, il giovane ha davanti a sé molteplici possibili percorsi connessi a differenti ruoli e contesti di esperienza ( Speltini, 1 997, p. 1 6 9 ) . In tale condizione l'adolescente h a d i fronte a s é come obiettivo principale quello di raggiungere un equilibrio armonico fra i molti percorsi intrapresi o da intraprendere, reso possibile da un certo grado di "fluidità" dell'identità personale. Possiamo dire che l'adolescente si collega con il suo ambiente in modo tale da definire un progetto di realizzazione di sé che implica la defini­ zione di una serie di obiettivi tra loro interdipendenti (orientati tutti all'o­ biettivo fondamentale della realizzazione di sé) ; per raggiungere tali obiettivi il soggetto elabora delle forze psichiche, sotto forma di strutture mezzo-fine cui si può attribuire anche il nome di motivazioni, in base alle quali gli scopi vengono trasformati in progetti comportamentali.

L'adolescente usa gli schemi di riferimento in suo possesso per rico­ noscere una propria identità al fine di definire se stesso rispetto al prossimo e alle proprie aspettative, pianifica progetti atti a gravare ef­ ficacemente sulla realtà. Nel periodo adolescenziale, il ragazzo sente la necessità di conse­ guire una coerenza interna armoniosa tra le differenti istanze che lo vedono impegnato in una prospettiva evolutiva (Ricci Bitti, 1 99 7 ) . La vita mentale è caratterizzata da elevata complessità. Fenomeni che in­ globano lo sviluppo fisico incidono anche sulla vita intellettuale con­ dizionando la formazione di una specifica immagine di sé sul piano emotivo e sociale, sostenendo sentimenti di inadeguatezza, situazioni conflittuali . Similmente, cambiamenti che sembrerebbero inglobare solo il campo intellettuale possono ripercuotersi sulla sfera affettiva, emotiva, sociale (Petter, 1 96 8 ) . Nel periodo della pubertà l e pulsioni istintive sono più forti, l'attività fanta­ stica è più intensa, l'Io persegue altri scopi ed il rapporto con la realtà è diverso [ . . ] l'emotività e l'inconscio predominano nuovamente [ . . . ] l'angoscia ed i vari stati affettivi [ . . . ] sono una sorta di recrudescenza delle scariche di angoscia, così tipiche dei bambini piccoli. Ma gli sforzi che fa l'adolescente al fine di evitare l'angoscia o di modifi­ carla [ . . . ] riescono molto meglio che non gli analoghi sforzi del bambino pic­ colo. Il ragazzo infatti è andato sviluppando vari interessi e attività, allo sco­ po di dominare l'angoscia e di occultarla a se stesso ed agli altri. Egli rag­ giunge in parte questo scopo assumendo l'atteggiamento di sfida e di ribel­ lione tipico della pubertà (Klein, 1 950, trad. it. p. r 1 7 ) . .

Secondo Winnicott ( 1 9 7 1 , trad . it. p . 2 3 8 ) «la crescita non è soltanto una questione di tendenze ereditate, è anche una questione di un in­ trecciarsi altamente complesso con l' ambiente che facilita».



' IL COLLOQUIO CLINICO NELL ADOLESCENZA

L'adolescenza di un componente della famiglia mette alla prova le capacità di adattamento dell'intero nucleo familiare, cambiando so­ vente le forme relazionali tra i componenti. Il fine è di giungere alla differenziazione e all'individuazione conformando le relazioni. Non solo i figli devono separarsi dai genitori, ma anche i genitori devono separarsi dai figli; invero, le figure genitoriali devono accettare che i figli diventino adulti e fungere da ausilio nel loro processo di maturi­ tà. L'evoluzione del percorso di crescita e di indipendenza viene in­ fluenzato dal modo in cui i caregiver vivono tale separazione (Zani, 1 997, p. 2 3 0 ) : È indubbio che l a qualità delle relazioni familiari è cruciale nel determinare la competenza e la fiducia con cui gli adolescenti affrontano il periodo di transizione dall'infanzia all'età adulta. T ali relazioni influenzano le modalità con cui i giovani negoziano i principali compiti dell'adolescenza, la misura in cui si trovano coinvolti nei problemi comportamentali generalmente associati a questo periodo, e l'abilità di stabilire relazioni intime significative e duratu­ re. Gli aspetti della famiglia che sembrano particolarmente importanti sono l'incoraggiamento dell'autonomia e dell'indipendenza dei figli, il grado di controllo desiderato dai genitori, la quantità e i tipi di conflitto tra i membri, la forza dei legami familiari, il sostegno disponibile agli adolescenti. Nell'adolescenza aumenta il bisogno di ridefinire la relazione con la famiglia e di accrescere i legami con i coetanei che rappresentano il più importante oggetto di confronto sociale nella costruzione dell'i­ dentità (Pombeni, 1 997a). Gli adulti (insegnanti e genitori) valutano come l'adolescente af­ fronta i compiti di sviluppo posti dalla scuola e i risultati del suo im­ pegno . Il giovane, inoltre, paragona i propri risultati con quelli conse­ guiti dai coetanei dello stesso ambiente. Tutto ciò influisce sul pro­ cesso di costruzione della propria identità da parte del ragazzo (Pom­ beni, 1 997b ) . L'adolescente può incontrare alcuni ostacoli: non riesce ad allontanarsi dal proprio passato, con difficoltà a vi­ vere il presente; il conflitto tra la bramosia di affrontare situazioni nuove e il non sentirsi in grado di viverle; - la famiglia non è in grado di sostenerlo e aiutarlo conveniente­ mente. Quindi, per l'adolescente il conseguimento dell'indipendenza e l' emancipazione dai genitori costituisce una tappa fondamentale nel cammino verso un'identità positiva. L'adolescente va incontro a tre lutti (Guaraldi, 1 9 8 6 ) : 139

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

il lutto per la morte della famiglia di origine, in cui si assiste al cedimento dell'onnipotenza delle figure genitoriali, dominante nei pe­ riodi precedenti . Egli assume un atteggiamento critico verso i caregi­ ver e verso i bambini più piccoli, considerati dei servi, poiché vivono nell'illusione che i genitori siano in grado di fare tutto; il lutto per la morte del proprio corpo, i cambiamenti fisici incido­ no sull'ambito psichico. Il giovane affronta tali trasformazioni somari­ che (ad esempio caratteri sessuali secondari, timbro della voce) con ansia; il lutto per la perdita del proprio ruolo, mentre da bambino gli risultava semplice sapere cosa doveva fare, in questa fase l'adole­ scente può intraprendere strade diverse. Il gruppo è un fattore es­ senziale. I gruppi di adolescenti sono l'elemento fondamentale per la costruzione del­ l'identità dell'adolescente: certamente c'entra la famiglia, certamente c'entra la scuola, ma le scelte che gli adolescenti conducono ad un certo momento in questo contesto per quello che riguarda i valori che abbracciano e gli obiettivi che si pongono sono fondamentalmente scoperte da loro stessi nel dialogo con i componenti del gruppo (Palmonari, 1 986, p. 2 9 ) .

L'età dell'adolescenza è esposta, i n maniera maggiore rispetto ad altre età, al rischio di devianza. È possibile che le difficoltà avute in prece­ denza emergano e vengano portate avanti in modo da creare delle condotte devianti. lovero, in questa età vengono al pettine alcuni nodi (Bertolini, 1 9 8 6 ) : conseguenze d i una relazione familiare non adeguata alle necessità del bambino; alterazioni dei legami psicologici (iperprotezione, carenze affetti­ ve) ed educativi (educazione eccessivamente permissiva o, al contra­ rio, autoritaria); carenti condizioni materiali di vita. I rischi connessi alla condizione adolescenziale aumentano di in­ tensità nel caso in cui tale problematicità si sommi a difficoltà perso­ nali, che possono sfociare in soluzioni comportamentali devianti. 4·2

Approcci teorici dell'adolescenza

I primi studi si sono rivolti principalmente alle trasformazioni che av­ vengono in età adolescenziale ( cioè lo sviluppo fisico, sessuale, l'in­ sorgere di interessi nuovi), alle manifestazioni della vita affettiva, ai meccanismi intellettuali acquisiti in questa fase. Si passa dagli studi



' IL COLLOQUIO CLINICO NELL ADOLESCENZA

nei quali alcuni processi psicologici adolescenziali vengono vagliati come determinati biologicamente, a studi nei quali viene presa in esa­ me la subordinazione di molti aspetti della vita mentale del ragazzo alle condizioni familiari, sociali e culturali nelle quali si trova inserito. Inoltre, si assiste al passaggio dal ricorso a osservazioni o ricordi pro­ pri o di altri individui all'impiego di strumenti metodologici più vali­ di, basati sull'osservazione sistematica e sull'uso di procedimenti spe­ rimentali (Petter, 1 9 6 8 ) . Hall ( 1 904) fu il primo ad affrontare lo stu­ dio dell'adolescenza a livello organico, formulò un'interpretazione del significato che questo stadio ha nella specie umana considerandolo un rinnovamento radicale degli aspetti della personalità. Il passaggio dal­ l'infanzia all'adolescenza awerrebbe drammaticamente e tempestosa­ mente. Secondo l' autore: - il bambino è orientato verso il mondo esterno, l'adolescente tende a vivere specialmente dentro di sé; - per il bambino i fenomeni fisici (ad esempio l'alba, il tramonto) sono oggetti da ammirare, per l'adolescente la natura è un simbolo del suo mondo interiore costituito da emozioni profonde e confuse; - per il bambino la realtà è circoscritta ed è la realtà del presente, per l'adolescente è dominante lo spazio infinito. Sia la teoria evoluzionista di Hall, sia la teoria psicoanalitica dello sviluppo dell'adolescente considerano l' adolescenza un periodo filoge­ netico. L'approccio psicoanalitico sostiene che gli stadi dello sviluppo psicosessuale sono geneticamente determinati e parzialmente indipen­ denti da fattori ambientali. I cambiamenti fisiologici della maturazio­ ne sessuale vanno di pari passo con le componenti psicologiche (ad esempio l'istinto sessuale ) . Nell' ottica freudiana vi è una correlazione tra i mutamenti fisiologici e i processi fisici, e tra i cambiamenti psi­ cologici e l'immagine di sé. Per Sigmund Freud ( r 9o5 ) l'adolescenza è un riepilogo della vita antecedente che conduce all'organizzazione sessuale conclusiva. Anna Freud ( r 9 5 8 ) esamina la fanciullezza e l'adolescenza eviden­ ziando il legame tra l'Es (impulsi istintivi), l'Io (obbedisce al princi­ pio di realtà) e il Super-io (la coscienza) , e dà per scontato che la maturazione sessuale influisca direttamente sulla sfera psicologica. Ciò determina un' attivazione della libido che crea una rottura dell' equili­ brio psicologico e genera un conflitto interno. Di conseguenza, secon­ do l' autrice il conflitto adolescenziale vedrebbe protagonisti i seguenti fattori: - la forza dell'Es deriva dai processi fisiologici ed endocrinologici nel corso della pubescenza; - l'Io lo induce a sottostare alle forze istintive, fattore dipendente

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

dallo sviluppo del carattere e dalla formazione del Super-io nel perio­ do di latenza; - l'influenza del meccanismo di difesa posseduto dall'Io. Secondo Peter Blos ( 1 962, 1 979) il compito dell'adolescenza è la riorganizzazione interna delle istanze psichiche e dei loro legami, le rappresentazioni del sé e dell'oggetto sono più stabili, il Super-io è meno rigido e si consolida l'identità dell'Io, l'Io diventa più flessibile e autonomo. Erik Erikson ( 1 95 9 , p . u o) utilizza il concetto di " identità del­ l'Io " affermando che il processo di identificazione è completato solo se e quando l'adolescente ha «subordinato le proprie identificazioni infantili ad un nuovo tipo di identificazione, conseguita tramite l'assi­ milazione della socialità e l'apprendistato competitivo insieme e in mezzo ai propri coetanei». Il ragazzo che consegue la maturità deve aver raggiunto un senso di continuità psicologica, sociale e di identità con quel che era da fanciullo e con quel che sta divenendo, facendo combaciare l'immagi­ ne che ha di sé con quella che gli altri hanno di lui. Sia Erikson che Margaret Mead ( 1 9 6 1 ) riferiscono di una " mora­ toria psicologica" in cui il soggetto, relazionandosi con gli altri, può mettere alla prova la propria identità senza doversi impegnare e sag­ giando il terreno con la vita in generale. Kurt Lewin ( 1 9 3 9 ) concepisce l'adolescenza come un periodo di transizione in cui l' adolescente passa ad appartenere ad un nuovo gruppo, si trova in uno stato di "locomozione sociale" e si sposta in un campo psicologico e sociale non strutturato . A differenza del fan­ ciullo e dell'adulto che hanno un preciso concetto del gruppo di ap­ partenenza, l'adolescente appartiene in parte al gruppo infantile e in parte al gruppo adulto. Egli non capisce il proprio status sociale, co­ sicché tale perplessità è visibile dalla sua condotta. Come " uomo marginale " , l'adolescente vive un continuo conflitto tra comporta­ menti, ideologie, valori poiché sta passando dal gruppo infantile a quello adulto, pur non appartenendo a nessuno dei due. Il giovane è privo di una base sociale eccetto nella relazione con il gruppo di coetanei . Come Lewin, Gesell ed Ames ( 1 95 6 ) considerarono l'adolescenza il periodo decisivo di transito dall'infanzia all'età adulta. La condotta adolescenziale è collocata intorno agli undici anni e la maturità com­ pleta ha luogo nel periodo immediatamente seguente ai venti anni. Il compito principale del giovane è di trovare se stesso. Gesell pensava che la biologia controllasse i cambiamenti durante la crescita, lo svi­ luppo dei caratteri sessuali ma anche le condotte e le abilità. Egli ri-



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teneva che molti dei principi evolutivi, delle sequenze p1u ampie e importanti fossero universali, giungendo a definire la sequenza innata del processo di maturazione e il modello evolutivo come «più o meno caratteristici della specie» (ivi, pp. 2 2 - 3 ) . Quindi, nella concezione di Gesell la crescita segue un modello lineare, ininterrotto, progressivo, con oscillazioni. J e an Piaget ( r 9 5 8 ) ha prestato attenzione all'età adolescenziale nell'opera La genesi delle strutture logiche elementari. Egli ha elabora­ to un sistema di concetti evolutivi interdipendenti (schema, struttura, operazione, assimilazione, accomodamento, equilibrio, equilibrazione) che si tessono alla sua teoria degli stadi e risultano, altresì, riferibili oltre allo sviluppo motorio infantile - ai processi mentali dell' adole­ scente. Lo schema, agli inizi legato a riflessi innati, è un modello comportamentale generalizzato formato da consuetu dini ricche di si­ gnificato. Mediante il contatto ambientale i riflessi aumentano e mu­ tano amalgamandosi con altri schemi. Tali schemi non sono staziona­ ri, bensì in continua evoluzione. Parlando dell 'adolescenza, egli ricorre a concetti del tipo di schema cognitivo o schema di anticipazione, ed è in quest'ultimo caso che il termine diviene sinonimo di struttura, tranne per il fatto che rappresenta l'equivalente nel comportamento delle strutture interne. Le strutture sono le caratteristiche organizzative del pensiero che determinano la natura del comportamento del fanciullo, soprattutto delle sue più complesse risposte cognitive. La teoria piagetiana si accentra perciò sulle modifìcazioni qualitative della struttura in­ tellettuale, dalla nascita alla maturità. Ogni struttura poggia su quella che l'ha preceduta e l'integrazione delle vecchie con quelle nuove garantisce la continuità dello sviluppo (Muus, 1 962, trad. it. p. 194).

Piaget sostiene che nel momento in cui gli schemi e le strutture pos­ sono venire impiegati come sistemi logici, diventano operazioni . Le operazioni sottintendono la comprensione della struttura del proble­ ma. A seconda del grado in cui le operazioni costituiscono frammenti della struttura totale, esse vengono trattenute, a differenza degli sche­ mi che cadono con facilità in dimenticanza. Il modello dell'autore di equilibrazione-equilibrio considera rile­ vante l' interazione dinamica con l' ambiente fisico e sociale. Tramite i processi di assimilazione e di accomodamento ha luogo l'adattamento cognitivo all' ambiente. In un primo tempo vengono assimilate le esperienze ambientali, vale a dire che viene strutturata l'esperienza per adattarla all'organizzazione intellettuale corrente. L'accomoda­ mento è il processo di modificazione in cui la struttura cognitiva esi­ stente include la nuova esperienza. L'assimilazione e l'accomodamen1 43

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

to risultano integrativi e contribuiscono all'adattamento e alla crescita intellettuali; la struttura mentale matura e si estende. La posizione di equilibrio, cioè l' armonia tra il soggetto e l' ambiente, viene raggiunta quando vi è accordo tra assimilazione e accomodamento. Pertanto, a differenza dei modelli teorici basati unicamente sulla maturazione, nell'approccio piagetiano il fanciullo ha una parte attiva nel proprio sviluppo. Prima di considerare il periodo adolescenziale nell'ottica piagetia­ na, ci sembra opportuno riassumere gli stadi dello sviluppo cognitivo descritti dall' autore: 1 . Lo stadio sensomotorio ( da zero a due anni) si suddivide in sei fasi: - la fase dei riflessi (da zero a un mese), connotata nell'esercizio di riflessi innati (ad esempio lo schema di suzione) ; - l a fase delle reazioni circolari primarie ( da uno a quattro mesi ) , in cui i movimenti volontari prendono il posto dei riflessi. Il piccolo ri­ pete uno schema; - la fase delle reazioni circolari secondarie ( dai quattro agli otto mesi), il bambino è in grado di seguire oggetti e fatti esterni. Ad esempio, il bambino segue il movimento di un giocattolo; - la fase della coordinazione degli schemi secondari ( dagli otto ai do­ dici mesi ) , caratterizzata dalla comparsa del legame mezzo-fine. Ad esempio, il bambino cerca di attirare a sé un contenitore per impos­ sessarsi di ciò che sta all'interno; - la fase delle reazioni circolari terziarie ( dai diciotto ai ventiquattro mesi ) , in cui diventa stabile il concetto di permanenza dell'oggetto. Il piccolo cerca e trova l'oggetto benché esso venga spostato più volte; - la fase dell'interiorizzazione degli schemi senso motori ( dai diciotto ai ventiquattro mesi ) , il bambino ricorre alla previsione e alla rappre­ sentazione simbolica per la soluzione di problemi sensomotori. 2 . Lo stadio preoperativo ( dai due ai sette anni), periodo transitorio tra gli stadi egocentrici della prima fanciullezza e le prime condotte sociali, è suddiviso nelle seguenti fasi: - la fase dell'astrazione dei concetti dalle esperienze ( dai due ai quat­ tro anni), in cui la realtà del bambino è quella che egli percepisce. In questa fase si sviluppa ampiamente il linguaggio; - la fase del pensiero intuitivo ( dai quattro ai sette anni ) , si riferisce all'utilizzo dei concetti sulla base dell'intuizione. Il bambino può ma­ nipolare meglio gli oggetti e mediante il linguaggio la comunicazione diviene più efficace, ma ha difficoltà a formulare giudizi validi poiché a) egli dipende ancora dalle esperienze sensomotorie; b) si concentra I44



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su di un unico aspetto trascurando gli altri; c) non riorganizza l'infor­ mazione nella sua mente. 3· Lo stadio operativo del pensiero logico (periodo della preadole­ scenza dai sette/otto anni agli undici/ dodici) in cui «l'adolescente non soltanto cerca di adattare il proprio Io al proprio ambiente socia­ le, ma, con altrettanto vigore, tenta di adattare l' ambiente al proprio lo» (Piaget, 1 95 8 , trad. it. p. 343 ) . In questo stadio il giovane svi­ luppa un linguaggio sociocentrico (fino a sette anni in prevalenza egocentrico) visibile nel tentativo di capire gli altri e di comunicare oggettivamente i propri pensieri, non procede per tentativi, può com­ piere mentalmente le operazioni concrete, inizia a pensare secondo un modello di ragionamento logico, è in grado di ordinare gli oggetti in base a dimensioni e peso solo se gli vengono mostrati concreta­ mente; nell'adolescenza tale operazione può awenire mentalmente a livello astratto. 4 · Lo stadio delle operazioni formali, in cui ha luogo l'impiego di operazioni preposizionali e combinatorie. Piaget ( r 9 5 8 ) distingue due sottostadi: III-A ( dagli undici/dodici anni ai quattordici/quindici), stadio pre­ paratorio in cui il ragazzo è in grado di effettuare scoperte e fronteg­ giare determinate operazioni formali, seppur rudemente e senza ap­ portare prove sistematiche; III-B ( dai quattordici/quindici anni in su), l'adolescente riesce a prospettare leggi maggiormente condiscendenti, dà prove più sistema­ tiche e utilizza metodi di controllo, il ragionamento per tentativi di­ minuisce. Dal sottostadio III-A al sottostadio III-B il ragionamento di­ viene sempre più astratto con maggiore abilità in relazione alle opera­ zioni formali. Le operazioni formali consentono all'adolescente di combinare le proposizioni, di isolare le variabili per testare la propria ipotesi, egli può compiere operazioni su simboli vigenti nella sua mente. Nella concezione piagetiana vi è correlazione tra la struttura della logica e la struttura delle operazioni cognitive dell'adolescente i cui processi mentali, durante lo sviluppo, si accostano al sistema formale della logica moderna. Le modificazioni dei processi del pensiero sono direttamente collegate alle modificazioni che si producono nella corteccia durante la maturazione, in oc­ casione della pubertà. Mentre il fanciullo nello stadio delle operazioni con­ crete impara a ragionare sulla base di oggetti, l'adolescente incomincia a ra­ gionare sulla base di proposizioni verbali. Egli è in grado di compiere dedu-

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DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

zioni ipotetiche e di cogliere l'idea di relatività [ . . . ] non soltanto egli si spin­ ge col pensiero oltre il presente, ma riflette analiticamente sul proprio pen­ siero. Le sue teorie possono ancora essere delle schematizzazioni semplicisti­ che della realtà, tuttavia la maggior parte degli adolescenti nello stadio III-B possiedono teorie sociali e politiche ed alcuni anche religiose, filosofiche e scientifiche. [. . . ] Nei suoi pensieri, l'adolescente può lasciarsi indietro il mon­ do reale oggettivo per penetrare nel mondo delle idee. Egli controlla gli eventi nella propria mente tramite la deduzione logica di possibilità e conse­ guenze [ . . . ] il preadolescente incomincia a pensare alla realtà e cerca di estendere i propri pensieri verso la possibilità, mentre l'adolescente, che ha la padronanza delle operazioni formali, incomincia a pensare a tutte le possi­ bilità logiche e a considerarle quindi in maniera sistematica; la realtà per lui è secondaria rispetto alla possibilità (Muus , 1 962, trad. it. pp. 207-8). 4·3

Il primo colloquio

Secondo Telleschi e Torre ( r 997a) il primo colloquio con l'adolescen­ te è dotato d'importanza e costituisce uno stadio indipendente dal trattamento; come modalità di approccio può prolungarsi allo scopo di valutare e contenere i timori e le ansie dell'utente. Lavorare con gli adolescenti implica affinare l'ascolto e definire specificatamente gli in­ terventi (Ammaniti, Loganopoulos, Marmo, 1 99 7 ) . L a dinamica del primo colloquio è dominata dalla natura del contatto che si instaura con l' adolescente e, allorché sono presenti i genitori, dalla valutazio­ ne del tipo di interazioni familiari in atto. Molto spesso questo colloquio è fortemente condizionato dall'attualità nei suoi aspetti comportamentali relati­ vi all'adolescente, dalla pressione esercitata dal conflitto tra genitori e figlio, da un certo clima d'urgenza (Marcelli, Braconnier, 1 9 8 3 , trad. it. p. 67).

Il colloquio, con l'adolescente, ha luogo tra un adulto e un soggetto che non lo è ancora e per il quale non è facile "aprirsi" con un indi­ viduo adulto e parlargli delle proprie difficoltà, dei propri problemi o disagi. I familiari che di solito accompagnano l'adolescente rivestono il ruolo di " effettivi " interlocutori del professionista; quest' ultimo può correre il rischio di giungere ad una collisione inconscia che può esporre nuovamente il giovane all'emarginazione e alla mancanza di comprensione che egli vive nel nucleo familiare e nella società. In particolare nel primo colloquio, il rapporto interpersonale tra profes­ sionista e adolescente è influenzato dal legame che l'adulto ha con la propria adolescenza e da reazioni convenzionali in entrambi gli attori (Telleschi, Torre, 1 997a) .



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Il professionista deve prendere in considerazione le significative problematiche adolescenziali, le possibili fonti di conflittualità (Lis, 1 9 9 3 ) . Molti autori (ad esempio A. Freud, 1 9 5 8 ; Blos, 1 962 ) hanno evidenziato le difficoltà che si possono incontrare nell'approccio all'a­ dolescente, ai suoi sintomi, al suo trattamento causa la particolare fase di sviluppo che sta varcando. In modo particolare all'interno di un servizio pubblico fattori di molto peso sono la valutazione e l'analisi della domanda (Telleschi, Torre, 1 997b, p. 8 8 ) . «Il primo approccio assume così una duplice funzione : di decodificazione della domanda e di contenimento delle ansie allo scopo di coinvolgere e attivare l'utente nell'elaborazione di un possibile progetto di intervento». L'assenza delle figure genitoriali durante la consultazione è molto significativa ed è una situazione degna di indagine. Quasi sempre sono i genitori a domandare una consultazione per il figlio; quando, al con­ trario, il giovane si presenta da solo è rilevante investigare quale sia l'atteggiamento dei caregiver verso la consultazione e la richiesta dell'a­ dolescente. La finalità è di avere una visione degli accadimenti relazio­ nali nei quali egli è inserito, individuare informazioni inerenti alle incli­ nazioni relazionali della coppia genitoriale e coniugale, osservare se il giovane contribuisce all'unione, o viceversa, al distacco dei caregiver, comprendere se la diade può costituire un punto focale di alleanza con l'operatore allo scopo di dare impulso ad un'alleanza a favore dell'ado­ lescente. Durante il primo colloquio con le figure parentali possiamo avere tre diverse eventualità (Pandolfi, 1 997 ) : i genitori chiedono la consultazione in merito ai loro disagi come individui o come coppia nella gestione dell'adolescente. È auspicabi­ le, in questa circostanza, vedere inizialmente la coppia e solo in un secondo momento il giovane autonomamente o con loro; i genitori domandano la consultazione per il giovane causa le sue difficoltà ma palesano estraneità a tali impedimenti, rivestendo così il ruolo di invianti. Quando questo awiene, il professionista tenterà di incontrare i tre attori insieme; - l'adolescente chiede la consultazione da solo . È consigliabile, m questo caso, svolgere il colloquio con i caregiver successivamente. Il nostro focus, nel colloquio con i genitori, deve a parer mio mantenersi mirato a livello esplicito sui problemi e sulle difficoltà inerenti al rapporto genitori-figli e non sconfinare in altri territori che non siano direttamente o indirettamente collegati a questo. Si eviterà così di mettere in crisi anche l'immagine di coniuge oltre a quella di genitore, resa già di per sé problema­ tica dalle difficoltà dell'adolescente (ivi, p. 47).

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DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

Il fine del colloquio, quindi, può essere anche quello di cercare di ripristinare la comunicazione spezzata tra genitori e figli . Se la segna­ lazione è stata fatta dai genitori è necessario indagare se il giovane è stato awertito ed eventualmente secondo quale modalità. Se è stato informato si potrà parlare prima con lui al telefono o passare diretta­ mente ad un primo colloquio con i genitori. Nonostante la segnala­ zione da parte dei genitori, a partire dall'adolescenza dovrà essere il ragazzo a chiedere un incontro, benché i genitori lo abbiano già se­ gnalato. Se l'adolescente si autosegnala occorrerà prendere in esame i motivi della scelta (ad esempio, per sganciarsi dalle relazioni infantili, per conservarle senza accettare di proseguire verso la separazione e l'individuazione) (Lis, 1 993 ) . Occorre però sottolineare che proprio per la difficoltà di instaurare un'alleanza terapeutica, sovente con gli adolescenti il primo colloquio rischia di rappresentare l'ultimo: l'ado­ lescente non è d'accordo sulla richiesta di consultazione e i genitori possono mostrare ambivalenza tra il voler ricevere aiuto e il sentire le proprie qualità genitoriali minacciate dall'intervento del professioni­ sta. Se verranno attivati gli aspetti positivi tipici di ogni iniziale rela­ zione in rapporto alla collaborazione, il colloquio - benché unico - è in ogni caso un'opportunità da non considerarsi smarrita. Viceversa, se i colloqui proseguiranno è opportuno eludere determinati errori relazionali, quali la collusione che può essere la causa di rapporti re­ ciproci di difficile individuazione e cambiamento (Telleschi, Torre, r 997b). Spesso la richiesta di valutazione di un disagio adolescenziale deve essere considerata una richiesta dell'intero nucleo familiare che attraversa delle difficoltà di fronte al cambiamento del ragazzo e ab­ bisogna, pertanto, di un supporto perché il processo adolescenziale di maturazione verso un'i­ dentità adulta avvenga di pari passo alla trasformazione della relazione geni­ tori-bambino in una relazione adulto-adulto. [ . . . ] È evidente, quindi che il processo di individuazione dell'adolescente può realizzarsi in modo adeguato solo se tutta l'organizzazione familiare flessibilmente si adatta ai suoi cambia­ menti e muta al suo interno forme e tipologie di relazione (Telleschi, Torre, l 997b, pp. 9 1 - 2 ) .

Tra i compiti dell'operatore spiccano il compito d i contenimento e il compito dell'ascolto. Il primo si riferisce alle modalità di reazione del professionista con quello che viene proiettato su di lui, vale a dire se cede, reagisce o è in grado di individuare e utilizzare ciò che viene agito su di lui per comprendere e interpretare le dinamiche familiari. Il secondo comporta saper rispettare i tempi dell'utente e dare vita a



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uno spazio in cui «può accadere qualcosa, o in cui qualcosa che acca­ de può essere colto e se ne può condividere il senso» (ivi, p. 9 8 ) . L'adolescente che attende il primo colloquio auspica d i incontrare un adulto competente che possa identificarsi con lui, instaurare una relazione positiva in un'atmosfera caratterizzata da correttezza, impe­ gno e discrezione. Il ragazzo intende trovare qualcuno in grado di ascoltare per comprendere e far comprendere alle figure significative del suo ambiente ciò che sta accadendo (Pietropolli Charmet, 1 99 9 ) . L'adolescente che giunge al colloquio può aver voglia d i parlare, può succedere che parli di sé in termini astratti e intellettualizzanti come una difficoltà da trattare senza farsi coinvolgere direttamente (A. Freud, 1 95 8 ; Lis, 1 99 3 ) , oppure può vivere l'operatore come una figura intrusiva, minacciosa e analoga a quella genitoriale dalla quale tenta di rendersi autonomo, altrimenti può manifestare disponibilità per il clinico come adulto distinto dai caregiver. È tipico dell'adolescenza sollevare forti emozioni e generare diffi­ coltà nella relazione con gli altri (genitori, insegnanti, terapeuti, coeta­ nei ) . Le reazioni emotive del professionista possono essere impiegate come fonte di informazione e di comunicazione con il ragazzo, posso­ no contribuire alla comprensione di ciò che accade nella relazione in­ terpersonale. Le emozioni che il giovane può suscitare sono le se­ guenti ( Gislon , I 99 3 ) : rabbia, conseguente all'ambivalenza, alla diffidenza, alla reticenza, vale a dire alle resistenze dell'adolescente nel primo colloquio e in quelli successivi; - senso di impotenza, quando l'adolescente non è collaborativo, non risponde, è oppositivo; - paura, spesso è la risposta al fatto che l'adolescente cerca di rag­ giungere in fretta l'indipendenza, pur sentendosi non preparato; libertà, le richieste di libertà del ragazzo portano a reazioni nell'a­ dulto e sovente sono fonte di conflitto con l'autorità. I problemi ine­ renti alla libertà sono connessi al problema dell'autonomia, problema influenzato da valori, carattere, senso delle proprie abilità, tipo di esperienze ambientali, reazioni del nucleo familiare a dipendenza e indipendenza. L'operatore dovrebbe mantenere un atteggiamento di apertura ri­ spetto ai bisogni dell'adolescente ed aiutarlo a individuare le caratte­ ristiche personali alla base della sua individualità. È possibile pregiu­ dicare un'alleanza di lavoro nel caso in cui con l'adolescente avente una condotta ribelle il professionista adotti un atteggiamento reattivo punitivo, piuttosto che un atteggiamento di comprensione.

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DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

4 - 3 . 1 . Obiettivi del colloquio Il colloquio iniziale è circoscritto nel tempo e negli obiettivi. L'obiettivo basilare della consultazione è quindi di specificare l'a­ rea della crescita e dei mutamenti adolescenziali nella quale si è avuto un arresto, più o meno parziale, di sviluppo delle competenze. Il professionista si prefigge i seguenti scopi durante la consulta­ zione: individuare il funzionamento intrapsichico dell'adolescente; - valutare la qualità delle interazioni familiari; - aiutare il ragazzo a definirsi e individualizzarsi verso l'identità adulta; - esaminare con l'adolescente le aree della sua fase evolutiva e veri­ ficare insieme il punto in cui si colloca lo sviluppo di abilità eviden­ ziando il vissuto soggettivo, vale a dire la modalità in cui l'individuo rappresenti il sé in quella specifica area e nei legami ad essa relativi; - dopo aver accertato quali aree sono implicate nella situazione di disagio, l'operatore dovrebbe rilevare il tipo di angoscia conseguente e gli eventuali meccanismi di difesa adottati per fronteggiare l' ango­ scia; - ricostruire i fattori che possono aver generato la condizione di stallo; - far acquisire all'adolescente una rappresentazione coesa ed inte­ grata di sé; - fungere da strumento che il giovane utilizza per i suoi processi di individuazione; - individuare le finalità terapeutiche. Il fine dei primi colloqui è di effettuare una valutazione diagno­ stica complessiva che deve derivare dall'esame dei dati inerenti (Mar­ celli, Braconnier, 1 9 8 3 ) : - alla relazione tra adolescente e professionista e alla dinamica di questa relazione; - alle ipotesi sul funzionamento intrapsichico del ragazzo mediante gli atteggiamenti manifesti e la dinamica relazionale; - all'analisi dei rapporti familiari e sociali. L'operatore dovrebbe giungere ad individuare le caratteristiche dell'adolescente, della famiglia e dell'ambiente nel quale egli è inseri­ to, possibili fattori organici, durata e gravità del problema, la struttu­ ra di personalità, l'inclinazione comunicativa e riflessiva, i meccanismi di difesa, i deficit, il funzionamento intellettivo, le capacità in ambito relazionale. L' inclinazione al cambiamento e allo sviluppo va conside­ rata un fattore di alleanza terapeutica (Gislon, 1 993 ) .



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Prima di formulare delle proposte terapeutiche è preferibile svol­ gere due o tre colloqui. Sovente il secondo colloquio è caratterizzato dall'aspetto difensivo, in certe circostanze dal ritiro. Viceversa, se per­ mane un investimento positivo, un ricordo, la ripresa delle tematiche sollevate testimoniano l'interesse per i colloqui di valutazione. Inoltre, il secondo colloquio consente di prendere in esame la tolleranza alla frustrazione proprio perché il primo colloquio non arreca un'elimina­ zione delle problematiche, dei disagi. Molti non tollerano la frustra­ zione che ne può derivare, altri dichiarano di aver già portato il loro contributo nel corso del primo incontro. I colloqui seguenti svelano all'adolescente la qualità dei suoi investimenti verso il professionista, al quale parla di sé (Marcelli, Braconnier, r 9 8 3 , trad. it. p. 6 8 ) : L a sequenza dei colloqui permette non solo una valutazione dinamica dell'a­ dolescente stesso, ma anche della sua famiglia e delle sue capacità di mobi­ lizzazione. La mobilitazione familiare infatti si manifesta attraverso l'interesse dimostrato dai genitori per i colloqui, attraverso la loro richiesta e/o il loro consenso a parteciparvi, gli eventuali rimaneggiamenti operati o, inversamen­ te, i rinforzi difensivi, l'accentuazione delle confusioni interindividuali, una recrudescenza dei diversi passaggi all'atto ecc.

La relazione tra adolescente e professionista è connotata da un inve­ stimento di tipo transferale immediato e intenso. Il ragazzo attribui­ sce al professionista dei giudizi, uno status, una funzione dipendente dalle proprie relazioni con le sue immagini genitoriali e dalla modali­ tà tramite cui egli integra l'andamento corrente del processo adole­ scenziale. Spesso comunque il colloquio costituisce per l'adolescente la prima occasione in cui gli si offre la possibilità di parlare del suo mondo interno, dei suoi affetti, delle sue emozioni, dei suoi pensieri, sogni o rèverie, senza essere giu­ dicato secondo criteri morali o etici o essere coinvolto in una relazione d' au­ torità del tipo genitore-bambino. L'operatore rappresenta spesso il primo adulto incontrato che non è né un membro della famiglia né un rappresen­ tante dell'autorità (insegnante, educatore). In un certo senso, il primo lavoro dell'operatore consiste in una sorta di "preparazione" alla nuova relazione, preparazione al processo riflessivo, alla necessità di chiarificazione, di enun­ ciazione, di delimitazione delle difficoltà, contemporanea al riconoscimento della loro origine intrapsichica e non solamente re attiva (ivi, trad. i t. p. 506) .

Nel corso delle prime consultazioni è importante che il professionista presti attenzione all'alleanza terapeutica che per svilupparsi abbisogna di alcune condizioni:

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

riconoscimento da parte dell'adolescente delle sue problematiche come proprie; riconoscimento della sofferenza di ognuno (adolescente e caregiver) ; riflessione su s e stessi e sulla famiglia, vale dire il parlare d i sé; accettazione del fatto che servirà un determinato periodo di tempo prima di raggiungere una situazione di equilibrio migliore. Quando il clinico avrà terminato le consultazioni di valutazione comunicherà le sue opinioni, le sue osservazioni e le proposte di in­ tervento adeguate all'adolescente e ai genitori. Le informazioni che verranno date al giovane dovranno essere chiare e precise, senza na­ scondere le problematiche. Le proposte terapeutiche verranno espres­ se con le loro finalità, le loro modalità e la loro cornice. 4 . 3 . 2 . L'impiego dei test Il professionista può fare in modo che l'esame psicologico non ven­ ga percepito dal ragazzo come un attacco intrusivo. Ad esempio presentandogli gli scopi dell'analisi il giovane si sentirà invitato a partecipare attivamente e ad investire su di esso, anziché costretto a sottoporsi ad un'indagine. Con gli adolescenti si impiegano strumen­ ti applicabili dalla media infanzia per quanto concerne test proiettivi e test psicometrici. È dunque compito dello psicologo quello di porsi in un rapporto di confi­ denza con l'adolescente e di sfruttare il carattere unico e momentaneo di questo incontro per dare all'adolescente i mezzi per operare una ricostituzio· ne narcisistica di sé (come in un lavoro di creazione artistica o letteraria) da­ vanti ad un insieme di prove proiettive e psicometriche che gli vengono pre­ sentate come mezzo espressivo (Marcelli, Braconnier, 1 9 8 3 , trad. it. p. 75 ) .

I test proiettivi Le problematiche che appaiono cruciali nel corso dell'adolescenza possono essere accertate ed esaminate attraverso l'impiego dei test proiettivi, quali il Rorschach e il TAT (cfr. CAP. 3 ) . Il test di Rorschach sollecita la proiezione dello schema corporeo ( Chabert, r 994 ) . Nei protocolli dei bambini è possibile cogliere la costruzione di un'imma­ gine corporea integra, mentre nei protocolli degli adoles centi è possi­ bile rilevare una de- differenziazione, una decostruzione dell'identità. Anche nel TAT si manifestano le falle dell'identità e l'attacco all'inte­ grità corporea (Rausch de Traubenberg, Boizou, 1 97 7 ) . Il TAT, inol­ tre, è uno strumento privilegiato per studiare la problematica edipica e i conflitti identificatori. Gli adolescenti mostrano sensibilità alle ta-



' IL COLLOQUIO CLINICO NELL ADOLESCENZA

vole a simbolismo sessuale del Rorschach poiché la pubertà li obbliga a scegliere la loro identità sessuale; devono cioè abbandonare la bi­ sessualità infantile e l'onnipotenza che essa dona loro .

I test psicometrici I test maggiormente usati sono i test di intelligenza di W echsler: wAIS dai tredici anni, wrsc-R fino ai sedici anni e mezzo (cfr. CAP. 3 ) . Lo psicologo non dovrebbe limitarsi alla misurazione del quoziente intel­ lettivo omettendo un approccio clinico alle possibilità che il ragazzo ha di investire le attività intellettuali, al fine di dargli degli strumenti di valorizzazione narcisistica e sociale (Marcelli, Braconnier, 1 9 8 3 ) . 4-4

Il rapporto terapeutico

La crisi adolescenziale è conseguente al conflitto tra volontà e deside­ rio, può essere considerata una volontà inconscia di chiedere aiuto . A tale crisi concorrono la perdita delle modalità relazionali infantili, la possibilità di conquistare l'autonomia dell'Io e riuscire a trovare, al­ tresì, le relazioni perdute. I cambiamenti vanno incontro ad un'acce­ lerazione che perturba la continuità relazionale e il debole equilibrio sul quale si regge il benessere del soggetto ( Giaconia, 1 9 9 5 ) . L a condizione conflittuale dell'adolescente s i configura quindi da una parte per la presenza di una minaccia regressiva e dall'altra per l'adozione di stra­ tegie che, pur avendo un carattere difensivo, contribuiscono alla maturazione della persona. L'ascetismo, l'intellettualizzazione, la scissione sono i meccani­ smi difensivi più frequentemente adottati dall'adolescente ma rappresentano, nel tentativo di dominare la minaccia dei processi istintuali, anche un arric­ chimento delle strutture cognitive (Canestrari, 2002 , p. I 2 o ) .

È fondamentale l'instaurarsi di condizioni che consentano lo svilup­ po di un senso di sicurezza e di fiducia, un ambiente riservato e confidenziale. Basilare risulta la relazione con il professionista che dovrebbe essere neutrale per facilitare la comunicazione, secondo le psicoterapie di stampo psicoanalitico; altri orientamenti pongono il focus sui fattori interpersonali considerando adeguata la disponibilità a condividere con il ragazzo le proprie risposte e le proprie modali­ tà reattive. Soprattutto negli stadi iniziali l' adolescente tende a mostrarsi diffi­ dente, ostile, imprevedibile, poco controllato verso ogni adulto, cosic­ ché può essere difficoltoso assumere una posizione di equilibrio tra il 153

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

coinvolgimento emotivo e la distanza idonea a comprendere e inter­ pretare. Alle volte l' adolescente non riesce a identificare il bisogno di ricevere aiuto causa l'ancora immatura capacità di riflettere sulla pro­ pria esperienza (Gislon, 1 99 3 , pp. 2 5 5 - 6 ) . L e difficoltà derivano dal fatto che non è facile con l'adolescente sostenere sentimenti intensi senza perdere il controllo o senza incorrere in un ritiro emotivo difensivo, o in atteggiamenti di rigidità; mantenere cioè da una parte imparzialità e fermezza e dall'altra l'apertura a una vasta gamma di pensieri ed emozioni, qualità indispensabili per partecipare al processo del trattamen­ to e capire che cosa succede. [ . ] Ma anche l'idealizzazione pone grossi pro­ blemi, specie nelle forme più primitive, a seguito delle quali le inevitabili de­ lusioni, anche se apparentemente poco rilevanti, provocano reazioni depressi­ ve o ostili e spesso portano all'interruzione del trattamento. .

.

L'aspetto specifico del lavoro che l'operatore svolge con un adole­ scente è che egli instaura con l' adolescente un tipo di relazione vicina a quella che potrebbe avere con un adulto (Marcelli, Braconnier, 1983). L a sfiducia nei confronti di u n adulto è degna d i considerazione, così come l'attesa di un giudizio sfavorevole, maggiore quando le fi­ gure genitoriali sono coinvolte nelle dinamiche conflittuali del figlio. L'adolescente può manifestare timore della passività, preoccupazione che il clinico sia di ostacolo alla propria crescita come persona, paura di perdere il controllo e di dipendere totalmente dal profes sionista, paura che può sfociare in un allontanamento dalla relazione. Una delle principali difficoltà nella condotta con l'adolescente può forse essere relativa alla difficoltà dell'operatore di accettare l'i­ dentificazione con il ragazzo, ossia la paura di rivivere le angosce, le sofferenze, le solitudini adolescenziali; questa condotta può condurre ad una falsificazione della problematica (Guaraldi, 1 9 8 6 ) . I l professionista deve tendere a stabilire l a giusta distanza tra s é e l'adolescente. Le risposte dell'operatore dipendono dalle sue caratte­ ristiche, dai suoi desideri e dai suoi bisogni, dalle caratteristiche del­ l' adolescente. La comprensione di quel che sta avvenendo nel giova­ ne, la sua valutazione possono venire a mancare quando il professio­ nista riveste il ruolo del genitore, dell' amico, se permangono in lui tendenze adolescenziali e disagio in riferimento alla propria identità adulta. L' adolescente può spostare nella relazione con il clinico l'e­ sperienza infantile riguardante le funzioni di accudimento esercitate dal caregiver. Spesso l'adolescente considera l' ambiente causa delle proprie dif­ ficoltà negando qualsiasi tipo di responsabilità interna. 154



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Definisco il setting, nella presa in carico psicologica dell'adolescente, come le modalità ed il senso dei rapporti che il terapeuta deve strutturare con lui e, quasi sempre, anche con i suoi genitori, al fine di pervenire ad una restitu­ zione ad essi di una immagine dinamica ed articolata del Sé dell'adolescente, quale è individuata e vissuta da lui e quale è percepita da loro, confrontata ad una immagine del Sé corrispondente il più possibile a quella risultante dall'indagine clinica, ma, a sua volta, capace di promuovere processi di rico­ noscimento in lui ed in loro (Senise, 1 989, p. 1 7 8 ) .

Come sostiene Gislon ( 1 99 3 , p . 2 5 7 ) : «il setting, l e caratteristiche del­ l' adolescente, del terapeuta e della loro relazione sono quindi deter­ minanti nell'influenzare lo stabilirsi di un'alleanza di lavoro e di una comunicazione significativa». Infine, il professionista deve ricorrere ad appropriati schemi co­ municativi a livello linguistico, cognitivo, concettuale . Tra i metodi terapeutici che si possono utilizzare con l' adolescen­ te ricordiamo: - la terapia analitica, si basa sullo sviluppo di una nevrosi di tran­ sfert e sulla sua analisi sistematica; - la psicoterapia ad orientamento psicoanalitico, gli aspetti transferali vengono usati per comprendere ed elaborare vicende attuali, lo psi­ coanalista interviene con consigli e spiegazione dei conflitti, chiarifica­ zione e confronto delle manifestazioni psichiche; - lo psicodramma psicoanalitico, prevede la "messa in scena" , all'in­ terno di un gruppo, di conflitti e fantasie inconsce che consentono una rappresentazione della conflittualità; - la psicoterapia psicoanalitica di rzlassamento, focalizzata sul corpo quale luogo di espressione del sintomo; - la terapia comportamentale-cognitiva, ha la finalità di aiutare il gio­ vane a funzionare autonomamente tramite interventi di ristrutturazio­ ne cognitiva che gli consentano di migliorare sia a livello di sviluppo, sia a livello di interazione con la famiglia. Il metodo pone degli scopi circoscritti, accurati, progressivi al soggetto e conseguibili entro breve tempo che consolidano il senso di competenza e di autostima, per fronteggiare le difficoltà secondo una modalità concreta; - la terapia familiare, partendo dal presupposto secondo cui il cam­ biamento di un membro ha ripercussioni sull'intero nucleo familiare, il fine è di giungere alla crescita della famiglia incoraggiando in ogni componente della famiglia la differenziazione di sé come soggetto, lo sviluppo di una comunicazione significativa nel contesto familiare e al di fuori di esso. Alla base di ogni cambiamento troviamo l' alleanza tra le figure parentali e la capacità di dare supporto affettivo; 155

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

il trattamento /armacologz'co, solo in presenza di patologie gravi l' adolescente necessita del farmaco . lovero, il farmaco presenta il ri­ schio di interferire con la crescita e lo sviluppo (fisico, comportamen­ tale, cognitivo, psicologico) , con i legami sociali e familiari e con il profitto scolastico. 4 ·5

La restituzione

Il momento della restituzione può rivelarsi un momento terapeutico strutturante e incisivo ( Senise, 1 98 9 ) . Come affermano Telleschi e Calioni Bembo ( 1 997, p . 5 3 ) : Se l a restituzione è avvenuta in modo corretto ed efficace il paziente h a la possibilità di riconoscersi e sentirsi riconosciuto nella propria storia e nelle proprie difficoltà, mentre il terapeuta si potrà sentire confermato nella pro­ pria identità professionale, nelle proprie capacità e nell'aver raggiunto gli scopi che si era prefissato con la consultazione. È sulla base del riconosci­ mento reciproco che si fonda infatti la nascita e lo sviluppo sia di un'alleanza diagnostica che di lavoro.

Nel corso della consultazione con l' adolescente, secondo Senise ( 1 994 ) , è fondamentale che i l professionista non abbia schemi mentali prede­ finiti, trascurando il sapere professionale. Egli deve sentire le emozio­ ni di chi ha di fronte mediante sguardo, mimica, tono vocale e re­ stituire al giovane l'immagine trasmessa e partecipata durante il lavo­ ro. Inoltre, è importante che l'operatore ricordi le proprie vicende adolescenziali per comprendere quanto può essere riposto in gioco di sé, allo scopo di evitare manipolazione e seduzione vicendevoli. Per comprendere il momento di restituzione nell'adolescenza possiamo ri­ correre alla psicoterapia breve di individuazione suggerita da Senise. Tale modello di consultazione ingloba alcuni colloqui con il giovane, e - quando possibile - con le figure genitoriali, un test di personalità dell'individuo, uno o più colloqui finali. L'obiettivo è di giungere a restituire un'immagine globale dell'identità che venga interpretata dal ragazzo come una storia delle proprie relazioni passate e presenti, come esito di un percorso che gli permetta di entrare in contatto con un'immagine di identificazione di sé. La costruzione della storia potrà avvenire collaborando con l'operatore. Narrare la propria storia vuol dire, dunque, per l'individuo po­ terla modificare nella propria rappresentazione interna. Gislon ( 1 9 9 3 ) dichiara che la tollerabilità da parte del professioni­ sta della discontinuità e dell'imprevedibilità del giovane genera conte-



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nimento e fiducia. Il conduttore dovrebbe restituire all'adolescente un'immagine del sé integrata, promuovere nel giovane un' area per lo sviluppo, comunicare che il cammino non è terminato bensì è stata fronteggiata una tappa, di modo che la restituzione consenta all'ado­ lescente di rispondere all'interrogativo " Chi sono ? " tramite la presen­ za dell'altro. Non dovrebbero essere ignorate le difese agite dall'adolescente, ad esempio seduzione, identificazione proiettiva, che possono porta­ re il clinico a risposte di controidentificazione proiettiva. Quest'ulti­ mo avrebbe il compito di contenere e far accettare all'utente le par­ ti di sé considerate non accettabili e non tollerabili. Accogliere le peculiarità dell'adolescenza (variabilità, fluttuazioni emotive) implica creare un campo relazionale in cui possa aver luogo il processo di contenimento. Il pagamento della consultazione privata presenta alcune difficoltà dato che l'adolescente è dipendente dai caregiver anche sotto il profi­ lo economico, pur essendo desideroso di essere maggiormente indi­ pendente. Vive quindi inevitabilmente un conflitto rispetto al contributo dei genitori in un ambito che spesso è quello più "privato" e utilizzato per sviluppare le sue capacità autonome. Molto spesso la nostra risposta dipende dalla valutazione di ciò che l'adolescente in quella fase possiede, e quindi da ciò che ha da dare, cioè da che tipo di adolescente si tratta (Gislon, 1 9 9 3 , p. 3 7 5 ) .

157

5

Differenti ambiti di applicazione del colloquio

5·1

Introduzione

Il colloquio è uno strumento estremamente versatile che può essere utilizzato anche in diversi ambiti (antropologico, sociologico, crimino­ logico, di selezione del personale ecc.) e con scopi differenti . Trentini ( 1 995a) volendo tenere conto dei diversi modi di utilizzo del colloquio, riduce le varie e spesso contrastanti teorie sul colloquio a due grandi correnti : la psicometrica e la clinica . Per la posizione psicometrica ciò che ha peso è " cosa" il soggetto dice (know what), per la posizione clinica ciò che ha valore è " come" lo dice (know how) . Per la prima vale la datità dei contenuti emersi, per la seconda gli atteggia­ menti interattivi e la significatività vissuta dai soggetti di fronte alla situazione del colloquio. Per la prima andranno valutati, elaborati, utilizzati i contenuti delle risposte (indipendentemente perfino dalle deformazioni da esse subite per effetto del rapporto interpersonale messo in atto nell'intervista) ; per la seconda andrà fatta una interpretazione del modo formale di esistere e di reagire del soggetto nel dare le risposte stesse (il cui contenuto prende si­ gnificato e luce proprio da questo) (ivi, pp. 4-5 ) .

Obiettivo dell'autore è d i giungere a d una definizione d i colloquio che tenga conto di tutte e due le prospettive, con un atteggiamento di disponibilità nei confronti di entrambe e partendo da un punto di vista interdisciplinare definito da Ancona ( 1 95 6 ) come antropologico. Trentini (ivi, p. 8) propone quindi la seguente definizione " antropolo­ gica" di colloquio: Il colloquio-intervista è un mezzo di ricerca e di intervento che implica e comprende in ogni caso un'interrogazione ed un rapporto e si declina sem­ pre sulla base di entrambe le componenti: l'interrogazione (esplicita o impli-

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DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

cita che sia, ancorché negata) è diretta a conoscere determinati aspetti passati o presenti dell'esistenza del soggetto e a trarre una conoscenza e/o un cam­ biamento della sua realtà psicologica nel contesto in cui vive; il rapporto (an­ ch'esso implicito o esplicito che sia, ancorché denegato) è diretto allo scopo di avere un riscontro e confronto interpersonale con l'interlocutore, che im­ plichi anch'esso una conoscenza dichiarata o sottintesa e/o un cambiamento del modo di essere degli attori presenti nel campo.

La prospettiva antropologica ha anche il pregio di risolvere il pro­ blema della validità del colloquio, che è motivo di conflitto tra la scuola psicometrica e quella clinica. Gli "psicometrici" (Bellows ed Estep, Kelly e Fiske, Crissy, Hol­ lingworth ecc. ) , infatti, sono convinti che la realtà psicosociale del­ l'uomo possa essere misurata in termini oggettivi, attraverso la raccol­ ta di dati che è possibile elaborare statisticamente: essi negano al col­ loquio un valore scientifico. Sul versante opposto si pongono i " clini­ ci" (Duncan, Rodger, Havey, Meehl, Stauffacher ecc. ) , per i quali la personalità individuale emerge solo nel rapporto con l'altro, dando con ciò massima importanza al colloquio. La scuola antropologica (Gemelli, Ancona, Butler, Caplow ecc. ) , invece, sostiene la necessità di una valutazione globale dei vari tipi di colloquio, in modo che, senza trascurare le norme dell'oggettività, si possa superarle per giungere a cogliere quella realtà che le prove psicometriche da sole non pos­ sono dare; è tra l'altro implicito in tale posizione un giudizio valutante (o rivalutante) dell'intuizione. Secondo tale impostazione, pertanto, i dati di tipo psicometrico sono utili, ma vanno quanto meno integrati con altre mo­ dalità di ricerca e d'intervento (ivi, p. 2 3 ) .

Come sostiene Bonsante ( 1 99 8 , p. 1 3 1 ) : ogni tipologia di colloquio favorisce lo stabilirsi di un certo tipo di relazione in cui il contatto interpersonale esercita un'importanza diversa. Nel colloquio di ricerca la necessità di contatto interpersonale è minima; nel colloquio eli­ nico, secondo i diversi approcci e le diverse fasi del percorso terapeutico, può essere importante un alto grado di contatto psicologico; in altre tipolo­ gie di colloquio possiamo avere situazioni intermedie. 5 ·2

Il colloquio di selezione per la psicoterapia Il colloquio ha lo scopo di fornire all'interessato un servizio di orien­ tamento e inquadramento della sua situazione psicologica. Si rileva che spesso il paziente è assai lontano dal percepire come interpretare r 6o

5.

DIFFERENTI AMBITI DI APPLICAZIONE DEL COLLOQUIO

un certo disagio o certi sintomi definiti: questi ultimi costituis cono a malapena l' unico punto di riferimento a cui aggrapparsi. Sovente vi è nel paziente o cliente un difetto della coscienza che riguarda il senti­ re; è come se il paziente accusasse tanti mali ma non soffrisse mai veramente, cioè non fosse in grado di sperimentare appieno l'apparte­ nenza di ciò che gli è proprio da quello che non lo è: egli non è dominato tanto da un senso di depressione, quanto è maggiormente presente un senso di vuoto, di noia, di isolamento, un senso di non saper cosa o dove " metter dentro " . Lo psicoterapeuta in tale circostanza compie un'azione d' aiuto che consiste nell'ampliare certi punti di riferimento di questo pazien­ te disorientato, lo aiuta a sentire una base da cui partire, a trovare certi modi di sentire o percepire alcuni meccanismi psicodinamici ri­ feriti al proprio vissuto o che comunque lo riguardano . Se il paziente comunica di sentirsi aiutato in questo chiarimento, i colloqui di con­ sultazione possono continuare con lo scopo di diventare sempre più specifici e finalizzati ad un obiettivo clinico maggiormente definito. All'interno della relazione tra psicoterapeuta e paziente, questo at­ teggiamento assomiglia ad una presa di contatto tra due persone che da posizioni di lontananza si avvicinano gradatamente ad una distan­ za ottimale. La consultazione psicologica da una posizione di inqua­ dramento a grandi linee di un disagio può restringersi ed indirizzarsi sempre di più verso aspetti più specifici del problema con lo scopo tecnico di verificare se esiste: a) una certa " analizzabilità" del problema presentato, cioè una certa capacità a connettere gli elementi inconsci con quelli consci; b) una certa disponibilità, o motivazione e desiderio a mettersi in di­ scussione, ed un intento costruttivo a collaborare; c) la possibilità di individuare un focus su cui lavorare in modo unitario; d) un funzionamento del sé non troppo patologico, soprattutto con particolare riguardo alle modalità caratteriali; e) una certa tolleranza alla frustrazione, per esempio al silenzio du­ rante la seduta, oppure alle interpretazioni inappaganti ecc.; /) una certa disposizione ad integrare al proprio interno (sé) e a non respingere all'esterno le introspezioni sotto forma di acting out/in; g) nell'analista, nella relazione con quel paziente, quella condizione di interesse e di desiderio che lo motivano a svolgere una funzione di aiuto. Tutto ciò è necessario perché già all'interno della relazione che si instaura al primo colloquio il paziente probabilmente porta se stesso, indicando le proprie difficoltà nel provare a sperimentare situazioni r6r

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

nuove. In un certo senso è come se comunicasse: "io non sono libero di sperimentare, non mi posso permettere di vivere e di stare nell' at­ tualità della mia vita. Ciò che sperimento ogni giorno non sta soltan­ to per quello che è, ma molto e troppo, sta per quello che è stato . Certe situazioni continuano a ripetersi e a sovrapporsi, intrecciandosi reciprocamente, bloccandomi nelle azioni, nei miei desideri per cui mi sento confuso e non conosco ciò che realmente voglio. Non po­ tendo sperimentare liberamente non posso nemmeno interscambiare con le cose e quindi imparare ad accres cermi" . Già nella consultazione noi sappiamo che questo avviene perché alcune delle esperienze passate si sono cristallizzate tanto da costruire un patrimonio che funziona come se fosse costituzionale anche se non ha questa provenienza ereditaria. Funziona altresì come guscio che offre un senso di sicurezza, anche se condiziona la vita negativa­ mente. I sintomi stessi costituiscono una certezza sulla quale contare, sul­ la quale autoriconoscersi e sulla quale al tempo stesso lamentarsi. Il cambiamento fa paura cosicché i sintomi rappresentano un' àncora di salvezza. 5 ·3

Interventi sulla crisi (crisis management)

Anche ad uno psicoterapeuta psicoanalista capita spesso di dover en­ trare in contatto con un paziente che si rivolga a lui in stato d' emer­ genza: spesso eventi esterni hanno scatenato una forte angoscia de­ stabilizzante. Tali situazioni richiedono interventi relativamente brevi con l'uso di un setting molto flessibile con la finalità precisa di aiuta­ re il paziente a superare la crisi, anche se è opportuno precisare subi­ to che l'intervento sulla crisi per quanto breve sia, non andrebbe af­ fatto equiparato alla tecnica con cui si svolge una psicoterapia dina­ mica breve. Lo psicoterapeuta può attuare un intervento psicologico usando una tecnica mista di strategie brevi che cercheremo di descrivere, rac­ cogliendo alcuni riferimenti storici . Sin da quando il night club Coco­ nut si incendiò - nel 1 944 - a Boston, Lindemann ( 1 944) si occupò del come intervenire psicologicamente per aiutare persone che preci­ pitavano entro crisi gravi in seguito ad eventi traumatici. Negli Stati Uniti si iniziò a dare maggiore importanza agli inter­ venti brevi sulla crisi a partire dagli anni sessanta, dopodiché Malan ( 1 96 3 ) in Inghilterra prese in considerazione sempre di più quella che stava assumendo la dignità di una tecnica breve. Poco tempo dopo, 1 62

5.

DIFFERENTI AMBITI DI APPLICAZIONE DEL COLLOQUIO

anche Sifneos ( 1 979) parlò di " crisi emotiva" e distinse le psicotera­ pie brevi in " ansiogene" ed " ansiolitiche" . Le prime erano rivolte a strutture di personalità piuttosto sane, mentre le seconde riguardavano le crisi più destabilizzanti che richie­ dono un intervento attraverso l'uso di tecniche particolari miranti a gestire la crisi stessa. Negli stessi anni Caplan ( r 964) definisce la crisi come una situa­ zione in cui l'individuo deve affrontare stimoli che indicano un peri­ colo per la gratificazione di un bisogno primario e, proprio per que­ sto, sollecitano la gratificazione immediata. Il soggetto però cerca strategie nuove per raggiungere lo scopo: se ottiene successo la ten­ sione si riduce fino a scomparire, nel caso contrario questa aumenta sino ad indurre un carattere di maggior urgenza e, contemporanea­ mente, lo stato psicologico degenera in sentimenti di impotenza, col­ pa, vergogna, paura, angoscia, inutilità. Secondo l' autore non soltanto il paziente può migliorare nei suoi sintomi sino a farli scomparire, ma può anche interiorizzare le strategie che in quel caso di crisi hanno operato per fargli superare quel senso di impotenza. Outward bound è l'espressione marittima che significa "in parten­ za, nel viaggio di andata " , cioè l'assetto e la pastura, lo stato d'animo di distacco, corrisponde alla denominazione attribuita ad un sistema tramite cui i pazienti debbono fronteggiare un certo ambiente perico­ loso , " critico " con lo scopo di imparare a superare le difficoltà sotto un controllo istituzionale. Flegenheimer ( 1 97 8 ) descrive "l'intervento sulla crisi" (crisis ma­ nagement) come la tecnica che ha la finalità di consentire al paziente il controllo sulla situazione che l'ha provocata: in questa relazione è in primo piano la qualità del rapporto tra paziente e terapeuta. Si stabilisce da parte del paziente una forte dipendenza che dovrebbe essere utilizzata dal terapeuta per infondere nel paziente un senso di sicurezza e per aumentare la sua autostima. L'atteggiamento dello psi­ coterapeuta non dovrebbe risultare né autoritario né troppo direttivo, ma apparire sicuro di sé in modo tale da lasciar vivere nel paziente la sensazione di potersi fidare completamente, e comunque sentire che ci sia qualcuno in grado di farsi carico di lui. In un secondo tempo, è necessario riconoscere i motivi che hanno condotto il paziente ad entrare in crisi e viverla così drammaticamen­ te; a questo proposito, all'inizio del trattamento, può essere sufficien­ te che il paziente prenda contatto con le cause della sua crisi, anche cercando di contenere l'esperienza ricostruendola e spiegandola an­ che a livello intellettuale e cognitivo . In questo caso l'abilità dello psi­ coterapeuta consiste nel saper riconoscere alla prima occasione dispo-

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

nibile l'opportunità di collegare emotivamente i momenti del presente con quelli del passato, vale a dire di portare il paziente su un piano più profondamente coinvolgente. Occorrono, all'inizio, sedute più lunghe o rawicinate in modo da non lasciar disperdere certi stati psi­ co- emotivi della relazione paziente-psicoterapeuta. È opportuno che lo psicoterapeuta incoraggi gradatamente il pa­ ziente ad esprimere le proprie emozioni così come gli affetti rimossi, a meno che non siano usati meccanismi di difesa di tipo onnipotente come la negazione: in questi casi non è consigliabile lavorare analiti­ camente su queste strutture difensive. In qualche situazione, secondo Flegenheimer, è opportuno che lo psicoterapeuta suggerisca strategie di risoluzione alle quali il paziente non aveva pensato. Per questo tipo di trattamento psicoterapeutico non è necessario stabilire il nu­ mero delle sedute che si dovranno svolgere, anche se alcuni autori limitano la cura ad un numero variabile pari da sei a dieci sedute; è consigliabile tuttavia che il paziente sia informato sulla brevità globale della psicoterapia. Anche Horowitz ( r 9 8 8 ) distingue due momenti di crisi. Il pri­ mo, in cui l'individuo cade in uno stato di regressione particolare dopo l' evento traumatico o stressante; questo momento acuto deve essere gestito dallo psicoterapeuta con tutti i mezzi possibili, purché utili allo scopo. Il secondo momento è quello in cui lo psicotera­ peuta, dopo aver "sollevato " il paziente dallo stato di grave altera­ zione psichica, lo aiuta favorendo processi di identificazione sulla sua persona. L' autore si serve tutto sommato di una tecnica mista composta anche da consigli che mirano al recupero di un senso di appartenenza e d'identità. Questa seconda parte, più propriamente di psicoterapia libera, non ha una durata limitata ma utilizza un setting molto flessi­ bile e non sembra che punti ad un focus di attenzione terapeutica molto definito; sembra piuttosto che abbia l'obiettivo di rinforzare l' autostima del paziente. Infine, l'ultimo esempio che pensiamo di fornire ci è offerto da Marmor ( r 98o), il quale descrive una situazione di crisi che può esse­ re gestita con un metodo di psicoterapia breve piuttosto sistematizza­ to. Vi è una prima fase durante la quale praticamente tutti i pazienti che si trovano in uno stato di crisi vengono accettati immediatamente e vengono "sgravati" dalla responsabilità di gestire i loro problemi: l' autore e il suo gruppo di lavoro fanno uso quindi di una tecnica di supporto molto intensa ed incoraggiante, al fine di riportare il pazien­ te ad uno stato accettabile di tolleranza della qualità della vita. Du­ rante questa fase sono utilizzati tutti i mezzi psicologici e farmacolo-

5.

DIFFERENTI AMBITI DI APP LICAZIONE DEL COLLOQUIO

gici- contenitivi di cui si dispone. Si ricorre ad una gamma di inter­ venti che variano dalla suggestione ipnotica sino a tecniche di soste­ gno moderato e non manipolativo, e di altri che variano dal conteni­ mento psichiatrico più coatto ad un intervento psicofarmacologico lieve. Trascorso l' evento traumatico, dovrebbe subentrare un interven­ to tecnico di psicoterapia ad orientamento psicodinamico con il fine di solidificare l' autostima o favorire successive e più stabili modifica­ zioni positive della personalità. È questo il momento in cui il gruppo di lavoro psicoterapeutico sottopone i pazienti ad una rigorosa sele­ ziOne. Soltanto i pazienti con una diagnosi non severa vengono accettati per questo trattamento di tipo breve. Durante queste sedute, che si svolgono ad un ritmo monosettimanale per un totale massimo di trenta volte, vengono privilegiate le interpretazioni di transfert che si riferiscono alle relazioni con figure significative del passato, mentre l'intero intervento è centrato su un focus psicoterapeutico riferito alla sintomatologia. La tecnica non è direttiva, sebbene vengano interpretate le difese psicologiche considerate non utili, per aiutare a costruirne altre valu­ tate come più adatte alla gestione della crisi : la regressione è tenuta sotto controllo. 5 ·4

Il colloquio criminologico

Per analizzare il colloquio criminologico, che costituisce insieme alle altre tipologie di colloquio che verranno trattate qui di seguito una forma specifica di applicazione del colloquio meramente clinico, occorre delimitare la sfera di competenza della criminologia, così da chiarire gli scopi per cui questo tipo di relazione tra " terapeuta" e "paziente" può svilupparsi . La criminologia è l'insieme organico delle conoscenze sperimentali sul rea­ to, sul reo, sulla condotta sociale negativamente rilevante e sul controllo di tale condotta [ . . ]. Si ritiene, inoltre, generalmente che essa si occupi del crimine e del delinquente, nonché del controllo del crimine per quanto ri­ guarda l'esecuzione delle sanzioni penali, la prognosi e il trattamento del­ l'autore di reati. Si è infine di avviso comune che anche i fenomeni dell'al­ colismo, dell 'asocialità e dei disturbi recati alla collettività, della prostitu­ zione e del suicidio costituiscono ormai oggetto di tale scienza (Kaiser, 1 9 7 9 , trad. it. p. 3 ) . .

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

L'ampiezza della disciplina implica che svolgano funzioni da crimino­ logo specialisti e operatori appartenenti a discipline diverse, con fina­ lità altrettanto diverse. Vi possono infatti essere indagini in ambito criminologico con fina­ lità statistiche, indagini di carattere più propriamente clinico, analisi di stampo giudiziario (mirate alla quantificazione dell'entità di fenomeni criminali specifici; finalizzate alla ricerca di una casistica nell'ambito del criminale; orientate a fornire al magistrato un supporto medico per il trattamento del soggetto che ha commesso il reato) ecc. Lo strumento cardine con cui opera il criminologo è il colloquio, che può avere natura e funzioni differenti a seconda che si svolga: in un ospedale psichiatrico criminale, nel quale il dialogo è fina­ lizzato alla diagnosi dell'infermità di mente in atto al momento dell'e­ secuzione del delitto, alla possibilità e al tipo di intervento da adotta­ re per modificare un comportamento criminale, allo studio vittimolo­ gico a scopo preventivo, all'esame delle specifiche dinamiche che hanno condotto il soggetto a commettere un crimine, alle eventuali necessità in termini di terapia familiare con reinserimento sociale progressivo; in istituti di detenzione e pena per adulti o case di rieducazione per minori, dove il colloquio viene messo in atto nei casi di crisi acute dei detenuti o dei ricoverati, nello svolgimento delle pratiche amministra­ tive o per funzioni socioterapeutiche per tentare di ridurre gli effetti penalizzanti della detenzione; in ambiente libero, per i casi nei quali vi sono dei soggetti sotto­ posti a speciali misure di sicurezza da parte dell' amministrazione del­ la giustizia, per chiarificazione di problemi centrati sull'individuo, per una consulenza a soggetti che, pur essendo per diversi motivi devian­ ti, non sono ancora entrati in contatto con l'apparato giudiziario. Si parlerà di colloquio criminologico innanzi tutto quando il "paziente " è un soggetto che ha commesso un reato e a questo titolo è venuto alla osserva­ zione in una situazione in senso lato "istituzionale " ; [ . . . ] quel che più con­ traddistingue il colloquio criminologico non saranno tanto le qualità soggetti­ ve dell'utente (l'aver commesso un reato), quanto le finalità specifiche di tale colloquio, finalità generalmente non terapeutiche - o non principalmente te­ rapeutiche -, bensì relative a problemi diagnostici (in questo caso riguardanti la criminologia e la criminodinamica) , prognostici (previsioni di comporta­ mento futuro) e di indicazioni di trattamento criminologico (Merzagora, 1 987, p. 2 ! ) .

Secondo Balloni e Sabattani ( 1 97 1 , p. 7 1 ) , invece, r66

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DIFFERENTI AMBITI DI APP LICAZIONE DEL COLLOQUIO

l'attività da svolgere, da parte del criminologo, dovrebbe avere, come obietti­ vo minimo, un'azione terapeutica, ove il trattamento tenda a provocare nel detenuto il prendere in considerazione gli altri e l'altro rispetto a sé, che al posto di essere considerato un oggetto da utilizzare o da danneggiare, possa diventare una persona o un valore (in senso simbolico) da rispettare o, tutt'al più, da tollerare. Far rinascere in un detenuto il desiderio di essere parte della comunità umana ed il fargli lentamente ammettere o tollerare il punto di vista di un'altra persona, sembra essere in effetti lo scopo fondamentale della risocializzazione in criminologia.

Così come awiene per il colloquio clinico, anche questo tipo di collo­ quio richiede una fase di preparazione nella quale entrano in gioco fattori come: - l'organizzazione " operativa " dell'incontro, dal punto di vista del­ l'orario, della durata, del luogo ecc. ; le motivazioni dell'incontro; i fini dell'incontro; il tipo di dati che debbono essere fatti emergere dall'incontro; i precedenti anamnestici del soggetto ecc. La preparazione del colloquio e del setting terapeutico assume mas sima importanza nel caso del colloquio criminologico, dal mo­ mento che le condizioni nel quale il colloquio si svolge sono normal­ mente non idonee a creare le condizioni psicologiche perché il pa­ ziente si senta a suo agio o comunque si senta libero di esprimersi pienamente . È ugualmente importante programmare un tempo sufficiente per l'intervista. n carcerato ha già pensato a tutte le domande e gli argomenti che desidera discutere, ed è fonte di grande frustrazione il fatto che l'intervista venga af­ frettata o venga dimenticato qualcosa di importante. n tempo passato a di­ scutere le banalità o persino in silenzio non è sprecato se dà al soggetto l' op­ portunità di rivedere le questioni più gravi che sono state esaminate e ri­ cordare quella questione vitale di cui si è dimenticato ma che voleva discute­ re (Cross , 1 974, trad. it. p. 1 5 5 ) . Superata l a fase d i preparazione anche l a fase dell'incontro deve ave­ re caratteristiche proprie. Per prima cosa il terapeuta deve tener con­ to del fatto che la persona con la quale instaura il colloquio ha com­ portamenti falsati dal fatto di trovarsi o detenuto o in un ambito psi­ chiatrico o, comunque, in un contesto di compressione da parte di una struttura istituzionale. Questo significa che il suo comportamento nel corso del colloquio non potrà comunque essere libero, ma sarà soggetto ad una grave

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

frustrazione e ad una serie di decise "obiezioni" nei confronti della figura dell'intervistatore dal punto di vista istituzionale. Nel proseguimento del colloquio si approda alla fase centrale, nel­ la quale il criminologo ha la possibilità di giungere allo scopo dell'in­ contro che, a seconda dei casi, può essere l'esame della personalità del paziente criminale, lo studio della sua pericolosità, l'approfondi­ mento della dinamica delittuosa che lo ha condotto a commettere il reato ecc. La fase centrale è seguita dal congedo che, come per il colloquio clinico, si struttura nella forma di un'offerta di terapia o di aiuto o di sostegno . Il problema centrale del colloquio clinico concerne la chiarifica­ zione dei ruoli, dal momento che - soprattutto nel caso di colloqui criminologici che si svolgono con pazienti reclusi - l'intervistato non conosce il ruolo e le funzioni esatte dell'intervistatore e lo considera, a seconda dei casi, agente dell' autorità repressiva, giudice morale, ap­ partenente ad organizzazioni pietistiche, medico che difende i dete­ nuti ecc. Questa confusione dei ruoli implica che da un lato il criminologo faccia il possibile per chiarire la sua funzione e le sue competenze, e dall' altro tenga conto del fatto che l' atteggiamento del paziente nei suoi confronti è determinato oltre che da ragioni individuali e perso­ nali, da motivi inerenti al contesto nel quale il colloquio si sviluppa. Altra rilevante fonte di informazioni è costituita dall' ambito in cui si pone il comportamento del soggetto. Nessun comportamento può essere valutato a prescindere dal contesto in cui viene messo in atto: lo studioso della comunicazione presta infatti attenzione, più che al­ l' analisi causale del comportamento, al contesto comunicativo che lo comprende e alle regole che definiscono il funzionamento di quest'ul­ timo in una situazione di interazione. Il vero problema del colloquio criminologico è dato dal fatto che il contesto nel quale i due attori " agiscono" è realmente molto di­ stante: non soltanto per quel che concerne gli aspetti materiali della vita (ceto sociale, abitudini ecc. ) , ma soprattutto per quanto riguarda le opinioni e le convinzioni in merito ai valori dell' esistenza, della giustizia, della morale ecc. Per superare questo scoglio occorre che si trovi nel corso del col­ loquio un " sistema comune di riferimento " , chiarendo con attenzione il significato e la portata delle parole che potrebbero, forse solo per questioni semantiche, creare dei malintesi nello svolgimento della co­ municazione. r68

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DIFFERENTI AMBITI DI APPLICAZIONE DEL COLLOQUIO

Il criminologo deve, pertanto, cercare di adeguarsi ai codici del paziente, sia in termini di linguaggio, che in termini di valori . Come afferma Semi ( 1 9 8 5 , p. 2 4 ) : «in linea di massima il linguag­ gio che si adopera durante un colloquio è quello del paziente». Oltre al problema della messa in relazione dei codici di crimino­ logo e paziente, altre difficili questioni da risolvere concernono il controllo dei meccanismi di transfert, controtransfert e l'osservazione e la limitazione dell'insorgere dei meccanismi di difesa, sia da parte del paziente che da parte dell'operatore. Per quanto riguarda il primo problema, il fatto che i due attori del colloquio criminologico siano tanto " distanti" dal punto di vista strutturale e comportamentale, im­ plica due possibili conseguenze: in un primo caso il processo di transfert non si innesca, in quanto il paziente conserva una tale perplessità nei confronti del ruolo istitu­ zionale dell'operatore da non riuscire a caricarlo di valenze relative ai propri sentimenti o alla propria vita passata; in un secondo caso, specie con il paziente detenuto, il transfert assume valenze " eccessive " , limitando la possibilità che si instauri una fattiva comunicazione tra i due e impedendo l' effetto di controtran­ sfert. Nel corso del colloquio criminologico il paziente tende a svilup­ pare una vasta serie di misure di sicurezza, che hanno di norma ca­ rattere psiconevrotico e che si prefiggono l'obiettivo di salvaguardare l'Io dalle minacce provenienti dal mondo esterno, in questo caso rap­ presentato dall'operatore. Non bisogna dimenticare d'altra parte il fatto piuttosto ovvio dell'omertà del delinquente, socialmente codifi­ cata, e di misure difensive volte a limitare al massimo la circolazione di informazioni che potrebbero avere carattere compromettente in ogni caso, anche qualora il criminologo svolga la funzione di perito di parte. Le misure di sicurezza ci dicono d'altra parte - per quanto indi­ rettamente - in qual modo l'individuo fa fronte alle situazioni di dif­ ficoltà, di novità, di frustrazione, di pericolo. Tra le misure di sicurezza maggiormente diffuse tra i soggetti a colloquio criminologico, vanno ricordate: - lo sfruttamento, per il quale il criminologo viene visto esclusiva­ mente come un oggetto da sfruttare, sia per ridurre lo stato di ma­ lessere psichico che per ottenere dei miglioramenti in termini di qua­ lità della vita all'interno del contesto reclusivo; - la rivendicazione, con la quale il paziente attribuisce al criminolo­ go la sola funzione di " contenitore" ed ascoltatore per tutte le riven­ dicazioni che si sente in diritto di fare;

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

l'intimidazione, con la quale il paziente si limita a presentarsi come individuo duro e coraggioso, senza apparentemente pretendere nulla dall'intervistatore. Questo tipo di strategia presuppone che il criminale consideri il colloquio come una lotta che si dovrà necessa­ riamente concludere con un vincitore (elemento forte) e un vinto (elemento debole) ; il ruolo accomodante, per il quale l'intervistato s i dimostra gentile, accomodante e collaborativo, quasi "mimando" inconsciamente il comportamento che vorrebbe ritrovare nell'intervistatore; - la dispersione, con cui il criminale si dimostra estremamente lo­ quace nel corso del colloquio, ma tende ad eludere tutti i temi che potrebbero consentire allo psicologo di conoscerlo in maniera più approfondita; - l'indzf/erenza, per la quale l'intervistato resta passivo e non si fa coinvolgere a livello personale, dimostrando di non avere nessuna considerazione per il colloquio e per l'operatore; - la catarsi, con cui l'intervistato si abbandona al racconto delle sue esperienze passate, dimostrando un'intensa partecipazione emotiva e attribuendo al criminologo il ruolo di " confessore" al quale poter confidare tutti i segreti, le esperienze dolorose e frustranti; - l'inversione del ruolo, con cui l'intervistato tende ad assumere l'e­ sclusivo controllo dei temi cercando di svolgere la funzione di intervi­ statore nei confronti del criminologo; - la drammatizzazione, nel corso della quale l'intervistato racconta i propri problemi all'intervistatore, esagerando deliberatamente i toni e cercando con ciò di ottenere una maggiore considerazione per la gra­ vità dei propri problemi; - la provocazione dialettica, per la quale l'intervistato attua un com­ portamento che permetta di trasformare il colloquio in una sorta di confronto dialettico; - la colpevolizzazione, nei confronti dell'intervistatore al fine di otte­ nere dei vantaggi in termini materiali o psicologici. 5 ·5

Il colloquio giuridico

La sfera giudiziaria è in massima parte basata sul colloquio, cioè sullo scambio orale di informazioni e di convinzioni che costituiscono la struttura portante dei dibattimenti, tanto civili, quanto penali . Il primo tipo di colloquio giuridico che può essere considerato è quello che concerne l'interrogatorio dell'imputato. Il problema di fondo di questo tipo di colloquio è che l'imputato

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DIFFERENTI AMBITI DI APPLICAZIONE DEL COLLOQUIO

non è consenziente all'incontro, ed ha la possibilità di essere reticen­ te, di mentire o addirittura di opporre alle domande solo il silenzio. Il colloquio con l'imputato ha prevalentemente carattere di inter­ vista, in quanto coinvolge anche la sfera affettiva, mentale e psicologi­ ca dell'intervistato, ma concerne soprattutto la ricerca di informazioni in merito ai dati reali della sua vita o del suo comportamento. L'intervista all'imputato è sempre un'intervista strutturata, nella quale l'intervistato è tenuto a rispondere in maniera precisa (sì/no) a domande accurate, senza che gli sia concesso esprimere opinioni o impressioni in merito all'argomento . Nell'intervista penale dei testimoni, invece, l'intervistato è tenuto a fornire una narrazione di un'esperienza avuta e di fatti osservati o cui ha in qualche modo partecipato, esprimendo quindi delle percezioni ricevute al di fuori del processo, relativamente a un fatto passato. L'intervista dei testimoni può svolgersi sia las ciando che l'intervistato racconti spontaneamente una serie di esperienze o avvenimenti, sia indirizzandolo attraverso una serie di domande guidate, sia combi­ nando il racconto spontaneo con l'interrogatorio. Vi è un caso nel colloquio giudiziario in cui viene concesso ampio spazio alla libera espressione delle sensazioni, delle convinzioni e dei pensieri degli intervistati; si tratta del confronto che si ha tra testimo­ ni e imputati o tra testimoni o tra imputati quando le rispettive ver­ sioni di uno stesso fatto si dimostrano contrastanti. Di norma, in que­ sto caso, il colloquio viene lasciato svolgersi in maniera libera, sulla base di quanto emerge dalle dichiarazioni dei partecipanti, senza che il giudice intervenga, se non per aggiustamenti in termini formali. In questo caso i soggetti coinvolti vengono esaminati in modo non solo da valutarne le risposte palesi, ma soprattutto in modo da conside­ rarne il comportamento e il tono delle risposte. Il confronto tra più testi o tra più imputati raggiunge gli stessi vantaggi che dà in ambito psicologico l'intervista di gruppo, cioè: - la possibilità di meglio indagare i vari tratti della personalità del teste, in modo da poter valutare meglio la sua credibilità; - la possibilità di fruire di più elementi di confronto e di giudizio; - la possibilità di considerare il grado di accordabilità dei e tra i soggetti come oggetto d'indagine . Quando, viceversa, il colloquio giudiziario si sviluppa in forma di interrogazione individuale, il problema sorge relativamente al rappor­ to tra intervistatore e intervistato . Se infatti è vero che dal punto di vista giuridico è vietato fare al testimone delle domande che possono in qualche modo esercitare una forza suggestiva sull'interrogato pilo­ tandone o vincolandone le risposte in una direzione voluta, è anche

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

vero che diverse forme di suggestione possono comunque essere cons ciamente o inconsciamente - esercitate formulando le domande in maniera differente. Questo problema del colloquio giudiziario rien­ tra nell'ambito delle problematiche concernenti la capacità di influen­ zamento dell'intervistato da parte dell'intervistatore, con riferimento ai processi di imitazione e rinforzo. Nel colloquio giuridico l'intervistatore può suggestionare ed in­ fluenzare l'intervistato in diversi modi: attraverso l'interrogazione diretta, con la quale è pos sibile formula­ re una domanda presupponendo dei comportamenti e/o dei dati che in realtà non esistono (o non sono pertinenti) , ma che hanno la capa­ cità di orientare il teste in una specifica direzione di risposta; attraverso l'interrogazione indiretta che si basa sulla creazione di domande che abbiano carattere dubitativo e che già nella loro formu­ lazione tendano a porre l'interrogato in una situazione di dubbio . Rispetto al colloquio clinico " tradizionale" il colloquio giudiziario si caratterizza per il ruolo più rilevante dell'intervistatore rispetto a quello dell'intervistato. L'intervistatore è infatti in grado di mettere in atto una complessa serie di meccanismi suggestivi e di influenza­ mento che - per la natura stessa del colloquio - l'intervistato può solamente subire. Dal canto suo l'intervistato eserciterà nondimeno nel corso del colloquio una vasta serie di strategie difensive, cercando non solo di districarsi dai tentativi di influenzamento dell'interlocuto­ re, ma anche dai "rischi" più generali che questo tipo di colloquio presuppone. Un caso particolare è dato dal colloquio giudiziario che si svolge con il minore: l'audizione del minore. Per audizione si intende solitamente la comparizione del fanciullo o dell'adolescente davanti ad un rappresentante dell' autorità giudizia­ ria nel corso della quale egli è invitato ad esprimersi in merito a fatti che lo riguardano ( Scaparro, 1 97 7 ) . Coinvolgendo u n individuo che - in quanto minore - h a caratteri­ stiche di struttura mentale e di struttura espressiva non consolidata, l'audizione si svolge in forma di colloquio libero, così da consentire che questo si esprima in maniera assolutamente sincera o in merito ad un comportamento criminale che ha tenuto o in merito alle pro­ prie condizioni familiari, di vita ecc. Tra i possibili tipi di audizione del minore quella che meglio ri­ calca la struttura e le caratteristiche del colloquio clinico è l'audizione

in sede di giurisdizione volontaria. Nel corso di questo tipo di audizione il minore è di norma con­ senziente ed anzi carica l'intervistatore di valenze positive, conside-

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DIFFERENTI AMBITI DI APPLICAZIONE DEL COLLOQUIO

rando che da lui gli possano venire miglioramenti qualitativi della vita e delle relazioni con gli altri . In questo caso il problema dell'intervistatore sarà quello di creare un contesto all'intervista tale da permettere al minore di esprimersi pienamente e sinceramente (ibid. ) . Il "tempo " e lo " spazio" dell'intervista dovranno costltmre un ambito a sé stante, entro il quale il minore possa non sentirsi vincola­ to, ma si trovi invece nelle condizioni di delegare il proprio stato di malessere e le proprie problematiche all'intervistatore. 5 ·6

Il colloquio peritale

Anche in ambito peritale il colloquio rappresenta uno strumento elet­ tivo dell'intervento psicologico. Le perizie psicologiche che si svolgono nel settore civile vengono definite consulenze tecniche, mentre le consulenze psicologiche che hanno luogo in ambito giudiziario penale vengono denominate peri­ zie (Quadrio, Quadrio, 1 995 ) . In campo penale lo psicologo può es­ sere convocato a valutare la personalità di un individuo; in campo civile la consulenza psicologica è richiesta nel diritto di famiglia per la valutazione dell'idoneità parentale nei casi di divorzi, affidamenti, adozioni. Nell'attività peritale, di solito, avremo: il giudice ( committente della consulenza), lo psicologo clinico (cru, consulente tecnico d'uffì­ cio se viene nominato dal giudice; CTP, consulente tecnico di parte se richiesto da una delle parti in causa) e l' utenza ( destinatari dell'inter­ vento di consulenza peritale) . Sovente, nel campo peritale il soggetto s i sottopone a perizia per volere altrui. Lo psicologo si trova tra un cliente con delle aspettative e un committente che richiede la valutazione e conferisce il mandato, che se rappresentato dal giudice si accolla una forte valenza reale e simbolica (Dominici, Cesarano, 2 002 ) . Il colloquio può essere effettuato in contesti differenti: studio del­ lo psicologo, ospedale, casa del periziando ecc. Al fine di raccogliere, esaminare i dati che comporranno la peri­ zia, il colloquio è costituito da più incontri e dalla somministrazione di alcuni test (WAIS, Rorschach, MMPI ecc. ) . Nei casi d i affidamento del minore a d un genitore o per l'affida­ mento congiunto il giudice, di frequente, richiede la consulenza tecni­ ca dello psicologo . Il colloquio coinvolge il CTU, genitori e minore, CTP e avvocato di parte che possono chiedere di presenziare alle fasi 173

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

della consulenza. Il colloquio con il minore si propone di individuare i legami del minore nei confronti delle figure parentali e quale delle due è vissuta come primaria; rilevare le necessità del minore con rife­ rimento a presente e futuro. Il colloquio con i genitori o altre figure affidatarie ha lo scopo di valutare l'idoneità o no all'affidamento dei minori; per fare ciò lo psi­ cologo procede esaminando determinate caratteristiche della persona­ lità dei caregiver (ibid. ) . Nel caso i n cui la famiglia di origine venga ritenuta non idonea per la crescita del minore si procede all'applicazione dell'istituto giu­ ridico dell'adozione; la consulenza tecnica si propone di accertare l'i­ doneità o no della famiglia a mantenere o prendere in carico il bam­ bino. Se non sussiste abbandono del minore, è imprescindibile la va­ lutazione del nucleo familiare di origine; nei casi di adozione e di af­ fidamento temporaneo la famiglia richiedente viene sottoposta a esa­ me psicologico. Comunque, è sempre fondamentale la valutazione della coppia genitoriale, affidataria o adottiva ( Sabatello, Natali, r 9 8 8 ) e l'esame dei vissuti del minore riguardo alla dinamica dell'abbando­ no. La consulenza tecnica può, altresì, essere richiesta per la valuta­ zione della capacità o incapacità civile della persona. In ambito penale la perizia psicologica è permessa solamente per accertamenti aventi l'obiettivo di investigare sull'attendibilità di una testimonianza, sull'inferiorità psichica in relazione a reati sessuali, sul­ la deficienza psichica inerente a persona incapace, sull'immaturità di minore . Pertanto, la perizia dovrebbe giungere ad accertare la re­ sponsabilità penale, a formulare una prognosi comportamentale e a ipotizzare interventi processuali e trattamenti adeguati (Dominici, Ce­ sarano, 2 002 ) . Un intervento peritale è sempre un intervento clinico, in quanto tale esso va a conoscere non solo le dinamiche riguardanti le singole persone, ma le per­ sone in determinate situazioni; queste situazioni possono essere presenti, pas­ sate e future; il compito del perito è quello di "restituire " l'intero processo conoscitivo non solo ai soggetti in esame, ma ai soggetti in esame in determi­ nate situazioni (ivi, p. 209) . 5 ·7

Il colloquio di selezione del personale

Nell'ambito della gestione operativa e della selezione del personale, il colloquio o l'intervista rivestono un'importanza fondamentale: con questo strumento è possibile raggiungere una conoscenza approfondi174

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DIFFERENTI AMBITI DI APP LICAZIONE DEL COLLOQUIO

ta degli individui che si vogliono introdurre in un' azienda o mantene­ re un costante " contatto " con quelli che già operano all'interno di questa. Come afferma Sarchielli ( 1 99 8 , p. 2 6 7 ) : Nonostante l e critiche d a più parti avanzate i n merito al suo grado d i atten­ dibilità e validità, il colloquio rappresenta uno degli strumenti maggiormente utilizzati nel processo di selezione, sia per ottenere una diagnosi globalmente intesa della qualità e coerenza delle caratteristiche di una persona rispetto a una specifica posizione organizzativa, sia per delineare una prognosi rispetto all'efficacia e funzionalità delle caratteristiche in essa rilevate nei confronti delle esigenze attuali e future della posizione e dell'organizzazione.

Il colloquio si propone di individuare (Ponzio, 2 002 ) : caratteristiche del soggetto; ipotesi sulla condotta futura dell'individuo; competenze possedute; compatibilità del candidato con l'organizzazione presso cui si pre­ vede l'inserimento. La tecnica dell'intervista per la selezione del personale è normal­ mente preferita ad altri strumenti di analisi per alcune motivazioni che possono essere schematizzare come segue: è un sistema rapido e non molto costoso che non richiede alcuna preparazione materiale; sviluppandosi su un rapporto interpersonale, consente una valuta­ zione globale della personalità e delle caratteristiche comportamentali del candidato, prima che questo entri a lavorare in azienda; rappresenta una sintesi, cioè un compendio di tutte le informazio­ ni raccolte intorno ad una persona e ha quindi carattere conclusivo nella decisione di assunzione; è uno strumento molto più personale e diretto dei test e degli ac­ certamenti indiretti; consente di chiarire al candidato i tratti distintivi dell'azienda, così da permettergli di fare a sua volta una valutazione esaustiva in merito alla sua volontà o no di farne parte. Al presente vengono utilizzati alcuni tipi di colloquio-intervista di selezione strutturati: la Situational Interview o Intervista situazionale (Latham, Saari, 1 98 o ) , la Targeted Interview o Intervista finalizzata (Byham, 1 9 8 1 ) , la Patterned Behaviour Description Interview o Intervi­ sta descrittiva di un campione di comportamenti (Janz, 1 9 82 ) . Median­ te tali strumenti vengono somministrate ai candidati le medesime do­ mande, vi è una griglia di valutazione predefinita e la presenza di 175

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

aree di indagine e di valutazione derivate da una determinata analisi degli atteggiamenti pretesi dalla posizione lavorativa ( Sarchielli, 1 99 8 ) . Secondo Dipboye ( 1 9 8 2 ) , l'intervista a fini selettivi s i sviluppa in tre fasi: - pre-intervista, nel corso della quale l'intervistatore prende visione della documentazione attinente al soggetto da intervistare; intervista vera e propria, con lo sviluppo del colloquio e delle domande; - post-intervista, con la trasformazione delle impressioni ricevute in forma di valutazioni finali. Anche nel corso del colloquio di selezione entrano in gioco fattori di condizionamento per quel che concerne le impressioni suscitate nell'intervistatore da parte dell'intervistato. Alcuni di questi fattori in­ tervengono ad influenzare profondamente l' andamento e i risultati dell'intervista, in particolare: - l'effetto alone (Thorndike, 1 920) fa sì che l'intervistatore inferisca da una determinata caratteristica dell'interlocutore (positiva/negativa) la presenza di altre caratteristiche dello stesso segno, gettando un alo­ ne di negatività o di positività sull'intera figura dell'intervistato; - l'errore logico (Guilford, 1 9 3 6) con il quale si ritengono logica­ mente correlate caratteristiche del tutto indipendenti. Esistono poi altri fattori che possono condizionare in maniera si­ gnificativa lo stile di percezione e la capacità di attribuire una valuta­ zione corretta da parte dell' esaminatore, si tratta di: a) difficoltà per l'esaminatore di porsi in una posizione di ascolto; b) condizionamento dell'ultimo soggetto intervistato ; c) esperienza azien­ dale generale e/o peculiari esperienze personali; d) tendenza a con­ frontare l'intervistato con se stesso; e) errore sistematico; f) orienta­ mento al controllo della situazione; g) incapacità di riconoscere la si­ tuazione di intervista come situazione specifica; h) reazioni di simpa­ tia/antipatia, somiglianza/contrasto, familiarità/ estraneità, vicinanza/ lontananza (Castiello d'Antonio, 1 994). Nell'ambito di selezione del personale l'intervista strutturata è consigliabile quando si richiedono dati socioanagrafici o socioprofes­ sionali; il colloquio-intervista non strutturato dovrebbe fare riferimen­ to al colloquio non direttivo di Rogers ( 1 95 1 ) in cui l'intervistatore si limita ad iniziare la relazione interpersonale creando un' atmosfera di fiducia nella quale vengono definiti gli obiettivi dell'incontro; introdu­ ce temi generici consentendo all'intervistato di esprimersi liberamen­ te. L'intervista semistrutturata consente di raggiungere fini differenti, prevede ed auspica un confronto con il candidato, permette di dif-

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DIFFERENTI AMBITI DI APPLICAZIONE DEL COLLOQUIO

fondere un'immagine preferibile della struttura e di dare vita a un contesto di interazione; tale intervista si rivela utile nel caso in cui si è interessati a informazioni sulle strategie comportamentali legate ai problemi posti dalla posizione. Il colloquio più o meno libero è raccomandabile per l'acquisizio­ ne di dati sulle risorse psicosociali o per contrattare un eventuale rap­ porto ( Sarchielli, 1 99 8 ) . Vi sono tecniche diverse di intervista a scopi selettivi, i n particola­ re ricordiamo: r . Le interviste dure, nelle quali il colloquio si svolge con una con­ tinua "imposizione " dell'intervistatore sull'intervistato, tale da dare a quest' ultimo l'impressione di trovarsi in una condizione di inferio­ rità. Molti sistemi sono stati consigliati a tal fine, quale quello di inter­ rompere più volte i discorsi dell'intervistato, di discutere e criticare a fondo certe sue affermazioni di carattere strettamente personale, non­ ché quello di restare silenziosi a lungo, senza rispondere dopo che il candidato ha finito di parlare. Questo modo di svolgere il colloquio ottiene il risultato di porre il candidato in una situazione di stress, dando modo all'operatore di valutare le sue risposte a stimoli negativi e il suo comportamento in situazioni " difficili " . Tale metodo ha anche il vantaggio di creare una situazione di ge­ rarchia ben definita tra intervistatore e intervistato: al primo viene dato un ruolo di netta supremazia, consentendogli con ciò di "guida­ re" il colloquio e di orientarlo nella direzione che preferisce. Un at­ teggiamento di supremazia da parte dell'intervistato rischierebbe di inficiare l'obiettivo stesso dell'incontro : potendo orientare e influenza­ re le domande dell'intervistatore, l'intervistato avrebbe la possibilità di mettere in luce solo alcune delle proprie caratteristiche personali o professionali, non fornendo un quadro obiettivo della propria perso­ nalità. Il controllo della comunicazione esige che l'intervistatore sia con­ sapevole della direzione della comunicazione, man mano che l'intervi­ sta procede. Dovrebbe riuscire, sottilmente e senza interrompere il flusso della comunicazione, a ridirigere la concentrazione del cliente verso le aree pertinenti. 2. Le interviste a scopi informativi particolari, che si sviluppano con una serie di domande su aspetti specifici della vita e del passato pro­ fessionale del candidato. Questo tipo di indagine riprende la forma del colloquio clinico "guidato " , analizzando il candidato "a zone" e permettendo di limita177

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

re la ricerca a specifiche aree di interesse, senza disperdersi in rico­ gnizioni generali o in inutili valutazioni su caratteristiche non stretta­ mente pertinenti. 3 · Le interviste a discussione, nel corso delle quali la personalità e le capacità del candidato vengono fatte emergere non in riferimento a specifiche risposte sul suo comportamento passato, ma per effetto di una valutazione globale che l'intervistatore è in grado di esprimere dopo essersi intrattenuto con il candidato. Questo tipo di colloquio non prevede che vengano presi in consi­ derazione aspetti specifici del lavoro che il candidato intende svolgere o dell' azienda nella quale vorrebbe inserirsi, ma si limita a cercare di individuarne la personalità globale, lasciando poi ad una fase succes­ siva la valutazione della possibile idoneità al ruolo, relativamente alle sue caratteristiche umane. Indipendentemente dal tipo di intervista che viene utilizzato, il colloquio per la selezione del personale deve tener conto (e cercare di approfondire) alcuni aspetti della personalità del candidato, con par­ ticolare riferimento a: maturità emotiva, cioè la capacità dell'individuo di rispondere in maniera "pertinente" a determinati stimoli (generalmente negativi) e la capacità di impegnarsi fattivamente in presenza di una situazione problematica così da poterla risolvere. La valutazione di questo tratto della personalità può emergere analizzando il senso di responsabilità del candidato, il grado di fiducia in se stesso, il suo senso critico; tendenze inespresse, quali ad esempio il desiderio di perfezione, quello di potere, di sicurezza, di guadagno, di apprendimento, di aiu­ to nei confronti degli altri ecc.; attitudini, che vengono valutate in una prospettiva lavorativa per quel che concerne l'atteggiamento del candidato verso altre persone, il suo atteggiamento nei riguardi delle responsabilità, il suo grado di socievolezza o di potenziale interazione sociale, il suo spirito di adat­ tamento ecc. Questa forma di intervista richiede sempre un'attenta preparazio­ ne da parte dell'intervistatore. Nulla deve essere lasciato al caso o all'improvvisazione e soprat­ tutto si deve concedere al candidato il minor " spazio " possibile di espressione, se non in riferimento alle caratteristiche o agli argomenti ai quali si è espressamente interessati. La conduzione del colloquio di selezione può essere suddivisa nelle seguenti fasi (Mucchielli, r 9 8 3 ) : r . preconoscenza del candidato, prima del colloquio l'intervistatore deve essere in possesso di informazioni riguardanti il candidato (cur-

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DIFFERENTI AMBITI DI APPLICAZIONE DEL COLLOQUIO

riculum, esperienze lavorative passate, attuale situazione familiare, professionale, sociale) ; 2 . preparazione materiale del colloquio, l'intervistatore dovrebbe pre­ stare attenzione alle variabili del colloquio; 3 · accoglienza, presentazione reciproca, l'intervistatore dovrebbe favo­ rire un'atmosfera di fiducia, di rispetto della persona; 4· presentazione dell'impiego al candidato, l'intervistatore fornisce al candidato le informazioni inerenti al lavoro; 5 · ricerca delle motivazioni del candidato, l'intervistatore focalizza l' attenzione sull'atteggiamento del candidato rispetto all'impiego, alle sue motivazioni, ai suoi interessi professionali; 6. indagine integrativa sulla personalità, l'intervistatore può sommini­ strare alcuni test attitudinali e di personalità per approfondire la comprensione del candidato; 7· stesura della sintesi, l'intervistatore in questa fase che avviene sen­ za la presenza del candidato valuta i risultati ottenuti dal candidato nel colloquio e nell'eventuale somministrazione di test attitudinali e di personalità. L'obiettivo è di prevedere l'adattamento del soggetto al posto disponibile. 5 ·8

Il colloquio di orientamento

Il colloquio è uno strumento largamente utilizzato nell' ambito dell'o­ rientamento, cioè nei casi in cui l'intervistato ha necessità di avere un orientamento specifico, sia in termini professionali che in termini psi­ cologici (Brown, Lent, 1 992 ) . Il colloquio di orientamento si diffe­ renzia da altre forme di colloquio per due ordini di motivi: a) utilizza in maniera prevalente materiale conscio, dal momento che non ha lo scopo di modificare delle anomalie profonde dell'interessato, ma sem­ plicemente di indirizzarne il comportamento e/o le scelte in funzione di alcune sue caratteristiche, rimaste sino a quel momento inespresse; b) non si propone obiettivi pedagogici, in quanto non mira a modifi­ care il comportamento dell'intervistato sulla base di un codice di va­ lori morali generalmente condiviso, ma si propone piuttosto di valu­ tare la personalità, le caratteristiche professionali, le predisposizioni, i gusti ecc. di un individuo, consentendogli con ciò di effettuare scelte che siano consone a tali caratteristiche. Anche in termini di finalità il colloquio orientativo è peculiare: il partecipante affronta questo tipo di interazione con un operatore al fine di raggiungere uno stato di equilibrio tra esigenze interiori e fa t­ tori esterni, non manifestando un vero e proprio malessere o uno sta179

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

to patologico, ma semplicemente cercando di migliorare la propria qualità della vita (sentimentale, professionale, di studio ecc. ) in fun­ zione della sua natura e della sua personalità. Lo scopo del colloquio è un' evoluzione della persona coinvolta, non in riferimento a caratteristiche profonde e inconsce - come è in­ vece il caso del colloquio clinico vero e proprio - ma in relazione a dati reali concernenti la persona, il suo stato sociale, la sua colloca­ zione professionale ecc. La prima fase si connota come colloquio esplorativo atto a racco­ gliere le informazioni fondamentali per definire il problema; la secon­ da fase che si caratterizza come attività diagnostica ricorre ad una modalità semidirettiva al fine di facilitare l'espressione spontanea del­ l'individuo (Pombeni, 1 99 8 ) . Non s i tratterà per l'operatore d i modificare i l comportamento dell'intervistato, innescando un'interazione di genere psichico, con l'uso dei meccanismi di transfert e controtransfert, ma solo di porsi in una condizione di consigliere per la quale guidare, sostenere ed orientare scelte successive del paziente. Mentre la normale procedura di sviluppo del colloquio clinico si propone di far passare il paziente dal piano reale a quello inconscio, ricercando motivazioni profonde a comportamenti espressi, il collo­ quio di orientamento segue l'iter opposto, facendo passare il candida­ to dal piano psicologico a quello reale e cercando di mantenere i ter­ mini del dialogo e della ricerca ad un livello quanto più possibile oggettivo. Il piano su cui agisce il colloquio di orientamento è rivolto al fu­ turo: si cerca di evitare un continuo riferimento alle eventuali " man­ canze" o " errori" del passato, per considerare invece solamente le prospettive e gli aspetti futuri che potranno essere sviluppati per ef­ fetto di una giusta messa in relazione tra caratteristiche dell'individuo e suo posizionamento in termini umani, sociali e professionali . Esiste una consulenza di orientamento scolastico e professionale che ha come scopo la scelta del percorso formativo in ambiti istitu­ zionali quali la scuola, l'università; il career counseling si riferisce, in­ vece, a scelte di inserimento professionale e di sviluppo professionale (ad esempio l'inserimento dei disoccupati e il cambiamento di attività lavorativa) ( Margherita, 2002 ) . Nel caso del colloquio di orientamento professionale, di massima importanza per la riuscita dell'incontro è la preparazione " tecnica " dell'operatore che per poter efficacemente indirizzare le scelte del candidato deve disporre di: I SO

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DIFFERENTI AMBITI DI APPLICAZIONE DEL COLLOQUIO

una conoscenza del significato che l' attività lavorativa riveste per l'esistenza personale e per la realizzazione della personalità; una conoscenza dei livelli e delle modalità di realizzazione del la­ voro . Generalmente, infatti, l'individuo che si rivolge ad un operatore per esigenze in termini di orientamento professionale, considera il la­ voro come elemento determinante dell'espressione della personalità dell'individuo. Il valore attribuito al lavoro assume valenze differenti a seconda della personalità dell'individuo e del suo grado di maturazione a li­ vello di personalità. Schematicamente si rilevano tre tipi di considerazione del lavoro: un primo caso, in cui il lavoro viene visto solamente come mezzo per ottenere dei beni o degli status ( denaro, prestigio, vantaggi ecc. ) e viene considerato come elemento assolutamente estraneo alla vita e alle caratteristiche personali dell'individuo. La scelta del tipo di lavo­ ro è in questo caso motivata da ragioni di ordine meramente econo­ mico: un lavoro viene considerato positivo e desiderabile se permette di guadagnare molto o di raggiungere molti vantaggi di ordine socia­ le, indipendentemente dalla sua natura; un secondo caso, in cui il lavoro viene visto come realizzazione psichica dell'individuo oltre che come mezzo per ottenere dei risultati e dei vantaggi materiali. La soddisfazione sul lavoro è in questo caso ottenuta quando tutti e due gli scopi vengono raggiunti, poiché sepa­ ratamente non sono sufficienti a connotare positivamente la profes­ sione; un terzo caso, nel quale la professione svolta o da svolgere viene vista solamente come la realizzazione degli interessi e della personali­ tà dell'individuo, senza che vengano minimamente considerati fattori di ordine economico. A seconda che prevalga l'uno o l'altro di questi atteggiamenti nei confronti del lavoro, il colloquio di orientamento dovrà strutturarsi ricercando delle soluzioni che siano quanto più possibile aderenti alle esigenze di personalità del candidato. Il consulente non potrà dare consigli o giudizi standardizzati, ma dovrà di volta in volta considerare non solo la personalità dell'interlo­ cutore nel suo complesso, ma anche fattori esterni che fanno parte della sua esistenza, della sua famiglia, del contesto sociale entro cui si muove ecc. Appare chiaro che in questo tipo di colloquio il livello di intera­ zione tra le due componenti non tocca la sfera profonda, ma resta limitato al solo ambito della competenza professionale e delle capacir8r

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

tà tecniche del consulente. È comunque indispensabile che da parte del "paziente " vi sia massima fiducia nei riguardi del suo interlocuto­ re: costui infatti deve svolgere una funzione di sintesi rispetto a tutti gli altri elementi che gli vengono messi a disposizione dal candidato. Perché questo possa avvenire occorre che egli abbia (o che il cliente gli attribuisca) una visione più ampia della realtà professionale, socia­ le, familiare, e che sia in grado di avere un'ottica di lungo periodo su problematiche che richiedono una pianificazione e una riorganizzazio­ ne di componenti rilevanti della vita di una persona. Tutto questo lavoro, naturalmente, verrà sostenuto dal consulente d'orienta­ mento, il cui compito sarà principalmente quello di fornire al cliente gli stru­ menti di giudizio e valutazione che gli consentiranno di considerare una eventuale decisione come una conquista personale, raggiunta con l'impiego di strategie essenziali, consapevoli ed accurate (Arcuri, Pizzini, zooo, p. 191).

Non è necessario che il consulente sia emotivamente coinvolto nelle questioni dibattute nel corso del colloquio; è preferibile che egli ab­ bia una visione distaccata del problema, dal momento che scopo del­ l' orientamento è proprio quello di fornire dei consigli relativamente ad un problema che, visto dall'interno, potrebbe essere insolubile o di difficile analisi. Questo tipo di colloquio si prefigge, quindi, il raggiungimento di proposte tramite un consiglio che si delinea come processo di ricerca esplorativa e tramite una valutazione dell'adeguatezza di soluzioni ipotetiche (Scarpellini, 1 995 ) . 5 ·9

Il colloquio a scuola

In ambito scolastico si attuano differenti tipologie di colloqui (orien­ tamento, counseling, valutazione) rivolti all'individuo (insegnanti, stu­ denti, genitori) e al gruppo ( classe, consiglio di classe, collegio do­ centi). Nelle scuole secondarie superiori sono previsti dei centri informa­ tivi e di consulenza per gli studenti al fine di osteggiare il disagio, migliorare la qualità della vita scolastica, aiutare gli allievi nel cammi­ no di orientamento scolastico e professionale, affinare le relazioni isti­ tuzionali; il colloquio di counseling con gli insegnanti si propone di prevenire forme di disagio personale (burn-out) ; il colloquio con i ge­ nitori mira a fornire una formazione sulle modalità tramite le quali svolgere il ruolo di genitore; il colloquio di counseling con la classe 1 82

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DIFFERENTI AMBITI DI APPLICAZIONE DEL COLLOQUIO

ha luogo quando vi è una richiesta rappresentata solitamente da un problema (bullismo, conflitti tra sottogruppi ecc . ) (Bastianoni, Simo­ nelli, 2 0 0 1 ) . Assimilabile al colloquio di orientamento è quello per la valuta­ zione nella scuola. Partendo dal principio che obiettivi della scuola sono l' apprendimento e la formazione, il colloquio per la valutazione nella scuola ha una duplice funzione : da un lato misura il grado di apprendimento conseguito in un dato momento del processo didatti­ co e rinforza o modifica i comportamenti in funzione di questo obiet­ tivo, dall'altro misura il livello di formazione raggiunto e costituisce un'occasione formativa di per sé. Il colloquio tra docente e alunno può assumere valenze e caratte­ ristiche diverse a seconda che la relazione tra i due sia impostata su una motivazione estrinseca o su una motivazione intrinseca. Nel primo caso il colloquio assume la forma di " intervista-interro­ gazione" finalizzata alla misurazione dei risultati raggiunti relativa­ mente al grado di abilità mostrato dall'alunno o alla sua capacità di comprensione di un problema. Si attua nei casi in cui si voglia rag­ giungere, in un lasso di tempo breve, una conoscenza esaustiva di specifici aspetti di preparazione di un alunno. È chiaro che nel corso di questo tipo di intervista, che pure si prefigge di essere impostata solo su dati oggettivi e quantificabili, en­ trano in gioco anche fattori inconsci della personalità degli interlocu­ tori che possono per questo essere " deviati" nelle risposte e nella valutazione. Nel caso invece di un rapporto a motivazione intrinseca, si ha il " colloquio- discussione" che ha caratteristiche di colloquio libero non direttivo, cioè la libera espressione di alcuni elementi, convinzioni, nozioni ecc. da cui scaturisce una valutazione " globale" della perso­ nalità o delle conoscenze dell'alunno. Questo tipo di colloquio trova ideale applicazione quando l'inse­ gnante ha necessità di effettuare valutazioni sull'alunno non limitate alle sole capacità scolastiche, ma relative invece al suo comportamen­ to. L'esempio più classico concerne la valutazione del grado di socia­ lizzazione raggiunto dal bambino nel corso della scuola dell'obbligo . Tale considerazione non può certo essere sviluppata sulla base della tradizionale " interrogazione" scolastica, ma deve invece emergere da un colloquio molto più approfondito, che non tenga conto di fattori nozionistici, ma di elementi componenti la globale personalità del giovane. Nel caso della valutazione del livello di socializzazione di un bam­ bino è importante che il colloquio inneschi una sorta di processo di

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

transfert e controtransfert, permettendo da un lato un coinvolgimento emotivo da parte dell'insegnante tale da non analizzare il bambino in maniera distaccata ma sulla base di una " simpatia " emotiva, e dall'al­ tro la piena esplicitazione di sé da parte del bambino, come conse­ guenza dell'instaurarsi di un rapporto di stima e fiducia nei confronti dell'insegnante. In linea generale si può dire che la relazione alunno-insegnante non è mai asettica, ma si sviluppa come una vera e propria interazio­ ne profonda nella quale entrano in gioco componenti emotive, pro­ blemi comunicativi e processi di influenzamento, propri del colloquio clinico . In particolare nel caso del colloquio a fini valutativi tali com­ ponenti emotive assumono una rilevanza particolare principalmente perché l'insegnante si trova a dover svolgere un ruolo triplice: inse­ gnante-genitore-giudice. Alla luce di questa sua funzione l'insegnante può assumere due tipi di atteggiamento: - giudicante, quando il colloquio è solamente finalizzato ad esprime­ re un verdetto sulla valutazione dello studente, per convincerlo a mi­ gliorarsi; aiutante, quando l'insegnante si prefigge lo scopo di stimolare lo sviluppo dell' apprendimento del bambino e le sue capacità umane, sociali, comunicative ecc. Nel corso del colloquio di valutazione vengono attuati da parte di tutti e due i partecipanti alcuni meccanismi di difesa, principalmente perché questo tipo di incontro può creare nelle due componenti ef­ fetti di frustrazione e di ansia. Tra i meccanismi di difesa più comunemente attuati rileviamo (Bolla Trentini, 1 995 ) : - l a proiezione, con l a quale l'insegnante trasferisce sull' allievo pro­ prie convinzioni, aspettative o frustrazioni; - l' introiezione, con cui l'allievo si carica di comportamenti o con­ vinzioni che sono proprie dell'insegnante e con cui quest'ultimo non valuta in maniera obiettiva l'allievo per ciò che egli è, ma per quella parte dell' allievo che si identifica con la sua personalità; il ritiro emotivo, per il quale l'insegnante tende a privilegiare sola­ mente i fattori oggettivi, quantificabili e definibili della personalità e delle capacità dell'alunno, escludendo (o cercando di escludere) qua­ lunque coinvolgimento emotivo; - la razionalizzazione, tramite cui l'individuo evita i sentimenti di in­ feriorità che potrebbero pregiudicare la sua autostima. Come per il colloquio clinico con il bambino, anche il colloquio

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DIFFERENTI AMBITI DI APPLICAZIONE DEL COLLOQUIO

di valutazione nella scuola "pesa" prevalentemente sulle spalle dell'in­ terlocutore adulto, con l' aggiunta che l'insegnante si trova in questo caso a svolgere una funzione molteplice in termini di ruoli, che il te­ rapeuta infantile non sempre ha la necessità di incarnare. 5 · 10

Il colloquio di motivazione

Il colloquio di motivazione (motivational interviewing) , elaborato ne­ gli anni ottanta negli Stati Uniti e nel Regno Unito, è un metodo direttivo centrato sul cliente, per accrescere la motivazione intrinse­ ca al cambiamento mediante l'esplorazione e la risoluzione dell'am­ bivalenza. In tutte le situazioni connotate da dipendenza da sostanze o da abitudini radicate è necessario lavorare sulla motivazione a cambiare, attraverso l'utilizzo di strategie e tecniche specifiche. Si tratta di un approccio di counseling per i casi nei quali la terapia consiste nel far prendere consapevolezza all'utente del suo problema e nel rafforzare la decisione di modificare il comportamento autolesivo che lo caratte­ rizza. Tale tecnica di colloquio riguarda soprattutto alcolisti e tossico­ dipendenti, ma può essere utilizzata anche per altre problematiche di autocontrollo (Miller, Rollnick, 1 99 1 , 2o02 ) . Il colloquio di motivazione è uno stile di intervento centrato sul cliente nel senso rogersiano del termine e mira a raggiungere un cli­ ma empatico, di accoglimento e comprensione per favorire cambia­ menti nello stile di vita dell' utente; è orientato perché ha un fine de­ terminato che indica la direzione del cambiamento, vale a dire l'ab­ bandono o la diminuzione delle condotte a rischio o disfunzionali . La trasformazione desiderabile per il soggetto viene stimolata e avviata prendendo in considerazione la sua visione del mondo, la sua pro­ gettualità e la sua intenzionalità. Tale colloquio si basa sulle risorse attuali dell'individuo e si propone di dirigere le energie e l' attenzione sul desiderio di un'esistenza migliore, avvalendosi in maniera attiva del conflitto interiore che conduca ad un cambiamento. Per questo il colloquio di motivazione si è rivelato proficuo nei casi con difficoltà a riconoscere la gravità di un problema e nelle situazioni nelle quali è basilare instaurare una relazione di collaborazione con individui scar­ samente motivati al trattamento e difficilmente raggiungibili con le tecniche tradizionali. È quanto avviene nel trattamento delle dipen­ denze da sostanze in cui la negazione del problema e l' ambivalenza rispetto al cambiamento sono peculiarità molto diffuse.

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

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Il colloquio nell'adozione

I colloqui con le coppie genitoriali hanno lo scopo di individuare le risorse possedute dai coniugi, incoraggiarli a riflettere e fornire altresì indicazioni sul percorso dell'adozione. Nel corso dei colloqui di adozione gli operatori (giudici del Tri­ bunale per i minori, psicologi, neuropsichiatri infantili, assistenti so­ ciali) valutano le risorse genitoriali idonee per accogliere e crescere un bambino adottivo. lovero, il colloquio rappresenta uno degli stru­ menti utilizzati per giungere ad una valutazione - idoneità o non ido­ neità ad adottare - su cui si appoggerà il decreto finale del Tribunale per i minori (Zanardi, 1 99 9 ) . Si tratta di un colloquio di tipo tra­ sformativo (Cadi, 1 9 87) poiché l'operatore dovrà utilizzare l'esperienza di rapporto colloquiale al fine di tra­ sformare la sua conoscenza sull'interlocutore, al fine di passare da uno stato iniziale di informazione sull'altro considerato insufficiente, ad uno stato ter­ minale soddisfacente, finalizzato alla formulazione di un parere motivato e coerente [ . . . ] . Solo alcune delle informazioni che emergeranno dalla coppia verranno accettate dall'interlocutore, il quale avrà strutturato la sua griglia di conduzione del colloquio proprio in base ad una selezione delle informazioni utili. n parere richiesto all'operatore è inoltre inserito in un contesto istitu­ zionale specifico che ne predetermina ulteriormente la selettività (Zanardi, 1 999. p. 99).

La relazione tra operatore e coniugi è caratterizzata da non reciproci­ tà e da asimmetria dato che l'obiettivo conclusivo è l'esplicitazione di un parere. Di solito i colloqui presso i sevizi territoriali includono vari incon­ tri tra operatori e coppia per raccogliere informazioni sull'utenza. La coppia, inoltre, ha la possibilità di ricevere indicazioni sull'iter adotti­ vo ed essere indirizzati a gruppi di incontro o di formazione, a enti preposti a pratiche adottive, ad associazioni di famiglie adottive me­ diante i quali potrà raffrontarsi con altre coppie adottive. Il colloquio viene condotto seguendo lo schema conversazionale atto a incoraggiare nella coppia un' attiva collaborazione al fìne di ap­ prendere l'andamento familiare dei partner e le motivazioni che li hanno spinti a intraprendere il cammino dell'adozione. È indispensa­ bile individuare fatti, dati, eventi osservabili che permettano di com­ pendiare un parere privo di preconcetti e teorie valoriali. Le aree di approfondimento ( Sorgato, Gonzo, Mosconi, 1 999) ri­ guardano: r86

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DIFFERENTI AMBITI DI APPLICAZIONE DEL COLLOQUIO

1 . La storia personale: i potenziali genitori vengono sollecitati a nar­ rare la propria storia nei contesti sociale, scolastico, lavorativo. 2 . La storia familiare: ogni coniuge riferisce le proprie opinioni sui componenti della famiglia, sulle loro relazioni e sui legami tra questi e se stesso. La raccolta della storia familiare si propone di esaminare i due apparati di provenienza e rilevare l'attuale posizione occupata da ognuno nel sistema familiare. Inoltre, per la valutazione delle risorse genitoriali si rivela valevole comprendere determinate dinamiche fa­ miliari. 3 · La storia della coppia : i coniugi vengono invitati a raccontare gli avvenimenti essenziali del loro essere coppia. In particolare si presta attenzione a) al tipo di relazione tra i genitori della coppia; b) al ruo­ lo ricoperto dai figli all'interno di questa relazione; c) al tipo di cam­ biamento a cui ha condotto il matrimonio nei legami con la famiglia di origine ed evoluzione di questi ultimi; d) al tipo di relazione tra i coniugi; e) a relazioni esterne importanti per i partner. 4· La storia della scelta adottiva: il focus è sulla motivazione che ha spinto i coniugi verso la decisione di adottare. Per una coppia che si indirizza verso il cammino adottivo è utile approfondire alcune tema­ tiche durante il colloquio: qual è stato il momento in cui la coppia ha iniziato a cercare un figlio; quando ha iniziato a desiderarlo e a consapevolizzare il desiderio; come e quando i partner si sono comunicati il loro desiderio indi­ viduale e ne hanno fatto un desiderio di coppia; quali sono le cause dell'impossibilità ad avere figli biologici; quali cause emotivo-psicologiche si potrebbero ipotizzare, se la causa non fosse del tutto organica o se lo fosse solo parzialmente; come si sentono rispetto alle reciproche capacità di essere madre/ padre; quali sono per i rispettivi partner le caratteristiche più importanti di un buon padre, di una buona madre; come si sentono nei panni di potenziale madre/padre; quali sono i principali fattori che rendono una persona un buon padre/una buona madre; riflettere sui nodi che fanno più paura nell'eventuale esplicitazione del ruolo genitoriale; quali sono, secondo la coppia, i fattori che legittimano una coppia a diventare coppia genitoriale; riflettere su alcuni tra i più diffusi luoghi comuni sentiti a propo­ sito dei bambini adottivi, dei genitori che rinunciano al proprio figlio,

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

delle persone di razze diverse, delle donne e degli uomini che non possono avere figli (Zanardi, 1 999, p. 1 7 ) ; quando hanno deciso di intraprendere il percorso adottivo; - perché hanno pensato all'adozione; - a quale tipo di adozione hanno pensato, nazionale o internazionale, e perché; - hanno pensato ad entrambe le adozioni: perché e quali sono le differenze; - cosa significa adottare un bambino; - quali aspetti dell'adozione sembrano particolarmente critici (ivi, pp. r o6 - 7 ) . I colloqui presso i l domicilio della coppia s i propongono d i racco­ gliere dati oggettivi inerenti alla condizione logistico-organizzativa e allo spazio fisico e mentale nei quali il bambino adottivo verrà inseri­ to (numero e igiene dei locali, servizi territoriali nelle vicinanze dell'a­ bitazione, dove dormirà e giocherà il bambino, ritmi lavorativi e con­ suetudini sociali dei coniugi, persone che circonderanno il bimbo ecc. ) . Il colloquio presso il Tribunale per i minori ( svolto abitualmente da due giudici onorari esperti nel campo psicologico- relazionale) ha luogo dopo che quest'ultimo organo competente ha ricevuto la rela­ zione redatta dagli operatori dei servizi. L'obiettivo è di esprimere un parere sull'idoneità o non idoneità della coppia; il colloquio è costi­ tuito dal racconto libero riguardante il percorso e le motivazioni che li hanno condotti alla richiesta di adozione e da domande dirette atte ad approfondire i temi trattati. Tutti questi aspetti concorrono a far emergere le eventuali diffi­ coltà che i candidati dovranno affrontare durante l'inserimento del bambino adottato e l'ambiente in cui verrà introdotto il minore. 5 - 12

Il colloquio di ricerca

Il colloquio di ricerca è «quel tipo di colloquio il cui scopo è appro­ fondire la conoscenza di un determinato " oggetto di stu dio " che può riguardare diversi ambiti della psicologia» (Lis, Venuti, De Zordo, 1 99 5 , p. 8 1 ) . Al fine di procedere d a una situazione di scambio verbale a d una situazione di colloquio è necessario che la motivazione si trasformi in intrinseca (Bellotto, 1 9 8 9 ) . Occorre sottolineare che nel colloquio di ricerca, per lo meno all'inizio, la posizione è asimmetrica, la motiva188

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DIFFERENTI AMBITI DI APP LICAZIONE DEL COLLOQUIO

zione è sostanzialmente estrinseca poiché l'interesse del conduttore è centrato su di un tema specifico. Sovente, i soggetti selezionati per la ricerca non sono a conoscenza del motivo per cui sono stati invitati a parteciparvi. Il primo elemento da cui partire per motivare il soggetto è quella possibile curiosità che caratterizza chi è invitato a sostenere un colloquio [ . ] la curio­ sità iniziale del soggetto può trasformarsi in una spinta alla conoscenza e a fornire delle buone prestazioni (nel senso di parlare apertamente, esprimere le proprie idee, cercare di essere esaustivi nella risposta) , proprio perché si ha la percezione di essere coinvolti in un comune scambio conversativo (Lis, Venuti, De Zordo, 1 995 , p. 82) .

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Se l'individuo è in qualche modo motivato a esprimere le proprie opinioni, a parlare, a raccontarsi sarà portato a rispondere esauriente­ mente agli interrogativi posti. In tal modo gli obiettivi del colloquio di ricerca potranno essere conseguiti e si assisterà alla nascita di uno scambio comunicativo . Nel campo della ricerca è possibile ricorrere al colloquio nei seguenti casi: - fase iniziale, il colloquio è un mezzo per la formulazione delle ipotesi alla base della raccolta dei dati. In questa fase il colloquio vie­ ne svolto con individui differenti da quelli che prenderanno parte alla ricerca ma che evidenziano le medesime caratteristiche. Le informa­ zioni ottenute potranno essere utilizzate per la messa a punto di que­ stionari, interviste o colloqui idonei nella fase definitiva della ricerca; - fase definitiva, il colloquio costituisce lo strumento privilegiato per la raccolta dei dati . Durante la realizzazione della struttura del colloquio è rilevante dare alle domande una forma scorrevole, comunicativa; l'attenzione deve essere posta sulle aree da investigare ma le domande devono coordinarsi con il percorso mentale dell'individuo e adeguarsi a lui anche per quanto concerne il linguaggio, vale a dire che l'intervista­ tore dovrebbe avvicinarsi al livello culturale di chi ha di fronte. È bene che domande complesse, personali vengano poste nelle fasi centrali del colloquio allorché si sia stabilita una buona relazione tra ricercatore e partecipante alla ricerca, anziché nelle fasi introduttive o finali. Mediante un colloquio, di solito, è possibile ricavare dati diversi. L'individuo può parlare di eventi o /atti che riguardano accadimenti oggettivi; di sentimenti, stati d'animo, emozioni sperimentati in deter­ minati momenti; di giudizi, intuizioni, opinioni che crede o pensa o percepisce (Guittet, 1 9 83 ) .

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

Secondo Guittet, nella formulazione delle domande bisognerebbe seguire certe regole: fare una domanda alla volta; evitare una terminologia che possa avere significati morali evidenti o conseguenze eccessivamente coinvolgenti per l'individuo; eludere domande del tipo "o . . . o . . . " e affrontare un tema per volta; - le domande non devono essere ambigue, bensì chiare, circoscritte; - le domande non devono essere connotate né positivamente, né negativamente; - le domande devono essere facilmente comprensibili dall'individuo; per impedire che il soggetto assuma una posizione difensiva, evi­ tare troppo domande includenti la parola "perché " ; evitare domande chiuse dalle quali s i possono ottenere informa­ zioni specifiche e che spesso portano a una risposta di una o due pa­ role, preferire domande aperte che favoriscono una maggiore elabora­ zione nella persona che sta di fronte. Nelle ricerche sui bambini, sebbene il linguaggio verbale consenta di manifestare contenuti e sfumature, sono presenti altri modelli di linguaggio : il linguaggio gestuale, grafico, manipolativo. Nel corso del primo e del secondo anno di vita del bambino è possibile colloquiare con lui attraverso gesti, atteggiamenti, manipola­ zioni di oggetti (Petter, r 995 ) . Verso la fine del secondo e del terzo anno il bambino utilizza il linguaggio verbale per comunicare con l'a­ dulto. In questa fase è possibile sviluppare il colloquio in un intreccio di domande e risposte attinenti che possono condurre a nuove do­ mande. Ciononostante nella fascia di età tra i due e i quattro anni sono presenti alcuni ostacoli : motivazione: i bambini di questa età sono sovente inabissati in in­ teressi di gioco dai quali è arduo farli desistere. La comunicazione verbale, quando presente, può essere poco efficace causa la tendenza del bambino a discostarsi dai temi proposti dal ricercatore per foca­ lizzarsi su ciò che gli passa per la testa; assenza di coerenza conversazionale: i bambini di questa età sono totalmente presi da ciò che stanno facendo o dicendo in quel deter­ minato momento. Dopo i quattro-cinque anni il colloquio può essere usato con i bambini come strumento per indagare conoscenze ed esaminare il li­ vello di sviluppo di determinate strutture mentali. Come sostenuto da Piaget ( r 92 6 ) , nonostante dai quattro- cinque anni si renda plausibile effettuare un colloquio grazie alla partecipa­ zione operosa e ad un' attenzione pressoché costante, questo non si

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DIFFERENTI AMBITI DI APPLICAZIONE DEL COLLOQUIO

verifica con ogni bambino né con un bambino specifico, si verifica sempre. L' autore osserva l'importanza di valutare le risposte fornite dai bambini durante il colloquio : - le risposte purchessia, si tratta di risposte vaghe, fornite a caso, per accontentare l'interlocutore. Sono facilmente individuabili perché scarsamente coerenti con la domanda o con risposte date in prece­ denza o in altri colloqui; - le riposte fabulate, risposte colme di particolari e articolate come un vero e proprio racconto; - le domande suggestive, un bambino può tendere a dare risposte che difficilmente potranno essere utilizzate dal ricercatore perché de­ rivanti da domande suggerite dall' esterno più o meno intenzional­ mente mediante un comportamento o un determinato modo di parla­ re. Ricordiamo però che in alcuni casi il ricorso a domande sugge­ stive può rivelarsi utile ai fini della ricerca. Con i bambini è auspicabile lasciare precedere il colloquio ine­ rente alla ricerca da domande neutre o prove di facile esecuzione in grado di instaurare un clima adeguato di fiducia, sicurezza, disponibi­ lità che guidi verso la motivazione intrinseca. A tal scopo potranno essere introdotti dei materiali manipolabili o si potrà ricorrere al dise­ gno (Petter, 1 995 ) . Occorre ricordare che nelle ricerche i n età evolutiva il bambino non può essere sottoposto al colloquio senza il consenso dei genitori. Anche nel colloquio di ricerca la fase finale riguarda la restituzio­ ne: il soggetto uscendo «deve avere ricevuto almeno quanto ha dato» ( Semi, 1 9 8 5 , p. 32 ) . Si terminerà ringraziando per la collaborazione e mettendo in risalto l'importanza dei dati forniti. 5· 1 3

L'intervista sociologica

Il colloquio " clinico " ha una larga applicazione in ambito sociologico: la ricerca sociologica infatti si avvale spesso del colloquio come stru­ mento per acquisire informazioni relative ai comportamenti di singoli individui o di gruppi. Il colloquio-intervista di marca sociologica ten­ de ad allargare il proprio ambito di competenza, arrivando attraverso la disamina dei comportamenti a conoscere anche gli atteggiamenti che caratterizzano la vita di uno o più individui. Nelle scienze sociali si ricorre alla conoscenza di fatti che possono essere raccontati, e in una certa misura anche valutati e interpretati da chi ne ha fatto o ne fa una propria esperienza personale. In questo

DINAMICHE E STRATEGIE DEL COLLOQUIO CLINICO

senso l'intervista diviene lo strumento più appropriato per travasare atteggiamenti, comportamenti, opinioni nella ricerca. In ambito sociologico l'intervista può avere finalità diverse: raccogliere informazioni presso "testimoni significativi " , cioè tra persone che possano fornire dati diretti e attendibili in merito all'o­ biettivo della ricerca; creare dei gruppi di riferimento che nel proseguimento dell'inda­ gine si dimostrino capaci di fornire una verifica delle informazioni e dei risultati ottenuti attraverso un'indagine su un campione più am­ pio; raccogliere dalla popolazione interessata le informazioni che ser­ vono per la ricerca, attraverso un questionario con domande stan­ dardizzate; discutere con la popolazione o con le sue rappresentanze i risulta­ ti ai quali la ricerca è pervenuta. A seconda dell'obiettivo cui è finalizzata la ricerca si hanno tipi differenti di interviste sociologiche: - la ricerca indicativa, che offre solamente un quadro generale del fenomeno, presentandone gli elementi che hanno maggiore rilevanza; - la ricerca orientativa, che vuole fornire elementi sufficienti ad un ulteriore approfondimento; - la ricerca esplicativa, che raccoglie, organizza ed elabora in modo sistematico il numero più elevato possibile di dati sul fenomeno, m vista di un successivo lavoro interpretativo . Il tipo di indagine sociologica che più si avv1cma in term1m di obiettivi e finalità a quelle proprie della psicologia e del colloquio cli­ nico è la ricerca-intervento. Per ricerca-intervento si intende un'indagine che si prefigge una conoscenza dei fenomeni sociali direttamente orientata alla modifica­ zione della realtà da cui questi fenomeni hanno origine. Nel caso della ricerca-intervento il momento del colloquio diviene una vera " relazione" degli interlocutori : si cerca con questo strumen­ to di creare un rapporto di interazione operativa tra i membri del gruppo di ricerca e le altre persone interessate alla soluzione di tali problemi. Il momento dell'intervista, non limitato alla sola raccolta di informazioni e/o di dati, diviene il momento nel quale si ricercano le soluzioni ai problemi affrontati, cercando quindi di effettuare delle modificazioni dei comportamenti, delle convinzioni o del panorama di valori. Questo tipo di intervista riprende molto da vicino le modalità operative del colloquio clinico; gli interlocutori interagiscono in ma­ niera profonda e l'obiettivo finale del rapporto che si crea è quello di

5.

D I F FERENTI AMBITI DI APPLICAZIONE DEL COLLOQUIO

intervenire nei comportamenti di alcuni di questi, modificandoli pro­ fondamente. In questo caso - differentemente da quanto awiene nel colloquio clinico - le modificazioni comportamentali e l'interazione tra parteci­ panti al colloquio, si sviluppano in riferimento a comportamenti di gruppo, sulla base di un principio caro a buona parte della teoria sociologica, secondo il quale vi è un primato del sociale sull'indivi­ duale. Una costante della teoria durkheimiana - che pur presenta una rilevante evo­ luzione è rappresentata dal p rimato del sociale sull'individuale: la vita col­ lettiva non è nata da quella individuale, ma la seconda è nata dalla prima. La visione della natura dell'uomo discende rigorosamente e direttamente dalla concezione della natura della società. Qualunque siano i caratteri di quest'ul­ tima, essi non saranno mai esterni all'uomo ma lo coinvolgeranno pienamen­ te, condizionandone il modo di pensare, il carattere, i ruoli: per quanto la società non sia nulla senza gli individui, ognuno di essi è un suo prodotto piuttosto che il suo autore. Le singole nature individuali sono insomma le risultanti della vita sociale (Cesareo, 1 994, pp. r 8-9). -

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