Democrazia diretta [2° ed.]

In questo lungo crepuscolo della democrazia rappresentativa, l'idea stessa di politica - un tempo partecipazione at

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Democrazia diretta [2° ed.]

Table of contents :
Prefazione ..... 7
Introduzione ..... 19
Il senso della politica ..... 34
La comunità municipale ..... 49
Politica e cittadinanza ..... 65
Economia municipale e confederalismo ..... 84

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altri titoli dello stesso autore nel catalogo elèuthera L’ecologia della libertà emergenza e dissoluzione della gerarchia Per una società ecologica

Murray Bookchin

Democrazia diretta a cura di Salvo Vaccaro

elèuthera

© 1993 Murray Bookchin prima edizione elèuthera 1993 nuova edizione 2015 traduzione di Salvo Vaccaro progetto grafico di Riccardo Falcinelli il nostro sito è www.eleuthera.it e-mail: [email protected]

Indice

prefazione Communalism e la terza rivoluzione di Salvo Vaccaro

7

Introduzione

19

capitolo primo Il senso della politica

34

capitolo secondo La comunità municipale

49

capitolo terzo Politica e cittadinanza

65

capitolo quarto Economia municipale e confederalismo

84

prefazione

Communalism e la terza rivoluzione di Salvo Vaccaro

Murray Bookchin (1921-2006) è stato uno dei pensatori radicali più influenti del ventesimo secolo. Le sue idee, maturate nel corso di decenni in cui ha saputo intrecciare in maniera feconda attività politica militante e riflessione teorica, sono oggi diventate pratiche quotidiane diffuse in vari ambienti del pianeta, anche laddove nessuno ha mai letto un rigo dei suoi libri. La sua attività politica e sindacale nell’immediato secondo dopoguerra ha consentito a Bookchin di comprendere dinamiche collettive cruciali per ogni progettualità politica, dandogli rifugio dalle astrattezze concettuali e dalle inconcludenze tentennanti tipiche di ogni intellettuale che voglia restare «puro» rispetto alle contaminazioni della politica quotidiana. In essa, Bookchin ha saputo progressivamente distanziarsi dalla sua origine marxista e trockista per avvicinarsi sempre più alla visione libertaria e anarchica sia del rapporto con il mondo, sia delle forme organizzative con cui attivare processi di trasformazione sociale, ancor prima che politica. In parallelo, la sua formazione da autodidatta gli ha permesso 7

di costruirsi una solida cultura filosofica, politica, sociologica, storica, antropologica, al passo con il consolidato teorico della seconda metà del secolo scorso. Il suo ancoraggio nella cultura dialettica hegelo-marxiana lo ha avvicinato ai teorici di quella che fu denominata Scuola di Francoforte, ponendosi come uno dei suoi epigoni più interessanti quanto più eccentrica fu la sua collocazione tanto verso i Francofortesi, quanto verso il marxismo politico di matrice teorica. I suoi lavori, ormai tradotti in tante lingue, spaziano dalla ricerca storica a quella antropologica, dalla ricostruzione delle forme sociali di urbanizzazione (dalla polis alla metropoli passando per i comuni medievali) ai temi più prettamente politici di segno anarchico, sino alla recente raccolta di alcuni suoi testi dall’emblematico titolo The Next Revolution, curata dalla figlia Debbie insieme a Blair Taylor. L’opera sua più celebre è The Ecology of Freedom [L’ecologia della libertà], in cui mette a frutto la sua intensa partecipazione ai movimenti ambientali, inaugurando tuttavia una torsione teorico-politica non indifferente, poiché Bookchin disloca il nesso tra uomo e natura, che rappresenta il focus di ogni critica ecologica al manifesto moderno stilato da Bacone, alla radice del rapporto di dominio che pervade il rapporto dell’uomo con l’altro uomo, con decenni di anticipo rispetto alle visioni divulgative di Vandana Shiva o di Naomi Klein. La disponibilità, assoluta o conflittuale, con cui l’umanità tratta la natura si iscrive all’interno di una cornice più ampia in cui l’umano dispone dell’altro umano in senso prettamente politico, dando luogo a una specifica forma di vita che noi definiamo società. Ecco perché, secondo Bookchin, ogni tesi ecologista che reinterpreti e reinventi un rapporto tra uomo e natura, tanto nella concettualità quanto nella pratica, è profondamente sociale perché socialmente costruita. E tale costruzione sociale delinea il campo della politica non come arte del governare assegnata alle varie istituzioni che si sono succedute nel corso dei secoli, bensì come modalità di organizzazione sociale volontariamente 8

progettata e costruita nel concorso conflittuale di soggetti consapevoli e rischiarati nel dialogo permanente di ragioni, argomentazioni e obiezioni critiche. Il lavoro che viene qui riproposto – al di là di qualche sporadico passaggio logorato dall’usura del tempo in frenetica accelerazione nel corso dei recenti, ultimi anni (ma basta sostituire i Grünen tedeschi, antesignani di tutti i vani tentativi di creare un partito-non-partito, con i greci di Syriza o gli spagnoli di Podemos e la critica non muta di segno né fallisce il bersaglio, in relazione alla potenza corruttiva e vendicativa del potere politico una volta integrati nel sistema istituzionale, come peraltro ebbe ad affermare Bookchin nei suoi testi più tardi)1 – si concentra su una teoria politica dai forti risvolti pratici che segnano il lascito politico di Murray Bookchin. Sotto il titolo di Democrazia diretta, leggiamo alcuni dei testi centrali per focalizzare tanto la sua filosofia politica del Communalism, quanto la sua pratica sperimentale del municipalismo libertario ovverossia del confederalismo libertario. Con Communalism, Bookchin intende offrire una linea di fuga affermativa alle istanze rivoluzionarie e radicali che si agitavano lui vivente e si sono agitate dopo la sua scomparsa, praticando concretamente modalità di agire politico e sociale che Bookchin aveva sottolineato e anticipato nei suoi scritti, senza volerne fare un profeta suo malgrado. In effetti, pratiche adottate da movimenti quali Occupy Wall Street, gli Indignados, alcuni aspetti delle rivolte arabe, ecc. risentono pur senza citarle delle suggestioni offerte da Bookchin in una miriade di interventi e di articoli scritti per la stampa radicale, rivoluzionaria e anarchica nel corso della sua esistenza, tutti segnati da una mobilitazione dal basso verso l’alto, da un’acquisizione di consapevolezza della propria forza (empowerment sociale e politico, non solo di gender), dal ridimensionamento pensato delle formazioni istituenti un corpo burocratico e leaderistico, dai processi decisionali partecipati, diretti (face-to-face) e orizzontali, dalla rotazione delle cariche 9

rappresentative immediatamente controllabili e revocabili, dalla concatenazione di luoghi politici decentralizzati a sfere concentriche crescenti e interdipendenti che coprono territori più ampi e coinvolgono quantità di individui sempre più numerose (sebbene Bookchin, a differenza dell’anarchismo e delle pratiche dei movimenti recenti orientati alla condivisione per consenso, si pronunci a favore di un processo decisionale su base maggioritaria). Si tratta di ipotesi riscontrabili in ogni autore anarchico che si rispetti, talora adottate in tormentati frangenti storici (la Commune di Parigi), in momenti frammentari e a singhiozzo (la Rivoluzione spagnola del 1936), che Bookchin sistematizza in una cornice generale che recepisce la dura lezione delle rivoluzioni statuali dell’era moderna, sia di quelle che hanno dato vita ai sistemi liberali rappresentativi, sia di quelle che hanno dato vita a sistemi totalitari quali il leninismo realizzato o il maoismo istituito. Il Communalism, quindi, si propone come una teoria politica che raccoglie l’eredità della spinta collettiva di una politica rivoluzionaria, adottando pratiche libertarie che prevengano e neutralizzino le derive fisiologiche connesse alla chiusura statuale, elitaria (non importa se di classe, di partito o quant’altro), in ultima analisi gerarchica e autoritaria. «Il Communalism rappresenta una critica della società gerarchica e capitalista nel suo insieme»2. Di questa lunga e nobile tradizione, bacata sin dalla fonte come preconizzato dal dissidio Marx-Bakunin nella Prima Internazionale e come testimoniato dalle critiche anarchiche in tempo reale al sovietismo leninista della Rivoluzione russa, a Bookchin interessa principalmente la dimensione collettiva della trasformazione sociale e politica, giacché non può esistere alcuna proposta politica che non sia collettiva nel suo respiro e nel suo protagonismo. E con ciò Bookchin ci invita a distinguere sempre e comunque una dimensione della politica potenzialmente estranea, differente e conflittuale con una dimensione statuale, sempre in agguato per catturarla e appiattirla su di essa3. 10

Oggi è tanto più importante sottolineare tale dimensione communalista, che racchiude in sé lo spirito del comune, dei beni comuni e del comunismo come filosofia di vita (e non come progetto politico reale), quanto più si va affermando – in inquietante parallelo con lo svuotamento della politica da parte di egemonie e poteri forti che hanno catturato la politica all’interno di logiche mercatiste declinate secondo l’attuale congiuntura di finanziarizzazione dell’economia politica dominante, quella capitalista – un’ipotesi di fuoriuscita rivoluzionaria legata alla sommatoria caotica ma causale, organizzabile puntualmente ma informalmente, di prese di posizioni individuali, di moltitudini tanto più singolari quanto più invisibili dai circuiti di osservazione e controllo che si alimentano di reti mediatiche e digitali altrettanto invisibili e pervasive. Bookchin polemizza fortemente, magari eccessivamente, nel suo libro Social Anarchism or Lifestyle Anarchism: An Unbridgeable Chasm del 1995, con un anarchismo ridotto, a suo avviso, a stile di vita, a forma impolitica sempre pronta ad attaccare frontalmente lo Stato e le sue istituzioni, ma solamente di tanto in tanto, disdegnando un lungo e paziente lavorio sul terreno per favorire, invece, soluzioni multi-individuali di fuga dal reale ormai inesorabilmente catturato e illiberabile. Sembrerebbe un dibattito datato, ma non è così: ancor oggi la tensione polarizzata tra rivoluzione e rivolta si riafferma sia a livello teorico che, soprattutto, a livello pratico. Da una parte, ad esempio, Žižek rilancia le parole d’ordine di una rivoluzione di stampo neoleninista, immemore delle prove storiche non certo rimuovibili, facendo appello al trito rituale del deviazionismo, del tradimento dei leader, della patologia tirannica quale esito di una rivoluzione esclusivamente politica, che quindi non abilita una trasformazione dal basso della società bensì solamente un ricambio di élite al dominio politico. Dall’altra, l’irruzione di una generazione un tempo cosiddetta No Future ripropone la critica tagliente all’ideale della rivoluzione, troppo lunga, complicata, complessa da scatenare e poi da gestire in senso emanci11

patorio e libertario, per riaffermare il primato della tattica sulla strategia, del gesto sul progetto, dell’istante di libertà (apparente) sulla liberazione, della visibilità mediatica per un attimo (alla maniera di Andy Warhol) a fronte di un’invisibilità della talpa che scava da sempre da sotto il terreno, senza tuttavia far crollare niente… Il Communalism di Bookchin ambisce a costituire una breccia in tale polarizzazione, peraltro talvolta forzata, per evocare teoricamente una dimensione in cui, innanzi tutto, una trasformazione sociale è già presente nelle forme distorte di esistenza in cui ciascuno è irretito e da cui se ne può uscire solo con uno sforzo collettivo. La linea di fuga, per utilizzare un termine deleuziano, è una rottura plurale, non una nicchia individuale ove trovare rifugio e, di volta in volta, proiettarsi all’attacco oppure costruire isole di libertà senza connettere arcipelaghi di e in liberazione. Una soluzione solitaire ma neanche latamente solidaire, avrebbe detto Camus… Beninteso, quando il Communalism bookchiniano insiste sui processi storici di mutamento delle forme di vita associate offre idee per il presente e non mere ricostruzioni accademiche, invitando ognuno a decostruire immaginari sedimentati in pratiche ordinarie di esistenza avvilente, per ricostruire immaginari inediti da colmare in pratiche alternative di vita, di produzione, di associazione, di consumo, di affettività, e via continuando. Ma con la consapevolezza che tale duplice fatica acquista senso se diviene comune, ossia condivisa, partecipata, collettiva. In altri termini, la diffusività di una trasformazione sociale dal basso che ripudia la via istituzionale, utile solo al ricambio delle élite dominanti, non significa un auto-compiacimento di una micropolitica interstiziale e resistente, quanto la destituzione (di senso nell’immaginario simbolico quotidiano, ma anche di presa efficace sulle esistenze) e la contestuale espansione di ambiti di empowerment a livello societario, incluso la gestione quanto più possibile autonoma di territori di vita in comune, beninteso in 12

una conflittualità altrettanto diffusa socialmente, immune dalle seduzioni della politique politicienne. Qui entra in gioco il côté sperimentale proposto da Bookchin con il municipalismo libertario, magari modellato sul modello americano e quindi un po’ distante dalle usuali morse statuali contro le quali concepire una partecipazione radicale sui territori, che arrivi a gestire non tanto pezzi di governo degli enti locali, quanto a erodere potere politico, a strappare amministrazione di beni comuni (oltre il pubblico e il privato, sloganisticamente parlando), a condizionare dal basso le politiche dei partiti ufficiali, ad affiancare le istituzioni ufficiali con luoghi politici condivisi e partecipati che elaborano politica orizzontalmente e dal basso. «Immaginava che questo autogoverno diventasse sempre più forte mentre si solidificava in un ‘potere duale’ che avrebbe sfidato e alla fine smantellato il potere dello Stato-nazione»4. Una progettualità politica a servizio di un immaginario sociale forgiato da una cittadinanza attiva che non coincide minimamente con la cittadinanza recintata nei limiti del cerchio rappresentativo, anzi contro-effettuata in senso radicale e debordante limiti e recinti imposti. Si tratta di una proposta che va oltre l’indubbio spirito di resistenza che alimenta oggigiorno la gran parte delle ipotesi politiche non-violente che cercano di coniugare politica e impegno civico, radicalità e singolarità esistenziale, poiché è ovvio che senza un profondo coinvolgimento interiore che modifica l’ethos di ciascuno non si va da nessuna parte, anzi generalmente si è trasportati in direzioni lontane dalla libertà e dalla liberazione. Ma di contro, senza una declinazione plurale di tale ethos singolare, resistere è meritorio ma insufficiente a trasformare la realtà in senso libertario, il che è concepibile solo in una dimensione collettiva gradualmente e faticosamente conseguibile, tenendo conto dei rapporti di forza e degli immaginari da scardinare e da rielaborare. Ovvio che la cornice entro cui inquadrare il communalism e la pratica sperimentale del municipalismo libertario 13

o della democrazia radicale diretta o del confederalismo autogestionario o del potere politico parallelo (dual power)5 sia quella del conflitto, da un lato, con le gerarchie statuali e, dall’altro, con il predominio delle norme capitaliste di mercato che sovradeterminano non solo le dinamiche economiche ma oggi, in piena era neoliberale, anche le pratiche di soggettivazione in campi esteriori all’economia di mercato. Indubbiamente, le esperienze di autogoverno territoriale di segno politico sono diversificate nel panorama mondiale, si va dal contropotere assembleare rispetto alle amministrazioni locali alla conquista elettorale degli enti locali mantenendo un controllo di base sugli eletti, alla sottrazione di territori alla cattura statuale, secondo il modello zapatista. Bookchin concepisce il municipalismo libertario come un primo tassello di riaffermazione della politica sull’economico, sulla tecnica dei numeri aridi che imporrebbero soluzioni irriflesse e auto-veridiche, senza dare adito a pubblico dibattito, cui affiancare una serie di altri pilastri di autogoverno territoriale sul piano delle autogestioni di attività produttive e di consumo, nonché di altre istituzioni quali la sanità e l’istruzione. Ne sono esempi le cliniche autogestite degli zapatisti in Chiapas, le pratiche rurali di auto-produzione e consumo sostenibile per quanto concerne il ciclo alimentare, le energie rinnovabili e non invasive o l’uso delle acque potabili, sino alle miriadi di scuole/non-scuole libere ed extraistituzionali che si muovono sul terreno non solo pedagogico seguendo variegate linee di pensiero. Ultimamente risulta interessante l’esperimento del confederalismo democratico che, pur in condizioni difficili per il conflitto armato, si sta sviluppando nella regione di Rojava nel Kurdistan siriano, ai confini con le frontiere turche, a opera dei seguaci del leader carismatico (e un po’ troppo idolatrato, per la verità) Abdullah Öcalan, fondatore del pkk6. Grazie alle traduzioni di vari testi di Bookchin in turco, Öcalan, nella sua condizione di carcerato, ha cercato di ricollocare una strategia curda all’indo14

mani della fine del bipolarismo planetario che gli aveva garantito un margine di manovra nell’annosa e tragica vicenda dei curdi, suddivisi sin dalla fine della prima guerra mondiale, con la dissoluzione dell’Impero ottomano, tra diversi Stati dell’area medio-orientale, al cui interno i curdi hanno rappresentato una minoranza nazionale e politica sempre vessata e repressa. Non occorre ripercorrere le vicende storiche e la strategia lottarmatista del pkk di Öcalan, coperta in un certo senso dai giochi di reciproche appartenenze nei campi del bipolarismo mondiale. Una volta collassato, è probabile che il nazionalismo curdo, alla ricerca di un’indipendenza statale a spese di territori ormai saldamente nelle mani degli Stati nati a inizio del ventesimo secolo, abbia risentito sia del fallimento strategico di una soluzione nazionale, sia della fine degli appoggi internazionali che, in buona o mala fede che fossero, sostenevano le rivendicazioni curde. Chi è riuscito a ritagliarsi, a cavallo di millennio, una fetta di predominio territoriale, ha dismesso ogni ipotesi nazionale complessiva per i curdi in quella grande regione, mentre chi marcisce in galera tenta di individuare una via di uscita non solo alla condizione personale, ma all’oblio della causa curda agli occhi del pianeta, oggi colpito da altre questioni. È in questa congiuntura storica che Öcalan cerca di contattare Bookchin, dopo averne letto le opere, per instaurare un dialogo funzionale a rintracciare una nuova strategia curda. Il contatto non ci sarà, Bookchin di lì a poco cesserà di vivere e Öcalan comincia a meditare la riproposizione del suo municipalismo libertario sotto la dizione di confederalismo democratico, di democrazia diretta insomma7. Seppure nelle opere di Öcalan scritte in galera non appaia mai il nome di Bookchin, i suoi temi dell’ecologia sociale, dell’autogoverno territoriale, dell’orizzontalità dei processi decisionali, della partecipazione cittadina al di là di ogni divisione etnica o di appartenenza nazionale, della rotazione delle cariche (e addirittura della condivisione di genere alle cariche ufficiali) 8, vengono ripresi a piene mani, nel tentativo di 15

offrire una soluzione alla causa curda al di qua del nazionalismo indipendentista, il cui conflitto è risultato perdente e sconfitto nei fatti, ma anche al di là dell’accettazione di fatto (non di principio) della frammentazione dei curdi tra diverse cittadinanze spurie (turche, armene, irachene, iraniane, siriane), proprio grazie alla proposta di autogoverno che, complice la guerra e l’allentamento della pressione statale in Siria, sta diffondendosi nel Rojava pur in condizioni, come detto, difficili e tragiche9. In ultima analisi, il Communalism nella sua predisposizione teorica e il municipalismo libertario nella sua pratica sperimentale non costituiscono «una delle numerose tecniche pluralistiche attraverso le quali conseguire un vago e indefinito orizzonte sociale. Sono una sorta di destino dell’umanità, grazie al [loro] elemento fondamentalmente democratico e strutturalmente non-gerarchico, e per nulla una fattispecie di strumentazione politica o strategica da adottare o dismettere al fine di conquistare il potere. In realtà, il municipalismo libertario si sforza di definire i contorni istituzionali di una nuova società anche allorquando offre un messaggio pratico per una politica radicalmente innovativa adeguata ai giorni nostri»10.

Note alla Prefazione 1. Murray Bookchin, The Next Revolution. Popular Assemblies and the Promise of Direct Democracy, a cura di Debbie Bookchin e Blair Taylor, Verso, LondonNew York, 2015, in particolare p. 38. 2. Ibidem, p. 19. 3. Ibidem, p. 47. 4. Debbie Bookchin, Bookchin: l’eredità vivente di un rivoluzionario americano, intervista di Federico Venturini, 2 marzo 2015, http://zcomm.org/bookchinliving-legacy-of-an-american-revolutionary. 5. Murray Bookchin, The Next Revolution, cit., pp. 78 ss. 6. Cfr. Michael Knapp, Democratic Autonomy in Rojava, http://www.kur-

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distan-report.de/index.php/archiv/2014/174/154-ziel-ist-eine-demokratischeloesung-fuer-den-gesamten-mittleren-osten. Cfr. altresì David Graeber, Why is the world ignoring the revolutionary Kurds in Syria?, «The Guardian», 8 ottobre 2014. 7. «Thereafter, through his lawyers, he began recommending Urbanization Without Cities to all mayors in Turkish Kurdistan and Ecology of Freedom to all militants. In the spring of 2004, he had his lawyers contact Murray, which they did through an intermediary, who explained to Murray that Öcalan considered himself his student, had acquired a good understanding of his work, and was eager to make the ideas applicable to Middle Eastern societies. He asked for a dialogue with Murray and sent one of his manuscripts. It would have been amazing, had that dialogue taken place. Unfortunately Murray, at eighty-three, was too sick to accept the invitation and reluctantly, respectfully declined» (Janet Biehl, Bookchin, Öcalan, and the Dialectics of Democracy, http://new-compass.net/articles/bookchin-öcalan-and-dialectics-of-democracy). Cfr. altresì Janet Biehl, La strana coppia, «A Rivista Anarchica», lxiii, n. 381, giugno 2013. 8. «For instance, in the bdp [il partito curdo legalmente operativo in Turchia], all chairperson positions must be held by a man and a woman, and there is a 40 percent requirement for both sexes in all management boards, public parliaments, and elected councils. As ‘gender liberation’ is one of the three main principles used by the freedom movement besides ‘democracy’ and ‘ecology’, a social perspective without women’s liberation is unthinkable» (Janet Biehl, Kurdish Communalism, intervista a Ercan Ayboga, 2011, http://newcompass. net/article/kurdish-communalism). 9. Cfr. Abdullah Öcalan, Guerra e pace in Kurdistan (2008), trad. it. Iniziativa Internazionale, Roma, 2010; Democratic Confederalism, Transmedia Publ., London-Köln, 2011. 10. Murray Bookchin, The Next Revolution, cit., p. 89.

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Introduzione

Esistono due modi di intendere il termine «politica». Il primo e più convenzionale definisce la politica come un sistema di rapporti di potere gestito per lo più in modo professionale da persone in ciò specializzate, i cosiddetti «politici». Costoro prendono decisioni che riguardano direttamente o indirettamente la vita di tutti noi e amministrano tali decisioni attraverso enti governativi e burocratici. Questi «politici» e la loro «politica» sono normalmente considerati con un certo disprezzo dalla gente comune. Arrivano al potere per lo più attraverso entità dette «partiti», ossia burocrazie fortemente strutturate che proclamano di «rappresentare» il popolo, sicché una sola persona ne «rappresenta» moltissime, considerate semplici «elettori». Traducendo un vecchio termine religioso in uno banalmente politico, si dice che questi sono e diventano eletti, formando in tal senso una precisa élite gerarchica. Quantunque dicano di parlare «in nome del popolo», non sono «il popolo». Ben che vada sono i suoi rappresentanti, il che li separa dal popolo; oppure sono speculatori, esponenti 19

delle grandi imprese, delle classi padronali e delle lobby di ogni genere. Spesso sono personaggi molto pericolosi, in quanto si comportano in modo immorale, disonesto ed elitario, utilizzando i mass media, grazie a ingenti risorse finanziarie, per costruire il consenso pubblico su politiche a dir poco ripugnanti e tradendo di norma molti dei loro impegni programmatici al «servizio» del popolo. Di contro, servono solitamente quei ceti finanziariamente ben grassi grazie ai quali sperano di migliorare la propria carriera e il proprio benessere materiale. Negli Stati Uniti, ad esempio, la collusione con quei soggetti più ricchi, potenti e spregiudicati che gestiscono la vera vita economica e politica del paese – e della maggior parte del pianeta – non è mai stata così evidente come durante il Watergate. In seguito, siamo stati sommersi da un fiume di scandali, alcuni dei quali, come l’Irangate, costituiscono gravi violazioni dei precetti costituzionali e dell’agire etico. Questa forma di sistema professionistico, elitario e strumentale detto solitamente «politica» è, nei fatti, un concetto relativamente nuovo. Nasce con lo Stato-nazione alcuni secoli fa, quando monarchi assoluti quali Enrico viii in Inghilterra e Luigi xiv in Francia cominciano ad accentrare nelle proprie mani un potere enorme, creando Stati gerarchici definiti «governi» ed erigendo specifiche giurisdizioni su vasta scala definite «nazioni» a partire da giurisdizioni più decentrate quali i liberi comuni, alcune confederazioni cittadine e un certo numero di domini feudali. Prima della formazione dello Stato-nazione, la «politica» aveva un senso differente da quello odierno. Significava la gestione degli affari pubblici da parte della popolazione a livello comunitario; affari pubblici che solo dopo diventeranno dominio esclusivo di politici e burocrati. La popolazione gestiva la cosa pubblica in assemblee cittadine dirette, «faccia-a-faccia», ed eleggeva consigli che eseguivano le decisioni politiche formulate in tali 20

assemblee. Queste controllavano da vicino le funzioni operative di quei consigli, revocando i delegati il cui agire era oggetto di pubblica disapprovazione. Limitare la vita politica soltanto alle assemblee cittadine rischia, tuttavia, di ignorarne il grado di radicamento in una fertile cultura politica che includeva discussioni pubbliche quotidiane in piazze, parchi, angoli di strada, scuole, osterie, circoli, ecc. Si discuteva di politica dovunque si stesse insieme, preparandosi per le assemblee cittadine, e in effetti un simile esercizio quotidiano era estremamente vitale. Durante tale processo di autoformazione, il corpo cittadino non solo maturava un grande senso di coesione e finalità, ma consentiva anche lo sviluppo di forti personalità individuali, indispensabili per promuovere la consapevolezza e la capacità di autogestirsi. Questa cultura politica era innestata in feste civiche, celebrazioni, in una condivisione emotiva di gioia e dolore che davano a ogni località – villaggio, paese, quartiere, città che fosse – un senso di specificità e di comunanza che favoriva la singolarità dell’individuo più che la sua subordinazione alla dimensione collettiva. Una politica siffatta era organica ed ecologica, e non formale e fortemente «strutturale» (nella raffigurazione verticale del termine) come diventerà in seguito. Si trattava di un processo costante, non di un episodio delimitato come le tornate elettorali. Ogni cittadino maturava individualmente, nel corso del proprio impegno politico, grazie alla ricchezza della discussione e dell’interazione e per il senso di padronanza da queste ingenerato. Il cittadino percepiva di avere controllo sul proprio destino, di poterlo determinare, anziché essere determinato da persone e forze sulle quali non aveva alcun controllo. Tale sensazione era simbiotica: la sfera politica rafforzava quella individuale dandole un senso di padronanza, e viceversa la sfera individuale rafforzava quella politica fornendole un senso di lealtà, di responsabilità, di obbligazione. In tale processo di reciprocità, l’«io» individuale e il «noi» 21

collettivo non erano subordinati l’uno all’altro, ma l’uno sosteneva l’altro. La sfera pubblica forniva la base collettiva, il terreno per lo sviluppo di forti caratteri individuali e questi, a loro volta, si coagulavano in una sfera pubblica creativa, democratica, istituzionalizzata in maniera trasparente. Essi erano cittadini nel senso pieno del termine, cioè agenti attivi di decisione e di autogestione politica della vita comunitaria, economia compresa, e non ricettori passivi di «beni e servizi» forniti da enti locali in cambio di tasse. La comunità costituiva un’unità etica di liberi cittadini, non un’impresa municipale istituita per «contratto sociale». Queste comunità libere non si risolvevano sempre o necessariamente in unità campanilistiche, autarchiche e reciprocamente chiuse, ma sovente si collegavano per coordinare decisioni in modi cooperativi e altamente responsabili. In altri termini, si confederavano: ogni comunità inviava delegati, con mandato trasparente e vincolato, dapprima a un livello che oggi potremmo definire «territoriale», poi a uno «regionale». La storia è piena di confederazioni municipali che non hanno avuto la riflessione che meritano. Talvolta, i consigli confederali coordinavano le decisioni prese dalle assemblee locali, cui rimaneva sempre la responsabilità di formulare le politiche, mentre consigli revocabili e attentamente controllati le eseguivano in maniera strettamente tecnica. Qualora si fosse reso necessario l’apporto di esperti per alternative fondate su obiettivi deliberati da assemblee cittadine, si organizzavano comitati di consulenza che, al di fuori di ogni potere decisionale, prospettavano diverse opzioni alla riflessione, agli emendamenti e alle risoluzioni delle assemblee cittadine. Laddove fossero emerse differenze, queste si risolvevano in commissioni o in sedi arbitrali quando possibile, oppure si risolvevano con voto di maggioranza.

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Politica come statualità Oggi, quel che chiamiamo «politica» è in realtà governo dello Stato. Essa è professionismo, non controllo popolare; monopolio del potere da parte di pochi, non potere dei molti; delega a un gruppo «eletto», non processo democratico diretto che comprenda il popolo nella sua totalità; rappresentazione, non partecipazione. Oggi, la «politica» è una cruda tecnica strumentale per mobilitare elettori al fine di ottenere obiettivi pre-selezionati, non mezzo per istruire la popolazione alla cittadinanza, con i suoi ideali di autogestione civica, oppure per formare forti personalità. I politici trattano la gente da elettorato passivo il cui compito politico è quello di votare ritualmente per candidati di scelta partitica, non per delegati il cui unico mandato è di gestire le politiche formulate e deliberate dai cittadini. I professionisti della gestione statuale vogliono obbedienza, non impegno, distorcendone persino il significato fino a ridurlo a un atteggiamento di pura passività, da spettatore, nel quale il singolo è smarrito nella massa e le masse stesse sono frammentate in atomi isolati, frustrati e impotenti. Come detto, questa configurazione della politica è un dato relativamente recente, emerso in Europa nel sedicesimo secolo e introdottosi successivamente nella coscienza popolare. Nel diciannovesimo secolo, tuttavia, non era ancora una nozione comunemente accettata; al contrario, in Francia, Germania, Spagna, Italia e, in maniera significativa, negli Stati Uniti, lo Statonazione ha dovuto impegnarsi a fondo per affermare la propria autorità su localismi e regionalismi. Tali sforzi hanno incontrato diversi livelli di resistenza popolare. Negli Stati Uniti, l’autorità dello Stato-nazione è forse meno perfetta che nella maggior parte degli Stati europei. Due secoli fa, la Rivoluzione americana (mi riferisco agli Articoli della Confederazione) diede enormi poteri – all’inizio tutti – alle aree regionali o persino locali e ai tredici Stati originari, le cui politiche sovente favorirono i ceti poveri ur23

bani e rurali rispetto ai ceti ricchi e la cui difesa si fondava sulle milizie cittadine e non su un esercito professionale. Il peso che Marx e i marxisti di ogni risma hanno dato al ruolo «progressista» dello Stato-nazione, sebbene comprensibile nel contesto delle lotte popolari del diciannovesimo secolo contro i residui di feudalesimo, si sono rivelate a posteriori una rovina per la quale siamo ancora oggi penalizzati. Non solo il socialismo marxiano ha dato il massimo sostegno all’autorità centrale dello Stato – e il leninismo è fondamentalmente un’eco dell’ammirazione entusiasta di Marx verso i giacobini della Rivoluzione francese, che vanificarono completamente l’iniziativa del movimento popolare e l’immaginario di una «Comune delle comuni» decentrata e confederale – ma ha anche proposto la nazionalizzazione della proprietà come l’unica alternativa alle forme capitaliste di proprietà privata. L’insuccesso del socialismo marxiano a radicarsi negli Stati Uniti è, ad esempio, motivato in misura non indifferente dal fatto che la tradizione populista americana, per quanto confusa, è sempre stata impregnata dall’idea di autonomia locale in acuta contrapposizione con l’invadente potere statale. Questa tradizione continua a esaltare il diritto dell’individuo ad affermare se stesso di fronte all’autorità, l’auspicio per un certo grado di autosufficienza, le rivendicazioni opposte dalla comunità contro lo strapotere del grande capitale, in breve i diritti «inalienabili» degli esseri umani «alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità», espressione significativa proprio per l’assenza di qualsiasi riferimento alla proprietà, ben evidenziata invece in altre dichiarazioni rivoluzionarie del diciottesimo secolo, come la Dichiarazione francese dei Diritti dell’Uomo. Aver permesso a cinici reazionari e a portavoce delle grandi imprese di vanificare queste concezioni fondamentalmente libertarie, distorcendone e alterandone il senso per i propri fini, rappresenta il fallimento più clamoroso della sinistra americana. La sinistra non solo ha consentito ai reazionari e agli interessi 24

imprenditoriali di divenire la voce capziosa di tali ideali, ma ha consentito altresì che questa idea di libertà individuale venisse utilizzata per giustificare l’egoismo più gretto; che la ricerca della felicità fosse usata per giustificare la cupidigia; e persino che l’accentuazione posta dagli americani sull’autonomia locale e regionale fosse usata per giustificare il campanilismo, l’isolazionismo e il provincialismo, sovente a danno di minoranze etniche e sottoculture cosiddette devianti. Quanti lavorano per una radicale ricostruzione della società in forma razionale, ecologica e comunitaria si trovano pertanto sospesi tra alternative ugualmente insoddisfacenti: tra un concetto screditato di economia nazionalizzata e un sistema famelico di proprietà privata; tra un gretto provincialismo locale e regionale e un crescente centralismo statale e imprenditoriale; tra un desiderio diffuso di comunità, che facilmente si presta a discriminazioni etniche o sottoculturali, e una spinta verso istituzioni autoritarie che minacciano le nostre più elementari libertà civili, fittiziamente in nome della loro protezione. In una simile situazione, che vorrebbe imporre scelte aspramente conflittuali, non sorprende veder emergere le ideologie sincretiche più ingenue come il «socialismo di mercato», o una «democrazia elettronica» in cui la gente si esprimerà tramite referendum sui temi principali ricorrendo alla televisione e a tecniche informatiche di voto, o ancora uno «Stato minimo» per coordinare un’economia apparentemente complessa. Lascerò l’impersonalità della televisione e della politica elettronica ai Ross Perot, ai situazionisti (che proposero effettivamente tale modello al culmine del loro successo) e a una miscellanea piuttosto incauta di socialisti libertari che hanno proposto questa o quella versione di democrazia informatica per gestire l’economia e la vita politica. Quel che tale interpretazione strettamente strumentale della politica elude è il fatto che un’autentica cittadinanza, come ho indicato prima, si fonda su una cultura politica vissuta, vale a dire su una formazione del carattere, 25

un’etica e una razionalità che possono essere conseguite soltanto grazie a un’interazione profonda tra individuo e comunità, e su una concezione della politica come veicolo per acquisire saggezza grazie alla discussione della cosa pubblica. Molti secoli fa, gli Ateniesi la definirono paideia, pratica perenne per acquisire saggezza e formare il carattere totalmente estranea alla mera capacità di registrare le proprie opinioni con mezzi elettronici o alla passività che consente a un programma televisivo di registrare opinioni contrapposte. Altrettanto inquietante è il mito di alcuni settori radicali convinti che un’economia mercantile possa conciliarsi con una comunità di tipo socialista o che uno Stato, una volta istituito, possa ridursi a dimensioni «minime». Il rapporto acquirentevenditore che forma le basi di ogni economia di mercato è per definizione antagonistico. Lo si esprime meglio con la parola «affari», laddove l’acquirente cerca di ricavare quanto più possibile dal venditore e viceversa. Un’economia strutturata sul mercato si scontra con l’elemento più rilevante dell’etica comunitaria: la condivisione. La gran massima «da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni» stride radicalmente con il concetto mercantile «acquista a poco, vendi a caro prezzo». Persino il sistema medievale delle gilde, puntellato sui precetti cristiani di carità, amore e altruismo, si è alla fine e spesso rapidamente disintegrato in una feroce competizione capitalista, oppure ha assunto quella forma di gilda ristretta in cui i genitori trasmettevano l’accesso alla gilda ai figli, con il risultato di ridurre migliaia di apprendisti e di operai a meri proletari impoveriti. Se non riusciremo a instaurare un rapporto complementare fondato su un profondo senso di mutuo sostegno – all’interno delle nostre comunità, tra le comunità e con il mondo della natura – ci toccherà rivivere il tempo in cui il mercato usurpò regolarmente i limiti posti dalle gilde e dai precetti cristiani dando vita a un rapace sistema capitalista in grado di minacciare l’integrità stessa della vita sociale e la sua matrice naturale. 26

Non meno inquietante delle recenti teorie sul «socialismo di mercato» è l’ingenua convinzione secondo la quale uno Stato minimo può restare tale. Se la storia ha dimostrato qualcosa (in particolare negli ultimi anni), è che lo Stato, lungi dall’essere solo uno strumento dell’élite dominante, diviene esso stesso un organismo autonomo che prolifera inesorabile come un cancro. In tal senso, la critica anarchica ha dimostrato una preveggenza che svela la fragilità del classico sostegno socialista allo Stato proletario, socialdemocratico o minimo che sia. Creare lo Stato significa istituzionalizzare il potere sotto forma di una macchina che funziona separatamente dalla popolazione. La professionalizzazione del governo e della politica, la formazione di un interesse specifico (quello di burocrati, deputati, commissari, legislatori, militari, poliziotti, ad nauseam), per quanto debole o in buona fede possa essere stato all’inizio con il tempo si è arreso alla corruzione del potere. Quando mai nel corso della storia si sono dissolti gli Stati, inclusi quelli «minimi»? Quando mai si è riusciti a comprimere la loro espansione in grandi tumori? Quando mai sono rimasti «minimi»? Il progressivo sfaldamento dei verdi tedeschi – il «partito non partito» che dopo aver ottenuto una rappresentanza in parlamento si è trasformato in una cruda macchina politica – costituisce la drammatica evidenza del fatto che il potere si vendica corrompendo. Gli idealisti che hanno contribuito a fondare quell’organizzazione e che pensavano di usare il Bundestag solamente come una «tribuna» per il loro messaggio radicale, hanno oggi abbandonato disgustati il partito oppure sono diventati squallidi esemplari di un fulgido carrierismo politico. Bisognerebbe essere completamente tonti o assolutamente ciechi di fronte alle lezioni della storia per ignorare il fatto che lo Stato, «minimo» o meno che sia, ingurgita e poi digerisce anche le critiche meglio intenzionate una volta che accedono al suo interno. Non sono certo i filo-statuali a usare lo Stato per abolirlo o renderlo «minimo» nei suoi effetti; piuttosto, è 27

lo Stato che corrompe anche gli anti-statuali più idealisti che flirtano con esso.

L’alternativa del municipalismo libertario Le pagine che seguono cercano di sviluppare un’alternativa innanzi tutto alla statualità, al nazionalismo e alla nazionalizzazione in tutte le sue diverse incarnazioni; poi alla dissoluzione della comunità e allo smarrimento del senso di cittadinanza; e contemporaneamente anche alle loro controparti fittiziamente radicali quali un anti-elettoralismo semplicistico, spesso frainteso come anti-parlamentarismo, le teorie sullo Stato minimo e il socialismo di mercato. Cominciamo con il chiarire tutta una serie di prese di posizione. Primo: la prospettiva municipalista libertaria di trasformare villaggi, paesi, quartieri e città in una nuova sfera politica sta in contrapposizione con lo Stato-nazione e non è affatto un suo partner supplementare o parallelo. Il fatto che una confederazione di municipalità libertarie possa auspicabilmente svilupparsi da una politica partecipativa a livello locale non significa che coesisterà con lo Stato-nazione. Al contrario, è necessario considerarli reciprocamente incompatibili. Infatti, ogni tentativo da parte di membri delle municipalità libertarie di candidarsi a cariche statali al di sopra della municipalità (idea già proposta) è fatua o deliberatamente regressiva. Per quanto buone possano essere le intenzioni, i candidati smorzerebbero la tensione tra confederazioni municipali e Stato legittimando lo Stato; e questo anche nel caso volessero usare la sfera apparentemente più vasta fornita dalla politica statuale all’unico scopo di propagandare un messaggio libertario. In realtà, l’unico genere di propaganda radicale che abbia senso ed efficacia, da un punto di vista municipalista libertario, è la relazione interpersonale, le intense interrelazioni comuni28

tarie consentite dall’immediata discussione locale. All’interno dell’orizzonte apparentemente più vasto della politica statuale, la propaganda tende a divenire impersonale nella migliore delle ipotesi, strumentale nella peggiore. Il suo scopo – fondamentalmente una forma di mobilitazione di massa – è quello di ridurre i cittadini a elettori, di convincerli a essere elettori e non individui in grado di formare un nuovo corpo politico, in senso sia fisico che metaforico. Secondo: il municipalismo libertario non è né uno stratagemma propagandistico, né una «strategia» o una «tattica». L’intenzione è che diventi la forma assunta da una società razionale ed ecologica, quella «Comune delle comuni» vagheggiata dalla politica radicale lungo i due ultimi secoli. È quindi la combinazione di finalità storiche con una prassi vissuta e si prefigura non solo come la forma di una società futura, ma come il suo stesso contenuto e i percorsi necessari per conseguirlo. Terzo: il municipalismo libertario è strettamente correlato all’obiettivo della municipalizzazione dell’economia, non della sua nazionalizzazione o privatizzazione. Con ciò intendo: l’acquisizione dei mezzi di sussistenza da parte della comunità, il controllo della vita economica da parte dell’assemblea cittadina e l’integrazione di aziende, esercizi commerciali, terreni, ecc. controllati dalle comunità secondo criteri confederali. Nella misura in cui i lavoratori di ogni settore economico si riuniscono per affrontare insieme i problemi della comunità, compresi quelli economici, essi cessano di essere lavoratori per agire in quanto cittadini. Indubbiamente porteranno la loro esperienza professionale nelle discussioni sulle produzioni da fare, sulle risorse da usare, sulla possibilità, laddove praticabile, della rotazione del lavoro o della sua diversificazione nella medesima giornata lavorativa (in base alla raffigurazione di Fourier sulla «giornata lavorativa» auspicabile). Tuttavia, pur impegnandosi in queste prospezioni economiche, essi rimangono cittadini, non lavoratori. Anzi, è aspettativa generale che legittimino il loro status di 29

cittadini ponendo i bisogni collettivi della comunità al di sopra degli interessi particolaristici che emergono facilmente se si parte dal posto di lavoro. Quest’ultimo può perpetuare altrettanto facilmente la loro esistenza in quanto meri lavoratori, con interessi specifici conflittuali con quelli generali, in nome della «democrazia operaia», del «controllo operaio» e, spesso, di una forma di «capitalismo collettivo» orientato al mercato. La democrazia si realizza nella comunità, non sul posto di lavoro, che costituisce un segmento limitato della vita, spesso più prossimo alla sfera della necessità (pur se resa più piacevole, creativa e attraente) che non alla sfera della libertà. Quarto: obiettivo del municipalismo libertario è quello di contribuire a formare cittadini, o più genericamente esseri umani, e non proletari, professionisti, esperti e così via. Uno degli scopi principali è quello di rendere universale la condizione umana, non di particolarizzarla e provincializzarla. La diversità culturale è senza dubbio estremamente auspicabile, ma la sua valenza non risiede unicamente nella soddisfazione personale, ma in una più ricca totalità sociale prodotta. La politica dell’identità che fiorisce oggi sotto il capitalismo tende facilmente a una qualche forma di xenofobia, di razzismo, di sessismo e alimenta un «amore del localismo» con venature mistiche che sfiora il provincialismo più gretto. Una cultura politica è una cultura condivisa; è una cultura più ricca delle altre in quanto integra culture diverse rette da un’etica della complementarietà, della mutualità, del completamento, del rispetto e del riconoscimento reciproco. Quinto: il confederalismo poggia in parte sull’impossibilità di una piena auto-sufficienza nell’economia moderna, seppure ricondotta a scala umana, e in parte sul bisogno di interdipendenza culturale se le comunità intendono prevenire particolarismo e provincialismo. Una confederazione è innanzi tutto una struttura amministrativa che si regge sulle politiche espresse dalle assemblee cittadine delle comunità che la costituiscono. Il vero potere resta quindi sempre nelle strutture di base, diminuendo 30

man mano che le confederazioni si uniscono in regioni confederali sempre più estese. Il potere, infatti, transita dal basso verso l’alto per gradi sempre più ristretti, assumendo caratteri di gestione amministrativa più che di decisionalità politica. Tutti i principi qui delineati vanno assunti nella loro totalità, formando così una costellazione politica che intende trasformare radicalmente la condizione umana a livello emotivo e intellettivo, spirituale e fisico, personale e istituzionale. Essi costituiscono non solo una nuova politica ma una nuova etica; e invero l’una senza l’altra sono insignificanti. Se quindi si separasse uno di questi principi dagli altri, si frantumerebbe l’intero quadro e un segmento isolato potrebbe facilmente assumere una versione reazionaria, come si rivela drammaticamente nel repertorio ideologico xenofobo e anti-collettivista espresso da pseudo-federalisti e pseudo-regionalisti di vario genere.

Democrazia diretta ed ecologia Poche argomentazioni sono state avanzate in maniera efficace contro l’ipotesi di una democrazia diretta partecipativa quanto l’affermazione secondo cui viviamo in una «società complessa». I moderni centri abitativi – si obbietta – sono troppo grandi e troppo concentrati per permettere processi decisionali diretti a livello di base. E la nostra economia è troppo «globale» per dipanare la complessità della produzione e del commercio. Nell’attuale sistema sociale trans-nazionale, spesso fortemente centralizzato, è più opportuno – si suggerisce – intensificare la rappresentanza nello Stato e accrescere l’efficienza degli enti burocratici, piuttosto che proporre utopici progetti «localistici» di controllo popolare della vita economica e politica. Dopotutto – ribadiscono spesso queste argomentazioni – i centralisti sono in realtà tutti dei «localisti» nel senso che credono in un «maggior potere della gente», o per essere più precisi dei 31

suoi rappresentanti. Dando ovviamente per scontato che un buon rappresentante sia sempre pronto a cogliere i desideri dei rappresentati (per dirla con un’altra arrogante definizione di cittadino). E la democrazia diretta? Rinunciate al sogno che nel «complesso» mondo moderno ci possa essere un’alternativa democratica allo Stato-nazione! Molte persone pragmatiche, socialisti compresi, liquidano spesso con argomenti di questo genere un «localismo dell’altro mondo», ricorrendo nella migliore delle ipotesi a una cortesia affettata, nella peggiore all’aperta derisione. La presunzione che ciò che esiste debba necessariamente esistere è l’acido corrosivo di ogni pensiero immaginativo. Senza dubbio dovremo importare caffè per coloro che hanno bisogno della loro dose mattutina, oppure metalli esotici per coloro che vogliono merci più durevoli dei rottami prodotti da un’economia consapevolmente fondata sull’usa-e-getta. Ma al di là dell’assurda irrazionalità di decine di milioni di persone ammassate in centri urbani congestionati, deve necessariamente esistere, per soddisfare i bisogni umani, l’attuale spropositata divisione internazionale del lavoro? O magari esiste solo per procurare enormi profitti alle imprese multinazionali? Dobbiamo ignorare gli effetti ecologici dovuti al saccheggio delle risorse del Terzo Mondo, o la follia di una vita economica che dipende dalle aree ricche di petrolio, i cui prodotti finali comprendono anche aria inquinata ed elementi cancerogeni? Ignorare il fatto che l’attuale economia «globale» è il risultato di fiorenti burocrazie industriali e di un’economia competitiva di mercato del tipo «crescere o soccombere» costituisce un’incredibile miopia. È proprio a partire da ragioni ecologiche profonde che si arriva all’auspicabilità di una relativa auto-sufficienza. Molti ambientalisti sono consapevoli che una massiccia divisione nazionale e internazionale del lavoro è estremamente dispendiosa, nel senso letterale del termine. Non solo l’eccessiva divisione del lavoro provoca una sovra-organizzazione sotto forma di enormi burocrazie e immensi sperperi di risorse dovuti al trasporto di ma32

teriali su grandi distanze, ma essa riduce anche le possibilità di riciclare in modo efficace i rifiuti, di prevenire l’inquinamento causato da centri abitativi e industriali fortemente concentrati e di fare un corretto uso di materie prime locali e regionali. All’opposto, non si può trascurare il fatto che comunità relativamente auto-sufficienti, in cui artigianato, agricoltura e industria siano funzionali a reti comunitarie confederate, possono offrire maggiori opportunità e incentivi agli individui, formando al contempo personalità più forti. L’opportunità per l’individuo di dedicare la propria attività produttiva a molti compiti diversi lungo l’arco di una settimana lavorativa, o addirittura lungo l’arco di una giornata, è considerato un fattore vitale per superare la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, per trascendere le differenze di status create dalla divisione del lavoro, e per accrescere il proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze grazie al passaggio fra un settore produttivo e l’altro. L’auto-sufficienza potrebbe quindi costruire un sé più ricco, irrobustito da esperienze, capacità e sicurezze diversificate. Purtroppo, questo immaginario oggi è stato abbandonato da molti ecologisti e dalla stessa sinistra, pericolosamente slittata verso un liberalismo pragmatico e verso la drammatica elisione della propria tradizione utopica.

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capitolo primo

Il senso della politica

Contro la confusione tra politica e Stato Quando i cacciatori-raccoglitori nomadi cominciarono a stabilizzarsi in villaggi, introdussero innovazioni radicali che andarono ben oltre il passaggio dalla raccolta alla coltivazione degli alimenti. Dove i villaggi divennero paesi, gli esseri umani iniziarono a spogliarsi del carattere tribale per formare quelle istituzioni civiche che noi associamo alla «civiltà». Il legame di sangue, la divisione funzionale tra maschi e femmine e tra gruppi di status fondati sull’età costituivano il nerbo delle tribù, che lentamente vennero assorbite in una forma sociale totalmente innovativa: la città. Quest’ultima veniva strutturata principalmente sulla residenza, sulla divisione professionale del lavoro e su una varietà di ordini e classi, alcuni dei quali uniti da interessi economici, altri dal potere e dal prestigio. Fatti biologici quali il sangue, il sesso e l’età cominciarono lentamente a inglobarsi in fatti sociali quali la prossimità, la professione, la ricchezza e il privilegio. Attorno a questa profonda trasformazione storica, comincia34

rono a emergere nuovi modi di ordinare la vita. La sfera biologica della vita, apparentemente «naturale» nelle proprie origini, diventò quel che normalmente consideriamo il «sociale»: la sfera in cui gli essere umani si associano per soddisfare i bisogni materiali, per riprodursi come per produrre, per «legarsi» reciprocamente come individui e come gruppi familiari, per socializzare in un ampio ventaglio di associazioni personali e livelli di intimità. Il paese, la città e persino il villaggio hanno offerto una sfera politica di esistenza al cui interno gli individui si legavano reciprocamente in quanto cittadini per gestire le comunità e occuparsi della cosa pubblica. Beninteso, sino a tempi relativamente recenti la sfera biologica e la sfera politica coincidevano in maniera tanto significativa che élite politiche come le aristocrazie legittimavano la loro autorità su paesi e città con rivendicazioni fortemente tribali di lignaggio e di ordine genealogico. Sin quando l’imperatore Caracalla non rese cittadini dello Stato tutti gli uomini liberi dell’Impero romano, la cittadinanza veniva generalmente considerata un privilegio di stirpe. I diritti conferiti ai cittadini nella gestione della comunità erano segnati da diversi gradi di esclusività etnica. La professionalizzazione del potere e il monopolio della violenza che associamo allo Stato vennero molto dopo. Anzi, nella sua forma nazionale è un fenomeno relativamente recente. Lo Stato e la prassi statuale non hanno alcuna autentica base nella vita comunitaria; con ciò intendo dire che, anche recentemente, la conquista del potere da parte di un corpo di professionisti ha incontrato fortissime difficoltà a legittimarsi. Le istituzioni tribali possono essere facilmente comprese in quanto gli esseri umani sono, dopotutto, organismi naturali. Devono nutrirsi, conseguire i mezzi di sostentamento, riprodursi, vivere in sicurezza e, in rapporto alla loro evoluzione di primati, impegnarsi in qualche forma di rapporti comunitari. Ma, a differenza di altri animali, organizzano tali attività in istituzioni, rendendole operativamente sistematiche: istituzioni (auspicabilmente, almeno) 35

razionali, prevedibili e ideologicamente legittimate. Gli animali, compresi gli «insetti sociali» geneticamente programmati, non hanno istituzioni, per quanto prevedibile e abitudinario possa essere il loro comportamento; in sostanza, non hanno consapevolmente costituito modi di ordinamento sociale, rendendolo così soggetto a costanti trasformazioni storiche. È importante distinguere nella sfera umana il sociale dal politico e, ancora, il politico dallo statuale. Abbiamo fatto un terribile pasticcio confondendo i tre aspetti e quindi legittimando l’uno avendolo scambiato per l’altro. Questa confusione ha comportato effetti dirompenti che si stanno ripercuotendo sul presente e sul futuro. Abbiamo smarrito il senso di ciò che significa «soggetto politico» assegnando le correlate funzioni e prerogative ai cosiddetti «politici», cioè a un gruppo selezionato, spesso elitario, di persone che pratica una forma di manipolazione istituzionale detta governo statuale. In un momento in cui molti politici vengono considerati con un certo disprezzo, si rischia di svilire il concetto stesso di politica – un tempo dimensione partecipativa alla vita sociale e alle attività di un’intera comunità – confondendola con la funzione statuale, forma di attività specificamente orientata al potere. Si rischia altresì di perdere il senso di ciò che significa essere cittadini, uno status sempre più spesso confuso con l’essere meri elettori e contribuenti, trasformati in ricettori passivi di beni e servizi forniti da uno Stato onnipotente e da rappresentanti «eletti».

All’ inizio era la polis… È fin troppo facile pensare alla società, alla politica e allo Stato come li vediamo oggi, slegati dalla storia e congelati in forme rigide. In realtà, hanno tutti avuto uno sviluppo complesso che bisogna comprendere se si vuole aver chiaro il senso dei problemi che ne derivano per la teoria e la prassi sociale. Molto di ciò che 36

oggi chiamiamo politica non è altro che tecnica dell’organizzazione statuale e riguarda la formazione di un apparato composto da parlamentari, magistrati, burocrati, poliziotti, militari e affini; un fenomeno che si ripete a tutti i livelli, dai vertici dello Stato fino alle più piccole comunità. Perciò non ci rendiamo conto di ciò che la politica era un tempo. Il termine «politica», che deriva dal greco, si riferiva a un pubblico consesso di cittadini consapevoli e capaci di gestire autonomamente le proprie comunità o polis. La società, per contro, era un ambito relativamente privato che riguardava i legami familiari, le amicizie, l’auto-sostentamento, la produzione e la riproduzione. Dal suo primo emergere come semplice esistenza di gruppi umani fino alle forme altamente istituzionalizzate che chiamiamo più propriamente società, la vita sociale è stata strutturata sempre sulla famiglia; oikos, economia, infatti significava poco più che gestione della famiglia. Il suo nucleo era il mondo domestico della donna, di cui era complemento il mondo civile dell’uomo. Nelle prime comunità umane, l’ambito civile esisteva per lo più in funzione di quello domestico, nel quale si svolgevano le più importanti funzioni legate alla sopravvivenza, alla cura, al sostentamento. La tribù, intesa in senso molto ampio fino a comprendere le bande e i clan, era una vera entità sociale, unita da vincoli parentali, maritali e funzionali basati sull’età e sul lavoro. Queste possenti forze centripete, ancora radicate nei fatti biologici essenziali, non solo tenevano unite le comunità dando loro un notevole senso di solidarietà interna, ma tendevano a escludere lo straniero, l’estraneo. La sua accettazione era possibile solo in virtù delle norme di ospitalità o della necessità di acquisire nuovi membri per rimpiazzare i guerrieri quando la pratica della guerra divenne sempre più importante. Gran parte della storia non è altro che la cronaca del successivo sviluppo dell’ambito civile maschile a scapito di quello sociale domestico. I maschi acquisirono un’autorità sempre maggiore per effetto delle guerre tra tribù e dei conflitti che nacquero per il controllo 37

dei territori di caccia o, cosa più importante, per la necessità delle popolazioni agricole di appropriarsi di vaste estensioni di territorio, sottraendole alle popolazioni che vivevano di caccia e che perciò ne avevano bisogno per il proprio sostentamento. Fu da questo ambito civile indifferenziato, se mi si consente di usare il termine «civile» in senso molto ampio, che emersero la politica e lo Stato. Il che non significa affermare che la politica e l’organizzazione statuale sono sempre state, fin dall’inizio, la medesima cosa. Di fatto, a onta delle radici comuni nell’ambito civile maschile, tra l’una e l’altra vi sarà a lungo un netto contrasto. I panni della storia non sono mai puliti. L’evoluzione della società dai piccoli gruppi sociali domestici fino ai sistemi autoritari altamente differenziati, gerarchici e di classe, tipici dei grandi imperi territoriali, è stata complessa e irregolare. Anche le tradizioni domestiche e familiari, cioè le tradizioni sociali, hanno avuto nella formazione degli Stati un ruolo spesso paragonabile a quello dei valori civili dei guerrieri. Le aristocrazie fondate sul lignaggio (sia femminile che maschile), tuttora esistenti, si richiamano a valori sociali che risalgono a un’epoca in cui la condizione sociale e il potere erano determinati non dalla cittadinanza o dalla ricchezza bensì dalla parentela. Gli antichi regni dispotici di Egitto e Persia, ad esempio, non erano considerati entità civili, ma domini personali e domestici dei rispettivi monarchi. Finché le famiglie meno nobili non li frantumarono in una serie di proprietà signorili o feudali, furono considerati né più né meno come le vaste residenze dei divini sovrani e delle loro famiglie. Fu la «rivoluzione urbana» dell’età del bronzo (così l’ha definita V. Gordon Childe) a rimuovere lentamente dallo Stato questi ceppi sociali o domestici arcaici, creando un nuovo terreno per la politica. La nascita delle città, che sorsero per lo più intorno a templi, fortificazioni militari, centri amministrativi e mercati interregionali, creò le basi per una nuova forma di spazio politico, più secolare e universalistica. Con il tempo, questa forma si 38

trasformò lentamente in un ambito pubblico senza precedenti. Non si può indicare come modello di questo spazio una città in particolare perché nella storia, come nella teoria sociale, non esistono forme pure. Possiamo però individuare alcune città che non furono prevalentemente sociali in senso domestico o stataliste e che diedero origine a un nuovo governo della società. Gli esempi più considerevoli sono quelli degli antichi porti dell’Ellade, delle città mercantili medievali dell’Italia e dell’Europa centrale, e anche delle moderne città di alcuni Stati-nazione di nuova formazione, come la Spagna, l’Inghilterra e la Francia, che svilupparono una propria identità e instaurarono forme di partecipazione diretta a carattere relativamente popolare. La loro natura provinciale, a volte addirittura parrocchiale, non deve indurci a sottovalutare il carattere umanistico universale che le contraddistingueva. Sarebbe meschino, oltre che anti-storico, criticare con il senno della modernità i difetti che nel corso dei millenni le città hanno condiviso con l’evoluzione della civiltà in quanto tale. Ciò che importa è che queste città abbiano creato, in maggiore o minore misura, un ambito radicalmente nuovo di natura politica, fondato su forme limitate, ma spesso partecipative, di democrazia e su un nuovo tipo di personalità civica, il cittadino.

La città come sfera politica Etimologicamente parlando, «politica» significava gestione della comunità (ovvero polis) da parte dei suoi membri e creazione di uno spazio pubblico nel quale i cittadini potessero riunirsi, come l’agorà delle democrazie greche, il forum della Repubblica romana, il centro cittadino del comune medievale, la piazza della città rinascimentale. Ma «politica» significava anche riconoscimento dei diritti civili agli stranieri non legati alla popolazione da vincoli di sangue, secondo un’idea di humanitas universale 39

non ristretta a un concetto puramente genealogico di «gente». Oltre che da queste fondamentali caratteristiche umane, la politica era caratterizzata da una crescente secolarizzazione delle attività sociali, da un nuovo rispetto per l’individuo e da una sempre più spiccata tendenza verso comportamenti razionali, contrapposti agli imperativi irrazionali delle consuetudini tradizionali. Con questo non voglio dire che la nascita della città e della politica abbia cancellato i privilegi, le disparità di diritti, le credenze soprannaturali, la fedeltà alle usanze tradizionali o la diffidenza verso lo straniero. Anche nelle fasi più radicali e democratiche della Rivoluzione francese, ad esempio, Parigi visse nel terrore delle cospirazioni straniere e considerò con xenofoba diffidenza tutti quelli che venivano «da fuori». E le donne non condivisero mai pienamente le libertà di cui godevano gli uomini. Quello che mi preme sottolineare, tuttavia, è che la città creò qualcosa di assolutamente nuovo, che non può restare nascosto e ignorato nelle pieghe della società e dello Stato: creò, appunto, un ambito politico. Questo ambito si restrinse e si ampliò nel corso dei secoli, ma non scomparve mai completamente dalla storia. Inoltre, si contrappose drammaticamente allo Stato quando questo cercò, in vari gradi, di professionalizzare e centralizzare il potere, che spesso era considerato un fine in sé (ad esempio nell’Egitto tolemaico, nelle monarchie assolute europee del sedicesimo secolo e nei regimi totalitari russo e cinese del ventesimo secolo). L’ambito fisico della politica ha coinciso quasi sempre con la città o, più genericamente, con la municipalità. Ma le dimensioni della città erano considerate un fattore non irrilevante. Per i Greci, e in particolare per Aristotele, la città o polis doveva avere dimensioni tali che le questioni si potessero discutere direttamente, «faccia-a-faccia», e che vi fosse un certo grado di familiarità tra tutti i cittadini. Questi requisiti, che non erano fissi né inviolabili, servivano a indirizzare lo sviluppo urbano in un senso radicalmente diverso da quello del nascente statalismo. Una polis di dimensioni modeste, ma non piccole, poteva essere organizza40

ta istituzionalmente in modo tale che le questioni civiche fossero gestibili da uomini capaci, impegnati nella cosa pubblica, con un mandato rappresentativo limitato e strettamente controllato. Per dedicarsi all’attività politica bisognava disporre di mezzi materiali adeguati e occorreva una certa quantità di tempo libero, di cui alcuni potevano disporre – così supponiamo oggi – grazie al lavoro degli schiavi (e tuttavia non è vero che tutti i cittadini greci politicamente attivi fossero proprietari di schiavi). Ma ancora più importante del tempo libero era la formazione del carattere e dell’intelletto, che dava ai cittadini quella dignità senza la quale non può esistere un’assemblea popolare che si rispetti. Per superare gli impulsi gretti ed egoistici e consentire lo sviluppo del concetto di interesse generale, si doveva affermare una rete complessa di rapporti che andavano dall’amicizia – il concetto greco di philia – alla condivisione di esperienze durante le feste civiche e il servizio militare. L’era moderna si caratterizza con l’urbanizzazione, nefasta perversione della civificazione [traduco così il neologismo bookchiniano citification – N.d.T.], che minaccia di inghiottire città e campagna e di rendere quasi inintelleggibile la loro dialettica storica. La confusione tra urbanizzazione e civificazione è oggi altrettanto oscurantista di quella tra società e Stato, collettivizzazione e nazionalizzazione, politica e parlamentarismo. L’urbs era, nel linguaggio romano, il fatto fisico della città, i suoi edifici, le sue piazze, le sue strade; cosa ben diversa dalla civitas, cioè l’insieme dei cittadini, il «corpo politico». Il fatto che le due parole non fossero intercambiabili sino all’epoca tardo-imperiale, quando declinò il concetto stesso di cittadinanza, ci parla di un fenomeno estremamente importante e illuminante. I Gracchi cercarono di trasformare l’urbs in una civitas, di ricreare l’ecclesia ateniese a spese del senato romano. Fallirono e l’urbs divorò la civitas sotto forma di impero. Presumibilmente, i cittadini-agricoltori che costituivano la spina dorsale della repubblica avrebbero potuto trasformarla in una democrazia, ma una volta «scesi dai sette 41

colli» su cui era stata fondata Roma divennero «piccoli», per dirla con Heine. L’«idea di Roma» come retaggio etico andò calando in proporzione diretta con la crescita della città: «Più diventava grande Roma, più questa idea si dilatava e l’individuo vi si perse: i grandi uomini che restano eminenti nascono da questa idea e ciò accentua maggiormente la piccolezza dei piccoli uomini». C’è, in queste parole, non solo una lezione sui pericoli della gerarchia e della «grandezza», ma anche un’intuitiva percezione della differenza tra urbanizzazione e civificazione: la crescita dell’urbs avviene a spese della civitas. Ma ecco che sorge una nuova domanda: la civitas ha un senso se, letteralmente, non si incarna? Rousseau ci rammenta che «le case fanno un agglomerato urbano [ville, in francese], ma solo i cittadini fanno una città [cité]». Concepiti meramente come elettori o come contribuenti – termini che sono quasi un eufemismo per sudditi – gli abitanti dell’urbs sono diventati astrazioni e perciò mere «creature dello Stato», per usare l’espressione giuridica americana utilizzata per designare lo status legale di un’entità municipale. Un popolo la cui sola funzione «politica» è quella di eleggere dei delegati non è affatto un popolo: è una «massa», un agglomerato di monadi. La politica intesa come categoria diversa dal sociale e dallo statuale implica la reincarnazione delle masse in un sistema ampiamente articolato di assemblee e la formazione di un corpo politico in uno spazio politico fatto di «discorso», cioè di comune razionalità, di libera espressione, di procedure decisionali radicalmente democratiche. Si tratta di un processo interattivo e auto-formativo. Si può ben concordare con Marx che gli uomini si formano come produttori di oggetti materiali; con Fichte, come individui eticamente motivati; con Aristotele, come abitanti di una polis; con Bakunin, come cercatori di libertà. Ma senza autogestione in tutte queste sfere della vita – economica, etica, politica, libertaria – viene drammaticamente a mancare quella formazione del carattere che trasforma gli uomini da oggetti passivi in soggetti attivi. L’io 42

è una funzione del «gestire», o meglio del «comunizzare», tanto quanto il gestire è una funzione dell’io. Entrambi fanno parte di quel processo formativo che i tedeschi chiamano bildung e i greci paideia. Lo spazio civico – polis, città o quartiere – è la culla in cui l’uomo si civilizza (letteralmente!) al di là del processo di socializzazione in seno alla famiglia. Civilizzare, in questo senso, è sinonimo di politicizzare, di trasformare una massa in un corpo politico deliberante, razionale, etico. La realizzazione di questo concetto di civitas presuppone esseri umani che si aggreghino ma non come monadi isolate, che comunichino direttamente con modalità espressive che vanno «oltre le parole», che dibattano razionalmente in maniera diretta, «faccia-a-faccia», e giungano pacificamente a una comunanza di opinioni tale da rendere possibili le decisioni e coerente con i principi democratici la loro applicazione. Formando e facendo funzionare tali assemblee, i cittadini formano anche se stessi, perché la politica non è nulla se non è educativa, se la sua apertura innovativa non promuove la formazione del carattere.

Lo Stato-nazione parassita L’uso frequente che ho fatto di termini greci non deve però ingenerare l’idea che la politica sia stata un fenomeno esclusivamente ellenico. Analoghi bisogni si manifestarono e ispirarono soluzioni diverse anche nelle città libere dell’Europa e del New England fino a un’epoca relativamente recente. Quasi tutte queste città crearono politiche che conservarono a lungo caratteri più o meno democratici e che ebbero ripercussioni non soltanto nel bacino del Mediterraneo, ma anche nell’Europa continentale, in Inghilterra e nel Nord America. Profondamente ostili agli Stati centralizzati, le città libere e le loro federazioni furono fattori storici estremamente importanti e di fatto rappresentarono l’effettiva possibilità di decidere se istituire società fondate su confederazioni municipali o su Stati-nazione. 43

Da un punto di vista ideologico, si tende a giustificare il degrado storico del nostro status di soggetti politici invocando la «nazione» come unità elementare della vita sociale, entità che ha essa stessa origini molto recenti. Il fatto che le nazioni siano composte di villaggi, paesi e città, dai quali dipende in ultima analisi il nostro benessere, la nostra cultura e la nostra sicurezza, è andato via via eludendosi, scivolando fuori dalla nostra coscienza. È un grande contributo di Jane Jacobs aver dimostrato in modo così stringente come il nostro benessere economico dipenda dalle città, non dagli Stati-nazione. Una lettura accorta della storia ha dimostrato non solo che lo Stato – e nella nostra epoca lo Stato-nazione – è la sede di attori e istituzioni che hanno vanificato la politica, ma ha mostrato altresì che attori e istituzioni statali hanno svilito l’individuo nel suo essere pubblico, nel suo essere un cittadino che gioca un ruolo partecipativo nell’articolazione della propria comunità. In tal senso, lo Stato-nazione ha precluso lo sviluppo di ciò che è specificamente umano, depotenziando l’individuo e rendendolo corrotto e svilito. È altrettanto dimostrabile che lo Stato – di nuovo, lo Stato-nazione – è un parassita della comunità cui sottrae risorse e potenzialità, in parte per drenarne a proprio beneficio i beni materiali e spirituali, in parte per privarla costantemente di potere, anzi del legittimo diritto di forgiare il proprio destino. Nonostante le affermazioni contrarie, nulla è sembrato sfidare maggiormente lo Stato delle rivendicazioni di autogestione a livello locale e di libertà civiche. La spinta alla decentralizzazione – termine sovente abusato per ciniche finalità di governo statuale – non è semplicemente carica di valori geografici, territoriali e politici; si tratta fondamentalmente di valori spirituali e culturali che connettono la riacquisizione di potere da parte delle comunità con il rafforzamento del singolo. La libertà municipale, in definitiva, è la base della libertà politica e questa è la base della libertà individuale. 44

Il nazionalismo, come lo statalismo, è così radicato nel pensiero moderno che non si prende neppure in considerazione, nel ventaglio delle possibili forme di organizzazione della società, l’idea di una politica municipalista. Eppure, per molti secoli la città è stata la fonte principale di resistenza all’arbitrio dello Stato-nazione ritardandone l’affermazione e contrapponendo forme associative che hanno lungamente resistito all’usurpazione statale delle libertà municipali e individuali. Che l’autonomia municipale sia ancora considerata una minaccia dagli Stati-nazione è dimostrato dalle incessanti argomentazioni che le vengono opposte. Fenomeni che si presumono ormai morti e sepolti, come le comunità libere e la democrazia partecipativa, non dovrebbero allora suscitare reazioni così virulente o essere soggette a restrizioni come quelle che incontriamo ancora oggi.

La determinazione dell’ interesse pubblico In ultima analisi, il problema che si pone è se vi sia spazio per una sfera pubblica radicale al di fuori delle comuni, delle cooperative e delle organizzazioni di quartiere promosse dalla controcultura degli anni Sessanta (strutture, vorrei aggiungere, che hanno mostrato la duplice tendenza a degenerare in imprese commerciali o a scomparire rapidamente). Esiste un ambito pubblico nel quale possano interagire le forze conflittuali che lottano per cambiare, insomma le forze conflittuali che hanno un atteggiamento critico verso i modi di vita attuali? Il concetto stesso di ambito pubblico contrasta nettamente con il tradizionale concetto di ambito di classe proprio del pensiero radicale. Il marxismo, in particolare, ha sempre negato l’esistenza di un «pubblico» apparentemente indefinibile, cioè di quello che due secoli or sono, nell’era delle rivoluzioni democratiche, si chiamava «popolo». Si riteneva che i concetti di «pubblico» e di «popolo» servissero a occultare gli specifici 45

interessi di classe che avrebbero dovuto innescare il conflitto tra borghesia e proletariato. Secondo i teorici marxisti, il popolo non era altro che una piccola borghesia sbiadita, informe, indefinibile, un retaggio del passato e di passate rivoluzioni, dalla quale ci si poteva solo aspettare che si schierasse con la classe capitalista, nella quale aspirava a entrare, oppure con la classe lavoratrice, nella quale sarebbe stata costretta a entrare. Perciò il proletariato, una volta acquisita una coscienza di classe e inglobata questa classe media amorfa, avrebbe finito per esprimere gli interessi generali dell’umanità, soprattutto se ciò fosse avvenuto in coincidenza con una crisi globale o «cronica» del capitalismo. Gli anni Trenta, con le ondate di scioperi, le insurrezioni operaie, gli scontri per le strade tra rivoluzionari e fascisti e le prospettive di guerra e di sanguinose sommosse sociali, sembrarono confermare questa visione. Oggi non possiamo più ignorare che questa idea tradizionale, elaborata dai radicali nella prima metà del ventesimo secolo, è stata superata dalla realtà attuale di un sistema capitalista «regolato», cioè programmato sia culturalmente e ideologicamente sia economicamente. Per quanto la qualità della vita si sia deteriorata per milioni di persone, resta il fatto senza precedenti di un capitalismo che da oltre mezzo secolo non subisce incontrollate crisi strutturali. Il proletariato industriale classico, in diminuzione nel Primo Mondo (storicamente il locus classicus della contrapposizione tra socialismo e capitalismo), sta perdendo non soltanto la propria coscienza di classe, ma anche la coscienza politica della propria unicità storica in quanto classe. I tentativi di riformulare la teoria marxista per includervi i «colletti bianchi» sono privi di senso e sono in netta contraddizione con il modo in cui questo ceto medio imborghesito, peraltro assai differenziato internamente, considera se stesso e il proprio rapporto con la società di mercato. E non vi è alcun segno che in un prossimo futuro possa verificarsi una crisi strutturale «cronica» paragonabile alla Grande 46

Depressione. Per quanto riguarda il controllo dei fattori interni, capaci di generare una crisi economica di lunga durata che possa stimolare un diffuso interesse per una società diversa, il capitalismo ha ottenuto indubbiamente risultati migliori negli ultimi cinquant’anni di quanto abbia fatto nei centocinquant’anni precedenti, cioè nel cosiddetto periodo della sua ascesa storica. Stando così le cose, è illusorio vivere nella speranza che il capitalismo possa disgregarsi dall’ interno per effetto del suo stesso contraddittorio sviluppo. Vi sono però segni drammatici che indicano nel capitalismo – organizzato intorno a un sistema di mercato fondato sulla concorrenza e sull’imperativo «crescere o soccombere» – il distruttore del mondo naturale, la causa prima che sta trasformando il suolo fertile in sabbia, che sta inquinando l’atmosfera, che sta stravolgendo l’intero sistema climatico sulla Terra tanto da mettere in pericolo l’esistenza stessa di forme complesse di vita sul pianeta. Il capitalismo sta creando le condizioni esterne per una crisi, una crisi ecologica che potrebbe suscitare un interesse generale per un cambiamento sociale radicale. Di fatto, il capitalismo sta dimostrando di essere un vero e proprio cancro ecologico, in grado di semplificare ecosistemi complessi che si sono formati nel corso di lunghe ere. Quello che bisogna piuttosto chiedersi è se una società basata su una crescita incessante e insensata, costretta competitivamente all’accumulazione e alla distruzione del mondo naturale, possa provocare problemi tali da superare trasversalmente molte differenze di tipo materiale, etnico e culturale. Se così fosse, non solo i concetti di popolo e di sfera pubblica potrebbero diventare realtà storiche vitali, ma un movimento ecologico radicale potrebbe a sua volta acquisire un significato unico, coesivo, politico, paragonabile in tutto e per tutto a quello del movimento operaio tradizionale. Se il locus del radicalismo proletario era la fabbrica, quello del movimento ecologico sarebbe la comunità: il quartiere, la città, la municipalità. 47

È allora necessario elaborare una nuova alternativa che non sia parlamentare né esclusivamente marginale o controculturale. L’azione diretta dovrebbe fondersi con una nuova politica, in una sorta di autogestione municipale fondata su una democrazia pienamente partecipativa, che di fatto è la forma più elevata di azione diretta: quella che assegna al popolo la piena facoltà di determinare il destino della società.

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capitolo secondo

La comunità municipale

Premesse storiche A questo punto, il nostro compito è di esplorare l’ambito politico della municipalità, evoluzione storica di quella rivoluzione urbana non ancora del tutto digerita dallo Stato. La rivoluzione si traduce sempre in un potere altro: il sindacato, il soviet, la Comune, tutti orientati contro lo Stato. Un’attenta disanima della storia mostra che la fabbrica, prodotto della razionalizzazione borghese, non è mai stata il luogo della rivoluzione. Gli operai più strettamente rivoluzionari – quelli spagnoli, russi, francesi e italiani – sono stati principalmente classi di transizione, cioè strati agrari tradizionali in decomposizione, sottoposti all’impatto divergente e corrosivo di una cultura industriale, che sta diventando essa stessa tradizionale. Oggi, in effetti, la lotta operaia, dove ancora c’è, è per lo più difensiva – una lotta per conservare un sistema industriale che sta per essere sostituito da una tecnologia ad alta intensità di capitale e sempre più cibernetica – e riflette gli ultimi sussulti di un’economia che va scomparendo. 49

Anche la città sta morendo, ma in senso molto diverso dalla fabbrica. La fabbrica non è mai stata il regno della libertà; piuttosto, è sempre stata quel regno della sopravvivenza, della «necessità», che svuotava ed essiccava il mondo umano attorno a sé. Alla sua nascita si oppose l’aspra resistenza degli artigiani, delle comunità agricole e in genere di tutto un mondo più comunalistico e a misura umana. Solo l’ingenuità di un Marx e di un Engels – i quali alimentarono il mito che la fabbrica serve a «disciplinare», «unire» e «organizzare» il proletariato – poteva spingere i radicali, accecati dall’idea di «socialismo scientifico», a ignorare il ruolo autoritario e gerarchico della fabbrica. Viceversa, l’abolizione della fabbrica e la sua sostituzione con un’ecotecnica, con il lavoro creativo e, sì, anche con apparati cibernetici progettati per rispondere ai bisogni umani, è auspicabile nella prospettiva di un socialismo libertario e utopico. Anzi, è un presupposto morale della libertà. La rivoluzione urbana giocò invece un ruolo ben diverso da quello della fabbrica. Come si è visto, creò l’idea di una humanitas universale e di una socializzazione di quella umanità lungo linee razionali ed etiche, rimuovendo i limiti posti allo sviluppo umano dai vincoli di parentela, dal campanilismo del mondo tribale e dall’impatto soffocante delle usanze. Il tentativo, a opera dell’urbanizzazione, di distruggere definitivamente le municipalità e la loro cultura ha segnato una grave regressione per la vita sociale, dissolvendo quella dimensione consociativa tipicamente umana che giustifica l’uso del termine «civiltà» e quel corpo politico che dà significato e identità al termine «politica». In queste circostanze, se teoria e realtà entrano in conflitto, mi pare giustificato invocare la famosa frase di György Lukács: «Tanto peggio per la realtà». La politica, degradata dai politicanti a statualità, deve essere ricondotta al suo significato originale, cioè a una forma di partecipazione e amministrazione civica che si contrappone allo Stato, estendendosi al di là di quegli aspetti pur basilari dell’interazione umana che correttamente si dicono sociali. 50

Questa prospettiva è tradizionalmente presente nell’anarchismo, che ha sempre sottolineato il bisogno di una rigenerazione morale e di una controcultura (nel senso migliore di questo termine) antagonista alla cultura dominante. Da ciò deriva l’importanza da esso attribuita all’etica, alla coerenza tra mezzi e fini e alla difesa dei diritti umani e civili contro ogni forma di oppressione e in ogni aspetto della vita. Vale la pena di ricordare che nell’anarchismo c’è sempre stata, oltre a quella sindacalista e a quella individualista, una tendenza comunalista con uno spiccato orientamento municipalista, come si può ritrovare qua e là negli scritti di Proudhon e Kropotkin. Quel che è mancato è stato un minuzioso esame del nucleo politico di questo orientamento: la distinzione di un ambito del discorso, del processo decisionale e dell’evoluzione istituzionale che non fosse né sociale né statuale. La politica civica non è e non deve essere politica parlamentare; anzi, se recuperiamo l’autentico significato storico della parola «politica» e lo ricollochiamo al suo giusto posto nel vocabolario radicale, esso risuona tutto dell’assemblea dei cittadini ateniesi e del suo erede più egualitario: l’assemblea parigina di sezione. Rivisitare queste istituzioni storiche, arricchirne il contenuto con la tradizione libertaria e farle riemergere in questo mondo ideologicamente confuso significa mettere il passato al servizio del presente in modo creativo e innovativo. E in effetti un elemento importante dell’approccio municipalista libertario è appunto la sua capacità di evocare tradizioni intensamente vissute per legittimare le sue attuali rivendicazioni; tradizioni che, per quanto frammentarie e minoritarie, tuttavia rappresentano ancora, in termini di politica partecipativa, una non indifferente sfida alla statualità: la Comune è ancora sepolta nel comune, forme confederali di associazione municipale sono ancora sepolte nelle strutture regionali di coordinamento interurbano. Recuperare il passato che può ancora vivere, rielaborandolo per renderlo idoneo a fini attuali, non significa essere prigionieri della tradizione, 51

ma riportare alla luce modi tipicamente umani di associazione in quanto legati al bisogno di comunità in quanto tale. Essi sopravvivono nel presente come speranze insoddisfatte che la gente ha sempre dentro di sé e che riaffiorano alla superficie della storia nei suoi momenti più felici di azione e liberazione. L’emergere della città, nei vari gradi del suo sviluppo, ci apre non solo il libero spazio di un civismo innovativo ben diverso dalla precedente gemeinschaft (comunità) biocentrica e chiusa nella tradizione, ma ci apre anche l’ambito del polissonomos, cioè letteralmente della gestione della polis, un termine successivamente snaturato in governo dello Stato, così come la parola polis è stata impropriamente tradotta in «Stato». Non si tratta di semplici sottigliezze etimologiche. In questo stravolgimento, infatti, si riflette una degradazione assai reale di concetti, tutti egualmente importanti, per adeguarli a fini ideologici. Come si è detto, la storia non ci presenta la categoria politica in forma «pura»: così come non ci offre alcun esempio di relazioni sociali non gerarchiche oltre il livello della banda e del villaggio, fino a epoca recente non ci ha fornito nemmeno esempi di istituzioni statali «pure». La «purezza» è un termine che può essere introdotto nel pensiero sociale solo a spese della realtà storicamente conosciuta. Tuttavia, vi sono state approssimazioni di una politica che non fosse essenzialmente sociale o statuale e si è trattato invariabilmente di esempi «cittadini». Pur se indubbiamente inquinate dai tanti tratti oppressivi che caratterizzavano le relazioni sociali nelle epoche in cui tali forme politiche ebbero luogo, queste approssimazioni – abbastanza durature in alcuni casi, effimere in altri – possono comunque fornire frammenti più o meno grandi, utili per costruire l’immagine di un ambito politico che non sia parlamentare, burocratico, centralizzato o professionalizzato. Un ambito che si può definire «civico» in quanto testimonia del ruolo essenziale avuto dalla città nel trasformare una tribù o un agglomerato monadico di individui in una cittadinanza basata su modi etici e razionali di organizzazione. 52

È d’altronde vero che si può facilmente giocare con termini come «municipalità» e «comunità», «assemblee» e «democrazia diretta», trascurando quelle differenze di classe, etnia e sesso che hanno fatto di parole come «popolo» astrazioni insignificanti se non oscurantiste. Le assemblee parigine di sezione del 1793 non si limitavano a essere conflittualmente contrapposte al Comune di Parigi e alla Convenzione Nazionale, più borghesi, ma erano esse stesse campi di battaglia tra strati proletari e strati spossessati, tra realisti e democratici, tra moderati e radicali. Nondimeno, vincolare questa conflittualità esclusivamente a interessi economici può essere altrettanto fuorviante che ignorare le differenze di classe e parlare di «fraternità», «libertà» e «uguaglianza» come se queste parole non fossero state spesso poco più che retorica. Si è scritto tanto (e giustamente) per demistificare gli slogan umanistici delle grandi rivoluzioni «borghesi», per ridurli a semplici riflessi di interessi egoistici di classe, che ora si rischia di perdere di vista anche la loro dimensione popolare utopica. Dopo tutto quello che è stato detto sui conflitti economici presenti nelle rivoluzioni inglese, americana e francese, le future storie di questi grandi drammi ci farebbero un buon servizio se svelassero la paura borghese di ogni rivoluzione, il suo innato conservatorismo e la sua propensione al compromesso con l’ordine istituito. Ci sarebbero più utili anche se evidenziassero come gli strati oppressi dell’era rivoluzionaria abbiano spinto le rivoluzioni «borghesi» oltre gli stretti confini stabiliti dalla borghesia stessa, fin dentro spazi notevoli di democrazia cui la borghesia si è sempre adattata a disagio e con sospetto. I vari «diritti» formulati da queste rivoluzioni furono conseguiti non grazie alla borghesia ma nonostante essa, e grazie invece agli agricoltori americani degli anni Settanta del diciottesimo secolo e ai sansculottes francesi degli anni Novanta di quello stesso secolo. E il futuro di questi diritti sta diventando sempre più incerto, sempre più accentrato e cibernetico. Tuttavia, proprio questo futuro e le più recenti tendenze evo53

lutive – tecnologiche, sociali e culturali – che squassano e minacciano di distruggere la tradizionale struttura di classe prodotta dalla rivoluzione industriale, suggeriscono la possibilità che, superando i particolari interessi di classe creatisi negli ultimi due secoli, emerga un interesse generale. La parola «popolo» può allora tornare nel vocabolario radicale a significare quegli strati sociali sempre più sradicati, fluidi e tecnologicamente «spiazzati» che non possono essere integrati in una società cibernetica e automatizzata. Agli strati «spiazzati» dalla tecnologia si possono aggiungere gli anziani e i giovani, cui si prospetta un incerto futuro in un mondo che non riesce più a definire i ruoli delle persone nella sua economia e nella sua cultura. Strati dunque che non rientrano più in quella elegante ma semplicistica divisione conflittuale di classe che il pensiero radicale strutturava attorno a «lavoro salariato» e «capitale». Il «popolo» può tornare anche in un altro senso: con riferimento cioè a quell’«interesse generale» che si è formato attorno a tematiche ecologiche, comunitarie, morali, culturali o di parità sessuale. Sarebbe stolto sottovalutare il ruolo cruciale di questi problemi «ideologici» apparentemente marginali. Come sottolineava Franz Borkenau oltre cinquant’anni fa, la storia del ventesimo secolo ci dice anche troppo chiaramente che il proletariato può innamorarsi più del nazionalismo che del socialismo e può essere guidato più da un interesse «patriottico» che da un interesse «di classe», come potrebbe constatare chiunque venisse oggi negli Stati Uniti. A parte l’influenza storica che hanno esercitato movimenti ideologici come il cristianesimo e l’islam – che ancora oggi testimoniano di come l’ideologia riesca a prevalere sugli interessi materiali – ci troviamo ora di fronte alla forza dell’ideologia applicata in senso socialmente progressista. E specificamente ci troviamo di fronte a ideologie ecologiche, femministe, morali e controculturali nelle quali si ritrovano elementi pacifisti e utopici di segno fortemente libertario che attendono di essere integrati in una prospettiva coerente. In altre parole, si stanno 54

sviluppando «nuovi movimenti sociali», per usare un’espressione coniata dai neomarxisti, che attraversano le tradizionali linee di classe. Da questo fermento può nascere un interesse generale più ampio per finalità, novità e creatività degli interessi particolari, economicamente orientati, del passato. Ed è da questo fermento che può emergere un «popolo» che, trascesi gli interessi particolaristici, sia in grado di dare forza e determinazione a un municipalismo libertario.

Un potere parallelo: l’assemblea cittadina Per quanto paradossale possa apparire, è proprio dal conflitto o, meglio, dalla tensione esistente tra una visione localista e una realtà nazionalista che può svilupparsi una nuova politica capace di portarci fuori dalla crisi attuale. Il potere e la centralizzazione crescenti dello Stato e del grande capitale non sono necessariamente gli araldi di un’irrimediabile vittoria sul municipalismo: potrebbero piuttosto essere il sintomo dell’acuirsi di una crisi sociale che in definitiva porti a una rivitalizzazione della politica municipalista. Non è necessario essere un utopista (termine che ha attualmente una connotazione per lo più negativa) per accorgersi che ogni impulso umano deve fare oggi i conti con un senso di esautoramento, una perdita di potere sperimentata dalla gente comune nella vita quotidiana. Lungamente imprigionate in un mondo privato dal quale società e collettività erano escluse, finalmente riemergono aspirazioni partecipative in numerosissimi individui che sentono il bisogno di una vita pubblica ricca di senso (per non dire di una vita privata ben più creativa). Proprio come è avvenuto per le tensioni che si sono accumulate nella società occidentale nel corso dei quattro secoli che hanno preceduto il capitalismo industriale, anche questo nuovo periodo di transizione che stiamo vivendo rivela l’emergere di tensioni profondamente radicate. 55

Il localismo, in effetti, non è mai stato tanto nell’aria quanto oggi, verosimilmente proprio perché il centralismo non è mai stato tanto oppressivo quanto lo è attualmente. La domanda per un maggior controllo locale e i tentativi di ridefinire cosa sia, o possa essere, la democrazia hanno dato vita a una moltitudine di comitati cittadini, associazioni, alleanze di iniziativa democratica, tutte a carattere locale e generalmente seguite da aggettivazioni (ad esempio «di base») che ben ne specificano gli intenti. I town meetings, in passato un’istituzione prettamente del New England, stanno ora diventando una parola d’ordine in regioni degli Stati Uniti che non hanno alcuna tradizione in comune con quest’area. I gruppi di azione locale hanno così invaso un ambito politico che sino a ora era stato riserva esclusiva dei partiti politici, e lo hanno fatto in modo talmente vigoroso da alterare l’intero scenario della politica cittadina. Per dirla schiettamente, oggi sembra emergere un «potere parallelo» che consente alla base della società di sfidare il potere apparentemente invulnerabile dello Stato e delle grandi imprese. Ed è proprio l’inaccessibilità mostrata dai vertici statali e imprenditoriali nei confronti di questi organismi di base che può portare a una disgregazione della configurazione stessa del potere. Il fatto che il controllo pubblico sulla cosa pubblica non sia mai apparso tanto «utopico» è proprio ciò che rende così pressante la domanda per ottenere tale controllo (e la strenua resistenza messa in campo dal potere tende a rinfocolare l’opposizione più che a tacitarla). In modo intuitivo, la gente sta cominciando a dare forma a proprie istituzioni per esprimersi nell’ambito pubblico, e lo fa con una tale ostinazione che è facile prevedere come la politica localista sia destinata a diventare una forza irrefrenabile. Oltretutto, la natura spesso effimera di molte di queste istituzioni e organizzazioni di base non va letta come un indice di insuccesso ma al contrario come un indice di persistenza. Non mi si fraintenda: non sto qui riferendomi agli eventi esplosivi che hanno caratterizzato gli anni Sessanta del vente56

simo secolo, come le rivolte nei ghetti neri o le manifestazioni contro la guerra. La politica di base di cui parlo è la politica popolare municipalista, che negli Stati Uniti sta diventando parte integrante della politica in generale. Se è vero che essa deve precisare meglio la propria coerenza e direzionalità, è altrettanto vero che essa è destinata a restare su quella scena politica che ha contribuito a modificare. Se si vuole delineare un ordine di priorità per quanto riguarda la politica municipalista, le domande più urgenti da porsi sono le seguenti: in che modo questa «informe» energia politica può perseguire una propria istituzionalizzazione? Quali strutture può costituire per contrapporsi con forza al crescente potere dello Stato e di un’economia fortemente accentrata? Quale cultura politica sarà in grado di creare per poter giocare un ruolo di trasformazione in un’era di gigantismo urbano e governativo? Che tipo di economia politica può inventare per sfuggire alle trappole di un’economia di mercato basata sulla proprietà da un lato e sullo spettro di un’economia nazionalizzata e totalitaria dall’altro? Non ritengo affatto di avere per ognuna di queste domande una risposta che possa andar bene per ogni singola municipalità; e data l’estrema varietà di quelle esistenti sarebbe quantomeno presuntuoso sostenere di poterla avere. Si possono però individuare alcune coordinate di base, inscindibili da qualsivoglia forma di libertà municipale, che rimandano a un recupero dell’idea di democrazia partecipativa e del concetto di cittadinanza nel suo senso classico. La prima e più importante di queste coordinate è la rinascita delle assemblee cittadine, sia a livello municipale nei comuni a misura umana, sia a livello di vicinato e di quartiere nelle città più estese o addirittura nelle aree metropolitane. Queste assemblee non sono affatto fenomeni storici che appartengono all’archeologia dell’urbanesimo. In tutti i periodi di sovvertimento sociale, la gente si è volta alla forma assembleare come modalità atta a marcare il proprio ingresso nella storia e a esplicitare la volontà di 57

assumere il controllo del proprio destino. Questa forma assembleare può apparirci remota, o addirittura arcaica, se risaliamo indietro sino all’antica Mesopotamia o alla Grecia classica, ma essa ci appare ben più vicina se guardiamo invece alle rivoluzioni americana e francese, e ancora più attuale se guardiamo alla Comune di Parigi del 1871 o al periodo successivo alla seconda guerra mondiale. La supremazia dell’assemblea nella formulazione della politica su qualunque organismo amministrativo è la sola garanzia della supremazia del politico sullo statuale. Questa supremazia è ancora più cruciale in una società come la nostra piena di esperti e di funzionari indispensabili per far funzionare i suoi apparati estremamente specializzati. Il problema di preservare la supremazia dell’assemblea popolare è particolarmente acuto nel periodo di transizione da una società amministrativamente accentrata a una decentrata. Una democrazia libertaria è concepibile solo se le assemblee popolari, dai quartieri urbani alle cittadine e ai paesi, mantengono la più attenta vigilanza e il più scrupoloso controllo su ogni organo confederale di coordinamento. Il che, da un punto di vista strutturale, non pone problemi: da tempo immemorabile le comunità hanno utilizzato esperti e amministratori senza perdere la propria libertà. La distruzione di queste comunità è in genere avvenuta per causa statale, non amministrativa. In passato, lo Stato non ha mai assorbito la totalità della vita ed è un fatto questo che Kropotkin ha implicitamente segnalato nel suo Il mutuo appoggio, quando descrive la vita civica riccamente intrecciata che c’era persino nei comuni oligarchici medievali. Di fatto, la città è stata in genere la principale forza di resistenza agli Stati imperiali e nazionali, dai tempi antichi fino a epoca recente. Augusto e i suoi successori fecero della soppressione dell’autonomia municipale la chiave di volta dell’amministrazione imperiale romana, e lo stesso fecero i monarchi assolutisti dell’era della Riforma. «Abbattere le mura della città» fu una 58

costante della politica di Luigi xiii e di Richelieu, politica che riemerse anche in seguito quando il robespierriano Comitato di Salute Pubblica restrinse progressivamente e implacabilmente i poteri del Comune nel 1793-94. La «rivoluzione urbana», in effetti, ha ossessionato lo Stato per gran parte della storia in quanto irreprimibile potere altro, cioè in quanto sfida potenziale al potere centralizzato. Questa tensione esiste ancora oggi, come testimoniano i conflitti tra Stato e municipalità negli Stati Uniti e in Inghilterra. Ed è qui, nel più immediato ambiente dell’individuo, dove la vita privata sfuma lentamente nella vita pubblica, che troviamo il luogo autentico per operare a livello di base (nella misura in cui l’urbanizzazione non l’ha ancora distrutto). Se e quando l’urbanizzazione cancellerà la vita della città a tal punto che questa non avrà più una sua identità, una sua cultura e suoi spazi consociativi, le basi per la democrazia – in qualunque modo si voglia definire questo termine – scompariranno e la questione delle possibili forme del mutamento sarà un gioco d’ombre, un’astrazione. Allo stesso modo, qualunque prospettiva radicale fondata sulle forme libertarie e sulle loro potenzialità è priva di significato senza una forte consapevolezza che dia a queste forme contenuto e traiettoria. Non ci devono essere malintesi sul fatto che qualsiasi forma democratico-libertaria può essere ritorta contro la libertà se è concepita schematicamente, come fine astratto privo di quella sostanza e organicità ideologica da cui ogni forma trae il suo senso liberatorio. Sarebbe inoltre ingenuo credere che forme come le assemblee popolari di quartiere, di città o di villaggio siano in sé sufficienti a costituire una vita pubblica libertaria, cioè che possano far nascere un corpo politico libertario in assenza di un movimento libertario estremamente cosciente, ben organizzato e con un chiaro programma.

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Comunità confederate La seconda di queste coordinate principali è la necessità che tali assemblee «parlino» tra loro, ovvero si confederino. In tutte le epoche si sono formate leghe cittadine, anche se solo temporanee, come forme centripete di associazione municipale. La spinta a creare entità para-nazionali strutturate attorno a confederazioni di municipalità risale ai tempi dei Greci e prosegue nella storia sino alla Comune di Parigi e a tempi molto più recenti, tempi in cui lo Stato-nazione centralizzato minaccia di diventare una forza soverchiante anche nelle questioni locali. Il concetto di confederazione nasce con l’idea stessa di municipalità. Se inizialmente ha avuto un carattere più difensivo che creativo, essa ci ha però fornito esempi straordinari di libertà sia all’interno che tra le aggregazioni locali. E la stessa parola «confederazione» rimanda a un modo aperto e libertario di associarsi che il termine «nazionalismo», con le sue sfumature scioviniste e totalitarie, ha raramente posseduto. Va notato che la prima Costituzione americana fu deliberatamente chiamata «gli Articoli della Confederazione», ma a causa dei molti limiti che poneva fu cinicamente e furtivamente rimpiazzata dalla cosiddetta Costituzione «federale», che Alexander Hamilton e i suoi seguaci appiopparono al popolo americano spacciandola per la migliore alternativa alla monarchia costituzionale. Che una municipalità possa essere gretta e campanilista quanto una tribù è abbastanza ovvio, oggi come in passato. Perciò un movimento municipalista non confederale, cioè non collegato alle altre città della regione tramite una fitta rete di interrelazioni, non può essere considerato un movimento politico nel senso classico che qui diamo al termine. Come non può essere considerata tale una comunità che non riconosce la necessità di confederarsi, la condivisione delle responsabilità, il diritto di revocare i rappresentanti e la necessità di attribuire loro compiti precisi, tutte scelte che devono essere parte essenziale di una nuova politica. 60

Anche lo Stato pone problemi seri che non possono essere ridotti a un’immagine semplicistica e astorica. Nel corso della storia si sono succeduti Stati embrionali, quasi-Stati, Stati monarchici, Stati feudali, Stati repubblicani e Stati totalitari contemporanei che hanno surclassato le più dure tirannie del passato. Purtroppo non si è prestata sufficiente attenzione al fatto che spesso è stata la resistenza opposta dalle municipalità a limitare la capacità dei vari Stati di esercitare appieno il loro potere, a ritardare il processo con cui lo Stato centralizzato toglieva vitalità a città e villaggi soppiantando le loro funzioni con organi burocratici, polizieschi e militari, processo che ha avuto un ruolo essenziale nella formazione degli Stati-nazione. Una sottile e continua interazione tra municipalità e Stato, spesso sfociata in aperto conflitto, ha segnato costantemente il corso della storia plasmando l’immagine della società odierna. In sostanza, il fatto che uno Stato rimanga più o meno tale – un problema che pensatori radicali diversi come Bakunin e Marx consideravano di non poco conto – dipende essenzialmente dalla capacità che i movimenti locali, confederali e comunitari hanno di contrapporsi a esso e possibilmente di instaurare un potere parallelo che lo sostituisca.

Il senso di cittadinanza La terza delle coordinate più importanti che possono guidarci verso una democrazia municipale è la necessità di creare una politica che addestri a una genuina cittadinanza. In un’era di mercificazione, rivalità, anomia ed egoismo, ciò implica che va data forma ai valori dell’umanesimo, della cooperazione, del comunitarismo nella pratica quotidiana della vita civica. Come abbiamo già notato, la polis ateniese, nonostante le sue numerose imperfezioni, ci offre esempi significativi di come l’alto senso di cittadinanza che la permeava venisse rinforzato non 61

solo da una sistematica educazione, ma dallo sviluppo di un’etica di comportamento civico e di una correlata cultura estetica che rivestiva i propri ideali di servizio civico con i fatti concreti di una pratica comunitaria. Il rispetto degli oppositori nei dibattiti, il ricorso alla parola per ottenere il consenso, le interminabili discussioni pubbliche nell’agorà, durante le quali i personaggi più in vista della polis erano tenuti a discutere dei temi di pubblico interesse anche con i meno noti, l’uso della ricchezza non solo per scopi personali ma anche per abbellire la polis (attribuendo così maggior valore alla redistribuzione più che all’accumulazione della ricchezza), una moltitudine di ricorrenze pubbliche, di drammi e satire in gran parte incentrate su argomenti civici e sul bisogno di incoraggiare la solidarietà… tutti questi e altri ancora sono gli elementi che hanno contribuito a creare in Atene un senso di responsabilità e lealtà civica che ha a sua volta prodotto cittadini attivamente coinvolti e consapevoli della propria missione civica. Il senso di cittadinanza, in effetti, deve diventare un’arte, non semplicemente un processo educativo; un’arte creativa in senso estetico che si appella al profondo desiderio umano di esprimere se stessi in una comunità spirituale che abbia senso; un’arte personale in cui ogni cittadino è pienamente cosciente del fatto che la comunità affida il proprio destino alla probità morale, alla lealtà e alla razionalità di ognuno. Oggi, l’essenza dello statalismo rimanda alla convinzione che il cittadino sia un essere incompetente, alquanto infantile e generalmente non degno di fede, mentre lo Stato si auto-rappresenta come un’istituzione disciplinata e disciplinatrice (e non certo come un luogo di auto-espressione). Persino la teoria liberale, per non parlare della teologia cristiana, giustifica l’esistenza dello Stato in quanto strumento coercitivo necessario a tenere a freno i cittadini, «naturalmente» conflittuali, e a correggere la loro costituzionale incompetenza affidando gli affari pubblici a politici professionisti e a istituzioni burocratiche. Il fatto che i cittadini intervengano direttamente negli affari pubblici, al di là del votare periodicamente e obbediente62

mente per candidati pre-selezionati e del pagare le tasse con un minimo ragionevole di onestà, è sempre stato considerato, nei casi migliori, una valvola di sicurezza nei confronti di una disaffezione verso l’ambito pubblico e, nei casi peggiori, un argine all’anarchia. La concezione municipalista di cittadinanza dà per scontato esattamente il contrario. Ogni cittadino è considerato competente in materia di affari pubblici ed è addirittura incoraggiato a occuparsene. Viene perciò fornito ogni mezzo atto a favorire una piena partecipazione, intesa come processo educativo ed etico che trasforma la latente capacità del cittadino in una realtà effettiva. La vita politica e sociale è orchestrata in modo da promuovere una diffusa sensibilità, una reale capacità di cogliere le differenze senza sottrarsi, quando necessario, ad accese dispute. Il servizio civico è concepito come un attributo umano essenziale, non un dono che il cittadino fa alla comunità o un dovere oneroso cui adempiere. La cooperazione e la responsabilità civica sono viste come espressione di interesse, attenzione e socialità, non come ordinanze che il cittadino è tenuto a osservare ufficialmente, evadendole quando può. La municipalità è dunque vista come un palcoscenico su cui si svolge la vita pubblica nella sua forma più significativa, una rappresentazione la cui grandezza si incarna nei cittadini che sono i protagonisti di questa scena. Tutto all’opposto, le nostre città sono divenute in gran parte agglomerati di appartamenti-dormitorio in cui uomini e donne appassiscono spiritualmente svendendo le loro personalità per interessi triviali e consumi meschini. A dispetto della concezione marxista di un conflitto essenzialmente economico tra lavoro salariato e capitale, i movimenti rivoluzionari dei lavoratori in passato non furono soltanto movimenti industriali. Dai Levellers londinesi del diciassettesimo secolo agli anarcosindacalisti di Barcellona del ventesimo secolo, l’attività radicale si è fondata sempre su forti legami comunitari e su una sfera pubblica costituita dalle strade, dalle piaz63

ze, dalle osterie. Questo tipo di vita municipale non può essere ignorata dalla prassi radicale, anzi occorre ricrearla laddove lo Stato moderno l’ha distrutta. Una politica nuova, che abbia le sue radici nei villaggi, nei quartieri, nelle città e nelle regioni, è l’unica possibile alternativa all’anemico parlamentarismo che sta contaminando i partiti verdi e altri analoghi movimenti sociali. Quanto ai movimenti puramente sociali, impegnati su questioni circoscritte quali il nucleare o altri temi specifici, la loro capacità di attrazione è necessariamente limitata ai problemi di cui si occupano. Anche quando riescono nel loro intento, questi movimenti hanno vita breve, poiché mancano delle basi istituzionali necessarie per creare una forza di trasformazione sociale durevole, nonché di un ambito nel quale collocarsi come presenza permanente nel conflitto politico. La municipalità, invece, ha una potenzialità esplosiva proprio perché la sua proposta di creare reti locali e di trasformare le istituzioni municipali che ancora ricalcano quelle statali significa raccogliere una sfida storica, e realmente politica, ormai in corso da secoli.

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capitolo terzo

Politica e cittadinanza

Una politica municipalista Sono molti i problemi che si pongono a chi cerca di delineare le caratteristiche di un intervento a scala municipale, ma al contempo sono considerevoli le possibilità di immaginare nuove forme di azione politica che recuperino il concetto classico di cittadinanza e le sue valenze partecipative. In un periodo in cui aumenta il potere degli Stati-nazione, in cui l’amministrazione, la proprietà, la produzione, le burocrazie e i flussi di potere e di capitale tendono alla centralizzazione, è possibile auspicare una società fondata su opzioni localiste, a base municipale, senza sembrare degli inguaribili utopisti? Questa visione decentralista e partecipativa è assolutamente incompatibile con la tendenza alla massificazione nella sfera pubblica? La nozione di comunità a scala umana non sarà una suggestione atavica di stampo reazionario che si rifà al mondo pre-moderno (tipo la «comunità popolare» del nazismo tedesco)? E chi la propone, come il sottoscritto, intende con ciò rifiutare tutte le 65

conquiste tecnologiche realizzate dalle diverse rivoluzioni industriali che hanno fatto seguito alla prima, due secoli or sono? E ancora, può una «società moderna» essere governata su base locale in un’epoca in cui il potere centralizzato sembra una scelta irreversibile? A queste domande di carattere teorico posso aggiungerne molte altre di carattere pratico. Come è possibile coordinare delle assemblee locali di cittadini per trattare questioni quali il trasporto ferroviario, la manutenzione delle strade, il rifornimento di beni e risorse provenienti da aree lontane? Come è possibile passare da un’economia basata sull’etica degli affari (ivi compresa la sua controparte plebea: l’etica del lavoro) a una guidata da un’etica basata sull’auto-realizzazione all’interno dell’attività produttiva? Come possiamo mutare gli attuali strumenti di governo quali le costituzioni nazionali e gli statuti comunali per adeguarci a un sistema di autogoverno basato sull’autonomia municipale? Come possiamo ristrutturare un’economia di mercato orientata al profitto e basata su una tecnologia centralizzata, tramutandola in un’economia morale orientata all’essere umano e basata su una tecnologia alternativa decentrata? E inoltre, come possono tutte queste visioni confluire all’interno di una società ecologica che cerca una relazione equilibrata con il mondo naturale e che vuole affrancarsi dalla gerarchia sociale, dal dominio classista e sessista, e dall’omogeneizzazione culturale? Fornire una mappa dettagliata, dal punto di vista economico e istituzionale, di come dovrebbe essere questa futura società significa rifarsi a un’interpretazione pseudo-ecologica del futuro che contraddice uno dei precetti fondamentali dell’ecologia sociale: l’unità nella diversità. La convinzione ecologica che ogni comunità umana (così come ogni individuo) sia squisitamente unica attraversa tutte queste riflessioni. Le ricette dettagliate che si prefiggono di risolvere ogni problema dinanzi al quale potrebbe trovarsi ogni ipotetica comunità decentrata non hanno nulla a che fare con le idee ecologiche. L’e66

cologia sociale nega con forza che tutti i nostri problemi sociali siano così universali, o meglio globali (per usare un gergo alla moda presso certo ambientalismo), che «agire localmente» risulti privo di senso. Viceversa, il localismo deve appunto sviluppare una particolare sensibilità nei confronti della specificità e dell’unicità dei luoghi, un vero e proprio senso del luogo, una sorta di lealtà verso il territorio in cui viviamo. La concezione secondo cui le comunità decentrate sono una sorta di «atavismo» pre-moderno, o meglio anti-moderno, riflette l’incapacità di riconoscere che una comunità organica non deve necessariamente essere un «organismo», in cui le componenti individuali sono subordinate all’insieme collettivo, e rimanda a una concezione dell’individualismo che confonde individualità con egoismo. La società di mercato, ossessionata dall’attenzione verso gli oggetti che chiama merci e dalla rozza monetizzazione di tutti gli aspetti della vita, non ha mai prodotto autentiche individualità, a meno che non si vogliano spacciare per tali qualche industriale d’arrembaggio o qualche commerciante da rapina. Anche se qualunque tentativo di delineare una società ecologica partendo da una comunità libera, autonoma e organica (organica tanto nel rispettare la flora e la fauna quanto nell’incoraggiare la solidarietà umana e l’aiuto reciproco) corre sempre il rischio di farla diventare una «comunità popolare» nel senso campanilistico e addirittura fascista della definizione, essa rimane tuttavia il terreno più fertile per lo sviluppo di personalità altamente consapevoli e creative. Tutto all’opposto, il nazismo, con il suo cianciare sull’auspicabilità di una Volksgemeinschaft germanica, svendette il contenuto utopico di questa aspirazione popolare al localismo comunitario in nome di un «principio di leadership» con il quale subordinò completamente il localismo al centralismo, la comunità alla nazione, il conservatorismo tecnologico all’innovazione industriale, particolarmente quella finalizzata alla progettazione bellica e ai metodi di sorveglianza politica. Non c’è nulla di «nostalgico» o «innovativo» nel tentati67

vo dell’umanità di armonizzare il collettivo con l’individuale. L’impulso a realizzare questi scopi complementari (soprattutto in tempi come i nostri, in cui entrambi rischiano una rapida dissoluzione) è una costante ricerca umana che si è espressa sia in ambito religioso che nel radicalismo secolare, sia negli esperimenti utopici che nella vita cittadina di quartiere, sia nei gruppi etnici chiusi che nei conglomerati urbani cosmopoliti. Solo una sedimentata consapevolezza ha permesso alla nozione di comunità e di individualità di non scivolare verso il campanilismo da una parte o verso l’atomismo dall’altra. È solo la coscienza, e non altro, che in ultima istanza determinerà se l’umanità sarà in grado di raggiungere un senso pieno della dimensione collettiva senza nulla sacrificare a un senso pieno dell’individualità. Una politica creativa senza una cittadinanza creativa è impossibile tanto quanto una cittadinanza creativa senza una politica creativa. Ogni aspettativa che una formula politica (o un insieme di istituzioni democratiche) possa in sé cautelarci da una qualsiasi degenerazione totalitaria è mal riposta. Una consapevolezza vigile, aiutata dalla conoscenza e da un senso di umana solidarietà, è tutto quello che possediamo per contrastare una «regressione» autoritaria da un lato e un «progresso» altrettanto autoritario dall’altro.

Un nuovo corpo politico Gli sforzi per ricostruire una politica autentica – non un ennesimo mosaico di tecniche statuali – implicano una rinascita del corpo politico stesso, ovvero una politica intesa come recupero della cittadinanza e dell’educazione civica. Questo tipo di politica ha una forma di sviluppo quasi cellulare, un processo di proliferazione e differenziazione organica simile a quello di un bambino nel corpo della madre. Assemblare una politica siffatta come si assemblano le varie parti di un’automobile – blocco 68

motore, guarnizioni, cilindri, candele, ecc. – significa profanare il senso stesso della parola «politica», per non parlare del disprezzo mostrato nei riguardi del carico umano che questa macchina deve portare verso le cabine elettorali. Finché gli attuali innovatori sociali non abbandoneranno la concezione secondo cui il «processo politico» va inteso come mobilitazione invece che educazione, come espressione di leader carismatici invece che di cittadini attivi, come propugnatore di soluzioni contingenti invece che di visioni prospettiche cariche di senso etico, fino ad allora la politica, lungi dall’essere nuova, sarà la vecchia statualità autoritaria infiorata di mera retorica. Un programma politico innovativo non può che essere un programma municipale, oppure non sarà né un programma di ricostruzione della società né una politica in qualunque senso effettivo del termine. La cellula vivente che costituisce l’unità primaria della vita politica è la municipalità ed è da questa che deve discendere ogni altra cosa: la confederazione, l’interdipendenza, la cittadinanza e la libertà. Non esiste alcun modo di mettere insieme una politica (vecchia o nuova) se non iniziando dalle sue componenti elementari: i villaggi, i paesi, i quartieri e le città, ovvero gli ambiti che costituiscono il livello più diretto di interdipendenza politica, l’unico livello immediatamente contiguo alla vita privata. È a questo livello che si può cominciare ad acquisire familiarità con i processi politici, processi che vanno ben oltre il voto e l’informazione. È a questo livello che diviene possibile oltrepassare il privato e la grettezza di una vita familiare celebrata per la sua separatezza, e così sperimentare quelle istituzioni pubbliche tese alla partecipazione e all’associazione. In breve, è a partire dalla municipalità che la popolazione può reinventare se stessa non più come agglomerato di monadi isolate, ma come corpo politico creativo in grado di ricostituire una vita civica vivace con proprie forme e contenuti. Comitati di isolato, assemblee, organizzazioni di quartiere, cooperative, gruppi civici di azione saranno la nuova arena pubblica e andranno ben al di 69

là di fenomeni contingenti come manifestazioni, marce e comizi, garantendo una notevole stabilità ed efficacia. Ignorare tale irriducibile unità civica della vita politica significa giocare a scacchi senza scacchiera, perché è in questo ambito che si possono fare le mosse per giocare nel senso più diretto ed essenziale. Un potere che non sia nelle mani della gente è un potere delegato allo Stato e, inversamente, ogni potere detenuto dalla gente è un potere strappato allo Stato. Dove c’è potere non può esistere alcun vuoto istituzionale: o è nelle mani della gente o è nelle mani dello Stato. Laddove esista una cogestione del potere, tale situazione è temporanea ed estremamente precaria: presto o tardi il controllo della società e del suo destino finirà verso la base, nelle mani della gente e delle comunità, oppure verso il vertice, nelle mani dei professionisti di Stato. Solo se l’intera struttura piramidale verrà disgregata, se la gerarchia verticale verrà sostituita dall’ecocomunità orizzontale, si eclisserà il principio del dominio, sostituito dal principio di complementarietà e dalla partecipazione. È necessario, tuttavia, intendere il potere nella sua concretezza, nella sua solidità e tangibilità, e non solo a livello spirituale e psicologico. Ignorare il fatto che il potere è un fatto muscolare della vita significa scivolare in una dimensione illusoria, impalpabile, che non tiene conto della sua concreta influenza nel determinare il destino della società. Intendo dire che se la gente riconquista il potere dallo Stato è necessario deprofessionalizzare la gestione della società fin dove è possibile, cioè semplificare e rendere trasparente, chiara, accessibile e dunque gestibile dai comuni cittadini la maggior parte della cosa pubblica. Il concetto non è affatto inedito, anzi ha costituito per intere generazioni la base della pratica democratica ateniese, ed era talmente ben praticato che il meccanismo di base della democrazia nella polis era il sorteggio e non l’elezione. Il potere è un fatto solido e tangibile anche perché va riportato alla sfera militare, in particolare all’inossidabile verità che il 70

potere dello Stato, o del popolo, si fonda in ultima analisi sulla forza. Lo Stato detiene il potere solo se esercita il monopolio della violenza. Allo stesso modo, la gente detiene il potere se è armata, se ha creato proprie milizie di base per difendersi non solo da criminali o invasori, ma anche dal potere sempre invadente dello Stato. Anche in questo caso gli Ateniesi avevano ben capito quanto un esercito professionale fosse una minaccia per la libertà. Una formazione civica che intenda creare una politica autentica, una cittadinanza capace e un’economia municipale sarebbe facilmente vulnerabile se non riuscisse a sostituire la polizia e l’esercito professionale con una milizia, ovvero una guardia civica composta di ronde, a rotazione, per scopi di vigilanza e una milizia cittadina ben addestrata per affrontare le minacce esterne alla libertà. La democrazia greca non sarebbe mai sopravvissuta ai ripetuti attacchi dell’aristocrazia senza la sua milizia di opliti, quei fanti che accorrevano alla chiamata con proprie armi e con ufficiali eletti. La tragica vicenda della conquistata supremazia degli Stati sulle municipalità autonome, o della nascita dell’oligarchia nelle stesse città libere del passato, è una storia di professionisti armati che requisiscono il potere a gente inerme o che viene disarmata con la scusa di prevenire «spiacevoli incidenti» entro un dato territorio.

Un programma di transizione Il programma qui delineato va inserito in una prospettiva più ampia e dai tempi lunghi che prefigura un ambito politico in cui lo Stato in quanto tale venga sostituito da una rete confederata di assemblee municipali e in cui un’economia volta al profitto venga sostituita da un’economia politica grazie alla quale le municipalità, interagendo, possano affrontare e risolvere i problemi concreti in quanto cittadini, e non in quanto professionisti, contadini, 71

impiegati o operai. E non solo gli individui si trasformeranno da lavoratori in soggetti pubblici, ma creeranno un’ecocomunità umana in grado di adattarsi dal punto di vista psicologico e spirituale, così come tecnologico, architettonico e strutturale, alle ecocomunità naturali che compongono il pianeta. Mi auguro che una tale prospettiva offra un’immagine di comunità non gerarchica e senza classi in cui la diversità, naturale e sociale, sia rispettata senza quel senso di alterità scissa che ha prodotto effetti drammatici sui rapporti tra la nostra specie e le forme di vita con cui condividiamo la Terra. Non è più possibile intendere la realizzazione di questo programma complessivo in termini di un’esplosione rivoluzionaria che in un breve lasso di tempo sostituisca la società attuale con una radicalmente nuova. A dire il vero, rivoluzioni di tal genere non sono mai comparse nella storia, come dimostra la sequela di tragici insuccessi. Persino la Rivoluzione francese, presa a paradigma dai rivoluzionari per la repentina trasformazione sociale, maturò nell’arco di alcune generazioni, non compiendosi che dopo un secolo, allorquando gli ultimi sansculottes furono virtualmente sterminati sulle barricate della Comune di Parigi del 1871. E non può più sussistere alcuna illusione sul fatto che le barricate sono poco più che simboli o che la guardia civica è solo un piccolo passo verso il disarmo dello Stato, quantunque cruciale per mostrare dove realmente deve risiedere il «monopolio della violenza». Ciò che lega il programma minimo al programma complessivo è un processo, una progressiva articolazione che consenta alle istituzioni e alle tradizioni di libertà esistenti di diffondersi gradualmente. Nell’immediato, dobbiamo cercare di rendere quanto più democratica la «repubblica», impegno spesso puramente difensivo teso a conservare e consolidare le libertà conquistate nel corso dei secoli, insieme alle istituzioni che conferiscono loro realtà. In futuro, dobbiamo proporci di radicalizzare la democrazia, imprimendo un contenuto utopico e creativo alle istituzioni democratiche che ci ritroviamo. Beninteso, a 72

quel punto sarà possibile passare da una situazione antagonista, basata su un gioco di pesi e contrappesi tra le istituzioni democratiche e lo Stato, al tentativo ben più aggressivo di soppiantare lo Stato con municipalità basate su strutture confederate, nella fondata speranza che il potere statale sia stato nel frattempo eroso a livello istituzionale da strutture civiche o locali e che la sua legittimità effettiva, per non parlare della sua autorità coattiva, sia semplicemente collassata. Se è lecito guardare alle grandi rivoluzioni del passato come a modelli esemplari del modo in cui è possibile un cambiamento tanto immenso, allora vale la pena di ricordare come le apparentemente onnipotenti monarchie, sostituite da regimi repubblicani due secoli or sono, fossero talmente corrose che più che crollare si sono letteralmente sbriciolate, proprio come uno scheletro mummificato che viene repentinamente esposto all’aria.

Una politica senza partiti Un programma che miri a restaurare, ampliato, il senso classico di «politica» e «cittadinanza» deve innanzi tutto indicare chiaramente cosa questi non sono proprio per la confusione che impregna i due termini. È opportuno ribadire che politica non è statualità e che i cittadini non sono elettori. La statualità consiste in una serie di funzioni strettamente esercitate dallo Stato: il monopolio della violenza, il controllo dell’intero apparato normativo attraverso i corpi giuridici e giudiziari, il governo della società attraverso i professionisti del corpo legislativo, dell’esercito, delle forze di polizia, dei burocrati, e i professionisti sussidiari quali avvocati, insegnanti, tecnici, ecc. La statualità assume una patina politica quando i cosiddetti partiti «politici» tentano, con vari giochi di potere, di occupare le cariche che attengono alla politica statuale e alla sua gestione. Questo genere di politica ha una specificità 73

ai limiti della noia. Un partito politico costituisce di norma una gerarchia fortemente strutturata, provvista di un apparato che si muove dall’alto verso il basso simile a uno Stato in miniatura; in alcuni paesi, come l’ex Unione Sovietica, costituiva lo Stato stesso. Il modello sovietico di Stato inverato dal partito è semplicemente un’estensione logica, in quanto ogni patto ha radici nello Stato e non nella popolazione. Non c’è nulla di autenticamente politico in questo fenomeno; anzi, per la precisione, l’obiettivo è di frenare il corpo politico, controllarlo e manipolarlo, non esprimerne la volontà né consentire che esso stesso la esprima. In nessun senso il partito politico tradizionale proviene dal corpo politico o ne è costituito. I partiti politici sono repliche dello Stato quando sono fuori dal potere, e sinonimi dello Stato quando ne sono dentro. Si formano per mobilitare, per dirigere, per conquistare il potere e gestirlo, e sono quindi tanto inorganici quanto lo Stato stesso: un’escrescenza della società senza alcuna rispondenza al di là dei bisogni di fazione, di potere e di mobilitazione. La politica, invece, è un fenomeno organico nel senso che è l’espressione di un corpo pubblico – di una comunità, se preferite – in cui è radicata proprio come una pianta è radicata e si alimenta nella terra. L’agire politico implica un discorso razionale, la condivisione del potere, l’esercizio di una ragione pratica e il suo compimento in un’attività realmente partecipativa. È quella sfera della vita pubblica appena al di là della famiglia e dei bisogni personali dell’individuo che conserva tuttora l’intimità, il coinvolgimento e il senso di responsabilità provato nell’ambito privato dell’esistenza. È possibile la formazione di gruppi per prospettare specifiche opinioni e programmi politici, ma questi rimangono idonei a rispondere alle necessità di un corpo politico protagonista. Appare invece come una palese insufficienza di molti partiti politici il fatto che i loro programmi e ideologie vengono imposti alla gente da personalità, o da loro epigoni, i cui collegamenti con la comunità sono deboli e fortemente teorici. I movimenti 74

politici, nel senso autentico della parola, nascono invece dallo stesso corpo politico e i loro programmi sono in gran parte formulati non tanto dai pensatori, per quanto preziosi questi possano essere, ma dalla gente stessa che gioca un ruolo attivo nella loro formulazione e diffusione. I movimenti populisti attivi nel mondo agricolo americano e nella Russia zarista, o i movimenti contadini e anarcosindacalisti della Spagna e del Messico, nonostante le loro forti configurazioni ideologiche nacquero dalla popolazione dando voce alle sue più profonde aspirazioni sociali e politiche. Essi dunque esprimevano culture politiche che si saldavano interamente con il corpo politico. Al contrario di quanto si vuol far credere, esiste una capacità pubblica di creare proprie istituzioni politiche e proprie forme organizzative. Le insurrezioni popolari del ventesimo secolo in Russia, Germania, Spagna e, più tardi, in Ungheria hanno reso evidente una diffusa auto-organizzazione delle popolazioni in consigli (alcuni dei quali collegati in congressi regionali e nazionali), in assemblee popolari e in municipalità autonome, spesso senza la guida di alcun partito. Il concetto, così comune lungo tutto lo spettro politico, che un partito strutturato per linee gerarchiche e con una forte direzione sia indispensabile per il cambiamento politico è, nei fatti, smentito dall’esperienza. Roberto Michels, nonostante il pregiudizio sulle capacità delle masse (nel suo La sociologia del partito politico nella democrazia moderna) e la predilezione per i leader carismatici, offre una spiegazione convincente sugli effetti inerziali dei partiti politici tradizionali nelle fasi di trasformazione sociale accelerata. Essi tendono a prendere il sopravvento sulle istituzioni create dal basso e in ultima analisi le rimodellano secondo criteri statuali. La Rivoluzione bolscevica del 1917-21 è un esempio da manuale di esautorazione di un movimento popolare da parte di un partito fortemente centralizzato. La rivoluzione si esaurì con lo sradicamento di un complesso sistema consiliare di base (i 75

soviet) a opera di un partito a forte vocazione statuale e con la totale spoliazione della popolazione di qualsiasi potere conquistato con tanto sforzo. Nel partito bolscevico era racchiuso un nuovo apparato statale e non può stupire se già negli anni Venti la statualità avesse completamente rimpiazzato la politica e nuovi sudditi avessero rimpiazzato i cittadini. I bolscevichi russi, infatti, introdussero un elemento di novità nel concetto di suddito: la popolazione russa, privata persino dello statuto di corpo elettorale e di ogni rappresentanza all’interno dello Stato, venne trasformata dai bolscevichi in «massa». E in effetti il bolscevismo istituì quel modello di «mobilitazione di massa» che venne successivamente emulato e praticato, con effetti socialmente disastrosi, anche dal nazionalsocialismo tedesco. Se il recupero e il rilancio della politica devono partire dal cittadino e dal suo ambiente immediato, non può esistere politica senza comunità. E i partiti che non si innestano in questi organismi popolari di base non sono politici nel senso classico del termine, ma sono apparati burocratici antagonisti allo sviluppo di una politica partecipativa. Parimenti, non si può imperniare la politica sulla delega di potere. Letteralmente, «democrazia rappresentativa» è una contraddizione in termini: la democrazia, nel senso di «governo del popolo», è totalmente incompatibile con l’immagine repubblicana del «governo dei rappresentanti del popolo». È storicamente assodato che gli autori della Costituzione statunitense, nell’introduzione alla Carta, intendevano con ogni evidenza che loro e il loro ceto erano «il popolo». La Costituzione non creò dunque una democrazia di tipo ellenico, bensì creò una repubblica di tipo romano. E al pari della Repubblica romana essa ha dovuto incorporare, sebbene con riluttanza, quelle istituzioni democratiche ereditate dal passato quali le assemblee popolari.

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Il decentramento Trascurando le obiezioni di segno statuale, il problema del recupero delle assemblee municipali appare comunque insuperabile se si rimane vincolati alle attuali forme strutturali e amministrative. A New York è impossibile qualsiasi «assemblea», e infatti questa metropoli non è paragonabile all’Atene classica con il suo corpo di cittadini relativamente piccolo. New York, in effetti, non è più una città nel senso tradizionale del termine, ma consiste in un selvaggio inviluppo urbano che risucchia quotidianamente milioni di persone da comunità a notevole distanza dal centro commerciale. Nondimeno, New York è costituita da quartieri, cioè da comunità in certa misura organiche e con un certo grado di identità, che possono essere definite da una tradizione culturale condivisa, o da interessi economici, o da una comunanza di opinioni sociali, o persino da una tradizione artistica come il Greenwich Village. Per quanto alto sia il grado necessario di coordinamento nella gestione logistica, sanitaria e commerciale, essa è ancora abbastanza compatibile con un decentramento politico. Senza dubbio occorrerà tanto tempo per decentrare effettivamente una metropoli come New York in municipalità autentiche e, in ultima istanza, in comuni, ma non c’è motivo per cui una metropoli di tale grandezza non possa gradualmente decentrarsi a livello istituzionale. La distinzione tra decentramento territoriale e decentramento istituzionale va sempre tenuta ben presente. Sono state avanzate proposte eccellenti per rendere locale la democrazia in entità metropolitane di quel tipo, restituendo potere alla gente, ma con il consueto cinismo sono state bocciate dagli accentratori che si sono appellati a ogni sorta di impedimenti materiali per una tale impresa. Si stravolgono le argomentazioni dei sostenitori del decentramento facendo coincidere il decentramento istituzionale con una disgregazione territoriale di queste metropoli. Viceversa, si deve sempre distinguere nettamente tra 77

decentramento istituzionale e decentramento territoriale, avendo ben chiaro che il primo è perfettamente realizzabile anche qualora occorressero anni per realizzare il secondo. Di fatto, si possono formare assemblee popolari, magari di isolato, a prescindere dalla dimensione della città, purché se ne individuino gli elementi culturali organici e se ne promuova la specificità. Politicamente irrilevanti risultano invece i dibattiti sulla loro dimensione ottimale, materia di discussione prediletta dai sociologi con mentalità statistica. È possibile coordinare queste assemblee popolari tramite delegati con mandato imperativo, soggetti a rotazione e a revoca, e soprattutto rigorosamente istruiti a sostenere o rigettare un dato argomento presente nel calendario di lavoro dei consigli confederali, composti a loro volta da delegati di varie assemblee di quartiere. Non esistono zone d’ombra in questa forma organizzativa e la dimostrazione storica della loro efficacia sta nel loro costante riapparire nelle fasi di trasformazione sociale accelerata. Le sezioni parigine del 1793, nonostante Parigi avesse già tra settecentomila e un milione di abitanti e nonostante le difficoltà logistiche dei tempi (in cui non c’era niente di più veloce del cavallo), hanno operato in proprio con grande successo, coordinate dai delegati di sezione al Comune. Queste sezioni sono state rilevanti non soltanto per la loro efficacia nell’affrontare i problemi politici ricorrendo a modi e forme della democrazia diretta, ma hanno giocato anche un ruolo importante nell’approvvigionamento della città, nella prevenzione dell’incetta di alimenti, nell’eliminazione della speculazione, nel controllo del tetto massimo dei prezzi e in molti altri compiti amministrativi complessi. Nessuna città è, d’altronde, tanto grande da non poter essere innervata di assemblee popolari con finalità politiche. Lo scoglio reale è in larga misura amministrativo: come provvedere alle strutture materiali della vita cittadina, come far fronte agli immensi oneri logistici o al peso del traffico, come mantenere un ambiente salubre? Questo problema viene spesso mistificato 78

grazie a una pericolosa confusione tra la formulazione di una politica e la sua gestione. Il fatto che una comunità decida in maniera partecipativa quale direzione prendere affrontando una data questione non obbliga tutti i cittadini a rendere effettivamente operativa tale politica (anche se indubbiamente esistono comportamenti che riguardano tutti nella comunità). Ad esempio, la decisione di costruire una strada non significa che tutti debbano sapere come si progetti e si costruisca una strada. Questo è lavoro da ingegneri, i quali possono proporre progetti alternativi; il che è certamente una funzione politica importante attribuita agli esperti, rispetto alla quale tuttavia l’assemblea è libera di decidere. La progettazione e la costruzione di una strada, però, è una responsabilità strettamente esecutiva, mentre discutere e decidere sulla sua necessità, compresa la scelta del posto e l’idoneità del progetto, è un processo politico. Se si mantiene chiara in mente la distinzione tra formulazione della politica e sua gestione, tra funzione delle assemblee popolari e delle persone che eseguono quelle delibere, risulta allora facile scindere i problemi logistici da quelli politici, due livelli solitamente confusi. A una prima occhiata, il sistema assembleare è una forma referendaria di politica basata sulla condivisione del processo decisionale fra tutta la popolazione e sulla regola maggioritaria. Perché, allora, c’è motivo di sottolineare la crucialità della forma assembleare per l’autogoverno? Non è sufficiente adoperare il referendum come si fa oggi in Svizzera e risolvere la questione della procedura democratica in un modo apparentemente non complicato? Per rispondere a questi interrogativi occorre prendere in considerazione una serie di temi vitali che investono la natura della cittadinanza. L’individuo autonomo in quanto elettore, che costituisce l’unità sociale del processo referendario nella teoria liberale, è una finzione tanto in un contesto apparentemente democratico quanto in un contesto totalitario di mobilitazione di massa. L’individuo, lasciato al suo destino in nome dell’autono79

mia e dell’indipendenza, diventa un essere apparentemente asociale la cui libertà è denudata di quei tratti vitali che procurano la genuina individualità. Infatti, osserva Max Horkheimer in una sferzante critica dell’atomismo individualistico, «l’individualità è menomata quando ognuno decide di cavarsela da solo…, non appena la gente si allontana dalla partecipazione politica alla cosa pubblica, la società tende a ripristinare la legge della giungla, che annienta ogni traccia di individualità. L’individuo assolutamente isolato è sempre stato un’illusione. Le qualità personali maggiormente stimate, quali l’indipendenza, la voglia di libertà, la compartecipazione e il senso di giustizia, sono sociali al pari delle virtù individuali. L’individuo pienamente sviluppato è il compimento di una società pienamente sviluppata. L’emancipazione del primo non è l’emancipazione dalla società, ma la liberazione di quest’ultima dall’atomizzazione, che può raggiungere l’apice in periodi di collettivizzazione e di cultura di massa».

Il cittadino Possiamo andare ancora oltre in tale riflessione. L’individuo sottomesso viola l’alta considerazione riposta nell’autonomia, nella volontà, nel controllo del proprio destino e nella libera affermazione delle idee. Nella società liberale, ciò ha condotto a un «individualismo» mitico, «forte» nella vulgata popolare, vale a dire totalmente «indipendente» ed «egoista». L’individualismo «forte» è tanto poco auspicabile quanto la sottomissione, che viene normalmente associata a una formazione inadeguata della personalità. L’antropologia stessa della nostra specie comprende una dipendenza prolungata del bambino e dell’adolescente dagli adulti, un processo di socializzazione che, sino a tempi abbastanza recenti, conduceva in ultima analisi a un profondo senso di interdipendenza, non a uno sfacciato senso di «indipendenza». Quest’ultima nozione, sovente confusa con il pensiero indipen80

dente e l’autonomia di comportamento, è stata talmente cristallizzata dal puro egoismo borghese che tendiamo a dimenticare il fatto che la nostra libertà di individui dipende in modo preponderante dai sistemi di sostegno reciproco e dalla solidarietà della comunità. Non si diventa autenticamente umani né assoggettandoci infantilmente alla comunità, né separandoci da essa. Quel che ci caratterizza come esseri sociali (auspicabilmente con istituzioni razionali), differenziandoci dagli esseri non sociali (presumibilmente con scarse o nulle istituzioni), sono le capacità di provare solidarietà gli uni con gli altri, di intensificare lo sviluppo e la creatività reciproca, di conseguire la libertà all’interno di una collettività socialmente feconda e istituzionalmente ricca. Una cittadinanza scissa dalla comunità è altrettanto avvilente per la nostra singolarità politica di una «cittadinanza» entro una comunità totalitaria. In entrambi i casi, siamo ricacciati nello stato di dipendenza tipico dell’infanzia che ci rende pericolosamente vulnerabili alla strumentalizzazione, sia da parte di personalità forti nella vita privata, sia da parte dello Stato e del grande capitale nella vita pubblica. In entrambi i casi, individualità e comunità vengono dissolte estirpando quella base comunitaria da cui trae alimento la vera individualità. Inversamente, è l’interdipendenza all’interno di una comunità solidale ad arricchire l’individuo di quella razionalità, di quel senso di mutualità e giustizia, di quella vera libertà che assicura un cittadino capace e creativo. Per quanto paradossale, gli elementi autentici di una società libera e razionale sono comunitari, non individuali. Espresso in termini più istituzionali, la municipalità rappresenta la base di una società libera, l’irriducibile terreno tanto dell’individualità quanto della socialità. L’estrema rilevanza della municipalità è data dal fatto di costituire la sfera discorsiva entro cui avviene un confronto intellettuale ed emotivo, ovvero un’esperienza di reciprocità attraverso il dialogo, il linguaggio del corpo, l’intimità personale e i modi non mediati di espressione del processo 81

decisionale collettivo. Mi riferisco qui ai fondamentali processi di socializzazione, alla continua interazione tra i molteplici livelli di vita che rendono la solidarietà, non solo la «cordialità», tanto indispensabile per i rapporti interpersonali veramente organici. Il referendum, espresso nel privato della propria cabina elettorale oppure, come vorrebbero i sostenitori entusiasti dell’informatica, nella solitudine elettronica della propria casa, privatizza la democrazia e quindi la sconvolge. Il voto, al pari del sondaggio sulle proprie preferenze in fatto di saponi e detersivi, è la completa quantificazione della cittadinanza, della politica, dell’individualità. Il voto riflette una «percentuale» pre-formulata delle nostre percezioni e dei nostri valori, non la loro piena espressione. Di fatto si limita a ridurre le opinioni in mere preferenze, gli ideali in meri gusti, la comprensione universale in mera quantificazione, allo stesso modo in cui si possono ridurre le aspirazioni e le convinzioni a unità numeriche. In conclusione, l’individuo autonomo, privo di contesto comunitario, di rapporti solidali e di relazioni organiche, viene distolto dal processo di formazione del sé (paideia), mentre una vera cittadinanza e una vera politica implicano la formazione permanente della personalità, un senso crescente di responsabilità e di impegno pubblico in senso comunitario. I caratteri personali e politici vitali non si costruiscono certo nel privato della cabina elettorale. Per realizzarsi, richiedono l’esistenza di una presenza pubblica incarnata da individui che pensano e si esprimono, di una sfera pubblica responsabile e discorsiva. Il «patriottismo», come indica l’etimo della parola, è un concetto tipico dello Stato-nazione, in cui il cittadino viene equiparato a un minore ed è dunque costretto a obbedire a una nazione concepita come pater familias, un padre rigoroso che orchestra convinzioni e devozione all’ordine. Sino a quando saremo figli e figlie di una «madrepatria», ci porremo in un rapporto di subordinazione di fronte allo Stato, un rapporto, appunto, infantile. 82

La lealtà, invece, implica un senso di responsabilità verso una comunità umana retta dalla consapevolezza, dall’esperienza, dall’esercizio e da una certa sensibilità, in breve da un’educazione politica formatasi nel corso di una partecipazione, non di un’obbedienza istituzionale. In mancanza di una municipalità a scala umana, comprensibile e praticabile dal punto di vista istituzionale, è semplicemente impossibile conseguire questa fondamentale funzione della politica. E allora si valuta il coinvolgimento politico in base alla percentuale di votanti che partecipano ai processi politici: uno svilimento che snatura completamente l’autentico significato di questi termini, estirpandone il contenuto etico.

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capitolo quarto

Economia municipale e confederalismo

Effetti del capitalismo Commercio e possesso non sono inediti nel mondo pre-capitalista. Quel che fa unico il ceto mercantile moderno è il reinvestimento dei propri utili nelle imprese per espanderle senza posa, un po’ in risposta all’intensa concorrenza vigente nei nuovi mercati, un po’ nel tentativo di acquisire il controllo dei mercati interni. È importante la differenza tra un’economia di mercato avida ed espansiva da un lato e i mercati pre-capitalisti non tesi all’accumulazione dall’altro. I contadini al di fuori delle mura barattavano un prodotto per soddisfare i bisogni essenziali di sopravvivenza; i commercianti urbani scambiavano beni per espandersi e assorbire i concorrenti. Ma i mercati dei villaggi e anche di molti comuni medievali erano soggetti a precisi vincoli culturali nei confronti dell’espansione, vincoli che ponevano limiti morali socialmente accettati al conseguimento della ricchezza. Le gilde e l’opinione pubblica rafforzavano questi limiti unitamente ai precetti religiosi. La compravendita, lungi dall’essere esaltata, era 84

percepita come opera del demonio e dunque il commercio era tenuto sotto controllo, mentre si sviluppava un’economia mista che preservava dagli effetti corrosivi e omogeneizzanti di un’economia di mercato incontrollata. Di contro, i capitalisti ormai egemoni del diciottesimo secolo rimuovevano virtualmente, nei centri commerciali marittimi e interni, tutti i vincoli morali, pubblici e religiosi, alla compravendita e all’espansione. Persino la terra, un tempo rifugio di vecchi capitalisti dopo una vita dedicata al commercio, divenne semplicemente una merce tanto che il suo acquisto, in particolare nel Nuovo Mondo, non conferiva più alcuno status speciale al nuovo ceto mercantile. La mentalità monetaria e speculativa, sebbene non inedita nella storia, diventa unica quando consegue una tale centralità. È significativo che fare soldi diviene un’etica al pari del prestigio o dell’onestà individuale, anzi lo status sociale dipende dall’acquisizione del capitale, non dalla proprietà della terra e dal conseguimento di titoli. I valori aristocratici che permeavano i ceti mercantili da tempo immemore vengono sostituiti da valori proprietaristici, dall’egoismo e da un’ingorda fame di profitto. Nel contesto di un’economia così concorrenziale, le virtù comunitarie vengono subordinate a valori come il guadagno individuale e l’espansione del capitale. Da associazione etica di mutuo soccorso, la comunità si trasforma in un tessuto imprenditoriale teso alla concorrenza e alla manipolazione: una radicale inversione del vero significato di consociazione e solidarietà che non ha precedenti nella storia. Nonostante le malefatte che i pirati dell’età del bronzo commettevano nel corso delle azioni di brigantaggio o che i mercanti dell’era classica e feudale perpetravano nel corso dei saccheggi all’estero, tutti loro consideravano intoccabili le rispettive comunità, contribuendo generosamente al loro splendore civico. Il nuovo mercante, e specialmente l’industriale che viene appresso, comincia invece a considerare la propria comunità come un terri85

torio di conquista, saccheggiandola senza ritegno. Tale comportamento, elevato a «etica degli affari», comincia a soppiantare i precetti religiosi e i valori culturali ereditati da tempi immemori e precedentemente condivisi anche da mercanti e imprenditori. E qui risiede il suo enorme potere: nella capacità di sostituire una configurazione di ideali etici con un’altra, di affermare un valore capace di contrastare e poi rovesciare tutte le barriere tradizionali all’asocialità e al furto. Istituire una forma specificamente anti-sociale di individualismo ha comportato anche un nuovo sistema ideologico di supporto: leggi che applicano una sanzione quasi religiosa ai contratti non rispettati e preti che legittimano il profitto come segno divino. L’urbanizzazione ha incarnato questo processo destrutturante, ha rappresentato il modo con cui ha assunto visibilità. Mi riferisco a quello sviluppo industriale, commerciale e residenziale che chiamiamo centro urbano. Già agli albori del ventesimo secolo città come New York, Chicago, Boston e Philadelfia o, in Europa, Londra, Manchester, Berlino e Parigi cominciavano a fagocitare i paesi vicini e a devastare in maniera perversa il paesaggio con strutture abitative ad alta densità. Nuovi sistemi di trasporto elettrici, che collegavano i paesi all’interno delle aree regionali, si svilupparono accanto a linee ferroviarie, che collegavano le regioni fra di loro all’interno dei confini nazionali. Vaste aree del mondo occidentale, un tempo relativamente impenetrabili agli effetti distruttivi delle forme capitaliste di urbanesimo, si sono così trovate senza difese contro lo sfruttamento e l’omogeneizzazione. Negli anni Venti, l’automobile è diventata, letteralmente, il veicolo dell’espansione suburbana e dell’azzeramento delle residue distinzioni tra città e paese, tanto vitali per la conservazione delle reciproche identità. Il noto «antagonismo» tra città e campagna, tanto celebrato dagli storici in quanto forza propulsiva dello sviluppo sociale, ha prodotto molte diversità sul piano politico e culturale (da noi riferite all’economia mista anteriore al capitalismo moderno), dando così impulso a quei movimenti 86

che ci hanno consegnato i concetti moderni di democrazia. La tensione tra società rurale e società urbana, e l’apertura verificatasi quando la gente si è spostata tra questi due mondi, motiva in gran parte la fecondità della vita sociale nel passato. In Nord America, gli anni Trenta – fatto misericordioso – hanno rappresentato una battuta d’arresto nel processo di omogeneizzazione urbana, rafforzando quei valori rurali che avevano alimentato l’immaginario democratico degli artigiani e dei piccoli proprietari terrieri. Nel contesto urbano di quel decennio, il significativo connubio tra città e campagna ha prodotto un ibrido creativo dal quale gli anni della Grande Depressione hanno derivato un impegno sociale e un senso di umanità molto forti. La fine della seconda guerra mondiale, nonostante gli anni Sessanta, ha invece restaurato le tendenze iniziate all’alba del secolo. L’individualismo proprietaristico, presente su scala ridotta nella società americana del diciottesimo e diciannovesimo secolo, è dilagato in tutto il paese e oggi rappresenta un cancro sociale che minaccia di sconvolgere e minare non solo il legame sociale ma anche il mondo della natura. Gli effetti principali sono la semplificazione, il dissolvimento di tutti i vincoli sociali nelle sfide incontrollate del mercato con acquirenti e venditori anonimi, la mercificazione di tutti i valori, la monetizzazione di tutti gli ideali, la crescita implacabile che corrompe l’organico in inorganico, fossilizzando allo stesso modo l’elemento comunitario e quello individuale. Il fatto che tutto ciò possa produrre una società priva di varietà culturale, una psiche umana priva di unicità e un mondo della natura privo di diversità rappresenta l’occulta intuizione dei nostri tempi, per i quali il sacrificio nucleare e la catastrofe ambientale costituiscono tanto una metafora quanto una realtà potenziale. La politica e la cittadinanza sono state le vittime di questo processo corrosivo, ma possono rappresentarne anche l’antidoto; a patto, beninteso, di ricostruirle nei termini pregnanti del loro significato classico arricchito da quanto imparato dalla modernità. 87

Una cosa, però, mi sembra chiara: da economia circondata da forme sociali e politiche pre-capitaliste, il capitalismo si è trasformato in una società economizzata. La vita sociale è ormai intrisa di valori mercantili che hanno contaminato i rapporti familiari, educativi, personali e persino spirituali, cancellando quelle tradizioni pre-capitaliste, fondate sull’aiuto reciproco e sulla responsabilità morale, che si contrapponevano a forme di comportamento mercantilistiche. Termini come «consumismo» e «industrialesimo» sono eufemismi oscurantisti dietro i quali si cela un pervasivo imborghesimento che non comporta soltanto fame di beni e sofisticazioni tecnologiche. Stiamo assistendo a una diffusione di rapporti mercantilistici anche in quegli aspetti della vita e in quei movimenti sociali che un tempo offrivano una certa resistenza (se non proprio un rifugio) contro queste forme di interazione umana amorali, accumulative, competitive. E tuttavia esiste un ambito in cui le nuove forme di resistenza, siano esse dei movimenti libertari o radicali in generale, possono aprire spazi di vita alternativi.

L’ insufficienza di un’economia «pura» Oggi i temi economici tendono a focalizzarsi su «chi possiede cosa», «chi ha più di chi» e, soprattutto, su quali diseguaglianze di ricchezza siano conciliabili in una data comunità civica. Quasi tutte le municipalità sono state frammentate da differenze di status economico, con classi povere, medie e ricche spesso l’una contro l’altra, sino a perdere la stessa libertà municipale, come dimostra chiaramente la sanguinosa storia dei comuni medievali e rinascimentali italiani. Tali problemi non sono scomparsi in tempi recenti, anzi in molti casi sono stati altrettanto gravi. Quel che è però specifico alla nostra epoca (e che è stato poco compreso da molti democratici e radicali in America e in Europa) è il fatto che sono comin88

ciati a emergere temi trans-classisti totalmente nuovi che concernono l’ambiente, la crescita, i trasporti, il degrado culturale, la qualità della vita urbana in genere e che rimandano all’urbanizzazione, non alla costituzione di città. Tali temi trans-classisti tagliano trasversalmente tanto gli interessi di classe quanto gli immensi pericoli di una guerra termonucleare, il crescente autoritarismo dello Stato o il possibile collasso ecologico del pianeta. Raggiungendo dimensioni che in America non hanno paralleli storici, un’enorme quantità di gruppi civici ha spinto persone di tutte le classi a partecipare in progetti collettivi su problemi, spesso marcatamente localisti, che riguardano il destino e il benessere della comunità nel suo complesso. Questioni come la localizzazione di aree per impianti nucleari o lo stoccaggio di scorie radioattive, i rischi delle piogge acide e la presenza di discariche tossiche, solo per citare alcuni dei tanti problemi che assediano innumerevoli abitati, hanno unito una serie incredibile di persone in movimenti che rendono del tutto incongruente una rituale «analisi di classe». Non meno significativo nel trasversalizzare le tradizionali soglie economiche, etniche e di classe è stato l’emergere del femminismo, movimento che ha rivolto la propria attenzione verso l’oppressione di genere che colpisce tanto le donne benestanti quanto quelle povere. Andando ancora oltre, l’inglobamento delle piccole comunità da parte delle grandi, dei paesi da parte delle città e di queste da parte delle aree metropolitane, ha fatto nascere rivendicazioni militanti in forte espansione a favore dell’integrità e dell’autogoverno comunitario, il che va ben oltre gli interessi economici e rigidamente di classe. Questo rapido sguardo sugli interessi sociali emergenti a scapito dei vecchi interessi particolaristici ha il fine di mostrare l’insorgenza di una nuova politica, che ricostruisce non solo l’orizzonte politico ma anche quello economico. Gli sterili dibattiti tra «proprietà privata» e «nazionalizzazione», tra pubblico e privato, appaiono ormai logori. Non che siano scomparsi i differenti tipi 89

di proprietà e le relative forme di sfruttamento, ma questi e quelle sono stati oscurati da realtà e problemi inediti. La proprietà privata intesa nel senso tradizionale, in grado cioè di perpetuare il cittadino in quanto individuo economicamente auto-sufficiente e politicamente indipendente, sta scomparendo. E questo non perché un socialismo trionfante abbia divorato la libera impresa, ma perché l’imprenditoria famelica ha divorato tutto, e per ironia della storia in nome della libera impresa. L’economia del Nord America, come quella europea o dei paesi del Terzo Mondo, è diventata sia «imprenditoriale» sia «nazionalizzata», ovvero, per usare un’espressione che le comprende entrambe, «burocratica». L’ideale greco di un cittadino politicamente sovrano, che può esercitare un giudizio razionale nella cosa pubblica giacché si è affrancato da necessità materiali o clientele, è diventato una beffa. Il carattere oligarchico della vita economica minaccia la democrazia in quanto tale, non soltanto a livello nazionale ma anche a livello municipale, dove tuttavia conserva ancora un certo grado di intimità e flessibilità. Arriviamo così, con una brusca virata, a un’economia municipale che si propone di dissolvere in maniera innovativa l’alone mistico che circonda la proprietà imprenditoriale e la proprietà nazionalizzata, cioè elitarismo e democrazia del lavoro. Il municipalismo libertario proprio come ridefinisce la politica per includervi una democrazia municipale diretta che gradualmente evolve fino a livelli confederali, prevede anche un approccio municipalista e confederale all’economia, il cui requisito minimo è appunto quello di proporre una municipalizzazione dell’economia; cosa ben diversa da una sua centralizzazione in imprese «nazionalizzate», da una parte, o la sua riduzione a forme di capitalismo collettivista «controllato dai lavoratori», dall’altra. Il controllo da parte delle forze sindacali delle imprese «controllate dai lavoratori» (vale a dire il sindacalismo) ha fatto il suo tempo. Oggi, poi, anche il grande capitale preme per ottenere la complicità dei lavoratori istituendo forme di «democrazia del 90

lavoro». Significativamente, la «democrazia del lavoro» non è più incompatibile con l’economia privata o pubblica. Al contrario, il ricorso all’effettiva partecipazione degli operai alla produzione, persino il passaggio globale delle funzioni industriali agli operai che le effettuano, è divenuta un’altra forma di razionalizzazione del tempo e delle modalità operative: sistematico sfruttamento del lavoro portando il lavoro stesso a essere complice del proprio sfruttamento. La democrazia economica, nel suo senso più profondo, significava invece l’accesso libero e democratico ai mezzi di vita, la garanzia di affrancarsi dal bisogno materiale, e non certo il coinvolgimento operaio nelle faticose attività produttive che faremmo meglio a riversare sulle macchine. Che la democrazia economica sia stata reinterpretata per significare proprietà delle maestranze o che la democrazia del lavoro sia diventata compartecipazione operaia alla gestione industriale, invece che libertà dalla schiavitù della fabbrica, del lavoro razionalizzato e della produzione pianificata, è un impudente stratagemma che ha purtroppo mietuto insperati successi anche in ambiti radicali.

L’economia municipale Il municipalismo libertario propone una forma di economia radicalmente differente in cui territorio e imprese vengono affidate alla gestione dei cittadini riuniti in libere assemblee e dei loro rappresentanti nei consigli confederali. Come pianificare il lavoro, quali tecnologie usare, quanti beni distribuire, sono tutte questioni che possono essere risolte solo nella pratica. La massima «da ciascuno secondo le proprie capacità e a ciascuno secondo i propri bisogni» può essere una guida sicura per una società economicamente razionale, a condizione di essere sicuri che i beni siano durevoli e di qualità, che i bisogni si ispirino a 91

norme razionali ed ecologiche e che le antiche nozioni di limite ed equilibrio si sostituiscano all’imperativo borghese di un mercato come luogo dove «crescere o soccombere». Mentre le tradizionali rivendicazioni sindacali di collettivizzazione dell’industria e controllo operaio sulle singole unità industriali sono fondate su un rapporto contrattuale tra tutte le imprese collettivizzate (il che riprivatizza l’economia lasciandola aperta alla proprietà privata, in forma collettiva o meno), il municipalismo libertario politicizza invece l’economia dissolvendola nella sfera civica. La fabbrica e la terra non diventano quindi unità scisse o potenzialmente concorrenziali all’interno di una collettività solo apparentemente comunitaria, e parimenti operai, contadini, tecnici, professionisti, ecc. non perpetuano le loro rispettive identità professionali in quanto interessi distinti che esistono a lato del corpo cittadino. La proprietà viene integrata nella municipalità in quanto elemento materiale della libera intelaiatura istituzionale, o meglio in quanto parte di un più vasto complesso controllato dal corpo dei cittadini (e non da operai, contadini, professionisti o altri specifici gruppi di interesse). In tal senso, la municipalizzazione dell’economia andrebbe distinta non solo dalla privatizzazione, ma anche dalle istanze fittiziamente più radicali della nazionalizzazione o della collettivizzazione. La nazionalizzazione dell’economia ha portato inesorabilmente al controllo burocratico e verticale dell’economia; la collettivizzazione, a sua volta, ha facilitato l’emergere di un’economia privatizzata sotto forma collettiva, perpetuando le identità di classe o di casta. Per contro, la municipalizzazione porta l’economia nell’orbita della sfera pubblica, dove è l’intera comunità a formulare la politica economica, dove i cittadini praticano rapporti non mediati tesi a conseguire un interesse generale che sovrasti gli interessi specifici definiti su base professionale. L’economia cessa di essere intesa nel senso ristretto della parola – ovvero insieme di imprese capitaliste e cogestite – per diventare un’economia veramente politica (per usare una termi92

nologia molto classica in un’accezione molto poco tradizionale): l’economia della polis o della municipalità. È verosimile aspettarsi che in una tale economia, basata su norme ecologiche e non unicamente tecnologiche, quegli interessi particolari che al giorno d’oggi dividono la gente in categorie si fondino in un interesse generale nel quale la gente si riconosca in quanto corpo di cittadini, la cui attenzione è prioritariamente rivolta ai bisogni della propria comunità e della propria regione. Così la cittadinanza acquisterebbe pieno significato e le interpretazioni razionali ed ecologiche del bene pubblico sostituirebbero gli interessi gerarchici e di classe. È questa la base morale di un’economia morale per una comunità morale. Ma di importanza ancora maggiore è l’interesse sociale generale che sostiene potenzialmente tutte le comunità morali, un interesse che deve infine at­t raversare tutte le classi, i generi, le appartenenze etniche e le posizioni sociali se l’umanità vuole continuare a esistere come specie vitale. Questo interesse è filiazione diretta dell’attuale catastrofe ecologica. L’imperativo «crescere o soccombere» del capitalismo si trova in radicale contraddizione con gli imperativi ecologici dell’interdipendenza e del limite. I due imperativi non possono più coesistere, né può una società fondata sul mito della loro riconciliabilità sperare di sopravvivere: o instaureremo una società ecologica, oppure la società collasserà per tutti, indipendentemente dal proprio status sociale.

Ecocomunità morali Che cosa è in grado di prevenire che la municipalità, rinforzata in tal modo dal proprio apparato economico, non diventi una città-Stato autarchica come quelle del tardo Medioevo? Ancora una volta vorrei ribadire che se nel cercare risposta al problema ci si rivolge a quelle forme istituzionali isolate e auto-referenziali 93

che separano il ruolo della coscienza e dell’etica dalla cosa pubblica, difficilmente troveremo soluzioni che ci garantiscano a tal riguardo. Ma se osserviamo le controtendenze possiamo invece trovare risposte adeguate. Il fattore più rilevante che consentì il nascere delle città-Stato del tardo Medioevo fu la loro stratificazione interna, come esito non solo di differenze di censo ma anche di status, in parte per origini familiari, in parte per differenze professionali. Inoltre, via via che la città perdeva il senso collettivo di unità e suddivideva la cosa pubblica in affari privati e affari pubblici, l’intera struttura sociale venne a segmentarsi con strati plebei e ceti più arroganti di artigiani che producevano invece prodotti di qualità. A loro volta, anche i ceti ricchi si scomponevano in modo consistente nel contesto di un’economia privatizzata in cui le differenze materiali potevano moltiplicarsi e innescare un certo numero di differenze gerarchiche. La municipalizzazione dell’economia non solo assorbe le differenze professionali che potrebbero militare contro un’economia pubblicamente controllata, ma assorbe altresì i mezzi materiali di vita nelle forme comunitarie di redistribuzione. «Da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni» viene adesso istituzionalizzato come parte della sfera pubblica e cessa così di apparire un fragile auspicio per diventare una prassi, una modalità di funzionamento politico incardinata nella struttura comunitaria. Per fortuna, nessuna comunità può sperare di conseguire un’autarchia economica, né la dovrebbe ricercare se non vuole diventare gretta e provinciale. L’interdipendenza tra comunità non è meno importante dell’interdipendenza tra individui. Priva di quei fecondi innesti interculturali spesso prodotti dalle relazioni economiche, la municipalità tenderebbe a rinchiudersi in se stessa immergendosi nel proprio egoismo civico. Bisogni e risorse condivise implicano l’esistenza della redistribuzione e, dunque, della comunicazione, del rinnovamento delle idee, della perce94

zione di un orizzonte sociale più ampio che induca a una sensibilità più aperta verso le esperienze innovative. La recente enfasi posta dalla teoria ambientalista sull’auto-sufficienza, se non significa maggiore prudenza nella gestione delle risorse materiali, è regressiva. Non si dovrebbe mai interpretare il localismo come provincialismo, né il decentramento come un’esaltazione del piccolo: piccolo non è necessariamente bello. Il concetto di scala umana, di gran lunga l’espressione da preferire per una comunità veramente ecologica, è imperniato sulla capacità della popolazione di comprendere appieno il proprio ambiente politico, non di seppellirvisi sino a escludere gli impulsi culturali provenienti dall’esterno della comunità. Date queste coordinate, è possibile concepire una nuova cultura politica che riproponga istituzioni civiche popolari, un nuovo approccio economico e un potere compensativo parallelo, su rete confederale, capace di bloccare e, ci auguriamo, respingere l’accentramento progressivo messo in atto da Stato e grande capitale. È altresì possibile prefigurare un punto di partenza prettamente pratico per andare oltre la città e il paese come li abbiamo conosciuti sin qui, sviluppando nuovi insediamenti umani che siano genuine ecocomunità, capaci di pervenire a una riarmonizzazione tra i popoli e tra l’umanità e il mondo della natura. E sottolineo la parola «pratico», giacché è evidente che qualunque tentativo di adattare una comunità umana a un ecosistema naturale si scontra in pieno con la trama del potere centralizzato, statale o economico che sia. Il potere centralizzato si riproduce inesorabilmente in forme accentrate a tutti i livelli della vita sociale, economica e politica. Non si tratta solamente di essere grande: pensa «in grande». Anzi, questo modo di essere e pensare è condizione non solo della sua crescita ma della sua stessa sopravvivenza. Viviamo già in un mondo in cui l’economia è eccessivamente «mondializzata», centralizzata e burocratizzata. Molto di quello che può essere fatto a livello locale e regionale viene fatto su scala mondiale – in gran 95

parte per motivi di profitto, di strategia militare e di appetiti imperiali – con un’apparente complessità che in realtà può essere facilmente semplificata. Se tutto ciò può sembrare troppo «utopico» per i nostri tempi, allora anche le urgenti richieste di tutti coloro che chiedono un radicale cambiamento delle politiche energetiche, la drastica riduzione dell’inquinamento atmosferico e idrico e l’attuazione di programmi a livello mondiale per fermare il riscaldamento globale e la distruzione dello strato di ozono possono essere considerate come utopiche. È davvero così illusorio portare queste istanze a un gradino superiore e puntare a cambiamenti istituzionali ed economici non meno drastici ma che in realtà si basano su tradizioni democratiche profondamente radicate?

Localismo e globalismo Oggi molti esponenti del movimento ecologista tendono a ignorare i problemi reali posti dal localismo, problemi non meno seri di quelli sollevati da un globalismo che favorisce una «mondializzazione» della vita economica e politica su scala planetaria. Senza un mutamento culturale e politico radicale, un localismo che enfatizzi l’isolamento e una certa auto-sussistenza può condurre al campanilismo e allo sciovinismo, cioè a problemi altrettanto seri di quelli provocati da una mentalità «globalista» che trascuri la specificità delle culture, le peculiarità di ecosistemi ed ecoregioni e la necessità di una vita comunitaria su scala umana che renda possibile una democrazia partecipativa. Non si tratta di un tema minore in un movimento ecologico che oggi tende a oscillare verso estremi ben intenzionati ma ingenui. Dobbiamo invece trovare un modo di condividere la Terra con gli altri esse­ri umani e con le forme non umane di vita, visione diffi­cile da conseguire in comunità eccessivamente auto-sufficienti. 96

Per quanto rispettabili siano gli intenti di chi invoca autonomia e auto-sufficienza locali, tali concetti possono risultare fortemente equivoci. Le comunità auto-sufficienti non possono produrre tutto ciò di cui hanno bisogno, a meno che ciò non voglia dire un brusco ritorno a modi primitivi di vita rurale, che da un punto di vista storico si sono dimostrati estremamente ingrati, provocando non solo un invecchiamento precoce a causa del duro lavoro imposto, ma anche una pericolosa carenza di tempo disponibile per una politica che travalichi i ristretti confini comunitari. Dobbiamo dare agli ideali del localismo, del decentramento e dell’auto-sufficienza un significato più ampio e concreto. Oggi siamo in grado di produrre i beni fondamentali per la nostra esistenza (anzi ben di più) nel contesto di una società ecologica basata sulla produzione di merci utili e di alta qualità. Eppure ci sono ancora nel movimento ecologista quelli che finiscono con il sostenere una sorta di capitalismo «collettivistico» in cui la comunità agisce come un imprenditore, considerando sua proprietà esclusiva le risorse di cui dispone. Un simile sistema di tipo cooperativistico dà nuovamente origine a un sistema mercantile di distribuzione, in cui le comunità rimangono intrappolate nella rete dei «diritti borghesi», ossia in una serie di contratti e sistemi contabili tesi a stabilire l’esatto ammontare di quel che una comunità riceve in cambio di quello che dà alle altre. Questa degenerazione si era manifestata, dopo l’espropriazione avvenuta nel luglio 1936, anche a Barcellona, in Spagna, in alcune delle imprese a controllo operaio che funzionavano come aziende capitaliste; degenerazione subito combattuta dagli anarcosindacalisti della Confederación Nacional del Trabajo (cnt). Bisogna tenere in seria considerazione il fatto che né il decentramento, né l’auto-sufficienza sono in sé necessariamente democratici. La città ideale della Repubblica di Platone era pensata come auto-sufficiente, ma la sua auto-sufficienza serviva a mantenere un’élite di guerrieri e filosofi. In effetti, la 97

sua capacità di conservare la propria auto-sufficienza dipendeva dalla sua capacità di resistere, come Sparta, all’influenza «corruttrice» delle altre culture. Analogamente, il decentramento in se stesso non dà alcuna garanzia che si abbia una società ecologica. Una società decentrata può tranquillamente coesistere con gerarchie estremamente rigide. Ne è un esempio lampante il feudalesimo europeo e orientale: ordini sociali in cui le gerarchie nobiliari erano basate su comunità estremamente decentrate. Allo stesso modo, le comunità a scala umana e basate su tecnologie appropriate non sono garanzia sufficiente contro le società del dominio. Difatti per secoli l’umanità ha vissuto in villaggi e cittadine spesso fortemente coese a livello sociale e con forme comunistiche di proprietà, e ciononostante erano proprio queste le basi materiali di Stati fortemente dispotici. Se esaltiamo quelle comunità per il fatto che erano decentrate, auto-sufficienti, piccole e tecnologicamente appropriate, non dobbiamo però dimenticare quanto culturalmente stagnanti e facilmente dominabili da élite esterne fossero. La loro divisione del lavoro, apparentemente organica ma fortemente legata alla tradizione, può benissimo aver costituito la base materiale per il degradante e oppressivo sistema delle caste, sistema che oggi continua ad affliggere l’India. Presi singolarmente, decentramento, localismo, auto-sufficienza ed ecotecnologie non danno dunque alcuna garanzia di portare a una società ecologica e razionale. Ognuno di essi, in un caso o nell’altro, ha funzionato da supporto a comunità chiuse, a oligarchie e perfino a regimi dispotici. Non possiamo certo sperare di giungere a una società liberata e orientata ecologicamente se non pensiamo al contempo a strutture istituzionali che si sviluppino a partire da questi concetti, concependoli interconnessi e combinandoli in un più vasto insieme.

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Il confederalismo Il confederalismo come principio di organizzazione sociale raggiunge il suo pieno sviluppo quando anche l’economia viene confederata, cioè quando una comunità, grande o piccola che sia, inizia a gestire le proprie risorse economiche in una fitta rete di relazioni intercomunitarie. Una dicotomia semplicistica e oltremodo inutile è forzare una scelta tra auto-sufficienza da una parte e sistema mercantile di scambio dall’altra. Mi sembra meglio sostenere che una società ecologica e confederata sarebbe redistributiva, cioè capace di dare alle comunità secondo le loro necessità, al contrario delle cooperative di segno capitalista che affondano nell’equivoco dei rapporti di scambio: un’economia di mercato, anche se abbinata al socialismo o all’anarchismo o a una qualunque concezione di società giusta, dominerebbe in ultima istanza tutta la società. Il confederalismo è pertanto una forma fluida di metabolismo sociale che preserva l’identità di una società ecologica attraverso le sue differenze e in virtù delle sue potenziali ulteriori differenziazioni. Il confederalismo, infatti, non segna una chiusura della storia sociale (come le ideologie da «fine della storia» degli anni passati volevano farci credere a proposito del capitalismo liberale), bensì il punto di partenza di un’inedita storia ecosociale segnata da un’evoluzione partecipativa nella società e tra la società e il mondo della natura. Il confederalismo non è semplicemente una particolare forma amministrativa a livello civico o municipale, ma è una tradizione forte nella gestione della cosa pubblica, una tradizione che ha una storia secolare alle spalle e che per generazioni ha cercato di contrapporsi a una tendenza storica altrettanto secolare verso l’accentramento e la formazione dello Stato-nazione. Come abbiamo già detto, il confederalismo si basa su una rete di consigli amministrativi i cui membri sono eletti da assemblee popolari di democrazia «faccia-a-faccia». I membri di 99

questi consigli confederali hanno un mandato revocabile e sono direttamente e immediatamente responsabili nei confronti delle assemblee che li hanno eletti al solo scopo di coordinare e amministrare le linee politiche formulate dalle assemblee stesse. Essi hanno perciò una funzione puramente pratica e amministrativa, non politica come quella di assessori e deputati nel sistema di democrazia rappresentativa. L’approccio confederalista impone una distinzione netta tra la funzione politica e quella di coordinamento e attuazione delle linee politiche. Si tratta di una distinzione cruciale perché la politica, quando scivola via dalle mani della gente, viene divorata dai suoi delegati che si tramutano rapidamente in burocrati. Mentre la funzione politica è prerogativa esclusiva delle assemblee comunitarie, il coordinamento e l’amministrazione sono invece responsabilità affidate ai consigli confederali, che diventano lo strumento di collegamento tra paesi, città e quartieri di metropoli. Il potere in questo modo fluisce dal basso verso l’alto, invece che dall’alto verso il basso, e va progressivamente diminuendo con l’ampliarsi degli ambiti di competenza, passando dalla dimensione locale a quella regionale e ad altre ancora più vaste. Non è più, come ora, il «centro» (lo Stato) che decentra una parte non essenziale del suo potere a organi periferici, ma sono le assemblee che delegano una quota decrescente di potere alle istanze confederali. La politica rimane così locale, anche se la sua amministrazione viene conferita alla rete confederale nel suo insieme. La confederazione è in realtà una comunità di comunità basata su diritti umani e su imperativi ecologici chiaramente definiti. In altre parole, il confederalismo è un modo per perpetuare l’interdipendenza necessaria tra comunità e regioni e di fatto è un modo per democratizzare questa interdipendenza senza rinunciare al controllo locale. In conclusione, il confederalismo è il modo in cui una comunità può mantenere la propria identità partecipando però all’im100

presa globale di creare una società ecologicamente equilibrata. Se decentramento, localismo, auto-sufficienza e interdipendenza sono necessari ma non sufficienti, il qualcosa in più che va aggiunto è la necessaria educazione morale che i Greci chiamavano paideia, una formazione del carattere in grado di preparare cittadini attivi e razionali al posto degli elettori passivi e dei meri consumatori che abbiamo oggi. Se vogliamo ricostruire in modo consapevole le relazioni umane, sociali e con il mondo naturale, non ci sono alternative.

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titoli affini dal catalogo elèuthera Giampietro N. Berti Un’ idea esagerata di libertà introduzione al pensiero anarchico Cornelius Castoriadis Relativismo e democrazia dibattito con il mauss Cornelius Castoriadis, Christopher Lasch La cultura dell’egoismo, l’anima umana sotto il capitalismo Noam Chomsky Illusioni necessarie mass media e democrazia Eduardo Colombo Lo spazio politico dell’anarchia Richard J.F. Day Gramsci è morto dall’egemonia all’affinità David Graeber Critica della democrazia occidentale nuovi movimenti, crisi dello Stato, democrazia diretta David Graeber Oltre il potere e la burocrazia l’ immaginazione contro la violenza, l’ ignoranza e la stupidità

Tomás Ibáñez Anarchismo in movimento Bruno Latour Non siamo mai stati moderni Michel Onfray Il post-anarchismo spiegato a mia nonna Saul Newman Fantasie rivoluzionarie e zone autonome post-anarchismo e spazio James C. Scott Elogio dell’anarchismo saggi sulla disobbedienza, l’ insubordinazione e l’autonomia Marshall Sahlins Un grosso sbaglio l’ idea occidentale di natura umana Salvo Vaccaro Agire altrimenti anarchismo e movimenti radicali nel xxi secolo Salvo Vaccaro Pensare altrimenti anarchismo e filosofia radicale del Novecento Robert Paul Wolff In difesa dell’anarchia critica della democrazia rappresentativa

Finito di stampare nel mese di aprile 2016 presso Printì, Manocalzati (AV) per conto di elèuthera, via Jean Jaurès 9, Milano