Democrazia
 9788855292726, 9788855292795

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STEFANO FERRUCCI

Democrazia

L’eredità dei Greci e dei Romani non comprende solo le tracce materiali della loro civiltà o gli splendidi frutti della loro arte e della loro letteratura: queste culture hanno consegnato all’Occidente anche un vocabolario per descrivere il mondo, catalogare le forme della vita associata, organizzare le avventure dell’intelligenza o la percezione del corpo e della natura. Ecco perché esplorare quel vocabolario significa per un verso guardare agli antichi da un osservatorio privilegiato, in grado di restituire l’immagine di una straordinaria esperienza storica, per l’altro riconoscere loro la funzione di interlocutori dei quali non possiamo fare a meno per pensare le grandi questioni del nostro tempo.

Prossime uscite: 4. Utopia, Michele Napolitano. 5. Corpo, Anna Maria Urso. 6. Frontiere, Gianluca De Sanctis.

Le parole degli antichi

Collana diretta da Mario Lentano

Le parole degli antichi 3

Stefano Ferrucci

Democrazia

© 2022, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Le parole degli antichi ISSN: 2724-6086 n. 3 – maggio 2022 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-272-6 ISBN – Ebook: 978-88-5529-279-5 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: porch of the caryatids, in athens © aleksandar kamasi – stock.adobe.com

I

Che cos’era una demokratía

1. Qualche considerazione preliminare Si è soliti ripetere che quel che distingue la democrazia greca da quella moderna è in primo luogo la partecipazione attiva al governo da parte dei cittadini, essendo la democrazia antica una democrazia diretta, non rappresentativa o parlamentare. Si tratta di una affermazione nel complesso corretta, ma che va limitata. La democrazia greca a noi meglio nota, quella ateniese, era certamente una democrazia diretta; esistevano tuttavia, testimoniate da Aristotele, forme di democrazia in cui l’assemblea non deliberava con poteri sovrani, ma si limitava a eleggere magistrati che prendevano le proprie decisioni in autonomia. Aristotele riporta anche che i sostenitori della democrazia del suo tempo riassumevano il carattere della democrazia come un «governare ed essere governati a turno». La

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forma greca dell’idea di partecipazione democratica era riassunta in questa espressione: il cittadino si alterna nei due ruoli, dà e riceve, dispone e obbedisce, in un rapporto di reciprocità con i concittadini, ma anche con la polis, alla quale restituisce il dono/privilegio della cittadinanza attraverso servizi e altre forme di partecipazione attiva. Siamo, evidentemente, in un contesto davvero lontano da quello degli Stati moderni: una distanza fatta non solo di dimensioni, che pure contano, ma anche di cultura della comunità, di valori della socializzazione, oltre che dell’organizzazione politica, sociale ed economica. Il mondo greco non conosceva le dinamiche moderne dei rapporti tra le classi, sul piano sociale; non aveva partiti politici come soggetti politici indispensabili alla dialettica politica e al rapporto con la cittadinanza, secondo il principio della delega e della rappresentanza, ma solo fazioni non istituzionalizzate. Esistevano, è vero, consorterie, promosse e formate soprattutto da membri oligarchici: ad Atene si chiamavano “eterie” e in alcune fasi della vita politica della città hanno potuto esercitare anche una influenza consistente, in particolare dopo la metà del V secolo a.C., in seguito all’ostracismo del leader dei moderati Tucidide di Melesia, fiero avversa-

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rio di Pericle. Il loro ruolo fu ben riconoscibile nella preparazione e realizzazione del governo oligarchico cosiddetto dei Quattrocento, che per un breve periodo, tra il 411 e il 410, sospese la democrazia, ma non rappresentano una componente strutturale nella vita della polis. Per il funzionamento delle democrazie greche abbiamo una straripante prevalenza di informazioni relative ad Atene in epoca classica: i meccanismi istituzionali di quella polis ci sono descritti minuziosamente da Aristotele nel testo, per noi fondamentale, della Costituzione degli Ateniesi; disponiamo inoltre delle testimonianze degli storici Erodoto, Tucidide, Senofonte, Eforo e Teopompo, e, frammentaria ma significativa, degli storici locali, gli attidografi. Abbiamo una nutrita raccolta di orazioni, per l’assemblea e il tribunale, ricche di informazioni su aspetti giuridici e procedurali, oltre che sulle dinamiche e i contenuti della pratica discorsiva assembleare e forense. Abbiamo le rappresentazioni teatrali, che rimandano di frequente alla vita pubblica e ai momenti chiave dei rituali della democrazia. Abbiamo infine una raccolta estesa di materiale epigrafico, che ci permette di conoscere le forme e i contenuti della comunicazione “ufficiale”, ma anche il ruolo della scrittura pub-

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blica, che conosce uno sviluppo senza confronti proprio sotto la democrazia. Faremo dunque riferimento ad Atene come principale esperienza di polis democratica in primo luogo perché su quel sistema siamo piuttosto ben informati, senza trascurare il fatto che esistevano altre esperienze democratiche, già attive nel V secolo a.C. Come dato storico, esistevano dunque diverse realizzazioni della democrazia; come elaborazione di un sistema specifico, esistevano diverse “varianti” sotto la comune categoria democratica. Ancora Aristotele, questa volta nella Politica, ne aveva distinte quattro, dalla più moderata a quella estrema, cui aggiungeva peraltro i regimi misti, che combinavano tra loro elementi democratici con altri oligarchico-aristocratici e che avranno particolare attrattiva in epoca ellenistica: quando Polibio deve spiegare le ragioni della forza di Roma nel periodo in cui essa inizia a imporre il suo dominio nel Mediterraneo, le individua proprio a partire dalla sua costituzione mista. In Grecia vi sono state molte democrazie, dunque, e democrazie di tipo diverso. Alcuni elementi di fondo, tuttavia, restano stabili e ci offrono una sorta di denominatore comune sul quale muoverci. Le pagine che seguono saran-

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no dedicate a illustrare, molto sinteticamente, alcuni aspetti che le testimonianze storiche si consegnano come caratteristici del governo democratico. Si tratta di una rassegna molto sintetica e senza alcuna pretesa di essere esaustiva; essa costituisce tuttavia la base indispensabile per fare la conoscenza del modo greco di intendere e costruire la democrazia. 2. Il cittadino e la polis democratica Fra gli aspetti caratteristici del regime democratico c’è indubbiamente la partecipazione dei cittadini al governo della polis. Ogni cittadino aveva piena facoltà di partecipare al processo deliberativo, sia esprimendo il proprio voto, che pesava come quello di tutti gli altri, senza distinzioni di rango o di censo, sia prendendo la parola e presentando proposte. Poteva candidarsi a entrare nelle giurie popolari dei processi e partecipare con il proprio voto alla definizione della sentenza: chi era chiamato nelle giurie aveva piena ed esclusiva responsabilità dell’esito processuale. Poteva essere designato a una carica pubblica attribuita per sorteggio o, più raramente, attraverso un’elezione. Tutti i cittadini erano chiamati a servire nell’eserci-

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to. Quello di terra era costituito dagli opliti, la fanteria pesante, affiancati dai cavalieri e dalla fanteria leggera; quello navale dalla imponente flotta di triremi, che assicurò ad Atene il controllo del mare per quasi tutto il V secolo a.C., dalla fondazione della Lega navale delio-attica, nel 478 a.C., fino alla sconfitta finale nella guerra del Peloponneso, nel 404. La talassocrazia ateniese fu spesso sentita come la vera spina dorsale della democrazia, ma giova ricordare che, storicamente e cronologicamente, la democrazia precede la costruzione della flotta, per impulso di Temistocle, nel 482 a.C.; la democrazia inoltre sopravvive per più di ottant’anni alla perdita del suo ruolo talassocratico, anche se nel IV secolo a.C. la flotta ateniese mantiene comunque una forza significativa. L’opposizione tra opliti e marinai ad Atene è a volte richiamata, soprattutto dagli oppositori della democrazia, per delineare il rapporto di forza all’interno della città: le navi accoglievano al proprio interno una componente cospicua di figure di bassa condizione sociale e dava loro una nuova visibilità e funzione, legittimando la loro presenza tra i cittadini. Si tratta in larga parte di una semplificazione, perché sulle navi salivano anche membri delle élites, nei ruoli di comando

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(lo stratego, il trierarca, per definizione ricco, come vedremo meglio tra poco), gli stessi opliti, insieme agli arcieri e ad altro personale di complemento non sempre di umili condizioni. Non è peraltro neppure così chiara l’equazione tra opliti e cittadini benestanti: la condizione di oplita implicava la capacità di procurarsi a proprie spese la pesante e costosa armatura (la panoplía: scudo, corazza, elmo, asta e spada, schinieri), ma vi erano molti modi in cui nelle poleis di epoca classica, tra le quali anche Atene, si trovava il modo di supportare gli opliti sollevandoli almeno in parte dalle spese, e molti studi moderni concordano nell’affermare che essere opliti non significava appartenere a una determinata classe sociale. L’oplita era semmai, come ha ben indicato Marco Bettalli, un «eroe culturale» che veniva tirato in ballo per proporre un modello di città la cui gestione fosse affidata ai cittadini soldati, gli opliti, appunto, e i cavalieri. Questa vagheggiata repubblica oplitica è però più una utopia retrospettiva che una realtà storica: serviva a contrapporre all’Atene talassocratica un modello alternativo, che non a caso sarà la guida del gruppo oligarchico che nel 411 sospese, sia pure brevemente, la democrazia per riservare la cittadinanza solo a un ristretto

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numero di cittadini che «potevano procurarsi le armi» (hópla parechómenoi, che poi è la definizione completa dell’oplita). Anche il cittadino della democrazia è, nel complesso, un cittadino-­ soldato, ma la contrapposizione tra fanteria e marina ha una sua matrice ideologica più che sociologica: dei benefici della potenza marittima ateniese, sia militare che mercantile, godevano anche le élites, che erano spesso coinvolte in modo attivo in operazioni e imprese navali, tanto belliche quanto commerciali. A ciò si aggiunga, a complicare il quadro, il ricorso sempre più frequente a soldati mercenari, ben attestato ad Atene a partire almeno dalla guerra di Corinto che, scoppiata nel 395/394 a.C., si concluderà con la pace di Antalcida del 386, e di cui sarà precursore in particolare il generale Ificrate. I cittadini ateniesi, a loro volta, iniziano a servire, a partire dal IV secolo a.C., non solo nell’esercito della polis, ma anche come soldati mercenari. La cura degli interessi economici, nel privato come nel pubblico, allontana progressivamente i cittadini dall’impegno militare, che diventerà sempre più una professione. Se era ricco, ci si aspettava che il cittadino impiegasse parte del suo patrimonio per spe-

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se di pubblica utilità e in servizi alla polis, che erano chiamate liturgie (leitourgíai, “opere di pubblico interesse”). La più costosa, ma anche la più prestigiosa, era la trierarchia, che consisteva nell’allestimento di una nave da guerra, una trireme, che sarebbe stata per un anno guidata dal suo finanziatore, se lo desiderava; in alternativa, si poteva optare per l’allestimento di cori tragici e comici (coregia) e, almeno a partire dal IV secolo a.C., per l’organizzazione dei giochi nei ginnasi (ginnasiarchia). Tali servizi concorrevano ad alimentare il buon nome e l’onore di chi li svolgeva, soprattutto se poteva affermare di averli assolti con generosità. Dalla cittadinanza erano esclusi, come per tutte le altre poleis greche, le donne, gli schiavi, i figli illegittimi e gli stranieri; questi ultimi potevano ricevere per decreto la concessione della cittadinanza, fatto piuttosto raro e definito come “dono” (doreá) del popolo. Per avere questi privilegi, l’unica condizione era quella di essere nati da un padre ateniese e, dopo la legge sulla cittadinanza di Pericle del 451/450, anche da una madre ateniese. Non c’erano, in democrazia, altre distinzioni di rango o di censo, e qui sta una delle principali differenze con i regimi oligarchici: la maggioranza dei cittadi-

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ni ateniesi non avrebbe goduto di diritti civici in poleis aristocratiche (condizione sottolineata anche da Aristotele nella Politica). La cittadinanza era una condizione che assegnava uno status con una forte identità e la democrazia ne accentuava il valore, nell’attribuire una serie di prerogative e privilegi, ma anche nel chiedere in cambio un livello di partecipazione costante: senza l’apporto dei cittadini, dei semplici cittadini, la macchina organizzativa e amministrativa della polis non avrebbe potuto funzionare. Esisteva naturalmente la possibilità di sottrarsi, almeno parzialmente, agli obblighi civici, e alcuni Ateniesi, soprattutto se ricchi o poco entusiasti del regime democratico, rivendicavano il diritto di vivere in modo politicamente appartato, concentrandosi sui propri interessi personali o familiari. Un atteggiamento che si accentua nel corso del IV secolo a.C. e fu stigmatizzato da Pericle, almeno secondo Tucidide: alle stesse persone è possibile curare gli interessi privati mentre si occupano di quelli pubblici e ad altri, quelli dediti al lavoro, avere una conoscenza non superficiale degli affari della città; siamo i soli infatti a ritenere che chi non vi prende parte sia un uomo non già tranquillo, ma inutile.

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Pericle si rivolge qui soprattutto alle élites cittadine, rassicurandole sulle legittimità di curarsi dei propri affari privati e al tempo stesso spronandole a non trascurare l’impegno pubblico. La democrazia mirava da un lato a coinvolgere tutta la società, comprese le classi più elevate (alle quali lo stesso Pericle appartiene, per rango ancor più che per ricchezza), dall’altro si proponeva di rimuovere le limitazioni sociali o economiche per l’accesso alla cittadinanza, limiti propri delle società oligarchiche. Ancora Pericle in Tucidide: «neppure chi è povero, se è in grado di rendere buoni servigi alla città, si trova impedito dall’oscurità del suo rango». Anche in democrazia il cittadino manteneva privilegi esclusivi e, da molti punti di vista, ne acquistava di nuovi. La proprietà terriera, ad esempio, non fu più considerata un requisito obbligatorio per essere cittadini e anche i nullatenenti (i teti, termine che indicava la quarta e ultima delle classi censitarie soloniane) vi avevano pieno e legittimo accesso; solo i cittadini, tuttavia, potevano possedere beni immobili in Attica, tranne nel caso di specifiche concessioni ad personam da parte della polis a stranieri che avessero acquisito particolari benemerenze verso la città, concessioni emanate sempre con

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molta parsimonia. Oltre ai diritti di natura politica e legati alla possibilità di partecipare in prima persona al governo della polis, i cittadini ricevevano una serie di diritti personali, legati principalmente a proprietà e assetti patrimoniali da un lato, alle relazioni familiari dall’altro. Per partecipare all’assemblea occorreva aver raggiunto la maggiore età e completato l’addestramento efebico, quindi si dovevano avere vent’anni; per l’accesso alle magistrature, al Consiglio o alle giurie dei tribunali era necessario invece averne compiuti trenta: era quello il momento in cui il cittadino entrava pienamente nel suo ruolo e poteva esercitare le prerogative ad esso associate. La città era dunque governata dalla generazione degli uomini nella piena età matura: i giovani iniziavano però la loro esperienza di cittadini partendo dal cuore stesso della vita politica, l’assemblea. 3. L’organizzazione della polis democratica 3.1. Il consiglio e l’assemblea Il processo di deliberazione pubblica ad Atene era costituito da un consiglio e un’assemblea. Il consiglio (boulé) si riuniva in un apposito edifi-

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cio nell’agorà (il bouleutérion). La sua principale funzione era di preparare i lavori dell’assemblea, redigendone l’ordine del giorno e predisponendo le diverse proposte da presentare (funzione programmatica e probuleutica); aveva inoltre prerogative giudiziarie, amministrative e di rappresentanza. Ad Atene era formato, dopo le riforme di Clistene, da cinquecento membri estratti a sorte tra tutti i cittadini con pieni diritti politici, cinquanta per ognuna delle dieci tribù. Ogni tribù deteneva per un mese la pritania, vale a dire svolgeva le principali funzioni e rappresentava l’intero consiglio. Tra i pritani veniva sorteggiato, ogni giorno, un capo (epistátes) che custodiva le chiavi dei templi cittadini in cui erano conservati i tesori e gli atti della polis; era inoltre il depositario del sigillo pubblico. È stato più volte suggerito un paragone tra l’epistátes dei pritani e un moderno capo di Stato o presidente della Repubblica, per l’alto ruolo di rappresentanza ricoperto, con l’evidente differenza che nel caso ateniese la carica durava un giorno e una notte e veniva poi trasferita a un “collega” e che tale posizione era frutto di un sorteggio (anzi, di due: il primo come buleuta, membro del consiglio, il secondo come epistátes tra i buleuti). Le possibilità per un Ateniese di

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ricoprire quella carica erano percentualmente piuttosto alte, certo maggiori di quelle che un cittadino di un moderno Stato possa diventarne presidente. Il paragone non andrà inoltre spinto oltre l’aspetto formale dei ruoli: i poteri di un epistátes dei pritani non sono confrontabili con quelli di un moderno capo di Stato. Accanto al consiglio era l’assemblea (ekklesía, “riunione”), convocata proprio dai pritani, sovrana nel prendere decisioni, dotata di pieni poteri deliberativi; potevano parteciparvi tutti i cittadini, come si è detto sopra; le decisioni venivano prese a maggioranza, quando mancava l’unanimità. Esistevano, ad Atene, due tipi di assemblea: quella sovrana si riuniva probabilmente una volta per ogni pritania (quindi dieci volte l’anno) e procedeva a discutere le proposte secondo l’ordine presentato dalla boulé; quella ordinaria, che non aveva scopi deliberativi, era invece dedicata al dibattimento di processi politici, almeno fino alla metà del IV secolo a.C., quando la funzione fu trasferita ai tribunali. L’assemblea si svolgeva sulla collina della Pnice, poco distante dall’agorá dove probabilmente si tenevano le riunioni fino alla metà del VI secolo a.C. L’area a disposizione della riunione era di circa 2500 mq e, dopo i lavori di ristrutturazione seguiti alla

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restaurazione democratica del 400 a.C., arrivò intorno a 3000 mq. Lo spazio era dunque piuttosto limitato, certo non sufficiente a ospitare l’intera popolazione attiva, che doveva aggirarsi, nelle diverse fasi di V e IV secolo, tra i 25.000 e i 40.000 cittadini. Alcune votazioni, come quelle relative alla concessione della cittadinanza, richiedevano un quorum di almeno 6000 votanti per essere approvate: è questo il numero che di solito si ritiene abbia di media frequentato effettivamente le riunioni. Una cifra che si aggirava tra un quarto e un settimo degli aventi diritto. I calcoli sulla capienza massima dell’area sono estremamente difficili e si sono proposte cifre diverse, da un minimo di poco più di 6000 fino a un massimo di quasi 20.000, ma non voglio annoiare il lettore insistendo sulle speculazioni del number game. Risulterà chiaro che nella Pnice entrava una quota parziale (o addirittura molto parziale) di cittadini. Partecipare all’assemblea era un diritto, non un dovere. La popolazione ateniese era sparsa su un vasto territorio e, prima dello scoppio della guerra del Peloponneso, viveva prevalentemente in campagna: furono le invasioni spartane dell’Attica, allo scoppio della guerra, a determinare un afflusso repentino e massiccio di abitanti verso

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la città e a dare il via alla reale urbanizzazione residenziale. Partecipare all’assemblea risultava meno agevole a chi viveva ai confini della regione rispetto a chi risiedeva in città, ma sarà prudente non sopravvalutare questo dato, spesso utilizzato dai critici della democrazia per indicare una troppo marcata prevalenza della popolazione urbana, il dêmos agoraîos, sui proprietari terrieri, i contadini e in generale i ricchi che, soprattutto nel V secolo a.C., risiedevano in campagna. Non mancano indicazioni di una variegata partecipazione di cittadini, composta non solo da artigiani, commercianti e poveri, ma anche da contadini e proprietari terrieri, armatori, grandi mercanti, ricchi, nobili, trasmesse in autori peraltro non teneri con la democrazia, come, su piani diversi, Aristofane, Platone e Senofonte. La distribuzione delle tipologie che frequentavano l’assemblea attraversava i diversi strati sociali e le diverse provenienze territoriali e non era così unilaterale, anche se il gruppo più numeroso era indubbiamente costituito dalla popolazione urbana (ma non necessariamente tanto da renderlo ipso facto maggioranza). All’assemblea partecipava comunque solo una porzione dei cittadini, senza che la selezione seguisse criteri di rappresentanza sociale, eco-

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nomica o anche solo territoriale: si accoglieva chi decideva di presentarsi. Dopo l’introduzione della retribuzione per la partecipazione (il misthòs ekklesiastikós), chi intendeva ricevere l’emolumento doveva assicurarsi di arrivare per tempo alla riunione, per non correre il rischio di trovare il “tutto esaurito”: raggiunta la capienza massima, infatti, l’accesso era impedito ai ritardatari. Riassumendo: la partecipazione all’assemblea era formalmente garantita a tutti i cittadini, ma nella pratica solo una parte esercitava questo diritto. La legittimità delle decisioni prese non ne era incrinata: chi partecipava era investito della piena autorità decisionale e l’esito delle deliberazioni avveniva ed era pubblicizzato sotto l’autorità del dêmos nel suo complesso e dal consiglio, secondo la formula che apriva i decreti attici: «Così hanno deciso il popolo e il consiglio». Demostene, nel ricordare una drammatica assemblea svoltasi dopo la notizia della presa di Elatea da parte di Filippo II, afferma che «tutto il popolo era seduto sull’altura», cioè sulla Pnice: quel «tutto», qui e negli altri casi in cui ricorre in espressioni simili, non descrive quantitativamente il numero di persone ma, qualitativamente, la loro funzione. Chi partecipava alle

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riunioni diventava il popolo nella sua interezza: era il luogo a definire l’autorità e a conferire ai presenti il valore dell’intero popolo. Non a caso l’assemblea era designata come dêmos in una speculare identificazione. Il ruolo della parola e la necessità di possedere un certo grado di educazione, competenze, autorità selezionavano in modo naturale il gruppo degli oratori in assemblea; nel IV secolo si cristallizzano come guida delle riunioni assembleari le due categorie dei retori e dei generali. I primi possono, con una certa approssimazione, associarsi al moderno termine di “politici”. Chiunque prendeva la parola e avanzava proposte era un retore, possibilità aperta in teoria a qualunque cittadino ma che, soprattutto nella democrazia per molti versi più moderata del IV secolo, era ormai appannaggio di un ristretto gruppo di professionisti (Mogens Hansen ne ha calcolati non più di venti nel periodo 403322 a.C.). Ai generali (strategoí, magistrati della città) venivano riconosciute specifiche competenze militari: sulle questioni che coinvolgevano scelte politiche o finanziarie legate alla guerra, la loro voce era certo molto influente. Il popolo ascoltava e, a volte, reagiva rumorosamente, con

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urla, proteste, fischi o risate, arrivando persino a interrompere l’oratore. Alla fine, votava. L’assemblea iniziava all’alba, come ben descritto in diverse commedie di Aristofane, e durava varie ore; in casi eccezionali poteva prolungarsi fino al tramonto; oltre non si andava perché non sarebbe più stato possibile distinguere e contare le mani alzate per la votazione. In assemblea si votava infatti, nella maggior parte dei casi, per alzata di mano (cheirotonía); quando serviva assicurarsi di aver raggiunto il quorum minimo richiesto, si passava a una sorta di scrutinio segreto, apponendo in un’urna il voto, sotto forma di sassolino (psephophoría). La parola psêphos indicava appunto quel sasso, e da esso prendono nome anche i decreti (psephísmata). L’uso degli psephoi permetteva un calcolo preciso dei voti; la cheirotonia era valutata in maniera più grossolana, a vista: è probabile che dopo la discussione le proposte fossero approvate, di norma, a larga maggioranza. Il quorum, fissato a 6.000 voti, era richiesto per decisioni che riguardavano questioni delicate relative a singoli individui (ep’andrì), come l’ostracismo o la concessione di cittadinanza. L’assemblea, come si è detto, era l’organo sovrano nel processo decisionale e deliberativo

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della democrazia ed era aperta a tutti, senza alcuna preoccupazione di rappresentanza. Questa interveniva semmai, entro certi limiti, per il consiglio, la cui composizione, con il reclutamento dei membri attraverso le tribù, seguiva un criterio di rappresentanza territoriale: come ha messo in luce Domenico Musti, la sua funzione era di «legare il territorio alla vita politica, di rappresentare una sorta di cinghia di trasmissione tra centro urbano e periferia». 3.2. Continuità e innovazione: il consiglio, l’assemblea e il caso dell’arcontato L’assetto che prevedeva un consiglio ristretto e un’assemblea allargata non è, di per sé, caratteristico della polis democratica: anche nelle città oligarchiche era presente lo stesso schema, già prefigurato, peraltro, fin da Omero nella rappresentazione delle procedure decisionali degli Achei. La connotazione democratica era connessa da un lato con l’accesso a quegli organismi, privo di filtri di rango o di censo e aperto a tutti i cittadini, dall’altro con i poteri attribuiti ai due organi. Nelle oligarchie l’assemblea, quando esisteva, aveva sostanzialmente il compito di ratificare le decisioni prese dal gruppo dirigente nel consiglio ristretto (a Sparta era il consiglio

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degli anziani, la gherousía): era più luogo di comunicazione alla comunità delle risoluzioni già prese che sede di discussione e deliberazione. In democrazia l’assemblea assomma su di sé prerogative di cui, nelle oligarchie, erano investiti, oltre al consiglio, i magistrati. La democrazia greca non cancella dunque i principali assetti istituzionali della polis aristocratica arcaica, semmai li ridefinisce in ragione di nuove esigenze. C’è un continuo alternarsi, negli assetti delle democrazie, tra continuità con la tradizione e creatività istituzionale, in una dialettica che non si pone mai come piena rottura formale con il passato. Esemplare il caso della più prestigiosa magistratura cittadina ateniese, l’arcontato. Aristotele, nella Costituzione degli Ateniesi, facendo uso di tradizioni storiche locali e attidografiche, ne presenta l’evoluzione come una trasformazione progressiva del potere monarchico, passando da una fase in cui la carica era vitalizia a una decennale e all’approdo finale, che la tradizione poneva nel 683 a.C., alla durata annuale. Alla carica si accedeva originariamente per rango e ricchezza e le riforme soloniane riservavano ancora l’accesso ai membri della prima (o forse delle prime due) tra le classi censitarie da lui stabilite, da

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nominare per sorteggio tra quaranta candidati eletti dalle quattro tribù. Intorno al 580 a.C. fu istituito un collegio arcontale straordinario formato da cinque membri delle nobili famiglie di proprietari terrieri (eupatridi), tre contadini e due artigiani, esperimento che durò solo due anni; Pisistrato, durante la sua tirannide, ristabilì l’elezione degli arconti. Il sorteggio fu ripristinato nel 487 (cioè dopo le riforme di Clistene e l’introduzione della democrazia), ma ora si svolgeva tra cinquecento candidati, selezionati dalle ripartizioni locali della democrazia clistenica, i demi; la possibilità di candidarsi fu estesa anche ai membri della seconda classe e infine “liberalizzata” per tutti, tranne formalmente per i teti, l’ultima classe (ma questa limitazione fu di fatto disattesa a partire dal 457 a.C.). Infine, all’epoca di Aristotele (verso il 330 a.C.) gli arconti erano sorteggiati tra cento candidati, selezionati, sempre per sorteggio, in ragione di dieci per ciascuna tribù. In età classica gli arconti erano nove: l’arconte eponimo, che dava il nome all’anno; l’arconte re (basileús), le cui funzioni, di natura principalmente sacrale, sembrano ricollegarlo a una delle prerogative del re nelle tradizioni sulla storia più antica della polis; un polemarco, carica originariamente di

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carattere militare che progressivamente si specializza nella gestione degli affari degli stranieri, compresi i meteci, gli stranieri residenti, e con particolare riguardo agli aspetti giudiziari; sei tesmoteti, letteralmente “legislatori, estensori e custodi delle leggi”, i thesmoí, con funzioni appunto di carattere giurisdizionale, l’uni­ ca componente realmente collegiale. Ad essi si aggiungeva, come decimo, un segretario, per rispettare la simmetria del numero delle tribù introdotto da Clistene, ma questa carica non fu mai davvero considerata equiparabile a quella degli altri arconti. Nella tradizione sull’arcontato c’è indubbiamente molto di artificioso e sarà prudente guardare con diffidenza alla sua aderenza a un reale processo storico, soprattutto in riferimento ai tempi più remoti; Aristotele accoglieva lo schema evoluzionistico e lo leggeva come un progressivo superamento della centralità del re e una redistribuzione sempre più ampia delle sue prerogative a diverse figure magistratuali. Il nome della magistratura rimandava così a tempi molto antichi, benché quasi tutto si fosse nel frattempo modificato, anche radicalmente, nella carica. Si nota peraltro come progredisca la forma di selezione degli arconti, nell’alternanza tra

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elezione e sorteggio e nel rapporto tra candidati e nominati: è nel IV secolo a.C. che si raggiunge la piena attribuzione per sorteggio, non solo per la nomina, ma anche, preliminarmente, per la candidatura: l’evoluzione democratica ha qui avuto il suo esito e alla carica poteva davvero aspirare qualsiasi cittadino, senza filtri intermedi e con discrete probabilità di successo. 3.3. Le magistrature Le magistrature (archaí) erano annuali e per lo più non iterabili, richiedevano che il candidato si sottoponesse a una valutazione preliminare (dokimasía) e un rendiconto al termine della carica (euthýnai), che avveniva di fronte a una commissione nominata dal consiglio ed eventualmente ai tribunali e all’assemblea in caso di contestazioni. La gran parte delle magistrature era attribuita attraverso sorteggio, che avveniva nel tempio di Teseo. Le poche elettive venivano votate in assemblea per alzata di mano ed erano costituite principalmente da magistrature di carattere militare e finanziario. Tra le prime spiccava per importanza il collegio di dieci strateghi, comandanti militari supremi, una delle poche cariche ateniesi che poteva essere ricoperta più volte di seguito senza limiti di tempo: Pericle

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la tenne per molti anni consecutivamente, dal 448/447 al 429/428, anno della sua morte durante la peste, con la sola possibile eccezione dell’anno 444/443. Ad Atene il numero delle magistrature era estremamente alto: se ne sono calcolate circa cento elettive, più di seicento sorteggiate, alle quali si dovevano aggiungere i cinquecento buleuti. I magistrati non avevano potere deliberativo o decisionale e questo era un altro tratto caratteristico delle democrazie. I poteri legislativi e giudiziari erano attribuiti al dêmos riunito in assemblea o seduto, in qualità di giudice, nei tribunali, sottraendoli a magistrati e consiglio. Il nome con cui si designavano le magistrature, archaí, indicava la funzione di governo che le connotava, in particolare nelle città aristocratiche, nelle quali l’accesso a tali cariche era riservato a cittadini ricchi o provenienti da famiglie prestigiose (che, per molte realtà oligarchiche, spesso era la stessa cosa). Era così anche nell’Ate­ne arcaica. La storia delle magistrature ateniesi rivela il percorso della loro progressiva apertura a tutti i cittadini, che realizza e distingue l’assetto istituzionale della democrazia. Al tempo stesso, le loro funzioni sono trasferite per lo più alla sfera amministrativa e cultuale, perché il potere

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politico del popolo potesse esprimersi appieno esclusivamente in assemblea. Assenza di requisiti specifici, nomina per sorteggio, rotazione, ampie limitazioni nella possibilità di reiterare la carica e incompatibilità nel ricoprirne due nello stesso anno: tutte queste misure concorrevano nel favorire la più ampia partecipazione pratica dei cittadini alla vita politica. Se il cuore politico della democrazia era l’assemblea e quello giudiziario erano i tribunali popolari, perché era lì che, per dirla con il solito Aristotele, «il popolo [dêmos]era sovrano», il sistema delle magistrature rappresentava la vera forma di partecipazione diffusa dei cittadini alla gestione della polis. Molte magistrature erano collegiali, spesso costruite intorno al numero dieci per permettere a ogni tribù di avere un proprio rappresentante nel collegio. La collegialità aveva il principale vantaggio di impedire a un singolo di acquisire troppo potere e “liberava” l’esercizio della carica da ambizioni di leadership politica: i capi politici si affermavano nel gioco del dibattito assembleare, non attraverso incarichi istituzionali. Aver ricoperto una magistratura non implicava peraltro un particolare ruolo di rilevanza politica, essendo attribuite per lo più a sorte – con la

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significativa eccezione degli strateghi, che non a caso erano eletti. Scorrendo le liste degli arconti eponimi, ci troviamo spesso di fronte a personaggi altrimenti sconosciuti. A fianco dei nomi noti della politica, la democrazia si regge su un vasto numero di attori anonimi, che operano nelle varie funzioni istituzionali senza che siamo in grado di ricostruire, per molti di essi, alcun dato legato alla loro storia o carriera politica: per le lacune della documentazione in nostro possesso, ma anche perché molte delle magistrature, soprattutto quelle “minori”, erano tenute da figure con scarsa notorietà pubblica e non troppo desiderose, evidentemente, di averne. Ricoprire una carica forniva “onore”, timé, al cittadino e questo, per molti, era sufficiente. Essere magistrato era considerato un onore perché mostrava l’impegno del singolo verso la collettività, ma non conferiva particolare potere. Torneremo su questa caratteristica in un capitolo successivo parlando della partecipazione. 3.4. I tribunali La tripartizione dei poteri era sconosciuta alla polis greca: Montesquieu era di là da venire. Ad Atene erano certamente distinte le funzioni, ma non in modo così netto: l’assemblea legiferava,

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ma si trovava anche a giudicare, almeno fino al 355 a.C.; i tribunali decidevano dei processi pubblici e privati ed emettevano sentenze. I poteri non erano divisi, nella città democratica, perché l’assemblea e i tribunali erano costituiti delle stesse figure, i cittadini. Aristotele lo delinea in modo molto chiaro: quando assemblea e tribunali furono aperti al dêmos e gestiti attraverso il suo voto, si arrivò alla piena realizzazione della democrazia compiuta (che i fautori di forme più moderate ritenevano la sua forma radicale o estrema), perché «quando il dêmos diventa signore del voto, è signore della costituzione». In democrazia, il cittadino ha due prerogative principali: giudicare e deliberare. I tribunali caratterizzano la democrazia greca perché il potere di emettere sentenze veniva affidato al voto di giurie popolari, senza intervento di magistrati o di altre figure con competenze specifiche di tipo giurisprudenziale. Le cause erano istruite dagli arconti, che ne garantivano il corretto svolgimento formale, ma non intervenivano in alcuna fase del procedimento in relazione al merito del processo. Le parti in causa dovevano comparire e parlare in prima persona, non esisteva la figura del patrocinatore o avvocato. Il principio di autotutela dei cittadini era un

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ulteriore mattone dell’edificio democratico: un giudizio tra pari. Accusa e difesa presentavano i propri argomenti con discorsi letti o, più probabilmente, recitati di fronte alle giurie. Queste erano composte da un minimo di 101 giudici a un massimo di 1501 – ma in alcuni casi eccezionali si è arrivati a 2001 giurati. Le giurie erano reclutate a sorte da una lista di 6000 cittadini, anch’essi, all’inizio di ogni anno, sorteggiati; tra il 380 e il 370 il secondo sorteggio era diventato giornaliero e si svolgeva all’alba, subito prima dell’inizio dei dibattimenti, per evitare che le parti in causa conoscessero prima la composizione delle giurie che li avrebbero giudicati. Lo studio del materiale archeologico legato all’organizzazione dei tribunali, in particolare delle piastrine, una sorta di tesserino nominale di riconoscimento dei giudici, che molti cittadini portavano con sé nel corredo funebre delle loro tombe, indica come la funzione di giudice formasse l’identità e l’orgoglio del cittadino: dal cittadino-soldato al cittadino-­giudice. Aristofane ha molto ironizzato sulla mania ateniese per i tribunali, rafforzata dalla paga che spettava al giudice (il misthòs dikastikós): nelle Vespe Filocleone, il vecchio ammiratore del leader democratico Cleone, appare afflitto da

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una strana malattia: è maniaco del tribunale (philelastes). La sua mente di notte vola sulla clessidra e neppure il dio Asclepio ha potuto guarirlo. Il lavoro dei giudici non si limitava peraltro a seguire e giudicare le cause: essi erano testimoni e garanti dei contratti pubblici di appalti d’ope­re o per le vendite dei beni confiscati; erano coinvolti inoltre nella valutazione dei magistrati e dei buleuti, compito più politico che giudiziario. Con le importanti riforme del 403/2, dopo l’abbattimento della tirannide dei Trenta, dai seimila giudici annuali erano designati i nomoteti (letteralmente: i “legislatori”), che formavano un collegio incaricato di dare un giudizio sulle proposte di legge approvate in Assemblea e di redigerne, nel caso, la formulazione scritta definitiva. Molti processi inoltre avevano chiara natura politica. Può darsi che gli Ateniesi fossero particolarmente litigiosi, come vogliono i detrattori del sistema, ma è certo che i tribunali avevano un’agenda molto fitta e di grande responsabilità. Il sistema giudiziario prevedeva che le controversie private si discutessero dapprima davanti ad arbitri pubblici, scelti di comune accordo dalle parti. Qualora uno dei contendenti non accogliesse il lodo arbitrale, si andava a pro-

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cesso. Le cause potevano essere private (díkai) o pubbliche (graphaí), le prime intentate dalla parte lesa, le seconde da qualunque cittadino per reati che riguardavano il pubblico interesse, come l’oltraggio (hýbris) o l’usurpazione della cittadinanza (xenía). Per i processi privati le giurie erano di 201 giurati o, se la causa riguardava somme superiori a 1000 dracme, 401; per le graphaí di 501. Il numero di giurati saliva ulteriormente per processi politici, cioè legati a reati con implicazioni politico-legislative, come l’accusa di aver presentato una proposta di legge incostituzionale o per altri delitti che comportavano minaccia alla polis o alla democrazia: in questi casi le giurie superavano il migliaio di giudici. C’erano diversi tribunali ad Atene, ciascuno con compiti specifici. L’Eliea era il tribunale popolare ordinario, che si occupava delle cause private e di molte cause pubbliche. Quelle per delitti di sangue, carichi di implicazioni religiose oltre che giudiziarie, erano affidate all’Areopago, il più antico e autorevole consiglio ateniese, un tempo guida politica della città, ma nel corso del V secolo limitato nelle sue prerogative alla funzione giudiziaria. Al suo fianco operavano alcuni tribunali specializzati in specifiche tipo-

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logie di omicidio. Il Delfinio era chiamato a valutare i casi di omicidio legittimo, vale a dire gli omicidi per i quali non era prevista, nella normativa attica, la necessità di purificarsi e quindi della pena: l’uccisione dell’adultero e del ladro colto in flagranza, che minacciavano e violavano la sacralità della struttura domestica, l’oîkos, la legittima difesa o gli omicidi di un commilitone durante la guerra o di un concorrente a una gara. Il Palladio, nel tempio di Atena, giudicava gli omicidi involontari, il Freatto gli omicidi commessi in esilio – l’imputato, che non poteva toccare il suolo attico, si difendeva su una barca di fronte alla spiaggia. Il Pritaneo infine aveva la prerogativa di giudicare oggetti e animali ritenuti colpevoli di omicidio, in un processo dalle forti connotazioni rituali e sacrali. I giudici popolari avevano in tribunale piena sovranità sul proprio voto, che era segreto, e non dovevano dare alcuna giustificazione della propria scelta. Le sentenze avevano una sola alternativa: condanna o assoluzione. Non era prevista alcuna sentenza scritta né alcuna motivazione. Darò il mio voto in conformità alle leggi e ai decreti approvati dall’assemblea e dal consiglio; ma, se non c’è nessuna legge, voterò in conformità a ciò

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che ritengo più giusto, senza favoritismi o ostilità. Voterò solo sulle questioni dell’accusa e ascolterò senza parzialità ugualmente accusatori e difensori.

Al contrario dei partecipanti all’assemblea, al momento della designazione nel gruppo dei 6000 prescelti per l’anno in corso, i giudici pronunciavano un giuramento: quello che abbiamo appena letto è una versione del testo del giuramento, ricavata dall’orazione Contro Timocrate di Demostene. La funzione giudiziaria rivestiva infatti un carattere sacro più spiccato rispetto a quella politica. I Greci prendevano i giuramenti molto sul serio e stipulavano un patto con la divinità; il mancato rispetto del giuramento esponeva perciò alla sanzione degli dèi. Il giuramento eliastico è per noi significativo anche perché si proclama che il giudizio sarà espresso in conformità alle leggi. L’assenza di conoscenza giuridiche specifiche nei giudici, semplici cittadini, ha talvolta fatto credere che le cause in tribunale fossero decise da ragioni di carattere più sociale che legale: il giuramento sembra indicare che le leggi fossero considerate invece il fondamento che determinava l’esito finale del processo. Solo in assenza di norme pertinenti al caso giudicato il giudice era legittimato a se-

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guire quella che riteneva, soggettivamente, la posizione più giusta. In anni recenti si è rivalutata la centralità delle prescrizioni legislative nell’operato dei giudici, quella che gli anglosassoni chiamano rule of law e che identifica uno Stato di diritto. È una posizione condivisibile a patto di non applicarla in modo troppo rigido; elementi di carattere extra-legale concorrevano a formare l’opinione dei giudici, dettati dalle procedure stesse del processo. Parlare in tribunale significava infatti affrontare, come abbiamo visto, un uditorio piuttosto numeroso. Le parti si esibivano in una vera e propria performance orale nella quale, oltre a dispiegare argomenti, prove, testimoni, sollecitavano le reazioni emotive dei giudici, facendo appello al loro pathos. Come l’assemblea, anche il tribunale era il regno della parola. Chi poteva permetterselo ingaggiava i servizi di un professionista, il logografo, incaricato di scrivere il discorso e consigliare sulla migliore strategia processuale da adottare. Attorno alla pratica dei discorsi si era sviluppata una specifica disciplina, quella della retorica, nata proprio per fornire strumenti utili ad affrontare la platea e a risultare persuasivi. La retorica, elaborata secondo la tradizione a partire dagli inizi del V secolo (ma

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con tracce di esemplificazioni di capacità oratorie che risalgono fino a Omero), si era sviluppata in particolare ad Atene, grazie all’apporto della cultura sofistica e delle scuole di retorica, nelle quali si formavano i cittadini abbienti. Esistevano veri e propri manuali di retorica: ce ne sono giunti due, ad opera di Anassimene di Lampsaco e di Aristotele. Questi testi non si occupavano solo della capacità di strutturare un discorso, di catalogare gli argomenti e di organizzare le prove, ma dedicavano ampio spazio anche al rapporto tra oratore e uditorio, sia sul piano logico-argomentativo che su quello emotivo, etico e psicologico. Sono dei veri e propri trattati di sociologia della comunicazione. Un discorso persuasivo doveva saper fare leva, oltre che su buoni argomenti e solide prove, sulla capacità di coinvolgere i giudici richiamando un universo di comportamenti e valori condivisi o presentati come tali. Il tribunale era il luogo in cui la legge imperava, ma era anche un teatro dove si mettevano in scena i fondamenti della convivenza civica. Le pratiche del discorso, che ricaviamo in particolare dai testi degli oratori attici, rappresentano una forma estremamente potente di costruzione dell’identità culturale di Atene, in una continua dialettica tra richiamo

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alla tradizione e ripensamenti dei valori etici e dei principi giuridici, offerti alla riflessione dei giudici e, attraverso di loro, all’intera comunità dei cittadini.

II

Demokratía: il nome, la cosa

1. Parole reversibili Nel raccontare la guerra civile scoppiata a Corcira nel 427, nel corso della prima fase della guerra del Peloponneso, lo storico Tucidide fa menzione di una strage che i sostenitori della democrazia compirono ai danni dei concittadini oligarchici. L’episodio si segnalava per la crudeltà con cui furono eliminati nemici veri o presunti, sotto il pretesto di difendere il regime democratico da chi intendeva sovvertirlo: «Non ci si arrestò di fronte a niente: il padre uccise il figlio, i supplici furono trascinati via dai santuari e uccisi presso gli stessi e alcuni morirono dopo essere stati addirittura murati nel santuario di Dioniso». L’episodio offre allo storico lo spunto per una riflessione più ampia sulla distorsione delle parole della politica nella violenza delle lotte civili:

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Fu anche modificato, in rapporti ai fatti, l’abituale significato delle parole, quando si trattava di dare una giustificazione […]. Causa di tutto ciò era il desiderio di potere, cui si aspirava per avidità e per ambizione […]. Infatti i capi delle fazioni nelle città, che disponevano da una parte e dall’altra di una terminologia in apparenza piena di fascino, conformemente alla loro preferenza per l’uguaglianza di tutti i cittadini rispetto alla legge o per la saggezza dell’aristocrazia, pretendevano a parole di servire gli interessi pubblici ma di fatto ne facevano un premio per le loro lotte.

Le belle parole della politica si espongono a essere piegate a fini poco nobili e perdono il loro valore abituale, diventano vuote o, forse peggio, si contaminano per essere usate non in relazione al bene comune, ma a spiccioli interessi di parte. Tucidide, secondo lo stile che gli è proprio, è lucido nel valutare le forme della lotta politica e sottile nel rivelare la potenza ma anche gli inganni della parola. Al centro della sua riflessione, come appare chiaramente alla fine del brano citato, è l’interesse comune (quelli che i Greci chiamavano i koiná), che dovrebbe essere l’obiettivo di ogni azione politica ma che, così spesso, è sacrificato sull’altare di passioni e aspirazioni di parte. La considerazione vale per tutti, oligarchici e

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democratici: appellarsi all’uguaglianza dei diritti nella polis, alla isonomía politica o alla saggezza aristocratica non garantisce dell’onestà delle intenzioni. Le belle parole, attraenti e piene di lusinghe, possono essere usate come giustificativi per azioni che con esse non hanno niente a che vedere. Tucidide ci mostra come il mondo greco avesse già sperimentato la forza attrattiva delle parole della politica, ma anche la loro potenziale pericolosità: se maneggiate in modo inaffidabile, esse divengono reversibili. In particolare, per i democratici Tucidide menziona, tra le parole piene di fascino, isonomía. Perché non usa demokratía? La scelta va spiegata. Isonomía è una parola che ha una lunga e importante storia. Nasce in ambito aristocratico e, formandosi dal verbo némein, che significa “distribuire”, e dal prefisso iso-, che indica uguaglianza ma anche equità, individua un regime nel quale si istituisce una equa ripartizione di ruoli all’interno di una collettività politica. A ciascuno secondo il suo merito, che originariamente include, in ambiente aristocratico, il rango e il censo. Il termine nel tempo si trasforma e viene infine fatto proprio dalla democrazia, che tuttavia sente, nel suffisso, un riferimento più specifico al termine nomos, che indica la legge. Isonomía

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allora, nell’accezione democratica, passava a significare “uguaglianza di fronte alla legge”. Che la democrazia si sia appropriata di un termine di matrice aristocratica non deve stupire: alla rivoluzione politica che essa determinò si accompagnava la risistemazione di un ampio bagaglio di elaborazioni e riflessioni proprie della cultura aristocratica, pre-­democratica, che sarà rivisitata e rifunzionalizzata senza essere mai del tutto abbandonata. L’uso di isonomía per indicare un regime di fatto democratico non è introdotto per la prima volta da Tucidide. Si trova nel passo di un altro storico, Erodoto, vissuto circa una generazione prima di Tucidide e testimone prezioso, tra l’altro, per la storia del termine demokratía, che è attestato per la prima volta proprio nella sua opera. Nel terzo libro delle sue Storie, che narrano l’epopea delle guerre combattute e vinte dai Greci contro i Persiani del re Dario e poi di suo figlio Serse, lo storico introduce un dibattito fra tre dignitari persiani che hanno appena sconfitto un presunto usurpatore del regno, un sedicente fratello del defunto re Cambise. I tre devono decidere quale regime sia auspicabile per i Persiani. A parlare sono, nell’ordine, Otane, Megabizo e Dario, il futuro re Dario I, con discorsi di

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struttura binaria: elogio di un sistema di governo (politeía, in greco) e biasimo di uno concorrente. È una contrapposizione di discorsi di carattere agonale, con argomenti che si rincorrono in una girandola di tesi e antitesi. I sistemi confrontati sono tre: monarchia, oligarchia e democrazia. Alla fine degli interventi ognuno di essi ha ricevuto un discorso che contiene gli argomenti a suo favore e quelli contrari, con una struttura simmetricamente circolare: Otane biasima il potere monocratico ed esalta quello popolare; Megabizo biasima la democrazia e sostiene l’oligarchia; Dario confuta gli argomenti a favore dell’oligarchia (e anche, en passant, della democrazia) e propone la monarchia, tornando al regime dal quale si era partiti. Le circostanze del dibattito, avvenuto nel 522 a.C. in Persia, sono a dir poco bizzarre e lo stesso Erodoto mostra di essere pienamente consapevole: «vennero pronunciati discorsi che, se per alcuni Greci sono incredibili, comunque furono pronunciati», afferma con piglio assertivo, dietro il quale non è forse del tutto assente una velata ironia. Nei capitoli che seguono si presenta la prima classificazione dei regimi politici del mondo greco (se si esclude un cenno piuttosto fugace presente nella seconda Pitica di Pindaro), defi-

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niti anzitutto per la dimensione numerica di chi esercita il potere (uno, pochi, molti). Otane, il primo a prendere la parola, parte da una requisitoria contro il potere affidato a un uomo solo, privo di limiti e controlli, che porterebbe insieme arroganza (il termine greco è hýbris, che designa appunto la violazione del limite che causa oltraggio e umilia chi la subisce) e invidia. Maggiore il potere, maggiore il desiderio di averne ancora e il senso di minaccia portato dagli altri. Otane all’inizio parafrasa il termine “monarchia” nell’espressione verbale «un uomo che governa da solo», rendendo più esplicito il suo significato concreto. Ogni bella parola ha una sua radice etimologica che, se serve a spiegarla, a volte ne rivela anche la natura sinistra. E a metà circa del suo discorso il termine “monarca” è sostituito da “tiranno”, a suggerire l’inevitabile trasformazione di ogni potere monocratico verso la tirannide (Aristotele, circa un secolo più tardi, indicherà proprio nella tirannide la forma degenerata della monarchia, come vedremo). A queste aberrazioni del potere di un solo uomo, Otane contrappone il suo regime ideale: La moltitudine che governa ha in primo luogo il nome più bello di tutti: isonomía. In secondo

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luogo, non fa nulla di quanto fa il monarca: le cariche sono esercitate a sorte, chi ha una carica deve renderne conto, tutte le decisioni sono prese in comune [es tò koinón]. Propongo dunque che noi, abbandonando la monarchia, glorifichiamo la moltitudine: nel molto, infatti, si trova il tutto.

Nel carattere agonale del dibattito entra anche l’attribuzione di nomi per quei regimi. Il primo argomento di Otane riguarda infatti il nome: isonomía è «il più bello di tutti». Il persiano elenca alcuni caratteri di questo governo della massa dai tratti molto greci: attribuzione delle cariche per sorteggio, rendiconto del proprio operato, condivisione del momento decisionale. Caratteri che tratteggiano appena il regime che ha in mente Otane ma che, presi nel loro insieme, lasciano pochi dubbi che il riferimento sia al regime democratico. Lo suggerisce peraltro anche Erodoto dicendo, nel presentare il primo discorso, che Otane propose di «deporre il potere al centro» (es méson), indicando il carattere comune del bene politico. Tuttavia, Otane non usa mai la parola demokratía, né fa mai riferimento al dêmos, ma preferisce plêthos, “massa”, “moltitudine”. Perché? Si possono avanzare diverse spiegazioni: forse Erodoto si rendeva con-

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to che parlare di democrazia nel 522 in Persia sarebbe sembrato un anacronismo inaccettabile, suggerendo che a quel livello cronologico e in quel contesto esisteva già di fatto la cosa ma non ancora il nome, anticipato dal riferimento a isonomía come nozione chiave dell’idea di governo popolare. Per esprimere l’atto di governare Otane sostituisce anche il verbo krateîn, che forma la parola “democrazia”, con árchein. La sua espressione, la «moltitudine che governa» (plêthos árchon), sembra una parafrasi del popolo che comanda democratico, ma al tempo stesso evita proprio le parole più riconoscibili di quella parola: dêmos e krátos. L’intervento del secondo oratore, Megabizo, scioglie in parte le prudenze lessicali adottate da Otane. Il suo attacco alla democrazia contiene in sé una buona parte degli argomenti che diventeranno un topos della opposizione anti-­ democratica di V e IV secolo: il popolo è umorale e non ha freni, è un tiranno non meno crudele e violento, ma in compenso del tutto inconsapevole delle sue scelte, perché ignorante e privo della capacità di comprendere (gnóme); i tiranni, se pure agiscono con arroganza, lo fanno almeno con consapevolezza e cognizione di causa. Il popolo non ha educazione, non conosce il bello, sa

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solo sconvolgere quel che tocca, «come un fiume in piena». Sul piano della terminologia, Megabizo parte utilizzando lo stesso termine plêthos privilegiato da Otane per indicare la massa, ma vi aggiunge krátos; poche righe dopo introduce (finalmente!) dêmos, il popolo, per definirlo «sfrenato» (akólastos). La sua conclusione è che «si rivolgano al dêmos quanti vogliono male ai Persiani». Utilizzando le due parole dêmos e krátos, Megabizo rende chiaro che in quel che Otane aveva descritto e rubricato come isonomía poteva in realtà riconoscersi la democrazia. E quella rivelazione radicalizza le posizioni dell’avversario: se isonomía poteva avere un suono dolce alle orecchie di un aristocratico, difficilmente la parola demokratía sarebbe suonata tale. Dario a sua volta, cui è attribuito un tono generale più moderato e, si direbbe, regale, si riferisce al popolo alternando plêthos e dêmos. Nel passo cruciale contro il regime democratico, nel quale afferma che «quando il popolo comanda, è impossibile che non avvenga qualche malvagità», la parola scelta per indicare il popolo è però dêmos. È interessante rilevare che, nel gioco delle coppie di costituzioni attribuite a ciascun oratore nel brano, il regime “rivale” della democrazia sia quello monarchico/tirannico, mentre per

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l’oligarchico la contrapposizione è con la democrazia. Il dialogo ci indica che la democrazia si poneva anzitutto come regime anti-tirannico e in questo condivideva con l’oligarchia un obiettivo comune. La democrazia, del resto, ammette gli aristocratici al proprio interno; l’oligarchia, al contrario, pur tradizionalmente anch’essa ostile alla tirannide, vede nella democrazia la principale minaccia alla sua sopravvivenza e si definisce proprio per l’esclusione del popolo, del dêmos. Se anche poteva sembrare poco plausibile storicamente un richiamo al regime democratico nella Persia del 522 a.C., quattordici anni prima delle riforme di Clistene, i nessi che questo dialogo istituiva o cui alludeva non potevano sfuggire al pubblico greco di Erodoto. Sarà appena il caso di dire che né Otane né Megabizo avranno successo con i loro argomenti: la Persia resterà una monarchia e proprio il sostenitore di questo regime nel dibattito, Dario, diventerà il nuovo gran re di Persia. La parola demokratía, assente nel contesto del dibattito persiano, è invece utilizzata da Erodoto in due altri luoghi della sua opera. Il primo riferisce delle operazioni che i Persiani svolsero nel preparare la prima spedizione contro la Grecia. Siamo nel 492 a.C.: Mardonio si incarica

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per conto del re Dario di deporre i tiranni filopersiani dalle città greche d’Asia Minore, che avevano giocato un ruolo decisivo nel fallito tentativo di rivolta contro la Persia, terminata due anni prima con la battaglia di Lade, tiranni che si erano mostrati inaffidabili verso il gran re e resi odiosi alle città sottoposte al loro comando. Al loro posto, Mardonio insedia demokratíai, regimi democratici, probabilmente per ingraziarsi le poleis ioniche e sottrarle all’imminente guerra contro Atene ed Eretria che avevano dato man forte alla rivolta faticosamente domata. Anche in questo caso, Erodoto evoca il ruolo dei Persiani nella storia dell’idea e delle prime realizzazioni (in città greche!) democratiche, quasi a ricordare ai Greci e, in primis, agli Ateniesi che non si trattava di un’elaborazione del tutto esclusiva del mondo ellenico e attico, per quanto solo in Grecia avesse trovato una sua realizzazione politica compiuta. Anche nel caso delle città ioniche, la demokratía, sia pure imposta dall’esterno, succedeva a regimi tirannici e a loro si opponeva. La seconda occorrenza è forse più prevedibile e associa il termine demokratía con Clistene, indicato esplicitamente come colui che la istituì ad Atene nel 508 a.C. Erodoto rappresenta il primo testimone del nome, ma anche dell’esistenza di

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un dibattito intorno al miglior regime politico che comprendeva, accanto alle forme tradizionali, monarchia e oligarchia, anche la democrazia. Troviamo in Erodoto tanto la forza del nome quanto la consapevolezza della controversia che poteva portare con sé. Una controversia che non riguardava tuttavia solo la demokratía: sia la monarchia che l’oligarchia conoscono nel dibattito che abbiamo visto i propri contraltari negativi, nella tirannide o nell’assenza dei migliori, gli áristoi, dal novero degli oligarchi e nel rischio del prevalere di interessi personali al loro interno. Nome e cosa erano dunque intimamente legati nel costruire modelli politici fin dalle prime elaborazioni che il mondo greco ci trasmette sulle forme di governo e intorno ai nomi si giocava in parte la polemica relativa al contenuto dei vari regimi. Nel discorso finale, Dario afferma che le tre costituzioni sono tutte «ottime», soprattutto quando si presentino nella loro forma migliore. Per ciascuna delle alternative possibili, infatti, esiste un’ampia gamma di sfumature che si evidenzieranno nel corso dell’epoca classica in realizzazioni più moderate o più radicali dei diversi regimi. Un richiamo alla parola demokratía, sia pure con un elegante gioco di scomposizione, appa-

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riva già in due versi della tragedia di Eschilo Le supplici, rappresentata molto probabilmente nel 463 a.C., nella domanda: «Dove si addensa la mano che governa del popolo?», che Danao pone alle figlie per sapere come si sia svolta una votazione per loro decisiva. In greco, «la mano dominante del popolo» suona come démou kratoûsa cheír e l’espressione indica la procedura del voto tramite alzata di mano (che in greco si chiamava, come sappiamo, cheirotonía). Al contempo, l’accostamento del sostantivo dêmos con il verbo krateîn non poteva che rimandare, per il pubblico che assisteva alla tragedia, alla radice stessa della parola demokratía, richiamata proprio in relazione a uno degli atti che distinguono e caratterizzano quel sistema, il voto assembleare. La scena della tragedia è la città di Argo, in cui governa il mitico re Pelasgo; ma il suo governo è una sorta di “monarchia democratica” che si esercita in stretta collaborazione con il popolo, che ricorda quel che le tradizioni, certo molto orientate, attribuivano anche al re attico Teseo, campione mitico e nume tutelare della democrazia ateniese. È chiaro che il filtro tragico impedisce una diretta sovrapposizione tra la Argo persa in un passato lontanissimo, certo ignaro del regime democratico e ancor più del-

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la parola, e l’Atene contemporanea al poeta. La riflessione è tuttavia già innescata, nell’abbinare popolo (dêmos) e potere (krátos), con una raffinata creazione linguistica che parte dal gesto della mano popolare che vota e vi innesta dentro il nome, senza però menzionarlo per intero. Il nome lo menziona invece Pericle, nel discorso più celebre che a lui attribuisce Tucidide, il discorso funebre (epitafio) per i caduti del primo anno della guerra del Peloponneso. La definizione che in quel discorso si trova della democrazia parte, ancora una volta, dall’accento messo sul nome: Abbiamo un regime politico che non cerca di copiare le leggi dei vicini: piuttosto che imitare gli altri, noi stessi siamo un modello per qualcuno. Quanto al nome, per il fatto che il governo non è nelle mani di pochi ma della maggioranza, esso si chiama democrazia.

Il regime politico (politeía) è introdotto e descritto brevemente, ma con un crescendo che porta a svelare il nome – che tutti nel pubblico ovviamente conoscono e si aspettano – solo alla fine della frase. Una presentazione in piena regola: «Signore e signori, la democrazia». La definizione è davvero stringata: si chiama così perché a go-

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vernare sono «i più». La contrapposizione è con l’oligarchia, dove la fanno da padroni «i pochi». La monarchia/tirannide invece non è menzionata, come se non fosse neppure una reale opzione. In democrazia governano i molti, non tutti: è regime della maggioranza, non dell’unanimità. Il discorso di Otane in Erodoto si chiudeva con l’enigmatica espressione «nel molto, infatti, c’è il tutto», che alcuni traducono anche come «nella maggioranza c’è il tutto», accentuando l’assonanza con la democrazia. Il volere della maggioranza, della moltitudine, del molto, è fonte di legittimazione politica e base del sistema democratico. Circa un secolo dopo il discorso di Pericle, Aristotele codificherà in maniera definitiva la teoria delle costituzioni greche, fornendo la base per ogni futura discussione, da Polibio fino al mondo romano e oltre. Per il filosofo ci sono tre forme di governo ideali: la monarchia, l’aristocrazia e quella che chiama semplicemente la “costituzione”, la politeía. Queste forme sono tutte valide, con una certa preferenza per la terza, ma sono sostanzialmente impossibili da realizzare e hanno quasi il sapore di formulazioni utopiche. In fondo, si tratta delle stesse forme elogiate nei discorsi riportati da Erodoto e che il re Dario riteneva, sul piano teorico, tutte ottime,

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compreso il fatto che anche in Erodoto la terza aveva un nome sfuggente, isonomía o governo della moltitudine, mai democrazia. Per ciascuna di queste costituzioni ideali esiste la versione degenerata o peggiorativa: tirannide per la monarchia, oligarchia per l’aristocrazia, democrazia per la politeía. Come si vede, anche in Aristotele si parte dal nome e dal numero (uno, pochi, molti). Nell’impossibilità di realizzare concretamente le forme ideali di questi regimi di governo, bisogna valutare pro e contro delle loro forme degenerate, che sono anche le forme davvero possibili. Aristotele mostra di avere chiaro lo scarto tra formulazione ideale e pratica reale di un’idea politica. Il nome può mascherare o rivelare tale scarto: Aristotele pone tutti i sistemi storicamente compiutisi nella lista delle forme imperfette e peggiorate rispetto ai modelli di riferimento. La costituzione mista si pone come soluzione mediana, che coglie di ciascun sistema di governo alcuni elementi per trovare risposte ai bisogni delle diverse componenti della società; l’esempio in Grecia era Sparta, che aveva monarchia (la diarchia), oligarchia (la gherusía) e democrazia (l’assemblea), sia pure con molti limiti che ne hanno determinato il decadimento finale.

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Polibio applicherà lo schema a Roma, come si è già detto, con una lettura che forza entro categorie politiche squisitamente greche le forme complesse della macchina istituzionale romana, ma ribadisce il nesso profondo che, per la cultura ellenica, univa potere, efficienza e salute di una comunità al suo assetto di governo, alla sua politeía. 2. Demokratía: cosa c’è in un nome Nella Grecia antica c’erano molte forme di demokratía, in relazione tanto alle idee che la supportavano quanto alle strutture e ai dati istituzionali che la distinguevano. Sul piano storico esistevano diverse poleis democratiche oltre ad Atene, con connotazioni specifiche legate al contesto in cui erano inserite. Hanno conosciuto esperienze democratiche per periodi più o meno lunghi, tra il V e il IV secolo a.C., città molto diverse tra loro, che sono arrivate alla democrazia attraverso percorsi difformi rispetto a quello ateniese, ma sempre tramite la rottura di precedenti equilibri socio-economici: alcune poleis del Peloponneso, quali ad esempio Corinto, Mantinea, Argo, o, in Occidente, Crotone, Siracusa, Taranto e la colonia panellenica

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di Turii; le città alleate di Atene, cui talora la democrazia era stata più o meno direttamente imposta. In età ellenistica, dopo le conquiste di Alessandro Magno e la creazione, da parte dei suoi successori, di ampi regni territoriali, la polis sopravvive nelle sue istituzioni e nei suoi rituali politici, ma perde di fatto le prerogative di piena autonomia, libertà e indipendenza per il fatto di dover convivere con un potere ad essa superiore, quello appunto dei nuovi re. In questo contesto, la democrazia diventa sempre più il regime di governo delle città: la parola non possiede più quegli elementi che suscitavano polemica e divisione, come in età classica, per affermarsi come designazione positiva di un regime politico. Improvvisamente, tutte le poleis di quest’epoca volevano dirsi democratiche. La polemica dunque si spostava: non pro o contro la democrazia, ma sul corretto uso del termine, sulla liceità del suo richiamo e sul contenuto politico che quel richiamo doveva avere. Nella polis ellenistica sempre più frequente è il ruolo preminente ricoperto da un ristretto gruppo di notabili; la partecipazione attiva e diffusa degli strati popolari è in quei casi impalpabile, quand’anche mantenga una qualche forma di riconoscibilità formale. Anche

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quelle poleis si definiscono però democratiche, anzi, secondo Polibio, lo storico che racconterà l’ascesa di Roma nel Mediterraneo e seguirà le trasformazioni che la creazione di una potenza imperiale ha imposto al mondo greco, tra le diverse forme di demokratía è proprio quella moderata, dei proprietari terrieri, elitaria, ad avere maggior titolo a fregiarsi di quel nome. Se la componente popolare prende il sopravvento, per lo storico si è di fronte a quella che egli chiama una “oclocrazia”, “il governo della plebaglia”. Se dunque da un lato la parola demokratía è andata assumendo un significato sempre più positivo, come nome che legittima il potere di chi lo esercita, dall’altro diventa oggetto di contesa e polemica che cosa sostanziasse quel nome. Il moderato Polibio pensava che le forme più radicali di quel regime ne fossero di fatto un tradimento: la sua democrazia aveva un carattere repubblicano, moderato, stretto nella difesa di una legalità fatta in primo luogo di diritti sulla proprietà, e dunque forgiata nella difesa dei proprietari terrieri. In diverse poleis una democrazia formalmente riconosciuta e anzi rivendicata con compiacimento nascondeva di fatto il governo di più ristrette élites. Un processo che

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si può seguire in importanti contesti come Rodi o la Lega achea, di cui proprio Polibio era stato membro di primo rilievo, ma che coinvolge la stessa Atene. Dobbiamo naturalmente tener conto della prospettiva delle fonti che ci parlano di queste evoluzioni ellenistiche della democrazia, fonti le cui simpatie sono per lo più conservatrici; l’abbondante materiale epigrafico conferma tanto la persistenza delle forme e delle procedure democratiche quanto il loro controllo da parte di gruppi dirigenti di ricchi proprietari. Questo ceto aveva ogni interesse a svuotare la democrazia degli elementi troppo innovativi, legati alla reale partecipazione di tutte le realtà sociali al governo della polis. La loro idea di democrazia era direttamente collegata alla preservazione del loro status. Il nome sembra, in epoca ellenistica e ancor più dopo la conquista romana, separarsi sempre più dalla cosa, perché la cosa non era ormai più definita con chiarezza: per i democratici più radicali le forme di governo moderato che adottavano l’etichetta di demokratía erano di fatto oligarchie. Per Polibio, al contrario, il rischio era che il richiamo al «più bello dei nomi» celasse, nei fatti, il peggiore dei regimi, la oclocrazia. Ai suoi occhi la libertà formale garantita dalla de-

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mocrazia era una concessione più che sufficiente alle classi economicamente meno agiate e accettabile solo in ragione della pace sociale che se ne poteva trarre. Quando quelle masse pretendevano di partecipare in modo più concreto alla direzione della polis, la democrazia degenerava e si rendeva necessario chiamarla diversamente, oclocrazia. La definizione di democrazia si prestava a diverse interpretazioni e poteva rimandare a forme di governo anche significativamente distanti tra loro, a diverse varianti che si producevano in tempi e luoghi diversi. Eppure, “democrazia” è una parola apparentemente semplice. Si compone di due termini greci, dêmos e krátos, che indicano il potere del popolo o, volendo ingentilire il secondo termine, il governo del popolo. La parola afferma l’attribuzione del potere politico a tutti i membri di una collettività politica e ne garantisce la partecipazione, su un piano di formale uguaglianza politica e giuridica. E tuttavia, poche parole sono più difficili da definire di democrazia. L’interpretazione del suo significato era oggetto di controversia già nel mondo antico, a partire dall’accezione attribuita ai termini che formano il composto: esistevano per entrambi spiegazioni che gettavano una luce assai diversa sul loro

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valore e sull’esito della loro associazione in quel composto, demokratía. Ripartire dalla parola e dai suoi due elementi costitutivi è un buon modo per definire meglio il tema. 2.1. Dêmos Dêmos indicava sia l’insieme della popolazione libera residente su un certo territorio sia il territorio, con una identificazione tra una dimensione topografica e la realtà umana che vi si muove non inusuale nel mondo greco. Con un’ambiguità che, per certi versi, si ritrova anche nella nostra parola “popolo”, dêmos poteva indicare la popolazione nel suo complesso oppure solo gli strati inferiori, le classi, appunto, popolari. Questa alternativa tra una nozione inclusiva del termine dêmos e una esclusiva si trova già operativa nel mondo omerico, nel quale dêmos poteva indicare la comunità nel suo insieme, ad esempio in espressioni quali «il dêmos dei Feaci». Il senso inclusivo emergeva in generale quando l’accezione territoriale del termine veniva in primo piano. I pretendenti di Nausicaa, appartenenti tutti alle famiglie di più alto rango, sono definiti come «i migliori tra i Feaci nel demo». Dêmos poteva tuttavia indicare in Omero anche una componente limitata della popola-

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zione, la parte non aristocratica, una indistinta massa separata dalle élites e, di norma, esclusa dall’esercizio diretto del potere, per quanto ammessa alla partecipazione alle assemblee. Una sorta di anonima maggioranza silenziosa, di cui non erano riconoscibili i singoli individui o le articolazioni interne. In Omero la nozione territoriale di dêmos appare più inclusiva, facendo riferimento a uno spazio condiviso dall’intera comunità a prescindere dalle possibili divisioni interne; quella antropica, al contrario, tende a gerarchizzare e a separare l’élite dagli stati inferiori, “popolari”, e a distinguerla da essi. Lo spazio unisce, la gerarchia sociale separa. Questo non significa che il dêmos avesse solo un ruolo marginale nella rappresentazione delle relazioni interne alla comunità omerica. Nell’isola dei Feaci, cui approda Ulisse nel corso del suo peregrinare, il re Alcinoo, evidente modello di sovrano giusto che regna su una polis ben strutturata, fa riferimento al sostegno del dêmos nei suoi confronti come un elemento che concorre a definire la legittimità del suo potere; l’aedo Demodoco, che nella corte di Alcinoo canta di fronte a Odisseo le vicende della guerra di Troia, ha il dêmos nel nome e svolge funzione di demiurgo, che si ri-

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volge al popolo nel suo insieme e si ricollega alla socialità complessiva della comunità. Non solo: in Omero parlare al dêmos significava parlare pubblicamente e vincolarsi di fronte alla comunità per il contenuto delle parole pronunciate. Nella scena giudiziaria riportata sullo scudo di Achille, descritto dal poeta nel diciottesimo libro dell’Iliade, una delle parti in conflitto giura di aver pagato una certa ammenda «dichiarandolo al dêmos», fornendo così quella che noi definiremmo una dichiarazione ufficiale. Il dêmos, in quella scena, non ha alcuna prerogativa nel giudicare sulla questione specifica, ma assiste al dibattito e sembra certificare, con la sua presenza, la legittimità degli atti compiuti. Il giudizio è lì riservato a un giudice che ascolta le diverse risoluzioni proposte dagli anziani: il dêmos interviene solo attraverso una reazione di approvazione per la parte che vuole supportare. Anche nelle adunanze politiche il dêmos omerico di norma ascolta. È quanto, nel preparare l’assemblea dei soldati che di lì a poco avrà luogo di fronte a Troia assediata, si aspetta Odisseo, esprimendosi in modo molto chiaro (e altrettanto minaccioso):

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Chiunque vedesse del dêmos e trovasse ad urlare, lo batteva con lo scettro e gli gridava con parole: «Pazzo, fermati, sta seduto, ascolta le parole degli altri, che sono migliori di te, tu, codardo e senza forza, che non hai alcun posto né in battaglia né nel consiglio. Non possiamo qui regnare tutti insieme, noi Achei! Non è bene un potere di molti: uno sia il capo, uno il re, cui Zeus Cronide, dalla mente complessa, diede lo scettro e le leggi, perché ad altri provveda».

Il trattamento degli uomini del dêmos nelle parole e nelle azioni di Odisseo non potrebbe essere più chiaro: una riduzione preventiva al silenzio dell’ascolto, incentrata sulla contrapposizione con i re, i basileîs, espressamente definiti «migliori». Pochi versi prima di questo elogio del potere monocratico, investito di una legittimazione divina, l’eroe di Itaca era venuto a colloquio con i capi e gli eroi achei (basileîs e ándres): è evidente la volontà di mostrare una linea di separazione tra i due gruppi in tutto il passo. Se lo spazio (l’assemblea, il campo di battaglia) li unisce, ben distinte sono le funzioni attribuite loro: solo i basileîs, i capi dei vari contingenti,

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parlano e propongono; il dêmos ascolta. In Omero, in riferimento al processo decisionale collettivo appare già la separazione tra un consiglio ristretto e selezionato, la boulé, e un’assemblea allargata, secondo uno schema che rappresenta un dato strutturale dell’organizzazione politica della polis. Le decisioni, nell’Ilia­de, si discutono e si prendono nel consiglio ristretto; l’assemblea ne viene messa a parte e le ratifica, ma i margini per un reale dibattito sono sostanzialmente assenti. Gli uomini del dêmos sono rigorosamente esclusi dal consiglio, mentre partecipano all’assemblea, senza, di norma, prendere la parola. Quando lo fanno, come nel caso ben noto di Tersite, l’atto appare un affronto ingiurioso all’ordine gerarchico e l’incauto oratore, benché il suo discorso, che prende le difese di Achille contro Agamennone, a molti lettori moderni potrebbe apparire del tutto ragionevole, viene sottoposto a una esemplare e pubblica umiliazione di cui si incarica di nuovo Odisseo, usando, ancora una volta, lo scettro, il simbolo del suo potere, per battere il malcapitato. Tersite conosce le basi del parlare in pubblico, ma è guidato dalla volontà di calunniare i re e di seminare discordia: così Odisseo lo ammonisce a «non parlare avendo i re sulla bocca» e a «non vomitare in-

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giurie». Le percosse inflitte da Odisseo a Tersite raccolgono, nella scena, l’apprezzamento degli altri membri dell’assemblea, che ridono nel vedere il loro commilitone dolorante e in lacrime, compiacendosi del ristabilito ordine e dell’esemplare punizione. Dal dêmos dunque ci si aspetta, nella rappresentazione omerica, che ascolti, esprimendo al massimo il suo consenso – o, più raramente, il suo dissenso – alle proposte di un oratore attraverso una partecipazione sonora disarticolata fatta di urla e grida; anche questa opportunità era peraltro disapprovata, come abbiamo visto, da Odisseo. Il re può decidere di tener conto oppure no di tale reazione: Agamennone rifiuta di restituire Criseide nonostante il dêmos si schieri a favore della richiesta del padre della donna, il sacerdote troiano Crise, ma accoglie le proposte di Diomede contrarie alla pace con i Troiani, che hanno ottenuto uno scrosciante consenso in assemblea. In questo caso il capo degli Achei sottolinea che la paternità finale della decisione spetta a lui: «A me così piace». La presenza sonora del dêmos non si fa discorso e senza l’articolazione della parola in discorso non c’è ruolo politico riconoscibile: se il dêmos non parla, politicamente non è. Il basileús d’altron-

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de non è obbligato a tener conto delle reazioni del dêmos, ma non è prudente che le ignori del tutto. Esiste in Omero anche una voce del dêmos capace di esercitare una sua influenza non trascurabile all’interno della collettività e di determinare alcuni comportamenti dei capi. Si tratta di una voce che circola al di fuori dei luoghi più o meno istituzionalizzati del potere, ma che si fa sentire. La ritroviamo in diversi passaggi omerici. Ne prendiamo uno: nel racconto in cui si finge un mendicante cretese, Odisseo narra al suo fedele porcaro Eumeo, al quale è apparso sotto mentite spoglie, una sua falsa – ma assai credibile – vicenda biografica che comprendeva la partecipazione alla guerra di Troia al seguito del re Idomeneo: allora costrinsero me e Idomeneo glorioso a condurre navi a Ilio. Nessun rimedio v’era per rifiutare: urgeva crudele la voce del dêmos.

Odisseo utilizza nel suo racconto un verbo che indica l’atto di dare un ordine: il comando non è impartito direttamente dal dêmos (non ne avrebbe autorità), ma deriva dalla sua aspettativa che richiede di essere in qualche modo

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soddisfatta. Odisseo non avrebbe voluto partire e forse così gli altri eroi Achei, perché la guerra di Troia avrebbe «fiaccato di molti eroi le ginocchia»; fu convinto (vale a dire socialmente obbligato) proprio dalla «voce del dêmos», che imponeva che i propri capi coprissero di gloria sé stessi e le loro comunità. Odisseo aggiunge che quella voce sa essere crudele e grave, difficile da accettare ma impossibile da rifiutare. Questa voce del popolo non sembra avere potere vincolante, anche se alcuni studiosi vi hanno visto un riferimento a prime forme assembleari, di cui però non è dato cogliere testimonianze storiche. Nelle società descritte nei poemi omerici il dêmos appare nel complesso presenza silenziosa sul piano politico ma rilevante su quello sociale. Quando la sua voce agisce, è piuttosto in conseguenza degli equilibri e dei rapporti di forza interni alla comunità. Il potere dei basileîs si basava su autorità e onore, sulla considerazione sociale che non solo i pari, ma anche gli elementi di grado inferiore della collettività attribuivano loro: una considerazione definita come timé in Omero e, a partire da lui, in tutte le società greche successive. La società omerica non ha, sia ben chiaro, nulla di democratico: i poemi ci presentano anzi

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una sorta di summa della cultura e delle società aristocratiche. Ci interessa notare però che il termine dêmos si leghi fin da Omero a un campo semantico piuttosto ampio, con diverse accezioni possibili: da queste diverse accezioni deriva una complessa serie di conseguenze sul ruolo politico e sociale che il dêmos può o non può giocare. Il dêmos fa parte della collettività e ne partecipa dal punto di vista sociale, ma è escluso dai processi decisionali e politici. Legittima il potere dei basileîs, ma non partecipa di quel potere. Possiede già tanto l’accezione inclusiva («il dêmos dei Feaci») e quella esclusiva (la contrapposizione fra dêmos e basileîs). Si identifica in modo specifico con un territorio, che lo inquadra e lo definisce. Nel corso dell’età arcaica, dêmos da un lato inizia a conoscere una maggiore identificazione con l’insieme della collettività, mentre dall’altro la connotazione sociale si fa più acuta, nelle espressioni di sprezzante distacco dei più convinti sostenitori dell’esclusivismo aristocratico (come ad esempio Teognide), ma anche nei tentativi di trovare forme di convivenza e conciliazioni a fronte della conflittualità che percorre le poleis. Solone ricorderà nelle proprie elegie il suo sforzo di trovare una mediazione tra le

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richieste di quanti avevano potere e ricchezza e quelle del dêmos, che egli “riunì”, sia come corpo politicamente riconoscibile e tutelato nella polis, sia fisicamente, richiamando ad Atene quanti erano stati venduti schiavi per debiti o si erano allontanati volontariamente per il bisogno. Al dêmos Solone afferma di aver concesso prerogative sufficienti e di non averne leso né amplificato l’ono­re politico (la timé). Afferma anche di aver saputo tenere a freno le sue richieste più radicali, senza cedere alla tentazione di cavalcare l’onda del malcontento popolare per trarne vantaggi personali o istituire un regime tirannico. Solone rappresenta una prima affermazione della centralità della equidistanza nell’organizzazione politica e statale della polis, rivendicando di aver offerto un «saldo scudo» a protezione di entrambe le parti in lotta, per impedire che una potesse prevalere ingiustamente, e di essersi posto come confine, limite (hóros) tra due eserciti rivali. Questa posizione di mediatore rappresenta un passaggio importante nella storia politica ateniese, gettando le basi all’idea di condivisione della polis intesa come bene comune e collettivo. Solone non può essere associato storicamente alla democrazia, anzitutto perché cronologicamente precede la

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nascita e lo sviluppo tanto della nozione quanto della pratica della demokratía, ma il suo accogliere a pieno titolo il dêmos nella città lo ha fatto sentire spesso come uno dei precursori diretti di questo regime. Dêmos inizia a essere un termine polemico (oggi si direbbe forse divisivo) mano a mano che le società greche si fanno più complesse nella loro stratificazione interna. Il rapporto tra il rango, legato all’appartenenza ad antiche e prestigiose famiglie di proprietari terrieri, e la condizione economica, soprattutto quella derivante da attività diverse dall’agricoltura (produzione artigianale, scambi commerciali e mercantilismo), assunta da alcuni uomini del dêmos, si va allentando. L’inferiorità della condizione sociale coincideva sempre meno, a partire dalla fine dell’età arcaica, con le condizioni economiche e la distribuzione della ricchezza. Ne è buon testimone ancora Solone: Molti uomini dappoco [kakoí] arricchiscono, mentre i valenti [agathoí] sono poveri, ma noi non scambieremmo mai con loro la ricchezza per il valore, perché questo è per sempre stabile, mentre il denaro ora lo ha l’uno ora lo ha un altro.

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L’appartenenza sociale è designata, come frequentemente accade nella cultura aristocratica, in termini etici: i buoni sono i nobili, che hanno il valore; i cattivi i parvenus arricchiti. I versi però possono essere letti anche altrimenti, come faceva ad esempio Plutarco nella sua biografia soloniana: il legislatore esprimerebbe la propria simpatia per i poveri. L’interpretazione plutarchea appare improbabile, ma è comunque interessante per mettere in luce le ambiguità legate al tema della ricchezza: dêmos non era solo sinonimo di povero, ma indicava chi non aveva le stimmate dell’educazione e dell’etica aristocratiche. La ricchezza scorre e circola, non è più connessa indissolubilmente con la virtù, l’areté: Solone conosce già, all’inizio del VI secolo, le conseguenze della circolazione dei beni e della mobilità sociale – come, del resto, implicavano le sue classi, basate sul censo e non sul rango. Teognide non si dava pace per queste forme di arricchimento dei “malvagi”, sentite come rottura di un ordine naturale e giusto; Solone prende atto che la ricchezza non necessariamente premia il merito. E veniamo, finalmente, a demokratía. La doppia accezione di dêmos che abbiamo visto solleva l’ovvia domanda: chi va interpretato come

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il destinatario del potere democratico? Tutti i membri riconosciuti della collettività o solo una parte di essi, la componente più specificamente democratica e popolare? Il termine demokratía va inteso insomma in senso inclusivo, relativo a tutti i cittadini, o esclusivo? I Greci, in particolare gli Ateniesi, avevano risposte diverse a seconda della simpatia con cui guardavano alla democrazia. Un irriducibile avversario di quel sistema, l’anonimo autore di un breve ma incisivo e piuttosto velenoso scritto sulla costituzione democratica ateniese, noto nella tradizione di studi come il Vecchio Oligarca, non aveva dubbi: la demokratía andava intesa come dominio di una parte della città, quella popolare: Scegliendo questa costituzione, [gli Ateniesi] hanno deciso che i peggiori avessero la meglio sui migliori, e perciò li biasimo. […] Se qualcuno si stupisse del fatto che in ogni campo concedono di più ai malvagi e ai poveri e ai democratici che ai cittadini onesti, anche in questo aspetto apparirà chiaro che difendono la democrazia. Infatti se i malvagi e gli uomini del popolo e i poveri se la passano bene e diventano numerosi quelli come loro, rafforzano la democrazia; quando invece a stare bene sono i ricchi e gli onesti, i democrati-

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ci rendono forti i loro oppositori. Dovunque nel mondo i migliori si oppongono alla democrazia.

Nel passo è evidente che il dêmos rappresenta per l’anonimo la città dei poveri e dei peggiori (poneroí), alla quale si oppongono gli onesti, i galantuomini, i membri dell’aristocrazia, in una parola, i migliori, in una alternativa che non conosce mediazioni. Perciò anche la soluzione auspicata contro l’odiato regime è radicale: Se cerchi quale sia il buongoverno, vedresti in primo luogo che i buoni vi fanno le leggi, poi che sono i buoni a castigare i cattivi, a decidere della città e a non permettere che dei pazzi deliberino, esprimano la loro opinione e partecipino all’assemblea. Grazie a un governo di questo tipo, è chiaro che il popolo [dêmos] cadrebbe al più presto in schiavitù.

L’alternativa alla democrazia è l’asservimento del dêmos e la sua riduzione al silenzio. L’autore, tuttavia, riconosce che non è così semplice, in particolare ad Atene, perché non è facile trovare un numero adeguato di aristocratici disposti a sfidare apertamente il regime. Alcuni di essi, anzi, si sono di fatto alleati con il dêmos e a loro l’autore riserva gli strali più acuminati:

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Ora, io perdono al dêmos la democrazia, perché è comprensibile che ognuno persegua il proprio bene. Ma chi, pur non appartenendo al dêmos, sceglie di vivere in una città democratica invece che in una oligarchica, deve avere intenzione di compiere ingiustizie, consapevole che è più facile celare le proprie malefatte in una democrazia che in una oligarchia.

L’anonimo sostiene che gli aristocratici “collaborazionisti” che hanno accettato la convivenza politica con il dêmos (di cui non fanno parte, come afferma esplicitamente) sono mossi dalle peggiori intenzioni e devono avere qualcosa da nascondere. Sono imperdonabili traditori. L’argomento del critico della democrazia rivela che la convivenza tra aristocratici e popolari finisce per legittimare questi ultimi. Dalla sua prospettiva, non c’è modo di condividere la partecipazione al governo democratico. I sostenitori della democrazia davano alla parola dêmos un’interpretazione del tutto rovesciata. Ce ne offre una chiara testimonianza un discorso inserito da Tucidide nel sesto libro delle sue Storie e attribuito ad Atenagora, un capo della fazione democratica di Siracusa:

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Qualcuno dirà che il potere del dêmos non è né intelligente né equo, mentre i ricchi sono anche più capaci di governare nel modo migliore. Ma io anzitutto dico che il dêmos è il nome di tutta la collettività, mentre l’oligarchia è una parte; in secondo luogo, che i migliori custodi delle ricchezze sono i ricchi; ma quanti hanno comprensione politica possono governare meglio e a decidere nel modo migliore, dopo aver però ascoltato, sono i molti: e questi settori hanno parti uguali allo stesso modo, sia singolarmente sia nel complesso, nel governo del popolo (dêmos). L’oligarchia, invece, fa partecipare i più dei pericoli, mentre i vantaggi non solo se li prende in misura maggiore di altri, ma arriva anzi a tenerseli tutti, privandone gli altri.

L’anonimo indicava nel dêmos la parte che di fatto governa in democrazia, associandolo ai poveri, ma anche ai peggiori nella città, penalizzando sistematicamente i ricchi e gli onesti, i migliori. Atenagora invece definisce il dêmos come l’intera collettività, includendo tutte le componenti della polis, chiamate ognuna a svolgere la propria parte: i ricchi (che gestiscono la ricchezza), i più competenti (che governano), la massa (che ascolta e poi decide). Gli oligarchici sono invece un gruppo ristretto ed esclusivo,

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che inevitabilmente privilegia i propri interessi, rendendo comuni solo i pericoli senza condividere i vantaggi del governo della città. Nella prospettiva democratica rappresentata da Atenagora, rispetto al governo della polis, la democrazia rappresenta il tutto, l’oligarchia la parte. La città democratica evidentemente sposava l’accezione inclusiva di dêmos: i decreti dell’assemblea si aprivano con la formula «Il dêmos e il consiglio hanno deciso…», dove evidentemente il termine dêmos assume una forte carica istituzionalizzata di soggetto politico legittimato a legiferare, identificandosi con l’assemblea dei cittadini. La democrazia concedeva formalmente a tutti i cittadini liberi la facoltà di partecipare attivamente al processo deliberativo e li comprendeva tutti in quella parola. L’accezione inclusiva di dêmos aveva dunque assunto una nuova caratteristica, rispetto a quella territoriale che si è rilevata in Omero: indicava un soggetto politico complessivo, che includeva al proprio interno tutti gli strati sociali, anche quelli fin lì esclusi e che si identificano con quanti, artigiani e contadini, vivono del proprio lavoro. È qui la grande novità e anche, per gli avversari della demokratía, lo scandalo. Quell’uso di dêmos che tutti comprende include, fianco a fianco, i mem-

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bri dell’aristocrazia e i teti nullatenenti, i ricchi e i poveri, quanti hanno ricevuto una raffinata educazione e chi non ne ha. Sono tutti dêmos e tutti equiparati nella gestione politica della comunità. Come questo sia stato possibile lo si ricava dall’evoluzione della storia economica e sociale ateniese, nella quale si creano presto le condizioni per l’emergere di ceti sociali non aristocratici sempre più in grado di guadagnarsi un proprio spazio e una propria visibilità nella città. Che il processo sia stato considerato costitutivo del regime democratico lo rende chiaro Pericle che, nell’epitafio, si rivolge esplicitamente tanto ai ricchi quanto ai poveri. La democrazia presenta, nel suo discorso, un fondamento in primo luogo sociale C’è un’ulteriore connotazione di dêmos a indicare la totalità del corpo politico, al di sopra delle distinzioni di rango, ricchezza, educazione. Il regime democratico, come si è visto, si caratterizzava come anti-tirannico. Questo dato riavvicinava alla democrazia gli oligarchici, in una comune lotta contro le usurpazioni monocratiche del potere, contro l’abolizione delle regole della convivenza: l’anomía, l’assenza di leggi era uno dei tratti tipici del tiranno per i Greci, indipendentemente dalle eventuali qualità positive

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che si potevano talvolta riconoscere a qualcuno di loro. Il caso di Atene è esemplare al riguardo: la democrazia attica riconosceva come il proprio atto di nascita storico l’abbattimento del regime tirannico che Ippia e Ipparco, i figli di Pisistrato, avevano ereditato dal padre e mantenuto dal 528/527 fino al 510, aprendo la strada alle vicende che portarono alle riforme di Clistene, di cui ci occuperemo più in dettaglio fra poco. Ipparco fu ucciso da due cittadini ateniesi, Armodio e Aristogitone, alla memoria dei quali furono concessi una serie di esclusivi privilegi: sostentamento a spese pubbliche per i loro discendenti (sítesis), posti riservati nelle esibizioni teatrali (proedría), esenzione da obblighi fiscali (atéleia); sembra inoltre fosse proibito imporre il loro nome agli schiavi. Questi privilegi, presi singolarmente, erano prestigiosi, ma non del tutto inusuali: è il loro accumulo a indicare la natura eccezionale degli onori che, negli anni successivi e ancora nel IV secolo a.C., Atene aveva stabilito di offrire loro. Erano davvero onorati dalla democrazia ateniese come eroi. Il celebre gruppo scultoreo che li rappresentava divenne il simbolo della libertà democratica, intesa appunto come liberazione dal tiranno. Gruppo scultoreo che ha peraltro avuto una vicenda complicata: la

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sua prima versione, realizzata pochi anni dopo la battaglia di Maratona (490 a.C.) dallo scultore Antenore, fu presa come bottino dal re persiano Serse nel corso del sacco della città di Atene del 480. In seguito alla vittoria contro i Persiani, un nuovo gruppo fu commissionato dalla città di Atene nel 477 agli scultori Crizio e Nesiote, ed è questa versione che diventerà paradigmatica, come modello iconografico e rappresentazione simbolica della libertà. Al tema della libertà come abbattimento del tiranno si aggiungeva, in relazione alla sconfitta del re persiano Serse, anche la contrapposizione tra la libertà greca e la sudditanza servile dei Persiani. L’associazione alla libertà si fece allora duplice: la nozione così culturalmente connotata di un bene di cui i Greci sarebbe stati i massimi custodi si affiancò alla nozione più specificamente legata al tipo di governo democratico, che rifugge, combatte e depone i tiranni, se del caso uccidendoli. In questa esaltazione ateniese dei propri tirannicidi non mancavano elementi di amplificazione retorica e forzature propagandistiche, alle quali reagì Tucidide, che cercò di ridurre la portata politica del gesto, derubricandolo a una assai meno eroica vicenda di gelosie personali, che lo storico descrive come

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una disavventura amorosa. Il gesto dei tirannicidi però ebbe larga e precoce eco ad Atene: un canto simposiale aristocratico li celebra per aver ucciso il tiranno e «reso Atene isonoma». Anche l’aristocrazia ateniese esultava per la cacciata dei tiranni, alla quale del resto alcune grandi famiglie avevano partecipato in prima persona, a iniziare dagli Alcmeonidi. L’isonomía era una chiave di lettura della ritrovata libertà sulla quale si potevano trovare ampie convergenze. I democratici potevano solidarizzare con gli oligarchici nella comune avversione ai tiranni. 2.2. Krátos Un punto di contatto con gli oligarchici, accolti all’interno della democrazia e non sempre felici di essere nel novero, era dunque la comune opposizione alla tirannide. Una testimonianza della natura fondante della connotazione antitirannica della democrazia è offerta da un’iscrizione che riporta un decreto votato dall’assemblea ateniese nel 337/336 e nota come decreto di Eucrate, con la quale si prescrive che chiunque avesse ucciso un aspirante tiranno dovesse essere considerato “puro”, nel senso che non avrebbe potuto essere sottoposto a giudizio in quanto privo della macchia che accompagna, nel

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sentimento religioso greco, gli assassini. Nel caso di abbattimento del regime democratico, inoltre, veniva imposta la sospensione dell’antico e augusto consiglio dell’Areopago, perché non legittimasse un regime alternativo alla democrazia continuando a svolgere le proprie attività. Il decreto fu votato in un momento di estrema difficoltà per Atene, dopo la sconfitta del 338 a Cheronea subita dall’esercito macedone, guidato dal re Filippo II e dal giovane principe Alessandro (il futuro Alessandro Magno), e la successiva proclamazione del re macedone come leader (hegemón) di una coalizione di città greche che consacrava la condizione di subalternità della polis attica alla nuova potenza. La pietra riporta, sopra il testo del decreto, un rilievo che raffigura una figura femminile che incorona un uomo barbuto, seduto, dall’aria solenne e autorevole. Le due figure sono state riconosciute come personificazioni rispettivamente di Demokratía e Dêmos. In una delle pagine più buie della sua storia politica, Atene si aggrappava a quel che le aveva dato gloria e identità, la democrazia, che aveva consacrato il popolo ateniese nel suo insieme e richiedeva ora di essere protetta contro colpi di mano che volessero rovesciarla. Ma la storia, naturalmente, non si governa con i decre-

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ti, e ad Atene la tirannide sarebbe giunta pochi anni dopo, nel 317, quando Cassandro, occupato il porto del Pireo, chiamò al governo della polis Demetrio del Falero, allievo della scuola di Aristotele. Atene recupererà in seguito una forma di democrazia, ormai pallido simulacro di quella dei suoi anni migliori. Nell’immagine che sormonta la stele del decreto, la democrazia incorona il Dêmos perché gli ha riconosciuto e al tempo stesso conferito il potere: è una rappresentazione del krátos popolare. Tenendo in mente questa radice anti-tirannica, possiamo dunque domandarci che tipo di potere si possa riconoscere dietro alla parola krátos. Ci sono due letture proposte a tal riguardo: una identifica nel krátos un potere violento, che si impone con la forza e da questa trae legittimazione (quando ne ha). È la lettura che ne danno gli avversari e i critici della democrazia (in questo caso, tanto per il mondo greco quanto per quello contemporaneo): abbinata al senso non inclusivo attribuito a dêmos, ne risulta che quel regime sarebbe l’imposizione violenta del dominio di una parte, quella delle classi inferiori e dei poveri, sulla collettività. A questa lettura si associa, talora, la considerazione che la retorica democratica avrebbe presentato quei termini

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in forma più inclusiva per mascherare la vera natura del regime, ma che la parola in sé nasce con questa accezione negativa e come termine “da battaglia” nell’agone politico. Esiste tuttavia una diversa lettura del termine krátos, più incline a riconoscervi il riferimento a forme di potere codificate ed esercitate legittimamente. Si è affermato a ragione che il mondo greco ha del potere una visione tragica e complessivamente pessimistica: sa che il potere tende a sviluppare avidità, sopraffazione, perseguimento di interessi personali a sfavore di quelli collettivi in chi lo esercita e che esso, perciò, richiede correttivi e bilanciamenti per limitarne i pericoli. Il greco peraltro conosce un’altra parola utilizzata per indicare la forza che si esercita come imposizione violenta e che si pone come violazione di chi la subisce: bía (che condivide la stessa radice del latino vis). La distinzione, come avviene per le parole, non va presa in modo troppo rigido: bía e krátos hanno una larga area di convergenza semantica e si trovano spesso associati in una endiadi. Quando Atena esorta Menelao a compiere l’audace impresa di legare e interrogare Proteo, il Vecchio del mare, per sapere quale dio lo perseguiti – secondo il rac-

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conto del re spartano –, avrebbe usato le parole: «forza [kártos, variante omerica per krátos] e vigore [bía, che alcuni traducono nel passo come “violenza”] abbiate allora nel cuore / e tenetelo fermo, benché si dibatta e si slanci a fuggire». A volte quella forza di natura violenta è necessaria, certo. Il suo uso, tuttavia, non ha alcuna giustificazione giuridico-legale e anzi, ad Atene, esisteva un’azione giudiziaria che tutelava contro quel tipo di comportamenti violenti (la díke bíaios). Al contrario, il verbo krateîn indicava la legittima forma di proprietà che si poteva vantare su un bene: la formula échein kaì krateîn, letteralmente “avere ed esercitare potere”, indica la forma più solida di quella proprietà, nella quale il possesso si accompagna al titolo legittimo per esercitare il controllo su un bene e disporne. La formula si trova attestata molto frequentemente in iscrizioni di carattere giuridico-economico, ad esempio in relazione a beni ipotecati; compare anche nel proclama che ogni anno l’arconte eponimo fa pronunciare all’araldo e che assicura che, durante l’esercizio della carica, «ciascuno continuerà a possedere [échein kaì krateîn], fino al termine dell’arcontato, tutto ciò che aveva prima del suo inizio». Certo, se osservato da una prospettiva oligar-

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chica quel termine poteva essere inteso come violenza che comporta sottomissione, perché la parola ha anche questa accezione; in composti legati ai regimi politici, tuttavia, essa indica al più regimi fortemente strutturati o caratterizzati, ma non per questo necessariamente vessatori e violenti. Nelle Supplici di Eschilo compaiono entrambe le accezioni. Il krátos violento è quello esercitato sulle Danaidi dalla ferocia maschile: Mi basta non diventar soggetta alle violenze [krátos] dei maschi. Fuggirò fino alle stelle per scansare dissennata unione. Tu scegli Giustizia a tua alleata e dà un verdetto che onori gli dèi.

Rivolgendosi al re Pelasgo, che abbiamo già incontrato, le Danaidi affermano la brutalità dei loro pretendenti, i figli di Egitto, ma anche, più in generale, dei rapporti di genere. Con quella forma di violenza le donne non vogliono doversi confrontare: è una forza contro la quale non esiste possibilità di mediazione, a meno che Pelasgo e la sua Argo non accolgano le supplici. La risposta di Pelasgo, che in parte abbiamo già letto, suona:

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Arduo verdetto: non scegliermi a giudice. L’ho detto anche prima: non senza il dêmos potrei agire, neppure se ho il potere [kratôn], onde la gente mai possa dire, se qualcosa va storto: «Hai mandato la città in rovina per onorare degli stranieri».

Il potere di Pelasgo, come abbiamo visto, non può esercitarsi da solo, non è monocratico. Prevede invece di appoggiarsi sulla partecipazione del dêmos, che darà il suo voto, con la sua mano che governa. Potere di deliberare e di giudicare, associati qui in una sorta di duplicazione tra il re e il suo popolo. Ma Pelasgo non si attribuisce certo un potere dispotico o violento o vessatorio, al contrario, è semmai fin troppo ligio al rispetto del dêmos, tanto da creare una certa ansia irritata nel coro delle Danaidi che, come l’araldo tebano delle altre Supplici, quelle euripidee, lo aveva incalzato a prendere una decisione come capo: «Sei tu la città! Sei tu la collettività [démion]!». Nella tragedia di Eschilo si sovrappongono diverse rappresentazioni del potere, che emergono da un lato nella ferocia selvaggia e istintiva, quasi animale, dei figli di Egitto, la cui virilità (ársenes) suona come una minaccia intollera-

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bile; dall’altro nelle aspettative delle Danaidi, che non sono greche: potere monocratico forte e comunità che si identifica e si disperde nel suo sovrano. Infine, la prudenza istituzionale di Pelasgo. Il potere ha molti volti, ai quali attribuire il nome krátos. Alcuni di questi volti sono pienamente all’interno delle nozioni di legalità e giustizia – e quindi di legittimità – di un Ateniese di V secolo. Il potere democratico si esercita percorrendo una strada comune, tra il dêmos tutto, minoranza e maggioranza, e i suoi capi. Questi possono condurre il popolo con la loro leadership: Tucidide dice di Pericle, non senza ammirazione: Pericle, grazie all’autorità che gli derivava dal prestigio personale e dall’intelligenza e grazie alla sua manifesta incorruttibilità, teneva sotto controllo la massa in piena libertà; era lui a guidarla più di quanto non ne fosse guidato, perché non parlava per compiacerla nel tentativo di acquisire il potere con mezzi impropri.

Guidava la moltitudine e non ne era guidato: nel caso di Pericle è lui a tracciare la via, perché la sua comunicazione è priva di compiacimento. Il potere del popolo si indirizza attraverso una

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comunicazione razionale e priva di lusinghe. La stessa immagine del percorso da compiere insieme si ritrova nel termine “demagogo” (demagogós), composto che indica di per sé un semplice “guidare il dêmos”, ma nel quale è difficile negare, fin dalle origini, una connotazione peggiorativa: la sua prima attestazione riguarda, non a caso, Cleone, così definito da Tucidide e contrapposto perciò proprio a Pericle. I demagoghi sono i capi della democrazia post-periclea, che non posseggono più le qualità di misura e controllo del dêmos proprie del grande statista. Al tempo stesso, come è stato a ragione indicato, proprio nel IV secolo a.C. la democrazia raggiunge forse la sua più piena e matura realizzazione, quando i leader che parlano nell’assemblea, gli oratori, intrattengono con l’uditorio assembleare un dialogo fatto di lusinghe e di rimproveri, ma sempre molto attento a non urtare la suscettibilità dei concittadini. Sono diventati in fondo tutti demagoghi, perché questo richiede la dinamica di interazione tra il popolo e i suoi leader. In conclusione, torniamo a krátos. Benveniste ha messo in luce due significati complessivi del termine: superiorità e preminenza, da un lato, potere dall’altro. Il potere esercitato deriva

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da autorità e di norma prevede la designazione dell’oggetto del potere. Nel nostro composto, il rapporto tra krátos e dêmos è di norma sentito come l’indicazione del governo del popolo, in cui il soggetto è, appunto, il popolo. Al tempo stesso, si può facilmente ricavare che quel potere di governo, quella autorità, si esercita al tempo stesso anche sul popolo. E del resto la definizione di democrazia più corrente nel mondo greco era quella in cui il dêmos a turno impersona i due ruoli: governa ed è governato. Questo ci offre lo spunto per una interessante considerazione finale: nella democrazia greca il dêmos è tanto soggetto del potere, del krátos, quanto oggetto. Questa seconda accezione non ha una connotazione passiva o di subordinazione: il dêmos assegna il potere di governare perché è da lui che parte la legittimazione di quel potere. Governare sul dêmos significa governare grazie a una autorità che il dêmos e solo il dêmos concede.

III

Libertà

1. Libertà degli antichi e dei moderni Il tema della libertà degli antichi è un ben noto fondamento della querelle des Anciens et des Modernes. Benjamin Constant e il suo celeberrimo pamphlet hanno segnato la distanza e aperto la strada alla questione, tuttora estremamente attuale, di quale sia il limite tra potere dello Stato e affermazione e tutela della libertà individuale. Constant sosteneva che nel mondo greco l’individuo fosse asservito, nella sua vita privata, alla collettività di cui faceva parte: «sovrano quasi abitualmente negli affari pubblici, è schiavo in tutti i suoi rapporti privati». Constant era un sostenitore del governo rappresentativo, nel quale scorgeva una conquista dei tempi moderni e un progresso proprio sul piano delle libertà individuali. Del mondo antico rilevava, al

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contrario, l’invadenza dello Stato nella vita dei singoli come un dato strutturale che accomunava, negli esempi che egli utilizzava, Sparta, la Roma repubblicana e, inevitabilmente, i Galli. Per Constant le libertà degli antichi erano tutte di segno politico (e in questo, la sovrapposizione dei diversi contesti del mondo antico pare significativa), con una lieve eccezione per Atene: «fra tutti gli Stati antichi Atene è quello che più somigliò agli Stati moderni», eccezione che tuttavia non spostava la considerazione generale: il mondo antico, compresa Atene, ha anteposto la cura degli affari pubblici alle libertà individuali; in un governo rappresentativo, all’interno dello Stato-nazione, un cittadino recupera in termini di libertà quel che perde nella partecipazione diretta ai processi decisionali comuni. Alla base di questo giudizio era la convinzione dell’assenza di diritti individuali nell’antichità, con la conseguenza che gli individui erano delle macchine di cui la legge regolava le molle e dirigeva i congegni. Lo stesso asservimento caratterizzava i bei secoli della repubblica romana; l’individuo si era in qualche modo perduto nella nazione, il cittadino nella città.

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Constant ha reso chiaro come le nazioni moderne non prevedano una partecipazione diretta del singolo cittadino alle vicende pubbliche paragonabile con quella del mondo antico, promuovendo in compenso forme di libertà individuale e possibilità di arricchimento, con il prevalere delle priorità economiche e commerciali su quelle militari. Constant non usa mai la parola “democrazia” nel suo scritto: il suo discorso sulla libertà ha un sapore quasi antropologico nella comparazione di due modelli di vita. Alcune affermazioni di Constant sono ripetute, sia pure con termini nuovi, ancora oggi, in particolare il riferimento alla mancanza di diritti individuali o all’assoggettamento dell’individuo alla collettività e alle sue autorità. Anche la condanna della schiavitù antica, realtà di per sé innegabile, veniva associata ai limiti della libertà antica: il cittadino antico ne risultava schiavo della polis, ma insieme schiavista. Gioverà forse ricordare che quando Constant tenne il suo discorso, nel 1819, la Francia era ancora, almeno formalmente, una nazione schiavista: la schiavitù vi sarà abolita solo nel 1833 e, per le colonie, nel 1848.

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2. L’idea di libertà in Grecia Partiamo proprio da questa ultima considerazione per verificare le idee greche sulla libertà e la loro successiva elaborazione nel campo democratico, perché essa fonda, in buona misura, la storia della nozione di libertà (eleuthería) nella Grecia antica. Si è soliti ripetere che i Greci fossero molto gelosi della libertà, intesa principalmente come condizione politica delle loro comunità, le poleis. Lo stesso Constant lo riconosceva. Eppure la libertà non nasce nel mondo greco come principio assoluto e politico, ma piuttosto in relazione a uno status personale, contrapponendosi a quello dello schiavo. L’alternativa libero/schiavo (eleútheros/doûlos) è il motore della storia dell’idea di libertà greca e ne indirizza gli sviluppi successivi. Una prima conclusione è che la libertà si definisce in relazione alla schiavitù e per sua negazione: il libero è un non-schiavo. Fin dall’età del bronzo, nelle tavolette in lineare B ritrovate nei palazzi micenei, la coppia libero/schiavo appare a designare la condizione giuridica degli individui, una condizione che precede, determina e subordina le altre: la principale linea che divide la società greca è operativa già nelle prime testimonianze che possediamo e si conferma, sia

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pure con alcune cautele che in parte ne oscurano o ne edulcorano la rappresentazione, nei poemi omerici. Quando nasce la democrazia, si tratta di una distinzione che appare ormai ovvia e indisputabile. Nessuno infatti, in Grecia o a Roma, la metterà mai veramente in discussione, neppure tra i democratici (e neppure, in fondo, il cristianesimo, che pure ebbe fortissima penetrazione tra gli schiavi), né chiederà che la schiavitù sia abolita e la libertà estesa a tutti; al massimo si colgono voci che riconoscono dignità umana agli schiavi (Antifonte) o ne raccomandano un trattamento più clemente, protestando contro gli eccessi (Posidonio per le condizioni di lavoro degli schiavi nelle miniere). Nel mondo greco libertà e schiavitù procedono di pari passo, tanto come dati storici quanto come concetti. Non c’è libertà senza schiavitù. La libertà, dunque, è originariamente una condizione, uno status, che da individuale si estende a definire un’intera comunità. Questo passaggio fu accelerato dalle guerre persiane, che furono sentite dai Greci come una lotta per la sopravvivenza delle poleis contro la loro sottomissione da parte del gran re, sottomissione espressa proprio in termini di schiavitù, attribuita ai Persiani in virtù della loro condizione di sudditi del re.

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Erodoto è un chiaro testimone di questa contrapposizione, che ricostruisce lo scontro GreciPersiani come una contesa fatale tra libertà e schiavitù. Nel settimo libro delle Storie ne abbiamo due esempi espliciti. Nel primo, Demarato, un ex re di Sparta fatto deporre dal suo collega Cleomene I e rifugiatosi presso la corte persiana, interrogato dal re Serse, mette in luce le qualità dei Greci e segnala l’impossibilità di una loro sottomissione pacifica, perché abituati da lungo tempo a combattere in particolare due nemici: la povertà e il dispotismo. Gli Spartani poi non avrebbero mai accettato le proposte del re «che apportano schiavitù alla Grecia». Demarato collega nel passo la generica avversione dei Greci a regimi dispotici (desposýne) con la specifica responsabilità spartana di salvaguardare l’Ellade da una riduzione in schiavitù (doulosýne). I due termini si definiscono reciprocamente: la parola despótes, in greco, indica infatti il padrone dello schiavo e il dispotismo è sentito come una forma politica in cui un singolo assoggetta e rende schiavi i sottoposti. La rivendicazione della libertà è complementare al rifiuto della schiavitù. Questa antinomia libertà/schiavitù si estende al campo politico, ma non va necessariamente letta in senso metaforico: accanto alla

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nozione giuridica dello schiavo come oggetto di proprietà del padrone ne esiste una più ampia, che rimanda a una forma di dominio e sottomissione che limita di fatto la libertà del sottoposto. Intesa in questo senso più ampio, la schiavitù descrive una condizione collettiva che assume valenza politica. Demarato inoltre collega il carattere anti-dispotico dei Greci a un elemento forse sorprendente, la loro povertà: un dato che emergeva con evidenza nel confronto con la ricchezza e il lusso orientale. Nel delinea­re la distanza culturale tra i Greci e l’Oriente, le istituzioni politiche sono messe in relazione diretta con le condizioni di vita, la povertà e il rifiuto del lusso, o l’impossibilità ad accedervi. Più avanti nel dialogo, Demarato aggiunge, sempre a proposito di Sparta, un’ulteriore considerazione: «Pur essendo liberi, infatti, [gli Spartani] non lo sono in tutto: su di loro c’è un padrone [despótes], la legge, che essi temono molto più di quanto i tuoi sudditi temano te». Al re-­padrone persiano, Demarato sostituisce la legge-­padrona spartana. Il secondo elemento che inquadra l’attitudine greca a difendere la propria libertà è indicato: la centralità della legge, che costituisce il vero potere superiore cui tutti si attengono perché ne hanno soggezione

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e quindi ne riconoscono l’autorità; sono le leggi l’unico padrone accettabile, capace di scongiurare il dispotismo e di rendere i suoi sottoposti liberi, non schiavi. La libertà è in questo discorso originata dalla povertà, strutturata nelle leggi e opposta alla schiavitù del dispotismo. Pochi capitoli dopo, Erodoto introduce un altro dialogo simile nel quale due Spartani rispondono alla proposta di Idaspe, nobile dignitario persiano, di allearsi con l’impero achemenide: tu hai imparato a essere schiavo [doûlos], ma non hai ancora assaporato la libertà [eleuthería], se sia dolce o no. Se l’avessi provata, infatti, non con le lance ci consiglieresti di combattere per essa, ma con le scuri.

Formulazione più sintetica e, forse per questo, più incisiva. Chi ha assaporato le dolcezze della libertà non è più disposto a rinunciarvi. In entrambi i dialoghi sono figure spartane a contrapporre libertà greca a schiavitù persiana: Sparta si fa portavoce di questa istanza, da un lato in quanto promotrice della resistenza ellenica ai Persiani, dall’altro per la sua storia che, caso raro in Grecia, non ha mai conosciuto la tirannide. La consuetudine degli Spartani

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alla libertà li rende i più titolati a rivendicare la necessità di combattere o morire per essa. Gli spartani Spertia e Buli, protagonisti del secondo dialogo, erano stati inviati in Persia per espiare l’uccisione dei messi persiani gettati a morire nel baratro: la loro sorte era segnata, ma Serse, in un gesto di apparente magnanimità che in realtà muoveva dal rifiuto di sollevare Sparta dalla sua colpa, salvò loro la vita e permise che rientrassero in Grecia. La vicenda, come quella più nota di Leo­nida e del suo contingente sacrificatosi alle Termopili, conferma le affermazioni di Demarato: i Greci, in particolare gli Spartani, sono disposti a morire per salvare la propria libertà. Anche gli Ateniesi, tuttavia, hanno in Erodoto la loro quota di gloria in questa esaltazione della libertà greca, che emerge in particolare nella risposta alle proposte di accordo portate dal re macedone Alessandro I per conto di Serse. Gli Ateniesi oppongono un rifiuto sdegnoso che si articola in una doppia argomentazione, una in risposta ad Alessandro e una tesa a rassicurare gli Spartani, timorosi che Atene possa abbandonare l’alleanza. La seconda si incentra sulla celebre affermazione dell’appartenenza all’Hellenikón, alla grecità, prima esplicita formulazione di una identità comune del mondo greco, fatta di co-

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munanza di sangue, lingua, santuari, sacrifici, costumi e leggi. Nessuna contropartita, sostengono gli Ateniesi, li convincerebbe a permettere che il mondo greco venga ridotto in schiavitù. Ad Alessandro invece gli Ateniesi rispondono declinando energicamente l’offerta perché «desiderosi di libertà». Appare facile collegare le due risposte: senza libertà non c’è alcuna grecità. Eschilo, all’indomani della vittoria, nel 472, aveva del resto celebrato gli Ateniesi in quanto «di nessun uomo si dichiarano schiavi, di nessun uomo sudditi». Anche gli Ateniesi hanno assaporato la dolcezza della libertà, sia pure da poco, dopo la caduta della tirannide dei Pisistratidi nel 510: e anche loro, ormai, non possono più farne a meno. La rappresentazione dello scontro ideologico e culturale connesso alle guerre persiane costituisce certo una visione stereotipata dell’Oriente e in larga misura si qualifica come costruzione di un cliché. Il tema della libertà greca che si impone come spiegazione dell’inattesa vittoria contro i Persiani si arricchirà progressivamente di ulteriori elementi, che fondono determinismo geografico e istituzioni politiche, affermati con chiarezza nello scritto ippocratico Acque, arie e luoghi e ribaditi da Aristotele. Il filosofo vi ag-

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giunge una ulteriore osservazione: chi gode dei favori del clima e ha la migliore organizzazione politica (come i Greci) è in grado di dominare l’umanità. La libertà non è dunque solo la condizione alternativa alla schiavitù; esseri liberi comporta la capacità di dominare sugli altri, vale a dire di renderli schiavi. Le due nozioni si definiscono a vicenda: non c’è libertà, in Grecia, senza schiavitù, ma si può dire che essere liberi comporta, in buona misura, sottomettere gli altri. Se, nel confronto, il mondo delle poleis greche si riconosce come composto di realtà libere e autonome, questo carattere non è, di per sé, collegato alla democrazia e ancor meno lo è, evidentemente, la libertà intesa come status individuale contrapposto alla schiavitù. L’aspetto nuovo della libertà nelle democrazie consiste nella sua valorizzazione come elemento interno alla vita della polis, proprio quel tipo di libertà che Constant aveva supposto assente nel mondo antico. Nella definizione complessiva del ruolo della libertà, di cui abbiamo richiamato, molto sinteticamente, alcuni passaggi, la democrazia aggiunge un connotato decisivo.

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3. La libertà democratica: libertà politica e “vivere come si vuole” Un solido punto di partenza ci viene proprio da Aristotele che, all’inizio del sesto libro della Politica, riporta quanto i sostenitori della democrazia consideravano il fondamento del proprio regime politico: Principio fondamentale della costituzione [politeía] democratica, dunque, è la libertà: sono soliti dire che solo sotto questa costituzione si partecipa della libertà, poiché è questo, sostengono, il fine cui tende ogni democrazia. Il tratto caratteristico della libertà è nel governare ed essere governati a turno.

Aristotele apre la sua disamina della democrazia con la libertà, posta come principio fondamentale dagli stessi democratici. Il richiamo insistito, in queste poche righe, ad affermazioni fatte da altri («sono soliti dire… sostengono…») si spiega con il fatto che Aristotele sta riportando la voce dei sostenitori e teorici del sistema democratico, riferendosi alla teorizzazione dei principi fondamentali della democrazia da parte dei suoi fautori, quel che rende ancor più preziosa la sua testimonianza. La libertà è definita

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come il fine di ogni democrazia, espressione che assicura che qui si parla della nozione generale e non di una particolare forma di democrazia: è un’affermazione che non vale solo per Atene, dunque. Sul piano politico, essa si caratterizza con l’alternarsi nelle funzioni di governo di tutti i cittadini, a turno, come voleva già Otane nel discorso sulle costituzioni in Erodoto: la libertà si intreccia con l’idea di uguaglianza nel garantire, almeno formalmente, una partecipazione attiva e diretta di tutti i cittadini al governo della polis. Tutte le forme della partecipazione sono comprese in questo governare ed essere governati: rivestire cariche pubbliche, far parte del consiglio dei Cinquecento, essere giudici in un processo e, naturalmente, partecipare all’assemblea, dove era consentito a chiunque lo volesse di prendere la parola e avanzare proposte. La libertà di parola in assemblea era una specifica forma della libertà politica e il suo nome (isegoría) a volte suonava come sinonimo stesso di democrazia, anche se il prefisso iso- del termine greco insisteva sul carattere di uguaglianza del diritto di parola concesso a tutti più che sulla libertà, che ne era però il corollario implicito. Una prerogativa, quella della libertà

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di parola, che a volte le fonti estendono persino agli schiavi. Nelle parole del Vecchio Oligarca si spiegano, molto lucidamente, le ragioni sociali che giustificano il fatto di «aver concesso la libertà di parola agli schiavi di fronte ai liberi, ai meteci di fronte ai cittadini»; tali ragioni sono principalmente di carattere economico, soprattutto per gli schiavi, che svolgono lavori talmente redditizi da costringere i cittadini nella paradossale situazione di dipendere dagli schiavi, letteralmente «far da servi agli schiavi». Demostene, dal canto suo, affermava che la libertà concessa agli schiavi ad Atene era tale che essi potevano esprimersi con libertà maggiore di quella assegnata ai cittadini in altre città. Esiste un grado rilevante di esagerazione in entrambi i testi e sarà bene esplicitare con chiarezza che nessuna libertà formale, né politica né giuridica, fu mai riconosciuta agli schiavi ad Atene. Le forme della libertà democratica avevano tuttavia permeato l’insieme della società ateniese. Alcuni importanti studi recenti hanno messo in luce la presenza ad Atene di spazi liberi, legati principalmente alle attività produttive e commerciali, nei quali le distinzioni di status, a partire da quella tra liberi e schiavi, avevano perduto la loro rilevanza; questo non cancella natural-

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mente il dato di fondo della preclusione per gli schiavi di qualsivoglia forma di attività politica e non è una condizione che coinvolge tutti gli schiavi, ma solo una piccola minoranza fortunata. Indica però che le dinamiche sociali nella polis avevano almeno in parte eroso la rigidità totalizzante della contrapposizione tra liberi e schiavi e aperto la porta a spiragli significativi di interazione nuova. C’è un secondo attributo che definisce la libertà democratica, sempre secondo l’analisi offerta da Aristotele: Questo, del resto, è soltanto un segno della libertà che tutti i democratici considerano come un tratto distintivo della costituzione; un altro è che ciascuno viva come vuole. Questo, infatti, dicono che sia l’opera della libertà, perché è proprio di chi è schiavo vivere come non vuole. Ecco dunque la seconda nota distintiva della democrazia. E da qui è derivato il rifiuto di essere comandati, soprattutto di non essere soggetti a nessuno o, in caso contrario, di esserlo a turno ed è con questo principio che si contribuisce a realizzare la libertà fondata sull’uguaglianza.

«Che ciascuno viva come vuole»: il tratto distintivo della democrazia, secondo i suoi soste-

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nitori, rappresenta un’estensione della nozione di libertà che travalica l’aspetto politico e coinvolge lo stile di vita e le scelte individuali («ciascuno»!). I democratici associano al principio di libertà politica quello di libertà individuale, che, ancora una volta, è propria del libero e negata allo schiavo. La novità è nel fatto che anche gli strati sociali meno abbienti, gli uomini del dêmos, partecipano di entrambe queste forme di libertà, quella politica e quella individuale, non più privilegio esclusivo delle élites aristocratiche o della upper society. Questa duplice nozione di libertà era presentata come pilastro della democrazia già da Pericle: Per ciò che riguarda la reputazione individuale si viene preferiti per la cura degli affari pubblici in base al credito di cui ciascuno gode in qualche campo, non in virtù di un diritto di partecipazione in misura maggiore che per la propria eccellenza; e neppure chi è povero, se è in grado di rendere buoni servigi alla città, si trova impedito dall’oscurità del suo rango.

Qui Pericle afferma che la libertà di partecipazione non si impone sulla considerazione delle capacità individuali, non è quindi un principio che livella i cittadini e li considera uguali;

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aggiunge poi che anche i poveri contribuiscono al bene comune, senza che la povertà o le umili origini siano un ostacolo. Il tema della libertà si lega politicamente con quello dell’uguaglianza, in democrazia, ma non è ad esso subordinato: la democrazia non prefigura una società di cittadini tutti uguali in relazione alle loro capacità, ma solo nell’attribuzione delle prerogative politiche e giuridiche, rispetto alle quali assegna uguali opportunità ma non impone uniformità di comportamenti (che sono semmai più diffusi nei modelli oligarchici, che esaltano valori quali la homoiótes o la homalótes). Nelle parole di Pericle che abbiamo appena letto si coglie l’intenzione di valorizzare le specifiche qualità e le competenze individuali senza mettere in discussione il principio di fondo, la libera (com)partecipazione di tutti i cittadini alla vita politica. Continua poi il Pericle di Tucidide: E viviamo da uomini liberi non solo in ciò che tocca la sfera pubblica, ma anche in relazione ai sospetti reciproci che nascono dalle occupazioni quotidiane: non ci adiriamo con il vicino, se si comporta a suo piacimento, né infliggiamo umiliazioni che, senza provocare alcun danno, risultano tuttavia irritanti alla vista.

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Non potrebbe essere più chiaro. La libertà si esercita tanto nella sfera pubblica, in ambito politico, quanto in quella privata, nelle occupazioni di ogni giorno, nei rapporti individuali. L’uguaglianza dei diritti non la impediva né la limitava. La libertà nel privato ha effetto sulle relazioni sociali: solleva dal sospetto reciproco, non crea ira, o atteggiamenti punitivi, nel vedere un concittadino comportarsi «a suo piacimento». Il riferimento al piacere, alla hedoné, sottolinea la legittimazione di un certo livello di edonismo, della ricerca di una felicità fatta del godimento delle condizioni di vita offerte da Atene, come ad esempio le «belle case private» cui farà riferimento lo statista poco oltre nel suo discorso. Non è difficile scorgere, in questa rappresentazione del privato della democrazia ateniese, una contrapposizione con Sparta, regime nel quale invece lo spazio del privato è assorbito dal ruolo pubblico del cittadino e, se non negato, fortemente limitato. Si potrà rilevare che la società ateniese descritta da Pericle, così armoniosa e coesa, appare venata di un certo auto-­compiacimento e suona come una descrizione poco realistica, tutta pace e concordia. Andrà però ricordato che Pericle non nasconde l’esistenza di conflitti e tensioni

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interne, fa riferimento alle dispute legali, alla complessa convivenza tra ricchi e poveri e alla “fatica” del vivere, cui il benessere della città offre qualche compensazione. D’altro canto, il ruolo della libertà nella democrazia conosce ulteriori formulazioni che vanno nella stessa direzione. All’interno dell’opera di Tucidide, lo sostengono figure politiche tanto diverse come lo sguaiato demagogo Cleone e il moderato e composto Nicia, il quale, in una fase drammatica della spedizione siciliana, per spronare i soldati ateniesi «richiamava alla memoria la loro patria, la più libera di tutte, e l’assoluta libertà di cui tutti godevano in essa nella vita di ogni giorno», associando di nuovo pubblico e privato. Tucidide nota che a questo e altri argomenti Nicia aggiungeva le esortazioni di prassi in questi casi, i luoghi comuni. Evidentemente lo storico non riteneva che il richiamo alle libertà ateniesi fosse parte di questi ultimi. Fanno riferimento al “vivere come si vuole” anche gli oratori nel tribunale, che rappresenta una importante spia di quali valori circolavano ad Atene e di come potessero essere usati nell’argomentazione di fronte a un’ampia platea di giudici-­cittadini. Lisia, attaccando un cittadino, Evandro, candidato alla carica di arconte

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eponimo (una dokimasía contestata, dunque), afferma: bisogna esaminare il periodo in cui, avendo la possibilità di vivere nel modo che preferiva, [Evandro] ha scelto, nel suo comportamento di cittadino, l’illegalità: perché il merito del fatto che ora non commette nessun reato è di chi glielo ha impedito, mentre la responsabilità dei fatti del passato è della sua indole e di coloro che ritennero di lasciargli mano libera.

La libertà comporta responsabilità nelle scelte e deve costantemente rapportarsi a quanto stabilisce la legge. Il cittadino che infrange una legge ha la piena responsabilità dell’atto proprio perché gli è attribuita libertà di scelta. Anche Pericle, nell’epitafio, aveva fatto seguire all’affermazione della libertà nei rapporti privati un ritorno alla sfera pubblica dove si impone il rispetto e il timore delle leggi, scritte e non scritte: Se nei rapporti privati ci asteniamo da comportamenti molesti, nell’ambito pubblico è soprattutto il timore che ci trattiene dall’agire illegalmente: obbediamo sia a coloro che detengono di volta in volta le magistrature che alle leggi, in particolare le leggi che sono stabilite a protezione di chi

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è vittima di un torto e a quelle che, pur non essendo scritte, procurano comunque a chi le viola indiscutibile disonore.

L’alternanza tra pubblico e privato percorre tutta la sezione dell’epitafio che abbiamo letto nelle ultime pagine. Pubblico e privato non si oppongono nel discorso di Pericle, ma concorrono a costruire la società democratica, nella relazione che intercorre tra libertà, politica e individuale, e diritto. Le leggi pongono limiti a quella libertà e impediscono che sfoci nell’anarchia, come invece ritenevano gli avversari della democrazia, dal Vecchio Oligarca a Platone a Isocrate; al tempo stesso, esse lasciano margini sufficienti per consentire una differenziazione degli stili di vita nelle scelte individuali, senza prescrivere ai singoli a quali condotte conformarsi. Se v’erano influenze in tal senso, sono di carattere sociale e culturale, non politico o legislativo. Pericle afferma anche che i cittadini obbediscono a chi esercita una magistratura, oltre che alle leggi: il dêmos è libero, ma capace di obbedire, e per questa disponibilità lo statista utilizza una parola che indica, letteralmente, l’ascolto (akróasis). Il dêmos dunque ascolta, come già faceva in Omero; la qualità di questo ascol-

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to, tuttavia, ha cambiato passo, indica un dare ascolto che non si limita a una passiva ricezione di indicazioni da chi è superiore, quanto, piuttosto, un’attiva compartecipazione ai processi costitutivi della collettività, rispetto alle forme del potere (i magistrati e le leggi) e alle modalità deliberative (nelle quali, come diceva Atenagora, il dêmos «ascolta e poi decide»). La democrazia greca, dunque, non aveva certamente scoperto la nozione di libertà né l’aveva sganciata da quella, complementare e ancora necessaria, di schiavitù. Aveva però potenziato il suo significato sul piano politico e aveva esteso il suo godimento anche alla sfera privata. Contro questa idea di libertà si possono leggere molte prese di distanza nel mondo antico: esplicite quella del Vecchio Oligarca o di Platone, che nella Repubblica interpreta il “vivere come si vuole” nel senso che «ciascuno si costruisce un personale modo di vita»: in sostanza, un abbandonarsi lascivo al piacere, un vivere alla giornata, senza regole, un edonismo chiuso in sé stesso che rompe ogni legame del singolo con la comunità. La vita in democrazia diventa un patchwork, «mantello variopinto con tutti i fiori possibili». Non meno sferzante nei contenuti la reazione di Isocrate, la cui proposta di una forma assai

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più moderata di democrazia, nell’Areo­pagitico (composto verso il 380 a.C.), comprendeva anche la necessità di porre un limite alle libertà del dêmos. La libertà democratica viene associata, in queste critiche, a una sorta di anarchia, incontinenza e impunità nei comportamenti privati. Il pensiero anti-democratico post-pericleo vede con sospetto la tolleranza nel privato e punta a un suo riallineamento a una comune etica pubblica. Il fiume in piena che tutto travolge, nell’immagine di Megabizo, riguardava l’agire politico del dêmos come corpo compatto e distruttivo nella sua irruenza; il mantello variopinto platonico si stende a rappresentare una molteplicità di comportamenti privati che disarticolano la compattezza del corpo sociale, dell’uomo isonomico, del dêmos, in definitiva la frammentazione dei comportamenti quotidiani dei singoli.

IV

Uguaglianza

1. Quale uguaglianza? A fianco della libertà siede, inevitabilmente, l’uguaglianza. La democrazia si serve di alcune parole chiave che, in greco, sono introdotte dal prefisso iso- che indicava, come abbiamo già visto, uguaglianza e/o equità. L’isonomía si intendeva in democrazia come uguaglianza di fronte alle leggi, ma poteva assumere un più ampio significato di uguali opportunità nella partecipazione alla vita della collettività, tanto nel pubblico quanto nel privato. Isokratía appare in Erodoto come regime opposto alla tirannide, che rappresenta per definizione il regno dell’ini­ quità e della diseguaglianza politica. Isegoría (o il suo omologo isología utilizzato da Polibio) indica il diritto di parlare pubblicamente, che un lettore moderno assocerebbe piuttosto alla

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libertà che all’uguaglianza. Anche i Greci potevano associare il termine più alla libertà che all’uguaglianza, del resto, come mostra questo brano di Erodoto: La libertà di parola [isegoría] è un bene prezioso, se gli Ateniesi, quando erano sotto i tiranni, non erano in guerra per nulla migliori dei loro vicini e, liberatisi invece dei tiranni, divennero di gran lunga i primi. Perciò anche questo dimostra che quando erano in schiavitù si mostravano di propensione vili, in quanto lavoravano per un padrone, mentre una volta liberi, ciascuno si dava cura di compiere qualcosa per sé stesso.

La conquista dell’isegoría è tratteggiata da Erodoto come il passaggio dalla schiavitù sotto il tiranno/padrone alla libertà, che avrebbe apportato un vantaggio persino nell’efficienza militare. Il passo consente una transizione tra libertà e uguaglianza e ci aiuta a riconoscere come la libertà democratica si definiva in rapporto all’uguaglianza politica prevista dal sistema. La libertà politica si crea su una uguaglianza di liberi e pari: gli schiavi possono apparire uguali tra loro – e lo sono sul piano giuridico –, ma sono privi del beneficio della libertà. Nel passo della Politica sopra ricordato, Aristotele univa

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in effetti strettamente i due concetti, quando affermava che la democrazia si propone di rea­ lizzare una «libertà fondata sull’uguaglianza». Sarà opportuno, tuttavia, operare alcune distinzioni: se l’uguaglianza rappresenta un altro pilastro dell’edificio democratico, si dovrà fare attenzione a non estenderla più del dovuto per non intenderla in modo storicamente scorretto. L’epitafio di Pericle ci offre anche qui lo spunto iniziale: Quanto al nome, per il fatto che il governo non è nelle mani di pochi ma della maggioranza, esso si chiama democrazia; e in base alla legge tutti godono di una condizione di parità nelle dispute private. Per ciò che riguarda la reputazione individuale, si viene preferiti nella cura degli affari pubblici in base al credito di cui ciascuno gode in qualche campo, non in virtù di un diritto di partecipazione più che per la propria eccellenza.

L’uguaglianza viene affermata anzitutto in rapporto alle leggi ed è espressa attraverso la sintetica formulazione che nella traduzione proposta è resa con «tutti godono di una condizione di parità», ma letteralmente è ben più diretta e asciutta: “spetta a tutti lo stesso” (pâsi tò íson). L’uguaglianza, dunque, è sancita senza riserve

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e in senso globale per il piano giuridico (katà toùs nómous), come prima connotazione che lo statista esprime dopo la definizione generale di demokratía come governo della maggioranza. Ad essa Pericle aggiunge nelle parole successive altre due considerazioni, nelle quali raffina la definizione di uguaglianza e pone limiti alla sua estensione, prima di passare al tema della libertà in passi che abbiamo già menzionato. La reputazione in democrazia è un dato concreto e dinamico, capace di riassestarsi in funzione della realtà e dell’esperienza; non è collegato alla condizione economica e sociale. Il ricco non ha più peso per la sua condizione, né il povero è escluso per l’oscurità del rango, né tutti si uniformano su una stessa linea. Come le leggi stabiliscono la forma dell’uguaglianza giuridica, la reputazione (in greco axíosis, la valutazione sociale intesa come un processo in continuo divenire) stabilisce le possibilità di valorizzare il merito e la competenza (areté) individuali a favore del bene pubblico. Si stabilisce qui una relazione tra individuo e collettività nella quale, fatta salva la premessa di uguali diritti giuridici, c’è spazio per un apprezzamento pubblico del merito e, dunque, per una differenziazione. Si tratta della formulazione democratica del prin-

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cipio di isonomía che abbiamo già incontrato e che assume significati distinti dalla precedente accezione aristocratica: comprende in sé tanto l’attribuzione di uguaglianza formale secondo la legge quanto la distribuzione di riconoscimenti secondo le qualità. Sarà bene tenere a mente questa affermazione perché fonti successive, critiche della democrazia, cercheranno di ingabbiare quel sistema in una ben più rigorosa e grigia nozione di uguaglianza estesa a tutti i campi del vivere comune. In piena coerenza con quanto fin qui espresso, Pericle considera come anche il povero sia benvenuto a partecipare, «se è in grado di rendere buoni servigi alla città». Nella “scaletta” di questo densissimo capitolo del discorso di Pericle si succedono dapprima la definizione di democrazia come governo del popolo amministrato a maggioranza, poi le considerazioni su uguaglianza, merito e superamento degli impedimenti sociali alla partecipazione, infine l’affermazione della libertà ateniese che coinvolge sfera pubblica e privata. È un testo lucido e coe­ rente che si presenta, come è stato già rilevato, come il manifesto della democrazia di V secolo. Un’eco delle affermazioni che Tucidide attribuisce a Pericle nell’epitafio si ritrova nelle

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Supplici di Euripide, rappresentate nel 423 a.C., dunque pochi anni dopo il discorso dello statista. La vicenda riguarda la richiesta delle madri argive e del re Adrasto di intervenire a loro favore per la restituzione dei corpi dei loro cari caduti sotto Tebe. Euripide mette in scena un dialogo tra l’araldo tebano e Teseo stesso, che offre l’occasione per una rappresentazione dell’Atene eroica e monarchica come, insieme, già orientata in senso democratico: in molti aspetti il Teseo delle Supplici ricorda da vicino il Pericle dell’epi­tafio. Già dal primo scambio di battute si definisce il tema del governo delle città: l’araldo chiede «Chi comanda qui?», usando il termine týrannos per designare il potere e ricordando come a Tebe governi ora Creonte, dopo la morte di Eteocle e Polinice. Teseo risponde all’araldo che il suo discorso è iniziato male: Qui non comanda un uomo solo ma la città è libera, il popolo è sovrano e le cariche sono annuali e a turno, né si dà di più alla ricchezza, ma anche il povero ha lo stesso.

Teseo apre mettendo in chiaro i tratti principali di questa rappresentazione di una città che ha un re, come l’aveva l’Argo delle Supplici di

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Eschilo, anch’essa presentata come prototipo di democrazia sviluppatasi sotto il re Pelasgo. Si richiamano nell’ordine: la libertà della città e l’assenza di un monarca/týrannos; la rotazione annuale delle cariche; l’uguaglianza tra ricchi e poveri. Spicca in particolare l’affermazione secondo cui i poveri hanno lo stesso, tò íson: precisazione della formulazione generale periclea («tutti hanno lo stesso») che evidenzia l’elemento di dirompente novità, l’inclusione appunto dei poveri con pari dignità politica e riconoscimenti legali. La versione democratica dell’isonomía torna a essere affermata in questa insistenza sul dare parti uguali alle varie componenti della città dei liberi, non nell’uniformare le differenze. Nello scontro verbale piuttosto duro che segue tra i due personaggi, un agón nel quale ciascuno presenta argomenti pro e contro la democrazia, l’araldo esalta la sua città governata da un solo uomo, non dalla massa: per “massa” utilizza non il termine dêmos, ma il peggiorativo óchlos, utile a denigrare il quadro politico così armonico delineato dal re attico. Chi avversava la democrazia, in fondo, tendeva a considerare il dêmos sempre come plebaglia, come óchlos appunto. Le scelte lessicali rivelano le inclinazioni di chi le opera. Segue una serie di critiche al governo

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popolare, ai capi che si impongono in assemblea, forgiando abili discorsi che tendono solo all’interesse personale e a guadagnarsi un effimero gradimento carico di sventure, alla massa che pretende di governare, mentre un povero, se anche ha qualità, sotto il peso del lavoro non può occuparsi di politica, ai demagoghi, nullità malvagie (poneroí) che con le chiacchiere conquistano il popolo (qui, finalmente, dêmos, come terminale sostanzialmente passivo e inerte del processo assembleare, ma anche come approdo finale della tirata, quasi a sciogliere ogni eventuale dubbio su quale ne fosse il bersaglio). Teseo accetta la sfida e, dopo aver ribadito il carattere anti-tirannico della democrazia, ribatte partendo dall’uguaglianza di fronte alle leggi: Dove ci sono leggi scritte, il debole e il ricco godono uguali diritti, ai deboli è dato controllare quanti hanno più fortune se sono insultati, e chi può meno, se ha ragione, vince.

L’uguaglianza giuridica si realizza grazie alle leggi scritte, che sottraggono privilegi arbitrari ai ricchi. Poveri e deboli hanno diritti pari ai potenti, ma non si richiede che siano tra loro livellati: le differenze sociali ed economiche,

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anche in questo caso, si mantengono, ma la legge, quando è legge scritta, li accomuna, vale per tutti. Come nel discorso di Otane in Erodoto, anche qui la contrapposizione è tra democrazia e governo di un uomo solo. Il secondo argomento riguarda la libertà: Questa è la libertà: «Chi ha qualcosa da dire di utile per la città e vuole dirla pubblicamente?». E allora chi vuole parla e si fa bello, chi non vuole tace. Esiste uguaglianza maggiore di questa per la città?

La libertà si concretizza come libertà di partecipare all’assemblea, libertà di parola, isegoría, come abbiamo già visto. I versi richiamano la domanda rituale che un altro araldo, quello presente alle assemblee cittadine ateniesi, formulava nell’aprire il dibattito, chiamando chiunque lo volesse a intervenire. «Chi vuole parlare» è una formulazione che inquadra il protagonista della democrazia, il cittadino qualunque, senza altra connotazione che il requisito della cittadinanza. È un eroe senza volto e sublimato nella funzione della cittadinanza. L’esercizio delle prerogative democratiche è esteso a chiunque voglia, in greco ho boulómenos: è così che si indica la possibilità di parlare aperta a tutti. Que-

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sto eroe della democrazia ha facoltà di parola, quindi prerogative politiche, ma anche facoltà di intentare cause e di sporgere denunce per reati particolarmente gravi, prerogative cioè giudiziarie. Il rango non interferisce, né la ricchezza: ho boulómenos può essere una qualunque delle figure tratteggiate da Teseo, il ricco e il povero, il benestante e il villano. In questi versi libertà e uguaglianza si compensano e illuminano a vicenda e sintetizzano l’auto-rappresentazione dei meccanismi democratici. Poiché si tratta di Euripide, tuttavia, è bene astenersi dal pensare che la tragedia si limiti a veicolare un messaggio filo-democratico o a fare da cassa di risonanza dei discorsi periclei. Teseo rammenta la libertà per tutti di intervenire, ma anche di tacere. Sembra una normale alternativa e certo non ci si aspetta che tutti i presenti all’assemblea possano prendere la parola. Ascoltare è una delle prerogative del dêmos, che anche la democrazia fa sua, come abbiamo visto nel discorso di Atenagora. Parla solo chi ha qualcosa di utile da dire (o almeno ritiene di averla). Chi ascolta, naturalmente, tace. Ma Teseo aggiunge che solo chi interviene può splendere, diventare insigne (lamprós). Un’aggiunta significativa e che porta con sé una nota di ambiguità. Prende-

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re la parola non assolve solo al compito di contribuire alla discussione (un interesse comune), nel meccanismo assembleare, ma attribuisce gloria a chi parla, ha una ricaduta nell’interesse personale, nella vanità, dell’oratore. Se la risposta di Teseo voleva controbattere la minaccia dei demagoghi stigmatizzata dall’araldo, il suo richiamo alle procedure libere ed egualitarie della deliberazione non cancella del tutto l’incombere di quella minaccia, ma ne riconosce, in qualche modo, la possibilità. La nota è appena accennata, in una sola parola, e la gloria che deriva dal parlare in pubblico può giustificarsi in molti modi, non necessariamente nella compiacenza artefatta agli umori dell’uditorio che connota la demagogia; quest’ultima opzione, tuttavia, non viene esclusa. Si tratta di un rischio ben presente e innegabile. Nel 423, Pericle era ormai morto e sulla scena politica imperversava da qualche anno un nuovo tipo di leader, Cleone, spesso individuato già da Tucidide e Aristotele come il primo segnale della decadenza del gruppo dirigente ateniese: oratore sguaiato, scomposto, propenso a eccitare l’animo della folla, lontano dall’olimpica compostezza e dall’eloquio razionale di Pericle. Uno «comandava il dêmos più di quanto non ne fosse

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comandato», l’altro piuttosto lo blandiva, anche se, a onor del vero, gli argomenti che Tucidide riporta nei suoi discorsi non sono privi di una logica coerenza, persino quando il contenuto delle proposte suona davvero tremendo, come per la punizione esemplare e feroce che Cleone sollecita contro la città di Mitilene, ribellatasi ad Atene nel 427. La prima occorrenza della parola demagogós si ha in Tucidide e proprio in riferimento a Cleone. Si diventa celebri, si splende in assemblea per molte ragioni e non tutte ugualmente nobili. Ma è il gioco democratico: nei suoi meccanismi è previsto anche che entrino figure capaci di assicurarsi il favore dell’uditorio sollecitandone gli istinti più immediati. Il dibattito assembleare può allora mostrare forme di impazienza per chi avanza proposte poco gradite alla maggioranza: l’uditorio rumoreggia, urla, interrompe. Un’eventualità che la retorica degli oratori più smaliziati si incarica di utilizzare a proprio vantaggio, come ad esempio farà Demostene in apertura della sua Terza filippica: Ateniesi! Se con tutta chiarezza vi dico delle verità, vi chiedo di non reagire con l’ira. Pensate: in ogni altro campo, voi la libertà di parola [parrhesía] l’ave­te estesa a tutti quelli che sono in città, l’ave­

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te concessa perfino agli schiavi e agli stranieri. Hanno più libertà di parola molti schiavi qui da noi che i cittadini nelle altre città. Ma nelle decisioni politiche la libertà di parola l’avete bandita. E così, mentre in assemblea vi lasciate adulare da discorsi lusinghieri, nella realtà state quasi per soccombere. […] se siete disposti ad ascoltare ciò che vi giova, senza eufemismi, sono pronto a parlare.

La tendenza dell’assemblea a farsi ingannare da «discorsi lusinghieri» che denuncia qui il democraticissimo Demostene pare non essere troppo distante dall’accusa di demagogia che l’araldo delle Supplici aveva avanzato nel contraddittorio con Teseo. E non c’è dubbio che la parola possa guidare ma anche ingannare, quando persuade l’uditorio. Perciò, il rapporto tra l’oratore e il pubblico, soprattutto se l’oratore è ben noto come Demostene, passa attraverso diversi modi di impostare la comunicazione. Qui l’oratore ha scelto di presentarsi come l’alfiere solitario di una verità scomoda da veicolare, ma al tempo stesso necessaria: organizzare in tempi rapidi una risposta militare contro Filippo II di Macedonia, i cui successi si fanno per Atene sempre più inquietanti. Siamo nel 341 a.C. e il re macedone avanza verso Bisanzio e il Cherso-

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neso tracico, ma Atene non risponde con adeguata prontezza, lamenta Demostene, anche per l’opposizione dei filo-macedoni, che hanno nell’odiato rivale Eschine il loro più eminente rappresentante. Demostene suggerisce che la voce degli oppositori di Filippo sia stata di fatto silenziata dagli oratori che si mostrano più tranquillizzanti nel minimizzare i pericoli. Ad Atene in quegli anni, soprattutto tra i ricchi, sono in pochi a volere la guerra e Demostene si era dovuto battere perché le eccedenze del bilancio cittadino fossero versate nella cassa militare (stratiotikón) per le spese di guerra, sottraendole al sussidio per gli spettacoli (theorikón). Demostene convincerà gli Ateniesi a organizzare un’alleanza anti-macedone, che non impedirà la caduta di Bisanzio e Perinto assediate da Filippo, ma preparerà allo scontro frontale, che Atene, com’è noto, perderà. Dietro le lamentele sull’assenza di parrhesía, Demostene guida con piglio deciso questi momenti della vita politica ateniese: l’introduzione al discorso che abbiamo appena letto è allora piuttosto l’abile costruzione di una immagine che la denuncia di una qualche reale censura. Lo stesso Demostene, nell’orazione Contro Leptine, pronunciata nel 355/4, aveva presenta-

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to la centralità della libertà di parola ad Atene, evidenziandone i meriti in relazione al confronto con Sparta e Tebe: i suoi avversari, sosteneva, potevano richiamarsi all’esempio spartano o a quello tebano per proporre l’abolizione degli onori e delle esenzioni che lo Stato offre con essi (la atéleia), solo perché sono Ateniesi. A Sparta, infatti, non potrebbero elogiare la costituzione ateniese: Non ignoro che non abbiamo le stesse leggi, o gli stessi costumi, o lo stesso ordinamento politico dei Tebani e degli Spartani […]. Quel che i miei avversari si accingono a fare, se vorranno utilizzare argomenti simili, a Sparta è proibito, vale a dire elogiare i costumi degli Ateniesi o di chiunque altro. Bisogna astenersene ed è necessario elogiare solo quanto conviene alla loro costituzione […]. Ma i costumi degli Spartani e i nostri sono entrambi retti. Perché? Perché in un’oligarchia concedere un’uguale parte a tutti coloro che governano la polis crea concordia tra di loro; mentre nelle democrazie la competizione tra gli uomini virtuosi per ottenere le ricompense del popolo ne salvaguarda la libertà.

La libertà di parola è talmente ampia ad Atene che può essere usata anche per elogiare for-

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me di governo diverse o portare critiche alla propria; a Sparta nulla di tutto questo è concesso. Demostene vi vede un portato della democrazia e aggiunge che la libertà trova un suo rafforzamento nella competizione tra cittadini per ottenere gli onori civici: una nobile lotta di partecipazione ed evergesia. 2. Due tipi di uguaglianza Nelle riflessioni di segno anti-democratico, o quanto meno moderato, si andò definendo in Grecia una distinzione tra uguaglianza aritmetica, “secondo il numero”, e uguaglianza geometrica o proporzionale o, come a volte viene enunciata, “secondo il merito” (kat’axían). La prima esprime il rapporto di uguaglianza in modo diretto: ognuno ha nella stessa misura dell’altro. La seconda lo esprime come proporzione: ognuno ha una quota conforme al suo ruolo, in proporzione a quanto dà. Nel primo caso tutti i membri della comunità hanno pari peso: il ricco vale come il povero, il nobile come il popolano. Nel secondo intervengono parametri a correggere i rapporti, ad esempio le classi censitarie o il rango: chi sta più in alto dà di più ma, al contempo, riceve anche maggiore quota di parteci-

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pazione e potere nella città. Secondo Aristotele, l’uguaglianza democratica seguiva il criterio puramente numerico e perciò finiva con il privilegiare di fatto i poveri, perché in maggioranza, e la distinzione era stata usata già da Isocrate e da Platone nello stesso senso. Il discorso di Pericle, tuttavia, mostra come la sua visione prevedesse una compenetrazione delle due uguaglianze: secondo il numero per i diritti politici e giuridici, secondo il merito per il ruolo da ricoprire nella città. È, come abbiamo già anticipato, la versione democratica dell’iso­nomía, che distingue diverse forme di uguaglianza in base alle funzioni e ai contesti. Che questa fosse una rivendicazione della democrazia lo conferma la critica del Vecchio Oligarca quando afferma: Se alcuni si stupiscono che in tutti i campi si conceda di più ai malvagi e ai poveri e agli uomini del popolo piuttosto che agli onesti, risulterà evidente che proprio in questo modo conservano la democrazia.

L’anonimo esprime qui una critica alla democrazia nel suo complesso: privilegiare sistematicamente il dêmos rispetto ai buoni (cioè gli aristocratici e i ricchi). Quel “concedere di più” in greco è espresso dal sintagma pléon némein: esso

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richiama la composizione della parola isonomía, che è invece un íson némein, un concedere in misura equa, uguale. Il Vecchio Oligarca sta quindi provando a smontare una delle pretese della democrazia, quella di essere isonomica: altro che isonomía, altro che equa ripartizione dell’uguaglianza, essa è tutta un dare di più a una parte sola, al solo dêmos, in ogni campo! Quel dare di più avverrebbe perché la democrazia, applicando una nozione di uguaglianza numerica, azzera ogni considerazione del merito e lascia come unico criterio distintivo quello del numero. E il dêmos si impone perché è necessariamente più numeroso dei pochi “buoni”. La spia del ragionamento è nell’avverbio pantachoû, che significa “ovunque”, “in ogni campo”, suggerendo che la nozione democratica di uguaglianza aritmetica si applica a ogni aspetto della vita della città. Pericle invece aveva articolato, in forma programmatica, le forme dell’uguaglianza: sul piano giuridico si adotta senza deroghe il principio di uguaglianza numerica, per il quale tutti sono uguali e omologati di fronte alla legge; sul piano dell’azione politica si apre invece alla considerazione delle qualità individuali e si introduce la forma di uguaglianza secondo il merito. L’anonimo ribatte ignorando il secondo punto: la sua rappresenta-

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zione dell’uguaglianza democratica prevede che essa sia solo e in ogni campo quella aritmetica; e se il numero la fa da padrone, non ci si può sottrarre a un “dominio” della maggioranza. Il Vecchio Oligarca, come spesso gli accade, esagera ed estremizza, ma al tempo stesso mette il dito su una questione molto delicata e molto discussa in relazione alla partecipazione comune alla democrazia e ai sentimenti provati dagli aristocratici, dai filo-oligarchici, specie se ricchi, al suo interno. Questa idea dell’uguaglianza democratica (che, sarà bene ricordarlo, è posizione polemica e ostile) diventerà il modo diffuso di guardare con disapprovazione a quel regime, ma anche di presentare in modo intenzionalmente parziale uno dei principi costitutivi. 3. Uguaglianza politica e differenziazioni sociali C’è dunque uguaglianza politica e giuridica, ma c’è spazio per apprezzare le differenze date dalle competenze dei singoli. Dove la democrazia non estende il principio di uguaglianza è nella sfera economica e sociale: qui le differenze non solo esistono di fatto, ma sono considerate pienamente legittime. Pericle considera la ricchezza privata come una risorsa della comunità,

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a patto che sia utilizzata per costruire “opere” (cioè per produrre ulteriore ricchezza) e non per mero esibizionismo; la povertà d’altro canto non è vergogna, se ci si sforza di uscire dalla propria condizione. Atene è città socialmente stratificata ed economicamente molto attiva e, in questo modo, offre occasioni di progressione sociale a chi sappia sfruttarne le possibilità. Tra i regimi del mondo greco nessuno si rivela tanto aperto alla differenziazione economica come la democrazia ateniese: sono le oligarchie estreme che si richiamano semmai a un modello spartano, o al suo miraggio, per vagheggiare un’uguaglianza totalizzante e livellatrice per il ristretto gruppo di pari che dovrebbe costituire, nella loro prospettiva, la cittadinanza. L’economia è spesso tenuta ai margini in queste realtà, per limitare il suo impatto sull’organizzazione della società. Ad Atene, tuttavia, le trasformazioni dell’economia hanno fatto il loro corso e tra le ragioni di conflitto non c’è solo l’appartenenza a un certo gruppo sociale o l’adesione ideologica a una politeía, ma anche la contrapposizione di interessi diversi tra proprietari terrieri, artigiani, grandi mercanti e plebe urbana. La storia sociale ed economica dell’Attica, a partire dalle riforme di Solone, che vi aveva introdotto e sti-

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molato i “mestieri” (téchnai), attraverso la tirannide di Pisistrato, che diede ulteriore impulso all’artigianato e al commercio, fino alla nascita della democrazia e allo sviluppo della potenza navale ateniese, spiega in fondo perché, nel percorso che intreccia continuamente libertà e uguaglianza, la sfera economica e privata non sia mai stata sottoposta a un livellamento in senso egualitario ma abbia mantenuto la libertà della differenziazione, che si traduceva certo in disuguaglianze di ricchezze, di proprietà, di rango. La democrazia nasce come risposta alla necessità di conciliare le disuguaglianze sociali, non per rimuoverle. La convivenza richiede di fornire un uguale accesso alla partecipazione politica, alle mansioni di governo e alla tutela delle leggi a tutti i cittadini. L’uguaglianza in questi campi è rigorosa e non può non esserlo, vista la potenziale tensione sempre latente in quella convivenza. In altri campi, semplicemente, non è richiesta. Il privato conosce ampi margini di libertà, che in Pericle avevano ricevuto una teorizzazione in direzione del benessere e del diritto alla felicità per tutti gli strati sociali liberi. L’aspirazione alla felicità e al benessere si associa al tema del vivere senza paura, senza rischi – secondo i cri-

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tici della democrazia senza coraggio, visto che a difendere il territorio sono lasciati i contadini o i ricchi che vivono in campagna, mentre il dêmos gozzoviglia e si trastulla in città a spese dei benestanti. Il Vecchio Oligarca estende questa condizione di nuovo agli schiavi ateniesi, liberati dalla percezione del senso di pericolo che il loro status richiederebbe (come avviene, dice l’anonimo, agli iloti spartani). Il motivo risiede da un lato nelle tutele dell’uguaglianza, dall’altro nell’autosufficienza economica, che non rende il dêmos dipendente dall’élite. Uguaglianza dei diritti e libertà economico-sociale sono intese qui come condizioni convergenti ad assicurare al dêmos il potere nella città. La critica alla democrazia conferma quei presupposti che la teoria democratica aveva elaborato, ma ne rovescia il significato politico. Le differenze economiche sono evidentissime ad Atene, dove esiste una upper class, formata principalmente da proprietari terrieri ma cui accedono anche personaggi che svolgono attività produttive e di commercio e che possono essere tanto cittadini (come ad esempio il padre dell’oratore Demostene, proprietario di due ergastéria, officine) quanto stranieri residenti, detti “meteci” (letteralmente “coloro che

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convivono”); il caso più noto è quello del padre di un altro oratore, Lisia, di nome Cefalo, siracusano d’origine, anche lui ricco padrone di un ergastérion e, sembra, buon amico di Pericle. C’erano proprietari di appezzamenti fondiari piccoli o medi, commercianti, produttori su scala minore, piccoli artigiani che costituivano una sorte di classe media. E c’erano i poveri, che lavoravano a salario per vivere. La forza lavoro era costituita principalmente dagli schiavi, ma al loro fianco è ben attestato il lavoro libero, disprezzato dagli aristocratici ma componente rilevante del paesaggio sociale della democrazia. C’era, soprattutto, la possibilità di migliorare la propria condizione economica: la mobilità sociale era una delle componenti caratteristiche della società democratica e si riesce ad apprezzare soprattutto a partire dalla metà del V secolo a.C. e per tutto il IV secolo, con l’emergere di nuovi ricchi (cui appartenevano alcuni leader politici post-periclei come Cleone, fabbricante di pelli, o Cleofonte, designato in modo dispregiativo da Andocide come produttore di strumenti musicali). Alcune scalate sociali sono particolarmente spettacolari, come quella di Pasione, uno schiavo impiegato in attività bancarie che viene affrancato e infine, poco prima della

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sua morte, si vedrà concessa la cittadinanza, per sé e i suoi discendenti: la sua banca era la maggiore di Atene ed egli è descritto come l’uomo più ricco di tutta la Grecia. Suo figlio Apollodoro sarà una figura politicamente di rilievo della metà del IV secolo. La vicenda di Pasione era certamente unica, ma non era isolato il successo ottenuto da figure che partivano da umili origini o da uno status di inferiorità rispetto ai liberi. Simmetricamente, esistevano dispersioni ed erosioni di fortune ereditate. La ricchezza circolava ad Atene, non era perciò un dato stabile e garantito per chi la possedeva. La competizione economica si rileva alta e induce forme di ascesa e caduta patrimoniale che costituiscono una dimostrazione dell’assenza di una ideologia egualitaria sul piano della gestione degli affari privati e dei comportamenti economici. A fianco dell’uguaglianza politica e giuridica, le disuguaglianze economiche e sociali erano parte legittima della società democratica. 4. Quelli di mezzo Anche il dato economico-sociale trova del resto spazio nelle Supplici di Euripide, espresso ancora una volta da Teseo. Nel rifiutare la pro-

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posta di alleanza di Adrasto, il re espone una sua breve sociologia della polis: I cittadini si dividono in tre categorie: i ricchi inutili e desiderosi di possedere sempre di più, gli indigenti privi di risorse per vivere e pericolosi: cedono spesso all’invidia e, ingannati dalle lingue di capi malvagi, lanciano frecce aguzze contro i benestanti. La categoria che è in mezzo salva le città, tutelando l’ordine su cui la città si costituisce.

Nella lotta tra ricchi e poveri, entrambi radicalizzati da Teseo nei propri limiti di classe, i primi inutili e avidi, i secondi invidiosi e ondivaghi, la salvezza è rappresentata dalla classe media (in greco i mésoi), che custodisce e difende il kósmos, l’ordine della città. La classe media è la protagonista della democrazia, perché ha interesse al benessere comune, da cui trae il proprio sostentamento su un piano materiale e la propria sicurezza su quello sociale e politico. Poco prima Teseo ha stigmatizzato i giovani ambiziosi che si lanciano in imprese senza considerare i danni che ne potrebbe soffrire la massa (il plêthos): che si possa identificare quella massa con la classe media sembra una suggestione molto plausibile. Euripide rappre-

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senta le tre parti (merídes) con alto potenziale conflittuale: se i ricchi pensano sostanzialmente a sé e vogliono solo aumentare i propri patrimoni, i poveri sviluppano animosità dettata dall’invidia sociale (quella che Pericle aveva di fatto condannato nell’epitafio), sotto la guida di capi malvagi (poneroí), quasi che una tentazione latente nelle forme di antagonismo sociale ad Atene, che certamente esistevano, fosse nel costruire consensi personali sobillando l’insoddisfazione dei meno abbienti. Neppure la democrazia “radicale” di Teseo/ Pe­ricle vuole concedere spazio a queste rivendicazioni, così come Atene non ha mai ceduto alle proposte più “rivoluzionarie” di offrire ai poveri la cancellazione dei debiti o la redistribuzione della terra. La proprietà privata era difesa con cura dalla normativa attica e ben radicata nelle tutele dei gruppi domestici, gli oîkoi, di cui la città era formata. Se i ricchi sentivano che le loro proprietà erano minacciate dalla democrazia, perché esposte alle mire dei poveri e dei sicofanti, che trafficano nei tribunali cercando ogni pretesto e cavillo per ottenere guadagni personali e magari impadronirsi di beni altrui con false accuse e processi pretestuosi, va ricordato che la difesa delle proprietà e della loro ti-

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tolarità è uno degli elementi che caratterizzano la democrazia ateniese. Le leggi sulla proprietà sono molte e rigorose e la sua difesa era una delle condizioni vincolanti nell’esercizio delle funzioni pubbliche nella città. Euripide rovescia peraltro l’accusa: sono i ricchi, secondo il Teseo delle Supplici, a volere sempre di più, a evidenziare una sete insaziabile di proprietà e beni. Sono i medi, invece, ad agire nell’interesse collettivo. 5. Autoctonia e sinecismo In conclusione tocchiamo, sia pur brevemente, la questione di come venisse giustificato, ad Atene, il pari accesso alla comunità politica per tutti gli strati sociali della città. La democrazia aveva sovvertito le pratiche di accesso alla cittadinanza, proprie del mondo arcaico, che riservavano la piena attribuzione dei diritti civici a chi avesse requisiti di rango o censo, per estenderli a strati sociali fin lì esclusi. Inoltre, Atene aveva instaurato un rapporto con il territorio che strutturava le forme del vivere democratico partendo da una sua riorganizzazione: Clistene, il fondatore, aveva ripensato la città a partire dalla relazione con il territorio dell’Attica, for-

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mato da insediamenti diversi che affiancano la capitale Atene, dalla campagna all’entroterra montuoso, alle coste. Clistene creò una pianta artificiale che si sovrapponeva a quella della geografia naturale e uma­na che l’aveva preceduta: organizzò il territorio dividendolo in comunità minime, i demi (termine che riprende l’accezione territoriale di una delle nostre parole-chiave). Individuò tre aree, una urbana, una costiera e una per l’entroterra, aree certo funzionali, ma che rinnovavano la doppia natura terrestre-agricola e costiera-marinara che connota Atene nel mito dello scontro tra Atena e Poseidone per assicurarsi la regione, scontro che sarà vinto dalla dea con l’offerta dell’ulivo, a fronte dell’acqua del mare indicata dal dio: di quello scontro restavano come testimonianza, nel tempio di Eretteo sull’acropoli, l’ulivo sacro e una fonte di acqua salata. Clistene divise ciascuna di queste aree in dieci parti, chiamate trittie, per un totale di trenta, e assegnò, traendoli a sorte, i demi delle varie aree a una delle trittie. Creò infine dieci tribù dalle tradizionali quattro: ciascuna era composta da tre trittie, una urbana, una costiera e una dell’entroterra, e un certo numero di demi sparsi per le tre aree. Letteralmente, rimescolò Atene a parti-

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re dal territorio. A ogni tribù assegnò il nome di un eroe attico, ma non li scelse lui: predisposta una lista di cento candidati, la presentò a Delfi, dove la sacerdotessa di Apollo ne sorteggiò i dieci. Clistene puntava a smantellare i potentati territoriali legati alle grandi famiglie ateniesi e a unire in modo più stretto i cittadini, costretti a interagire anche se appartenenti a parti distinte e lontane del territorio; costrinse anche città e campagna a un più forte vincolo di reciprocità. Introdusse inoltre molti nuovi cittadini, ma mantenne le distinzioni di censo istituite da Solone e l’assegnazione delle maggiori cariche, a partire dall’arcontato, per elezione e non per sorteggio (l’accesso alle cariche fu svincolato dall’appartenenza alle classi censitarie nel 457 a.C., il sorteggio fu definitivamente introdotto nel 487). Permanevano organizzazioni di tipo gentilizio, come le fratrie, ma nella forma istituzionalizzata il cittadino era in primo luogo associato alla sua residenza sul territorio. L’ugua­glianza tra i membri della nuova Attica era garantita sul piano dei diritti politici, non su quello socio-economico. Aristotele insiste sul fatto che diversi provvedimenti di Clistene puntassero a sostituire la solidarietà familiare con un più ampio senso di collettività dato

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dall’appartenenza al demo. Dopo le sue riforme Erodoto, che non sembra ammirare particolarmente il personaggio Clistene, ma certo è impressionato dalla sua creazione, afferma: «Atene, che già prima era grande, una volta liberata dai tiranni divenne anche più grande». La democrazia nasce dalla cacciata dei tiranni e si struttura avendo come principi ispiratori la mescolanza e l’apertura del corpo civico, in una nuova organizzazione che è non soltanto politica, ma anche territoriale e temporale, perché gli organismi istituiti da Clistene impongono nuove cadenze alla vita pubblica. L’anno politico viene diviso in dieci periodi, associati ognuno a una delle tribù che deteneva, a turno, la pritania, mentre il calendario religioso manteneva la divisione in dodici mesi: le nuove scansioni riscrivevano il tempo e lo spazio della vita della città. Al centro delle riforme di Clistene ci sono le unità territoriali, i demi, che definiscono i cittadini in base alla loro collocazione nel territorio e all’appartenenza a quelle comunità territoriali (i demoti, che si organizzano con proprie assemblee e cariche, guidate da un magistrato specifico, il demarco). L’identità stessa del cittadino si ridefinisce in relazione a questo nuovo accordo con il territorio, identificato attraverso

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il riferimento al demo di appartenenza (il demotico, che proprio con Clistene sostituì il patronimico nella formula onomastica). Aristotele nella Costituzione degli Ateniesi spiega che l’introduzione avvenne «affinché non si rivelassero, chiamandosi con il patronimico, i nuovi cittadini, ma si chiamassero con il nome del demo: per questa ragione gli Ateniesi si chiamano con il nome del demo di appartenenza». Il territorio ha scavalcato i legami di sangue e messo in ombra i legami familiari, in particolare per accogliere i neopolîtai, i nuovi cittadini. Con Clistene la democrazia si forma su una nuova concezione dell’Attica. Non è sorprendente che l’eroe sentito come un patrocinatore del nuovo regime sarà Teseo, che aveva, secondo la tradizione, riunificato politicamente l’Attica ponendo Atene come centro religioso e istituzionale: Pisistrato aveva curato il rapporto con la campagna, ma non aveva modificato gli assetti delle grandi famiglie legate ai propri possedimenti; storicamente, il vero sinecismo dell’Attica, inteso come progetto politico, unitario avviene proprio con Clistene. Le cose cambiano rapidamente nei cinquan­ t’anni successivi. Dopo una serie di scontri con città vicine e concorrenti, l’epopea delle guerre persiane consegna ad Atene non solo una vit-

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toria esaltante, ma anche un nuovo ruolo all’interno del mondo ellenico e un nuovo strumento di potere: la flotta. Dopo la vittoria, Atene intraprende una serie di azioni che ne consolidano il prestigio e, dopo la fondazione della Lega navale, dà il via a una politica di controllo sull’Egeo che la porta in pochi anni a collocarsi come potenza egemone in grado di rivaleggiare con Sparta. Quando entra nella scena politica Pericle, i cittadini ateniesi sono membri di una polis ricca, che ha raggiunto l’egemonia e punta a realizzare quella che Tucidide chiama l’arché e si traduce, in modo forse discutibile, come “impero”, sostenuto in particolare dalle città dell’alleanza, sempre più suddite piuttosto che pari. I cambiamenti riguardano tanto i rapporti con l’esterno quanto la vita interna della città. La democratica Atene, che si era vista riconoscere il ruolo di salvatrice della Grecia nelle guerre persiane, è ora, nei rapporti vessatori che impone progressivamente ai suoi alleati, la città týrannos, si fa tiranna. I proventi dell’impero rendono la condizione di cittadino particolarmente privilegiata, ma la città è già molto popolosa. Dopo la fase di apertura ed estensione inaugurata da Clistene, arriva la chiusura nella condivisione di quel privilegio: nel 451/450

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Pericle propone una legge che restringe sensibilmente i requisiti per essere cittadini, richiedendo che entrambi i genitori siano cittadini ateniesi, il che significa che, con il passare delle generazioni, dovevano esserlo anche i nonni e i bisnonni e gli avi, una condizione evidentemente impossibile da controllare: eppure ancora nel IV secolo a.C. per identificare “ufficialmente” un cittadino gli si chiedeva chi fossero i suoi genitori e i suoi nonni, sia materni che paterni. In meno di sessant’anni la città aperta e mescolata di Clistene conosce una brusca chiusura. È soprattutto per questa città che si consolida, a giustificazione non solo della democrazia ma più specificamente della restrizione della cittadinanza, il mito dell’autoctonia, elaborando le tradizioni relative alla nascita dei primi re attici, Cecrope, il re serpente, ed Erittonio, nato dallo sperma di Efesto caduto su Gea, la terra, dopo un tentativo di violenza su Atena, ed estendendo a tutti gli Ateniesi questa condizione. Gli Ateniesi si rappresentano come autoctoni: non solo nati dalla terra, ma insediati sin dalle origini nella terra che abitano. Il legame con il territorio subisce una nuova modificazione, quella definitiva: non è il luogo della mescolanza, dell’accoglienza e dell’apertura, ma diventa il recinto entro il

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quale collocare una discendenza di sangue puro. Platone, nella sua parodia mimetica dell’epitafio inserita nel Menesseno e fatta narrare da Aspasia, l’amante di Pericle, usa i termini eughéneia, in relazione alla nobiltà di stirpe che ne deriva per tutti gli Ateniesi, e isogonía, “uguaglianza di nascita”, per indicare come la comune derivazione da questo atto fondante renderebbe tutti gli Ateniesi fratelli e li distinguerebbe in modo irreversibile da tutti gli altri. Il tema dell’autoctonia diventa un topos dei discorsi funebri che ci sono conservati, attribuiti a Lisia, Demostene e Iperide, oltre alla parodia platonica. In Lisia, ad esempio, si legge che la terra attica «è madre e padre degli Ateniesi». A dire il vero, l’unico epitafio a dedicare non più di un breve riferimento all’autoctonia è proprio quello di Pericle, che liquida rapidamente la questione: «Abitando infatti questa terra, sempre gli stessi nel succedersi delle generazioni, [i nostri antenati] grazie al loro valore l’hanno trasmessa libera fino ai giorni nostri». Sarà poi Aristofane il primo a evidenziare come il motivo dell’autoctonia si legasse alla progressiva costruzione della potenza ateniese, nelle Vespe, dove la successione autoctonia-guerre persianecostruzione dell’impero marittimo è riattraver-

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sata in modo grottesco ma con evidenti echi di un discorso autocelebrativo dell’egemonia. Sarà però soprattutto nel IV secolo, come si è visto, che le testimonianze del mito si diffondono: oltre agli epitafi, anche Isocrate lo valorizza come dato originario sul quale si costruisce l’identità ateniese. L’autoctonia serve a spiegare una serie di funzioni cultuali e rituali riservate agli Ateniesi di sangue, dalle quali erano esclusi non solo schiavi e stranieri, ma anche Ateniesi naturalizzati: questi avevano ricevuto le prerogative politiche e giuridiche dei cittadini, non quelle sacrali, perché il sangue non può determinarsi per decreto. Serve però anche a giustificare il regime democratico: il mito della fondazione non conosce eroi o aristocratici: tutti gli Ateniesi discendono dalla terra attica senza distinzioni e tutti hanno perciò diritto a partecipare della cittadinanza. Un motivo che torna, a partire dagli ultimi anni del V secolo a.C., nelle riflessioni su Atene è l’immagine dell’Attica come isola: la usa Pericle nel terzo discorso che Tucidide gli fa pronunciare, la ripetono il Vecchio Oligarca e Senofonte. Il tema riguarda l’assetto della potenza navale e i vantaggi che deriverebbero alla città se, appunto, fosse costruita interamente sul mare, co-

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me l’Atlantide platonica. Il tema si fonda sulla potenza della flotta e sulle sue attività belliche e commerciali, e vagheggia i vantaggi che deriverebbero ad Atene se potesse usufruirne senza alcun contatto fisico, territoriale, con l’esterno, senza altri confini che il mare. Quasi il simbolo di una realtà che, dietro l’orgoglio della sua talassocrazia e la consapevolezza degli enormi vantaggi militari, politici ed economici che essa porta, sembra nascondere una velata nostalgia di separazione. Il mito dell’autoctonia proiettava in un passato lontano le radici di questa separazione, conficcate nella terra che aveva generato e nutrito i suoi abitanti. E pensare che Tucidide, nel parlare della storia più antica di Atene, aveva sì riconosciuto che essa non fu toccata da ondate migratorie o da lotte intestine e quindi fu abitata dallo stesso popolo, ma aveva ricondotto questa circostanza al fatto che l’Attica era una regione povera e non appetibile, al contrario, ad esempio, della Tessaglia o del Peloponneso, oggetto perciò di guerre e trasferimenti di popolazione. Lo storico del resto, come già il suo predecessore Erodoto, non usa mai per gli Ateniesi la designazione di autoctoni: la fa però usare ai personaggi di cui riporta i discorsi.

V

Partecipazione

1. La mobilitazione permanente del dêmos Nel lessico greco la partecipazione a una certa forma di governo, cioè il fatto di esserne membri riconosciuti, si esprimeva con una espressione, metéchein tês politeías, che letteralmente indicava una comproprietà, più che una partecipazione. È già stato sostenuto che i cittadini della polis ne erano anche, in certo senso, azionisti: ciascuno possedeva una “quota” del totale. In democrazia, la quota non andava comprata, era assicurata a chiunque ne avesse i requisiti, sostanzialmente senza altre limitazioni. Quel “dono” richiedeva però dei contraccambi, in termini di partecipazione concreta e attiva alla vita politica della città. Abbiamo visto come all’assemblea partecipava una porzione della cittadinanza valutabile

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intorno a 6000 individui. Quando si parla di partecipazione, è bene distinguere l’idea che di essa si ha nelle democrazie moderne, concentrata in particolare sul diritto di partecipare all’elezione dei rappresentanti dei cittadini, e quella antica, in cui il diritto di voto in assemblea non esauriva le prerogative del cittadino né, da solo, le definiva. L’assemblea aveva una composizione variabile e non è difficile comprenderne le ragioni se si pensa che ogni anno ne venivano convocate non meno di quaranta, dieci principali e trenta ordinarie, alle quali se ne aggiungevano altre straordinarie e imprevedibili. Non stupisce che gli Ateniesi non avessero sempre tempo, energie o anche solo voglia di partecipare a tutte; da un certo punto di vista, saper mobilitare circa 6000 tra loro per almeno quaranta occasioni all’anno può considerarsi un dato notevole in relazione alla presenza cittadina. Ma la forma diretta della partecipazione alla democrazia non passava solo dall’assemblea. Abbiamo anche visto come ogni anno ad Atene venissero infatti nominati circa settecento magistrati e altri cinquecento membri del consiglio, i buleuti. Si dovevano individuare inoltre, per sorteggio, 6000 cittadini eleggibili come giudici nei tribunali popolari, tra i quali veniva poi

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selezionato il numero occorrente per ogni giornata di processo o per le altre funzioni, come, nel IV secolo, la partecipazione al collegio dei nomoteti. Ogni anno dunque più di 7000 cittadini erano coinvolti in modo diretto nell’amministrazione della città, alcuni con funzioni decisive per la vita pubblica, a fianco della loro eventuale partecipazione all’assemblea; la partecipazione avveniva a livello centrale e locale, nei demi, che prevedevano un’ulteriore serie di cariche e organismi pubblici (a iniziare dalle assemblee dei demoti). Erano inoltre i demi a registrare i nuovi cittadini quando raggiungevano la maggiore età: la costruzione formale del corpo civico iniziava a livello locale. Molte delle funzioni politiche non potevano essere ricoperte più di una volta; il rendiconto finale impediva di fatto di poter accedervi per due anni consecutivamente. Queste condizioni assicuravano un ricambio costante e aumentavano la base della partecipazione, anche se è possibile che alcuni individui fossero più attivi a proporsi per ricoprire ruoli pubblici. Gli oratori fanno riferimento a casi di accumulo di cariche, che non avevano in sé nulla di illegale ma potevano esporsi al sospetto di voler trarre vantaggi personali dalla posizione ricoperta: in questi casi il discrimine era nell’aver servito l’in-

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teresse pubblico, un principio centrale nell’ideologia democratica. Le voci critiche mettono in rilievo il possibile conflitto tra interessi pubblici e privati, come fa, non senza qualche esagerazione, il Vecchio Oligarca: Il popolo [dêmos] non chiede affatto di partecipare alle cariche che, esercitate bene, portano salvezza a tutti, ma, esercitate male, mettono tutti in pericolo: non ritengono di dover partecipare alla strategia o all’ipparchia. Il popolo sa bene infatti che non gli conviene esercitarle lui queste cariche, ma lasciare che le esercitino i più capaci. Il popolo aspira a ricoprire solo le cariche che comportano una indennità o qualche vantaggio privato.

La discussione tra sostenitori e avversari della democrazia è spesso percorsa dal tema dell’utile privato contrapposto a quello pubblico; un tema che in realtà era stato elaborato, nelle riflessioni greche, in relazione al campo oligarchico, come mostra la critica all’oligarchia da parte di Dario, nel discorso erodoteo sulle costituzioni, che abbiamo già visto e che sarà ripetuta, nel secolo successivo, sia da Platone che da Aristotele, non certo due amici della democrazia. In questo passo il Vecchio Oligarca sostiene che la distinzione tra magistrature elettive e sor-

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teggiate sia in qualche modo studiata a favore del dêmos, che eviterebbe le prime, soprattutto quelle di carattere militare (lo stratego e l’ipparco), che comportano maggiori responsabilità e quindi maggiori rischi, semplicemente non candidandosi e volgendosi a quelle da cui può trarre vantaggi personali. Si tratta di una estremizzazione faziosa, ma tocca una questione delicata. I vantaggi posso derivare o dalla retribuzione delle cariche (misthophoría) o dalla possibilità di piegare l’ufficio ricoperto ai propri interessi. La retribuzione delle cariche rappresentava una istanza della democrazia, che risarciva il cittadino per il tempo impiegato a favore della comunità: si trattava di somme complessivamente basse e, a quanto pare, dopo essere state abolite dall’oligarchia del 411, non furono tutte reintrodotte, con la sola eccezione degli arconti e di poche altre magistrature, mentre furono ripristinate, dopo il 403, per i membri del consiglio, i giudici del tribunale e, in seguito, estese all’assemblea. La possibilità di trarre guadagni era legata sia ai compensi derivati dalla tassazione, leciti, sia alla semplice corruzione, naturalmente illecita. L’attrazione verso le cariche pubbliche poteva presentarsi in forme diverse: se Eschine accusa un suo avversario in tribunale,

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Timarco, di aver ricoperto un numero esorbitante di archaí, nonostante la giovane età, distinguendosi per atti di corruzione e abusi, l’autore dell’orazione Per Policrate, attribuita a Lisia ma da molti studiosi considerata spuria, difende al contrario il suo cliente asserendo che non si deve giudicare il numero delle magistrature svolte, ma se siano state assolte o meno nell’interesse della città (cosa che, naturalmente, afferma del suo cliente). Casi di corruzione, malversazione o abusi erano certo possibili e forse persino frequenti, ma l’anonimo tace l’elemento centrale della verifica alla quale tutti i magistrati andavano soggetti e che poteva portare a un rinvio a giudizio per chi non avesse saputo giustificare adeguatamente il proprio operato. La retribuzione delle cariche e delle funzioni pubbliche svolte dal dêmos era oggetto di frequente polemica nel fronte anti-democratico: Aristotele, che pure riconosce diverse qualità alla democrazia nel suo complesso, soprattutto se si indirizza in senso moderato, nella Costituzione degli Ateniesi legge l’introduzione dell’indennità per i giudici da parte di Pericle come una mossa volta sostanzialmente a compensare la differenza patrimoniale con il suo ricco rivale Cimone: non potendo elargire benemerenze private, lo avreb-

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be fatto a spese pubbliche, ingraziandosi così il dêmos. Nella Politica esprime questa posizione in modo più generale come un dato comune alle democrazie radicali: «il popolo infatti, potendo contare su un abbondante compenso, avoca a sé tutte le decisioni». Il fine della retribuzione intendeva, nella prospettiva democratica, garantire le condizioni per una partecipazione ampia e diretta ai meccanismi della politica, limitando gli ostacoli economici e sociali alla sua piena realizzazione. L’esistenza di condotte volte a trarre da questo un interesse personale era passibile di diverse forme di reazione da parte della polis, sia nella forma istituzionale della rendicontazione e valutazione finale del magistrato, sia rispetto al biasimo sociale che comportava l’accusa di aver anteposto interessi personali al bene comune. La reputazione democratica, la axíosis che abbiamo già incontrato, svolgeva un ruolo importante di dissuasione oltre che di valorizzazione dei comportamenti personali. Se, come affermava l’araldo tebano nelle Supplici, il povero che vive del suo lavoro, anche quando aveva interesse e qualità a partecipare, non poteva averne il tempo, la democrazia si incaricava di rimuovere questo ostacolo ricompensandolo per il tempo perduto.

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2. La ricerca di onori e la partecipazione politica Se il sorteggio rappresentava una delle forme in cui si affermava concretamente il criterio di uguaglianza tra i cittadini, soprattutto per magistrature che non richiedevano particolari competenze per le funzioni cui dovevano assolvere, questo carattere, che uniformava tutti i cittadini nel meccanismo della rotazione, può dare l’impressione di un loro livellamento verso il basso, di una complessiva sostituibilità di singoli in relazione alla funzione da svolgere. Ci sono tuttavia dei correttivi che vanno considerati a questo proposito. Il sorteggio in particolare investiva un numero alto di cariche, di importanza e prestigio molto diverso; c’era competizione per ottenere quelle più rilevanti, così come risultava essercene, a maggior ragione, per quelle elettive, in particolare la strategia. Le cariche prestigiose comportavano spesso spese, per ottenerle e per assolverle al meglio. E spese ancora maggiori erano previste per le liturgie a carico dei cittadini più facoltosi. La pressione sui ceti abbienti si faceva peraltro più pesante nei periodi di guerra (cioè molto spesso), quando si richiedevano contribuzioni specifiche per sostenere le spese militari. In più occasioni sentiamo echi di lamentele da parte dei ricchi su questo

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punto e le critiche al sistema potevano tracciare un quadro di mancanza assoluta di reciprocità tra dare e avere. Per le liturgie, possiamo rivolgerci alle parole del solito Vecchio Oligarca: Sanno però che nelle coregie, nelle ginnasiarchie, nelle trierarchie, sono i ricchi a sostenere le spese dei cori, ma che è il popolo a goderne; e sono i ricchi a sovvenzionare le gare ginniche e ad armare le triremi, ma è il popolo a usare le triremi e a partecipare alle gare.

L’anonimo menziona alcune delle liturgie della polis e presenta il loro meccanismo in modo unidirezionale: i ricchi pagano e forniscono i servizi, il popolo ne trae beneficio. E allora, perché i ricchi continuavano a pagare? La risposta possiamo cercarla in un dialogo tra Socrate e il giovane ateniese Critobulo riportato da Senofonte nell’Economico. Socrate provoca il suo interlocutore, benestante e socialmente ammirato, affermando di ritenersi più ricco di lui, nonostante le sue condizioni economiche fossero notoriamente assai modeste. Richiesto di una spiegazione, Socrate risponde di avere abbastanza per vivere, mentre l’interlocutore non potrà mai avere risorse sufficienti in ragione «del suo

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stile di vita e della sua reputazione», vale a dire per la necessità di mantenerla alta. Passa poi a elencare i costi di questo stile di vita: sacrifici compiuti con grande dispendio, munificenza verso gli ospiti, prodigalità e continue attenzione verso i concittadini, «per non restare privo di alleati». E ancora: allevamento di cavalli, allestimento di cori e di giochi ginnici, ricerca di alte cariche e, in caso di guerra, allestimento di triremi e versamento di imposte. E se sembrerà che tu assolva uno di questi compiti in modo insufficiente, so che gli Ateniesi si vendicheranno di te, non meno che se ti cogliessero a rubare del loro.

Critobulo, afferma Socrate, è dunque schiavo dei suoi obblighi sociali e ha accettato una relazione sbilanciata con la città, in cui deve continuamente dare. La chiosa finale inquadra la spietatezza delle aspettative della comunità verso figure come Critobulo: il non dare, anzi il non dare quanto ci si aspetta, è equiparato al sottrarre. C’è una evidente critica alla socialità democratica, che ha incrinato i rapporti di reciprocità improntati a un rigido equilibrio tra dare e avere. Quelli però, nati in ambito ari-

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stocratico, erano rapporti tra pari; qui c’è uno squilibrio iniziale nell’essere un ricco che si relaziona a un’intera comunità; la conclusione è presentata nella forma del ricco che dà e dei poveri che prendono, proprio come aveva detto il Vecchio Oligarca. L’esito non potrà che essere rovinoso, conclude Socrate, e portare il giovane all’indigenza. La ricerca di una buona reputazione muove gli atti di Critobulo, che Socrate inviterà a dedicarsi invece alla cura di sé e del suo patrimonio e, in particolare, all’agricoltura, secondo l’esempio del nobile Iscomaco, protagonista del resto del dialogo nell’esporre il suo stile di vita: lontano dalla politica e impegnato a far prosperare il suo patrimonio e il suo gruppo domestico. Un esempio di cittadino “ritirato”, che persegue quella apragmosýne, quella mancanza di impegno nel pubblico che secondo Pericle rendeva i cittadini non tranquilli ma inutili. Il dialogo, composto probabilmente negli anni Ottanta del IV secolo a.C. e ambientato in quelli finali del V, registra la tensione nelle relazioni interne alla città negli anni finali della guerra del Peloponneso e in quelli della democrazia restaurata. Lo stile di vita di Critobulo stigmatizzato da Socrate è legato alle regole della definizione dei ruoli nella città: al suo interno, un giovane

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ricco e ambizioso che volesse far carriera doveva spendere per guadagnare una buona reputazione pubblica. Ma davvero questo impegno era senza alcuna forma di ritorno e così sbilanciato? Non del tutto. Si deve considerare infatti che le cariche ad Atene prendevano, oltre al nome di archaí, quello di timaí, onori. Rivestire una carica pubblica era, appunto, un onore, perché procurava onore; maggiore il prestigio della carica, maggiore l’onore. Ora, la traduzione onore deve essere correttamente inquadrata: non si tratta di un sentimento personale o privato, ma di una qualità pubblica, dai forti risvolti sociali. La timé infatti, che abbiamo già visto operativa fin dall’epica omerica a definire l’immagine sociale degli eroi, qualificava l’individuo anche nella società democratica e, in certo senso, ne stabiliva il valore; e sarà il caso di notare che la parola in età classica è utilizzata anche per indicare il valore dei beni materiali, come equivalente dunque del nostro “prezzo”. I modi per accedere a questa timé erano però radicalmente mutati rispetto al mondo delle aristocrazie arcaiche. Nella polis democratica assumere una carica prestigiosa, o ancor più una liturgia dispendiosa, e svolgerla in maniera generosa e prodiga era la premessa per

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ottenere, in cambio, una “quota” di onore, che poteva poi essere spesa in varie forme nella vita politica, sociale, persino economica della polis. Il sistema degli onori era uno degli assi portanti della vita democratica, comportava sì forme competitive, ma al tempo stesso rinsaldava i vincoli di appartenenza e di coesione tra la città e i suoi membri che, sostenendo funzioni impegnative e spesso costose, ricevevano in cambio pubbliche espressioni di gratitudine, formali e sostanziali. Tanto che, all’inizio del IV secolo, questa attitudine trovò una parola che la esprimeva, la philotimía, letteralmente “amore per gli onori”. Termine utilizzato piuttosto raramente nel V secolo e sconosciuto in età arcaica, descrive una ricerca di realizzazione individuale che sia in accordo con le regole della collettività. Può perciò assumere anche il senso di “orgoglio” o “rispetto di sé” e, nella sua accezione negativa, di “ostentazione”. Quando è eccessiva è un pericolo: Pindaro lamentava come le città siano minacciate da quanti sono guidati da «una philotimía troppo grande». Casi precoci di philotimía smodata erano riconosciuti in figure come Temistocle o Alcibiade, con implicazioni tendenzialmente negative in particolare per quest’ultimo, nel quale l’ambi-

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zione poneva il successo personale davanti agli interessi comuni. Anche Tucidide ne fa menzione, in particolare per gli oligarchici ateniesi, incapaci di muoversi secondo una comune visione e vittime anch’essi di avidità e volontà di prevalere sul piano personale (ídia kérda, pleonexía e philonikía). Nel passaggio tra V e IV secolo a.C. il termine va progressivamente cristallizzandosi a indicare, invece, una virtù civica, che spinge il singolo a mettersi a disposizione della collettività assumendosi compiti di pubblica utilità. Impiegato in questo senso negli oratori già nella prima metà del secolo per costruire il carattere di un personaggio attraverso il dispiegamento del suo impegno attivo e concreto per la collettività, è una qualità che diventa paradigmatica e incentiva i membri delle classi più agiate a una partecipazione personale a favore dei bisogni della collettività, in particolare in relazione a magistrature, liturgie e trierarchie, insomma uno strumento di negoziazione e ridefinizione dei rapporti tra la polis e i membri dell’élite. Intorno alla metà del secolo il termine inizia a comparire nei decreti onorari della città, come motivazione che riconosce le qualità del benefattore, ma anche come stimolo all’emulazione per i concit-

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tadini: la philotimia assume cioè un carattere istituzionalizzato. A partire da questo periodo si costruisce un vero sistema degli onori e delle benemerenze, che avrà un ampio sviluppo nelle poleis ellenistiche e caratterizzerà le democrazie di quel periodo, con una presenza sempre più forte di un gruppo di “notabili” cittadini, riconosciuti come benefattori grazie ad atti di liberalità, pubblici e privati (euergesíai in greco). L’evergetismo segna un esito nelle dinamiche dei rapporti sociali all’interno della polis: le élites sono coinvolte nella vita collettiva in una forma che, a fronte del loro attivismo, riconosce la gratitudine del dêmos, che si esprime in gesti e rituali di valore principalmente simbolico (la concessione della corona trierarchica, l’elogio inscritto su pietra), ma può anche accompagnarsi a benefici più concreti, come l’esenzione dalle tasse, la partecipazione ai pasti offerti dalla città, la concessione di titolo per la proprietà fondiaria ai meteci e agli stranieri. La città elabora una forma di restituzione per l’assolvimento delle cariche, istituzionali o volontarie. La reciprocità che le critiche degli aristocratici negavano era così in parte ristabilita. Certo si trattava di una forma in qualche modo burocratizzata di reci-

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procità, ma era anche il frutto dello sviluppo di una stagione di rapporti carichi di tensione tra le diverse componenti sociali della polis. Il Critobulo nel dialogo di Senofonte e molti cittadini facoltosi dell’Atene classica accettano il gioco di scambio tra prestazioni individuali e ritorno sociale: per poter aspirare a una carriera politica, in particolare, si trattava quasi di una scelta obbligata. Anche cittadini meno in vista partecipavano al meccanismo, senza particolari velleità di utilizzarne i risultati in chiave politica: nelle orazioni giudiziarie emergono personaggi altrimenti sconosciuti che hanno rivestito cariche e assunto servizi liturgici, rivendicati come meriti acquisiti verso la comunità; un modo per conquistare la simpatia e il rispetto dell’uditorio dei giudici. L’assenza o lo svolgimento mediocre di tali prestazioni erano, simmetricamente, utilizzati per gettare ombre sugli avversari. La timé acquisita partecipava in modo decisivo a costruire l’immagine pubblica dei cittadini e il loro buon nome ed era un concreto elemento di valutazione del singolo di fronte alla collettività. Una timé che ha ormai poco di eroico e molto di civico e sociale, ma la polis democratica è un’officina di comportamenti sociali e civici, più che eroici.

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La timé è componente quasi originaria delle pratiche sociali greche. Il suo ruolo specifico nel determinare il rapporto del singolo con la comunità è stato tuttavia potenziato dalla democrazia ateniese e indirizzato verso una serie di aspettative, di cui le contribuzioni pubbliche da parte dei cittadini più abbienti erano solo una delle facce. La timé rende visibile un cittadino e al contempo lo protegge: chi è condannato all’atimía, alla perdita dei diritti civili, non ha più difese che lo tutelino, non può rivalersi per un oltraggio subito, perché ha perduto la sua timé. Ad alimentare l’onore individuale ci sono codici di comportamento che, se violati, lo danneggiano, a partire dal peggiore di tutti, la hýbris, il superamento dei limiti accettabili, in forma di arroganza violenta. Ad Atene comportarsi con hýbris è un reato grave, perseguibile da un’azione pubblica che qualunque cittadino (ho boulómenos) poteva avanzare, se ne fosse venuto a conoscenza; le azioni pubbliche erano proprio quelle che intervenivano a sanzionare offese sentite come lesive non solo del singolo, ma dell’intera comunità. La ricerca di timé, la competizione per gli onori, doveva conciliarsi con l’attenzione a non violare il rispetto dei confini dell’onore altrui, per non configurarsi come hýbris.

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La costruzione della timé, comportava, come abbiamo visto, dei costi. Il sistema delle contribuzioni private si fa più pesante nel IV secolo a.C., per la principale ragione che Atene non ha più le entrate derivanti dal suo “impero” e deve valorizzare le risorse interne. La ricerca di denaro da parte dei leader politici diventa un tema ricorrente e porterà anche a vertenze giudiziarie aspre, come quella che oppone il generale Timoteo, figlio del Conone che aveva sconfitto la flotta spartana nella battaglia di Cnido del 395 a.C. e fatto ricostituire le mura delle città abbattute da Lisandro al termine della guerra del Peloponneso, ad Apollodoro, figlio a sua volta ed erede del banchiere Pasione, che richiede la restituzione dei debiti inevasi che il generale aveva ripetutamente contratto con suo padre. Timoteo non ricorreva al debito per alimentare uno stile di vita privato costoso o lussuoso: aveva spese di rappresentanza, essendo in contatto con figure di primo piano della vita politica greca, come i macedoni Aminta e Alceta o Giasone di Fere; doveva versare i contributi pubblici e assumere trierarchie; allestire eserciti; tutte le sue entrate erano “investite” in questo modo, quando arrivavano, ad esempio dai bottini delle spedizioni militari; se non arrivavano, il genera-

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le ricorreva al prestito. I banchieri hanno fatto così il loro ingresso nella vita politica, oltre che economica, della città. 3. Partecipazione e giustizia Perché tutti i cittadini potessero partecipare alla vita politica era necessario ritenere che ne avessero tutti le qualità. La “teoria democratica” difendeva questo principio asserendo che la moltitudine aveva una sua saggezza capace di individuare la soluzione più giusta nella deliberazione, perché consapevole dei propri limiti, non guidata da ingombranti ambizioni personali, perché scegliere non è proporre e consigliare, perché abituata al gioco del dibattito assemblea­re che le ha fornito l’esperienza sufficiente a svolgere il suo compito. Nei discorsi dei leader democratici, da Pericle a Cleone ad Atenagora e, nel IV secolo, Demostene ed Eschine, considerazioni di questo tipo emergono ripetutamente. La formulazione più suggestiva proviene però da un passo platonico nel quale si riporta discorso tenuto da Protagora a Socrate, presentato in forma di mito. Il racconto ripercorre la genesi del genere umano, attraverso la creazione delle razze animali, alle quali, su

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incarico di Zeus, Epimeteo distribuisce le qualità (il verbo per la distribuzione non ci stupisce: némein). Ognuna ha la sua, capace di creare un equilibrio compensativo tra predatori e prede, che possa garantire la “sostenibilità” delle varie specie del mondo animale. Arrivati agli uomini, tuttavia, Epimeteo ha ormai esaurito le qualità, non ne restano altre. Prometeo allora ruba il fuoco – e pagherà cara questa insubordinazione agli dèi – e lo dona agli uomini, che tuttavia faticano a difendersi e iniziano a raccogliersi in gruppi e a fondare città, che non decollano perché manca ancora agli uomini l’arte politica (téchne politiké), fatta soprattutto di due elementi, la giustizia e il rispetto: Zeus, temendo l’estinzione totale della nostra specie, inviò Ermes a portare agli uomini il rispetto [aidós] e la giustizia [díke], affinché costituissero l’ordine delle città e fossero vincoli di solidarietà e di amicizia. Ermes chiese a Zeus in che modo dovesse dare la giustizia e il rispetto agli uomini: «Devo distribuirli come le altre capacità [téchnai]? Queste sono distribuite in modo che un solo medico, ad esempio, basti per molti profani e lo stesso vale per gli altri mestieri. La giustizia e il rispetto devo stabilirli in questo modo tra gli uomini o devo distribuirli a tutti?». «A tutti», rispose Zeus,

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«e tutti ne partecipino [metéchein] […] e stabilisci in mio nome una legge per la quale chi non è in grado di partecipare a rispetto e giustizia sia ucciso come morbo della città».

Alla domanda sulle modalità di distribuzione delle virtù che consentono la vita collettiva, giustizia e rispetto, Zeus risponde che vanno distribuite tra tutti, letteralmente “su tutti”, epì pántas. L’atto di distribuire indicato dal verbo némein si fa qui universale. Il popolo ha per volere divino le qualità necessarie a partecipare alla vita politica e gli Ateniesi sono legittimati a costruire e custodire la loro forma di governo: Quando gli Ateniesi si riuniscono a consiglio sulla virtù politica, che deve procedere interamente secondo giustizia e saggezza, è naturale che ammettano a parlare chiunque, poiché è proprio di ognuno partecipare di questa virtù; altrimenti non esisterebbero le città.

L’ammettere a parlare chiunque era uno degli aspetti della democrazia che agli avversari proprio non andava giù e sollecitava la descrizione della democrazia come una follia (manía): una città ben governata non permette che dei pazzi parlino, partecipino all’assemblea, prendano de-

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cisioni. La follia è un tratto distintivo del dêmos che si estende a tutto il sistema; ma il mito di Protagora mostra come si fosse elaborata una teorizzazione del diritto di partecipare che poggiava sull’idea che le condizioni di fondo per poterlo fare, conoscere la giustizia e praticare il rispetto fossero riconoscibili in tutti i cittadini. Il mito di Protagora offre una prospettiva per riflettere, tra l’altro, sulle giurie popolari che gli Ateniesi utilizzavano nei loro processi e che sembreranno forse meno bizzarre a fronte del passo che abbiamo appena letto: se díke, la giustizia, è stata infusa da Zeus in tutti, è legittimo che tutti possano svolgere le funzioni di giudizio. La formulazione finale rivendica un principio potente nella sua semplicità: se non si presumesse che tutti gli uomini partecipano dell’idea di giustizia, non esisterebbero le città. Protagora ha genialmente rovesciato la logica aristocratica, che postula come condizione “naturale” la preminenza dei pochi: la democrazia nel suo mito è la sola politeía a dar seguito al volere di Zeus stesso. È una formulazione ante litteram dell’idea che tutti gli uomini nascano uguali, nelle potenzialità individuali, se non nelle condizioni materiali. Certo, gli schiavi non sono neppure menzionati nel passo e questo ne limita, ai nostri occhi, la

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carica di novità. Ma per le consuetudini della cultura politica e delle pratiche sociali greche, essa era già sufficientemente esplosiva così.

VI

Dalla demokratía alla democrazia

La democrazia è un principio e una parola. (D. Musti, Demokra­tía. Origini di un’idea)

Ho presentato fin qui alcuni brevi percorsi legati alla democrazia greca, a partire dalla parola demokratía. Tema ampio, complesso e controverso in molti suoi aspetti, dunque estremamente interessante e certamente attuale. Mi sono volutamente mantenuto all’interno dell’esperienza greca: come per tutte le parole degli antichi, anche per demokratía lo sforzo che mi sembrava prioritario era cercare di guardarla «con gli occhi dei Greci», secondo la felice formulazione di Domenico Musti. Proverò ora, in conclusione, a suggerire qualche breve spunto ulteriore in relazione al rapporto della parola demokratía con il suo derivato moderno, democrazia.

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Sul piano puramente storico, la demokratía rappresenta un’esperienza confinata al mondo antico. Con la fine di quel mondo e il passaggio al Medioevo si conclude la vitalità quasi millenaria della demokratía. Anche se in molte esperienze di età medievale si sono riconosciuti tratti democratizzanti (a partire dai Comuni), che mostrano come alcune idee e alcuni principi di governo popolare e di affermazioni di libertà non siano del tutto tramontati, il termine demokratía (o suoi derivati) non fu usato in quei contesti per indicare una qualche continuità o ripresa di forme di governo del passato né per rivendicare ascendenze con il precedente greco, sostituito semmai dal richiamo alla res publica e alla libertas romane. La parola “democrazia” ritorna nel corso del XVIII secolo, quando inizia una nuova storia sul piano politico-istituzionale, che è, al tempo stesso, un nuovo capitolo della storia della parola (e dunque di ciò che si riteneva la parola portasse con sé). L’identità dei nomi non implica che anche i contenuti storici legati a quei nomi, tra mondo antico e moderno, coincidano. Infatti in gran parte non coincidono. Non c’è da stupirsi: sarebbe piuttosto sorprendente il contrario, se organismi tanto profondamente immersi nel contesto

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che li ha generati e tanto delicati e complessi come i regimi politici potessero sopravvivere e replicarsi intatti per un così lungo periodo. La democrazia fondata da Clistene è lontana, a oggi, 2530 anni e, per di più, non c’è stata alcuna trasmissione più o meno diretta tra mondo antico e mondo moderno: tramontata in età tardo-antica, almeno nel nome e nelle forme che aveva conosciuto nella Grecia antica, la democrazia riaffiora dai testi e dai materiali storici come pura parola, richiamata peraltro, almeno inizialmente, più come esempio negativo da evitare che come possibile modello da seguire. La storia della democrazia moderna riprende da lì, da una parola ripescata da un passato lontano. Questa semplice osservazione aiuta a sbarazzarci preliminarmente di un possibile malinteso, assai diffuso nella percezione comune della democrazia: le attuali forme di governo che designiamo come tali non sono figlie, su un piano istituzionale, della democrazia greca, in primo luogo perché non lo sono sul piano storico. Alcuni elementi strutturali della demokratía, come il sorteggio delle cariche o la composizione delle giurie dei tribunali, per limitarsi agli esempi più evidenti, suonano come bizzarrie incomprensibili se non le si colloca nel contesto e nella cul-

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tura che le ha elaborate – e forse anche allora, ma questo lascio che sia il lettore a stabilirlo. Richiamare l’Atene di Pericle come matrice e sorgente di ogni democrazia, per lamentare le storture parziali o generali di governi democratici contemporanei o per fissare un eventuale obiettivo ad essa ispirato, significa costruire una falsa pista, un vicolo cieco storico e ideologico o, nella migliore delle ipotesi, una ingenua e idealistica proiezione, che guarda al futuro per ricostruire il passato (e non viceversa, come si dovrebbe). L’organizzazione politica della demokratía è semplicemente non replicabile nel mondo moderno. La continuità del nome “democrazia” impone di interrogarsi sulle ragioni di questa continuità, certo, ma suggerisce anche di mettere in luce le trappole che tale continuità ha sollecitato. Proviamo dunque a individuarne qualcuna. Quando Pericle affermava che il regime democratico ateniese non copiava gli altri ma era esso stesso modello (parádeigma) per gli altri, non immaginava probabilmente quanto profetica sarebbe stata la sua affermazione. Pericle, infatti, si rivolgeva al mondo greco a lui contemporaneo; ma il paradigma Atene ha continuato e continua a nutrire la politica dell’età a

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noi contemporanea e alimenta quella amplificazione connessa alla parola. La parola “democrazia” è utilizzata con uno spettro molto esteso di significati, non raramente contraddittori, e in differenti contesti rimanda a organizzazioni politiche estremamente dissimili tra loro. La sovrapposizione dell’idea repubblicana con quella democratica ha ulteriormente complicato la percezione di che cosa sia (o che cosa dovrebbe essere) uno Stato democratico. Al tempo stesso, tutti vogliono dirsi democratici: la nozione ha mantenuto notevole forza attrattiva, in una situazione che potrebbe ricordare la condizione delle poleis ellenistiche, con alcune situazioni forse anche più estreme e complicate. La ragione mi sembra sia nel fatto che essa si presenta in sé come premessa legittimante del potere, anche quando l’esercizio del potere potrebbe apparire assai poco democratico. E qui sta la prima delle trappole: mi pare che parte della forza legittimante non sia nel contenuto, nell’idea, ma nella tradizione della parola. Nel suo essere greca. Nel risvegliare il ricordo dell’Atene di Pericle, del Partenone, di tragedia e commedia. Nel far parte di quel che si studia a scuola. Nel riproporre un atteggiamento simile a quello con cui Winckelmann

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guardava alla libertà ateniese come la fonte delle sue glorie artistiche. Tutte cose che con la legittimazione del potere democratico non hanno nulla a che vedere, ma che producono una interferenza sul piano culturale. Parce sepulto: quel che è stato greco resta greco. Antico, molto antico. Ci riguarda, come ha così ben spiegato Maurizio Bettini, in un complesso gioco di alterità e filiazione. E i dati sopra esposti sono più legati all’alterità che si cerca forzosamente di rianimare attraverso una presunta filiazione in realtà assai incerta. Seconda trappola, in parte conseguente alla prima: la democrazia appartiene all’Occidente (qualunque cosa sia). L’uso contemporaneo del carattere civilizzatore della democrazia ha un aspetto pericoloso, se ad esso si associa una identità geograficamente (e culturalmente) prestabilita. Ci sono stati negli ultimi decenni diversi tentativi di stilare elenchi di valori e idee “occidentali”, come dati di una continuità specifica ed esclusiva, di cui la democrazia farebbe parte in compagnia di individualismo e liberalismo, diritti umani, uguaglianza e libertà, Stato di diritto e libero mercato, laicità dello Stato. David Graeber, poco prima della sua prematura scomparsa, ha commentato e contrastato queste

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pretese nel suo volume Critica della democrazia occidentale. La convinzione che esista una lunga tradizione di un Occidente libero e democratico nel quale le idee elencate siano state sempre accolte è storicamente risibile; che esse possano essere ritenute estranee al resto dell’umanità è, francamente, offensivo. Già Erodoto aveva suggerito al suo pubblico greco e ateniese che di democrazia si parlava anche nel mondo persiano, che tra le prime demokratíai note c’erano quelle introdotte in Ionia proprio dai Persiani, sia pure con scopi diversi dall’imposizione di un sistema politico ideale, pochi anni dopo le riforme di Clistene. Ma anche ammesso che si voglia riconoscere la demokratía come prodotto sostanzialmente greco, non ne deriva perciò che essa appartenga di diritto al mondo occidentale (qualunque cosa sia), per una sorta di translatio naturale. Il rischio è che la gelosia per il possesso della cosa faccia dimenticare quel che la cosa contiene. Se in Oriente ci sono monarchie, tirannidi, oligarchie, questo non provoca troppi turbamenti: in fondo i Greci hanno per primi indicato che la monarchia è il segno che distingue Oriente e Occidente. Ma la democrazia viene veicolata come tota nostra dall’Occidente (qualsiasi cosa

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sia), quasi che esso non abbia conosciuto le sue forme di monarchia, oligarchia, tirannide (talora occultate da un richiamo alla democrazia). Graeber ha però, in quel testo, indugiato su un’altra idea che mi pare non meno fuorviante e che ci porta alla terza trappola: la democrazia rappresenta una condizione originaria e quasi naturale di organizzazione della vita comunitaria. L’idea che la democrazia contenga in sé qualcosa di primigenio, di spontaneo e immediato non coincide con il lungo percorso che porta, in Grecia, alla nascita della demokratía, un prodotto storico e culturale che ha conosciuto una lunga fase di incubazione e ha richiesto una serie di condizioni sociali, economiche e culturali per venire alla luce. Fantasticare di società tribali o primitive organizzate in senso democratico è una proiezione utopica regressiva, sostanzialmente priva di alcun fondamento storico. Quarta trappola: per contrastare una santificazione della demokratía, la creazione di un mito legato all’origine greca del termine “democrazia”, si cerca di dimostrare che in fondo la demokratía non era poi così democratica. È una posizione che sembra avere molto seguito negli ultimi tempi, ma mostra diversi, vistosi proble-

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mi di metodo e di merito. Si potrebbe – e forse dovrebbe – liquidare la questione con un’unica risposta: perché mai dovrebbe esserlo? Rovesciando la questione, come già aveva acutamente notato Robert Dahl, uno dei massimi studiosi della democrazia dei nostri tempi, un Ateniese antico avrebbe probabilmente considerato assai poco democratici i moderni regimi che nel nome richiamano la forma di governo che fece grande la sua polis. Sarebbe però una risposta forse più di forma che di sostanza: inutile ignorare che la questione va oltre un problema di metodo storico per coinvolgere proprio quella più ampia complessità che le parole della politica, soprattutto le “belle parole”, portano con sé. Provo allora a elaborare qualche riflessione ulteriore. Il giudizio di “democraticità” è dato in relazione alla moderna concezione della democrazia. Parte, dunque, da un presupposto anacronistico. La demokratía definisce sé stessa in relazione alle circostanze storiche nelle quali è nata. La domanda se fosse democratica costitui­ sce fondamentalmente un cortocircuito logico. La demokratía era quel che era e già cercare di comprenderla è questione storica sufficientemente complessa. Per i Greci rappresentava

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un regime riconoscibile, che individuava una certa organizzazione della polis, a partire dalla definizione di chi dovesse farne parte Alla fine del nostro percorso, che, molto parzialmente, certo, ha cercato di indicare qualche dato storico e culturale legato alla demokratía, si può cercare di articolare però anche una risposta meno riluttante. La demokratía ha moltissimi limiti di “democraticità” nella sua prassi se confrontata con i parametri attuali. Limiti in buona parte connaturati al contesto in cui l’esperienza democratica greca si è sviluppata. Mi limito a un solo esempio. Uno degli argomenti più frequentemente addotti afferma che la democrazia ateniese era esclusiva, visto che solo una minoranza della popolazione poteva fregiarsi del titolo di cittadinanza e che da esso erano esclusi le donne, gli stranieri, gli schiavi. Si tratta di un dato storico inoppugnabile, ma anche di una condizione che apparteneva complessivamente a tutto il mondo antico, che era schiavistico, centrato sui ruoli maschili, poco incline a un’accoglienza in massa degli stranieri (con alcune eccezioni notevoli per quest’ultimo punto). Certo la democrazia non arrivò a proporre neanche solo una ipotesi di abolizione della schiavitù, se non in alcune elaborazioni

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utopiche fuori dalla storia, analizzate con finezza da Pierre Vidal-Naquet. Ma anche le moderne democrazie hanno con la nozione di inclusione una storia a dir poco tormentata. L’estensione dei diritti attivi di cittadinanza è stata una strada lunga e faticosa di lotte, rivendicazioni, resistenze, spesso molto violente: la concessione del voto alle donne, agli analfabeti, ai poveri, agli ex schiavi ha rappresentato una conquista, tutt’oggi lontana dall’essere compiuta (basti pensare alla questione dell’accoglienza degli stranieri) o spesso non del tutto applicata. È il segno di un’evoluzione della sensibilità democratica di cui non c’è che da rallegrarsi. Utilizzare gli sviluppi contemporanei della nozione di democrazia come parametro di giudizio della demokratía greca mi pare tuttavia operazione non meno artificiosa e anti-storica che vedere nell’Atene periclea la matrice di ogni futura democrazia. La demokratía aveva certo molti limiti se giudicata con gli occhi moderni. Ma osservata con gli occhi dei Greci essa rappresenta a pieno titolo una rivoluzione politica, sociale, economica, culturale. E questo è quel che conta, sul piano storico. La democrazia ha assunto oggi un aspetto tranquillizzante e apparentemente condiviso,

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ma così facendo ha reso ancora più complesso riconoscere che cosa la caratterizzi. Molte organizzazioni internazionali, dall’Unesco ad Amnesty International, hanno cercato di mettere a punto una serie di parametri per “misurare” il tasso di democraticità delle nazioni contemporanee: libertà politiche e personali, libertà di parola e di stampa, parità di genere, assenza di discriminazioni, e molti altri ancora. A quale scopo? Per smascherare i “falsari” della democrazia? Per stabilire quale sia la sua forma condivisa e autentica? Ma chi ha titolo per farlo? Se tutti vogliono dirsi democratici, a chi spetta il copyright del sistema? Esiste una certa difficoltà, forse persino confusione, nell’inquadrare la democrazia come sistema di governo o, per dire forse meglio, come una cultura di governo che si realizza attraverso determinati strumenti di carattere istituzionale e una pratica politica specifica che la distingua da altre forme di governo. Confusione ben riassunta da Robert Dahl: «Un termine che significa tutto, in definitiva non significa niente». Trovare i confini che definiscano il campo democratico è impresa davvero ardua, per una serie di motivi che proprio lo studioso americano, che ha prodotto uno dei massimi sforzi per inquadrare

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la democrazia come pensiero politico coerente, ha messo in luce: assenza di una teoria democratica esplicitamente formulata, frammentarietà del “discorso sulla democrazia”, distanza tra prassi politica ed elaborazione ideale (o ideologica) della democrazia. Per quanto riguarda i contenuti della democrazia, rimando ancora volentieri agli studi di Dahl e ad altri che il lettore, se vorrà, troverà nelle letture consigliate a fine volume. Sarà comunque opportuno cercare le definizioni per la democrazia (distinta dalla demokratía) nel mondo contemporaneo, senza chiamare ad arbitri della contesa i Greci antichi. Se alcuni principi democratici ci uniscono a loro, una voragine cronologica e storica ci separa dalla loro esperienza concreta della polis democratica. Vorrei soffermarmi, in conclusione del nostro percorso, su quel che resta della parola. Differenziare demokratía e democrazia, a partire da qualche dato storico e istituzionale, aiuta a stabilire la giusta distanza con il contesto storico in cui nasce la democrazia greca e a segnalare alcune caratteristiche che la rendono profondamente diversa da quella moderna. Permettendo, proprio grazie al rispetto della distanza, di individuare però quel che resta di attuale e vivo, di

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non sentire che alla base di questa continuità vi sia solo un gioco illusionistico, un trompe-l’œil. Non c’è dubbio che le parole della politica sono realtà complesse, nelle quali gli elementi più strettamente politico-istituzionali rappresentano solo un aspetto del loro significato e non necessariamente il più rilevante. Le parole della politica evocano un ampio spettro di componenti oltre l’aspetto razionale, sollecitando reazioni di carattere emotivo, passionale, psicologico; combinano il richiamo a procedure, prassi e istituzioni, talora burocratizzandosi, con echi di riflessioni filosofiche, di rappresentazioni letterarie, artistiche, di messe in scena simboliche, di modalità di comunicazione, di immagini e suoni: dietro ogni parola della politica c’è una completa allegoria della vita che, entro quella parola, scorre, o si immagina scorra. Sono costituite dall’incrocio di questioni di natura ideo­logica, sociale, economica, religiosa, a volte separando queste componenti, altre volte abbinandole in relazioni sempre diverse. La parola “democrazia” contiene tutti questi elementi e li contiene in forma tendenzialmente amplificata. Le passioni che suscita sono forti, che siano positive o negative, così come le aspettative che ad essa si associano.

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Che cosa resta, come filiazione, della parola demokratía? Se il contesto nel quale nasce la parola e che ha determinato in buona parte la forma che essa ha preso nel mondo greco non esiste più né è più replicabile in quelle forme, restano tuttavia alcuni principi, alcune nozioni, sia pure all’interno di pratiche e schemi mentali non del tutto coincidenti con quelli del nostro mondo. Le idee elaborate dalla democrazia continuano a suonare attuali, anche se richiedono, inevitabilmente, di essere declinate in forme diverse: libertà, uguaglianza e suo rapporto con il merito, partecipazione, giustizia, equilibrio tra bene pubblico e interesse privato restano nodi centrali della vita democratica per i quali i Greci non ci offrono risposte definitive, certo, ma sollecitano continue riflessioni e approfondimenti. Così come l’esperienza greca ci segnala l’emergere di alcuni presupposti di carattere sociale ed economico alla base della democrazia, non solo nello spazio da riconoscere alle nuove figure sociali che svolgono un ruolo decisivo nella polis, ma anche nell’imporsi di una serie di bisogni cui la democrazia ha fornito una risposta. Sia sul piano dell’elaborazione di alcuni principi-base che nell’analisi delle condizioni in cui la democrazia può svilupparsi come organiz-

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zazione politica meglio attrezzata a soddisfare esigenze e richieste all’interno di una comunità politica, quando in essa convivano condizioni sociali, interessi e istanze diversificate e di difficile conciliazione, il mondo greco ci offre ancora molto e non solo perché le fondamenta del discorso sulla democrazia traggono ancora oggi linfa vitale dall’analisi delle considerazioni che a quel regime politico dedicava Aristotele nella sua Politica. L’esperienza greca suggerisce anche una possibile lettura di alcune nozioni chiave della vita democratica come libertà, uguaglianza, partecipazione, pubblico/privato, ricchezza e povertà, di cui abbiamo parlato nei capitoli di questo volume, e ci ricorda come una forma di governo, una politeía, sia qualcosa di più che un insieme di leggi e procedure; è un modo di vita, un trópos. Nella Grecia classica questo dato era attribuito alla democrazia proprio da uno dei suoi più irriducibili avversari, l’anonimo autore della Costituzione degli Ateniesi. Come il mondo aristocratico aveva in Grecia forgiato un’immagine di sé che identificava i componenti del gruppo come legati da una comune educazione e cultura e da un proprio stile di vita, così anche la democrazia potrà essere identificata come un’esperienza che coinvolge

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moltissimi aspetti della vita dei singoli cittadini, costruendo una cultura condivisa o, per dir meglio, affiancando le forme della cultura popolare a quella aristocratica all’interno della stessa real­tà, ammettendo gli stati sociali più umili alla partecipazione di tutti i momenti pubblici della collettività, ma, al contrario di molte realtà oligarchiche, senza costringerli entro un modulo prefissato di uguaglianza e uniformità.

Fonti e percorsi

Le pagine seguenti includono alcune indicazioni bibliografiche sugli argomenti toccati nei vari capitoli. Si tratta di una scelta molto selettiva e senza alcuna pretesa di essere esaustiva ma, è l’augurio, utile al lettore per ulteriori approfondimenti. 1. Che cos’era una demokratía Sulla democrazia greca esistono molti validissimi studi, di cui si segnala qui una ristretta selezione, che potrà, forse a ragione, apparire arbitraria. Sull’idea democratica elaborata in Grecia, ancora fondamentale D. Musti, Demokratía. Origini di un’idea, Laterza, Roma-Bari 1995, al quale il mio testo deve, come forse apparirà evidente, moltissimo. Per una illustrazione sistematica del funzionamento della democrazia

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ateniese si potrà consultare M.H. Hansen, La democrazia ateniese nel IV secolo a.C., tr. it. di M. Tondelli, a cura di A. Maffi, LED, Milano 2003. Per una guida più agile sono disponibili l’ottima sintesi di A. Marcone, Democrazie antiche. Istituzioni e pensiero politico, Carocci, Roma 2006, e, con originali riflessioni sulle diverse esperienze democratiche greche, lo studio di M. Giangiulio, Democrazie greche. Atene, Sicilia, Magna Grecia, Carocci, Roma 2015. Non mancheremo di menzionare un classico sul tema, M.I. Finley, La democrazia degli antichi e dei moderni, tr. it. di G. Di Benedetto e F. de Martino, Laterza, Roma-Bari 1972 (con molte edizioni successive). Talvolta ci si è allontanati nel testo dalle posizioni finleyane, spesso in maniera implicita (ad esempio in relazione all’esistenza o meno di una teoria democratica greca, che l’autore negava, o nella considerazione di Atene come face-to-face society, che non condivido), ma non si deve esitare a riconoscere l’importanza di questo libro. Una menzione a parte meritano i lavori di Luciano Canfora dedicati alla democrazia: le sue riflessioni investono, a partire dall’Atene classica, la democrazia nel suo complesso come costruzione retorico-ideologia oltre che come fenomeno storico; tra i molti pos-

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sibili citeremo Critica alla retorica democratica, Laterza, Roma-Bari 2002; La democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza, Roma-Bari 2005; Il mondo di Atene, Laterza, Roma-Bari 2011. Anche in questo caso le mie posizioni potranno talora apparire distanti, ma senza questi lavori (e molti altri, ad esempio gli studi sulla Costituzione degli Ateniesi attribuita a Senofonte) non sarebbe stato possibile formularle. Raccolta di interventi di grande interesse in U. Bultrighini (a cura di), Democrazia e antidemocrazia nel mondo greco. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Chieti, 9-11 aprile 2003), Edizioni dell’Orso, Alessandria 2005. Sulle origini della parola “democrazia” si possono consultare R. Brock, The Emergence of Democratic Ideology, in «Historia», XL, n. 2, 1991, pp. 160-169, e D. Asheri, The Prehistory of the Word ‘Democracy’, in «Mediterraneo antico», V, n. 1, 2002, pp. 1-7. Sulle origini della democrazia, cfr. K.A. Raaflaub - J. Ober R.W. Wallace, Origins of Democracy in Ancient Greece, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 2007; molto suggestivo e originale G. Camassa, Atene e la costruzione della democrazia, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2007. Sulla teoria democratica della de-

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mocrazia e gli argomenti a favore di quel regime va visto ora il bel volume di G. Mosconi, Democrazia e buongoverno, LED, Milano 2021. Il secondo libro delle Storie tucididee si può leggere nella edizione curata da U. Fantasia con utilissimo commento (Tucidide, La guerra del Peloponneso. Libro II, ETS, Pisa 2003). Sull’epi­tafio, ancora attuale lo studio di N. Loraux, L’invention d’Athènes. Histoire de l’oraison funèbre dans la «cité classique», Mouton, Paris-La Haye-New York 1981, da leggere in parallelo con le pagine che Musti in Demokratía dedica all’epitafio, per avere un quadro delle diverse posizioni critiche sul valore storico e storiografico del discorso di Pericle. Per le democrazie ellenistiche si trova una splendida sintesi recente nei capitoli dedicati dalle poleis greche in M. Mari, L’età ellenistica, Carocci, Roma 2019. Per le democrazie in Polibio, oltre all’ormai classico saggio di D. Musti, Polibio e la democrazia, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», XXXVI, 1967, pp. 155-207, si può consultare J. Thornton, Polibio. Il politico e lo storico, Carocci, Roma 2020. Democrazie greche altre da Atene: oltre al volume di Giangiulio già menzionato, cfr. E.W. Robinson, Democracy beyond Athens. Popular Government

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in the Greek Classical Age, Cambridge University Press, Cambridge-New York 2011. Sul cittadino, cfr. C. Mossé, Il cittadino nella Grecia antica, tr. it. di S. Riccioni, a cura di R. Palmisciano, Armando, Roma 1998. Per la figura dell’oplita si è fatto riferimento al lavoro di M. Bettalli, Ascesa e decadenza dell’oplita, in «Hormos», n. 1, 2008-2009, pp. 5-12; sul tema della guerra nel mondo antico si segnala, dello stesso autore, Un mondo di ferro. La guerra nell’antichità, Laterza, Roma-Bari 2019. Per le istituzioni democratiche la migliore guida generale si trova nel volume di M.H. Hansen, La democrazia ateniese, cit.; per la boulé, P.J. Rhodes, The Athenian Boule, Clarendon Press, Oxford 1972; per l’assemblea, M.H. Hansen, The Athenian Ecclesia. A Collection of Articles, 1976-1983, Museum Tusculanum Press, Copenhagen 1983. Gli scavi sulla Pnice sono esposti da H.A. Thompson, The Pnyx in Models, in «Hesperia», suppl. 19, 1982, pp. 133-147 e 224-227. Una raccolta completa di fonti letterarie e archeologiche per i tribunali ateniesi in A.L. Boegehold (a cura di), The Law Courts at Athens. Sites, Buildings, Equipment, Procedure, and Testimonial, The Americans School of Classical Studies at Athens, Princeton 1995;

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manca purtroppo un lavoro complessivo in italiano sull’organizzazione dei dikastéria. Sulla giustizia, cfr. C. Bearzot, La giustizia nella Grecia antica, Carocci, Roma 2008. Nel capitolo sono citati Tucidide, Guerra del Peloponneso, 2, 40, 2 (dall’epitafio di Pericle, che copre i capitoli 35-46 del secondo libro); Demostene, Contro Timarco, 24 e 149-151; Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 45, 1-3 (sorteggio degli arconti), e 9, 1 (controllo del voto da parte del dêmos). 2. Demokratía: il nome, la cosa Per la storia del termine dêmos, cfr. M.-J. Werlings, Le dèmos avant la démocratie. Mots, concepts, réalités historiques, Presses Universitaires de Paris Nanterre, Nanterre 2010. Il testo del cosiddetto Vecchio Oligarca (definizione molto datata e poco felice, ma ormai tradizionalmente accolta negli studi; più corretta la designazione di Pseudo-Senofonte) si può leggere in due edizioni critiche recenti, quella italiana a cura di G. Serra (Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, Milano 2018) e quella francese, con ricchissimo saggio introduttivo e ampio e accurato apparato di note, a cura di D. Lenfant (Les Belles Lettres,

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Paris 2017), un’edizione più agile ma di grande stimolo, con intr. e tr. it. di L. Canfora, in Anonimo ateniese, La democrazia come violenza, Sellerio, Palermo 1982; per la ricezione moderna dell’opera, sempre a cura di D. Lenfant, Les aventures d’un pamphlet antidémocratique. Transmission et réception de la Constitution des Athéniens du Pseudo-­Xénophon (Ve siècle avant J.-C.-XXIe siècle), De Boccard, Paris 2020. Sulla definizione di “democrazia” nell’opera e sul suo rapporto con l’isonomía, mi permetto di rimandare al mio La democrazia diseguale. Riflessioni sull’Athe­naion Politeia dello pseudo-Senofonte, I 1-9, ETS, Pisa 2013. Su krátos, importanti informazioni linguistiche, come sempre, in É. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, ed. it. a cura di M. Liborio, vol. II, Potere, diritto, religione, Einaudi, Torino 1976, pp. 337-345. Sul lessico del potere nella tragedia, cfr. L. Marrucci, Kratos e arche. Funzioni drammatiche del potere, Hakkert, Amsterdam 2010. Sul decreto di Eucrate, cfr. G. Squillace, Decreto di Eucrate contro la tirannide, in «Axon», II, n. 2, 2018, pp. 141-152, con testo, tr. it. e commento dell’iscrizione. Nel capitolo sono citati Tucidide, Guerra del Peloponneso, 3, 82, 4 e 8; 2, 37, 1 (dall’epitafio)

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e 63, 2 (giudizio su Pericle); 6, 36 (discorso di Atenagora); Erodoto, Storie, 3, 80-83 (il dibattito sulle costituzioni, sul quale si può consultare il bel commento di D. Asheri, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, Milano 1990); 6, 43 (Mardonio instaura demokratíai in Ionia) e 131, 1 (Clistene); Eschilo, Supplici, 393-401 (krátos dei figli di Egitto e risposta di Pelasgo); 603-605 (la mano del dêmos); Omero, Iliade, 2, 198-206 (Odisseo e il dêmos); 7, 405-407; Odissea, 4, 414-416 (Menelao e Proteo); 14, 237-239 (racconto di Odisseo a Eumeo); Solone, frammenti 6 e 7 G.-P.2; Pseudo-Senofonte, Costituzione degli Ateniesi, 1, 4, 9 e 20; Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 56, 2 (proclama dell’araldo). 3. Libertà Sulla “scoperta” della libertà in Grecia, cfr. K. Raaflaub, The Discovery of Freedom in Ancient Greece, University of Chicago Press, Chicago 2004; ricco e coinvolgente C. Meier, Cultura, libertà e democrazia. Alle origini dell’Europa, l’antica Grecia, tr. it. di U. Gandini, Garzanti, Milano 2011. Sulla schiavitù un buon testo introduttivo è J. Andreau - R. Descat, Gli schiavi nel mondo greco e romano, tr. it. di R. Biundo,

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il Mulino, Bologna 2014; sul tema sono usciti inoltre ottimi studi recenti, nessuno purtroppo in italiano: solidissimo e molto rigoroso D. Lewis, Greek Slave Systems in their Eastern Mediterranean Context, c. 800-146 BC, Oxford University Press, Oxford-New York 2018; splendido P. Ismard, La cité et ses esclaves. Institution, fictions, expériences, Seuil, Paris 2019; di carattere più introduttivo S. Forsdyke, Slaves and Slavery in Ancient Greece, Cambridge University Press, Cambridge 2021. Il testo della Politica di Aristotele si può leggere ora nella bella edizione commentata diretta da L. Bertelli e M. Moggi, curata per il libro I da G. Bessa e per i libri V-VI da M.E. De Luna e C. Zizza. Sulla rappresentazione aristotelica della democrazia ateniese e dei suoi mutamenti si veda E. Poddighe, Aristotele, Atene e le metamorfosi dell’idea democratica. Da Solone a Pericle (594-451 a.C.), Carocci, Roma 2014. La traduzione del discorso di Constant è tratta da B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, tr. it. di U. Cerroni, Editori Riuniti, Roma 1992. Nel capitolo sono citati Erodoto, Storie, 7, 102, 1-2 (Demarato) e 135, 3 (Spertia e Buli); 8, 143-144 (risposta ateniese a Mardonio); Eschi-

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lo, Supplici, 242; Aristotele, Politica, 6, 2, 1317a 41-b 4 e 10-17 (libertà democratica); Demostene, Terza filippica, 9, 31; Tucidide, Guerra del Peloponneso, 2, 37, 1-2 (dall’epitafio); Lisia, Orazioni, 26, 4. 4. Uguaglianza Ancora molto valido il saggio di G.A. Gilli, Origini dell’eguaglianza. Ricerche sociologiche sull’antica Grecia, Einaudi, Torino 1997. Su Pericle, cfr. C. Mossé, Pericle. L’inventore della democrazia, tr. it. di B. Gregori, Laterza, RomaBari 2006; V. Azoulay, Pericle. La democrazia ateniese alla prova di un grand’uomo, tr. it. di C. Spinoglio, Einaudi, Torino 2017. Su Clistene è disponibile in traduzione italiana il fondamentale Clistene l’Ateniese. Sulla rappresentazione dello spazio e del tempo in Grecia dalla fine del VI secolo alla morte di Platone di P. Lévêque e P. Vidal-Naquet (Castelvecchi, Roma 2021). Sull’autoctonia, di grande fascino, N. Loraux, Nati dalla terra. Mito e politica ad Atene, tr. it. di A. Carpi, a cura di L. Faranda, Meltemi, Roma 1998; recentemente si possono consultare il bel saggio di M. Bettalli, Autoctonia: nascere “dalla” terra, in Id. (a cura di), Terrantica, Elec-

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ta, Milano 2015, pp. 84-89, e l’accurato studio di C.S. Bearzot, Autoctonia, rifiuto della mescolanza, civilizzazione: da Isocrate a Megastene, in Ead., Studi su Isocrate, LED, Milano 2020, pp. 133-154. Nel capitolo sono citati Erodoto, Storie, 5, 78, 1 (isegoría), e 5, 92, 1 (isokratía); Tucidide, Guerra del Peloponneso, 2, 37, 1 (dall’epitafio); Euripide, Supplici, 399-462 (dibattito fra Teseo e l’araldo tebano); Demostene, Terza filippica, 9, 5; Contro Leptine, 20, 105-106 e 108; Pseudo-­Senofonte, Costituzione degli Ateniesi, 1, 4; Polibio, Storie, 26, 3, 9. 5. Partecipazione Sempre di grande interesse Ch. Meier - P. Veyne, L’identità del cittadino e la democrazia in Grecia, tr. it. di M. Pelloni, il Mulino, Bologna 1999, in particolare per la definizione della cittadinanza ateniese come “militanza” formulata da Paul Veyne. Per l’idea del cittadino “azionista” della polis, cfr. C. Ampolo, La politica in Grecia, Laterza, Roma-Bari 1981. Su partecipazione e pensiero politico, cfr. S. Gastaldi, Storia del pensiero politico antico, Laterza, Roma-Bari 2015. Sulla nozione di onore nella cultura gre-

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ca, cfr. D.L. Cairns, Aidōs. The Psychology and Ethics of Honour and Shame in Ancient Greek Literature, Clarendon Press, Oxford 1993, e, dello stesso autore, Honour and Shame. Modern Controversies and Ancient Values, in «Criti­cal Quarterly», vol. 53, n. 1, 2011, pp. 23-41. La natura della hýbris e il suo legame con i temi dell’onore e della vergogna, con particolare attenzione ad Atene, è stata indagata in N.E.R. Fisher, Hybris. A Study in the Values of Honour and Shame in Ancient Greece, Aris & Phillips, Westminster 1992. Per un quadro generale sulla timé in relazione al tema dei diritti, molto brillante e ricco M. Canevaro, I diritti come spazio di socialità: la timē tra diritto e dovere, in A. Camerotto - F. Pontani (a cura di), DIKE. Ovvero della giustizia tra l’Olimpo e la terra, Mimesis, Milano-Udine 2020, pp. 157-177. Nel capitolo sono citati Pseudo-Senofonte, Costituzione degli Ateniesi, 1, 3, 13; Senofonte, Economico, 2, 1-8; Platone, Protagora, 322b-d. 6. Dalla demokratía alla democrazia Per un confronto tra la democrazia greca e quella moderna, oltre ai testi citati per il capitolo I, si rimanda a M.H. Hansen, Was Athens a

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Democracy? Popular Rule, Liberty and Equality in Ancient and Modern Political Thought, Det Kongelige Danske Videnskabernes Selskab, Copenhagen 1989, e dello stesso autore The Tradition of Ancient Greek Democracy and its Importance for Modern Democracy, Det Kongelige Danske Videnskabernes Selskab, Copenhagen 2005; come sempre di grande finezza P. Vidal-Naquet, Les Grecs, les historiens, la démocratie. Le grand écart, La Découverte, Paris 2000. Si è fatto riferimento inoltre a R.A. Dahl, La democrazia e i suoi critici, Editori Riuniti, Roma 1993, e a D. Graeber, Critica della democrazia occidentale, tr. it. di A. Prunetti, Elèuthera, Milano 2019. Per l’individuazione di radici “globali” della democrazia cfr. A. Sen, La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un’invenzione dell’Occidente, tr. it. di A. Piccato, Mondadori, Milano 2004. Nella massa di studi sulla democrazia moderna, ricordiamo J.S. Fishkin, Democracy and De­liberation. New Directions for Democratic Reform, Yale University Press, New Haven-London 1991, e dello stesso autore, più recentemente, Democracy When the People Are Thinking: Revitalizing Our Politics Through Public Delibe­ ration, Oxford University Press, Oxford 2018;

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G. Zagrebelsky, Imparare la democrazia, Einaudi, Torino 2007; sul tema della democrazia partecipativa: U. Allegretti (a cura di), Democrazia partecipativa. Esperienze e prospettive in Italia e in Europa, Firenze University Press, Firenze 2010; per una riproposizione del sorteggio nelle moderne democrazie Y. Sintomer, Petite histoire de l’expérimentation démocratique. Tirage au sort et politique d’Athènes à nos jours, La Découverte, Paris 2011; Y. Sintomer - L. Lopez Rabatel (a cura di), Sortition and Democracy. History, Tools, Theories, Imprint Academic, Exeter 2019; sulla “retorica del merito” in democrazia, M.J. Sandel, La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti, tr. it. di C. Del Bò e E. Marchiafava, Feltrinelli, Milano 2021; sulla crisi della democrazia: T. Serra, La disobbedienza civile. Una risposta alla crisi della democrazia?, Giappichelli, Torino 2002; A. Mastropaolo, La democrazia è una causa persa? Paradossi di un’invenzione imperfetta, Bollati Boringhieri, Torino 2011; A. Schiavone, Non ti delego. Perché abbiamo smesso di credere nella loro politica, Rizzoli, Milano 2013. Il riferimento alla dialettica fra alterità e filiazione rispetto ai classici deriva da M. Bettini, A che servono i Greci e i Romani? L’Italia

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e la cultura umanistica, Einaudi, Torino 2017. L’espressione «vedere i Greci con gli occhi dei Greci» si trova in D. Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 3.

Indice

I. Che cos’era una demokratía 1.  Qualche considerazione preliminare 2.  Il cittadino e la polis democratica 3.  L’organizzazione della polis democratica 3.1.  Il consiglio e l’assemblea 3.2.  Continuità e innovazione: il consiglio, l’assemblea e il caso dell’arcontato 3.3.  Le magistrature 3.4.  I tribunali II. Demokratía: il nome, la cosa 1.  Parole reversibili 2.  Demokratía: cosa c’è in un nome 2.1.  Dêmos 2.2.  Krátos

p. 9 p. 13 p. 20 p. 20

p. 28 p. 32 p. 35 p. 45 p. 61 p. 66 p. 86

III. Libertà 1.  Libertà degli antichi e dei moderni 2.  L’idea di libertà in Grecia 3.  La libertà democratica: libertà politica e “vivere come si vuole” IV. Uguaglianza 1.  Quale uguaglianza? 2.  Due tipi di uguaglianza 3.  Uguaglianza politica e differenziazioni sociali 4.  Quelli di mezzo 5.  Autoctonia e sinecismo V. Partecipazione 1.  La mobilitazione permanente del dêmos 2.  La ricerca di onori e la partecipazione politica 3.  Partecipazione e giustizia

p. 97 p. 100 p. 108 p. 121 p. 136 p. 139 p. 144 p. 147

p. 157 p. 164 p. 175

VI. Dalla demokratía alla democrazia

p. 181

Fonti e percorsi

p. 199

Le parole degli antichi Collana diretta da Mario Lentano

1. Mario Lentano, Straniero. 2. Tommaso Braccini, Folklore. 3. Stefano Ferrucci, Democrazia.

Stefano Ferrucci insegna Storia greca all’Università di Siena ed è membro del Centro Antropologia e mondo antico. I suoi interessi si rivolgono alla storia sociale, economica e giuridica di Atene classica ed ellenistica, con particolare attenzione alla democrazia ateniese, al ruolo dell’oikos e al tema dell’emarginazione nella polis. Ha inoltre studiato l'oratoria attica, la storiografia greca nel suo rapporto con la retorica e, in tempi più recenti, le rappresentazioni dell’altro in Plutarco. Tra i suoi lavori recenti: La democrazia diseguale (ETS, Pisa 2013) e l’edizione della Vita di Artaserse di Plutarco (BUR, Milano 2020).

Le parole degli antichi | 3 Collana diretta da Mario Lentano

La democrazia greca in parte ci appartiene, in parte ci è estranea. È questa la ragione della sua attualità ma anche delle trappole alle quali siamo esposti nel parlare di quell’esperienza. Libertà, uguaglianza, partecipazione erano, nella democrazia greca, nozioni centrali, ma immerse in un paesaggio culturale e in dinamiche sociali proprie. Garantendo agli strati popolari e ai poveri pieno accesso alla cittadinanza, la demokratia stabiliva principi nuovi e meccanismi istituzionali originali per rispondere a nuovi bisogni, anzitutto di natura sociale, nella complessa realtà dell’Atene classica, rilanciando la questione (questa senz’altro ancora attualissima): chi ha diritto a far parte di una comunità politica?

ISBN ebook 9788855292795

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