La vita addosso. Io, il cinema e tutto il resto. Un’autobiografia 8851196605, 9788851196608

Gabriele Muccino è piombato sul cinema italiano come un fulmine: "L’ultimo bacio" è il grande film generaziona

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La vita addosso. Io, il cinema e tutto il resto. Un’autobiografia
 8851196605, 9788851196608

Table of contents :
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Indice
Gli autori
1. Si credevano tutti Visconti. Gli inizi
2. Un film che non viene visto è un film che non è esistito. Ecco fatto (1998)
3. Mi sentivo più vicino ai ragazzi che all’età adulta. Come te nessuno mai (1999)
4. Allora smettono di dirti che è impossibile. L’ultimo bacio (2001)
5. Pianse, mi salutò e poi non lo vidi mai più. Ricordati di me (2003)
6. Tu non hai la minima idea di cosa ti sta per succedere. La ricerca della felicità (2006)
7. Avevo quarant’anni e mi chiamavano “maestro”. Sette anime (2008)
8. Per me era un passo indietro .Baciami ancora (2010)
9. Stavo per dargli un cazzotto e lui a me lo stesso. Quello che so sull’amore (2012)
10. Quando sei sul set e arriva Russell Crowe ti devi spostare. Padri e figlie (2015)
11. Avevo bisogno di un film semplice. L’estate addosso (2016)
12. Alla fine quella famiglia si è sovrapposta alla mia. A casa tutti bene (2018)
13. Gabrie’, io non so’ mai stato così male in vita mia! Gli anni più belli (2020)
14. Come fabbricare macchine di lusso alla velocità con cui si costruiscono utilitarie. A casa tutti bene − La serie (2021)
15. Mi mandavano questi copioni da vagliare, continuamente. I film mai realizzati
Postfazione. The sound and the fury: ascoltando Gabriele Muccino. Mario Sesti
Ringraziamenti

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Tutti i diritti riservati © 2021, DeA Planeta Libri S.r.l. Redazione: Via Inverigo, 2 − 20151 Milano Prima edizione e-book: ottobre 2021 ISBN 978-88-511-9754-4 Alcuni passaggi di questo libro sono stati pubblicati, sotto forma di intervista, sul sito di informazione cinematografica BadTaste.it. www.utetlibri.it www.deaplanetalibri.it ebook.deaplanetalibri.it @Utetlibri @UtetLibri @UtetLibri Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa in alcuna forma o con alcun mezzo elettronico, meccanico, in fotocopia, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dell’Editore. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org

Gabriele Muccino Gabriele Niola

LA VITA ADDOSSO Io, il cinema e tutto il resto Postfazione di Mario Sesti

Indice

Gli autori 1. Si credevano tutti Visconti. Gli inizi 2. Un film che non viene visto è un film che non è esistito. Ecco fatto (1998) 3. Mi sentivo più vicino ai ragazzi che all’età adulta. Come te nessuno mai (1999) 4. Allora smettono di dirti che è impossibile. L’ultimo bacio (2001) 5. Pianse, mi salutò e poi non lo vidi mai più. Ricordati di me (2003) 6. Tu non hai la minima idea di cosa ti sta per succedere. La ricerca della felicità (2006) 7. Avevo quarant’anni e mi chiamavano “maestro”. Sette anime (2008) 8. Per me era un passo indietro. Baciami ancora (2010) 9. Stavo per dargli un cazzotto e lui a me lo stesso. Quello che so sull’amore (2012) 10. Quando sei sul set e arriva Russell Crowe ti devi spostare. Padri e figlie (2015) 11. Avevo bisogno di un film semplice. L’estate addosso (2016) 12. Alla fine quella famiglia si è sovrapposta alla mia. A casa tutti bene (2018) 13. Gabrie’, io non so’ mai stato così male in vita mia! Gli anni più belli (2020) 14. Come fabbricare macchine di lusso alla velocità con cui si costruiscono utilitarie. A casa tutti bene − La serie (2021)

15. Mi mandavano questi copioni da vagliare, continuamente. I film mai realizzati Postfazione. The sound and the fury: ascoltando Gabriele Muccino. Mario Sesti Ringraziamenti

Gli autori

Gabriele Muccino nato a Roma, debutta al cinema nel 1998 con Ecco fatto, seguito nel 1999 da Come te nessuno mai. L’ultimo bacio, campione di incassi e premio David di Donatello 2001 al miglior regista, è stato un trampolino di lancio internazionale: vince il premio del pubblico al Sundance Film Festival nel 2002 e viene annoverato da “Entertainment Weekly” tra le 10 pellicole dell’anno. Dopo Ricordati di me, Nastro d’Argento 2003 per la sceneggiatura, sbarca a Hollywood dirigendo nel 2006 La ricerca della felicità, che ha valso la nomination all’Oscar a Will Smith e incassato 300 milioni di dollari nel mondo. Sempre con Will Smith in seguito ha realizzato Sette anime. Durante il periodo americano ha diretto inoltre Quello che so sull’amore con Gerard Butler e Padri e figlie con Russell Crowe. Nel 2016 torna in Italia con L’estate addosso, cui seguono A casa tutti bene (2018) e Gli anni più belli (2020). Da A casa tutti bene ha tratto la sua prima serie tv, interamente diretta da lui e in uscita per Sky. Gabriele Niola è giornalista e critico cinematografico freelance. Ha collaborato per le maggiori testate di cinema online e al momento è critico di “BadTaste”, “Wired” ed “Esquire”, è corrispondente dall’Italia per “Screen International” e redattore di “I 400 Calci”. Ha selezionato film per la Festa del Cinema di Roma e per il Taormina Film Fest.

È docente di Giornalismo in rete presso il master di critica dell’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico.

1 Si credevano tutti Visconti Gli inizi

Se questo libro fosse un film di Gabriele Muccino, probabilmente inizierebbe con una panoramica di una strada statale, poco fuori da Roma, e un autobus blu Cotral, di quelli che collegano i centri abitati con i paesi nei dintorni. A bordo un bambino di undici anni, Gabriele, che guarda fuori dal finestrino mentre si allontana dalla città. Sempre se questo libro fosse un film di Gabriele Muccino, avrebbe almeno all’inizio una voce fuori campo che spiega come d’inverno, due volte a settimana, Gabriele Muccino prendesse la corriera per andare a Monterosi a curare i suoi piccioni. Sessanta piccioni. La passione per i piccioni l’aveva scoperta d’estate, nella casa dove passava le vacanze con la famiglia. Aveva iniziato a curarli, affascinato dal fatto che fossero una delle specie più fedeli e premurose in natura, una in cui il maschio e la femmina si alternano alla cova. All’età in cui molti ragazzi hanno un animale domestico, Gabriele Muccino aveva sessanta piccioni fuori città. Perché in città già tenerne due è complicato.

Raggiunta la casa a Monterosi, li passava in rassegna, puliva la colombaia e passava molte ore a osservare le abitudini e i movimenti della sua comunità di piccioni, in silenzio. Te lo dico subito, io non lo so perché i miei mi permettessero di farlo. Oggi un figlio di dieci anni, ma pure uno di tredici, non lo farei mai andare la mattina fuori Roma da solo con un sacchetto di granaglie per poi tornare la sera, sempre da solo con la corriera. Tutto in un mondo senza cellulari poi! Non avevi paura? No. La solitudine o l’avventura non mi facevano paura. Ero completamente da solo in una casa di campagna di cui avevo le chiavi. Entravo, andavo dai piccioni, stavo con loro, e tornavo, era un rapporto contemplativo e abbastanza maniacale. Un po’ come in Birdy, il film di Alan Parker, avevo un po’ quell’ossessione. Certo, io poi non sono finito in un manicomio, però anche io volevo volare, ci pensavo spessissimo. Quanto tempo è andata avanti questa storia? Qualche anno. Fino alla scoperta delle ragazze. Renditi conto che in quarta ginnasio quando in classe mi capitò di leggere su una parete la parola Beatles (letto da me all’italiana) chiesi che cosa fosse. Non sapevo niente del mondo, avevo vissuto nella contemplazione della natura e ho dovuto faticare per entrare nella società degli uomini e delle donne. Questo salto improvviso però è stato fondamentale per quello che poi ho finito per raccontare nei miei film. Negli anni dei piccioni il cinema già era nella tua vita? Sì, da quando ho ricordi il cinema c’è sempre stato. Abitavo di fronte al cineclub Il Labirinto, vedevo tutti i tipi di film, tantissime retrospettive, ma era come un cassetto a parte, un’altra occupazione fatta di solitudine. Come dai piccioni anche al cinema ci andavo sempre da solo e ci stavo

benissimo. All’epoca non pensavo di nutrirmi così tanto ma in realtà è evidente che mi stavo nutrendo di cose che poi sono diventate la mia vita. Gli spettatori erano sempre pochissimi. A volte ero l’unico in sala. E ci stavo così bene. C’era poco di che interagire a fine film… Non l’avrei fatto comunque, da piccolo ero il tipo contemplativo, un animo libero dotato di pochissimi elementi di conversazione in comune con gli altri. Non me ne fregava niente del calcio e poco della musica pop. Mi piaceva la classica. Quando sono stato costretto a crescere sono iniziati i problemi. Non dovevo solo osservare ma anche comunicare chi fossi, una difficoltà incredibile per me da cui è nata la mia balbuzie. Da un giorno all’altro. Un problema non da poco se il tuo nome inizia con una lettera gutturale. Adesso però non balbetti così tanto, come l’hai combattuta? Diventando un regista. Più padroneggiavo questa forma espressiva più mi sentivo sicuro di me e meno balbettavo. Prima di Ecco fatto balbettavo tantissimo. Poi, dopo Come te nessuno mai, molto meno. Con L’ultimo bacio pochissimo e via dicendo. Cresceva la fiducia in me e diminuiva quel difetto. La dimostrazione è che in inglese non balbetto, perché non è la lingua della mia adolescenza. Balbettare da adolescente è stata una delle condizioni di maggiore sofferenza che ho vissuto. Conosco altre persone nel cinema italiano che balbettano e lottano per non farlo, soprattutto attori che poi, quando recitano, invece non hanno problemi. Perché non ci sei più tu a confrontarti col mondo, ma il personaggio che interpreti. Un balbuziente, se canta, smette di balbettare. Anche io a volte, se non riesco a dire una cosa, e ogni tanto ancora capita, la canto direttamente! Ed è fatta. La gente scoppia a ridere e io ci gioco pure, ma intanto ho detto quello che volevo. Un attore che conosco mi ha raccontato che mentre parla muove le dita dei piedi nella scarpa. Batte un

tempo immaginario e questo battere un tempo come se cantasse lo aiuta a non balbettare. Tra l’altro paradossalmente, come molti altri registi, tu la prima esperienza su un set l’hai fatta come attore, vero? Sì, però io ero un cane eh. Ma cane cane! È proibito ballare, una sitcom di Pupi Avati per la Rai del 1989. Impossibile trovare tracce della tua interpretazione, nemmeno su YouTube. Meno male. L’unica cosa buona di quell’esperienza è che lì, su quel set, conobbi delle persone con cui iniziai a girare delle microstorie, le filmavo con una telecamerina vhs e siccome facevo l’attore, curavo molto la recitazione. Ero un totale illetterato di grammatica cinematografica, non sapevo davvero niente. Facevo tutto a istinto. Un giorno tornai a casa dopo aver girato un campo e controcampo, due persone che parlano in metropolitana, e mio padre mi disse che avevo scavalcato il campo. Non sapevo nemmeno cosa volesse dire. Lui era un dirigente Rai, faceva parte del reparto tecnico e le basi di messa in scena le aveva perché tra i suoi compiti c’erano cose come sistemare le telecamere intorno ai campi di calcio per le riprese. Mi spiegò che quando giri esiste un “asse” tirato tra due persone che si parlano, in buona sostanza se inquadri prima una e poi l’altra come si fa di solito, perché lo spettatore capisca che stanno parlando l’uno con l’altro, una deve sempre guardare verso sinistra e l’altra che gli risponde sempre verso destra, altrimenti, appunto, scavalchi l’asse, e una volta che le vai a montare hai l’impressione che non si guardino. Avevo vent’anni, ero uscito da poco dal liceo. Da qualche parte ho una foto di quel periodo in cui c’è tutto, io con quella videocamerina e davanti a me mio fratello piccolissimo… che però ha già la faccia da «Vi faccio il culo a tutti!». La tua formazione è stata classica, hai frequentato il Centro sperimentale di cinematografia, la scuola nazionale di cinema.

Prima ho fatto un po’ di università, Lettere con indirizzo Spettacolo, lì studiai il cinema. L’esame di Storia del cinema credo sia l’unico che ho passato (e alla grande!). Alla seconda volta che tentavo Storia del teatro e mi dissero di “tornare”, nonostante fossi preparato, me ne andai, li mandai proprio a fanculo. «Io tanto farò il cinema», mi dissi. La cosa incredibile è che sei riuscito a entrare al Centro sperimentale! Le selezioni non sono facili da superare… Sì, considera che io avevo girato parecchio per l’età che avevo, facevo questi filmini molto autarchici però imparavo facendo. A ogni modo anche al Centro sono durato poco, un anno, dopodiché me ne andai perché avevo la sensazione di non imparare abbastanza. Lì si credevano tutti Visconti, c’era una saccenza pazzesca. Ci sono tuoi compagni del corso di regia di quell’anno che poi hanno avuto una carriera? No. Si sono perse le tracce di tutti tranne che di Gianni Zanasi. Lì avrai imparato i rudimenti del mestiere però. Insomma. Al Centro non vedevo quello che consideravo essere il cinema. A inizio anni novanta il cinema italiano era terribile, vedevo continuamente esordi sconfortanti e quasi sempre li vedevo alla Mostra del Cinema di Venezia. Per me il cinema era altrove. Insomma stava ovunque tranne che nel concorso di Venezia. Pensavi di essere più bravo della media? Pensavo di essere più pragmatico della media. Ero terrorizzato all’idea di essere come quelli che mi circondavano: mediocre ma presuntuoso. Il problema però è che il mediocre e il genio pensano entrambi di essere geni, hanno gli stessi sogni. Come puoi allora capire cosa sei tu? Io per esempio non ho mai conosciuto Gassman, Mastroianni e Fellini, ho solo sfiorato Monicelli, Scola e Suso Cecchi D’Amico. E nonostante non

volessi essere come gli altri, tutto intorno a me invece sembrava indirizzarmi verso quel percorso e quella visione di cinema deprimente. Ne eri demoralizzato o spronato? Spronato. Dovevo combattere un mio forte senso di inferiorità. Tutti mi dicevano: «Non farai mai il regista! Scordatelo…!» e io volevo gridargli il mio vaffanculo diventandolo. Avevo una necessità fortissima di dimostrare al mondo e a me stesso che ce l’avrei fatta. Facendo cinema avrei dovuto dimostrare prima di tutti a me stesso, di esistere. E mica era una cosa da poco! È una costante di tutto il periodo della mia formazione, riuscire a esistere e a modo mio. Un po’ il personaggio di Kim Rossi Stuart in Gli anni più belli, solo che invece di voler fare il professore per tramandare conoscenza, volevo raccontare chi fossi. E tramite il cinema avrei finalmente potuto farlo, i miei attori non avrebbero balbettato le battute che avrei scritto, volevo essere comprensibile e finalmente compreso! Ovviamente non ce l’avevo così chiaro in testa, lo realizzo ora. Dei molti cortometraggi girati in quel periodo uno ho capito essere stato quello fondamentale, Nina, ma non sono riuscito a trovarlo. Non esiste da nessuna parte credo. Non lo hai nemmeno tu? No. Era una storia in cui avevo coinvolto come attori mio fratello, che allora aveva sei anni, e mia nonna. Funzionava. Piacque tantissimo a Giovanni Minoli. Ecco Minoli è stata la tua svolta ma quel corto come è arrivato a lui? Tramite tuo padre che lavorava in Rai? No, ma non sei andato troppo lontano. Ci arrivò tramite mio cugino Stefano Zarlenga, lui lavorava a Mixer, forniva le attrezzature per le riprese negli appalti, e glielo fece vedere. Minoli impazzì e me ne commissionò altri tre. Aveva capito

subito in cosa ero bravo e me ne chiese uno sull’innamoramento, uno sulla gelosia e uno sulla separazione. Praticamente la sintesi di tutta la tua carriera futura… Sì, è come se avesse decretato che io sarei stato questo. A ogni modo gli piacquero anche quei tre e così mi presero per una nuova trasmissione in cui serviva proprio qualcuno bravo a girare storie brevi. Si chiamava Ultimo minuto, conteneva ricostruzioni di vere storie di persone che si erano salvate miracolosamente. Di fatto continuavo a fare corti solo con una troupe Rai. Una troupe molto molto “Rai”. Praticamente non c’era nessuno di più esperto o voglioso di me. Spesso a recitare erano i veri protagonisti di quelle storie, quindi dei non-attori, si usavano attori veri solo quando i protagonisti originali non riuscivano a rimettere in scena il trauma. Ma l’incubo lì erano i montatori. Io giravo con tutte queste difficoltà e poi quando il girato veniva passato ai montatori, questi erano capaci di levare ogni grazia a quello che facevo, tagliando modificavano ogni cosa che io credevo avesse un po’ di tensione. È lì che ho cominciato a lavorare con i piani sequenza, cioè a modulare una sequenza attraverso una sola ripresa, tutto d’un fiato, senza nessun tipo di montaggio. È una tecnica che fa coincidere il tempo del racconto con il tempo reale, con il montaggio magari puoi staccare avanti di un minuto o di un’ora nel tempo, con il piano sequenza gli eventi e i dialoghi si svolgono nel tempo in cui si svolgerebbero nella vita vera. Era un modo di impedire ai montatori di fare troppi danni. Potevano solo attaccare insieme lunghe parti senza stacchi. E poi mi dedicavo tantissimo agli attori, era la mia ossessione. Far recitare persone prese dalla vita reale. Dalla strada. Quanti corti hai girato per Ultimo minuto? Un numero enorme. Circa cinquanta in tre anni. Lì ho imparato davvero tanto. Alla fine riuscivo a concepire una storia o una sequenza tutta nella mia testa, anche perché

raccontando sempre di incidenti c’era molta azione, quindi magari di una stessa scena una parte era con attori, una con gli stuntmen e una con i manichini. Per tenere tutto insieme devi aver chiarissimo in testa cosa farai prima e dopo. È così che ho imparato a raccontare storie brevi, reali, suddividendole in tre atti, che poi è la scansione drammaturgica di tutta la narrazione classica. Su YouTube c’è uno dei tuoi corti di Ultimo minuto, quello del ragazzo che cade nella tromba dell’ascensore. È incredibile perché ha lo stile asettico della Rai ma anche già la tua messa in scena barocca con movimenti di macchina, suspense e le persone che entrano ed escono dalle inquadrature… Sì ma sono brutti, eh. Erano troupe abituate a fare reportage. La steadicam aveva solo un grandangolare perché non c’era la figura di chi faceva i fuochi. I teleobiettivi erano praticamente inutilizzabili. Di fatto era l’estetica televisiva. All’epoca era uscito Terminator 2 e io ero già grande fan di James Cameron. Studiai moltissimo il suo modo plastico di usare la steadicam come vero e proprio linguaggio. Cercavo di far sì che le scene fossero proprio guidate dall’uso della steadicam, in modo che diventasse il punto di vista dello spettatore. Soluzioni complicate da immaginare e pianificare. Per esempio, in quello dell’ascensore il protagonista era entrato al settimo piano senza accorgersi che non c’era l’ascensore e cadendo nella tromba si era aggrappato con le mani alle funi, scarnificandosele tutte ma almeno attutendo la caduta. Cioè era sopravvissuto? Be’ sai com’è… Se morivi la tua storia non ci arrivava al programma. Era tutto ricostruito nei veri luoghi dove era accaduto il fatto. Immagina i problemi: location spesso tristissime e per nulla cinematografiche, dove tutto era complicato e senza una struttura che ti supporti. Eravamo quattro gatti, tutti molto giovani. Bisognava tirare fuori l’oro dal fango.

Queste difficoltà ti abbattevano? Macché! Mi davano mi pare sei milioni di lire a puntata ed era una puntata a settimana. Chi l’aveva mai visti tutti quei soldi! Lavoravo per la Rai senza avere intenzione di farmi assumere, lavoravo con un service esterno, che per me fu davvero un’occasione eccezionale per crescere. In più in questa troupe mi ero trovato un operatore steadicam che era uno dei pochi che aveva voglia di impegnarsi e lavorare bene, era diventato il mio braccio armato. Pensa che non mi ricordo il nome, ma fu con lui che feci lo scatto in avanti, che cominciai a capire come rendere quello stile nervoso che cercavo inconsciamente. Cosa ti ha influenzato della tua epoca a parte James Cameron? Io sono uscito da un’epoca in cui tutto quello che non era politicamente impegnato era vissuto come un prodotto di serie B, ci si vergognava di ascoltare Baglioni. Agli inizi andai anche io al cinema Greenwich, che era quello di Roma con la programmazione più ricercata, per parlare di cinema come se si trattasse di letteratura. Ci ho messo un po’ a capire che non mi interessava troppo. Roba come Peter Greenaway non la sentivo mia, non la sentivo di pancia. Tutto quello che era troppo di testa mi dava fastidio e ancora oggi è così.

2 Un film che non viene visto è un film che non è esistito Ecco fatto (1998)

Gli esordi italiani sono una lunga sequenza di film sconfortanti, miseri per tecnica ma soprattutto per ambizioni. Quasi sempre temono la sola idea di osare qualcosa di nuovo e molto spesso sono proprio determinati a dimostrarsi uguali agli altri. Quando nel 1998 piomba in questo panorama il primo lungometraggio di Gabriele Muccino, Ecco fatto, è a tutti gli effetti un alieno. Non somiglia ai film degli studenti del Centro sperimentale e non somiglia al cinema italiano degli anni novanta, vittima dei suoi padri e incapace di unire un po’ di commerciale con un po’ di autoriale. Insomma non somiglia, in generale, al cinema italiano. Selezionato al festival di Torino (gestito dal suo fondatore, Alberto Barbera, che solo un anno dopo sarebbe diventato direttore della Mostra del cinema di Venezia), Ecco fatto fu distribuito male, incassò poco, fu visto ancora meno e a tutt’oggi è sostanzialmente sconosciuto. Eppure faceva lì il suo esordio Claudio Santamaria, senza nessuna esperienza ma già dotato di una presenza potentissima, e anche i due protagonisti Giorgio Pasotti e Barbora Bobulova erano alle

loro primissime esperienze. Con il senno di poi era la prima dimostrazione di una costante del cinema di Muccino: la scoperta e valorizzazione di talenti che nessuno aveva riconosciuto. La storia è quella di due amici del liceo, Matteo e Piterone, delle vicissitudini sentimentali del primo con una ragazza slovacca incontrata da poco, della sua gelosia potentissima e dei tentativi, assieme all’amico, di truccare i voti per non essere bocciati. Tutto raccontato anni dopo, davanti a una piccola platea in una lavanderia. Ecco fatto parla con i colori e con gli eccessi: è un cinema espressionista poco scritto e molto filmato in cui tutto avviene con furia e correndo, in cui i ritmi dei dialoghi sono scanditi dagli effetti sonori. Invece di giocare sul sicuro sembra che Gabriele Muccino faccia sperimentazione. Anche se in realtà non c’era da sperimentare: come i maestri del cinema americano anni settanta Muccino arrivava al cinema dopo tantissime ore di televisione, corti, soap e documentari, era un esordiente sulla carta ma un veterano nella pratica. Aveva girato molto più all’epoca, prima del suo primo film, di quanto molti registi affermati di oggi non abbiano fatto in tutta la loro carriera. Nel 1998 era difficile proporre qualcosa di diverso dal solito e trovare qualcuno per produrlo? Ieri come oggi nessuno si legge un copione di cento pagine di uno sconosciuto. Allora per farmelo produrre avevo girato un corto, intitolato Io e Giulia con protagonista Gabriele Corsi (che poi ha fondato il Trio Medusa) e Stefania Rocca: era Ecco fatto in sette minuti. Serviva a far vedere come volevo girarlo e di cosa avrei voluto parlare. Lo feci perché è più facile far guardare un corto di sette minuti che sottoporre un copione di cento pagine. Cioè se mi arriva uno simpatico con un dvd di un corto di sette minuti ha molte possibilità che io lo veda, ci

vuole poco a capire se ha senso andare avanti o posso anche smettere. Praticamente ti sei presentato non con la scrittura ma facendo parlare il tuo stile registico. A chi lo portasti? A Domenico Procacci, che mise subito in cantiere il film. Io con quella storia elaboravo la gelosia ossessiva che avevo verso la mia compagna, volevo da subito mettermi in gioco con le mie debolezze. Di certo rispetto alla media era un film molto tecnico. In realtà io all’inizio non mi curavo troppo delle parti tecniche. Poi Ecco Fatto non era nemmeno girato in 35mm ma in Super 16mm, a costi bassissimi. Era stato prodotto come tv movie e quindi non era nei piani uscire nelle sale. Poi però fu preso al festival di Torino e fu accolto bene, del resto era un film e non un tv movie. Grazie a questo riuscimmo a trovare una distribuzione e portarlo in sala. Il fatto che abbia un look molto migliore della media degli esordi dell’epoca era anche dovuto ad Arnaldo Catinari, il direttore della fotografia che poi fece con me anche Come te nessuno mai prima di darmi forfait poco prima delle riprese dell’Ultimo bacio preferendo un film di Aldo Giovanni e Giacomo. Gli avevo detto che il mio punto di riferimento era Robert Richardson, il direttore della fotografia dei film di Oliver Stone, con quelle luci sparate dal soffitto che sbiancano, rimbalzano sulle superfici e bruciano il fotogramma. Questa cosa di Oliver Stone torna spesso nei tuoi racconti, è l’unico regista di cui parli davvero come il tuo maestro mi pare. Mi riconosco molto nell’horror vacui di Stone, riconosco il desiderio di riempire il fotogramma di tanta roba. Se ti vedi Nato il quattro luglio capisci proprio tutto il mio cinema. C’è la corsa di Tom Cruise sotto la pioggia, così impulsiva e impetuosa, che è un momento che cerco spesso di ricreare. Per

me quello ero io, era la mia corsa e il mio impeto nell’andare a bussare alle porte e confermare a me stesso che ero in grado di girare un lungometraggio diverso da quelli che vedevo intorno a me e odiavo. Oliver Stone non è uno di quei registi che nei film fa scomparire la macchina da presa ma uno che te la sbatte addosso, ha la mano pesante e ti fa proprio venire voglia di girare anche tu un film, perché dentro i suoi c’è anche lui e si vede. È quello stile che poi in Assassini nati è stato esasperato, facendo finire qualsiasi cosa dentro al film. Vedere quel film fu un colpo per me, realizzai quanto il cinema potesse essere estremo, assordante e barocco. Qualcosa di simile l’avevo visto solo in Io e Annie, perché Woody Allen lì mescolava un po’ di generi, infilandoci anche l’animazione, ma quella era un’altra cosa. Assassini nati sembra un film fatto sotto acido e la cosa, tradotta in immagini, era adrenalina pura per me. Ecco fatto nasceva da quella voglia di fare un cinema che fosse da combattimento, anche se non ero ancora pronto a farlo, non ero strutturato. Perché non eri pronto? Perché avevo una voglia un po’ superficiale di cinema estetico. Penso di aver capito davvero l’errore all’uscita, quando vidi le sale vuote e realizzai che il cinema non è quello che fai ma quello che viene visto e un film che non viene visto è un film che non è esistito. Sempre di più l’impressione è che il cinema italiano di oggi ragioni così, cioè che sia molto più attento a intercettare il gusto del pubblico. Film come Lo chiamavano Jeeg Robot, Veloce come il vento… Secondo me in quel film Stefano Accorsi è bravissimo, specialmente per come recupera il suo bolognese. Mi è piaciuto molto e anche per questo ho voluto telefonare al regista, Matteo Rovere, che a sedici anni era amico di mio fratello e avevo visto letteralmente crescere. Volevo fargli i

complimenti per l’impianto produttivo, per la grande portata all’americana. I tuoi di adesso quanto costano? I miei più grossi costano dai sei agli otto milioni. Nonostante non si veda, ho faticato per restare nel budget di otto milioni di Gli anni più belli. I costumi, il ringiovanimento digitale… Tutta roba che allunga la lavorazione, anche sul set. Io giravo tre-quattro ore al giorno, molto poco, perché il resto del tempo gli attori stavano al trucco. Mi hai parlato di Matteo Rovere che è molto più giovane di te e spesso parli dei grandi maestri italiani. Ma ci sono dei registi tuoi contemporanei che ti piacciono? Matteo Garrone mi piace moltissimo, lo stimo. E ci sono diversi film di Sorrentino che mi piacciono molto. L’uomo in più e Il divo, in cui c’è quella scena magistrale in cui Andreotti parla con la moglie e fa una specie di furibondo coming out. Ma anche La grande bellezza mi è piaciuto molto. Quello a cui più spesso sei stato affiancato è Özpetek, perché siete esplosi insieme, tu con L’ultimo bacio lui con Le fate ignoranti. Eppure non avete niente a che vedere l’uno con l’altro, i vostri film sono molto diversi. Diversissimi. Arrivavamo spesso con un film nuovo nello stesso anno, e lui mi ha sempre stracciato alle premiazioni. Tornando a Ecco fatto, a produrre era Domenico Procacci, quindi la Fandango, invece chi era che lo distribuì in così poche sale (e pure deserte)? La Mikado era una piccola distribuzione e come ho detto il film non era stato realizzato pianificando un’uscita in sala. Fu una distribuzione fatta col contagocce: sette sale in tutta Italia! Però in una, il Quattro Fontane di Roma, rimase in cartellone per due mesi e mezzo. Partì con quattro spettatori al primo spettacolo in una sala piccola, fino ad arrivare una sera nella

sala grande tutta piena. Fu in quel momento che capii la potenza del passaparola. Tutto il suo incasso il film l’ha fatto in un solo cinema tra settembre e dicembre, cento milioni di lire mi pare, che non era nemmeno poco, viste le condizioni. Comunque è strano che all’epoca, con tutta l’esperienza che avevi maturato, non fossi fissato con la tecnica… È stato quando ho cominciato ad avere collaboratori veramente bravi che ho iniziato a usare anche altri linguaggi, prima passando al formato Super 35, ovvero cinemascope, che di fatto cambia fortemente il modo di bilanciare le inquadrature e anche di raccontare attraverso la macchina da presa, e poi passando sempre più all’uso dei teleobiettivi come lenti principali. Un film caposaldo, dal punto di vista del linguaggio cinematografico, per l’uso dei teleobiettivi e anche del montaggio usato come una partitura musicale, è stato Lenny di Bob Fosse. È stato importantissimo per la mia formazione. Il film in bianco e nero con Dustin Hoffman che interpreta Lenny Bruce, lo stand up comedian? Sì, quel film ha delle inquadrature eccezionali, ha proprio un uso coreografico della macchina da presa. Bob Fosse era un bravissimo coreografo che si è prestato al cinema, diciamo. Ha fatto quattro film tra cui anche Cabaret e All That Jazz. È un grandissimo regista, con una visione potente e autentica. Lenny l’ho visto tantissime volte perché mi ha insegnato quanto il punto vista su quel che filmi racconti esso stesso la storia. Che è un principio fondamentale per fare cinema. Il tuo punto di vista si sostituisce a quello dello spettatore, che chiaramente guarda quello che tu gli vuoi far guardare. La recensione di Ecco fatto che all’epoca scrisse Roberto Nepoti su “Repubblica” non è positiva ma la botta più forte arriva quando scrive che eri «un regista che viene dalle soap opera».

Sì, perché avevo fatto Un posto al sole. Me lo aveva chiesto Minoli, che lo produceva, come suo emissario. La missione era di tirare fuori qualcosa di valido da quel centro Rai di Napoli, un luogo in cui la gente non lavorava da anni. Stavano chiudendo e quella era una delle ultime possibilità per rimanere aperti. Gli operatori che trovai lì non sapevano inquadrare gli attori, cioè conoscevano solo le inquadratura da tg, con il soggetto al centro e non spostato nella porzione di fotogramma verso cui sta parlando. Gli insegnai letteralmente a equilibrare le inquadrature. Fu un’altra delle mie esperienze estreme e frustranti. Puoi immaginare il caos e il livello di impreparazione logistica, specie per una macchina complessa come la soap. Dovevo insegnare a tutti a fare tutto e io stesso avevo dovuto imparare a risolvere i problemi in trenta secondi, perché in un giorno andava girata una puntata, il che significa che dal momento in cui metti piede sul set hai venti minuti per preparare e completare una scena. Si girava con tre telecamere, il che vuol dire che bisognava saperle gestire e non incartarsi inquadrandole a vicenda, soprattutto bisognava trattare con attori che non volevano farsi dirigere. Durò cinque mesi quell’esperienza, poi sempre Minoli, che è praticamente il fil rouge della mia vita, mi propose di andare in Africa! A fare documentari. E quella fu davvero una esperienza indimenticabile e sublime. Soffrivi quel tipo di lavoro quantitativo su una soap? Fu duro ma la velocità di pensiero che ho acquisito per girare ed elaborare soluzioni in quei tempi così stretti mi ha consentito di arrivare a possedere una rapidità industriale. Prima ancora di girare il mio primo lungometraggio io ero in grado di prevedere e risolvere problemi in pochi istanti cambiando formula di racconto o l’intera impostazione della scena senza andare mai nel panico. So che poi, negli anni, dirigendo episodi di Un posto al sole si sono formati in tanti, ci ha lavorato Sorrentino per un periodo

e anche Stefano Sollima lo ricorda come un’esperienza durissima ma cruciale… Un posto al sole è il servizio militare del cinema italiano, tutto è brutto, ma deve essere fatto: consegnare è l’unica cosa che conta e per farlo devi risolvere problemi. Questo concetto di essere parte di una macchina e non doverla inceppare ti aiuta a sviluppare un senso di responsabilità enorme. Non so Sorrentino e Sollima ma io nei miei film non sforo quasi mai rispetto a giorni in cui è stato stabilito che bisogna girare, e ancora me lo ricordo quando è capitato. Perché ho imparato a non arrivare mai sul set senza l’elenco inquadrature per ogni scena. Cioè come girare le singole scene non lo decidi lì per lì ma arrivi con tutte le decisioni già prese? Decido tutto prima, a tavolino durante la preparazione, quando sono sereno. È un lavoro che faccio sceneggiatura alla mano, decido quanti tagli ci saranno poi al montaggio per ogni scena, quindi capisco se mi serve o no un piano sequenza, qual è il fuoco della scena intorno a cui la macchina si deve concentrare, se serve una steadicam, un carrello o la macchina a mano per catturare la nevrosi degli attori o ancora un teleobiettivo per schiacciare tutto oppure un grandangolo per allontanare tutto da te e rendere la scena più rarefatta, un po’ come faceva Kubrick con le sue ottiche larghissime e i lunghi carrelli. Ecco, tutto questo lo decido prima di fare un film e sul set metto in bella copia quel che ho pensato. È un esercizio faticoso ma utile poiché arrivo sul set con tutto il film già finito nella mia testa. Quanto ci metti? Quasi quanto a scrivere il copione. Che non è poco. Mentre scrivo la sceneggiatura penso a tutto quello di cui il film avrà bisogno per stare in piedi e reggersi. A partire ovviamente dalle questioni più inerenti alla scrittura. Se mi accorgo per

esempio che un copione perde carburante alla fine del secondo atto e non riesco a farci nulla mollo proprio il progetto. Perché è proprio il secondo atto della storia a permetterti un terzo atto risolutivo, se tu perdi carburante lì, al terzo non ci arriverai teso ma semmai tutto sfilacciato. E quindi il film sarà mediocre. Io credo che più che l’idea di partenza sia importante l’idea di fine del film, che poi è quello che vuoi raccontare. Il secondo atto è il punto in cui distribuisci le energie che scioglierai nel terzo, se lì devi scrivere molto per spiegare tutto quel che avviene vuol dire che non hai dei tiranti efficaci a sufficienza per portarti in maniera lineare alla conclusione della vicenda. È qualcosa che capisci scrivendo ma è strano. Alle volte mi è capitato di avere delle epifanie proprio in mezzo alla scrittura, di capire solo lì che film stavo facendo, che ragione avesse di esistere. Altre volte invece parti pensando di avere una ficata tra le mani, inizi a scriverlo e ti accorgi di non avere alcuna intuizione, nessun genio. La storia non ti ispira niente, chi lo sa magari l’ispirazione potrebbe arrivare mesi dopo, ma in quel momento lì non ce l’hai e ti demoralizzi. Magari la fai leggere a qualcuno o magari ti confronti con te stesso e ti rendi conto che quel treno è meglio che non parta. Insomma a me serve che prima tutto questo sia a posto, poi posso passare al mio elenco inquadrature. È una guida così precisa e dettagliata che sul set mi permette di non pensare, devo solo leggere quel che ho scritto e fidarmi delle decisioni che ho preso quando non avevo pressioni. Sul set ci sono troppe domande, troppa ansia, troppa confusione. Così quando leggo «carrello veloce a stringere sul primo piano» anche se lì per lì mi pare una cazzata, mi fido di quanto ho scritto e lo faccio. Poi succede che al montaggio, mesi dopo, vedo che quello è magari parte di una sequenza di tre carrelli veloci VAM, VAM e VAM che creano una musica cinematografica che non avrei mai potuto comporre sul set senza averla elaborata prima a tavolino.

Quindi hai sempre le tue note appresso? Mi faccio stampare il copione in un formato piccolissimo che poi unisco insieme e tengo agganciato ai pantaloni. È una versione tascabile piena di annotazioni, in modo da poterlo consultare di continuo. Da che ricordo è sempre stato il mio metodo, almeno da quando ho fatto qualcosa di più articolato, dai primi cortometraggi in cui avevo una troupe. Era anche un modo per non dover girare due-tre versioni di una scena, come si fa invece di solito per avere delle alternative quando le devi montare e se non va una metti l’altra versione. Io invece giro una sola versione perché tutto è già incastrato. Cioè tu non ti copri le spalle e non ti è mai andata male? Non ti sei mai mangiato le mani perché il materiale da montare non funzionava bene e non avevi altro? Male male non mi è mai andata. Ho molto intuito, quando sento che una cosa è buona poi va a finire che è buona davvero. È solo quando devo correre che mi vengono male, perché magari non curo la recitazione come dovrei. Fino all’Ultimo bacio poi giravo pure con una macchina sola, quindi in buona sostanza quello che vedi nel film finito è quello che ho girato. E questo vale anche per il lavoro con gli attori? Quasi, con loro faccio molte prove. I personaggi che sono in scena leggono con me tutte le loro parti nell’arco di tre-quattro settimane, fino a trovare ritmo e chimica di ogni momento, cambiando anche quel che non funziona e riscrivendo il copione. Serve anche agli attori, che così capiscono chi sono e si conoscono a vicenda, ma soprattutto conoscono me, capiscono cosa voglio. Quando lavorai come attore, per quei nove mesi con Pupi Avati, imparai molto della sofferenza degli attori. Quello mi ha insegnato come dirigerli, saper riconoscere le debolezze e le fragilità degli attori come anche i punti di forza nel

pronunciare una battuta. Quando vedo un attore so immediatamente come guidarlo, se con la forza o la gentilezza, con il garbo o con un flusso di coscienza che devo innescare con lui. Per questo poi ottieni da tutti quel ritmo forsennato? Il ritmo dei miei attori viene dalla mia necessità freudiana di non annoiare. Io lo spettatore lo metto su un treno che va più veloce della sua capacità di annoiarsi. In queste storie però c’è una componente cruciale di nevrosi. Certo! C’è sempre una scelta esistenziale profonda nelle mie storie: «Fuggo o rimango? Combatto o mi arrendo? Mi rassegno o continuo?», i miei personaggi spesso hanno questo dilemma che li fa essere abbastanza impetuosi, perché devono fronteggiare la vita senza il tempo di pianificarla. Per questo sono tutti un po’ nevrotici e impulsivi. E poi un po’ perché lo sono anche io. Soprattutto per la mia visione di cinema che è Sturm und Drang, non è mai un cinema molto dialogato, con tutto il rispetto per i grandissimi maestri che lo hanno glorificato come il gigantesco Ingmar Bergman. Ma io volevo fare altro. Nel film c’è una scena in cui il protagonista (Pasotti) e la sua ragazza (Bobulova) vanno al cinema a vedere un film. L’hai girato tu quel film che vedono? Sì, certo. Ed è anche un po’ trash. È una specie di finto film di genere, con un assassino. Poi si vede una lama che sfiora una gola e si accendono le luci perché è finito il primo tempo. Ho girato lo stretto indispensabile. Perché non hai usato un film vero? Non ricordo, forse per non pagare i diritti. O serviva proprio una scena così, perché poi nella sala l’ex di lei e si menano. Ecco fatto veramente folle. Avevo ottenuto il dolly per

forse perché mi loro incontrano è un film folle, un giorno solo,

quando montano la tenda sulla spiaggia e già che c’ero, nella stessa giornata ci ho girato altre scene che nel film stanno molto dopo. E il dolly, che in America viene chiamano “crane” (mentre con il termine “dolly” identificano il carrello), è un vero lusso quando sei un regista esordiente. Ma non solo. È pieno di scene particolari e fuori dalla norma come il momento in cui loro due si baciano con la camera che gli gira intorno vorticosamente… Sì, me lo ricordo. Visto ora è anche troppo estremo, non so più nemmeno quanti giri faccio con la macchina da presa: due, tre, quattro… Il buono di quel film è che era davvero libero. Il che non vuol dire che tutto abbia senso. Cioè io non volevo fare a tutti costi qualcosa di strano, avevo delle idee precise in testa che per me erano coerenti e soprattutto non sapevo se avrei mai fatto un secondo film quindi in quello ci volevo mettere tutto, come se fosse il mio ultimo, come se fossi dovuto morire il giorno dopo. La struttura in sé è abbastanza strana, perché è raccontato tutto in flashback dagli stessi protagonisti che stanno in una specie di lavanderia in cui si capisce che lavorano perché sono in divisa, a una platea di ragazzi che esprimono opinioni. E c’è anche un prete! Sì, è una cosa un po’ appiccicata, ma ti ho detto che era un film molto libero. E questa diciamo che è una soluzione a un problema. Il film, una volta finito, era troppo breve, il contratto con la Rai prevedeva una durata minima. E allora ho aggiunto queste parti di racconto, in più, con il solo scopo di allungarlo! Come hai scelto Giorgio Pasotti per essere il protagonista del tuo primo film? Lui aveva già fatto I piccoli maestri con Luchetti ma io non l’avevo visto. Quindi per me era sconosciuto. Mi piacque al

provino. E stessa cosa per Claudio Santamaria che pure aveva fatto solo piccolissimi ruoli che io non avevo visto. Di fatto sei stato il primo a dare un ruolo importante a Claudio Santamaria. Lui è un attore eccezionale, uno che si lascia molto dirigere, ci devi stare tanto appresso e ti dà moltissimo indietro. Poi secondo me è particolarmente bravo nei ruoli che gli do io, quelli molto carichi. Cioè in questo film il suo personaggio, Piterone, è folle, è straordinariamente sopra le righe eppure iconico. Ti fa ridere ogni volta che arriva in scena. Era tinto biondo di suo o l’hai fatto tingere tu? Eh non mi ricordo da dove venisse, ricordo che il personaggio già dall’abbigliamento era eccentrico, benché all’epoca non avessi ancora capito che in quell’essere così c’era proprio la carica che ha Claudio Santamaria, una carica enorme parzialmente inespressa. Non so perché ma è il tipo di attore che un po’ tende a frenarsi, tuttavia se riesci a fare in modo che si lasci andare, prende proprio il volo. Che caratteristiche ha che lo rendono un buon attore? Innanzitutto è empatico, gli vuoi bene da subito e si fa voler bene, poi è completo: è bello, può essere sexy, è credibile come persona violenta, può fare il matto o l’esaltato ma è anche impeccabile nell’opposto, il depresso. Che poi sono tutte cose che con me ha fatto. Ha pure girato un suicidio in Baciami ancora e anche lì è stato magnifico. Con lui mi piacerebbe fare un altro film a cui sto pensando da tempo. Sarebbe un film cupo però, di quelli che mettono paura alle distribuzioni, di quelli che tutti pensano che non incassi e quindi lo fanno magari uscire in poche sale (cosa che poi fa sì che effettivamente lo vedano in pochi). Io invece voglio che i miei film vengano visti, voglio essere pop nel senso più alto del termine, forse per questo motivo potrei pensarlo per qualche piattaforma.

Lo gireresti immaginandolo per la tv e non per la sala? Se non lo penso per la sala posso un po’ fregarmene delle regole del box office, che è una grande libertà. Non c’è quell’ansia dei risultati del primo weekend, una grandissima pena per il cuore e per l’anima. Perché alla fine tutta la vita del film è legata al risultato di quei primi giorni. Se va bene subito sarà un successo e se invece va male non c’è modo di aspettare un po’ e vedere se si raddrizza: è finita. Non c’era anche un altro progetto che volevi fare in stile Kramer contro Kramer? Quello è uno di quelli che ho inseguito più a lungo, ma più che altro in America. A un certo punto, dopo La ricerca della felicità, quando ero il regista che tutti volevano incontrare e con cui volevano lavorare, si stava quasi per fare. Incontrai tantissimi attori in questi meeting informali che si fanno a Hollywood per conoscersi e capire se ci sono possibilità di lavorare insieme. Quando hai un successo come quello della Ricerca della felicità e sei il nuovo arrivato promettente capita facilmente, sono le agenzie che ti rappresentano a organizzare i meeting. E in quelle condizioni incontri sia i grandissimi sia quelli che stanno cercando di farcela o di tornare. Anche perché gli attori che lavorano tanto sono pochi. Per quel film incontrai anche Robert Downey Jr., prima che facesse Iron Man. Quindi al suo minimo, nel momento in cui stava cercando di tornare a lavorare dopo gli anni disastrosi di alcolismo, droga e guai giudiziari? Lui sarebbe stato perfetto per il film, mi aveva fatto una bella impressione anche se era proprio in un momento di transizione. Aveva avuto dipendenze da qualsiasi sostanza esistente. Si presentò davvero come un uomo molto dolce. Il suo obiettivo era cambiare la propria immagine in quella di una persona affidabile. Aveva uno di quei contenitori per

vitamine americani, di quelli che hanno uno scompartimento per ogni giorno della settimana. Ecco lui aveva uno scompartimento per ogni ora. Ogni dieci minuti si prendeva una vitamina. Una rossa, una verde… O almeno a me ha detto che erano vitamine… Non mi pareva il caso di indagare. Parlava dei suoi guai? Non ce n’era bisogno. Tutti lo sapevano. Ed è davvero incredibile come sia rinato. Una storia pazzesca. Cioè lui era andato molto in alto fino a Charlot, il film biografico su Charlie Chaplin. Poi lì, quando non vinse l’Oscar, andò in picchiata, una depressione che l’ha portato a distruggersi. Adesso invece guardalo! È uno degli attori più pagati al mondo, ed è pieno di queste storie a Hollywood. Ci sono tante storie come quella di Robert Downey Jr. Quasi tutte senza un happy ending però.

3 Mi sentivo più vicino ai ragazzi che all’età adulta Come te nessuno mai (1999)

Quando inizia la fase di preproduzione di Come te nessuno mai i licei di Roma sono invasi di volantini che invitano a presentarsi ai provini di «un nuovo film che sarà ambientato al liceo». Sono provini che spesso si tengono nelle stesse strutture scolastiche al pomeriggio. Alla fine i protagonisti saranno trovati nel liceo Mamiani. È il reclutamento di quello che sarà uno dei film cruciali di quella stagione cinematografica. Prima di Come te nessuno mai il cinema italiano aveva vissuto una breve ma intensa stagione di film per ragazzi negli anni ottanta, il cui titolo più noto è Sposerò Simon Le Bon, per il resto il teen movie era un oggetto sconosciuto in Italia. C’erano film per bambini, comunque pochi e molto paternalistici, c’erano film con i ragazzi ma in cui i protagonisti erano comunque gli adulti (Il grande cocomero, La scuola) e c’era il cinema d’autore che si occupava dei ragazzi in modo problematico e drammatico, con storie fuori dai canoni come per esempio quello della ragazza transessuale di Mery per sempre. Nessuno raccontava il mondo che viveva la maggior parte degli adolescenti, con la

lingua degli adolescenti e i problemi da poco che vengono vissuti come immensi degli adolescenti, all’interno di un film pensato per loro, con quel ritmo, quell’appeal e quel desiderio. Anche il caso unico di Jack Frusciante è uscito dal gruppo (film che nel 1996 lanciava Violante Placido e Stefano Accorsi con una storia di ragazzi solo poco più grandi di quelli di Come te nessuno mai), non aveva fatto scuola benché fosse diventato un piccolo cult. La storia qui era invece quella di un ragazzo che non fa che pensare alla prima volta che farà sesso. È un po’ sfigato ma cerca di emergere durante l’occupazione del suo liceo per farsi notare da una ragazza che gli interessa. Nel farlo non vede che c’è un’altra ragazza che invece sarebbe interessata a lui. Intanto in famiglia il fratello maggiore, che gli dà i consigli sentimentali, si scopre avere i suoi stessi problemi e non saperne poi molto di più di lui, mentre i genitori, una volta sessantottini, sono sconvolti dall’idea di un’occupazione e si rendono conto di non conoscere a fondo il proprio figlio. Tutto ha il tono leggero delle commedie. Tutto è scritto con la collaborazione di Silvio Muccino e Adele Tulli, che hanno la stessa età dei ragazzi rappresentati. Silvio poi interpreterà anche il protagonista. La presentazione al Festival di Venezia del 1999 fu il battesimo di Muccino davanti all’industria. Il film fu accolto come un nuovo cinema italiano dinamico e tecnico, ben fatto e politico, rispettoso delle tradizioni e in linea con i tempi. Mise Muccino sulla mappa degli autori, fece interessare la Medusa, all’epoca una major che si occupava di grandi produzioni, che in lui avevano visto qualcuno con un occhio commerciale. Come te nessuno mai fu distribuito nelle sale ma male, in poche copie. Il successo arrivò dopo, in home video. Nacque il filone giovanilista, cioè i teen movie italiani che piacevano e incassavano. In meno di dieci anni si sono susseguiti tantissimi film a tema liceale pieni di ragazzi e capaci di

parlare quella lingua, in cui tra alti e bassi sono nati attori, si sono sperimentati sceneggiatori, autori e registi e il cinema italiano è sembrato in grado di riconquistare un rapporto con il pubblico. Tutto seguendo la traccia di quel primo film che si era mosso come il cinema italiano classico: impiegando ragazzi non professionisti in veri ambienti scolastici, raccontando i quali era capace di mettere in luce lo sfondo in cui si muovono: il paese, i cambiamenti politici, il rapporto con la generazione dei genitori e i loro ideali, i ricorsi storici e le mode del momento. Al tempo stesso instant e universale. Come te nessuno mai è il classico film piccolo che non sembra piccolo per niente. Un film prodotto molto bene. Te sei uno che si impone con i produttori per avere quello che vuole? Guarda, se un produttore potente, uno come Aurelio De Laurentiis, mi chiama per parlare di un film io mi sento un nessuno, un Mario Rossi e non un regista che ha fatto anche film a Hollywood. In quelle situazioni ritorno il Gabriele Muccino che voleva fare il regista e non quello che ha fatto dodici film. Sono un po’ uno che vuole essere conquistato e quindi mi lascio ammaliare facilmente. Che poi è un’altra forma di bisogno di consenso. È stato quello che più mi è mancato nella mia vita. Uno che incassa come te non è mai stato realmente avvicinato da De Laurentiis, magari per uno dei suoi film di Natale? Lui tutto quel che ha un chiaro potenziale commerciale solitamente riesce ad attirarlo nella sua orbita… Come no! Più volte mi ha avvicinato ma alla fine ho sempre temuto che mi avrebbe eccessivamente controllato artisticamente. Per questo sei sempre stato con la Fandango e Procacci prima di andare in America? Perché temi i produttori? Non li temo, però sì con Domenico c’è stato da subito un grande rapporto. Pensa che quando lo conobbi ero in ballo con

lui e un altro produttore per Ecco fatto, Leo Pescarolo. Entrambi li avevo convinti con il vhs del corto Io e Giulia. Alla fine scelsi di andare con Domenico perché quando andavo alla Mostra del cinema di Venezia lo vedevo sempre lì tutto fighetto con i capelli non ancora grigi, il gilet, la camicia bianca, gli stivali… Sempre tutto in tiro e con la bandana perché si ispirava a Fandango, il film con Kevin Costner. E poi portava in concorso film belli, molti australiani e alcuni italiani come La stazione o Il grande Blek (che mi piacque meno). C’era sempre insomma. Andai con lui, nonostante lui stesso me lo avesse sconsigliato perché con lui il film sarebbe stato per la tv (anche se poi come ti ho detto siamo riusciti comunque a mandarlo in sala), con Pescarolo invece sarebbe stato subito per la sala. Quando hai cominciato a fare film con loro a fine anni novanta è partito il momento d’oro di Procacci e della Fandango. L’ultimo bacio nel 2001 e subito dopo L’imbalsamatore, il primo film grande di Matteo Garrone, e poi anche Gomorra nel 2008. E sempre nei primi anni duemila, mentre io facevo Ricordati di me lui produceva anche Le conseguenze dell’amore, lanciando Paolo Sorrentino. Ricordo che qualche anno prima quando vidi il suo primo film, L’uomo in più, sarà stato il 2001, lo chiamai per fargli i complimenti. All’epoca i suoi erano film di scrittura, poi sono diventati tutti di forma. Però La grande bellezza mi ha incantato, è una novità grossa nel nostro cinema. Fa strano che gli americani l’abbiano premiato perché in realtà racconta tutto quello che gli americani non ci hanno visto. In quel film, una volta tanto, quel suo fare barocco che ha maturato si accoppia bene alla decadenza del ventennio berlusconiano. Il Berlusconismo, attraverso l’uso programmatico della televisione e di quello che essa proponeva, ha lentamente cambiato gli italiani. La Rai l’ha seguito e tutto quel che di alto e colto c’era è stato ghettizzato su RaiTre. Figurati poi che io ero un figlio di dirigente Rai!

Sentivo ancora più forte questa sudditanza nei riguardi delle logiche commerciali di Mediaset. Da Berlusconi parte tutto, parte un certo modo di pensare, parte il potere crescente della Lega il cui consenso è una sua responsabilità. Non è difficile poi comprendere il motivo per cui si vota in un certo modo o si scrivono sui social certe cose. Quella televisione e quello che ha mostrato per trent’anni ha svilito il portato culturale italiano. E prima che arrivassero le piattaforme era un punto di riferimento enorme. Però ecco sì, la Fandango intercettava tutti questi talenti. Domenico è un grande amico ed è stato il produttore con cui ho esordito e condiviso i momenti più importanti della mia carriera. Sono legato a lui da ricordi insostituibili. Vorrei tanto che la Fandango tornasse a essere più centrata sulla visione di Domenico, quando lavorammo insieme era forse l’unica vera voce all’interno della società. Domenico è un produttore coraggiosissimo, indipendente nel senso più alto del termine, profondo amante del cinema, della letteratura e ancor di più delle grandi sfide. Il suo gusto era chiaro. Ho sempre pensato dovesse essere lui il produttore con cui esordire, e ho fatto di tutto perché accadesse. Ti è capitato di riprovare a lavorarci? Sì, quando hanno preso i diritti del nuovo libro di Elena Ferrante, con Netflix. Non so se poi riusciranno a farlo da soli o avranno bisogno di partner, ma me lo avevano chiesto. Io però ho un contratto di esclusiva con la Lotus. Lotus che poi è parte di Leone Film Group cioè i figli di Sergio Leone. Esatto, da quando sono tornato a vivere in Italia lavoro con Marco Belardi e mi trovo benissimo. È una vera spalla, come lo fu Domenico Procacci. I Leone, prima di passare alla produzione, hanno fatto per anni un lavoro molto intelligente, compravano i diritti dei film americani e li rivendevano in Italia. Un lavoro incredibile che anche le grandi distribuzioni

(a cui poi li rivendevano) non erano in grado di fare da sole, anche perché spesso non c’è qualcuno che conosca bene il sistema degli studios. Loro invece si sono inseriti benissimo e hanno portato in Italia alcuni dei film americani più grossi degli ultimi anni. Tornando a quando iniziasti a lavorare con la Fandango, fu subito amore? Perché un rapporto sbagliato con il produttore può distruggere i film. Fu abbastanza amore a prima vista. Nel 1993 erano stati messi in ginocchio da La bionda, il film di Rubini con NastassjaKinski, che sforò il budget di sette miliardi. Quando arrivai io nel ’96 o ’97 Domenico lottava per non dichiarare bancarotta. Fecero Ecco fatto perché era un film a rischio zero e come ti dicevo inizialmente doveva andare in televisione. Poi un film chiamò l’altro. Facemmo Come te nessuno mai subito dopo, scritto in cinque settimane, tre per il trattamento e due per i dialoghi. Poi su quel set, a furia di stare con tutti quei ragazzi e ragazze di quindici anni che stavano diventando donne mentre io ne avevo trentadue e aspettavo un figlio dalla mia compagna di allora che era anche scenografa del film, Eugenia Di Napoli, cominciai a pensare L’ultimo bacio. Cominciai a provare quella sensazione di voler fermare tutto e tornare indietro. Mi sentivo più vicino ai ragazzi che all’età adulta. Alle volte non si sa quale film arriverà dopo, altre invece uno tira l’altro. Quegli anni furono sinceramente incredibili. All’inizio di Come te nessuno mai, durante i titoli di testa, si sentono in sottofondo notiziari di epoche diverse, si capisce che c’è un ordine cronologico, da quelli che raccontano la guerra nel Vietnam si arriva a ridosso dell’anno del film con Tangentopoli. Sì, c’è anche una frase bellissima di Abbie Hoffman. Volevo convogliare da subito l’idea che la giovinezza è come la storia, ha un corso ciclico, e volevo incollare il momento che raccontavo alla stagione politica specifica. Volatile come tutte

le stagioni politiche. Come la giovinezza. Un film che racconta l’impegno e il disimpegno, la maniera in cui dei ragazzi usino un pensiero politico per arrivare alle ragazze e come i loro genitori non capiscano di essere diventati quel che combattevano. Dal Vietnam dei padri a Tangentopoli dei figli, decenni di battaglie e occupazioni o manifestazioni e cosa è cambiato? Via, parte il film. C’è una scena in particolare nel film che mi ha impressionato molto, quella nel museo, in cui Silvio, che è interpretato da tuo fratello, e la ragazza che lui non sa essere innamorata di lui, si confessano i reciproci sentimenti. Sono entrambi attori senza esperienza e il dialogo è difficile perché i sentimenti in ballo sono complessi e ingenui al tempo stesso. Eppure passa una grandissima verità sentimentale. Colpisce. Suona reale. Come fai a fare recitare così degli attori acerbi? Quella credo sia una delle scene più lunghe di tutta la mia carriera. Io non faccio scene così lunghe, mai. La conversazione fa due tre giri grossi prima di arrivare al punto: prima parlano della morte, poi dell’immortalità, poi Foscolo, la libreria, Arturo e «insomma mi piaci!». Tu pure li aiuti: per tutto il tempo li inquadri da lontano, poi quando è il momento giusto di colpo ti avvicini, li inquadri in primo piano, e noi capiamo che siamo passati a un altro livello di intimità nella conversazione, c’è proprio un salto. Sì, gli do respiro con il crane, dall’alto, e poi affondo con li primo piano. E considera anche che c’è un’altra scena, che nel film viene prima, in cui Silvio sta in quello stesso punto del museo con il suo amico, stessa identica inquadratura girata nella stessa giornata. Quello ti fa capire che è un luogo d’intimità e, benché si dicano altro, prepara questa conversazione fondamentale. Quanto ci vuole per ottenere una prestazione simile da dei ragazzi senza esperienza?

Tanto. Considera che come sempre, ho fatto tantissime prove prima di girare. Cioè se pensi che ho provato per cinque settimane con Will Smith, figurati con dei ragazzi! Una scena così la proviamo almeno per quattro giorni. Poi sul set facciamo due-tre ciak per prendere le misure e i tempi giusti e poi solitamente arriva quello buono. Me lo ricordo bene, li hanno centrati subito tutti i ciak buoni. Anche se… Cosa? C’è una cosa che non mi va giù e rivedendo la scena ancora mi dà fastidio. Silvio non dice bene: «Ma tu adesso con questa confessione mi hai confuso da morire», andava rifatta. Però rimane pazzesco quanto in una scena così lunga tutto il resto sia andato così bene. Non capisco come sia stato possibile per te pensare un intero film così emotivamente complicato con un cast di ragazzi non professionisti, e sapere che sarebbe andata bene. Ma che sapere?! Mi sono preso il rischio! E adesso che me lo dici mi ricordo l’angoscia. Specie in scene come questa in cui ero terrorizzato che non riuscissero a farla bene. È pazzesco come lei, che poi è Giulia Steigerwalt e oggi fa la sceneggiatrice, reciti tutto il tempo tenendo in sottofondo quest’esitazione. Parlando d’altro ci fa capire che non ha il coraggio di dire qualcosa e che sta cercando di trovarlo, questo coraggio, in qualche maniera. Considera sempre che i ragazzi li ho scelti in tono con il loro personaggio, cioè non gli ho chiesto di essere qualcosa di troppo diverso da quello che già erano. Quei personaggi bene o male sono vicini alla loro natura. Io gliela devo solo tirare fuori. È una cosa che cerco di fare sempre, bene o male anche con i professionisti (a parte i più bravi che possono fare tutto): cerco di non prenderli troppo lontani da come è il personaggio che interpreteranno. È una buona tecnica non solo per essere sicuri che recitino bene ma anche per facilitare il mio lavoro

nel dirigerli, perché so che sanno di cosa parliamo e conoscono le sensazioni di quel personaggio. Io non devo spiegargliele ma tirarle fuori. Gli fai usare parole loro, così che sentano i dialoghi più vicini, o devono attenersi alla sceneggiatura? Non puoi far improvvisare attori così giovani sul set. Il lavoro di adattamento dei dialoghi alle loro parole e al loro lessico va fatto e va fatto prima, durante quelle settimane di prove. Loro sul set devono sapere di dover rispettare una sceneggiatura che è stata già adattata insieme a loro, perché sentano i dialoghi simili al modo in cui davvero parlano. Ma non è qualcosa che ho fatto solo con loro, è un sistema che applico con tutti, per liberarmi di quei toni letterari fasulli da sceneggiatura e arrivare a dei dialoghi veri. Così puoi creare pure un lessico tuo, cioè ci puoi infilare dei neologismi. Per insultarsi i ragazzi si dicono: «Sei un coyote». Come fosse: «Sei un coglione». Era per dare l’idea che avessero un lessico proprio, invece di usare il vero gergo giovanile (che invecchia velocemente) mi piaceva l’idea che fosse un gergo sconosciuto a tutto il pubblico. Unico. Come fa Arancia meccanica, che conia parole come “drugo” o “gulliver” per dare ai personaggi il loro linguaggio. Anche i comprimari li hai scelti secondo la loro natura? Lì sono stato più radicale ancora: li ho scelti perché erano esattamente così. I fasci sono veri fasci. Ho solo aggiunto la cresta a uno che non la aveva. Pensa che poi ho scoperto che uno di quelli lì è un cugino di Favino… È il lusso di un film del genere, in cui sai già che le star non le avrai perché non ci sono ruoli da star, puoi prendere per ogni parte effettivamente una persona che ha la faccia e il fisico perfetti. Pensa a Giulia Steigerwalt: è proprio la classica ragazza molto carina ma che poi a scuola non noti.

Poi quei ragazzi te li sei portati dietro per un po’. Li ho rivisti in Ricordati di me. Nella scena della festa in casa di Silvio gli invitati sono praticamente il cast di Come te nessuno mai. Mi sa che hai ragione. Tra di loro c’è pure Veronica Gentili, la ragazza rasta molto attiva nell’occupazione, oggi è giornalista, scrive sul “Fatto Quotidiano”, e commentatrice politica suRete 4. Ma c’è pure Giuseppe Sanfelice, che nel film è Ponzi l’amico di Silvio, che poi ha fatto il figlio di Nanni Moretti in La stanza del figlio. Che fine ha fatto lui? Era un personaggio principale in un film che ha vinto la Palma d’Oro a Cannes e poi è scomparso. Fa lo skipper. Hai detto che hai fatto provini a tutti però poi alla fine hai preso tuo fratello per la parte principale. Pure lui era passato attraverso i provini. Trentacinque! Non immaginavo che potesse recitare. Aveva scritto il film assieme a me e Adele Tulli, sua coetanea che ora ha fatto un documentario da regista, Normal. Poi dopo la scrittura Silvio mi ha aiutato nella fase di casting, stava lì con i vari attori da provinare per il personaggio che sarebbe diventato il suo e faceva l’altra parte del dialogo, insomma gli dava le battute. Da che era un cane tremendo a furia di dare battute mi sono accorto che cominciava a funzionare più lui dei provinati. Così un giorno, dopo trentacinque provini, l’ho scambiato di ruolo, cioè l’ho messo a fare Silvio. Era lui! Non ti spaventava lavorare con un familiare? Molto. Tra di noi c’è una grande distanza in termini di età ma eravamo legatissimi, era quasi un rapporto padre/figlio, anzi se possibile era più di un figlio. E a me spaventava a morte l’idea di dirigerlo. Che rapporto avrei avuto con lui sul set? Nella scena finale in cui Silvio e Giulia Steigerwalt si baciano e finalmente fanno l’amore, c’è una dolcezza incredibile. Non

è come le solite scene di sesso, c’è una partecipazione sentimentale che è quasi commovente. Ora a freddo sai dire cos’è che la rende unica? È difficile. Quello che ti posso dire è che Silvio non aveva mai fatto sesso e se già di solito io tendo a dirigere molto le scene sentimentali, cioè a non lasciare gli attori liberi di fare quel che sentono ma dirgli come posizionarsi, dove mettere le mani eccetera, qui ho proprio dovuto dirigere tutto, che è stato terribile, perché come ti ho detto era un figlio per me e dirigere un figlio in una scena di sesso non lo auguro a nessuno. A un certo punto, non inquadrato, mi avvicinai a lui, gli afferrai il polpaccio e iniziai a spingerlo su e giù, in modo che simulasse quello che non aveva il coraggio di fare. Quel giorno sul set c’era Procacci che ancora ride ricordando quel momento. Che poi anche tua sorella Laura lavora nel cinema no? Anche lei l’ho tirata dentro io, fece l’assistente nel mio primissimo film, oggi è una delle più importanti casting director in Italia. In un certo senso sto tirando dentro anche il mio figlio maggiore, Silvio Leonardo, detto Tiki, nato il giorno in cui ci fu l’anteprima di Come te nessuno mai al Cinema Quattro Fontane. Non me lo scorderò mai quel giorno. È molto appassionato di cinema. Anzi sa moltissime cose più di me, sul cinema e non solo… Tendo ad attirare tutte le persone a cui voglio bene nell’orbita di quel che faccio, a coinvolgerle e volerle vicino nella cosa che amo di più al mondo. Ma non sempre funziona. Eri duro con Silvio sul set? Non sono mai duro sul set. Sono semmai furioso. Mi serve per creare la furia dei personaggi. E quindi sì ero furioso anche con lui. Cioè sono io che appicco il fuoco addosso ai miei personaggi, li accendo e poi faccio partire il ciak. Lo faccio con tutti, pure con Will Smith, solo che con lui lo facevo senza parole perché non sapevo sufficientemente bene l’inglese, lo

facevo a gesti… Come una scimmia… Non lo so nemmeno io come ho fatto. In questo film ci sono delle scene molto più complicate rispetto a Ecco fatto, quelle dentro la scuola per esempio, anche perché hai sempre moltissimi attori in campo contemporaneamente. Cosa che non ti era mai capitata fino a quel momento. Sì, ma non è complicato tenerli in ordine, io poi ho una buona autorità sul set. Rivedendolo è un’altra la cosa che noto, una grande e impetuosa voglia di essere punk, alle volte nelle scene concitate faccio muovere la macchina da presa come fosse un ulteriore personaggio per creare un punto di vista ancora più forte. C’era però forse anche una scaltrezza che oggi un po’ rimpiango. Se vedi per esempio la scena in cui Silvio rompe la porta ed entra nell’archivio dei registri, quando una volta dentro parla con quella ragazza, sono entrambi inquadrati ma lui è illuminato e lei no, praticamente lei sta nell’ombra, nel nero. Che non ha senso ed è pure straniante. Ma funziona. La mia vitalità e fame di vita si sposava con quella della storia che raccontavo. Era la tempesta perfetta. Anche la musica che avevo chiesto a Buonvino era epica. Per una storia di liceali un po’ velleitari volevo questa musica grandiosa, perché per loro quella era un’avventura grandiosa. Se ascolti il pezzo che c’è quando occupano la scuola sembra stia cadendo un meteorite sulla Terra. Come avete girato tutta quella parte lì di corse nei corridoi e poi sulle scale, i tetti, le urla, le masse… Sempre con le prove. Io li facevo venire tutti a casa mia, anche i fasci, tutti a provare da me per i dialoghi di gruppo, perché non si accavallassero. Poi sul set abbiamo disegnato l’azione, gli dicevo io che percorsi fare in tutta la scuola. Stavo sempre attento a dirgli con cura e precisione cosa fare e loro lo eseguivano senza errori.

Una massa di ragazzi così, tutti insieme, ti dà retta? Te l’ho detto che sono autoritario. Non ho mai avuto problemi di persone che non mi ascoltano sul set. Se me ne accorgo li sgrido subito urlandogli che sto parlando io. Il carattere che ho sul set davvero non ha niente a che vedere con quello che ho nella mia vita di tutti i giorni, in cui invece possiedo un senso di insicurezza che mi porto dietro, insieme a dei complessi di mancanza del consenso, da quando ero adolescente come loro. E comunque tra le molte caratteristiche di un regista c’è anche il sapersi far ascoltare e saper dirigere gli attori. Che è quello che mi fa arrabbiare del cinema italiano degli ultimi decenni, cioè che avevamo una classe di registi eccezionali, grandi tecnici, sapevano fare tutto, era una scuola pazzesca. Poi dall’approdo al cinema di Pasolini si è fatta gradualmente strada l’idea che chiunque potesse fare il regista, che non servisse una formazione apposita ma che bastasse un profilo intellettuale. Be’, i primi film di Pasolini, da Accattone fino al Vangelo secondo Matteo, sono pazzeschi proprio tecnicamente, hanno moltissime idee visive che un po’ venivano da Bolognini e un po’ nascevano lì con lui… Hanno idee visive rivoluzionarie. Come lo era lui. Ma il cinema ha bisogno di regole drammaturgiche. Non basta girare immagini o scene potenti perché l’intero film abbia costantemente una crescita narrativa. I film successivi di Pasolini, specialmente quelli a colori, non sono mai riuscito ad amarli. Rispetto ai film dei grandissimi maestri del cinema italiano e non solo fino agli anni sessanta, i suoi perdono grammatica, al confronto appaiono improvvisamente privi di grazia, e la grazia nel cinema italiano che parte con De Sica e finisce con Leone era tutto. Era eleganza, era poesia, era forma, era contenuto. Poi per carità, Pasolini è intoccabile. Io stesso amo molto i suoi scritti e le sue opere. Ma per la ragioni

che ti ho spiegato, sono convinto che da lui sia partito un drastico cambio di passo nel cinema italiano. Come te nessuno mai è anche il tuo primo film ad aver girato fuori dall’Italia. Fu presentato a Venezia e poi in Nord America al festival di Toronto… Grazie a quel film arrivò il mio primo approccio con Hollywood. E fu con Harvey Weinstein… All’epoca Weinstein comprava i film stranieri e li distribuiva in America, Come te nessuno mai aveva il biglietto da visita di Venezia e Toronto, così lo vide e volle conoscermi e propormi un contratto di esclusiva per due film, cioè in pratica potevo fare film ovunque e con chi volevo, ma se li facevo in America dovevo farli con lui. In quegli anni la sua società, la Miramax, era la massima espressione di arte e industria unite insieme, nonché una macchina da Oscar perfetta. Per firmare il contratto andai a New York con la mia agente Valentina Conti (che nel frattempo stava lavorando anche a un contratto per un altro film con la Fandango e Procacci). Weinstein ci ricevette nel suo quartier generale nel quartiere di Tribeca. Firmammo il contratto che Valentina aveva già negoziato, dopodiché ci mise a disposizione una limousine che ci portò in giro. Ci sentivamo come se avessimo conquistato la Luna. Ci facemmo anche una foto a Times Square come due turisti, contratto in bella vista, e la sera andammo a vedere a Broadway La febbre del sabato sera con i biglietti procurati da Weinstein. Tornammo a Roma euforici. Quando raccontai tutto a Procacci, anche della limousine, lui si incazzò: «Ma che c’entra adesso la limousine!! Ma che ti fai abbindolare da una limousine?!». Per anni sono stato con il piede in due staffe: i film italiani con Procacci e i progetti americani con la Miramax. A cosa lavorasti per loro? Prima ancora di girare L’ultimo bacio mi proposero il remake di un film francese di Cédric Klapisch, Ciascuno cerca il suo gatto. Un film assurdo. Però, che devi fare? Ci provai.

Preparai ’sto cazzo di remake. Weinstein non è che fosse un gran produttore, ma era un genio della distribuzione e del marketing. Poi aveva grande occhio. E una tattica spietata: grazie al suo potere economico, ai festival comprava cinque o sei film che riteneva buoni. Poi vedeva come si muoveva la critica e mollava quelli con meno chance, incanalando tutto il budget sui cavalli vincenti con l’Oscar come obiettivo finale. Importava film stranieri e li faceva vincere. Fece così con Mediterraneo, La vita è bella, La tigre e il dragone e tanti altri. Ma c’è sempre lui anche dietro l’Oscar di Nuovo cinema Paradiso, l’aveva acquistato per l’America. Insomma era possibile per i film italiani essere comprati da Weinstein tanto quanto lo era venire cestinati se il film poco poco non piaceva alla critica statunitense. A parte Ciascuno cerca il suo gatto hai preparato altro con la Miramax? Il progetto a cui ho lavorato di più con lui, e che poi non si è fatto, è il remake di C’eravamo tanto amati, che anni dopo, anche se non più come remake, sono riuscito poi a girare in Italia, cioè Gli anni più belli. Era una mia ossessione fin da allora. Convinsi Weinstein a comprare i diritti del film. Era sempre dopo L’ultimo bacio, quando ero un po’ cresciuto in credibilità. Il film lo scrissi con Michael Weller, lo sceneggiatore di Hair e di Ragtime, insomma uno che aveva lavorato con Milos Forman. Era ambientato a New York e i protagonisti erano dei reduci della guerra in Vietnam invece che della Resistenza come nel film di Scola. La parte di Stefania Sandrelli sarebbe andata a Nicole Kidman. La sceneggiatura era pure buona ma non se ne fece niente. A un certo punto mi arrivò la notizia che il film non gli piaceva e così morì. Cos’è che non gli piacque? È troppo difficile da capire per gli americani. Non risponde proprio alla loro etica. Che dei tre amici il più triste sia quello

che ha avuto un enorme successo economico è complicato da comprendere. In America il denaro è un valore morale e l’obiettivo di un’esistenza. Nel film di Scola, il denaro è brutto sporco e cattivo. Non era un film che poteva avere possibilità di essere mai accettato, in quella cultura. Tentati questi due film hai più incontrato Weinstein? Anni dopo, quando avevo incassato molto con La ricerca della felicità, in quel momento in cui ero il golden boy di Hollywood, lo incontrai a un party. Fu lui a venire da me e dirmi: «Adesso siamo pronti per lavorare insieme! Non lo eravamo prima ma adesso sì». Subivi il suo fascino? Sì, moltissimo. Mi piaceva stare accanto a lui perché sentivo proprio l’aura dell’eminenza grigia. Cioè tu pensavi: «Dev’essere proprio una gran brava persona!»? Ma no. No! Pensavo che era abominevole ma aveva il fascino di Darth Vader e dei grandi villain. Lo sapevano tutti che era un gangster di Hollywood. E poi in un mondo come quello, in cui nessuno conosce il cinema, lui era un cinefilo vero. Non era difficile in quel senso sentire un’affinità. Era un uomo non solo potente ma che emanava potenza. Pensa che loro erano i fratelli Weinstein ma l’altro, Bob, faceva i B movies della compagnia. Mentre Harvey girava l’Europa, comprava e importava il meglio, Bob mandava avanti la Miramax facendo cassa con film come Scream. Quando sono esplose le accuse di molestie e peggio in molti hanno confessato di sapere che era solo questione di tempo prima che uscisse tutto. Anche tu avevi sentito le voci? La voce l’avevano sentita tutti. È stato necessario che dopo tanti anni lui perdesse potere perché poi le donne potessero attaccarlo. Nel cinema di un tempo era tutto diverso e

l’ambiente, come pure il contesto sociale, era molto indulgente. Sul set di A casa tutti bene ho parlato molto con Sandra Milo, che ne ha viste più di Carlo in Francia, e ti fa dei racconti clamorosi. È una che ti dice: «Eh che te devo dì… Quella volta non c’avevo soldi per pagare l’avvocato e l’ho pagato in natura oh!». Lei che è stata ufficialmente l’amante di Fellini per diciassette anni con la moglie di lui, Giulietta Masina, che sapeva tutto e per vendetta ebbe una storia con il suo segretario. Il cinema ha funzionato sempre come una bolla emotiva: tutti si appassionano a un progetto, tutti si innamorano, tutti si incantano, tutti si odiano, è una sorta di fisarmonica emotiva molto molto esasperata. È un grande circo sulle cui piste ci sono denaro e ribalta, luci e coriandoli. Poi, come ha detto Scorsese, è una delle industrie più avide in assoluto. E questo è ancora più vero in America. Lì ho conosciuto molti produttori che non erano davvero produttori, non conoscevano il cinema, erano spesso dei rivenditori d’auto di successo, proprietari di catene, che mettevano un po’ di soldi nella produzione di un film e poi scendevano a Hollywood il weekend per incontrare attrici e attricette. È un’industria costruita su basi così storte che cercare di raddrizzarla mi sembra un’operazione abbastanza ingenua. In Italia tutto questo esiste? Esiste eccome! Potrei farti molti nomi di produttori italiani che non devono fare niente e le attrici gli si buttano addosso. È gente che ha il potere di cambiare la vita di un’attrice (e un po’ è vero anche per il regista) che da Cenerentola diventa improvvisamente una star. Persino a me è capitato di cambiare la vita di Martina Stella e non solo. Per lei sono state tre settimane di lavoro da cui è arrivato tutto il resto. Sono dinamiche che valgono anche per persone che magari non hanno studiato ma, per una congiunzione astrale, in un attimo gli cambia tutto e per sempre. Il successo ti strega e divora le anime. Pensa che mia zia si mise a piangere quando mi vide dopo il successo dell’Ultimo bacio. Come se fossi una persona

sconosciuta e improvvisamente una celebrity anche ai suoi occhi. Eppure mi conosceva dalla nascita. Hai mai ricevuto pressioni per far lavorare qualcuna? Sì, ma devo dire poche, tipo due o tre in tutta la mia carriera e poi per ruoli piccolissimi. Persone che capisci essere l’amante di qualcuno che ti chiede il favore di “metterla lì”. Per esempio ce n’è una nella scena del provino di Nicoletta Romanoff in Ricordati di me, è una comparsa, avrà una battuta sì e no. Uno della Medusa mi chiese questo favore. Cosette… In tv invece ne succedono di molto più grandi, raccomandazioni per presentare trasmissioni intere. Quando in seguito allo scandalo Weinstein si fecero dei nomi anche qua in Italia ti sorprese? Ne sapevi qualcosa? No, niente. Io in quegli anni ero fuori dal mondo, stavo in America a cercare di capire il sistema americano, non seguivo il mondo italiano. Ma non pensi mai “Se non facessi questo lavoro una così non verrebbe mai con uno come me”? Diciamo che ho una stima di me abbastanza alta, però mi rendo conto che un paio di fiamme che ho avuto non sarebbero mai state con me se avessi fatto un altro lavoro. Il regista è un tipo di professione che si porta dietro una fascinazione, come molte professioni artistiche. Almeno se hai successo. Non lo so se sia possibile definire quella linea invisibile tra «Ti voglio perché voglio lavorare» o «Mi piaci perché lavori a questo livello». È un pacchetto unico e io stesso del resto ero affascinato da Harvey Weinstein. Weinstein ti parlava di lavori incredibili, personaggi leggendari, era un grande seminario di esperienze emotivamente forti, immagino possa avere presa su una donna. Certo poi gli stupri sono tutto un altro paio di maniche e di quello chiaramente non sapevo niente, ma come nessuno credo. Alla fine è stato condannato ed è giusto sia stato così.

4 Allora smettono di dirti che è impossibile L’ultimo bacio (2001)

L’ultimo bacio è stato l’unico grande evento di costume italiano partito dal cinema dei nostri anni. Nemmeno Checco Zalone, nonostante i record e un incasso mostruoso, è stato paragonabile. L’ultimo bacio si è imposto nel discorso sociale per un anno buono. Ne parlavano le persone, ne parlava la televisione. Aveva colpito tutti e toccato un nervo scoperto. Erano decenni che un melodramma non aveva successo in Italia e questa storia di vitelloni, impenitenti traditori ma in fondo innamorati, specialmente uno, aveva suscitato un’identificazione che il pubblico non esperiva da troppo tempo. Per chi non aveva visto Come te nessuno mai fu quasi uno shock. I drammi italiani dell’epoca (come quelli di oggi) non avevano quel ritmo, non avevano quella cura nella messa in scena, non si sognavano di puntare prima sulle immagini e sulla forma che su ogni altra cosa. Non erano diretti da registi veri. La scrittura funzionava ma era il modo in cui veniva messa in scena a cogliere tutti di sorpresa e faceva sì che dinamiche di racconto eterne trovassero il pubblico sguarnito, come se le vedesse per la prima volta. In una recensione non interamente positiva presente nel suo dizionario dei film, anche Paolo Mereghetti si arrende di fronte all’evidenza: «Muccino vuole assolvere a una funzione cui il cinema

italiano guarda di rado: far rispecchiare lo spettatore. Un’orda di trentenni si è identificata e ha pianto». Questo è il film che cristallizza lo stile furioso e ordinato, privo di tempi morti e sempre in corsa di Gabriele Muccino. Gli eventi che coinvolgono un gruppo di amici sono raccontati durante l’azione e non nelle sue pause, come invece avviene di solito, l’incalzare del tempo del film diventa l’incalzare delle paure e questo alimenta e acuisce il dramma. Ci sono parenti che muoiono all’improvviso, incidenti, ospedali, nuove nascite e annunci a sorpresa, tutto il repertorio dei sentimenti forti che ruota intorno a un solo tradimento. «La storia di tutte le storie d’amore» era la tagline della locandina, ma in realtà a essere raccontato era il tradimento di tutti i tradimenti che mostrava l’insanabile sete di vita che dentro ognuno fa a botte con il desiderio di affetti stabili. Con L’ultimo bacio inoltre viene scoperta definitivamente una generazione di attori, tutti diretti benissimo, tutti coetanei, guidati da quello che in quel momento era il più noto, Stefano Accorsi. Era una nuova classe che annunciava un nuovo stile, una nuova tecnica e nuovi modi di recitare. Meno teatrali dei loro predecessori, meno sudditi della recitazione dei grandi degli anni sessanta, più vicini agli atteggiamenti e al parlato della vita comune. Per una volta, il cinema italiano presentava davvero qualcosa di nuovo a ogni livello. L’ultimo bacio non era pensato per essere un instant movie ma lo è diventato. Il film è ancora attualissimo e moderno nella forma ma il paese è cambiato intorno a lui. C’era in quel film un’Italia che poteva permettersi di analizzare i propri desideri e la propria insoddisfazione, perché quelli erano i problemi più gravi. Già dal film successivo sarebbe cambiato tutto. L’incasso fu di tredici milioni di euro, cifre proibitive per un dramma e riservate solo alle commedie di maggior successo, e la permanenza in sala è stata ancora più fuori dalla norma:

L’ultimo bacio fu programmato per sei mesi. E fu un successo fin dalla prima proiezione del primo giorno. Come succede che un film vada bene fin dalla prima proiezione? In realtà non ho mai davvero capito come o perché fu un successo già al primo spettacolo delle tre e mezza del primo giorno. Me lo sono chiesto a lungo, di risposte ne ho tante ma non saprò mai davvero come mai… Ricordo che andai a controllare come andasse al primo spettacolo, alle 14.30 del giovedì, scelsi il cinema Giulio Cesare di Roma. C’erano trentacinque persone in sala. Chiesi alla cassiera quanta gente ci fosse di solito allo spettacolo equivalente di filmoni che incassano tanto e mi disse che stavano sulla sessantina. Allora pensai che se tanto mi dava tanto avrei fatto la metà dei film tipo di Aldo, Giovanni e Giacomo. E andò esattamente così. È incredibile ma i numeri del box office non mentono. Se il film va bene e piace il moltiplicatore di serata in serata è sempre quello. Una volta il venerdì facevi cinque, il sabato dieci, la domenica quindici. Invece quando sono tornato dall’America ho scoperto che le leggi matematiche erano sempre fisse ma cambiate: il sabato e la domenica adesso fanno più o meno lo stesso incasso. Avrà influito il fatto che avevi cambiato distributore immagino. Più attori, più pubblicità, più promozione… Eri passato dalla Mikado che poteva permettersi di portare il film in poche sale e con piccole campagne, alla Medusa, una vera potenza, come passare da un canale regionale a Rai Uno… Certo io con Medusa mi sentivo come fossi alla Columbia a Hollywood, era una major a tutti gli effetti. La campagna pubblicitaria fu di un miliardo di lire e a me già vedere i manifesti del mio film in tutte le città faceva impressione. Fino a quel momento non ero mai stato programmato in tante sale, non era facile trovare i miei film perché la Mikado era piccola. E quindi chiaramente non incassavano granché. Come te

nessuno mai infatti non era andato benissimo, la sua fortuna fu il mercato home video. Il dvd e anche il vhs era noleggiatissimo soprattutto dai genitori, era per loro un modo di vedere cosa facevano i loro figli quando non li guardavano. Credo sia stato lì che mi sono costruito un mio pubblico, nei salotti delle case. Pure la campagna pubblicitaria dell’Ultimo bacio però non fu da poco. A partire dalla scelta azzeccata della canzone di Carmen Consoli con quel titolo. Quella fu solo fortuna: Paolo Buonvino, il compositore della colonna sonora con cui lavoravo dai film precedenti, aveva arrangiato quel brano per Carmen Consoli, che è catanese come lui. Quando stavamo cercando il tema per il film lui mi fece sentire questa canzone e mi piacque subito. A quel punto lui aggiunge che a lei piacerebbe molto se lo usassimo come canzone dei titoli di coda. E io subito ho rilanciato per sapere se potevo usare proprio il titolo. Perché il titolo del film a quel punto era Non sono pensieri carini ma mi è stato subito evidente che L’ultimo bacio era molto meglio! E poi ci fu la campagna promozionale propriamente detta. Con la Medusa degli anni d’oro si poteva osare. Tentammo una cosa che avevo visto fare ai cartoni animati americani. Andavo molto al cinema con mio figlio piccolo e prima di un cartone avevo visto il promo o teaser di un altro cartone, L’era glaciale. Era proprio un pezzo di film, quello con lo scoiattolo che insegue la ghianda. Era un teaser per un film che sarebbe uscito un anno dopo! Allora con Medusa decidemmo di fare qualcosa di simile, mettere un pezzo dell’Ultimo bacio in testa a una delle loro corazzate. Non un anno prima certo, ma due mesi prima dell’uscita prevista. Così tutti quelli che andarono a vedere il film di Natale di Aldo Giovanni e Giacomo, Chiedimi se sono felice, videro anche il piano sequenza del matrimonio dell’Ultimo bacio.

Già solo in quel movimento si intuisce la trama e poi è chiuso con la foto che viene scattata ad Accorsi e Mezzogiorno, in cui lui fa una faccia disperata perfetta per lasciare lo spettatore con la voglia di vedere il film. In più si vedono quasi tutti gli attori. Pochissimi avevano un po’ di notorietà. Un paio venivano da Ovosodo (Regina Orioli, Marco Cocci), poi c’era Pasotti e ovviamente il più conosciuto, Accorsi. Gli altri erano per la maggior parte del pubblico volti nuovi, giusto? Sì erano tutti rappresentati dalla stessa agenzia, la TNA, fu un caso. Il casting lo fece Francesco Vedovati e per una serie di combinazioni, quasi l’intero corpo attori era rappresentato dalla stessa agenzia. Una volta trovati tutti gli interpreti principali poi Graziella Bonacchi, allora agente di quasi tutti loro, mi dice: «Ti devo chiedere un favore, mi puoi prendere anche questo qui? Lavora poco ma è bravo». Io non avevo praticamente più ruoli se non quello dello sposo che è una parte piccola, ma in effetti questo era bravissimo e quindi gli dico che lo prendo. Ed è Favino. Esatto. All’epoca proprio non era sulla mappa, era il più sconosciuto degli sconosciuti. La parte è piccola però ha una delle battute cruciali: «La normalità è la vera rivoluzione». Non so perché ma è rimasta come una delle più memorabili. Sì ma non la dice lui, la dice la moglie. Lui però sta là accanto a lei. Hai preso tutti al primo colpo? No anzi il contrario. Se levi Giorgio Pasotti e Claudio Santamaria, che consideravo “miei” per averci fatto un film in precedenza, gli altri non sono sempre state le prime scelte. Originariamente per i protagonisti volevo Kim Rossi Stuart e Claudia Pandolfi, ma rifiutarono, e trovai per fortuna Stefano Accorsi e Giovanna Mezzogiorno. In seguito sia Kim che

Claudia mi hanno detto di essersi molto pentiti di aver rifiutato la parte. Immagino. Anche perché se Kim ha recuperato più che bene e ha avuto una gran carriera, Claudia Pandolfi da lì in poi ha perso contatto con il cinema e lavorato più che altro in televisione. A ogni modo quella generazione di attori sembra molto più unita di altre. Non conosco tutti i rapporti che esistono tra di loro ma ti posso dire che se metti a tavola insieme Accorsi, Favino, Santamaria e Sabrina Impacciatore si divertono e ridono fino all’alba. Nel film hanno tutti una gran chimica, è possibile raggiungerla anche se gli attori si stanno antipatici? L’affiatamento tra attori lo vedi quando fai quelli che si chiamano “i provini alchemici”, cioè provini combinati, quando scegli gli attori facendoli recitare con quelli che già sai di aver preso, per capire se c’è intesa. Per questo film mi ricordo che ci fu un tentativo con Beppe Fiorello, fece il provino alchemico con tutti gli altri per il ruolo che poi è andato a Marco Cocci, la parte di quello che non si vuole legare e salta di donna in donna. Beppe è bravo ma non c’entrava niente con gli altri, stavano ad altre latitudini, letteralmente. Invece Cocci era come se facesse parte da sempre di quel gruppo di amici. Io sul set ti chiedo talmente tanto di essere te stesso che alla fine la tua natura, in qualche modo, esce. O perlomeno la parte di natura che a me interessa, poi i cazzi tuoi saranno altri, sarai quello che vorrai. Non mi interessa la tua vita. Tanto chi sei lo vedo facendoti un provino. È lì che capisco se sei giusto o meno per il film. Immagino ci siano delle note antipatie, attori che tutti sanno che non possono sopportarsi… Se ci sono problemi seri sono gli agenti a dirtelo. Che poi i problemi seri sempre quelli sono: uno che ha rubato la donna all’altro o una che ha rubato l’uomo all’altra o anche due che

sono stati insieme e si sono lasciati male. In quei casi non possono stare in scena per otto settimane insieme, prima o poi la bomba scoppia. Dunque eviti. Come mai avevi scelto Giovanna Mezzogiorno? All’epoca aveva fatto pochi film. L’avevo vista al Festival di Venezia in Del perduto amore di Placido in cui mi colpì un sacco. Pensai proprio: «Ammazza questa quanto spinge». In quel film spinge tantissimo, è sensazionale. Con un’altra attitudine Giovanna poteva diventare l’attrice numero uno in Italia. Stefano Accorsi e Giovanna Mezzogiorno stavano insieme all’epoca, era per questo che li avevi scelti? Sì, anche. Solo che a un certo punto, prima delle riprese, si lasciarono e ricordo che Giovanna mi venne a dire che non voleva più fare il film. Eravamo a Milano, ci ero andato apposta, stavamo al ristorante. Lei era molto ingrassata, cosa che mi colpì parecchio, stava a pezzi. Voleva fare il film anche se mi aveva detto che non poteva più, dopo aver lasciato Accorsi. Nel tentativo di fare di tutto per convincerla le dissi: «Giovanna, tu sei una professionista, capisco tutto ma quando arriverai a Roma e proveremo vedrai che il film diventerà più importante di tutto il resto!». Non so come però effettivamente si convinse a venire a Roma e fare la prova costume. Che andò bene. Poi il giorno dopo la prova la reincontro ed era felicissima, tutta serena e radiosa. Mi sentivo al massimo. Capisci? Era la fede nella forza del cinema ad averla convinta e anche lei come me aveva fiducia nel fatto che il film fosse più importante di tutto, anche del dolore sentimentale. Da che era triste per essersi lasciata dopo la prova costume era di nuovo quella di prima! Pensai che il cinema è incredibile, salva le vite. In realtà ho poi scoperto che la sera prima, cioè dopo la prova costume, era uscita a cena con Stefano e si erano rimessi insieme.

Invece Castellitto come è entrato nel film? Con una parte così piccola e marginale poi… Pensa che nemmeno aveva voluto il nome nei titoli di coda, credo lo fece per fare un favore alla sua agente. Io cercavo questo ex amante di Stefania Sandrelli e qualcuno, forse Procacci, me lo propose. Venne senza preparazione, palesemente non gli importava niente, venne a passare la giornata. Lo stesso ha portato a casa la scena alla grande, ricordo che fece due-tre cose eccezionali che non mi aspettavo. Secondo me poi, quando il film uscì, visto il successo, si è un po’ pentito di non aver voluto mettere il suo nome. Quando giravi Medusa veniva a controllare il suo nuovo acquisto sul set? Erano invadenti? Ma scherzi? No, per niente. Ma nemmeno Fandango, che mi produceva sempre, è mai stata invadente. Domenico Procacci ti sta dietro in tutte le riscritture del copione ma quando il film parte ti lascia veleggiare in libertà. Di solito viene un paio di volte sul set, poi si rompe le scatole e dopo poco se ne va. Questo film sembra in linea con Come te nessuno mai, perché racconta una serie di personaggi che hanno tutti la stessa età e sono tutti alle prese con il medesimo momento della propria vita, ma in realtà dal punto di vista narrativo è un altro mondo. Non è una commedia, non è un film in cui qualcuno cerca di raggiungere un obiettivo o una felicità, ma uno in cui i protagonisti la felicità ce l’avrebbero e si creano ostacoli da soli. In realtà non ragiono così, come ti ho detto parto sempre da un film che amo. Come te nessuno mai per me è Il tempo delle mele, L’ultimo bacio è I vitelloni, Ricordati di me è Bellissima di Visconti, La ricerca della felicità è Ladri di biciclette + Umberto D., nel senso che quando ero su quei set di quei film avevo questi altri come riferimenti.

A parte I vitelloni, l’idea alla base di tutto da dove veniva? Mi venne mentre giravo Come te nessuno mai. Sul set avevo un branco di quindicenni, ragazzi e ragazze giovani e belle, proprio delle gazzelle che saltellavano da tutte le parti. Io invece vivevo la coda di un rapporto durato cinque o sei anni. Su quel set inizio a immaginare la storia di una persona che ha la mia età e che incontra una liceale. Ma fu determinante poi una conversazione fatta con Domenico Procacci per strada, parlando di vita e della transizione da tardi e velleitari adolescenti alla realizzazione che eravamo uomini che dovevano accettare di essere diventati adulti. È stato un punto di svolta importante per me, anche se si rischiò di non farlo perché il ministero non ci diede i finanziamenti e anche se non sembra fu girato con pochissimi soldi e di corsa. Ma fu un punto di svolta anche per la Fandango. Quel successo sanò la loro situazione finanziaria e gli consentì di ripartire con più forza. Indubbiamente fu una svolta anche per il tuo stile però. Fino a quel momento sapevo solo di voler provocare stilisticamente, proprio con il linguaggio, volevo far vedere che esisteva anche in Italia un tipo di cinema tutto tirato come si fa all’estero e che da noi c’era anche stato ma ormai era in terapia intensiva. Avevamo avuto Germi o anche Petri che usavano la macchina da presa in modo molto moderno e particolare e non parliamo poi di Fellini o Leone. Certo il mio cinema era più piccolo, però volevo in qualche modo prendere il massimo di quei miti e unirli a Oliver Stone, con quella voglia lì di raccontare relazioni umane. I rapporti come li racconta Woody Allen in Crimini e misfatti o Mariti e mogli, Interiors, Hannah e le sue sorelle. In Ecco fatto c’era tutta una scena di allucinazione in cui Santamaria è vestito da diavolo e pure in Come te nessuno mai c’erano momenti che rompono la messa in scena classica, come quando i protagonisti parlano con il pubblico. Pensa che erano soluzioni che credevo mi

sarei portato sempre dietro e invece dopo L’ultimo bacio, in cui c’è Martina Stella che compare nel letto con loro e poi esce da una tenda, e anche Accorsi che vede Giovanna Mezzogiorno in macchina che gli parla, non le ho più usate. Lo scrivesti proprio mentre giravi Come te nessuno mai? No. L’idea mi era venuta sul set ma stava lì ferma. L’epifania vera ci fu grazie a Domenico Procacci. Sempre lui. Eravamo al festival di Londra insieme perché avevamo portato Come te nessuno mai, eravamo molto amici, e lui mi propose di restare un po’ lì, dove nessuno mi avrebbe rotto le scatole (specie la mia compagna di allora con cui litigavo molto). Mi fermai quindi cinque giorni in più, cinque giorni in cui scrissi tantissimo. In quel festival poi vidi American Beauty, da lì presi l’idea di una Lolita bionda come oggetto del desiderio e misi a fuoco anche l’urgenza dei personaggi, che era poi simile a quella raccontata dal personaggio di Kevin Spacey. In quel film i protagonisti erano quarantenni e io invece di anni ne avevo trentatré, lo stesso vederlo mi fece mettere insieme i pezzi del puzzle che avevo in testa da tempo. Tornato a Roma finii di scrivere la sceneggiatura. Ci misi un bel finale in cui i due protagonisti sono a letto con la bambina appena nata (nel frattempo ero appena diventato padre anche io), in cui la voce fuori campo del protagonista più o meno dice le stesse battute che sono rimaste nella versione definitiva, che poi è dichiaratamente la chiusa di Trainspotting. Fine. Domenico dopo averla letta mi disse: «Il film mi piace, va bene, ma non ha un finale». Mi rompeva il cazzo continuamente con sta cosa, però aveva ragione. Una mattina mi sveglio, come succede a volte, e ho il guizzo, inserisco nel finale il punto di vista di Giulia, il personaggio di Giovanna Mezzogiorno, quello che lei aveva elaborato dopo essere stata tradita e ingannata, raggirata, umiliata e offesa. Lo scrissi in otto minuti. Chiamai Domenico e gli dissi. «A Dome’ ho trovato il finale!». Credo che soltanto quella chiusa abbia determinato il 50 per cento del successo del film.

All’epoca L’ultimo bacio sembrava anche figlio di Magnolia di Paul Thomas Anderson, il parallelo lo facevano un po’ tutti. Questa è una storia incredibile. L’ultimo bacio se proprio ha qualcosa di Magnolia (ma io non credo) sono i grandi ponti musicali che legano le scene e le rendono epiche. In quel film la musica che univa tutto era una specie di bolero. Come il mio, che tuttavia avevo rubato da un’altra idea musicale simile, quella di una traccia presente nella colonna sonora di Schindler’s List. Posso dire con certezza che il brano di Magnolia aveva avuto la stessa intuizione e ispirazione. Lo so perché poi io con il compositore di quella colonna sonora, Jon Brion, ci ho parlato quando era in lizza per musicare i miei film americani. Ho scoperto così che anche lui e Paul Thomas Anderson avevano rubato l’idea musicale a quella stessa identica traccia di Schindler’s List, la n. 5, intitolata Schindler’s Workforce. Quindi alla fine io, con il mio compositore Paolo Buonvino, rubando da Schindler’s List avevo ripreso quel che già era stato rubato da Magnolia. E quel ritmo lì poi non me lo sono più levato, è un tipo di fraseggio musicale eccezionale che ti permette di mettere insieme cinque o sei storie senza mai interromperle ma anzi legandole, fa in modo che una sia il vagone che spinge l’altra. Prima ancora che Buonvino avesse finito di registrare la colonna sonora dell’Ultimo bacio, io ho montato il film con quella di Schindler’s List sotto. Ma non solo quello. Funziona così tanto che poi con quella traccia provvisoria ci ho montato anche altri film, perfino La ricerca della felicità. Cioè è il brano che ha il ritmo giusto che cerchi per i tuoi film? Sì, è una specie di cadenza senza grandi crescite ma con un battito regolare che mi aiuta molto ad accompagnare il ritmo del montaggio. È un brano veramente importante per il mio cinema.

Nel film però non usi solo la musica per dare il ritmo. Mi colpisce tantissimo come usi i rumori per incalzare. Quando Santamaria corre al capezzale del padre è il suo fiatone che dà il ritmo alla scena e piano piano quel fiatone si spegne assieme allo spegnersi del respiro paterno. È pazzesco, come se morissero insieme, come se con il padre, tramite il fiato, morisse una parte di lui, e poi subito dopo stacchi e c’è Giovanna Mezzogiorno che guarda una culla in vetrina. La morte, la vita. Tutto unito dal linguaggio del cinema. Sono queste le soluzioni che trovi sul set o in scrittura? Questa qui in particolare non era scritta, è venuta fuori durante le prove con gli attori e un po’ anche dalla loro chimica. Volevo che il padre morisse come io una volta avevo visto morire una persona, con quel tipo di respiro. Quando la girammo, Claudio Santamaria, arrivando di corsa, si portò dietro il suo fiatone naturale, creando questa sovrapposizione di un respiro che moriva e l’altro che incalzava sempre meno, la presa di coscienza che il padre sta morendo e che la sua vita sta cambiando per sempre. Anche perché devi ricordare che lui arriva di corsa dal concessionario dove con gli altri stanno trattando per comprare il camper, cioè viene dalla pianificazione della fuga da tutti gli obblighi di una vita che non voleva ereditare. Sempre in quella scena precedente, quella in cui stanno trattando per il camper c’è un altro rumore fondamentale, l’aereo che passa e rende la telefonata in cui gli viene annunciata lo stato morente del padre inascoltabile. Anche questa è un’idea emersa dagli attori? È l’antica legge di Ultimo minuto: se sul set accade qualcosa che non avevi previsto devi poter essere in grado di capire se puoi usarla, se ci sta bene. Lì passavano continuamente questi aerei e non riuscivamo a girare. L’idea era di abbracciare la cosa e inserirlo. Ovviamente poi perché venisse bene il sonoro dell’aereo l’abbiamo rifatto in post ma era capitato davvero

che passasse un aereo e mi aveva fatto pensare che non fosse male come ponte, perché di fatto accade che Claudio sia assordato da qualcosa di talmente grosso che non può comprendere. Una delle chiavi del film è Martina Stella, che hai scoperto tu e che è perfetta per il ruolo. Cosa cercavi quando facevi i casting? Cercavo American Beauty come ti dicevo: la bionda. E quando ho visto Martina Stella, anche se non era la migliore che avessi provinato, ho capito che ci potevo lavorare. Pensa che la mia prima scelta era tutt’altra, era Giulia Michelini, che non faceva l’attrice. La vidi in una palestra in cui andavo in Prati, un posto spartano dove lei faceva ginnastica artistica e io corpo libero. Mi accorsi subito di quanto fosse interessante e le dissi che ero un regista e anche se non mi conosceva stavo facendo un film, le diedi il biglietto da visita del casting director, Francesco Vedovati, pregandola di chiamarlo e presentarsi. Mi piacque immediatamente e anche il provino andò benissimo. Solo che poi arrivò Martina Stella e anche se era più acerba e meno brava era più in linea con il personaggio. Non aveva esperienza, stonava ogni tanto nel dire le battute e faceva delle pause sbagliate, era insomma priva di musicalità. Eppure sentivo che c’era qualcosa. La scommessa fu sul fatto che sarei riuscito ad aggiustarla in tempo. Aveva i capelli tinti male ma tanta fame di lavorare, la fame che alla fine ti fa arrivare. La fame con la mamma fuori ad aspettare. Poi Giulia Michelini l’hai presa a recitare nel film subito successivo, Ricordati di me E in A casa tutti bene! Quando posso ci lavoro molto volentieri. Il film è tutto recitato benissimo ma forse il finalone in cui i due protagonisti tornano insieme è la parte migliore del film. Giovanna Mezzogiorno fa un lavoro sublime sul lento

cedimento della sua rabbia al sentimento e alle promesse di lui. Ho capito che arrivi a questi risultati facendo moltissime prove, ma di quanto parliamo? Ti ci vuole molto? Diciamo che se il risultato finale è a livello 10 di intensità, noi nelle prove arriviamo molto vicini, proviamo fino a raggiungere un 7. Di più nelle prove è fisicamente impossibile. Per far dare il meglio agli attori quanto li devi dirigere, quanto devi essere tu a spingerli? Molto, in questa scena della riconciliazione finale per esempio io volevo che lui la toccasse. Se non ricordo male c’è un backstage in cui si vede proprio che gli chiedo di mettere le mani in una certa maniera (come poi fa), si vede insomma che sto addosso agli attori in maniera quasi morbosa, gli dico quando baciare, come baciare, come carezzarsi. Pure nelle scene di sesso gli dico come fare, altrimenti non vengono come le voglio. Un conto è l’amore nella vita reale e un conto l’amore con la macchina da presa a mezzo metro di distanza. Insomma devi sempre stare molto attaccato agli attori se vuoi tirare fuori il meglio da loro, altrimenti tendono a impigrirsi e recitare con il pilota automatico, specie quelli viziati da tanta fiction o che hanno interpretato sempre lo stesso personaggio. Credo sia per questo che nei tuoi film ogni volta che due personaggi si baciano, l’uomo mette le mani sulla faccia della donna. Sì sì, gli faccio sempre prendere il volto di lei con le mani ma basse, in modo che non coprano davvero il viso. Qui ricordo che Giovanna ha fatto una cosa bellissima che non era prevista, quel «NO» che le scappa via forte. Bellissimo. Ecco quelle lì sono le gemme che arrivano a sorpresa. In quel «NO» urlato all’improvviso c’è tutto, esprime perfettamente quanto questi siano borghesi dentro. Cioè lui arriva e le dice «sposiamoci», «facciamo le carte» e con quello lei si addolcisce, comprata dall’idea del matrimonio, una cosa di

un’antichità assoluta. Quel «NO» che le scappa è un tentativo di resistere a tutto ciò ma in realtà non fa che dimostrare che sta crollando. Sono questi i veri borghesi, quelli per cui il matrimonio è un suggello con cui possiedi l’altra persona. Quando c’è una scena così importante e intensa gli attori hanno bisogno di tempo per arrivare al livello giusto di intensità o avendo fatto le prove sanno come arrivarci in breve? Quando si gira una scena così lo sanno tutti. Pure le maestranze sono in tensione. Sanno che è una giornata importante, e agli attori glielo leggi in faccia già quando arrivano la mattina, sono sempre un po’ carichi e se non lo sono è un problema, devo dirgli «Oh be’?! Che è successo ieri sera? Che hai fatto!?». È raro però e non è capitato per questa scena, erano fumanti, io ho dovuto solo spingere un po’ di più il tutto. E poi per questa scena mi ha aiutato il fatto di aver girato con una macchina sola. Se ci fai caso cerco sempre di fare in modo che loro ruotino nella scena così da inquadrare in ogni momento quello dei due che sta parlando o averli entrambi di profilo. L’ultimo bacio è praticamente un film di profili. E quando giri così, con una macchina sola molto mobile, gli attori si liberano del controllo su se stessi perché non sanno mai bene cosa io stia inquadrando e come. Tutto poi si chiude con un crane all’indietro, da lei che piange abbracciata a lui a salire. Quando giri quella parte, cioè sistemi il crane, loro si abbracciano, dai il ciak e lei deve partire a piangere, c’è bisogno di rifare tutta la scena per maturare il sentimento che scatena le lacrime? No, Giovanna è una professionista, piange a comando. In questi casi va pianificata bene la ripresa. È importante che prima giriamo il resto della scena, così che lei già abbia pianto, cioè già sia arrivata a quel sentimento, poi quando bisogna fare la parte del crane, deve solo caricarsi un attimo ed è in grado di riprodurre quell’emozione.

Non si usa quella sostanza che ti passi sotto gli occhi e ti fa lacrimare? Alle volte capita che alcuni attori la chiedano al truccatore, a volte di nascosto perché si vergognano di dover ricorrere a quella strategia. Ci sono però molti alti altri attori che soffrono autenticamente quando piangono. E dopo aver pianto hanno un down mostruoso. Rosario Dawson piangeva tantissimo in Sette anime, pure Amanda Seyfried piange tantissimo in Padri e figlie… ma anche Laura Morante piangeva davvero in Ricordati di me, soffrendo proprio. Sì lei piange in un’inquadratura bellissima e infame: nuda nella vasca da bagno… Di un’infamità tremenda. Ma anche in Padri e figlie Amanda Seyfried piange in una posizione terribile, disgraziata proprio, perché volevo vedere il corpo di una donna schiacciato dalla sua miseria e poi da lì lei si veste e decide di correre dall’uomo che dice di amare, alla fine. Che è un po’ semplice come chiusa con lei che dice: «Sono qua se mi vuoi». Un’altra scena che mi chiedo come abbiate fatto è quella in cui Pierfrancesco Favino fa bungee jumping, lo fa davvero? No. Era previsto che lo facesse ma poi non si è voluto buttare, ha avuto paura. Se ci fai caso lui lo vedi che lo legano, poi che si accuccia per saltare e poi quando proprio salta è inquadrato da dietro perché è un altro che salta effettivamente. Ma scusa lo si vede anche inquadrato da vicino, sul volto, mentre vola giù… È un trucco. In quell’inquadratura lui stava su un pick-up, aggrappato in modo che il vento lo scompigliasse, poi ho messo la macchina da presa a rovescio, così che sembri che stia a testa in giù. Infine va dentro l’acqua ma quella è un’altra inquadratura ancora, fatta a parte non mi ricordo nemmeno più dove. Detto ciò, Favino e nessun altro attore l’ha voluto fare ma finita la scena, Domenico Procacci è arrivato e, con una

calma zen, si è imbragato e in silenzio si è lanciato nel vuoto. Restammo tutti senza parole. Film come questo o Ricordati di me hanno tante trame tra cui salti e alle volte con il montaggio alternato ne segui anche due insieme. Come le scrivi? Le scrivo prima tutte lineari, cioè se pensi a L’ultimo bacio ho scritto prima tutta la storia di Carlo e Giulia, come fosse un film su di loro; poi scrivo tutta la storia di Paolo, cioè Claudio Santamaria; tutta la storia di Pasotti con la Impacciatore; tutta la storia di Marco Cocci… Una volta scritto tutto, le incrocio e così vengono fuori delle occasioni che ti portano a mutare la trama, perché prima non lo sai che alcuni dettagli possono coincidere in una certa maniera. È un telaio di trame che intersechi di fatto creando il film. Certo c’è quella principale, Carlo e Giulia, che segui sempre, e alle altre arrivi per la relazione che hanno con i protagonisti, come per esempio Stefania Sandrelli, a cui Giovanna Mezzogiorno fa praticamente da madre a sua volta. È una matassa complicata da cui esce la scaletta. Quando hai la scaletta, leggendola capisci se c’è confusione o no, è come vedere uno scheletro, se mancano delle vertebre te ne accorgi come ti accorgi se una vertebra è più grossa di un’altra e prende uno spazio enorme e dunque va tolta o ricollocata. È la radiografia della struttura del film e solo quando è abbastanza solida comincio a scrivere i dialoghi perché diventi una sceneggiatura. Insomma non sono il tipo che si mette alla macchina da scrivere e butta giù tutto insieme come fa Woody Allen, che tira fuori da un cassetto centinaia di bigliettini con sopra scritte in tre righe le idee raccolte nel tempo, decide in pochi minuti che film fare e poi si siede davanti alla macchina da scrivere e parte, correggendo come si faceva un tempo, sbianchettando o addirittura incollando le correzioni sui dialoghi. Ecco io no. Da anni uso un software di scrittura che facilita moltissimo la formattazione della sceneggiatura. Ma il lavoro che alcuni fanno con i post it o gli appunti, lo faccio direttamente sul

computer. Aprendo finestre, mettendo in coda a tutto le idee che non so come collocare in attesa di essere eventualmente rivalutate. Scrivere un film partendo dalla semplice scaletta degli avvenimenti è il lavoro più delicato e faticoso in assoluto. Quando la scaletta funziona e diventa trattamento, trasformarla in sceneggiatura è la parte più semplice. Questo non vuol dire che tutto a quel punto vada bene, ci sono le scene che giri ma in montaggio capisci che non sono venute bene e vengono inesorabilmente tagliate, perché magari frenano la velocità di crociera della storia o per mille altri motivi. Per esempio nell’Ultimo bacio c’era tutta una parte che ho tagliato che riguardava l’amica da cui va a vivere Stefania Sandrelli. Era lesbica e il personaggio di Stefania non lo sapeva. Ci provava pure con lei e questo la faceva sentire ancora più sola. Di quella traccia è rimasto un pezzettino quando lei rientra e la trova con un’amica in salotto. L’ho tolta praticamente del tutto perché sviava dal tema centrale del film. Oggi invece quello sarebbe un punto irrinunciabile della trama. Eh… Chi lo può dire… Tutto questo intreccio di storie poi lo tieni insieme anche con lo stile di ripresa e il camerawork, con i movimenti che fanno la staffetta tra scene. È un modo di girare molto più complesso della media italiana, sia oggi che figuriamoci allora. Tu ci sei dovuto arrivare a maturare questo stile ma le troupe? Come li hai abituati a fare cose che nessuno gli chiedeva per conoscenza, maestria e intensità? All’epoca ricordo che mi capitava spesso di raccontare una scena ad Arnaldo Catinari, il direttore della fotografia dei miei primi due film, mostrandogli come si sarebbe mossa la macchina da presa. Tipo che partiamo da qua, poi giriamo intorno qui, andiamo lì, torniamo indietro, prendiamo lei sul letto che si alza, la seguiamo e ci porta da lui, poi un piano a due, lui esce dalla porta e rimaniamo su di lei. Finito mi

voltavo e trovavo la troupe basita e Arnaldo che mi diceva che era impossibile. Gli dovevo giurare che si poteva fare. Così ho capito che davanti a uno che dice: «Se po’ fa!» la troupe trova la sua guida. E allora smettono di dirti che è impossibile. Questa esperienza di lavorazioni complicate poi è diventato un bagaglio delle persone che lavoravano con te, che si sono portati dietro anche quando giravano film di altri registi che quindi hanno beneficiato dei tuoi sforzi? È una dinamica che ho sentito spiegare a Stefano Sollima, quando tu fai qualcosa che non si è mai fatto stai anche creando nella tua troupe dei professionisti che lo potranno proporre ad altri registi. Be’ sì, dopo i miei film i microfonisti sanno seguire gli attori durante l’azione mentre all’inizio non sapevano trovare il loro posto in una troupe con operatore, assistente, microfonista e attori, che si muovono tutti insieme per lunghi piani sequenza. Non è facile e prima non si faceva. Quindi, con tutto il garbo e la gentilezza del caso, dovevi insegnare ad alcuni membri della troupe come fare una parte del loro mestiere? Non è proprio così, diciamo che li ho dovuti forzare a fare un salto che io invece avevo fatto nella mia lunga gavetta. Praticamente ero arrivato al cinema che avevo l’esperienza di un vecchio, e il problema di molti è che girando film fai degli errori di cui non ti accorgi fino a quando è troppo tardi per rimediare. Io avendo fatto molti errori prima di girare film, ne ho evitati tantissimi dopo. Con L’ultimo bacio hai vinto l’unico premio della tua vita a un festival, il premio del pubblico del Sundance Film Festival, il più prestigioso festival americano. Ho vinto con Baciami ancora anche il Festival di Shangai, che aveva una giuria di altissimo profilo, ma quello è sicuramente il premio più significativo che abbia vinto in vita. Il Sundance è un festival seguito da tutti i compratori e distributori del

mondo. E il premio del pubblico non te lo regala nessuno. Lo vinsi ex aequo con Bloody Sunday di Paul Greengrass. All’epoca sapevo così poco l’inglese che non avevo capito la parola “tie award” che vuol dire “premio ex aequo” in inglese. Così quando all’inizio lo dissero per avvertire che i premiati erano due io non lo capii. Prima nominarono Paul Greengrass, e tutti applaudirono, io un po’ mi risentii perché mi avevano detto di rimanere per la premiazione e mi aspettavo quindi qualcosa. E poi dicono il mio nome. A quel punto non capisco niente. Salgo sul palco e quel poco che mi ero preparato di inglese va a farsi benedire per l’incertezza e per il modo in cui ero stato preso in contropiede. Non capivo perché fossimo in due, parlavano e io stavo lì a dire solo: «Sì, grazie», capisco a un certo punto che devo dire due parole ma parlo un inglese così da aborigeno che il giorno dopo sul “New York Times”, nel dare la notizia della mia vittoria, scrissero: «Purtroppo non siamo riusciti a capire cosa abbia detto nel ritirare il premio». Un mio classico, direi. L’ultimo bacio fu un successone ma anche l’inizio delle critiche e degli attacchi. Sì, è un film che ancora oggi fa la differenza. Cioè se per esempio quando cerchiamo le location per girare e incontriamo dei proprietari un po’ restii a darci il permesso, se vado io mi si aprono porte inaspettate. Il rovescio della medaglia è che poi ce la fanno pagare di più, perché sanno che mi muovo con produzioni costose. E questo ha portato anche delle critiche, ricordo che leggevo queste cose che consideravo delle rotture di cazzo pazzesche. Cioè Ettore Scola, che io amavo tantissimo, a un certo punto si lamentò di «questo film in cui non ci sono i problemi reali della gente, non c’è il traffico». Il traffico! Ma perché? Mi sconsolavano davvero per la vuotezza della critica in sé e per le persone da cui venivano.

Non pensi che il fastidio provato da molti nell’industria fosse dovuto al fatto che comparso L’ultimo bacio, qualcosa di nuovo e diverso, il resto del cinema italiano di colpo era invecchiato? Può essere. Non sono io a poterlo dire. Quello che posso dire è che fino a Come te nessuno mai Suso Cecchi D’Amico, Monicelli e tutta la vecchia guardia dicevano: «Finalmente qualcuno che sappia girare!». Proprio Suso Cecchi D’Amico disse: «Questo ragazzo gira proprio bene!». Mi vedevano come la giovane promessa. Con L’ultimo bacio si ruppe tutto. Iniziai a leggere Monicelli che ne parlava male, Suso Cecchi D’Amico che ne parlava male e pure Moretti. Ci fu un massacro che poi paradossalmente portò ancora più gente al cinema. Era inversamente proporzionale: più il massacro aumentava, più la gente che lo amava litigava a spada tratta per difenderlo. Per anni mi è capitato che persone mi fermassero per strada raccontandomi di come avessero mollato tutto e fossero partiti e andati molto lontano. Soprattutto persone che mi raccontavano di come il film gli avesse perfino salvato la vita! Così dicevano! Erano persone che si erano separate proprio in virtù del film e mi ringraziavano, qualcuna addirittura che non si era proprio presentata all’altare. Ho fatto un po’ di ricerche sui giornali dell’epoca e ho trovato la recensione di Raffaella Saso su “Gli Spietati” che diceva «L’ultimo bacio ha una caratteristica sorprendente e insolita per un film italiano contemporaneo: racconta una storia che può interessare a qualcuno». E poi dall’archivio di “Repubblica” ho visto che del film si è scritto con una certa continuità da gennaio fino a giugno! Anche dopo, l’espressione “L’ultimo bacio” salta fuori in tantissimi articoli che parlano di altro, perché magari fanno riferimento alla “generazione dell’Ultimo bacio”. Diventò una cosa davvero mostruosa e io non sapevo come gestirla. Credo che riuscì semplicemente a fare qualcosa che il

cinema aveva dimenticato e invece i maestri avevano sempre fatto. Raccontare gli spettatori.

5 Pianse, mi salutò e poi non lo vidi mai più Ricordati di me (2003)

All’epoca della sua uscita Ricordati di me era considerato un film sulle veline e sui tradimenti. Visto oggi è tutto tranne quello, è uno dei film italiani più mesti e disperati degli anni duemila, capace di esprimere un bisogno di affermazione e di contatto con altri esseri umani come pochi altri. È quasi un seguito spirituale dell’Ultimo bacio per come prosegue su altri toni la medesima evoluzione del linguaggio cinematografico, fatto di movimenti di macchina che si attraggono e dialogano tra scene diverse, di una narrazione fatta di montaggi alternati tra situazioni diverse, ed è ancora più denso e potente di quel film. Tecnicamente mostruoso per come tiene in vita quattro trame separate e molto diverse insieme fornendo sempre l’impressione che si tratti di una trama unica. I protagonisti sono quattro, con un’aggiunta. Sono i quattro membri della famiglia Ristuccia, cognome che per la quarta volta identifica i protagonisti di un film di Muccino. In un ulteriore legame con L’ultimo bacio poi i genitori di questa famiglia si chiamano Carlo e Giulia, come Stefano Accorsi e Giovanna Mezzogiorno. Carlo riaggancia quasi casualmente i legami con una fiamma di gioventù, pensando che forse può

vivere con lei un’altra vita meno grigia e più soddisfacente; Giulia pensa di poter fare davvero l’attrice come aveva sognato da giovane e poi messo da parte; la figlia Valentina desidera entrare nel mondo della televisione ed è pronta a tutto; il figlio Paolo si sente l’ultima ruota del carro, cerca una donna ma soprattutto una conferma di poter essere importante anche lui. Il membro aggiunto è Alessia, l’amante di Carlo alle prese con una famiglia disastrata anche lei. Noi guardiamo tutto accadere nelle loro vite contemporaneamente. Ricordati di me è ancora un film di sentimenti e di introspezione ma con una voglia di usarli per commentare la società molto più forte di prima. Temi all’epoca poco discussi e oggi invece ubiqui, come il corpo della donna, l’antipolitica, le dinamiche di potere tra sessi e la dialettica tra essere e apparire, dominano la vita dei Ristuccia che come predatori invece di combatterli li cavalcano per affermare in modi confusi e disperati il loro essere qualcuno per poter brillare ancora, almeno agli occhi degli altri. Ricordati di me fu di nuovo un successo al botteghino e se L’ultimo bacio aveva fatto discutere, questo film così provocatorio, politicamente preciso, analitico e duro, portò a Muccino ancora più nemici. Nemmeno un David di Donatello a fronte di moltissime nomination, gli fu preferito il più convenzionale La finestra di fronte in quasi tutte le categorie. Non vinsero gli attori (tutti nominati), non vinse Gabriele Muccino e non vinse nemmeno Domenico Procacci, che ricevette comunque il premio al miglior produttore ma per un altro film per il quale era nominato, Respiro di Emanuele Crialese, produzione certamente meno ambiziosa, complicata e audace. Questa volta Gabriele Muccino si era macchiato di un peccato imperdonabile, era evaso dal genere che già gli andava stretto, quello delle commedie e dei melodrammi, per andare a pestare i piedi al cinema politico da un punto di vista

libero. Era feroce con lo spettacolo, era cupo nella visione del mondo ed era commovente. Ma non era militante in nessuna maniera. Aveva molte idee e molto chiare ma non era ideologico. E questo se non è un problema per il pubblico, lo è per il cinema italiano. Non vedevo questo film dall’anno della sua uscita e l’impatto che ha oggi è completamente diverso da come lo ricordavo, ancora più forte e potente, forse il tuo film che più è cambiato negli anni. Tu come te lo ricordi? Non rivedo praticamente mai i miei film ma questo è l’unico che ho visto da poco, qualche settimana fa, perché l’ho beccato in televisione. E che effetto ti ha fatto? Bello. Stranamente. Ho trovato il terzo atto fortissimo e l’incipit pure. Forse la parte centrale è un po’ più debole, anche se nonostante i miei timori devo ammettere che scorre. Certo verso la metà sarebbe servito un guizzo in più, mi sarei dovuto inventare qualcosa… Molti registi negli ultimi anni hanno rimontato i loro classici per migliorarli, l’ha fatto anche Matteo Garrone con Gomorra. Anche a te è venuta voglia di farlo? Impossibile. Quel film è un puzzle, tutto a incastri, non si può toccare niente altrimenti cade tutto, che poi è come sono i miei film di solito. Ma quella parte in cui Laura Morante si innamora del suo insegnante di recitazione, Gabriele Lavia, non gira. Non per loro, anzi sia lei che Lavia sono bravi ma proprio portare quel personaggio a innamorarsi, con poi lui che le dice di essere gay era un po’ troppo, un po’ stupido… C’è qualcosa che ti ha colpito più di altro? Nicoletta Romanoff. Non mi ricordavo che fosse stata così brava, che avesse quella carica fortissima, quella fame! Molto potente. Chissà perché nella mia testa era un po’ più acerba,

invece no. Di certo anche all’epoca avevo compreso che era un carro armato e infatti ricordo che la spingevo più degli altri, perché sapevo che poteva dare tantissimo. Poi io in generale come tecnica cerco sempre di dare quest’aria spiritata agli attori per farli vibrare. Parli del “fiatone” dei personaggi dei tuoi film? Più o meno. Io non lo chiamo così. È un modo di dirigere che ho messo a punto definitivamente proprio con lei in questo film. La scena simbolo è quella in cui con Enrico Silvestrin (il presentatore della trasmissione in cui vuole entrare) si prendono a schiaffi perché lui è andato con un’altra. Lì lei doveva essere molto calma fuori mentre ribolle dentro. Doveva avere un uragano in sé trattenuto a fatica ma non riusciva a coniugare le due cose: battito cardiaco alto e apparenza dolce e mansueta. Allora l’ho fatta urlare, urlare tantissimo. Mi pare si veda anche in un backstage che è stato pubblicato. Sia lei che Enrico Silvestrin provano tutta la scena urlando fortissimo, così tanto che in modo molto naturale gli si alza il battito cardiaco, l’adrenalina va a mille, diventano rossi. A quel punto, boom, do il ciak e devono recitare la scena ma normale, senza urlare, tenendo a bada il cuore che pompa. È un metodo che non aiuta proprio tutti gli attori, devi avere un po’ di pudore, un pudore che urlare in quel modo scardina, così che il cervello registri la cosa come uno shock. Il corporeagisce preoccupandosi, dilatando le pupille e facendo pompare il sangue. Quando giro scene o di flirt o d’amore o di rabbia o anche di gelosia, quelle insomma che richiedono le palpitazioni accelerate, ancora oggi faccio urlare gli attori fuori scena prima di iniziare a girare. Nonostante sia un film con quattro protagonisti ho sempre l’impressione che siano i due figli, per l’appunto Nicoletta Romanoff e tuo fratello Silvio, ad avere i personaggi più fuori dagli schemi. Specialmente quello di Silvio è un personaggio

così strano, con una parabola di un’amarezza incredibile. Da dove viene? Ammetto che non lo so come e da dove vengano le idee. Non hai mai la classica paura dei creativi che a un certo punto si esaurisca la creatività e smettano di arrivarti idee nuove? Ti devi innaffiare continuamente, ti devi stimolare, devi vedere cose nuove. Quando ho girato Gli anni più belli per esempio non avevo un’idea chiara, però come ti ho detto ho sempre un film a cui fare riferimento, in quel caso più di altri lo avevo ed era C’eravamo tanto amati. Attingendo a quello ho trovato un perimetro chiaro e definito. Dentro quel perimetro ci ho messo me stesso, perché quello che manca, la cosa più difficile, non è tanto l’artigianato, cioè girare un film o farlo recitare agli attori o ancora scrivere i dialoghi giusti, cosa che mi riesce abbastanza facile, ma capire quale sia il perimetro del film, cioè cosa racconti la storia e come si evolva. L’idea di fare un film come Ricordati di me, che non ha un argomento solo, chiaro e diretto ma tanti affastellati, come nasce? Nella maniera peggiore: improvvisando davanti a una platea di esercenti. Ero a Sorrento alle Giornate professionali di cinema, un evento che si teneva due volte l’anno (adesso una volta a Sorrento e una Riccione) in cui tutti i distributori presentano ai proprietari di sale cinematografiche i loro film per fare in modo che li scelgano al posto di quelli della concorrenza, quando poi usciranno. Spesso portano dei talent a parlare del pubblico a cui può piacere un certo film e a dare rassicurazioni. Io stavo lì con Domenico Procacci sul palco, per Medusa, e qualcuno mi chiede quale sarebbe stato il prossimo film. D’istinto gli dico che sarebbe stato un film sul mondo delle veline e della tv a partire da una frase che avevo letto il giorno prima! L’aveva detta Alessia Fabiani, la

showgirl: «Le brave ragazze vanno in paradiso, le cattive ovunque». Una frase così è una bomba, accende la fantasia. E infatti poi l’ho pure messa nel film. Il giorno dopo c’è già il titolone sui giornali. Domenico Procacci nemmeno lo sapeva, ed era lì accanto a me. Ci è rimasto di sasso. Scesi dal palco mi disse solo: «Ma che cazzo…». Perché a quel punto lo dovevamo fare, non ci si poteva più tirare indietro e non l’avevo nemmeno discusso con lui. Ma che ti devo dire? È stata una sorta di epifania quella frase ed è incredibile quante cose c’erano in quel film che oggi sono ancora più rilevanti di allora, a partire dalla voglia di apparire e non essere. L’esibizione delle nostre vite attraverso i social network da TikTok a Instagram e via dicendo, è figlia di quell’edonismo e narcisismo che sentivo e mal sopportavo attorno a me mentre scrivevo il film. Solo al quadrato. Per certi versi è un film gemello dell’Ultimo bacio, almeno stilisticamente, il rovescio della medesima medaglia. In tutta la sua furia L’ultimo bacio è comunque positivo, sebbene con note amare, questo invece è amarissimo con vaghe note positive… È un film figlio dell’11 settembre. Del momento in cui il nostro orizzonte di colpo si è schiacciato e abbiamo cominciato ad avere paura di stare nei posti pubblici. E poi eravamo passati all’euro, che di colpo impoverì tutti. L’ultimo bacio parlava di persone che stanno bene. Ricordati di me con protagonisti di un ceto ugualmente molto benestante dipingeva un mondo nero, un paese che aveva perso la serenità. Eppure anche le critiche che ti riconoscevano una fattura fuori dal comune ti davano del conformista. È un discorso complicatissimo quello. E forse non lo posso fare io, che non sono animato da ideologie forti e non ho la consapevolezza critica di chi io possa essere come soggetto politico. La mia collocazione in quel senso è molto accidentale, il mio scopo era di raccontare la storia di persone

che avrei potuto conoscere. E soprattutto la mia, che sono presente in ogni personaggio. Ci sono nei personaggi dei miei film amici del liceo fuggiti in barca dopo la maturità, figli di avvocati benestanti… Mi fu dato pure del pariolino per quanto credo di non avere niente del pariolino (oltre a non essere cresciuto in quel quartiere). Confondono il fatto che io fin da Come te nessuno mai racconto quel microcosmo perché è quello che conosco davvero bene. Ma è una catalogazione che diventa riduttiva appena pensi ai film americani dove ho raccontato realtà che non conoscevo. Non è che per girare un film sull’antica Roma devi essere cresciuto al tempo di Nerone. Da ragazzo ero introverso, non mi ero spostato molto dal mio quartiere (al massimo fuori Roma per i piccioni), Roma la conosco ancora relativamente poco e la prima volta che ho spostato i miei personaggi lontano dalla parte di città che conosco, è stato per andare dall’altra parte della città per girare una scena dell’Ultimo bacio, quella della cascata dell’Eur. Per come ero cresciuto io, andare lì era come andare a in un’altra città. La scelta di raccontare quelle storie lì e non gli operai di Livorno era vista con sufficienza. Non ho mai fatto un cinema impegnato, che raccontasse le persone più in difficoltà, non ho mai fatto un cinema ideologico. Che poi i film che io adoro, quelli di Scola e di Petri sono profondamente ideologici, hanno una morale politica molto forte, ma nella mia generazione quella spinta e quelle idee si erano molto affievolite, scomparse addirittura in certi casi. E alla fine anche io, benché abbia delle idee politiche chiare, non mi sento un soggetto politico e non voglio fare un cinema ideologico. In realtà, che tu lo voglia o no, film come i tuoi che raccontano la società, inevitabilmente sono politici. Può non esserci una tua intenzione, ma non puoi fare a meno di infondere naturalmente una visione del mondo, del paese e dei rapporti di forza. Quindi una visione politica.

Sì lo so. Non si scappa. Forse racconto persone convenzionali perché lo sono anch’io. Non lo so o forse in qualche modo avrei voluto essere più convenzionale di quanto non sia, avere una famiglia unica, con uno o due figli e invece non ci sonoriuscito. La mia prima relazione con un figlio è fallita per colpa mia, perché mi sono innamorato di un’altra donna e ho mandato tutto all’aria, da lì è stato il caos. Il mio impeto e la mia voglia di esplorare si sono sposate insieme. Sai che mi è capitato spesso di notare che i miei film anticipassero quella che poi sarebbe stata la mia vita personale. Io volevo essere come mio padre ma non lo sono. Lui era un uomo dai valori patriarcali, di principi, comunista. Molto comunista. E benché io non sia un conservatore ma una persona di idee progressiste alla fine non ho le convinzioni che aveva lui. So di essere vicino alla sinistra ma anche di non essere una persona ideologicamente di sinistra. Anche per questo un pensiero progressista e non di più, è quello che posso portare nei miei film. La politica, quella vera, nei miei film è sempre uno scimmiottamento, sono i ragazzi che fingono interesse per l’occupazione o il collega di Bentivoglio che fonda un partito che per certi versi aveva slogan simili a quelli che sarebbero appartenuti molti anni dopo al Movimento 5 Stelle. Che tuttavia all’epoca in cui tu hai girato Ricordati di me erano cavalli di battaglia di Berlusconi. L’antipolitica, il venire dalla società, il non identificarsi con le tecniche e gli inciuci dei partiti tradizionali… È vero, era un innesco di Berlusconi quel dire «Non siamo di destra, non siamo di sinistra e non siamo nemmeno craxiani», ma concepire solo l’idea di un generico popolo opposto alla classe dirigente. Ed è la stessa cosa, solo più dichiarata, che avviene in Gli anni più belli, con il personaggio di Santamaria, quello che tra i tre amici non sapendo che fare si candida con i 5 Stelle che io ho chiamato Movimento del Cambiamento perché non ci diedero la liberatoria.

A dispetto di tutto quello che hai appena detto Ricordati di me inizia con le immagini dei Parioli e una voce fuori campo che dice «… questo era il quartiere dei gerarchi fascisti e oggi è il quartiere dei professionisti…», che è una frase che non ha niente a che vedere con tutto quello che il film sarà. Perché ce l’hai messa? Era la voce di Omero Antonutti, attore storico del cinema italiano che avevo amato in La notte di San Lorenzo dei Taviani, e che in quegli anni aveva avuto successo come voce narrante grazie al Favoloso mondo di Amélie e aveva una specie di strano tono da favola. Partendo dall’ambientazione volevo dare un po’ l’idea che tutte queste persone del film desiderassero vivere una propria favola, avevano l’ambizione di fare un percorso da favola e magicamente cambiare le proprie sorti. Solo che è una favola della nostra società, una che si porta dietro retaggi antichi e quindi “il quartiere che era dei gerarchi fascisti”. Sia ben chiaro però che non sono cose ragionate, lì per lì le scrivo di getto perché mi paiono adatte. Solo dopo metto insieme i pezzi e capisco che senso logico potessero avere. Tutto il film è pieno di momenti in cui i personaggi si parlano e sono inquadrati uno di fianco all’altro, mentre guardano la televisione davanti a sé invece dell’interlocutore. La tv è sempre un sottofondo, in tante scene, cosa che all’epoca si faceva pochissimo nel cinema italiano. E quando i genitori litigano fai lo sforzo di far funzionare quasi sempre la scena su due piani, il litigio in primo e dietro, sfocati o non, i figli. È un film con tantissima sofferenza. Tutti si risolvono alla fine tranne uno, Bentivoglio, che finisce chiuso in bagno a ripetere gli stessi errori. E questo è qualcosa a cui, in generale, credo. L’evoluzione, nella vita, è molto complicata, richiede una forza di volontà e una disciplina che io non credo di avere, purtroppo. Nella maggior parte dei casi si finisce a tornare nel luogo da cui si pensava di essere scappati.

Anche questo come L’ultimo bacio era un film prodotto con Medusa che poi lo avrebbe distribuito. E loro ovviamente erano e sono un gruppo di Berlusconi, lo stesso proprietario dei canali televisivi delle veline che mandavano in onda trasmissioni come quella che si vede nel film che tu hai chiamato Alibabà ed è il classico quiz con un presentatore contornato da ragazze. Insomma Medusa era parte del mondo che il film tratta malissimo. Non ti hanno fatto problemi? No, sono stati dei veri signori. E dire che io sono proprio un rompicoglioni, cioè mica mi stavo zitto. Ho un po’ questa tendenza autolesionista che mi porta a cercarmi le rogne, come se tentassi inconsciamente di tornare il pugile suonato che ero da adolescente, uno che le prende e basta. Questo, unito alla mia indole da provocatore, fa molti danni e si trova nei film. Sia che vengano bene sia che vengano male i miei film cercano sempre un po’ di dare fastidio allo spettatore. Insomma non ho tenuto un basso profilo su quella questione quando ne parlavo, eppure, se Ricordati di me si è fatto, è stato solo grazie all’enorme aiuto di Giampaolo Letta, amministratore delegato di Medusa, e di Mario Spedaletti, produttore. Loro due hanno lavorato proprio su Mediaset. Lo studio in cui io ho girato, quello della finta trasmissione televisiva, è lo studio di Passaparola. Per fare un film in cui parlo non proprio in modo edificante della tv e per mettere in scena una trasmissione trash con un conduttore laido mi hanno dato lo studio della loro trasmissione di punta! E tutti erano tranquilli? Assolutamente no! Gerry Scotti, che all’epoca conduceva Passaparola, solo quando il film uscì e lo vide scoprì che avevo usato la sua creatura per raccontare quanto fosse compromesso e corrotto il sistema televisivo. Rilasciò due tre interviste di fila in cui faceva fuoco e scintille. In cui diceva che aveva autorizzato le riprese avendo fiducia nei vertici Medusa e che non sospettava ci fosse un imbroglio dietro. Ma

un po’ tutti i personaggi televisivi all’uscita mi si rivoltarono contro. Ricordo che andai a Quelli che il calcio, all’epoca condotta da Simona Ventura, e benché non fosse una trasmissione Mediaset ma Rai fu una vera imboscata. Mi misero in mezzo, lei e un altro che non ricordo, forse un allenatore di qualche squadra (io poi non so niente di calcio…): «Muccino, lei che dipinge queste povere ragazze come dei demoni…». Striscia la notizia fece tre o quattro puntate tutte contro di me. E una anche contro la Bellucci sostenendo che anche lei era una velina perché aveva fatto un calendario! Dieci anni dopo con gli scandali del Bunga Bunga c’è stata l’unica possibile risposta a quelle accuse. Con il senno di poi si può dire che ero andato troppo vicino al fuoco senza rendermene conto. Striscia la notizia si sarà sentita la più bersagliata di tutte probabilmente… Ma infondatamente! Certo il termine “velina” nasce con loro. Ma io quel termine non l’ho mai usato nel film. Le chiamavo genericamente showgirl. Se penso a quello che mi era stato raccontato mentre preparavo il film da chi in quelle tv ci lavorava, avrei potuto dire molto di più, e questo loro lo sapevano. Tu poi pochi anni dopo hai lavorato anche a una pubblicità con Francesco Totti e Ilary Blasi, che era stata a Passaparola più o meno in quegli anni lì. È mai uscito il discorso? No, mai. Ma considera che preparando il film ero anche andato a vedere le registrazioni di Striscia la notizia, avevo parlato con Elisabetta Canalis e l’altra velina ma non mi diedero soddisfazione. Non si sbottonavano. Invece quando andai a vedere le registrazioni di Passaparola iniziai davvero a capire. C’era un altro clima. Ricordo per esempio una letterina, una rossa di capelli, che non ricordo come si chiamasse, che sgomitava tantissimo. Chiesi anche di poter

assistere alla trasmissione dalla regia e lì dentro, nella stanza chiusa della regia, si sono proprio aperti i rubinetti. Nel film pure c’è una scena nella regia, è quella lì? Sì e non solo. La persona che nel film fa il regista della trasmissione finta, Alibabà, è il vero regista di Passaparola. Erano totalmente compromessi con noi. Tranne Gerry Scotti, sapevano tutti cosa sarebbe accaduto. Sapevano che ero il regista dell’Ultimo bacio e che il film avrebbe avuto una certa risonanza. Non avevi avuto anche una storia con Elisabetta Canalis a un certo punto qualche anno dopo? Lei che era velina esattamente negli anni in cui usciva quel film non ce l’aveva con te? No, è semmai Antonio Ricci che me lo rinfaccia ogni volta che lo incontro. E sono passati anni! L’ultima volta quando si parlava di andare a promuovere un mio film a Striscia, ma alla fine non si fece, disse: «Prima dici dici, poi ti metti con la Canalis». Era il 2015 e quei fatti risalivano al 2003! Elisabetta invece mai niente, quando eravamo insieme mi parlava della disavventura amorosa con Vieri. Era finita male e non l’aveva ancora veramente superata. Fa un po’ ridere che sia stata con Vieri e poi con George Clooney ma in mezzo ci sei stato tu! La mia storia con lei durò solo pochi mesi. Però, pochi anni fa mi è capitato di stare a cena con George Clooney. Entrambi sapevamo che c’era questa cosa a unirci ma nessuno ha detto niente. Immagino il clima… No, guarda lui è una persona molto divertente, un compagnone. Come Russell Crowe. Potrebbero essere migliori amici se non si odiassero. Perché si odiano?

Quello che so io è che tutto nasce dal fatto che uno dei due fa pubblicità mentre l’altro si è storicamente schierato contro l’idea che gli attori facciano pubblicità. La scena delle selezioni televisive a cui Nicoletta Romanoff va accompagnata dalla madre è eccezionale, una scena di massa in un posto terribile, un’ambientazione squallida e un tono generale di tutte le persone coinvolte che è particolarissimo e suona subito verosimile. Eri andato a vedere dei veri casting televisivi per riuscire a farla così? No. È una cosa che ho scoperto piano piano. Me l’ero fatto descrivere visivamente ma il mio riferimento per questo film era Bellissima di Luchino Visconti, almeno per la meccanica del successo. L’unica cosa che ho visto sono state le file fuori. Un giorno mi imbattei in un mare di ragazze con le loro madri che aspettavano di entrare in un complesso, chiesi che stesse succedendo e scoprii che erano i casting di Striscia la notizia. Sarà capitato un anno prima del film ma mi è rimasto impresso e l’ho usato per disegnare la scena. Mentre il tono della parte al chiuso viene sempre da quei sopralluoghi allo studio di Passaparola, lì ebbi proprio quella sensazione da mercato delle vacche. Per tutto il film salti di storia in storia e ancora più che nell’Ultimo bacio associ due o più momenti tra di loro. È un continuo di montaggi alternati tra eventi che capitano contemporaneamente. Per esempio la festa a cui vanno Nicoletta Romanoff e Laura Morante è montata in alternato con un dialogo importante tra Fabrizio Bentivoglio e Silvio Muccino, poi nella scena di Laura Morante entra Andrea Roncato e in quella di Bentivoglio si inserisce un’altra situazione ancora con cui alternare, quella di Monica Bellucci a casa sua. Altre volte gli abbinamenti tra scene contemporanee sono davvero sorprendenti, come li decidi? Rispetto all’Ultimo bacio qui l’idea è di non perdere mai le tracce di cosa facciano gli altri. Alle volte uso il montaggio per

degli inserti brevissimi come, se ci fai caso nella lunga sequenza della festa che dici, il momento in cui Nicoletta e Laura sono assaltate dai paparazzi dura pochissimo; in altri casi invece prendo una ripresa unica, come è quella di Monica Bellucci in casa con suo marito, e la spezzo saltando altrove e poi tornando lì. E poi ovviamente cerco anche di abbinarle con il saliscendi di emozioni. Uno dei momenti più bassi di Monica Bellucci è alternato con quello in cui Nicoletta Romanoff sta al massimo, ma sono tutti momenti che associo a istinto. È come scrivere una partitura musicale in cui è la musica stessa che mi spinge ad abbinare gli opposti oppure in certi casi ad abbinare per concordanza. Come la scena di cui avevamo parlato per L’ultimo bacio, quella della morte del padre di Claudio Santamaria abbinata a Giovanna Mezzogiorno che guarda una culla in una vetrina? Esattamente. Quello, lo riconosco, avviene a un livello più razionale. In molti altri casi però è funzionale a tenere viva nello spettatore la trama. Dobbiamo tracciare come sta andando la situazione familiare di Monica Bellucci, in modo che quando incrocerà di nuovo i protagonisti tu non abbia l’impressione che sbuchi all’improvviso. È come costruire una casa, devi fare in modo che le stanze siano facilmente accessibili, le finestre al posto giusto e solo alla fine sceglierai l’arredo che definirà chi in quella casa ci abita. Parte delle scelte servono a creare stabilità mentre altre, come il fatto che proprio alla festa della figlia sia la madre a venir rimorchiata, servono a spiazzare e quindi a mettere continuamente legna sul fuoco. Ancor di più se lui è Andrea Roncato e interpreta se stesso. Quando prendi uno come lui lo fai perché pensi che nella testa degli spettatori è legato a un certo tipo di personaggi conquistatori un po’ squallidi?

Io ho preso Andrea Roncato perché volevo che facesse Andrea Roncato. La versione anziana dei suoi personaggi. Che è la stessa cosa che ho fatto con Gabriele Lavia e per certi versi con Pietro Taricone, a cui Nicoletta Romanoff dice «Mica voglio durare pochi mesi come te», che un po’ in quel momento era la parabola a cui era legato nell’immaginario, quella della fama effimera e subitanea. Tuttavia non ragiono nei termini di quello che il pubblico già pensa di loro ma semmai in quelli della loro natura più chiara ed evidente. Se hai davvero vissuto determinate esperienze ti si vede addosso. Se scegli gli attori per quello che hanno realmente vissuto loro lo tireranno fuori anche quando non credono di farlo. Lavoro come un avvoltoio, non necessariamente prendo l’attore più talentuoso ma quello la cui natura può essere utile al film (com’era capitato per Martina Stella), così che non debba rappresentare qualcun’altro. Cioè il modo in cui parla Andrea Roncato è così autentico che io non devo dirgli proprio niente, va già bene così; come pure Enrico Silvestrin che è un tipo molto eclettico e appena lo metti in una trasmissione televisiva grossolana è già lì da sempre. Enrico Silvestrin pure è uno che ti sei portato dietro tanto, fin da Ecco fatto, anche se poi ha saltato L’ultimo bacio. L’avrei voluto anche in quel film, avrebbe interpretato uno degli amici di Accorsi, ma era impegnato e ricordo chiaramente che mi disse: «Questo è il film che ti consacrerà e io non lo posso fare!». Non era un attore quando lo incontrai la prima volta, me lo presentò la mia agente che credeva molto in lui. Anche il personaggio di Silvio è modellato su di lui? Quel personaggio lì, Paolo, era decisamente scritto pensando a Silvio. Ci sono delle cose che dice che lo identificano proprio per com’era in quel periodo. Eravamo molto uniti, più uniti che mai io e lui, ma all’epoca non potevo davvero prevedere che percorso avrebbero preso la sua vita e la sua professione.

Nel film il suo personaggio è colmo di rabbia e risentimento. Non ero affatto consapevole di aver toccato la parte più nascosta e scura della sua personalità, altrimenti sempre solare, anche se con continui sbalzi di umore che per la sua età, alla luce dei fatti accaduti in seguito, non erano proprio normali. Ma lo amavo talmente tanto che anche quegli sbalzi vertiginosi, quegli alti e bassi così profondi che si alternavano più volte al giorno, non innescarono in me e nei nostri genitori un campanello d’allarme. Come ti ho detto infatti ero stato io con Come te nessuno mai, dopo aver scritto con lui il film, a convincermi, provino dopo provino, che fosse in grado di interpretare il protagonista. Quindi a tutti gli effetti lui che a quindici anni, come quasi tutti gli adolescenti, non aveva idea della sua vera identità e cosa avrebbe voluto essere nella vita, fu catapultato da me in quel film da cui uscì come un fulmine a ciel sereno, una sorpresa assoluta che traslava la verità di una generazione e la portava al cinema senza mediazioni. Poco dopo realizzammo Ricordati di me, e quel personaggio ombroso e indefinito che gli avevo scritto addosso era il risultato di un’intuizione del mio inconscio di cui non ero consapevole. Nel film c’è un momento che, quando l’ho rivisto a distanza di tempo, mi ha letteralmente straziato. Il suo personaggio, Paolo Ristuccia, dice delle cose che poi Silvio ha davvero detto sette-otto anni dopo, pregne della stessa disperazione e frustrazione evidentemente covata in silenzio nel tempo: «Io vi farò vedere chi sono! Ve ne pentirete e capirete!!!». Quella scena con la madre è esattamente la definizione di Silvio che a un certo punto si scolla da me, si scolla dalla famiglia, addirittura si scolla da Carlo Verdone con cui stava facendo dei film e da Aurelio De Laurentiis e Giovanni Veronesi, con cui erano molto amici. Si scolla da tutti quanti solo per dire: «Io vi farò vedere che valgo qualcosa». Mi sono chiesto per anni cosa gli sia accaduto, come abbia potuto tranciare di netto un fratello con cui non aveva avuto un

singolo bisticcio in tutta la vita e che per lui avrebbe donato un polmone se fosse stato necessario. Ho provato a scrivergli, a incontrarlo, persino a offrirgli un grande ruolo in un mio film recente. L’ultima volta che l’ho visto dal vivo è stato nel 2007, quando venne a casa mia a vedere Sette anime prima che uscisse al cinema. Rimase profondamente sconvolto. Ricordo che pianse, che mi salutò e poi non lo vidi mai più. È stato un lutto dolorosissimo, il lutto per una persona viva. Poi ha preso e dichiarato pubblicamente cose sul mio conto, cose non vere che mi hanno ferito tantissimo. Ma come tutti i lutti, anche questo ha avuto la sua elaborazione e oggi, ormai da qualche anno, ho accettato la sua scomparsa, in qualunque forma lui abbia deciso di esprimerla, e non soffro più per lui. Non soffrire per una persona che si è amata tanto significa anche non pensarla più. Penso volesse disperatamente uscire dalla mia ombra e alla fine, con un sentimento per me più vicino alla compassione che alla rabbia, c’è veramente riuscito. È riuscito a uccidere una parte di me, la parte che lo amava e stimava, ovvero tutto, e a uscire dai miei pensieri per sempre. Come attore però aveva avuto successo anche oltre i tuoi film, era arrivato a scriverne e interpretarne uno con Carlo Verdone che è un trionfo! In pochi anni era arrivato ad avere il cinema in mano, tutti lo volevano. Io lo so, il successo fa sì che la realtà intorno a te cominci ad appannarsi, non vedi più bene, sei circondato di nuovi amici, nuovi consiglieri e questa confusione così improvvisa e assordante è una cosa terrificante che porta molte disfunzioni intime, anche nei rapporti con le persone più vicine e amate. Le dichiarazioni pubbliche che dicevi quali sono? Ne parlo ora per la prima volta in tanto tempo. Qualche anno fa, nel 2016, appena ero tornato a vivere in Italia, Silvio andò ospite in un programma televisivo. Mi descrisse come un

uomo violento, per la verità descrisse la mia intera famiglia come un vero e proprio clan in cui si davano regole di comportamento. Non so davvero di chi stesse parlando. Era fuori di sé. In tutto ciò fece rivivere una mia passata vicenda giudiziaria risolta e dimenticata da tempo. La puntata peraltro era stata registrata e dunque anche soppesata, sarebbe bastato che uno della redazione andasse a guardarsi in tribunale le carte per scoprire come erano andate realmente le cose. Ho saputo poi da fonti interne Rai che in quell’intervista fiume aveva parlato talmente male anche di mia madre che gli chiesero di tornare il giorno dopo per correggere il tiro ammorbidendolo. Era pieno di parole studiate a tavolino ma senza aderenza alcuna con la nostra vita. Tirò comunque fuori questa storia personale e tristissima, risalente al 2006, a dieci anni prima: parlò della mia ex moglie, si accusò di una falsa testimonianza resa al giudice per scagionarmi da un’accusa grave. Tante parole anche confuse e contraddittorie alle quali non ho mai replicato. Mi sembrava talmente basso il livello a cui era sceso che rimasi basito e senza parole per settimane. Cerco di ricostruire adesso e una volta per tutte quel che accadde: Silvio, senza contraddittorio, disse che avevo dato uno schiaffo alla mia ex moglie lesionandole il timpano. Ci fu una inevitabile eco sulla stampa, i media, i social… tutto quello che insomma era nelle sue intenzioni per distruggermi. Ma omise di dire due, tre cose fondamentali: la prima era che quella denuncia era nata all’interno di un divorzio estremamente conflittuale durante il quale, per ottenere il massimo del denaro possibile, furono depositate contro di me denunce infondate e pretestuose, che poi infatti puntualmente erano state tutte archiviate senza indugi dal giudice per le indagini preliminari, che neppure ritenne di sottopormi a un processo. Quell’accusa era parte di una strategia volta a spaventarmi per poi farmi accettare le esose condizioni economiche di divorzio. Pratica diffusa tra gli avvocati matrimonialisti e che i tribunali civili (e a volte penali)

conoscono purtroppo molto bene. L’archiviazione del caso del timpano lesionato (ed è il pubblico ministero stesso a scriverlo in una lucida e puntuale richiesta di archiviazione) non avvenne grazie alla testimonianza di Silvio (che è ciò che Silvio aveva affermato in televisione), poiché in quanto fratello la sua testimonianza aveva comunque un’attendibilità assai relativa. L’archiviazione avvenne grazie ad altre prove, ma soprattutto grazie alla presentazione dell’assicurazione sanitaria di famiglia in cui la mia ex moglie ammetteva una lesione del timpano pregressa alla nostra relazione. In seguito fui costretto a querelare Silvio pur di arginare la sua follia distruttiva. Distruttiva non solo per me ma anche per la mia famiglia, i nostri genitori, i miei figli, che poi sono i suoi nipoti. È la prima volta che in tanti anni parlo di questa vicenda così delicata, ma mi sembra anche necessario raccontare ciò che è divenuto di dominio pubblico (anche da un punto di vista semplicemente e prettamente giuridico). Questi sono i fatti. Non c’è altro da aggiungere. I film che Silvio ha fatto da regista li hai visti? Non tutti. Ne ho visti due, il terzo non ce l’ho fatta, anche se ero in aereo e non avevo altro da fare. Poi però la querela contro di lui l’hai ritirata, giusto? Sì, quando fu rinviato a giudizio. Come dice Lavia alla Morante in una scena di Ricordati di me citando Rilke: «Importante è ricordare ma ancora più importante è dimenticare». Ho preferito dimenticare. Hai detto spesso che Ricordati di me fa riferimento a Bellissima, ma è vero solo per una delle quattro storie, e comunque Laura Morante, a differenza di Anna Magnani, non spinge per il successo della figlia. Il tuo film in realtà è un mélo classico, così tanto che c’è anche l’incidente o la malattia, che non mancano mai al melodramma…

Il meccanismo di Bellissima che mi interessava non è tanto quello del rapporto madre/figlia, ma quello in cui finisce la figlia e che distrugge tutta la famiglia. Poi sì certo c’è molto altro. Diciamo che Bellissima era un riferimento che mi ero creato per tranquillizzarmi dopo aver sparato agli esercenti il tema del prossimo film. Pensando a Visconti mi sembrava di avere almeno un orizzonte in cui muovermi. Per me è importante pensare di poter effettivamente farlo il film, quindi chiarire a me stesso cosa sia o a cosa somiglierà. Questo è un film di gente che vuole apparire più che essere, persone che non coltivano mai la propria essenza ma preferiscono esibire la propria presenza. La distruzione del nucleo arriva perché tutti vogliono essere riconosciuti dagli altri, ognuno chiede a qualcun altro di vederlo in altri modi. Silvio è quello che lo vive in maniera più chiara e chiede alla sorella più volte «Ma tu come mi vedi?». Chiede poi al padre come fosse alla sua età e a un certo punto urlerà furiosamente di non essere come tutti credono che lui sia. Ti sembra che il film formi un dittico stilistico con L’ultimo bacio? Cioè che in tutta la tua filmografia questi due si somiglino. Sì, è vero. C’è una similitudine ritmica, stilistica e corale. Personaggi ai blocchi di partenza. L’ultimo bacio e Ricordati di me sono due film sul disincanto nei confronti della famiglia: nel primo i personaggi pensano ci sia tempo per rimediare davanti a sé, invece nel secondo sono tutti prigionieri del loro tempo: la Morante sa che se non fa oggi l’attrice non lo farà più, Bentivoglio sa che se non riama la Bellucci come una volta non la amerà più e la Romanoff sa che se non usa il suo corpo non ce la farà a entrare in quell’arena. Ricordati di me poi è più intrecciato e articolato dell’Ultimo bacio. Ha 320 scene contro le 220 dell’Ultimo bacio. È così pieno di cose, che cercai qualcun altro con cui scrivere. Ho sempre avuto il complesso di non essere un vero sceneggiatore perché ho fatto molto poco per diventarlo, mentre ho fatto

tantissimo per diventare regista. Avevo già cercato un partner di scrittura per L’ultimo bacio, ma con Lidia Ravera ero finito in un pantano. Era davvero una scelta sbagliata, voleva trasformare profondamente il ruolo della madre, che per me era invece chiarissimo e un giorno mi disse: «Ma sai… Questa Stefania Sandrelli… Questo personaggio è più mia nonna, non una cinquantenne, io non farei mai quello che fa lei». Scrisse delle parti talmente fuori registro che non se ne fece nulla. L’unica cosa che ho tenuto del suo lavoro, è la battuta: «Sei un cactus con troppe spine». Fine. Ricordati di me invece lo scrissi con Heidrun Schleef, che aveva vinto la Palma d’Oro con Nanni Moretti per La stanza del figlio. Mi aiutò superata la fase dell’outline, della scaletta fatidica insomma, e arrivò al momento di fare i dialoghi. Mi trovai molto bene con Heidrun e molte delle parti migliori del film sono sue. Un fan di questo film è Luca Guadagnino, l’ho sentito dire pubblicamente che lo ama moltissimo. È strano Luca. Ha un ego spaziale. Be’, è davvero molto bravo… Sì lo so, a voi critici piace. Però questo suo tentativo di essere bertolucciano mi affatica. I suoi film sembrano essere alla ricerca di una voce, senza mai trovarla veramente. Avrai visto Chiamami con il tuo nome dopo quanto se n’è parlato no? Sì. Quello tra l’altro è un film che lui aveva proposto a me. Quando ancora era solo produttore del film mi chiese se volevo girarlo perché, mi disse, «temo di essere troppo gay per farlo bene». Io ero molto interessato e fui anche parecchio sorpreso e lusingato dalla sua proposta. Però dopo aver letto e riletto la sceneggiatura ho capito che era davvero un film troppo difficile per la mia sensibilità. Avevo sinceramente paura di non saperlo raccontare. Certo Chalamet mi ha

incantato, è stata una scelta eccezionale, invece è l’altro attore, Armie Hammer che mi è parso del tutto estraneo al film, come presenza, credibilità e sensualità. Il problema che ho con quel film forse è proprio che non ho mai davvero creduto all’unione dei due protagonisti. Ma te l’ho detto, sono troppo legato a Bertolucci. Per me Novecento, specie la prima parte, è un’enciclopedia di cinema. Tutta la parte con loro da bambini, il vecchio, e poi i fascisti… Una pagina enorme per il cinema proprio per come è girato e raccontato. Bertolucci aveva quest’uso parossistico del crane, coreografico direi. Un gigante della forma che diventa contenuto. A proposito di coreografie, come ti ho già accennato, in tutto Ricordati di me è chiaro che fai molta attenzione a tenere i figli sullo sfondo delle litigate dei genitori. Il massimo è quando Nicoletta Romanoff segue i genitori nelle stanze di casa, appollaiata e preoccupata… Rappresenta la disfunzione morale all’interno della famiglia. Un po’ viene dal fatto che per tanti anni io stesso mi sono svegliato con mio padre che urlava litigando con mia madre. Poi non si sono mai separati, hanno ottant’anni e stanno ancora insieme, però io me le ricordo quelle urla, le ho molto subite. È una cosa che si trasferisce anche a te e al rapporto coi tuoi figli, perché non ti fai pudori a fare lo stesso. Era insomma una cosa brutta quella dei figli che assistono a litigate dure e volevo mostrarla. La sequenza più famosa, usata, citata e riproposta del film invece è il provino finale di Nicoletta Romanoff… È bellissima, quando ho rivisto il film sono rimasto impressionato. È una scena come potrei farne oggi, con tanti anni in più di esperienza. E comunque anche oggi dovrei impegnarmi per farla venire così bene. Ha tantissimi livelli di lettura dentro di sé. Ci sono i piani di chi la guarda, ognuno pensando una cosa diversa, e tantissimi dettagli eccezionali.

Poi anche quel grande studio televisivo. Sembra un grande film americano. È complicato fare riprese cinematografiche in uno studio concepito per riprese televisive? Come dicevo, era lo studio di Passaparola, forse ai tempi il più importante di Mediaset. Uno studio che sarà costato tre milioni di euro. Stato dell’arte. Ci puoi fare tutto. L’assetto luci era il loro, tutto vero. Io non mi sono portato niente, solo due macchine da presa. La differenza che vedi è data dal fatto che non solo le inquadrature sono da angolature che non si usano mai in televisione ma anche dal fatto che io giravo in pellicola mentre tu sei abituato a vedere questi studi inquadrati con telecamere. Quante volte avete dovuto girarlo per arrivare a questo montaggio? Solo quattro volte. Due volte lei è ripresa frontalmente e due volte lo studio è visto con lei di spalle. Ma il vero punto di vista del suo provino è quello a cui assistiamo dall’interno della sala regia. Attraverso i monitor e i commenti di tutto lo staff. Lo spettatore qui vede il personaggio di Nicoletta nella maniera in cui la vede chi le sta facendo il provino. La sera prima aveva preso gli schiaffi da Silvestrin e il giorno dopo è qui a sorridere usando il proprio corpo per piacere e farcela a tutti i costi. E poi finito il provino la corsa. Al rallentatore! Una corsa bella che poi è anche un po’ il senso della leggerezza e superficialità raccontate nel film. Nicoletta con i tacchi a spillo e una gonna così stretta che nella corsa le era salita fino all’inguine. Lei che corre dal padre in ospedale a dirgli che l’hanno presa. Vedendola correre durante le prove, avevo anche chiesto a un bambino che faceva la figurazione di correre assieme a lei. Era un’idea avuta lì per lì, lei sta anche correndo via dalla sua fanciullezza per diventare donna. Nella

sua testa si sente trasformata e quel bambino là dietro ci aiuta a realizzarlo. E qui c’è un altro abbinamento non male, prima un brano dall’allegoria sfacciatissima, Look At Me di Geri Halliwell, proprio musica commerciale spietata per un provino e poi per il ralenti della corsa vittoriosa un brano molto più sofisticato, Des ronds dans l’eau cantata da Françoise Hardy. Le scegli tu le musiche? Sì, le scelgo io aiutato dal mio consulente musicale, Giovanni Guardi, che mi aiuta a trovare i brani delle colonne sonore dei miei film italiani. Per come mi sono formato, non conosco troppo la musica pop, ho sempre ricevuto più suggestioni dalla musica classica. Probabilmente perché la musica sinfonica mi faceva veleggiare con la fantasia mentre il pop era un ascolto più leggero che mi stimolava di meno. Questo poteva anche essere un finale ma in realtà il film si chiude in un’altra maniera, praticamente finisce nella stessa maniera in cui inizia La signora della porta accanto di Truffaut, con due che erano stati amanti un tempo che si incontrano al supermercato, nessuno lo capisce ma dentro di loro si riapre un mondo. Quel film è bellissimo! Ci penso sempre a cercare di fare qualcosa di simile. Ricordati di me finisce che a tutti va bene tranne a quello dei quattro che si è fermato. A tutti questi personaggi molto fallati importa di dimostrare di valere qualcosa e tutti ci riescono tranne Bentivoglio, il cui viaggio è interrotto dall’incidente. Lui deve ancora proseguire il suo percorso, non può stare senza questa dimostrazione. Alla fine alcuni fanno anche una vita mediocre, moralmente parlando, come il personaggio di Nicoletta, ma sono felici. Perché alla fine credo che la felicità per ognuno risieda nel momento in cui sentiamo che il nostro spirito è in movimento, il sentire di essere in evoluzione, avere un orizzonte verso il quale correre e che sai di poter raggiungere. Per questo non do

un giudizio morale su come abbiano raggiunto il loro momento di felicità. Bentivoglio mi è sempre sembrato un po’ fuori parte però, ha un grigiume buono per il lavoro che fa ma molto meno per le velleità che esprime. Il punto è che il parco di star in Italia, cioè gli uomini belli, sexy e (all’epoca) quarantacinquenni era limitatissimo. O c’era lui o c’era Castellitto. Avevo anche pensato di invecchiare di dieci anni Accorsi ma sarebbe stata una forzatura. Bentivoglio è bravo quando fa l’uomo medio e rispetto a Castellitto è più credibile come uomo-fanciullo. Mi sembra quindi di capire che la scelta di Monica Bellucci non solo era arrivata prima ma non era proprio in discussione? È stata una mia scommessa quella, una super scommessa. La incontrai al Festival di Toronto quando L’ultimo bacio era programmato con una serata di gran gala proprio la notte dell’11 settembre 2001. C’era il tappeto rosso, un cinema da 2500 posti. Uscii la mattina di quella giornata e pensai «Che bella giornata! Che giornata fantastica!», poi tornato in hotel, tutte le tv erano accese, arrivato in camera accesi anche la mia e capii perché. Un’immagine assurda. Assurda. Da Independence Day. Non sono riuscito a capire da subito la gravità dell’accaduto ma essendo il festival pieno di americani c’era il panico, c’era chi piangeva e chi si disperava. Chi era di New York e voleva tornare di corsa a casa! Quando cadde la seconda torre realizzai anche io che non poteva trattarsi solo di un tragico incidente. Immagino fu annullata la proiezione. Sì, il film fu proiettato la sera dopo senza tappeto rosso, tutto molto più sobrio. La sala era comunque piena, avevano chiuso le frontiere tra Stati Uniti e Canada ed eravamo tutti bloccati lì, stavamo chiusi negli hotel perché c’era anche il coprifuoco

e non facevamo che guardare le notizie. Era pieno di agenti in cerca di nuovi talenti e fu in quei giorni che un paio di grandi agenzie si interessarono a me. Ci vollero dieci giorni per riuscire a tornare in Italia. Incontrai Monica Bellucci e iniziai a chiacchierare con lei quando eravamo entrambi all’aeroporto di Toronto, finalmente liberi di tornare anche noi a casa. Poco dopo quell’incontro, mi venne l’idea di una sfida contro tutto e contro tutti: provare a farla recitare. Le faccio un provino, capisco che non è facilissimo dirigerla, però penso anche di poterci riuscire lo stesso. Sul set la dovevo shakerare molto, si vede anche in alcuni backstage. Facevo anche venti ciak di seguito senza staccare mai pur di sfinirla e farle perdere completamente il controllo di ciò che stava facendo. Così diventava molto più autentica. Allora come oggi quando un attore ascolta se stesso piuttosto che ascoltare il proprio partner, punto sullo sfinimento, devono arrivare al punto in cui non capiscono più niente e sono solo in balia dell’adrenalina. Il momento in cui il corpo prende il controllo sulla mente. È lì che esce la verità. E così Monica l’ho lavorata ai fianchi ma non chissà quanto, eh! Nella media degli attori che vanno aiutati e guidati con cura dal regista. Quel film andò molto bene al botteghino ma mi pare non fu ricevuto altrettanto bene nell’industria italiana no? Non so cosa sia successo lì e credo che non lo saprò mai. Con L’ultimo bacio, nonostante le critiche che cominciavano ad arrivare almeno ai David venivo ancora portato in palmo di mano, invece con Ricordati di me sentii chiaramente che era cambiato tutto, sentii il gelo intorno a me in quella serata dove non vinsi niente nonostante le tredici nomination, ma soprattutto avvertii che era nata una vera ostilità nei confronti miei e del cinema che facevo da parte di una larga fetta dell’industria del cinema italiano. Era il 2003, l’ultima volta che fui candidato come miglior regia e miglior sceneggiatura ai premi del David.

A quel punto però avevi avuto delle esperienze con il cinema americano e dopo questo film saresti definitivamente andato lì a girare. Quando Ricordati di me usciva in Italia già lo sapevi che sarebbe successo? Ancora no. Considera che solo dopo che L’ultimo bacio vinse al Sundance Film Festival nel 2002, decisi di farmi rappresentare dalla CAA, una delle più grandi agenzie del settore. Il mio contratto con Weinstein nel frattempo era scaduto senza riuscire a realizzare un film. Ricordati di me era stato ricevuto molto bene dall’industria e così una volta rappresentato da un agente iniziarono ad arrivare dei copioni e delle proposte. Provammo a realizzare un film tratto da L’animale morente di Philip Roth. Fu grazie a questo progetto che conobbi Eva Mendes, che poi si rivelerà cruciale nel definire la mia carriera americana. La storia era quella di un professore americano che si innamora di un’allieva cubana molto più giovane di lui. Per il ruolo del professore c’era già Al Pacino e per la parte della studentessa invece volevo fare dei provini combinati per centrare la chimica tra gli attori, insomma volevo approcciarmi al lavoro come facevo nella preparazione dei film italiani. Solo che lì a fare il provino venivano attrici incredibili. Tra le varie, ho provinato Hilary Swank, Penelope Cruz, Eva Mendes e Rosario Dawson. Vennero anche se non sapevano bene chi fossi, solo qualcuna si era vista L’ultimo bacio prima di incontrarmi. Era comunque un film con Al Pacino e la produzione era la Lakeshore che all’epoca aveva appena fatto Million Dollar Baby di Clint Eastwood. Infine quel premio del pubblico vinto al Sundance con L’ultimo bacio era un bel biglietto da visita. Fatti i provini, dissi ad Al Pacino che l’alchimia migliore l’aveva con Rosario Dawson, obiettivamente il match migliore, insieme entrambi avevano dato il meglio. Dopo il weekend Al Pacino ci ripensa e mi chiama dicendo che vuole Penelope Cruz perché, sostiene, «She’s a goddess!», è una dea, una dea, una dea… Ammetto che pensai che se la volesse scopare. Io, i produttori

e Al avevamo già chiamato Rosario per dirle che la parte era la sua e lei era felicissima. Mi sentivo male all’idea di doverle dire che era stato un errore. C’era forse da mollare a quel punto ma io non lo feci perché per natura tendo a fidarmi più della mia testa che di quella degli altri. E la mia testa mi diceva che Penelope Cruz non era credibile come amante di Al Pacino. Perché poi il film non si fece? Perché avevo un inglese molto turistico e poi perché Al Pacino è molto insicuro, è prigioniero dei suoi ruoli più noti e importanti, prigioniero del Padrino e di Scarface. Fuori dal ristorante i fan gli portavano le locandine di quei film da firmare mentre tutti i suoi film successivi era come se non esistessero. In questo è molto diverso da De Niro che invece non soffre per niente l’idea di lavorare in film e su ruoli molto inferiori a quelli che l’hanno reso famoso. Insicuro io per la lingua, insicuro lui per la parte… E poi, nonostante avesse molto apprezzato Ricordati di me e io volessi a tutti i costi piacergli, alla fine non si fidava della mia sincerità e soprattutto del mio inglese. Pensava fingessi di capire tutto. Che era vero. E infatti, un giorno mentre parliamo del film, di punto in bianco mi fa: «Lo sai cosa significa la parola nuance?». E io: «Sì», senza pensare a quello che poteva succedere e inevitabilmente è successo, cioè che mi chiedesse: «Cosa significa?». Che gli hai risposto? L’unica cosa onesta: «Non lo so». Fu esattamente come prendere una beretta e spararsi in bocca. PAM! Con il cervello che si spiaccica sulle maioliche bianche dietro. La lavorazione di quel film si interruppe e non se ne fece niente per quel motivo. Perché avevo mentito ad Al Pacino. E non tentaste di prendere nessun altro attore?

A dire il vero sì ma è una storia ancora più assurda. Lakeshore aveva avuto sentore che il film potesse interessare a Sean Connery. Mi misero in contatto con lui e mi dissero che dovevo andare a incontrarlo subito. Era un venerdì e io stavo andando in Toscana in vacanza con i miei figli. Loro, come se non fosse affatto rilevante, mi dicono che invece il giorno dopo sarei dovuto essere da Sean Connery alle Bahamas! «Dove?!!» «Alle Bahamas!» Lui abitava lì, proprio dietro l’angolo! Dovetti dire ai miei figli che saremmo partiti due giorni dopo. Torno a casa, vado all’aeroporto, volo con scalo a Miami e poi altro volo per l’isola di Nassau, residenza di Sean Connery. L’incontro era previsto in un albergo però, non a casa sua. Un albergo anche non troppo importante, un po’ sfigato. Mi sembrava tutto davvero surreale. Cioè vai fino a lì e nemmeno vedi casa di Sean Connery? Esatto. A un certo punto arriva lui, Sean. Fu un incontro abbastanza lungo e piacevole, parlammo molto, specialmente del suo ruolo, lui era un po’ come lo vedi nei suoi film, molto posato e distinto. Finita la chiacchierata che mi sembrava fosse andata bene riprendo un aereo, torno a Roma e finalmente vado in vacanza. Dopo pochi giorni mi chiamano i produttori dicendomi che Sean Connery ha chiesto sei milioni di dollari per la parte e aggiungono: «Gabriele ci devi parlare te, noi quei soldi non ce li abbiamo». Siccome le trattative si erano arenate volevano che io lo chiamassi e facessi appello alla comune passione per il cinema per fargli accettare una paga minore, volevano che lo convincessi sul lato artistico, insomma… Considera che io non so trattare, non sono proprio capace di parlare di soldi. E a loro lo dissi, gli spiegai che non so trattare in italiano, figuriamoci in inglese! Al telefono! Con Sean Connery!! Lakeshore tuttavia era convinta che sarebbe stato un successo, mi dissero di fidarmi che sarebbe andata bene. Guarda, non dimenticherò mai quel momento: chiamo Sean Connery alle Bahamas, al telefono risponde direttamente lui, io sento la sua voce e, balbettando come mai nella vita,

con il mio pessimo inglese mi metto lì, completamente sudato già solo ai saluti iniziali e inizio. «Senti Sean ma tu non è che potresti farlo a un po’ meno di sei milioni, perché sai i produttori questa cifra non ce l’hanno… Se tu potessi fare qualcosa magari…» e considera che non è che dovevamo scendere da sei milioni a cinque, lui avrebbe dovuto accettare di farlo a tre, alla metà! Insomma la telefonata va così male che lui a un certo punto dice: «Questa conversazione è francamente imbarazzante» e io lì muoio. Gli dico: «Sì, Sean sono d’accordo con te, è molto imbarazzante. Scusami se ti ho chiamato, fai finta di niente! Ciao! Ciao!!», e riattacco. Fine della mia storia con Sean Connery. Ancora oggi se ci ripenso ci sto male, è stato un vero trauma. Credo sia la peggior contrattazione di cui abbia mai sentito. Sì, la peggiore di sempre. Io, forse l’uomo peggiore per contrattare, fui mandato in trincea senza baionetta. Tant’è che poi mi incazzai molto con quelli di Lakeshore che mi avevano mandato a morire senza una vera ragione, con un progetto folle.

6 Tu non hai la minima idea di cosa ti sta per succedere La ricerca della felicità (2006)

Considerato il film meno mucciniano di Gabriele Muccino, in realtà l’esordio hollywoodiano ha tutta la tecnica e la furia dei precedenti, celata da uno stile classico sotto il quale romba il medesimo motore. Non più un cast ampio con diverse trame ma un personaggio solo, agitato internamente, che cerca di tenere a bada la propria furia e giungere a un obiettivo. Tratto dalla vera storia di Chris Gardner, tutto La ricerca della felicità narra dei tentativi di vittoria di un perdente degli anni ottanta. Venditore ospedale per ospedale di un macchinario di scarso appeal, un giorno vedendo un broker di successo decide che quella è la sua strada e tenendo il piede in più staffe, rimasto da solo a gestire un figlio e con nemmeno più un tetto, cerca di essere assunto in un’importante compagnia del settore. I soldi sono quello che gli darà la felicità, dice il film, ma sottilmente afferma anche l’opposto, cioè che la mancanza di soldi rende un uomo meno di niente in quel paese.

Il sogno americano passato attraverso il più statunitense dei cineasti italiani è una versione moderna del principio base di Ladri di biciclette: in un mondo che sembra complottare contro le persone più in difficoltà, un padre si muove in lungo e in largo per una città con suo figlio. In ballo c’è un lavoro e quindi il loro futuro ma anche un rapporto tutto da definire. A cambiare rispetto a quel film è lo sguardo, non più quello del bambino sul padre (alla fine tragicamente rovinato da un furto), ma il nostro sull’America delle opportunità. San Francisco è fatta di barboni, di ripari, di bagni squallidi in cui dormire e poi al contrario di uffici splendenti in cui lavorano poche persone. Se Hollywood all’epoca ancora raccontava l’America come il posto in cui ogni persona di talento e determinazione può avere successo, La ricerca della felicità nell’affermarlo sembra avere molti dubbi. Le eccezionali peripezie di Chris Gardner, come per Ladri di biciclette, dicono molto più sullo sfondo che sui personaggi, su quel paese e quella situazione che sulla trama. E lo stile di Gabriele Muccino spogliato di tutti gli stilemi che lo avevano identificato fino a quel momento, senza piani sequenza, movimenti di macchina ariosi e complicati, senza una recitazione espressionista molto carica, senza il montaggio alternato, svela anche ai più restii un cineasta paradossalmente classico, in linea con i maestri italiani del passato, che padroneggia il vocabolario base del cinema e per questo si era potuto permettere di cambiarlo, esagerare e costruirci sopra altro. Come un gruppo di heavy metal alle prese con un concerto acustico, Gabriele Muccino svela l’anima di un cinema che sa essere essenziale e raggiungere la stessa commozione e le stesse vette emotive utilizzando tutto un altro set di strumenti. Come il suo personaggio, anche lui deve cambiare, e adattarsi a un altro mondo per trovare un nuovo successo. Fortemente voluto da Will Smith, fu questo il film che per la prima volta mostrò all’America che lui era un attore che

meritava considerazione. Quello che non era riuscito con Alì di Michael Mann, unico altro film serio e di alto profilo tentato da Will Smith fino a quel momento, riuscì con Gabriele Muccino. Trecento milioni di dollari incassati in tutto il mondo a fronte di un budget di soli cinquanta e per Will Smith una nomination all’Oscar, che non diventò vittoria per un pugno di voti. Di tutti i registi italiani che avevano incassato in America nessuno mai l’aveva fatto con una produzione americana, cioè all’interno degli studios, sottostando alle loro regole, seguendo i loro iter. A oggi quello di Gabriele Muccino è l’unico successo di pubblico e critica realmente americano della storia del cinema italiano. Vai mai in sala con il pubblico pagante per vedere le reazioni? Se piangono, se ridono… Spesso. Per La ricerca della felicità in particolare con la Columbia andavamo in formazione, anche perché sapevamo che il film funzionava. Quindi si andava a godere. Eravamo io, il vice di Amy Pascal e Will. Ne abbiamo viste tantissime di proiezioni reali, con il pubblico pagante, e in tutto il mondo, perché andavamo anche durante i tour promozionali. Il film era così esatto e così preciso che c’era una scena in cui era possibile indicare il frame in cui il pubblico avrebbe reagito. Siccome potevamo solo stare dietro a tutti nella sala, altrimenti avrebbero riconosciuto Will, io vedevo le reazioni dalle nuche e dalle silhouette. Ho scoperto così che gli uomini quando si commuovono alzano i gomiti. Per non far vedere che stanno piangendo, non si asciugano le lacrime normalmente ma fanno come per fare un gesto più ampio, come se stessero facendo altro. Lo facevano tutti insieme! A un certo punto matematicamente i gomiti di mezza sala si alzavano. Il punto magico, per gli uomini è quando dicono al protagonista che il lavoro è suo e a lui vengono gli occhi lucidi, fa due-tre secondi di silenzio per trattenersi e poi rispondere. Lì crollavano tutti regolarmente.

Girare un film a Hollywood è più facile rispetto a come lo sarebbe girare lo stesso film in Italia? Ti dico solo che sul set della Ricerca della felicità mi sentivo l’imperatore portato a colonizzare nuove terre. Avevo tutto! Esercitavo la mia professione come sempre ma con una troupe cinque volte più grande di quelle italiane che aveva un’attenzione ai miei desideri artistici senza fine e senza limiti. Una volta, facendo un sopralluogo, passammo davanti a un palo della segnaletica stradale e cercando l’inquadratura buona dissi tra me e me: «Peccato questo palo…», e me ne andai a cercare un altro punto di vista. Dopo dieci passi sento dietro di me il sibilo fortissimo dell’acciaio segato. Mi volto. Avevano divelto il palo in modo che non mi desse più fastidio. Era Hollywood, la vera Hollywood, quella a cui tutti aspirano e che faticano a raggiungere. Io invece ci ero arrivato subito tramite Will Smith. Grazie alla sua presenza girai un film intero senza tormenti. Pensai che fare il regista ad Hollywood fosse la cosa più facile al mondo, la vera Mecca. Avevo sofferto solo nei dieci giorni durante i quali veniva deciso se avrei fatto il film o no. Dieci giorni. Niente! Non sapevo che invece Hollywood può essere l’inferno. Negli anni successivi l’avrei toccato con mano. Will Smith era un attore che ammiravi e con cui volevi lavorare? No, proprio non lo conoscevo. O meglio di lui sapevo due cose: che era afroamericano e che aveva successo. Fine. Non avevo visto tutti i film pop che aveva fatto dopo essere esploso con la serie Willy – Il Principe di Bel-Air. E allora come ci sei arrivato? Ero in una fase stagnante. Dopo aver girato quattro film in sei anni, in cui avevo tirato fuori tantissimo di personale, da Ecco fatto a Ricordati di me (la materia del film era tutta reale ma chiaramente rimescolata), avevo paura di ripetermi, che è la

morte dell’arte: la routine! Stavo scrivendo questo nuovo possibile film intitolato Parlami d’amore ma ero in stallo, credevo di non sapere più cosa raccontare. Un giorno leggo un articolo del “Corriere della Sera” di Giovanna Grassi, la corrispondente da Los Angeles. Era un’intervista a Will Smith, che per l’appunto conoscevo poco, in cui lui parlava però molto dell’Ultimo bacio. Com’è possibile che l’avesse visto? Ho scoperto dopo che fu grazie a Eva Mendes, che mi aveva conosciuto per quel progetto con Al Pacino mai realizzato e che si era innamorata dell’Ultimo bacio. In seguito lei lavorò con Will al film Hitch e a quanto pare gli fece una testa come un pallone convincendolo a vedere il mio film. A Will piacque così tanto da citare intere scene del film e parlarne decisamente più di quanto avrebbe dovuto, in realtà l’intervista era proprio su Hitch, che era in uscita. Contattai subito la mia agenzia americana, la CAA e tra le mille star rappresentate da loro, c’era anche Will Smith. Sembrava facile entrarci in contatto ma in realtà loro non credevano a quel che dicevo. Sostenevano che io mi stessi sbagliando, non era possibile che Will Smith parlasse dell’Ultimo bacio, doveva essere per forza tutto un equivoco. Erano convinti che Will stesse in realtà parlando proprio di Hitch, il cui titolo di lavorazione era simile a quello inglese dell’Ultimo bacio, cioè The First Last Kiss. Per fortuna lì nell’agenzia c’era un agente che aveva studiato a Padova e parlava abbastanza bene l’italiano. La mia agente mandò la foto del giornale e lui capì che effettivamente parlava proprio del mio di film. Così gli fecero sapere che ero interessato. Interessato a cosa, non si sa. Ma ero interessato! Non hai detto che a stento sapevi chi fosse? Infatti non ho mai visto una puntata intera del Principe di BelAir, all’epoca per me lui non era mica come Al Pacino o Tom Hanks. Però era un nome di Hollywood. Era un’opportunità. Tant’è che lui mi mandò la sceneggiatura della Ricerca della

felicità. Il meccanismo americano funziona che c’è una sceneggiatura di base e quando qualcuno come un produttore, o un attore come in questo caso, vuole davvero realizzarla, ci si mette in cerca di un regista che vada bene. È il contrario di quanto accade da noi in Europa. I provini, che chiamano “incontri”, li fanno ai registi. Ogni regista a cui viene proposta la sceneggiatura spiega come la girerebbe, cosa cambierebbe, su che aspetto centrerebbe la storia e in parole povere come la farebbe sua. Loro la chiamano “la visione del filmmaker”. Solo che ovviamente era una sceneggiatura in inglese, che io all’epoca masticavo pochissimo. La lessi, non ci capii molto e non mi piacque. Per fortuna la lesse anche Valentina che mi disse: «È un film bellissimo». Praticamente me lo spiegò lei da capo. Aveva capito meglio di me che tutta la dinamica tra un padre e un figlio era perfetta per me. In pratica hai deciso sulla base di un riassunto? No, dopo me la sono riletta altre cinque-sei volte e poi finalmente anche io ho capito di che cazzo parlasse. Scrissi una bella lettera a Will, spiegandogli la mia visione, come l’avrei riscritto e girato. Gli diedi tre riferimenti: Il monello, La vita è bella, Ladri di biciclette. Lui (che non li aveva mai visti) se li guardò tutti e tre e capì che eravamo sulla stessa lunghezza d’onda. Tu gli hai fatto vedere per la prima volta in vita sua quei due film pazzeschi e poi La vita è bella e non ti ha detto: «Mio Dio che belli!»? Quelli sono film che cambiano vite, causano vocazioni, fanno abbandonare tutto… Certo, cambiano vite! Ma non ricordo bene che mi disse. Detto ciò, lui non è un cinefilo, quindi non mi stupirei troppo. Non aveva mai visto nemmeno Il monello di Chaplin? Ma no! Lì le persone che conoscono il cinema sono davvero poche, di solito sono quelli che hanno studiato cinema. I produttori e la maggior parte degli attori sono abbastanza

ignoranti in materia. Non conoscono affatto o pochissimo il cinema in lingua straniera. Spesso non conoscono nemmeno i loro maggiori capolavori. Io, negli anni, per preparare i due film che ho fatto con Will gli feci vedere di tutto. Film che solitamente odiava. Gli ho fatto vedere Lo scafandro e la farfalla e mi ha detto: «Ammazza che palle!». Poi l’ho torturato con Via da Las Vegas per preparare Sette anime e pure lì mi disse: «È un film orrendo». Una volta che lui si convince ad ascoltare la tua versione del film come funziona? Voleva parlarmi al telefono ma io ero terrorizzato perché ero sicuro che non avrei capito molto e lui ancor meno. Soprattutto le maledette nuance. Seppi dagli agenti della CAA che di lì a poco sarebbe stato a Parigi per promuovere proprio Hitch e lo raggiunsi lì. In un hotel e in una pausa tra le interviste gli spiegai tutto in un inglese maccheronico e furioso. Alla fine era così esaltato che si alzò in piedi e indicandomi cominciò a dire «YOU! YOUUU!!!!». Che gli avevi detto?? Una frase da vero spaccone: «Nessun americano può raccontare il sogno americano, perché ci vivete dentro, non lo potete vedere come lo vede qualcuno che viene da fuori». Ma non lo pensavo davvero. Lo dissi perché speravo ci cascasse. Lui mi fa: «Ci vediamo ad Hollywood!». Solo che io, reduce dall’avventura con Harvey Weinstein e Al Pacino, pensai che tanto non se ne sarebbe fatto niente. Invece dopo due settimane mi convocano alla Columbia a Los Angeles in un palazzo liberty che è un’istituzione del cinema con teatri di posa immensi dove avevano girato Via col Vento e tutto quello che era venuto dopo. Quando entri nella loro sede centrale ci son subito bacheche e bacheche piene di Oscar con dietro il poster del film che li ha vinti. Saranno una cinquantina. E poi su, in cima, nell’ufficio del capo dell’epoca, Amy Pascal, c’è una vetrina con ancora altri premi. Di nuovo un po’ di Oscar

ma soprattutto tanti David di Donatello. Almeno trenta! Erano quelli di tutti i film Columbia che avevano vinto il David come Miglior film straniero in Italia. E non c’erano anche i Bafta inglesi, i Goya spagnoli o i César francesi? No, nient’altro. Mi colpì davvero. E io che pensavo che una volta ricevuti li buttassero… Erano David che risalivano agli anni d’oro del cinema italiano, quando eravamo la seconda industria del mondo. Comunque considera che quello non era un ufficio, era un salone liberty di almeno trecento metri quadrati. Un open space con una sola scrivania immensa, e poi divani, divanetti, statue, Oscar, tutto in stile liberty perché la Columbia, come la Warner o la Paramount sono rimasti nello stile in cui furono costruiti mentre Universal e Disney hanno rifatto le loro sedi e sono prive di quel fascino. Entri là dentro e senti la storia del cinema americano da Griffith a oggi. In un incontro come quello uno come te come si sente? Non capivo niente. Ma proprio letteralmente. Non solo non avevo grande dimestichezza con l’inglese ma Amy Pascal ha anche un difetto di pronuncia, ha la s con la lisca. Eravamo io, lei e i produttori di Will Smith, lui non c’era, non era venuto apposta per far vedere che non era troppo invadente e sapeva stare fuori. Se non sbaglio c’era anche una schiera di funzionari della Columbia che all’epoca non sapevo come collocare. Mi chiedono come voglio fare il film, come lo vedo e dopo un po’ Amy Pascal affronta il punto centrale, cioè il fatto che io non ho mai fatto un film in inglese, non ho nemmeno mai vissuto in America e loro sono la cazzo di Columbia, perché mai dovrebbero prendere me per un film da cinquanta milioni e la star più potente del mondo? Io gli diedi un’altra risposta spavalda. Mi giocai tutto: «Perché se prendi me vinci due volte». Tutti risero senza un vero senso. Del resto

era tutto obiettivamente senza senso. A partire dalla mia presenza in quella stanza. Che intendevi con quella frase? Ma che ne so! Ero disperato perché sentivo che non mi volevano, avvertivo che si stava aprendo un crepaccio che mi avrebbe inghiottito e così sono passato all’attacco: la strategia della confusione. Che di solito con gli americani funziona. Del resto io per primo pensavo che non aveva senso prendere me per un film del genere. Ma intanto ero lì. Dopo che li feci ridere, mi sembrava fosse andata bene ma non mi diedero una risposta. Mi misero in stand by per qualche giorno. A Los Angeles c’è un intero quartiere edificato su quello che una volta era un lotto della 20th Century Fox, e che per questo si chiama Century City. Ecco mi avevano messo in un albergo lì, su una strada chiamata Avenue of the Stars! Aspettavo una decisione, una chiamata. Ovviamente in quella zona ci sono anche i lotti ancora della 20th Century Fox, quelli in cui girano i loro film. La mia stanza affacciava proprio su uno di quelli. Mi affacciavo e vedevo delle troupe girare, guardavo quel mondo così vicino e così lontano e speravo. Vedevo il cinema mentre veniva fatto e sognavo di poterlo fare anche io. Mi sembrava di essere tornato a quando giravo corti e sognavo che qualcuno mi lasciasse fare un lungometraggio. Quand’è che si è sbloccato tutto? Quando Will Smith ha lanciato un ultimatum, imponendogli un paio di giorni per decidersi altrimenti lui il film lo proponeva alla concorrenza. Io credo che loro stessero intanto vagliando altri registi da proporgli ma lui aveva deciso, voleva farlo con me. E questo ha fatto la differenza. Nel frattempo io, visto che non decidevano, ero ripartito per l’Italia per girare uno spot con Mike Bongiorno e Fiorello. Così, per tenermi occupato, visto che dopo dieci giorni non si muoveva una paglia da quelle parti. Si diceva che Mike portasse bene. Mentre ero nel camper proprio con lui a spiegargli alcune cose

della scena che stavamo per girare, mi chiamò la mia agente urlando euforica: «TI HANNO PRESOOOOOO!!!!!». E io urlo a Mike: «MIKE MI HANNO PRESOOO!!! FACCIO IL FILM AMERICANO!!!». La mia avventura a Hollywood è iniziata così, in un camper con Mike Bongiorno. Era vero che portava bene. Eppure il film originariamente non dovevi farlo tu, doveva farlo Jon Favreau, il regista che poi avrebbe girato Iron Man. Sì, Jon Favreau bravissimo. Ma a fare questo fece, chiama Zathura. granché.

era avvelenato per questo film. E lui è Will non piaceva evidentemente. Invece di sempre con la Columbia, un film che si Una specie di fantasy che non funzionò

Certo la sceneggiatura della Ricerca della felicità è di quelle irrinunciabili… Non ti credere, come ti dicevo io ero in un momento un po’ stagnante della mia carriera e quella mi salvò, ma dentro di me credevo sarebbe stato un flop, primo perché nessun italiano aveva mai realizzato un film di successo a produzione americana (Sergio Leone e gli altri che hanno avuto successo in America lo hanno fatto con film a produzione italiana) e poi perché l’unico film drammatico che Will Smith aveva tentato era stato Sei gradi di separazione (nel 1993) ed era andato malissimo, aveva incassato sei milioni di dollari e pure Alì, il film sulla vita di Mohammed Alì diretto da Michael Mann, ne aveva incassati trentacinque di milioni (di cui venti nel primo giorno, poi il passaparola lo uccise). Io pensavo che anche il mio sarebbe andato male ma a ogni modo per me sarebbe stata una porta per entrare. Che era una ragione in più per farlo bene, nessuno lo vedrà comunque, almeno che sia bello! Il modello era Ladri di biciclette e pensando a quel film lo riscrissi tutto, aumentando il ruolo del figlio. Nella sceneggiatura originale il cuore era la povertà di quest’uomo, la sua disperazione e la sfrenata ambizione di diventare ricco.

Io l’ho fatta diventare la storia di un padre povero, di suo figlio e dei sogni impossibili da perseguire. Se all’inizio di Come te nessuno mai ci sono quei pezzi di notiziari in sottofondo ai titoli di testa a fare da referente politico, qui invece è tutto più diretto. Tra le primissime immagini si vedono uomini d’affari affiancati a immagini di barboni. È molto bella ma anche più esplicita della soluzione di Come te nessuno mai. Hollywood è più diretta del cinema italiano? Pensa che quell’immagine mi è venuta rivedendo Un uomo da marciapiede. Prima di girare mi guardai e riguardai tanto cinema americano degli anni settanta e in quel film c’è un’inquadratura molto simile che non ho esitato a rubare. Era fortissima l’idea di camminare davanti a un uomo mezzo morto, disteso sul marciapiede, senza che nessuno nemmeno lo registrasse con lo sguardo. Come puoi scrivere una sceneggiatura in una lingua che non conosci, parlando di un paese che non conosci? Gli esseri umani sono esseri umani ovunque. Partiamo da questo. Poi mettici che la sceneggiatura è un inizio, io ho lavorato cinque settimane con Will solo leggendo il copione scena per scena per trovare l’intonazione. In quel periodo alle volte riscrivevo di notte il copione in un inglese bruttissimo, poi il giorno dopo il mio assistente bilingue lo sistemava e infine Will aggiustava le battute, girava le frasi così che suonassero più spontanee e realmente americane. Non è diverso da come avevo lavorato con i ragazzi in Come te nessuno mai per centrare la lingua degli adolescenti. Solo che lì è stata proprio una riscrittura profondissima in cui abbiamo cambiato il 60 per cento del copione rispetto a com’era quando lo lessi la prima volta. Anche drasticamente. Quando fai un film a Hollywood ti mettono a disposizione strumenti per agevolarti che in Italia non esistono?

Ti chiudono interi quartieri per farti fare il tuo film. Lo fanno anche le grandi produzioni quando vengono in Italia, tipo Tom Cruise con Mission: Impossible oppure tipo 007. E se il film è d’epoca come il mio ti riempiono le strade di auto di quegli anni. Coprono le insegne se non sono giuste, coprono i bancomat… Tu arrivi al mattino, in strada non c’è nessuno e tutto è come nel 1984, anche se tu non hai la minima idea di come fosse San Francisco nel 1984. Fanno tutto loro. All’alba arrivano centinaia di macchine d’epoca e squadre di persone addette solo a questo, che creano il traffico di sfondo, il movimento delle figurazioni, e fanno girare tutto senza che tu debba preoccupartene o dare alcuna direzione. Devi pensare solo a girare la scena. Invece in Italia per Gli anni più belli mi sono arrangiato girando sempre nei vicoli, che non ci vuole molto a renderli senza tempo, bastano poche macchine e ci sei. Abbiamo girato al ghetto di Roma che è tutto già pedonale. Farlo all’americana avrebbe voluto dire prendere vie grandi come via Cola di Rienzo, svuotarle di tutto e riportarle a com’erano negli anni ottanta. Senza contare il fatto che avremmo dovuto riempire tutte le inquadrature, per almeno sei isolati, di comparse in costume. Impensabile per noi. Devi pagare tutti i negozianti perché in quei giorni nessuno entra nei loro negozi e gli devi cambiare le insegne. Pensa che per La ricerca della felicità avevano cambiato i semafori perché ora c’è solo il verde mentre negli anni ottanta c’era un omino verde che camminava. Del resto io non stavo girando un film piccolo e indipendente, in cui lavorare un po’ come noi in Italia, io stavo girando alla Columbia! E questa cosa a un certo punto diventò clamorosamente evidente ai miei occhi. Entravo negli uffici e c’erano cinque o sei stanzoni con persone pagate a tempo pieno che lavoravano ai cornicioni e ai pomelli delle finestre d’epoca da sostituire. Per loro quella è l’unica maniera per ottenere un risultato. Da noi nessuno ti fa chiudere una grande strada per un inseguimento. Io non ho ottenuto nemmeno di

poter girare nella Fontana di Trevi, ho dovuto ricrearla con gli effetti visivi al computer nelle vasche di Tivoli, alla vera location ci siamo potuti avvicinare al massimo fino al bordo della fontana. E comunque abbiamo dovuto farlo tra le 3 e le 5 del mattino, per più giorni di seguito, aspettando che si svuotasse dai turisti. Gli americani avrebbero pagato tutti e avrebbero fatto quello che volevano di quella fontana. Questo ti consente di girare tutto in una notte chiaramente, ti facilita tantissimo la vita, senza contare che le scene vengono meglio, anzi vengono proprio giuste. Se devo essere sincero è l’unica cosa che rimpiango davvero: fare cinema così, senza orizzonti, senza porsi limiti. L’ho potuto fare per tre film americani su quattro. La ricerca della felicità, Sette Anime e Quello che so sull’amore, che anche se era un film indipendente comunque aveva un bel budget. Tutto questo inizialmente ti ha frastornato? In realtà io non ci credevo mai, anche quando le riprese sono iniziate non credevo che il film potesse essere una svolta e ci lavoravo bene ma come se facessi una pubblicità, con dedizione e precisione ma senza entusiasmo. Fare il regista in America mi sembrava un’utopia. E dire che abbiamo girato in quella settimana tutte scene importanti, quelle all’esterno del palazzone in cui lui finisce a fare il broker, quindi lui che esce, lui che entra, lui che non ha soldi, lui che entra nel taxi e fa il cubo di Rubik eccetera. Credo che mi fossi talmente protetto dalla delusione di un rifiuto o di un buco nell’acqua come era capitato con la Lakeshore e Weinstein che non riuscivo a realizzare che questa volta stava accadendo davvero. Solo alla seconda settimana ricordo che improvvisamente pensai «Oh cazzo! Ma lo sto facendo veramente!». Fu una sorta di scoperta surreale del fatto che io questa cosa qua la stavo vivendo realmente, ero davvero io, veramente alla direzione di un film con Will Smith. Talmente mi ero protetto, creando un certo disincanto verso un sistema in cui era difficilissimo

entrare, che ho faticato poi a levarmelo di dosso e a realizzare che invece questa volta era tutto vero. Rivedendo i tuoi film tutti insieme ho notato che c’è un espediente ricorrente a cui non avevo mai fatto caso. Spesso fai in modo che mentre i personaggi parlano ci sia un rumore di sottofondo che lavora come un metronomo, batte in modo regolare, e questo dà un ritmo preciso anche solo a un dialogo. Ricordo in Ecco fatto, una scena in classe con la professoressa che insegna la metrica e batte con gli occhiali sulla cattedra per dare il tempo mentre i personaggi discutono d’altro all’ultimo banco; nell’Ultimo bacio c’è la scena di cui avevamo parlato con il respiro di Santamaria mentre il padre muore; qui in uno dei dialoghi più importanti tra Will Smith e sua moglie nel film, Thandie Newton, c’è un uomo dietro che pulisce un tappeto battendolo. Io li chiamo “i disturbi”, sono elementi che per l’appunto disturbano la scena, creano uno stress, i personaggi magari parlano di cose importanti ma nella tua testa c’è anche quest’altro dettaglio che crea uno stress maggiore. Quindi tu sai che funzionano e li usi quando ti sembra ce ne sia bisogno? No, sei tu che me lo fai notare adesso. Ma è vero che ogni tanto uso i suoni per creare disturbo, ansia, senso di solitudine e altro. Sono decisioni che prendo spesso già in fase di scrittura. In tutto il film il mondo della finanza anni ottanta è descritto come quieto e normale. Invece quasi lo stesso periodo in The Wolf of Wall Street è un delirio, è Sodoma e Gomorra, con cartelli in bagno che vietano di fare sesso. L’avete edulcorato voi o è Scorsese che esagera? Noi avevamo Chris Gardner, la persona la cui storia ispira il film, e lui sostiene che era così come lo vedi. Vai a sapere. Sai poi c’è tutto un mondo di collaboratori che ti aiuta ad andare

in una certa direzione. Per esempio avevo uno scenografo bravissimo, Mike J. Riva, purtroppo morto pochi anni dopo sul set di Django Unchained, che mi aveva portato centinaia di reference fotografiche e anche filmati di ogni sorta perché io comprendessi il mondo che andavo a ricostruire insieme a lui. Un lavoro sublime. Quando si gioca in quel campionato, nulla viene lasciato al caso. I bone density scanner, gli apparecchi medici venduti da Will Smith, furono effettivamente disegnati e messi in produzione, sempre grazie al lavoro di Mike Riva. Oppure i parchimetri, che negli anni ottanta erano diversi da quelli moderni, vennero rifatti con dei calchi e sostituiti a quelli esistenti. Parliamo di centinaia di parchimetri. Per non dire dei cinquecento computer del 1981 perfettamente funzionanti, con dentro software di finanza, che riempivano gli uffici bancari. Io avrei detto che erano finti, di legno… Macché! Erano tutti funzionanti e accesi! Comunque io mi curavo poco di aspetti come la rappresentazione del mondo della finanza dell’epoca e molto di più del rapporto padrefiglio. Era un film incentrato su di loro e non avrebbe avuto senso soffermarmi sul mondo della finanza in quegli anni. Il riferimento era sempre Ladri di biciclette, gli scanner rubati, lui che si muove per la città, i dormitori per senzatetto… Ma anche gli attori presi dalla strada. Quando vedi Will Smith in fila per il dormitorio e il barbone che gli ruba il posto, quello è un vero barbone. Ci arrivammo perché entrai in contatto con questo reverendo Williams, che gestisce il rifugio per senza tetto più longevo di tutta San Francisco. Una persona influentissima, uno che quando i presidenti degli Stati Uniti come Reagan o Clinton andavano in città passavano a salutarlo perché tiene sotto la sua protezione migliaia e migliaia di senzatetto. Lui ci ha fornito i nomi dei più affidabili (la maggior parte ha problemi psichici evidenti) perché potessero lavorare come comparse. E ne abbiamo usate circa mille.

Tutte le altre partecipazioni però sono attori veri. Per esempio la scena bellissima in cui il protagonista in taxi completa il cubo di Rubik per farsi notare è tutta giocata tra Will, il broker e il tassista che li porta. Il tassista non dice una parola ma ha una faccia pazzesca, lo guarda e tu capisci che sta seguendo la cosa con interesse e stupore. È un attore che regge tutta la scena. Io non ci credo che tu fai i casting anche per scegliere un ruolo simile. Come ti arrivano questi? Ci sta il major cast, cioè i ruoli importanti, che sono scelti da una casting director, e poi c’è proprio un altro team che lavora ai ruoli minuscoli ma che vengono inquadrati anche solo per pochi secondi, interagiscono con i protagonisti e hanno almeno una battuta. A quelli partecipo anche io. Per il ruolo del poliziotto che sta per arrestare Will all’ingresso del suo appartamento e ha una sola battuta (dice: «Chris Gardner!»), io mi sono visto almeno quindici attori che la provavano, provavano quell’unica battuta, fino a scegliere quello giusto. E non ho scelto a caso, perché c’è differenza: c’è il simpatico, il minaccioso, il bastardo… Ma pure quello che batte il tappeto nella scena che dicevi prima eh, viene provinato anche lui per vedere come batte il tappeto. Ti chiamano per una giornata e ti fanno vedere tutti questi ruoli minuscoli interpretati uno dopo l’altro. Le produzioni americane sono davvero meticolose. Quindi si tratta di attori professionisti? Di solito sì, sono professionisti che accettano anche ruoli minuscoli. E questo fa davvero la differenza, come hai notato tu riguardo al tassista. L’infermiera che sta accanto a Rosario Dawson in Sette anime è un ruolo così, da una battuta, eppure è Octavia Spencer. Fino a quel momento non aveva interpretato niente di rilevante e faceva anche ruoli da una sola battuta. Anni dopo ha vinto un Oscar per The Help. Chiaramente quando ai provini vedi una così noti subito la differenza. Attrici così ti riempiono un film anche con pochi secondi a disposizione. Uno dei banchieri, il tipo che istruisce

gli stagisti, è Dan Castellaneta, il doppiatore di Homer Simpson (che con quel lavoro è diventato miliardario), e fa anche l’attore in piccoli ruoli come quello. Insomma vale il detto che non ci sono piccole parti ma solo piccoli attori. Hai spiegato che il film l’hai molto fatto tuo, eppure rimangono moltissimi dettagli davvero americani, che per noi sono un po’ lontani. Per esempio c’è una scena molto bella in cui in un campo da pallacanestro il padre dice al figlio di non tentare di essere un vincente, tanto non lo sarà mai. Si capisce che è una cosa drammatica quella che gli sta dicendo e sappiamo che per gli americani è importante invece pensare di poter vincere. Ma in un film italiano non avrebbe senso… In verità questa è una scena che io ho lavorato e modificato moltissimo proprio per avvicinarla alla mia sensibilità di italiano e così avvicinare a me tutto il film. In origine nasceva molto più corta. Finiva quando gli dice: «Tu non sarai nessuno» e se ne vanno. Ma non mi girava, non mi suonava, eppure non riuscivo a capire come dargli un senso fino a che non ho capito che il problema per me era che questa era la storia di uno che un giorno vede una persona uscire da una Ferrari, gli chiede come l’abbia comprata, scopre che ci è riuscito facendo il broker e decide di voler fare lo stesso lavoro per comprarsi anche lui una Ferrari. Non esagero, è così. Originariamente il film parlava di un uomo che lottava come un matto fondamentalmente per comprarsi una Ferrari. Per gli americani la ricchezza è un valore morale, è vista come la dimostrazione del raggiungimento di un obiettivo esistenziale. Tuttavia a me questa cosa strideva tanto perché noi questa esibizione del denaro non ce l’abbiamo, anzi se abbiamo una bellissima auto, tendiamo a non ostentarla. Chi ostenta gioielli e denari spesso è cresciuto con il complesso della povertà, ha fatto i soldi velocemente e li mette in mostra come forma di riscatto sociale. La cultura americana invece è focalizzata sul raggiungimento della ricchezza, obbiettivo forse unico e finale di un’intera esistenza. La mattina in cui girammo questa scena

chiave con Will nel campo da basket, non c’erano produttori sul set e io gli dico: «Senti ma il tuo personaggio è quello che dice alla moglie che vuole fare una cosa e ci riuscirà. Poi però, in questa scena, tarpa le ali al figlio che vorrebbe diventare un giocatore di basket. È contraddittorio. Qual è il messaggio di questo film? Che si deve sognare oppure no?». Chiaramente gliela ponevo come domanda retorica. «Di che stiamo parlando?» gli chiesi. «Di comprarsi una Ferrari o di qualcosa di più ampio? Perché non parliamo dell’aspirazione a essere felici e al diritto di inseguire i propri sogni?!». Lui ascolta tutto e mi dice: «Ok. Chiaro. Riscriviamola!». E così la riscriviamo lì per lì, io e lui, seduti sul pavimento del campo da basket con un block notes in mano, io che gli dico le frasi nel mio inglese stentato e lui che le trasforma in inglese vero. Fu un momento speciale e unico, abbiamo trasformato senza pensarci troppo una scena che parlava di rassegnazione in una che spronava a inseguire i propri obiettivi a ogni costo. Su YouTube trovi migliaia di clip di questa scena sottotitolate in tutte le lingue del mondo. È diventata una scena fondamentale per quelle quattro battute che ci siamo inventati io e lui da soli scrivendo per terra. La magia che può far svoltare un film a volte ti passa accanto mentre giri una scena stressato da mille altre cose. E puoi non vederla. Devi stare sempre attento a non lasciarti sfuggire queste occasioni, perché sono quelle che possono cambiare radicalmente tutto quello che stai facendo. Hai sottolineato che era un giorno senza produttori sul set. Se ci fossero stati non sarebbe stato possibile fare questi cambi? Quella è gente che deve stare sul set anche se non ha niente da fare, sta lì a guardare il monitor per motivare il proprio stipendio. Se quel giorno ci fossero stati, forse quella conversazione libera, aperta, priva di pressioni esterne tra me e Will non sarebbe stata possibile. Ci sono stati scontri con i produttori?

Pochissimi. Tutta quella lavorazione fu una luna di miele perché Will Smith trasformò la Columbia nella Fandango, per me. Cioè io mi muovevo con la stessa libertà che avevo in Italia. Con il suo potere da star fece in modo che nessuno potesse rompermi le palle, che nessuno potesse dirmi nulla sul copione o che potesse disturbare il set con idee bislacche. Impose anche suo figlio come coprotagonista? No, fu una mia idea. O almeno così mi piace pensare. Avevo provinato tantissimi bambini ma non trovavo il mio Enzo Stajola, cioè il mio bambino di Ladri di biciclette, poi un giorno sono nell’ufficio di Will a parlare con lui ed entra Jaden, suo figlio, per salutarlo. Parlano tre minuti ed esce. Mi è bastato. Questo ragazzino aveva una luce pazzesca. Oggi è un’altra cosa, ma allora era pazzesco. Era chiaro che era fatto per lo schermo. Io nemmeno sapevo se Will voleva che facesse l’attore, così ne parlo con il suo manager e chiedo un provino. Lo facciamo ed è spaziale. Poi ne facciamo un altro ma questa volta non più da solo bensì in una scena con il padre (per vedere se la sua presenza non lo inibisse): spaziale anche quello. Sembrava fatta quando ricevo una chiamata da Amy Pascal in persona. Lei e la sua lisca. Non lo vogliono. Vanno bene tutti ma non il figlio di Will: sono terrorizzati dal fatto che sembri una mossa nepotista. Hanno già capito che questo film, successo o insuccesso, potenzialmente può far vincere l’Oscar a Will e avere il figlio accanto a lui può marcare male. Rende il film attaccabile. Riesco allora a ottenere un terzo provino con Jaden, più serio ancora, con tutta la troupe, una prova generale praticamente, per vedere se regge la pressione di avere cinquanta persone intorno a sé e fare la stessa prestazione. O almeno io credevo l’avessimo fatto per quello in realtà ho scoperto poi che era un modo per Amy Pascal di avere una documentazione filmata che il bambino era stato provinato ed era stato oggettivamente all’altezza del ruolo. Ma non solo, ho anche pensato che probabilmente, quel giorno, nell’ufficio, Will avesse fatto entrare apposta Jaden quando

c’ero io perché io lo vedessi e mi accorgessi della sua esistenza. L’idea di prendere in esame Jaden per quel ruolo non mi è mai stata suggerita da nessuno, tantomeno Will. Avermelo fatto incontrare però può essere stata una mossa sottile e furbissima da parte sua. Pensavo fosse una mia trovata e una mia conquista averlo voluto, e invece forse era tutto più grande di me. L’importante è il risultato alla fine. E quel bambino era innegabilmente una bomba. Hai detto che Will Smith ti proteggeva. In che modo avveniva? Ci furono pochissime occasioni di scontro e alla fine era sempre lui a risolverle. Uno dei produttori un giorno mi disse che non giravo abbastanza primi piani. Che poi è vero eh, non sono un amante dei primi piani, li uso solo quando sono necessari, altrimenti preferisco inquadrature più larghe, mi piacciono di più magari i due profili delle persone che parlano, poi li faccio muovere, prima inquadro uno, poi si spostano e l’altro è a favore di camera… Non me l’invento io, è un’idea di cinema che viene da lontano, ma quelli so’ americani de coccio e se il film non somiglia a quelli che sono abituati a vedere, tutti girati alla stessa maniera, è un problema. Insomma questo produttore mi indica la scena in cui Will entra la prima volta in banca e mi dice: «Vedi qui, vedi qui? Mi manca l’aria. I need oxygen. Oxygen!». Per me era facile da capire che oxygen volesse dire “ossigeno”, ci arrivavo pure io. Alla quarta volta che ripete la parola oxygen gli dico che nella mia vita ho fatto una soap opera in cui non mi chiedevano che primi piani, primi piani e primi piani. Era prima di fare cinema. Da allora avevo creato il mio stile. I primi piani arrivavano e sarebbero arrivati quando necessari. Se non gli andava bene, si dovevano trovare un altro regista che girasse come volevano loro. Dissi proprio così e me ne andai. Un vero matto. Però dal giorno dopo non mi chiesero più oxygen. Ti sei permesso di andartene così perché sapevi che avevi Will Smith dalla tua a coprirti le spalle…

Me ne andai perché mi irritarono veramente. Mi sentii trattato come un esordiente e non lo sopportai. Non sapevo ancora che per Hollywood quello non era nulla. Il giorno dopo arriva Will che aveva saputo che c’era stata maretta, mi chiede cosa fosse successo, gli spiego che io i primi piani li doso, che ci saranno ma quando serve spingere sull’acceleratore. Altrimenti quando arriveranno le emozioni forti non sapremo dove andare, non potrò avvicinarmi più del primo piano. E lui: «Ah ok, a posto grazie». E il problema fu risolto. Infatti nel film i primi piani ci sono tutti, per esempio nella scena in cui lui e il figlio dormono nel bagno pubblico. È così che diventa l’apice emotivo. Una scena come quella, perfetta, che emoziona tutti, è anche la più difficile da girare? Eh, quella è una scena stupenda, ma lì è Jaden, il bambino, che fa i miracoli. Era stanchissimo quella sera, si era addormentato e l’avevamo dovuto svegliare. Era incazzatissimo. Poi però l’ha fatta meravigliosamente. In generale tutte le scene con lui e Will funzionavano perfettamente. Era una sinfonia a tre, sul set: io, lui e il bambino. Jaden capiva perfettamente dove volevamo andare, nonostante io parlassi un inglese da Neanderthal. E non c’era nemmeno Will a fare da tramite tra di noi. Nella maggior parte dei casi cercava di mantenere un distacco e quando Jaden lo chiamava “papà” sul set lui lo riprendeva. Gli spiegava che stavano lavorando in quel momento e non doveva chiamarlo “papà”. Gli diceva: «Mi sto concentrando per la scena, concentrati anche tu». Non voleva che si confondessero i piani. Prendere Jaden Smith è stata la mossa giusta, ma possiamo dire che aveva ragione Amy Pascal alla fine? Nonostante La ricerca della felicità sia il film che ha mostrato agli americani che Will Smith sa recitare, quello che ha fatto partire la sua carriera da attore vero, alla fine l’Oscar non l’ha vinto. E per

giunta non l’ha vinto in un anno in cui l’ha vinto un altro afroamericano, Forest Whitaker per L’ultimo re di Scozia. Sai per quanti voti non ha vinto? Quindici, su seimila votanti. A svantaggiare il film fu il fatto che diventò un blockbuster mentre L’ultimo re di Scozia non lo vide nessuno. Il successo al botteghino non ti aiuta mai. Alla fine il mio era percepito come un feel good movie. Che tipo di attore è Will Smith? È una miniera di talento. Uno che inventa mille piccole cose nuove ogni ciak. Poi magari per quello successivo gli chiedi di rifare un gesto o un’espressione che aveva appena tirato fuori e non te la sa rifare, non se la ricorda. Ogni ciak è una storia a sé. A questo film ci teneva così tanto da sottoporsi alle mie estenuanti sessioni di prova per trovare il tono giusto. Non troppo melodrammatico né troppo sterile, è una sintonia finissima. Pensa che un giorno entra nell’ufficio che mi avevano dato alla Columbia come una furia, con tutto il copione in mano, erano due settimane che provavamo, e mi stende il copione per terra, tutti i fogli uno accanto all’altro perché aveva avuto delle idee su come rimescolare le scene. Era una disposizione che scombinava tutto, ribaltava alcune sequenze e cambiava l’ordine di progressione. Lo guardai gli dissi: «No, fermati. Non ti seguo. Sono settimane che sto cercando di definire questa creatura, se adesso tu me la scombini io non ce la faccio, vado fuori di testa. Scusa, leva i fogli». Ed è finita così. Si fidava di me. Un’altra volta mi disse che siccome il vero Chris Gardner era texano lui poteva imparare l’accento texano e rifarlo. Ce lo vedi Will Smith che parla come Matthew McConaughey? Gli dovetti dire che a stento capivo l’inglese, figuriamoci se potevo dirigerlo con un accento. Non mi sarei mai reso conto della bontà delle scene. E mollò. Lui aveva capito che era il film con cui doveva dare il massimo, con cui avrebbe dimostrato di essere un grande attore e voleva esagerare. Al tempo stesso sentiva che avevo il

polso fermo e forse questo lo rassicurava. Si faceva molto dirigere da me, si fidava. Al contrario era terribile con i produttori. Materialmente uno come lui, nella sua posizione, cosa può fare a un produttore che invece in teoria è il padrone del film e lo stipendia? È un potere d’influenza. Una star, nonostante sia pagata dallo studio, sta molto più in alto dello studio stesso. Per esempio quando io finii le mie revisioni con cui avevo cambiato la sceneggiatura, uno dei produttori che lavoravano lì la lesse e mi fece chiamare perché era “preoccupato”. Che è la locuzione che usano per dirti che sei proprio nella merda. Io mi faccio questo corridoio lungo, arrivo nel suo ufficio e lo trovo lì. Todd Black si chiamava, il vero produttore del film. Todd era tutto rosso in volto e mi dice concitato che ci sono troppi cambi, che ho cambiato tutto, come mi sono permesso, è un disastro… Era impazzito dalla rabbia per quello che mi ero permesso di fare. Gli spiego che erano cambi fatti con Will, ma non sente ragioni. Allora esco, vado da Will, gli spiego cosa è accaduto e lui si alza e fa una scena proprio da Will Smith. Si batte il petto fortissimo con la mano e dice: «Lascialo a me, ci penso io». Parte a falcate gigantesche, lui che è quasi il doppio di me, faceva tipo passi da due metri e io dietro che lo seguivo come un suo sgherro. Mi chiedevi cosa può fare uno come lui: considera che appena entra nell’ufficio Todd si sgonfia, poi Will prende i cambiamenti che avevo apportato e li affronta uno a uno, spiegando perché stanno lì in quattro e quattr’otto. Todd alza bandiera bianca dopo dieci minuti e gli dice: «Be’, mi sembra che allora vada tutto benissimo, grazie del chiarimento». Quindi di fatto ho riscritto il film anche se poi non l’ho potuto firmare, perché a Hollywood se non sei membro del sindacato degli scrittori, la Writers Guild Of America (WGA), non ti fanno mettere la firma senza il consenso dell’autore originale, dovresti andare davanti a un tribunale che sancisca che i cambi che hai

apportato sono significativi e giustificano il tuo nome. Cosa che avrei dovuto fare ma figurati, all’epoca non mi pareva già vero fare il film. C’è un’immagine stupenda nel film che non capisco perché non sia mai stata usata nella promozione, una che dice tutto. È un’inquadratura in cui si vedono insieme il bambino che dorme nel letto del dormitorio e di sfondo tieni in scena anche il padre, in piedi, di notte che studia la finanza su un libro, illuminato dalla luce di un lampione che entra da un abbaino. C’è tutto: la determinazione, il figlio, la povertà e una voglia di riscatto più forte di tutto che ti tiene in piedi la notte. Ecco un’immagine così, che spiega un intero film da sola, è una di quelle che partorisci lavorando alla sceneggiatura? Era nella sceneggiatura esattamente così come l’hai vista. Tanto che quella è una delle poche immagini che non sono state girate in un vero rifugio, ma in uno ricostruito appositamente in un teatro di posa. Perché doveva essere esattamente così come lo descrivi, ci doveva essere l’abbaino con la luce, vicino a un letto. È parte di quel lavoro con lo scenografo che ti dicevo, quando ti fanno vedere tutto, dal colore delle pareti alle planimetrie con la disposizione dei mobili. Parliamo di tre mesi di preparazione, roba che in Italia non vai mai oltre i due. E con centinaia di persone al lavoro. Non è assurdo dover avere tutte le idee per il film lì per lì a freddo, in ufficio, al tavolo con i tecnici e non magari sul set, a caldo, quando vedi la scena e senti cosa sarebbe più giusto? Come ti ho già detto a me le idee vengono scrivendo la sceneggiatura, mi scrivo tutto come deve venire, ma c’è anche gente come Ridley Scott per esempio, che un giorno dice una cosa e il giorno dopo sul set ne vuole un’altra e chi gira con lui sa che deve prepararsi a tutto, devono illuminare e preparare qualsiasi punto della scena perché non si sa cosa inquadrerà.

Quand’è che hai capito che La ricerca della felicità non sarebbe stato il flop che credevi ma anzi sarebbe andato bene? Quando ho visto come intendevano il marketing. Lì è l’unica cosa che conta. Anche Will a un certo punto mi disse che non sarebbe davvero importato se il film fosse stato brutto o bello ma quale sarebbe stato il marketing. Di fatto svilendo il suo stesso lavoro e il suo impegno. Completamente! Difatti lui fa film anche modesti e lo sa. Lo sa che Men in Black 3 è una cazzata, però sa anche che se il marketing è buono incasserà seicento milioni in tutto il mondo. È stato lui a spiegarmi la questione dei quadranti, la maniera con la quale gli studios valutano i film in relazione al loro potenziale d’incasso. Si chiama “sistema a quattro quadranti” perché prende in considerazione le quattro categorie demografiche principali: uomini sotto i venticinque anni, donne sotto i venticinque anni, uomini sopra i venticinque anni e donne sopra i venticinque anni. Che è un modo per intendere “adulti e giovani, sia uomini che donne”. Tutti i grandi successi della storia di Hollywood sono film che possiedono tutti e quattro questi quadranti. Guerre stellari, Titanic, Ritorno al futuro… Me lo spiegò quando gli chiesi quali fossero le aspettative di incasso e lui mi rispose di non saperlo, proprio perché pensava che non avremmo avuto tutti e quattro i quadranti dalla nostra, ci mancavano i giovani, quindi a più di tanto non potevamo arrivare. Lui sperava in dodici milioni di dollari nel primo weekend, che per me era tanto visto che pensavo che ne avremmo incassato uno (in realtà ne incassammo ventisei). Ma quella è solo la partenza, è l’appeal che il film ha da sé. Quando poi il film inizia a essere pubblicizzato e si mette in moto la macchina del marketing, l’obiettivo è diventare interessanti anche per i quadranti che il film da sé non raggiungerebbe, nello sforzo di arrivare ad averli tutti e quattro. Per questo da loro il tempo che passa tra quando

finisci di girare e quando esci in sala è almeno il doppio di quello che passa in Italia. Per darti un’idea nel tempo in cui noi prepariamo un film, lo montiamo, mixiamo suoni e musiche e lo pubblicizziamo, loro fanno solo un pre-mix, la versione provvisoria da presentare ai produttori e testare col pubblico. E questo senza considerare i film con i VFX, cioè gli effetti visivi digitali che hanno bisogno di continui ritocchi. Non si fanno le proiezioni di prova per stabilire il gradimento prima che il film esca? Certo i test screening. La vera prova del fuoco. Testano il film con il pubblico per verificare che funzioni. Se la storia fila, se va cambiato qualcosa, se va levata una scena che non piace o aggiunti più momenti di un certo tipo perché il film sia gradito dai quadranti che lo studio vuole soddisfare. Dopo la visione del film il pubblico riempie un cartoncino con delle domande a scelta multipla su cosa hanno gradito e cosa no e da ogni scheda esce come un voto o punteggio. Sono proiezioni che non si tengono quasi mai a Los Angeles, perché anche lì si temono le gelosie di quelli che lavorano nel settore e si possono imbucare e contaminare il risultato del test. Si va quindi in città ritenute rappresentative del target di spettatori a cui il film è destinato. La ricerca della felicità lo testammo a Seattle per esempio, perché la Columbia lo riteneva un film da pubblico “alto”. Per “alto” si intende il pubblico che ha di solito terminato gli studi e ha un buon livello di cultura generale. E lo trovi più in alcune città o aree piuttosto che in altre. Non accadde lo stesso quando testammo per esempio Quello che so sull’amore a Los Angeles, in un cinema di una zona periferica frequentata da un pubblico culturalmente più semplice. Il target perfetto per gli action movie e i cinecomics. Quello era un pubblico così basso che non capì il tono del film e quello che c’era di buono fu demolito grazie ai loro giudizi. E quand’è così continui a cambiare e testare il film fino a che non va. Per Quello che so sull’amore ci vollero cinque-sei test per arrivare a una forma e un montaggio che soddisfacessero

quel pubblico. Un’agonia. La ricerca della felicità invece già al primo test fece strike: numeri altissimi e applausi. Ma chi è questa gente che vede le proiezioni di prova? Persone a caso reclutate nei centri commerciali a cui viene detto: «Stiamo cercando pubblico per un test screening» e tutti sanno cosa sia. Distribuiscono la brochure del film, per fargli capire di che si parla e se sono interessati, e se vogliono si vedono un film gratis in anteprima. Già questa fase è parte del test, cioè già il numero di persone a cui hai proposto di venire che poi accettano è un’indicazione di quanto sia di richiamo il film. Poi si calcolano quante persone escono dalla sala durante la proiezione, quante vanno al bagno… Infine a film terminato compilano questo questionario in cui ci sono domande sui personaggi, se quello ti ha appagato, se quello ti ha commosso, se una certa scena ti è piaciuta… Sono tipo tre pagine. Tuttavia quello che davvero conta sono le top 2 boxes, cioè come considerano il film: poor, good, very good, excellent. E considera che già good non è positivo, non serve a nessuno che venga considerato “carino”. Infine la domanda «lo consiglieresti?» dà un’indicazione di come funzionerà il passaparola. Per questo good, anche in questo caso, non è considerato buono, perché se a un amico dici che il film è carino quello non ci va a vederlo, ci va solo se gli dici che è bellissimo, imperdibile eccetera: ovvero very good o excellent. Una ventina di spettatori poi vengono trattenuti in sala per delle domande dirette, in quello che chiamano il focus group. Li tengono un po’ di tempo a chiacchierare del film. E questi non sanno che nascosti come sorci tra le sedie più in alto, ci sono anche i produttori, il regista del film e Will Smith con cappello e occhiali da sole che li ascoltano. Quando sommando tutti questi indicatori ottieni un punteggio soddisfacente allora si può uscire, il film è pronto. Dovesti ritoccarlo dopo i test?

Il film non te lo tocca nessuno fino a che non fallisci i primi due test screening, è un diritto del regista testare il suo montaggio. Se i primi due test screening non vanno bene allora il film comincia a cambiarlo la produzione per andare incontro ai suggerimenti degli spettatori. Io fui fortunato, sia per La ricerca della felicità che per Sette anime e Padri e figlie, il mio director’s cut andò subito bene. A quel punto il film viene chiuso, mixato con la colonna sonora definitiva e poi “congelato” in attesa del momento buono per uscire. Sia La ricerca della felicità che Sette anime sono usciti a Natale, circa un anno dopo il test screening. Una vita! Però quel tempo è in fondo anche utile a pianificare la miglior strategia di marketing. Mi ricordo che il primo poster del film l’ho visto in autostrada. Ero andato a Santa Barbara a fare un’intervista per “Vanity Fair” con Paola Jacobbi e al ritorno becco ’sto cartellone, il primo di un mio film in America. Era pazzesco per me. E ignoravo che in realtà quello non era niente, un manifesto del cavolo. In città era pieno! A Times Square a New York ce n’era uno che prendeva tutta la facciata di un grattacielo. A quel punto è normale che cominci a sentirti come il primo uomo che mise piede sulla luna. Partita la pubblicità finalmente vai in sala! Ancora no. Se otto settimane prima dell’uscita parte il marketing, quattro settimane prima iniziano ad arrivare i report. Sono dei documenti che ogni mattina arrivano via email che ti dicono quale pubblico si sta interessando al film sulla base delle reazioni alle pubblicità. Ed è fondamentale perché oltre a dirti come si sta componendo il tuo pubblico potenziale, ti mettono anche a confronto con dei film simili al tuo che sono stati dei successi, lo prendono come metro di paragone. Per La ricerca della felicità uno dei metri era Rocky e un altro film con Denzel Washington che non ricordo. Secondo loro il mio pubblico era lo stesso che aveva amato quei due film, che non a caso erano storie di gente che lotta per emergere e poi ce la fa. Quindi io facevo la mia gara su

quei titoli. Il film doveva arrivare dalle parti dell’incasso di quelli, altrimenti non era andato bene. Insomma l’incasso del primo weekend doveva essere nel range dei venticinque-trenta milioni. Ogni giorno in questi report, a seconda di spot, affissioni e come queste venivano percepite, la linea dell’incasso potenziale si avvicinava all’obiettivo. Bada bene che il film non è ancora uscito, si parla solo di previsioni di incasso sulla base di come viene fatta la promozione e delle intenzioni di acquisto di un biglietto, misurate con sondaggi e telefonate campione. È il modo in cui gli studios capiscono se intensificare o no la pubblicità e dove agire per essere sicuri che l’uscita sia la migliore possibile. È un processo costoso ma che ti dice già molto su come andrà il botteghino. Tu puoi fare tutta la pubblicità del mondo ma se il film non interessa lo vedi da questi indicatori. Allora magari si cambia in corsa il trailer o la strategia di marketing. Per i miei due con Will è sempre andato tutto bene, abbiamo cambiato poco. Per esempio c’era quest’indicatore che diceva che la promozione stava andando benissimo con le donne ma non altrettanto con gli uomini, allora hanno messo in onda sui canali sportivi e altre trasmissioni con target maschile un secondo trailer più orientato agli uomini. Tempo due-tre giorni e l’indicatore dell’interesse del pubblico maschile si era alzato. Era il tuo primo film in America, come vivevi questa procedura di lancio? Non ci credevo. Pareva il lancio di un razzo della NASA. C’erano interi reparti di persone al lavoro sul mio film. Ma, incredibile, dopo poco mi sono abituato. Come se fosse sempre stato così. In quel mondo tutte quelle persone vivono di quello, non si parla d’altro. Anche per questo le conseguenze del successo della Ricerca della felicità sono partite prima ancora che il film uscisse. È probabile che i grandi boss degli studios avessero organizzato tra loro alcune proiezioni private senza dirmelo. Insomma il film veniva vissuto come un successo prima ancora che uscisse, tutti ne

parlavano così. Ricevetti diverse offerte e addirittura iniziai a lavorare a un film con Jim Carrey e Cameron Diaz solo perché avevano sentito che c’era quest’altro film con Will Smith diretto da questo regista italiano di grande talento. Una produttrice della 20th Century Fox che incontrai in quei giorni mi disse: «Tu non hai la minima idea di cosa ti sta per succedere». Rimasi senza parole perché era vero. Non ne avevo la minima idea. Lui, Will Smith, l’aveva capito? No, Will continuava a sostenere che il film avrebbe incassato venticinque centesimi e così Amy Pascal. Non è strano che fossero tutti così entusiasti per un film che non pensavano avrebbe incassato? Lo erano perché per l’appunto a un certo punto l’obiettivo era diventato far vincere l’Oscar a Will Smith. Avevano visto che era un’interpretazione come non ne aveva mai fatte e la cosa li eccitava parecchio. Questi sono tutti dei contabili, per quanto bravissimi contabili. Non hanno un vero gusto per il cinema. La loro esperienza nel settore gli fa riconoscere quasi meccanicamente un ruolo con un potenziale da Oscar. Non è mai vera comprensione ma solo identificazione di qualcosa di simile a quel che già ha vinto in passato. E ovviamente non sempre ci prendono. Per esempio sembrava che non avessimo i giovani nei nostri quadranti, invece dopo dieci giorni di programmazione è successo che gli adulti tornavano a vederlo portandosi i figli, diciamo dagli undici anni in su, perché lo consideravano educativo. In America li chiamano i “repeaters”, quelli che vanno a vedere il film più di una volta portandosi dietro qualcun altro. E ai bambini il film piaceva, rimanevano incollati. Con tutta questa esperienza hai detto la tua per la distribuzione italiana?

Non troppo, la Medusa lo strappò alla Sony Columbia pagandolo tantissimo, quindi erano in tensione. Gli avevo detto di stare tranquilli. Avevo visto che andava bene nei sondaggi. Poi lo so che può succedere tutto, basta un weekend di tempo troppo bello o troppo brutto che la gente non va in sala e ti danneggia l’uscita, o come è capitato a Gli anni più belli, che stava andando benissimo ma è arrivato persino il Covid a cambiare interamente le carte in tavola. Dissi al responsabile marketing di Medusa che il film e la campagna erano tutti giustissimi, di non toccare niente, non cambiare il trailer. Mi dicevano che la scena del bagno era troppo drammatica. «Drammatica un cazzo! Il bagno va benissimo», gli rispondevo. Infatti alla fine la forchetta prevista per l’esordio americano, tra venticinque e trenta milioni, la centrammo. Ventisei milioni e primo posto nella classifica. «Ciao a tutti!! Ciao proprio!» pensai dentro di me esultando. Primo in classifica! E ci è rimasto per tanto, tutte le vacanze di Natale. Ovviamente io lo seguivo con i report del marketing che dopo l’uscita diventano report sull’andamento al box office, qualcosa di molto più completo di quel che puoi leggere sui giornali, che ti indica in quali aree del paese ci sono dei buchi, cioè dove ha meno successo così che magari si possa intervenire con pubblicità su reti regionali. E poi ci sono gli exit poll: chiedono alle persone che escono come considerano il film in un range da A, il massimo, a F, il minimo. Il “Cinema score”, si chiama così, lo indicava con A+ e alla fine infatti il passaparola spaccò. Centosessanta milioni in America e con il resto del mondo arrivò a trecento, che per un film drammatico era un trionfo assoluto. Soprattutto se di milioni ne è costati cinquanta. E altri quaranta li avevano spesi in marketing, ma lo stesso il margine di guadagno era altissimo. Il triplo del suo costo, a cui va aggiunto il prestigio di una grande campagna Oscar. Alla Columbia non si parlava d’altro, era il film di punta dell’annata. E poi i dvd (che andarono a ruba), i diritti tv… Io

che avevo le royalties sui dvd vedevo arrivare ogni mese un sacco di soldi! Per i primi tempi parliamo di circa diecimila dollari al mese. Poi, dopo qualche anno, col calo della vendita dei dvd, anche quei guadagni, si sono ridotti. E dopo un mese arriva in Italia… Prima era arrivato sui giornali l’eco degli incassi: «Muccino primo al box office americano» in un boxino in prima pagina sul “Corriere”. Poi il film lo vedono i critici e per la prima volta in vita mia mi recensiscono tutti straordinariamente bene. A difesa della categoria era effettivamente un film completamente diverso dagli altri che avevi fatto. A chi non erano mai piaciuti i precedenti era comprensibile che invece questo potesse sembrare un’altra storia. Sì, ma perché l’ho girato in maniera più classica rispetto ai precedenti. Come ti ho detto avevo in testa i classici del cinema italiano e mi serviva quindi una regia classica, invisibile, che poi è uno stile difficilissimo. Alcuni pensarono che me l’avesse imposto la Columbia di adottare quello stile ma non era vero. Certo se fossi arrivato e avessi iniziato con tutti i miei piani sequenza impossibili da accorciare o modificare, sai il panico che avrei generato… Per loro lo stile che uso per i film italiani è impensabile, perché poi se testi male nelle prime proiezioni che fai? Un film girato a modo mio è immodificabile. Per questo non lo permetterebbero mai, i produttori devono sempre sapere che tu stai girando in un modo per cui avranno la possibilità, nel caso, di rimetterci le mani. Se non lo fai credono che tu li stia sabotando e ti licenziano subito. Era una cosa che avevo imparato lavorando nella pubblicità, che è una grande scuola dove impari a navigare tra cliente e agenzia, impari a girare dei ciak che non faresti con tagli che non vorresti ma che sai che devi avere a disposizione se te li chiedono. Molte cose che non mi sono potuto permettere con La ricerca della felicità le ho fatte in

Sette anime, che stilisticamente è molto diverso, perché con quel primo film mi ero guadagnato la loro fiducia. Mi ricordo la conferenza stampa italiana di presentazione del film, venisti con Will Smith e faceste tutto uno spettacolino su come funzionava il tuo sistema di motivazione e di indicazioni di recitazione sul set… Madonna! Era lo show che ripetevamo sempre uguale ovunque, alle conferenze che abbiamo fatto a Berlino, a Londra, Parigi e Tokyo! Le tappe del tour promozionale. Era una cosa massacrante. Arrivo nella città di notte. Subito in hotel a dormire. La mattina conferenza stampa e pomeriggio decine e decine di interviste. Infine cena e subito dopo si presenta il film al pubblico in anteprima. Dopodiché via in aereo verso la prossima città in cui arrivi a notte fonda, vai a dormire e il giorno dopo lo stesso. Circa sette paesi in sette giorni e un paio di più solo per il Giappone che è un po’ fuori mano. In quel tour non so perché non ho ricordi con Will, anche se c’era. Invece sono certo che per quello di Sette anime, che è stato quasi uguale, siamo stati sempre insieme, tutte le sere a cena insieme io, lui e mia moglie Angelica. Forse perché non c’era il suo entourage e se non sbaglio nemmeno la moglie. Allora erano un po’ in crisi, ricordo. Aveva proprio voglia di parlare. E fu fantastico parlare di vita con lui così a lungo, senza parlare mai di lavoro.

7 Avevo quarant’anni e mi chiamavano “maestro” Sette anime (2008)

Sarebbe un’impresa ardua per chiunque ricordare un grande film hollywoodiano degli ultimi trent’anni almeno, che abbia al centro una star e che sia una tragedia. Che finisca male. Che punti a commuovere non facendo appello alla felicità per qualcuno che attraversa delle difficoltà e ne esce migliore, ma perché tutto è andato male. Hollywood non ragiona più così da decenni, quel tipo di cinema melodrammatico è considerato veleno per il box office e se ne tengono alla larga. L’unico film che risponde a questa descrizione è Sette anime. Questo dà la misura dell’azzardo compiuto subito dopo il trionfo della Ricerca della felicità. La storia è quella di un uomo che si finge qualcun altro, che gira, incontra altre persone, le mette alla prova e ne stabilisce la moralità. Non capiamo perché, sappiamo che ha un segreto e dei flashback lentamente compongono l’origine di questo segreto che diventerà chiaro solo alla fine. Una delle persone che vaglia è una donna con cui stabilisce un legame, nonostante la riluttanza iniziale. Cederà all’amore ma capirà anche che più forte del sentimento è la sua missione. Anni

prima ha ucciso sette persone in un incidente d’auto e per espiare questa colpa che lo ossessiona ha deciso di sacrificarsi, di morire e lasciare i suoi organi a sette persone che ne hanno bisogno. Ma non sette a caso. Così gira valutando i candidati meritevoli. La donna di cui si innamora con passione travolgente ha bisogno di un cuore, l’amore lo stava facendo tornare sui suoi passi, gli stava facendo dimenticare la missione ma una crisi cardiaca gli ricorda che perché lei viva lui deve morire. Se il Muccino americano della Ricerca della felicità vestiva abiti diversi da quelli cui eravamo abituati, con uno stile invisibile da cinema classico al servizio di una rigida etica americana, questo è un passo più vicino a quello che conosciamo in Italia, furioso e impetuoso, voglioso di sperimentare e di far sentire la propria mano. Se tutti i film di Gabriele Muccino contengono, nel loro cuore, un melodramma, Sette anime è uno dei pochi a metterlo in primo piano. Curatissimo dal punto di vista della fotografia, come i mélo americani degli anni cinquanta, e giocato tutto sulle tenebre e la morbidezza dei colori in una maniera che poi non è più tornata (come non c’è più stata del resto una collaborazione con il direttore della fotografia Philippe Le Sourd), Sette anime è uno dei rischi più grandi della carriera di Gabriele Muccino. Un film che fa sfacciatamente poesia là dove il cinema di solito fa prosa, che non teme di immergersi nella rappresentazione idealizzata dei sentimenti puri. E di farlo con un cast di star. Un film che sembra un alieno nei nostri anni, in totale controtendenza rispetto al prendersi poco sul serio del cinema americano, all’autoironia a tutti i costi e alla paura delle sensazioni più dure e meno concilianti. Uno schiaffo. I personaggi dei film di Muccino vivono sempre un presente da incubo ma non possono smettere di sognare e battersi per un domani migliore. Questa è la prima volta che un

personaggio sogna e si batte per un domani peggiore per sé e migliore per gli altri. Dopo il successo della Ricerca della felicità e prima di iniziare Sette anime la tua vita a Hollywood com’è stata? È stato il momento di massima propulsione, quello in cui ho incontrato praticamente chiunque. Come ti avevo detto c’erano state avvisaglie già prima che uscisse il film, dopo il successo al botteghino fu una certezza e poi ci fu la serata degli Oscar. Un’esperienza incredibile stare lì, al Kodak Theatre, e partecipare o meglio fare il tifo per l’attore di un tuo film. Certo ero in balconata e non in platea perché in platea ci stanno praticamente solo i nominati e le autorità di Hollywood. Quello fu anche l’anno del premio alla carriera a Ennio Morricone? Sì, fece quel discorso di accettazione bellissimo che purtroppo Clint Eastwood non tradusse proprio bene. Ero commosso e al tempo stesso ero eccitato per l’evento. Se vai a vedere il video su YouTube nelle pause dopo gli applausi e ogni tanto anche nelle sue di pause si sentono delle grida in italiano «VAI ENNIO!», «SEI GRANDE!!». È la mia voce. Come abbiamo detto poi Will Smith non vince. Sì, però io intanto sono invitato lo stesso al party post cerimonia più prestigioso. Quello di “Vanity Fair”. Lì vengo avvicinato da uno dei manager più importanti di Hollywood che mi dice che mi deve far conoscere una persona, mi porta da una donna che sta di spalle e come nei noir anni quaranta questa si gira ed è Madonna. Mi dà la mano, mi bacia sulle guance, dice di essere impazzita per il mio film. Parliamo a lungo mentre tutta la sala si chiedeva chi fossi io per monopolizzarla per tutto quel tempo. E pensa che mi parla benissimo anche della Finestra di fronte di Ferzan Özpetek!! A Hollywood sono tutti innamorati dell’ultima novità di

successo, sono tutti pronti a correre incontro a quella che si presenta come una nuova onda. Io in quel momento ero quella cosa là. Quindi Madonna voleva qualcosa di concreto? Non lo so. Però ci scambiamo i numeri e per due-tre mesi mi sento di frequente con lei per sapere come sta. Mi invitò anche a una grande festa a casa del suo manager. Io ero single, lei aveva quarantasette anni, circa dieci più di me, e ovviamente ero totalmente infatuato. In questa serata iniziamo a parlare e, te lo dico, parlare con Madonna a venti centimetri di distanza fa impressione. A un certo punto però arriva Chris Rock, il comico, che mi blocca per un’ora a parlare di film perché aveva visto L’ultimo bacio e ne era un grandissimo fan. Mi parla di come era scritto, mi dice anche che ci si era ispirato per un film che aveva diretto, Manuale d’infedeltà per uomini sposati, mi riempie di elogi di cui però non ho potuto fare nulla perché non mi è mai capitato di poter lavorare con lui, e di fatto mi ha rovinato la serata con Madonna. Vabbè mica sarà finita lì? Quasi. All’epoca Madonna stava scrivendo il suo primo film per il cinema, Sacro e profano, e mi mandava le stesure della sceneggiatura per un parere. Com’erano? Bruttine, assai. E visto come sono fatto le dissi quello che pensavo. Da quel momento i rapporti si raffreddarono. Quando hai davanti una celebrity, e Madonna è la regina delle celebrity, non puoi pensare di dire quello che pensi e che nulla cambi, a meno che quello che pensi non sia adulatorio. Quando si parla di Scientology raramente si nomina Will Smith ma da più parti ho letto che anche lui è un adepto. Ti è capitato che la cosa venisse fuori?

Non ne abbiamo parlato, e credo lui non lo abbia mai dichiarato. Però è successa una cosa che mi ha fatto pensare. Durante il tour promozionale di Sette anime spesso cenavamo io, Angelica e lui, soli al tavolo, e parlavamo di coppie, delle relazioni. Una sera a Tokyo lui iniziò a parlare di come aveva affrontato le sue crisi di coppia con sua moglie, Jada Pinkett. Praticamente hanno un team di persone che li aiuta, con i quali vanno a fare dei ritiri in luoghi isolati. E in questi ritiri imparano come gestire la coppia grazie a degli intermediari. Ovviamente io per cortesia gli dico «Ah be’, interessante». Stacco. Tornati a Los Angeles alla fine del tour mi chiama uno degli assistenti di Will e mi dice: «Chiamo da parte del signor Will Smith, volevamo prendere un appuntamento con il team di cui avete parlato». Io lì per lì dissi: «Ah sì, le faccio sapere». Ci pensai un po’ e alla fine ebbi paura che potesse essere davvero una cosa legata a Scientology. Così lasciai perdere. Team che salvano matrimoni e distruggono carriere… Sì, penso a Paul Haggis che da quando è uscito da Scientology non ha più lavorato, eppure era bravissimo. Lo conosco bene perché ha scritto il remake americano dell’Ultimo bacio, un filmaccio massacrato da uno dei figli del Goldwyn di Metro Goldwyn Mayer, Tony Goldwyn, un attorucolo che decise di fare il regista e scelse un cast male assortito. Un film orrendo. Ma la sceneggiatura l’avevo letta e prima che la massacrassero era bella, forse più bella della mia, era molto fedele ma aveva più umorismo. E all’epoca Haggis non era ancora esploso. Stando al documentario di Alex Gibney su Scientology, chi è nella setta non solo ha delle agevolazioni di carriera a Hollywood ma fa tutto un percorso per ottenere più fiducia in se stesso. È una grande retorica che si raccontano e a furia di raccontarla ci credono, credono nella loro enorme forza. Un giorno Will mi disse: «Se io voglio posso anche diventare presidente degli

Stati Uniti, devo solo volerlo. Tutto quello che noi vogliamo fare, se lo vogliamo davvero, è possibile». Ha giocato un ruolo nella fine della relazione con Will l’aver rifiutato di girare il film Hancock? Guarda quella è veramente una storia poco felice. È accaduto dopo che avevamo girato La ricerca della felicità. Doveva essere il mio progetto successivo con Will in teoria. Il primo a cui lo avevano proposto era Jonathan Mostow, il regista di U571, che per divergenze creative era stato licenziato. E così l’avevano proposto a me. Mi arriva questo copione assurdo, davvero folle, che si intitolava Tonight He Comes, con il doppio senso già nel titolo. Era quello che poi è diventato il film Hancock ma molto più strambo, confuso e pieno di situazioni sessuali che definire surreali non è abbastanza. Faccio un esempio: c’era una scena in cui lui, Will, ovvero John Hancock, fa sesso con una donna, ma essendo un supereroe, è troppo potente e rischia di ucciderla con la violenza del getto del suo sperma. Si descriveva letteralmente il getto del suo sperma che sfondava il tetto di un edificio sul Sunset Boulevard. Io non potevo crederci. Mi sono chiesto: «Ma io come la filmo ’sta cosa??». E la parte più assurda era che in origine avrebbe dovuto girarlo Michael Mann che poi decise di produrlo soltanto e di farlo girare a me. Dovetti dirglielo a Mann che non era una cosa per me, non sapevo come raccontarla questa storia. Pensa che io mi chiesi anche chi fosse il cretino che aveva scritto questa orrenda sceneggiatura. Un certo Vince Gilligan. Qualche anno dopo esce Breaking Bad, scritto e creato da Vince Gilligan, serie bellissima, tutta a fuoco, non una scena fuori posto. Non so come sia possibile che l’avesse scritto lui quel copione. Fatto sta che alla fine se l’è preso sulle spalle Peter Berg e l’ha rattoppato tutto. Ovviamente levando ogni allusione erotica. È diventato pure un film discretamente confezionato. Un vero miracolo per me che sapevo da dove partiva.

Nella versione di Berg è rimasto qualcosa dei cambiamenti che tu avevi fatto mentre ci lavoravi? Sì, il fatto di avere la protagonista femminile bianca, cioè Charlize Theron. L’avevo scelta io. Originariamente doveva essere Halle Berry solo perché se un nero va con una bianca è sempre un po’ un problema a Hollywood. Alla comunità afroamericana non piace e nemmeno al pubblico bianco. Io avevo invece convinto Will a rompere questo cliché. Se non sbaglio va a finire che nel film non si baciano mai. A Will Smith glielo dicesti tu o glielo facesti dire da qualcuno che non avresti fatto il film? Glielo dissi io, ma fu un momento terribile. Altro che lesa maestà! Rifiutare un simile invito di Will Smith, che mi aveva voluto a tutti i costi a Hollywood al suo fianco, era gravissimo. E infatti diventò molto freddo. Si arrabbiò. Seriamente. Gli dissi che non potevo farlo perché non avevo né la testa né la lucidità per mettere a posto quella sceneggiatura. A pranzo a Roma durante la promozione della Ricerca della felicità, gli spiegai che stavo attraversando un divorzio pesantissimo, gli dissi che gli volevo veramente bene e che comunque volevo lavorare ancora insieme a lui. E nonostante quello fosse un momento d’oro, con gli incassi che volavano e la campagna Oscar che montava, lo stesso era abbastanza distaccato. È uno che non ti perdona un rifiuto, anzi credo proprio che non abbia mai ricevuto il rifiuto di un regista in vita sua. È lui che rifiuta. Io stesso l’ho visto rifiutare un film di Christopher Nolan in cui sarebbe stato protagonista. Eravamo a casa sua e chiamò Nolan, stettero al telefono per mezz’ora durante la quale Will gli disse che non avrebbe fatto il film. Una volta attaccato mi spiegò con franchezza quel che non aveva potuto dire a Nolan, cioè che aveva letto la sceneggiatura e non ci aveva capito niente, non aveva capito proprio di che parlasse. Quel ruolo poi lo accettò Leonardo DiCaprio. Era Inception. Quando lo scaricasti che ti rispose?

Mi disse che quando avevamo girato La ricerca della felicità aveva agito come se fossimo due poliziotti, io andavo avanti ma lui mi copriva sempre le spalle, invece con quel film io lo avevo lasciato da solo. Un paragone durissimo. Mi fece sentire come Giuda con Gesù. Quando poi arriva il copione di Sette anime hai finito le tue possibilità di rifiuto e lo devi fare, immagino. Non proprio, il copione era bello, solo che era complicato, aveva molte difficoltà. È una storia in cui devi celare allo spettatore l’origine e le ragioni del personaggio fino alla fine, quando le sveli tutte insieme. Avevo pensato al Sesto senso come riferimento, per la struttura drammaturgica simile. Ci volevo mettere qualcosa di unico, come per esempio il fatto che nel cinema mainstream hollywoodiano non si fossero mai visti due afroamericani fare sesso, è una regola non scritta. Infastidisce il pubblico bianco. Lo vedi nei film di Spike Lee o in quelli indipendenti, non in quelli degli studios. In Sette anime per la prima volta un attore gigante come Will Smith (che è l’unico afroamericano a essere stato a livello di Brad Pitt o Leonardo DiCaprio) fa sesso. E comunque ci siamo tenuti, tutto molto delicato con una serie di dissolvenze verso il nero eleganti e che lasciavano molto all’immaginazione. Insomma erano tutte cose che mi esaltavano: lavorare di nuovo con Will, fare un film con un finale a sorpresa e raccontare sostanzialmente una grande storia d’amore. Avevo solo una perplessità, quel finale con la medusa. Perché nessuno trapianterebbe gli organi di una persona morta avvelenata, era una cosa non plausibile clinicamente, ragione per la quale ho girato anche un altro finale molto bello e forte che alla fine non abbiamo montato perché temevano l’effetto emulazione, Will si spara alla testa nel bagno dell’ospedale con l’amico Barry Pepper seduto fuori, pronto a fare in modo che i suoi organi vengano donati alle persone giuste.

Barry Pepper! Un attore che fa solo ruoli da cattivo e invece tu hai preso per una parte da buonissimo! L’avevo visto in Salvate il soldato Ryan e mi era piaciuto molto. Poi non è che sia stato eccezionale. Alla fine ci credevi o no in questo film quando l’hai accettato? Non ci credevo ma volevo sfidare me stesso e dimostrare che sono un cazzo di regista che riesce a fare una cosa impossibile e renderla commerciale e pure intelligente, cosa che poi fondamentalmente è riuscita, perché il film non è andato benissimo in America per via di una tempesta di neve che colpì la costa Est bloccando tutti e perché era appena scoppiata la grande crisi dei mutui subprime, ma in Europa, dove la crisi non era ancora arrivata, incassò cento milioni. Il film funzionava. Ho sentito qualche giorno fa Rosario Dawson e mi ha raccontato che spesso la fermano e la riconoscono proprio per questo film. È un film che ha uno zoccolo duro di gente che lo considera formativo nella propria crescita esistenziale. E comunque, nonostante il cambio, alla fine ci sono stati casi di emulazione. Gente che, ispirata dal film, si è suicidata per donare i propri organi. Ovviamente anche qui c’è una bella corsa sotto la pioggia. A questo punto, dopo tanti anni dalla prima che avevi filmato in Ecco fatto e dopo tante altre che hai girato, dopo aver fatto un megafilm in America, era una corsa sotto la pioggia diversa? C’era più maturità in come hai gestito quel momento che ricorre così spesso nei tuoi film? È girata nello stesso modo in cui è girata la corsa di Santamaria nell’Ultimo bacio e tante altre, solo che qua il protagonista, invece di correre incontro al destino che si apre davanti ai suoi occhi, corre incontro a una decisione mortifera, quindi è tutto in minore. La soluzione che solitamente sfrutto per i momenti positivi, esaltanti, qui la sfrutto per il suo opposto. Un uomo che si priva dei suoi organi per salvare altre

persone. C’è poi tutta una parte fortissima del film che è la storia d’amore, su cui invece il marketing decise di non puntare per niente, e secondo me fu un peccato. Anche perché il twist finale, quello che vede Will Smith tornare sui suoi passi dopo essersi innamorato e andare fino in fondo con il piano che aveva in mente, secondo me è potente e molto originale. Qui arriva la corsa di un disperato che non vuole morire ma che lo farà adesso oppure non sarà mai più in grado di farlo. C’è l’impeto di chi non ha il tempo di riflettere. Lo script te lo sei adattato? Sì, ma non molto, meno di quanto non feci con La ricerca della felicità. Nella prima versione lui lavorava alla NASA e si rendeva responsabile del malfunzionamento di uno shuttle, uccidendo sette astronauti. Non mi convinceva e soprattutto erano usciti da poco i telefoni come il BlackBerry, quelli con la tastierina con cui si ricevevano le email e si scriveva molto di più, così pensai che poteva essere un incidente di quelli di distrazione, una cosa che può capitare a tutti e in cui è più facile identificarsi. Gli inviai questi cambiamenti e Will comunque ci mise un po’ a decidere, anche se era lui che mi aveva proposto il film. Ci incontrammo in un locale in cui la figlia cantava e poi parlammo un’altra volta. E basta. Da lì mi tenne sulle spine. Credo avesse paura che cambiassi idea di nuovo come per Hancock. Su quel film avevi problemi di autorità e di ingerenza dei produttori? No, non più. Il successo della Ricerca della felicità mi aveva reso uno di loro, venivo considerato “autore”. Avevo quarant’anni e mi chiamavano “maestro”. All’italiana. Considera sempre che lì il director’s cut, cioè il tuo montaggio del film, è un diritto protetto dal sindacato dei registi. Io appartenevo al sindacato perché ci entri di diritto quando fai un film con uno studio e il sindacato tutela il director’s cut. Materialmente viene uno che ti prende da parte e ti dà un

bigliettino da visita. Giuro. Tipo FBI. Ti dice: «Sappi che tu hai diritto a stare dieci settimane in montaggio senza che nessun produttore osi entrare a vedere anche solo un fotogramma. Se ti capita e fanno storie tu chiamami». Una roba serissima che in Italia ci sogniamo ed è quello che ti garantisce i due test screening a disposizione per provare il tuo montaggio. Se poi il film non funziona dopo quei due test, lo studio se lo prende e lo può rimontare a piacimento. Con o senza la tua collaborazione. In realtà io ero in buoni rapporti con i produttori e il montato glielo facevo vedere, mi davano i loro suggerimenti e valutavo se integrarli o meno. Senza obblighi. Per il film hai preso un altro attore che aveva lavorato con Oliver Stone in un film che ami: Woody Harrelson. Lo amo dai tempi di Assassini nati. Era un po’ caduto in disgrazia e non lavorava molto in quel periodo. Lo rappresentava il mio agente e me lo spinse parecchio. Sai, lì il lavoro non è tanto rispetto a quanti attori ci sono. Molti attori, anche molto bravi e noti, faticano («Benvenuti a Hollywood!»). Magari sono stati star per un periodo e poi basta. Guarda Amanda Seyfried, che con me ha fatto Padri e figlie ma soprattutto era in Mamma mia!, poi non ha fatto quasi niente e ora è tornata con Mank. Amanda è una che in Italia disintegrerebbe l’intero parco attori, non ce ne sarebbe per nessuno. Ma lì funziona così, gli attori hanno delle stagioni buone e altre meno. La media degli attori in America è migliore che in Italia? Molto migliore. Quando fai i casting e vedi gli sconosciuti, ti accorgi che quelli sono come i migliori italiani. Lì il lavoro dell’attore è preso molto più sul serio. Da noi se dici di fare l’attore e non sei conosciuto, le persone generalmente pensano che non fai nulla, che sei un velleitario artistoide. Lì invece anche se non sei conosciuto tutti sanno che esistono molti canali dove puoi fare questa professione seriamente, da

Broadway e Off Broadway fino a tante altre ramificazioni del mondo dello spettacolo. Tu curi moltissimo la recitazione, questo crea un rapporto buono con gli attori o sei considerato invadente? In molti mi dicono che si rendono conto che gli sto addosso come nessun altro. Per esempio Massimo Ghini era molto colpito da come gli stavo proprio addosso fisicamente, gli davo ogni tanto anche le battute sottovoce. Spesso li gestisco come fossi un direttore d’orchestra, mi metto nella scena fisicamente con loro, almeno quando mi è possibile farlo senza finire nell’inquadratura. Certo poi in realtà io giro molto in piano sequenza e lì ho poco da stargli addosso, sono nelle loro mani, mi rimetto alla loro sensibilità e alla loro capacità di gestire i tempi e i movimenti all’interno della scena che abbiamo provato insieme. Girare prevalentemente piani sequenza è fondamentalmente un modo per dirigere e incanalare le energie di una scena e far sì che gli attori non sappiano più quando e come sono inquadrati, dopo poco si dimenticano della macchina da presa e recitano come su un palcoscenico, si fanno trascinare dall’emotività riuscendo a perdere del tutto o quasi il controllo. Questo è solitamente uno dei primi difetti che devo togliergli: il controllo di ciò che dicono e fanno mentre recitano. Cerco di mettere gli attori in condizioni di sentirsi liberi di esprimersi senza dover pensare alla meccanica della troupe che li segue e circonda. Sono convinto che più l’attore è libero di muoversi, invece di sentirsi inchiodato dalle luci e dalla macchina da presa, tanto più riesce a rendere e vivere la scena in modo autentico, istintivo ed emozionante. Anche per questo cerco di evitare cose come le crocette messe sul pavimento per ricordare agli attori le posizioni che devono tenere. Certo a volte sono indispensabili per impedirgli di finire in ombra, ma in linea di massima cerco di liberarli perché la loro unica preoccupazione sia vivere l’esperienza piena della scena. E negli anni ho capito che più la macchina da presa danza con

loro più se la dimenticano. Il piano sequenza è una scossa di adrenalina non solo per gli attori, un po’ di quella tensione passa anche alla troupe. Gli attori apprezzano questa liberazione? Alcuni sì, altri non capiscono nemmeno che è per questo motivo che nei miei film hanno recitato meglio del loro solito. Sarebbe per loro un’ammissione di debolezza e non riescono a riconoscere che il regista fa effettivamente una differenza enorme. I più esperti, importanti e con l’ego maggiore lo tollerano che tu gli stia così addosso? Di solito sì. Sempre Ghini per esempio aveva la sensazione che questo modo di girare lo avesse migliorato e lo contrapponeva invece ai registi che si mettono le cuffie, guardano la scena al monitor e quando è finita dicono: «Bona! Famone n’altra però!» senza nemmeno spiegare cosa non vada. Molti registi non sanno proprio come dare indicazioni agli attori. Invece a me quell’esperienza come attore con Pupi Avati, per quanto breve, mi ha insegnato molto, soffrivo il mio essere totalmente privo di talento e lavorare in un ambiente che non mi stimolava. Poi frequentavo attori all’epoca e capivo i loro enormi complessi, le loro insicurezze. Anche per questo adesso riesco a inquadrarli già nei provini, capisco al volo le loro debolezze e i punti di forza, la loro natura intima. Gli attori per via delle loro insicurezze tendono a recitare sempre alla stessa maniera, a replicare se stessi, perché sanno che funziona e così non sbagliano. È un discorso che dovetti fare anche a Will Smith, gli spiegai che dovevamo ricominciare da capo, lo stimolai indicandogli una strada che nessun altro aveva avuto il coraggio di indicargli. Sai una star così se gli dici di sbarazzarsi dei suoi strumenti abituali ti può anche mandare a quel paese e dirti: «Ma chi sei tu? Io ho fatto questo, questo e quest’altro, i miei strumenti sono tutto quello che ho», e non avrebbe nemmeno torto. Se a me levi i miei di

strumenti, come i teleobiettivi, i piani sequenza, le corse e mi fai fare un film tutto camera fissa io ti rispondo di andarti a scegliere un altro regista. Dopo La ricerca della felicità hai dovuto continuare a spingere Will Smith anche in Sette anime? Sì. Una volta gli urlai che doveva essere come un bambino appena nato, senza coperte, che finalmente respira e sente il contatto con l’aria per la prima volta. Lui chiese a Rosario Dawson: «Ma che ha detto?» e lei gli rispose: «Credo voglia che tu sia più vulnerabile». Ovviamente il mio era un modo molto più articolato di dire quella cosa, che doveva essere il più vulnerabile possibile, più in profondità del semplice essere fragile, in modo che io senta la vita scorrere negli occhi, in modo che veda le pupille dilatarsi. È quel risultato che ottengo quando faccio urlare gli attori prima di battere il ciak, fargli pompare il cuore, così che le sensazioni non le debbano simulare ma il loro corpo le senta come vere. Generi per finta una reazione vera. Esatto. Cosa che causa quella recitazione sempre un po’ ansimante e il fiatone che alcuni prendono in giro. Però tutto questo crea anche quella necessità di vita che si trova nel primo bacio o in una enorme delusione, nella morte di un tuo caro o in un abbandono. Certo un attore come Pierfrancesco Favino non devo farlo urlare, ci riesce da solo ad arrivare a quel livello, o uno come Kim Rossi Stuart, che è molto cerebrale, raggiunge questo stadio e trova le energie giuste nel silenzio, in una sua forma di contemplazione spirituale. Ogni attore è una creatura da studiare e trattare in modo diverso. Hai dovuto far urlare anche Russell Crowe? No. Meno male. A lui dà proprio fastidio.

Pensi di poter riuscire a far recitare chiunque? Diciamo che posso far recitare più o meno chiunque in maniera accettabile. Non diventerà un genio ma non stonerà. Anche qualcuno preso dalla strada, senza nessuna esperienza? Quella è un’altra cosa. Se prendi qualcuno dalla strada è perché ha un talento grezzo. In quel caso vai proprio a caccia di due cose: la faccia e l’istinto della recitazione. Lì è come lavorare con i bambini, devi fargli fare tutto tu ma hai a che fare con un materiale facilmente infiammabile, non è difficile accenderlo. È peggio quando sono attori professionisti, soprattutto se ossidati da anni di metodo sbagliato e se hanno lavorato con cattivi maestri. In Sette anime succede una cosa che raramente accade nei film americani di alto profilo: il protagonista muore. E come se non bastasse muore lentamente davanti ai nostri occhi. Ti sei posto dei problemi su come mostrarlo? Non mi sono posto questo problema, il mio problema come ti dicevo era la credibilità. Il secchio, il ghiaccio, la doccia… Non lo so. Volevo vedere il meno possibile così mi sono inventato questo espediente della tenda: lui si aggrappa, la tira giù e quindi viene coperto. In realtà poi invece che cadere su di lui è caduta fuori e non l’ha coperto ma quella è una scena complicata, quelle che giri una volta sola. O almeno io di quelle così intense faccio un solo ciak, magari con cinque macchine da presa piazzate, così da avere tutte le angolature necessarie. Anche della scena del bagno della Ricerca della felicità ho fatto un ciak solo. Certo dopo che fai tantissime prove eh! Will sapeva tutto. Doveva entrare e prendere il secchio, poi mi sembra di ricordare che gli davamo un segnale, così sapeva che in quel momento gli sarebbe arrivata la scossa e nelle convulsioni doveva prendere la tenda e tirarsela contro. Poi agonizzare. Infine la morte pochi secondi dopo. Il veleno di

quel tipo di meduse è il più potente del mondo, ti fa esplodere i globuli rossi e muori in pochi secondi. Ecco lì, in quel momento, tu piazzi il flashback cruciale del film, quello che ti fa capire cosa è successo e perché ha fatto tutto quel che gli abbiamo visto fare. Quello che amo di questo film sono proprio gli intercut, cioè questi flashback che interrompono l’azione. Dilatano la scena mettendo insieme alla morte anche la conclusione. Avvolgi tutto e lo chiudi tutto insieme. Lo trovo potente. Non è la prima volta che nei tuoi film compare la vasca da bagno, che è un oggetto non proprio di uso comune e in cui invece tu fai avvenire tante cose. Laura Morante piange nella vasca da bagno in Ricordati di me, ci sta Amanda Seyfried in Padri e figlie e solo in questo film qui è il luogo in cui Rosario Dawson sente il cuore battere e ovviamente quello in cui muore Will Smith. Non è un caso… No, non lo è. Viene da Paura di volare di Erica Jong, il libro femminista ante litteram. Lo lessi tantissimo tempo fa perché me ne aveva parlato mia madre e anche prima di scrivere L’ultimo bacio, perché pensavo mi sarebbe stato utile per raccontare meglio il personaggio di Stefania Sandrelli. La vasca è il posto in cui nelle ultime pagine di quel libro, la protagonista termina il suo percorso confuso e un po’ smarrito alla ricerca di un uomo che poi capisce non esserle necessario. Fu un’immagine che catturò moltissimo la mia immaginazione. Pensa che poi nel 2014, o forse nel 2015, Relativity Media mi offrì di fare il film tratto dal romanzo. Iniziai a svilupparlo durante una permanenza a casa del produttore, abitava su una spiaggia di Malibù da cui si vedevano le balene passare la mattina, una cosa indimenticabile. Una volta scritta la sceneggiatura incontrai pure Erica Jong, che era molto contenta che finalmente se ne facesse un film, e infine avevo anche trovato l’attrice, cioè Amanda Seyfried, che si era letta

il copione e lo voleva fare. Ma come spesso capita poi il produttore si rivelò un venditore di fumo, a un certo punto smise di chiamare e scomparve, non rispondevano più nemmeno a Erica Jong, a cui dovevano pagare ancora i diritti di opzione sul libro. Restammo tutti un po’ così, dopo mesi di lavoro e anche un certo entusiasmo. Poco dopo Relativity Media dichiarò bancarotta. Era una sceneggiatura molto bella, se solo il libro fosse svincolato ne farei subito un film. Credo che Sette anime sia il tuo film con il maggior numero di canzoni. Alcune scelte sono anche molto raffinate. È opera tua? C’è un consulente musicale per ogni film. Lui porta le proposte, poi scelgo io, assecondando il mio gusto. Anche se qui su una ho dovuto cedere e ancora mi dispiace. All In Love Is Fair di Stevie Wonder, che è un brano che adoro, doveva accompagnare il momento in cui Rosario Dawson sta ricevendo il cuore in sala operatoria. Era tutto scelto ma a un certo punto mi raggiunge Will Smith che stava con la moglie Jada e mi fa: «Senti qui che bella canzone, e se mettessimo questa?» e tutti i suoi yes men dietro che dicevano che era bellissima, che era stupenda, che era la scelta giusta. In un momento di debolezza che ancora mi rimprovero pur di non dirgli: «Tua moglie non capisce un cazzo!» accettai. Con quel tramite della moglie mi aveva messo un po’ alle corde. Ci sono dei sì che dici in momenti di distrazione o di debolezza e di cui ti penti per sempre. Non te ne rendi nemmeno conto ma poi ti ritrovi al montaggio con un altro brano, non ti piace e te lo devi tenere. Comunque è l’unica canzone che non ho scelto io, in quel film. Nella colonna sonora c’è qualcosa di particolare come Aznavour, e poi i Muse che rifanno Nina Simone. For Me Formidable di Charles Aznavour la suggerì Rosario Dawson e mi piacque subito. Invece Feeling Good ci stava

semplicemente benissimo. Mi avevano riempito di cd che ascoltavo a casa, in macchina, ovunque. Ogni tanto trovavo un pezzo che pensavo fosse giusto e me lo segnavo, così piano piano sono arrivato a una selezione che mi piacesse, da portare al montaggio e cominciare a testare per capire cosa funzionasse realmente e cosa no. C’è anche un brano della Leggenda del pianista sull’oceano di Ennio Morricone di cui sono innamorato, con quella dissonanza di pianoforte. Morricone è insuperabile. Nessun altro al mondo avrebbe potuto fare una cosa simile. Un gigante. Due tasti di un pianoforte che premuti insieme creano una dissonanza che tramite la ripetizione diventa sempre più importante, gli archi crescono e diventa una sinfonia. La ripetizione musicale di questa dissonanza è assolutamente metaforica della storia d’amore raccontata nel film. In quell’idea musicale c’era tutta l’idea di un amore fuori posto e fuori tempo. Era così perfetto che io non ho potuto fare altro che acquistare il pezzo. Nessun altro compositore avrebbe potuto fare una cosa altrettanto geniale. Le recensioni del film come furono? Alcune terribili. In America te le mandano sempre tutte quante, anche quelle che non vorresti leggere. Per come sono fatto io leggo solo le poche che determinano se il film avrà una vita con i premi oppure no, con “Variety” e “Hollywood Reporter” in testa. Che tuttavia di solito sono scritte coi piedi. Sì, ma se ti bocciano loro o se uno su due ti boccia hai chiuso i giochi, già lo sai. Loro impostano la vita del film e mi pare che per La Ricerca della felicità furono belle mentre uno dei due bocciò Sette anime. Il peggiore su questo film però fu il “New York Times”. Che al contrario ha dei grandissimi critici.

Infatti era da applausi per la cattiveria. Dissero che il film stesso implora di essere rifatto in Asia come film horror. Senza pietà. Invece con il pubblico il film era andato bene subito, fin dalle proiezioni di prova anche se con numeri un po’ inferiori rispetto alla Ricerca della felicità. Non ce lo aspettavamo, soprattutto Will che temeva che con quella trama un po’ criptica il pubblico si annoiasse. Da come lo hai descritto Will Smith mi pare il tipo che Sette anime non sarebbe andato a vederlo al cinema… Io sono convinto che nonostante fare questo film sia stata una sua idea lui avrebbe voluto fare qualcos’altro. Mi pare troppo artsy per lui, non è abbastanza mainstream come invece è La ricerca della felicità, che in fondo è la classica storia dalle stalle alle stelle. Secondo me Sette anime lui l’ha preso come una scommessa, una grande scommessa che ha vinto, perché fare centosettanta milioni di dollari con un film così difficile è stata davvero un’impresa riuscita. È andata bene. Certo se poi mi richiamava per qualcosa di meno scivoloso e difficile, era pure meglio, però va bene così!

8 Per me era un passo indietro Baciami ancora (2010)

Se L’ultimo bacio esponeva le maniere in cui un gruppo di personaggi si macchiava di tradimenti, fughe e scarico di responsabilità, Baciami ancora è il momento in cui scontano i peccati. Dieci anni dopo gli eventi del primo film Carlo, Giulia e i loro amici sono messi di fronte agli esiti di quel che avevamo visto. C’è chi non è più insieme, c’è chi torna dopo mille peregrinazioni e chi sembrava sistemato e invece vive una quotidianità che odia. Nel momento in cui lo stile dei film di Gabriele Muccino diventava sempre più americano, lontano dai movimenti di macchina, dal montaggio e dalla furia che lo avevano caratterizzato, questo film riportava tutto a casa. Non era solo un ritorno alla storia dell’Ultimo bacio ma un ritorno al cinema che lo aveva rivelato, con molti più anni e molta più esperienza. Dopo aver visto La ricerca della felicità e Sette anime di colpo diventava chiaro cosa davvero caratterizzasse i film italiani di Muccino, quell’astrazione per la quale i diversi elementi della messa in scena (luoghi, luci, parole, meteo, azioni, vestiti, i divani, i colori dei capelli…) valgono più per ciò che rappresentano che per ciò che sono. Non c’è realismo

nei suoi film, come un illustratore Muccino si prende continue licenze di stile, esaspera solo alcuni dettagli della realtà per renderla espressionista quel poco che basta a proiettare una scena in un mondo universale di sentimenti. Quel che provano i suoi personaggi non sono mai emozioni reali ma il distillato più puro immaginabile di quelle emozioni, e lo capiamo non solo da come sono recitate ma anche da come il mondo intorno a loro in certi momenti si piega per assecondare questi sentimenti. Cambia il meteo, cambiano i colori delle stanze, cambia l’illuminazione, tutto per riflettere cosa provano i personaggi. Nelle scene più intense di Baciami ancora piove, le finestre sbattono o il vento scuote il grano di un campo in mezzo al centro abitato. Carlo e Giulia lottano per tornare insieme nonostante le loro vite siano andate da altre parti mentre l’Adriano di Pasotti torna a riprendere la sua vita trovando un altro amore e il Paolo di Santamaria giunge all’apice della sua parabola. La grande novità fu però Marco, il personaggio di Pierfrancesco Favino, la forzatura più evidente tra le tante di questo film. Era un personaggio marginale nel 2001 che diventava di colpo cruciale nel 2010, perché la carriera dell’attore che lo interpretava nel frattempo era partita. Reduce dai successi internazionali, il ritorno al cinema italiano di Gabriele Muccino venne accolto come una passerella di lusso, con un botteghino molto positivo e la consacrazione di una generazione di attori che, esplosa definitivamente proprio dieci anni prima, a quel punto dominava il cinema nostrano. Un film con quel cast nel 2010 era diventato una produzione fatta di star. Nel momento in cui è stato annunciato Baciami ancora, cioè quando sono usciti i trailer e si sono visti i poster del film, una cosa ha colpito tutti: la mancanza di Giovanna Mezzogiorno. La coppia dell’Ultimo bacio era quella, Accorsi-Mezzogiorno,

il tuo film più famoso in Italia e loro i personaggi più importanti, adesso c’era un’altra attrice a interpretare quel personaggio. Come mai? Io non lo so guarda… All’epoca lo scoprii leggendo i giornali che Giovanna non ci sarebbe stata! Le avevamo proposto di fare il film, come a tutti, e invece di darmi una risposta o parlarne con me chiamò l’ANSA e disse che non sarebbe stata nel film perché non crede nei sequel. Una roba che se la fai a Hollywood non lavori mai più e devo dire che anche io adesso se la vedo per strada cambio marciapiede. Getti fango su un film che deve ancora essere fatto, sul resto del cast che invece il sequel l’ha voluto fare e infine su un regista che ti ha fatto recitare nel più grande successo di tutta la tua carriera! Che poi sarà pure stato il suo press agent il responsabile di quella mossa, non lo so, quantomeno è responsabile di non averla fermata. Ha affossato il film secondo te? Vittoria Puccini credo sia la scelta migliore che potessimo fare per sostituire Giovanna Mezzogiorno ma lo stesso ancora oggi ritengo che Baciami ancora abbia quattro problemi: la mancanza di Giovanna Mezzogiorno; tutta la parte di trama tra Giorgio Pasotti e Valeria Bruni Tedeschi che allunga decisamente troppo il film; la fotografia di Catinari che è senza la grinta di sparare le luci che aveva avuto con me, ma anzi illumina come una fiction, a modino; e infine la parrucca di Pasotti. Tre su quattro sono colpa tua e non sono errori da te. Come è stato possibile? Il film l’ho fatto per soldi. Solo per soldi. Avevo una carriera americana e nessun interesse per l’Italia ma mi servivano soldi immediatamente per potermi liberare di questo divorzio terribile e solo un film italiano sarebbe stato approvato e fatto così in fretta. Era il 2010 e il divorzio era iniziato nel 2005,

cinque anni di guerra logorante sul denaro, sulle visite, sul figlio… Una follia dalla quale volevo uscire in ogni modo. L’idea era stata tua? No, la ebbe Domenico Procacci, venne a Los Angeles a propormela mentre io stavo al montaggio di Sette anime. Stavano per arrivare i dieci anni dell’Ultimo bacio e l’idea di un sequel piaceva a entrambi. Poi fare un film in Italia vuol dire iniziare a farlo il giorno dopo, velocemente, e come ho detto avevo proprio bisogno di quei soldi. Quindi lo scrivo velocissimo, tra i tre e i cinque mesi, poi vengo in Italia e lo preparo in fretta, sicuramente senza la cura che ci avrei messo se non avessi avuto il senso di colpa di stare lontano da Hollywood e da quella che pensavo sarebbe stata la mia vera carriera. Immaginati pure che io mi ero abituato a pensare i film per il mondo. Quando uscivano La ricerca della felicità e Sette anime io ricevevo le recensioni da tutto il pianeta, da Sidney, da Parigi come da Buenos Aires. Vedevo l’impatto ovunque nel bene e nel male (perché quando va male ti mettono in croce da ogni luogo del pianeta). Prendevo l’aereo per andare in vacanza e quando all’immigrazione leggevano come professione “regista”, mi chiedevano: «Ha fatto film che posso aver visto?», e io rispondevo: «La ricerca della felicità». E loro: «Will Smith with the son!». Mi trattavano quasi con riconoscenza. Quel film aveva commosso milioni, forse miliardi di persone. Solo il passaggio televisivo del film in Cina fu visto da trecento milioni di spettatori. Di colpo tornare a fare un film che non sarebbe uscito dall’Italia era per me un passo indietro. Se sei così insoddisfatto perché non hai mai pensato di rimontarlo? Anche se sono passati anni, molti registi lo fanno. Ci ho pensato. Andrebbe levata mezz’ora e forse sarebbe quasi un buon film. Potrei provare ad asciugare la parte tra Pasotti e Valeria Bruni Tedeschi, lasciando solo le situazioni di lui con il figlio e Sabrina Impacciatore. Ma a quel punto, cambiando

gli equilibri, dovrei asciugare tutto per renderlo omogeneo… E forse è una cosa che potrei fare, sai… Anzi non la escludo proprio! Voglio parlarne con Domenico (che l’ha prodotto) e con Giampaolo Letta di Medusa. Ci sono un po’ di scelte di cast che mi sorprendono in questo film, Valeria Bruni Tedeschi è una di queste, come mai l’hai scelta? Il personaggio era quello di una donna che si era smarrita, come Pasotti del resto. Di solito lei è perfetta per questo tipo di personaggi. Solo che tra Giorgio e lei secondo me non c’era grande alchimia e di conseguenza anche la loro storia risulta abbastanza debole. A questo poi aggiungici quella cazzo di parrucca! Ma come è successo che gli avete messo quella parrucca? Come mai non ti sei accorto sul set che era terribile? Quello è stato proprio un errore, il classico errore in cui inciampi quando non hai il tempo di prenderti due giorni per riflettere. Sia chiaro: la responsabilità è tutta mia, eh. Andò così: provammo un mese prima una parrucca già fatta che era decisamente più convincente. Ma vollero farne un’altra, su misura… Non ho mai davvero capito perché non potessimo utilizzare quella che avevamo provato. Comunque a ridosso delle riprese, un giorno prima, arriva finalmente la parrucca fatta su misura che aveva un colore improbabile e sembrava uscita da una svendita alla vigilia di Halloween. Mi sembrò da subito che non andasse ma mi lasciai suggestionare dal parrucchiere e dal truccatore, che erano Gregorini e Bertolazzi, entrambi rispettatissimi nell’ambiente (e infatti qualche anno fa hanno vinto l’Oscar per il lavoro su Suicide Squad). Erano entrambi orgogliosi di questa nuova parrucca appena arrivata. Sbagliai seguendo la testa degli altri piuttosto che la mia. Non ebbi il tempo per fermarmi un attimo e ammettere che quella parrucca faceva schifo e che avrei dovuto togliergliela immediatamente e girare senza, fregandomene del fatto che il

personaggio era stato in prigione per qualche anno ed era ridotto a un cencio. E sempre a proposito di scelte di cast particolari, c’era anche Francesca Valtorta nella parte della nuova fidanzata di Stefano Accorsi, che mi pare l’opposto del tipo di attore o attrice che prediligi, cioè mi pare una molto impostata e a modino, con una dizione correttissima… Anche lì una svista. Una svista che capita di prendere quando non fai i provini alchemici. Mi sembrava che fosse bravina e invece mancava quella famosa alchimia. Se l’avessi provinata con Stefano magari me ne sarei accorto. Ma andò così… Infine c’era la nuova importanza di Pierfrancesco Favino. Tu te lo spieghi come mai un attore così bravo sia esploso così tardi? Guarda io lo lasciai nel 2004, quando partii per l’America, e poi quando tornai per fare Baciami ancora lo ritrovai che era una star. Non sapevo cosa avesse fatto nel frattempo perché in quegli anni ero così concentrato a capire il sistema americano e trovare un mio posto laggiù che non seguivo per niente il cinema italiano. Favino negli anni ha sofferto il fatto di non essere considerato come merita, e proprio per questo ha studiato molto e si è impegnato più degli altri per avere la sua rivincita. È una storia personale incredibile la sua. Lo stesso per tanti anni, anche quando era ormai famoso, non era considerato dai registi autori, almeno fino a quando non ha girato Il traditore con Bellocchio e poi Hammamet con Amelio. Io non sapendo chi fosse sceso e chi salito o chi fossero i nomi nuovi scrissi al buio e regolarmente, visto che nella prima stesura della sceneggiatura il suo ruolo non era grosso, lui protestò. Capii ben presto che i rapporti di forza non potevano più essere quelli dell’Ultimo bacio e quindi dovevo capire cosa volesse. Già Giovanna Mezzogiorno mi aveva mollato… Senza di lui il film non si sarebbe fatto proprio. Allungare la sua parte però voleva dire allungare

anche gli altri, perché non puoi avere un ramo più grosso degli altri in un film così, e alla fine è venuta fuori una struttura orizzontale e spesso sfilacciata. Certo, Baciami ancora arrivava dopo i ruoli importanti che aveva avuto in Angeli e demoni e poi Le cronache di Narnia, era lanciatissimo. Ricordo che Jovanotti scherzando mi disse: «Hai creato un mostro, Gabrie’, te non te ne rendi conto ma hai creato un mostro». E del resto anche in questo film poi lui esce più di Santamaria o di Sabrina Impacciatore, che pure sono eccezionalmente bravi. Ti ha costretto a pensare qualcosa di diverso? Sì, ed è stata una cosa buona quella, il plot che ne venne fuori era forte, la sua gelosia era più interessante della parte tra Pasotti e Bruni Tedeschi. Però il problema è che tutte queste trame orizzontali non davano al film la forza narrativa e la struttura piramidale che aveva avuto L’ultimo bacio, mancavano le particine. L’unica che c’è è quella di Marco Cocci, che chiude il film con una delle scene secondo me più belle. Poi lo hai incontrato di nuovo professionalmente per A casa tutti bene, il film con cui sei rinato, commercialmente, in Italia. Sì, quello era un gran set, con diciannove attori che non hanno avuto nessun momento di gelosia o egocentrismo. C’era una forte unità di luogo e tutti erano quasi sempre contemporaneamente in scena. Fu un set con un’atmosfera magnifica e forse irriproducibile. Durante le riprese del film, a Favino venne offerto di condurre Sanremo con Baglioni e la Hunziker. Lui non era certo di farlo e mi chiese: «Che dici?». Gli risposi quello che pensavo, cioè che se c’era un attore in Italia che era in grado di farlo era lui, l’unico strutturato per gestire una macchina così complessa e insidiosa. Alla fine si convince e lo

fa. E siccome poi il film esce in quei giorni, io e l’intero cast andiamo a fare una presentazione proprio a Sanremo, con Baglioni che suonava per noi Bella Senz’Anima di Cocciante, che era uno dei pezzi chiave del film. Una bella cosa. Siccome io poi stavo anche in giuria mi trattengo fino alle fine e torno a Roma con Favino in treno. E lì, in quel momento, ho toccato con mano cosa fosse il vero successo popolare in Italia, qualcosa a cui non siamo abituati e che io non conosco, nessuno lo conosce fino a che non gli capita, motivo per il quale non lo si può giudicare. Era già un attore noto, ma una volta scesi dal treno a Termini io mi sono reso conto che era cambiato tutto di colpo. L’intera stazione si era girata perché c’era lui. Pierfrancesco era tornato a Roma e in cinque giorni la sua vita era cambiata radicalmente. E questo non può non avere avuto un impatto profondo su di lui. E che impatto ha avuto? Ha tirato fuori del risentimento credo. Penso che lui abbia sofferto il fatto di non essere considerato il Mastroianni o il Gassman della sua generazione, cosa che, per tutto l’impegno che mette nel lavoro e la preparazione che ha, sa di meritare. Questo suo profondo cambiamento l’ho toccato con mano quando preparavamo Gli anni più belli, già da quando ho iniziato a parlargli dell’idea di riadattare C’eravamo tanto amati e dargli il ruolo di Giulio Ristuccia, era pieno di dubbi che prima mai gli avevo visto. Avevamo già fatto tre film insieme e all’improvviso sembrava aver dimenticato tutto il lavoro e l’amicizia che ci avevano legati. Eppure è la summa dei personaggi che gli affidi. Favino nei tuoi film è sempre un borghese conservatore, in Baciami ancora poi dichiara anche di aver sempre votato a destra… Quel tipo di personaggio gli si appiccica perfettamente. Secondo me se in Gli anni più belli l’avesse cavalcato di più e non avesse cercato di attenuare quella componente disperata di un uomo che pur di riscattarsi dai demoni del proprio passato,

a un certo punto si lascia corrompere dal denaro, dal potere, e cambia per sempre, sarebbe stato più potente. Era il classico antieroe della commedia italiana che entrambi amiamo moltissimo. Ha fatto di tutto per non dare l’idea di essere uno così pronto a vendersi l’anima per denaro. Io rimango dell’idea che se avesse affondato il coltello senza timori, quel personaggio sarebbe stato più forte, efficace e anche il finale (che a onore del vero fu una sua idea) ancora più commovente. Del film ho trovato una recensione dell’epoca di Paolo D’Agostini che in una frase riassume sia un complimento che uno screzio, ma alla fine dice una cosa vera: «Muccino è un po’ così, non racconterà grandi cose ma le ovvietà che racconta le sa raccontare». Ti ci rivedi? Il fatto che racconti delle ovvietà può essere anche un pregio perché trovo che anche Bergman raccontasse ovvietà in alcuni suoi film. E le raccontava ad arte, innegabilmente. Le ovvietà in sé non sono sinonimo di superficialità o di banalità, possono far rima con la verità della vita, che a volte, anzi spesso, è piena di ovvietà. Certo non è proprio un termine edificante ma del resto il rapporto che alcuni critici, quasi la maggioranza, hanno avuto con me e con i miei film negli anni è sempre rimasto abbastanza superficiale. Una delle cose più esilaranti invece l’ha scritta Paolo Mereghetti però, e forse un po’ ha ragione. In coda alla recensione di Baciami ancora scrive: «Oltre il cult la scena del suicidio di Paolo alla finestra tra ululati di vento, tuoni e fulmini». Tu invece vai fiero di quella scena vero? Sì, a me piace. La verità su quella scena semmai è che non è coerente con il resto del tono del film, è come se appartenesse a un altro film, uno secondo me migliore. Se anche il resto fosse stato confezionato a modo allora la scena ne sarebbe uscita meglio.

Una scena del film che ricordo infastidì molti fu quella di Accorsi con la figlia nei campi di grano. Fu per quell’estetica un po’ da spot pubblicitario… È una scelta che faccio spesso, anche in Quello che so sull’amore padre e figlio vanno a parlare in uno scenario bucolico, in Sette anime pure avviene che Rosario Dawson e Will Smith si ritrovino a parlare in un campo di fieno. E in Gli anni più belli Paolo e Gemma si baciano ai piedi di una quercia, anche questa, immersa in un campo di fieno. Io ci vivo in mezzo alla natura, per me non è così strano, soffro la città e se devo stare con mio figlio non lo porto a piazza Navona ma in campagna. Queste analogie che pigramente vogliono svilirti associandoti a spot pubblicitari sono davvero un modo becero di criticare un film. Eppure in questo film forse uno degli scenari migliori è urbano, la fontana dell’Eur in cui tornano gli amici trovandola vuota, la stessa fontana che si vede nell’Ultimo bacio, quella dove festeggiano con lo champagne. È il segno più evidente che tutto è cambiato, il tempo è passato e non possono essere più quelli di prima. Non mi dire che hai fatto levare l’acqua per il film! No, sei matto!? Mica siamo in America! Lì non c’era davvero l’acqua in quel momento, e l’ho scoperto quando sono andato a fare il sopralluogo, e allora ho riscritto la scena senza acqua nella fontana, sfruttandone l’imprevisto e rendendola metaforica. Visto come procedi, impostando sempre tutto prima, scrivendo ogni cosa e limitando al minimo le decisioni da prendere sul set è inusuale per te. Ci sono tanti invece che vanno nella location vedono come stanno le cose e in base a quello decidono come fare la scena. Sì vabbè… Ciao!!

Be’, il più famoso ad aver istituzionalizzato questo modo di girare è Truffaut, che sosteneva che facendo così ti apri a possibilità e imprevisti che non sono pensabili a tavolino. E in effetti tu la fontana senz’acqua non l’avevi pensata ma è stupenda. È ovvio che adattarsi a situazioni che si rivelano diverse da come le avevi pianificate, se fatto bene, può portarti a risultati pure migliori. Però non è una regola scritta, e ci sono buone probabilità invece che ne esca fuori una versione più modesta della scena che avevi in testa originariamente. Tuttavia quest’episodio non ti ha fatto pensare che se ti aprissi di più al caso… Vuoi che mi metta a improvvisare metodicamente sul set? Non ci riuscirei. Non l’ho mai fatto… Semmai mi adatto ai problemi che sorgono, quello sì, accade continuamente, solo che di rado è evidente come in questo caso. La tua carriera è partita con due commedie, poi non ne hai più fatte. Baciami ancora è l’unico film in cui mi pare che un pochino recuperi quel tipo di toni, in cui l’ironia è più presente e si ride. Sì, ho capito che intendi, come quella di Santamaria che dice «Niente ma’, stamo a fa la lotta», sono momenti scritti con una certa decisione in chiave di commedia, e allo stesso modo quando Accorsi a mezza bocca mormora alla figlia: «Ah! lo ha comprato lui… e con quali soldi?» parlando del nuovo compagno di Giulia. Però te lo dico: questo tipo di ironia c’è anche in A casa tutti bene, la uso spesso. Poi magari non mi riuscirà sempre bene, ma il mio obiettivo ogni volta è restare su quel filo invisibile su cui camminavano film come Il vedovo o Il sorpasso, che uniscono commedia e tragedia senza soluzione di continuità. Pensa alla fine di Una vita difficile quando Sordi cerca di riconquistare la moglie, fa molto ridere ma in realtà è un momento di un’amarezza assoluta.

Tuttavia tu film più leggeri li avevi fatti. Forse ero proprio più leggero io. Abbiamo parlato molto di ciò che non va nel film invece ci sono tanti momenti bellissimi, uno di quelli che preferisco è quando arrivi a far scontrare definitivamente Carlo e Giulia. Scegli di farlo in una casa vuota, con Accorsi che rincorre negli interni Vittoria Puccini che la sta chiudendo tutta. È un unico piano sequenza in cui mi sembra che alla fine cerchi sempre di tenere inquadrata lei. E la luce sui volti è incredibile, dà a tutto una qualità epica, universale. Sì, ammetto che quella scena è molto bella. La scelta di inquadrare solo lei poi la rivendico proprio. Il vero regista è quello che decide cosa in una scena tu debba vedere, quello che serve. In questa scena è lei che comanda la narrazione, e il pubblico è da lei che riceve le informazioni. Non sarebbe mai stata la stessa cosa se avessi girato con campi e controcampi (che cerco di evitare come il diavolo l’acqua santa) registrando con un botta e risposta, anche le reazioni di lui. Solo stando su di lei capisci di che parla davvero la scena: provano rabbia perché è finita; provano rancore perché lui è stato responsabile della fine; anche lei come lui non ha mai smesso di amarlo nonostante quel che è avvenuto paia irreversibile. E deve arrivarti tutto insieme in una sequenza unica. Credo che il suo pregio maggiore sia che quel che si dicono è ininfluente, è tutto linguaggio del corpo, della voce e di messa in scena. In particolar c’è un «Anch’io» di Accorsi detto pianissimo in mezzo a tante urla, dopo il quale giustamente fai partire la musica, che è una pugnalata nel cuore totalmente imprevista. Di chi era questa idea? Tutto provato e deciso prima. È una scena che puoi tenere muta e lo stesso capire cosa sta succedendo, cosa si stanno dicendo e come sta cambiando la loro relazione. Ma non solo, c’è questa potenza metaforica della chiusura delle porte

finestre che dà un gran ritmo sonoro. BOM. BOM. La cosa che meno viene raccontata di scene come questa è che sono frutto di soluzioni di scenografia, non è affatto facile trovare una casa che abbia tutte quelle finestre in quella disposizione, che consente di girare un piano sequenza così lineare ed efficace. Eppure quando tempo fa ti citai questa scena nemmeno la ricordavi, te l’ho dovuta descrivere io. Perché io davvero non ci vedo quel che ci vedi tu fino a che non mi ci fai pensare. Solo allora, in effetti, realizzo quanto ci sia dentro. Quando giro scene come queste seguo da una parte un istinto naturale per coreografarle al meglio e dall’altra parte per portarle a casa nel modo più efficace possibile, senza nessun compiacimento. Devo portare a casa il racconto che serve a quella scena. È l’unico obiettivo da perseguire veramente e costantemente durante la lavorazione di un film: scena dopo scena, portare a casa il lavoro nel migliore dei modi possibili. Ma poi quando la rivedi non ti accorgi che è venuta meglio di molte altre? Posso dirlo dieci anni dopo. Se uno sconosciuto mi facesse vedere che ha girato una scena così, forse mi impressionerei, perché capisco che è una composizione perfetta, una sinfonia precisa. Avendola fatta io ti posso dire che quella sinfonia è frutto di una voce che ti sussurra delle cose e te le fa fare in un certo modo. È per l’appunto la voce silenziosissima dell’istinto. Certo poi io le scrivo e le provo, quindi sono molto ragionate. E le location pure sono studiate e ricercate. Però se alla fine funziona davvero è perché quello che avevo pensato e preparato a priori si sposa perfettamente con la messa in scena. Magari tutto il film fosse stato come questa scena e come quella del suicidio di Santamaria!

Nonostante tutto però Giulia non mi sembra mai lo stesso personaggio che interpretava Giovanna Mezzogiorno. Non è solo che non le somiglia, ma è proprio che Vittoria Puccini mi sembra sempre che reciti un’altra donna. Ne ho provate cinque o sei di attrici per sostituire Giovanna, che secondo me ha fatto un danno prima di tutto a se stessa perché se fosse tornata forse avrebbe avuto un’altra vita professionale e di certo non sarebbe stata danneggiata, ma il problema era che quella chimica tra lei e Stefano era davvero irreplicabile. Ci sono oggi alcune attrici che forse se avessero avuto l’età giusta nel 2010 le avrei provinate, ma allora non c’erano. O almeno non c’erano tra quelle note, perché ho provinato solo attrici note e forse quello è stato il mio errore (sai sarebbe finita sul cartellone e mettere una sconosciuta accanto ad Accorsi non sembrava una buona idea per la promozione). Tra tutte le attrici provinate, comunque Vittoria fu sicuramente la migliore. In questo film c’è un momento che mi ha fatto pensare che potresti fare un thriller con assassino. È quando Favino telefona alla moglie che l’ha lasciato per andare a vivere con Primo Reggiani. Usi la musica molto leggera di lui che suona il pianoforte di sottofondo in antitesi a quel che i due si dicono al telefono, e quando dopo quel delirio di minacce stacchi di colpo sempre su Favino ma tutto ben vestito e tranquillo dal medico, lui è proprio un serial killer pronto a entrare in scena, credibilissimo. Hai mai pensato di fare film di genere? Ci ho provato ma non ci sono riuscito. Mi sono fermato perché non ho una conoscenza cinematografica sufficientemente nutrita per scrivere un genere che non ho mai frequentato. Però si può dire che ho fatto mio il cinema d’azione di Oliver Stone e di James Cameron, quel modo che hanno inventato di muovere la macchina da presa per seguire o precedere l’azione e creare quel ritmo interno al fotogramma che è vero cinema. Baciami ancora era stato fatto per incassare e incassò.

Poteva fare di più, però sì, andò bene. Fummo anche aiutati dalla spinta della canzone di Jovanotti. Lo chiamai io, l’idea era di replicare il binomio film-canzone che aveva funzionato così bene nell’Ultimo bacio. Mi pareva che Jovanotti potesse rappresentare bene quella generazione. E la canzone è innegabilmente davvero molto bella. Un bel cambio di costo tra la Carmen Consoli del 2001 e il Jovanotti del 2010… Non credo che queste operazioni costino granché, è uno scambio reciproco in cui ci guadagnano entrambi. Anche Baglioni per Gli anni più belli la canzone me l’ha data gratis. Considera che dentro l’accordo c’è anche il videoclip che realizzo io e quindi è vantaggioso per tutti. Con Lorenzo parlammo molto al telefono, gli spiegai il film e lui spiegò a me che cosa voleva fare, la chiamò «un po’ come il ballo da mattonella», cosa che stava bene con il tono che volevo dare al film. Hai pensato di riprendere questi personaggi di nuovo, dopo altri dieci anni, per vedere quelli che avevano trent’anni nel 2001 come sono a cinquantacinque? Fondamentalmente sarebbero spaesati in un mondo che è cambiato così in fretta da renderli vecchi senza che il loro corpo glielo riconosca, perché il culto del fisico, della bellezza e della salute ha cambiato molto l’invecchiamento. Di certo sarebbe un film più tiepido, non avrebbero quelle passioni furiose a cinquantacinque anni, ma forse sarebbe più struggente. Qualcuno si ammalerebbe, ci sarebbe la paura della morte, la disperata necessità di innamorarsi di nuovo, anche pateticamente forse, l’incapacità di rassegnarsi al fatto di essere arrivati a pochi anni dalla fatidica terza età. E ci sarebbero i loro figli, testimoni di una nuova era. «Via i vecchi, largo ai giovani!». Insomma ci sarebbe parecchia carne da mettere al fuoco ora che mi ci fai pensare. Facciamo che un pensiero ce lo faccio!

Alcune di queste cose ci sono anche in Baciami ancora, sia la morte che la paura di Accorsi di avere un male incurabile. Pensa che quella doveva essere una parte comica… Non mi è venuta come doveva e alla fine non lo è per niente, perché Accorsi non la interpreta come una parte di commedia. Sarebbe dovuto essere esasperatamente ipocondriaco, avevo in mente le psicosi di Woody Allen mentre scrivevo. Lui è uno che le sue corde di commedia, che pure ha e buone, le allena poco. Secondo me Stefano è uno che ha approfondito la parte meno utile del mestiere dedicandosi a fare l’attore da impostazione teatrale, l’attore che fa le letture, quello con l’italiano senza inflessioni. Questo l’ha portato dall’altra parte a trascurare la capacità che invece ha di adattarsi ai vari regionalismi. Per esempio a me fa strano che non si sia mai studiato la parlata romana. Lui o recita in bolognese o in italiano, che non è più l’italiano sporco ed efficace che aveva nell’Ultimo bacio. È diventato un italiano ripulito di ogni inflessione che risulta meno autentico e meno efficace. Questo lo dico volendogli un gran bene naturalmente.. Perché dovrebbe parlare romano? Perché il romano e il napoletano sono le lingue madri del cinema italiano. Soprattutto la commedia italiana si muove sulla musicalità di questi due regionalismi. Gli altri dialetti li tocca a sprazzi ed episodicamente. Ma il romano e il napoletano sono le cadenze su cui si poggia il 90 per cento del cinema italiano, dal Neorealismo alla commedia all’italiana. Il cinema italiano però, quello più noto, importante e grandioso, non parla solo per regionalismi. Ma nemmeno l’italiano pulito. Guarda la maniera in cui per esempio Age e Scarpelli trasformano la nostra lingua in commedia in Amici miei o Straziami ma di baci saziami, quello ti fa capire che anche se non c’è un regionalismo è

importante lo stesso per il nostro cinema decostruire il linguaggio per giocarci e non prenderlo sul serio. La nostra in fondo è una lingua costruita a tavolino per far comunicare il siciliano con il lombardo, di colpo, quando si ritrovarono insieme in prima linea contro gli austriaci ed erano capaci di parlarsi solo a gesti (ragione per la quale siamo il popolo più ricco di gestualità al mondo). L’italiano standard è una lingua sterile che si trova sui libri e sui banchi di scuola ma non fuori, non è parlata per strada. La parlano i doppiatori. E quando la fai parlare agli attori il film diventa subito una fiction televisiva, cioè una messa in scena di una realtà che non esiste. Il cinema e le serie tv migliori e più moderne stanno mostrando come il nuovo linguaggio stia nel riconoscere, accettare, e abbracciare le differenze regionali e culturali, lo specchio più profondo della nostra storia e della nostra provenienza, per non dire del nostro umorismo e della nostra visione della vita. I più grandi, da Sophia Loren a Mastroianni a Gian Maria Volonté fino a Sordi, hanno sempre usato il dialetto. Addirittura usavano quelli non loro. Pensa alla Ciociara, un esempio tra tutti. Se prima era così quand’è che è cambiato tutto? È stato un mutamento lento. Negli anni cinquanta e sessanta i registi cominciarono a collaborare con i doppiatori per doppiare anche i film italiani, visto che le macchine da presa spesso erano rumorose e il sonoro del set non si poteva usare. Poi i film italiani continuarono ad avvalersi del doppiaggio perché spesso avevano attori stranieri o erano coproduzioni internazionali con cast misti (che vuol dire che tutti vanno doppiati per omogeneità del suono), come Ultimo tango a Parigi o Novecento, La famiglia, Nuovo cinema Paradiso e molti altri. Tutti questi film al doppiaggio cambiavano lingua parlando italiano. All’inizio in sala di doppiaggio c’erano Sergio Leone, Visconti, Fellini, Monicelli… Nel tempo i doppiatori iniziarono a credere di poter persino migliorare De Niro, forse perché registi importanti gli facevano i

complimenti a fine lavorazione. Così nasce il loro potere, senza più i registi a supervisionare il loro lavoro inventarono una nuova lingua: il doppiaggese. È una lingua che non esiste se non nei film doppiati e che ha viziato le orecchie di tutti quelli che li vedevano. La mia generazione ha visto solo film doppiati, ignorando totalmente che potesse esistere anche il mondo dei film in lingua originale e non realizzando che la recitazione originale fosse tutt’altro, che esistesse anche, per dire, il sottovoce senza quell’enfasi e quella dizione così precisa e portata che a me personalmente impedisce ormai di vedere un film doppiato. Questo ha distrutto i nostri attori, questo e certe accademie che scambiarono la recitazione per radiofonia. Però Stefano Accorsi non è di quella generazione lì, è più giovane. Per lui è diverso. Ho l’impressione che abbia lavorato per neutralizzare l’inflessione bolognese, come se fosse un limite. Invece quando lo vedi in Veloce come il vento, ti accorgi di quanto sia potente, che botta che riesca a dare al personaggio trovandolo nelle proprie radici.

9 Stavo per dargli un cazzotto e lui a me lo stesso Quello che so sull’amore (2012)

Quando inizia la lavorazione di Quello che so sull’amore Gerard Butler stava cercando di definire la propria carriera hollywoodiana tenendo il piede in due staffe. Da una parte c’erano i film d’azione come quello che l’aveva reso famoso, 300, in cui interpretava lo spartano più spartano di tutti, il re Leonida, e dall’altra le commedie romantiche in cui proponeva un personaggio ruvido dal cuore tenero, come in Il cacciatore di ex, accanto a una Jennifer Aniston impenitente fuggitiva con cui battibeccare fino a baciarsi. Quello che so sull’amore doveva essere un film della seconda categoria, uno che avrebbe visto diverse donne di Hollywood (Uma Thurman, Catherine Zeta-Jones e Jessica Biel) litigarsi lo scapolone britannico. Doveva essere un film che ne confermasse lo statuto di sex symbol desiderabile con un debole per le famiglie. La più antiquata e tradizionale tra le alchimie del fascino maschile. Niente di più lontano dagli uomini fragili, fallaci e sensibili a ogni smottamento del cuore di Gabriele Muccino. Il

matrimonio tra i due, già a livello progettuale, era fallimentare. Al momento dell’uscita italiana, arrivata un mese dopo quella americana, il film viene praticamente nascosto. Poca attività stampa, poca pubblicità, poca discussione su quello che era il terzo film americano di Gabriele Muccino, dopo che il precedente Sette anime era stato un trionfo di botteghino. La spiegazione sta nel film stesso. Un disastro che non somiglia a niente. Non somiglia né ai film italiani né a quelli americani di Gabriele Muccino e, cosa più grave, non somiglia nemmeno ai film americani di medio successo, quelli girati rispettando le consuete buone regole della banalità. Quello che so sull’amore è un pasticcio di stili, toni e momenti eterogenei, in cui nemmeno la trama ha un vero senso. La storia è quella di un ex calciatore trasferitosi in America con un figlio e un divorzio alle spalle, che decide di seguire la nuova famiglia di lui in un’altra città per rimanergli vicino e intanto, tra gli allenamenti della sua squadretta di calcio e forse una carriera come opinionista sportivo, prova a costruirsi una vita e a tornare con la sua ex per ricomporre la famiglia. Intanto le mamme dei bambini che allena lo desiderano e insidiano con forza. Anche gli attori più navigati, come Dennis Quaid o Uma Thurman, sembrano recitare ognuno per conto proprio, come se appartenessero a film diversi, mentre il tentativo di costruire un amore distrutto tra due ex (Jessica Biel e Gerard Butler) porta solo a goffi tentativi di esibizione di emotività. Come un’auto che parte sgommando e poi rallenta di colpo, per poi accelerare di nuovo, fermarsi e di nuovo ripartire a razzo, il film è un continuo rattoppo esasperante in cui non prende mai davvero forma il tipico protagonista mucciniano, quello che cerca disperatamente di dare una forma alla propria vita, che progetta sempre il futuro per trovare un senso al presente.

Infine la mestizia di una messa in scena misera, senza idee e tecnicamente elementare, quando non proprio piena di errori, non lascia dubbi: Quello che so sull’amore potrà anche portare il nome di Gabriele Muccino ma non è un film di Gabriele Muccino. Questo film è il tuo più grande insuccesso ma anche la storia che hai inseguito più a lungo, quella che volevi fare da tantissimo tempo… Infatti più che questo film si può dire che era questa storia che volevo girare. E la volevo girare esattamente come ha fatto Noah Baumbach in Storia di un matrimonio. Iniziai a pensarci quando cercavo di scrivere un film intitolato Parlami d’amore, titolo che poi ho ceduto a Silvio per il suo esordio, nella mia testa il punto di riferimento era Kramer contro Kramer. È un film che ho sempre temuto non sarei riuscito a fare e che ho preparato a lungo anche nei ritagli di tempo, mettendomi la sera diligentemente un paio d’ore alla volta a ritoccarlo. Il titolo che gli avevo dato era My Life Is A Mess, o almeno è quello che è durato più a lungo. Il mio problema, ciò che ha causato una lavorazione sotterranea così lunga fatta di tantissime riscritture, è che non riuscivo a trovare la chiave giusta. Nel periodo in cui hai lavorato in America avevi anche pensato a possibili attori? Il primo a cui pensai di proporlo fu Jude Law, quando ancora pensavo di produrlo con la Fandango e Procacci che finanziò una delle scritture della sceneggiatura, quella con Liz Tuccillo (mi sa che all’epoca si chiamava What I Know About Love). Lei era una del team che scriveva Sex And The City e poi ha fatto altre commedie romantiche come La verità è che non gli piaci abbastanza, pensavo di ambientarla a Londra. Poi ancora a furia di vivere in America cominciai a pensare a come ambientarlo lì, sarebbe stato un film sul falso senso di cordialità americana. Perché quando arrivi ti sembrano

cordialissimi, sembra che siano simili a noi, ma è solo un’impressione. È una percezione errata che inganna molti, magari incontri un passante che non conosci e lui ti saluta con un «How are you?», ma non è che poi si va oltre quello, è una cordialità formale. Mi ero fissato di proporlo a Tom Cruise. Come ti venne in mente uno così irraggiungibile? Perché era stato lui a volermi incontrare. Come ti dicevo dopo il successo della Ricerca della felicità ho vissuto alcuni mesi in cui ero molto cercato, tutti volevano avere un colloquio con me. Che è pratica standard lì. Colloqui introduttivi per conoscersi ed esplorare possibilità di collaborazione. Ho incontrato tutti. E quindi anche Tom Cruise. Lui all’epoca aveva appena fatto La guerra dei mondi e poi Mission: Impossible 3, giusto? Esatto, era proprio il periodo in cui Mission: Impossible 3 era in sala, ed era considerato un fallimento per quanto fosse un gran bel film. Causò la rescissione del contratto che aveva con la Paramount, anche perché era solo un anno dopo quella scenata che fece da Oprah Winfrey, quando saltò sul divano su di giri urlando al mondo il suo amore per Katie Holmes e per questo fu considerato clinicamente pazzo. La paura dei matti in America è davvero tangibile ed esasperata. Mettici pure quella serie di video a tema Scientology con Tom Cruise protagonista che erano usciti su internet, il risultato era che nessuno nell’industry voleva più lavorare con lui. Sei stato proprio a casa sua? Sì, mi ha invitato per una giornata. La casa era una villa in cui viveva con Katie Holmes che aveva appena partorito, era una residenza transitoria in cui stare mentre quella definitiva era in costruzione. E comunque era un castello. Un po’ gotica nell’architettura e piena di security, avevi l’impressione di entrare in una specie di compound. Come se dovessi incontrare El Chapo, fatti conto. Ricordo che Katie allattava e

c’erano gli altri due figli che aveva adottato con Nicole Kidman. Io ero abituato a fare questi incontri della durata di un’oretta e invece lì ho capito subito che ero arrivato per restare parecchio. E ovviamente è stato tutto surreale, era come stare in una bolla. Parlammo a lungo sul divano, lui cordialissimo, anche troppo. Quando ti parla ti guarda fisso senza levarti mai gli occhi di dosso, hai la netta impressione che il 100 per cento della sua attenzione sia su di te. Era così particolare che mi ha dato l’impressione che quel modo di fare fosse parte della sua filosofia di vita (se non della religione proprio): essere concentratissimo su quel che fai. Quindi prima ci siamo dedicati al pitch, alla proposta del film, con Katie sempre lì che allattava, poi siamo usciti e siamo andati al campo da pallacanestro, accanto al quale c’era la parte con lo sparapalle e la rete per allenarsi con la mazza da baseball e infine il campo dove lui mi voleva a tutti i costi insegnare ad afferrare la palla da baseball con il guantone. Praticamente io ho fatto una mezz’ora di lezione privata con Tom Cruise su come si lanci e poi come si riceva la palla da baseball. Me la lanciava, io correvo e cercavo di prenderla. E mentre correvo cercando di far atterrare leggiadra ’sta palla nel guantone, non potevo fare a meno di pensare tra me e me: «Ma che cazzo sto facendo qua?!». Io non è che sia proprio molto portato per queste cose quindi ero anche ostico come alunno e quando alla fine sono riuscito a prendere al volo un suo lancio, lui esaltatissimo: «GOOD CATCH!! GOOD CATCH!!!!». Gioia a non finire proprio. Ma ti è sembrato che fosse qualcosa di eccezionale che faceva perché avevate sviluppato una sorta di intesa? No, il contrario. Mi è sembrato che fosse proprio il suo modo di essere, un’adesione assoluta tra il personaggio che ha costruito sullo schermo e quello che è nella vita. Ho avuto l’impressione che facesse così con tutti ma non in maniera falsa, che semplicemente sia il suo modo di vivere. Quella è gente che non vive come noi.

Circa un anno dopo questa giornata è venuto a trovarmi sul set di Sette anime il giorno che giravamo un flashback con un bambino davanti all’acquario delle meduse. Quel bambino interpretava Will Smith da piccolo ed era uno dei suoi figli adottati, Connor Cruise. Io dovevo un attimo fare delle prove con questo bambino che aveva giusto poche inquadrature ma comunque doveva funzionare e siccome farlo con il padre lì era un problema gli dissi: «Scusa Tom puoi uscire?». Non ti dico la faccia che ha fatto. Quando poi ho finito l’ho trovato che rideva con Will Smith per questa cosa. Credo che nessuno in vita sua gli abbia mai detto: «Scusa per favore puoi uscire da qui?» e devo essergli sembrato io stravagante. Quando lo strano è lui, cioè tutto il tempo che rimase sul set non ci fu niente di normale. Mentre preparavo il figlio per la scena lui si mise nel camerino ad aspettare immobile. Senza fare niente né sapere quanto sarebbe durato quell’intervallo. Non incrociò lo sguardo di nessuno mai, e nemmeno il bambino lo fece! Molte star americane hanno questa regola che nessuno a parte il regista deve incrociare il loro sguardo mai, e anche il bambino non guardava nemmeno il truccatore o il parrucchiere con cui parlava mentre veniva truccato. Hai capito da dove vengano queste regole? Che ragione d’esistere abbiano? Io credo che molte star, specie quelle più al centro di gossip, si sentano continuamente osservate e studiate, come se continuamente potessero essere privati di qualcosa di intimo che poi verrà raccontato. La pressione che subiscono è reale ma, tocca ammetterlo, un po’ matti lo sono davvero. Fino a quando sei rimasto a casa sua? Allora… Dopo il baseball se non sbaglio ci fu la cena, prima della quale c’era la preghiera. Tutti a tenersi per mano e Tom che la recita. Ti dovessi dire cosa abbia detto, le parole proprio, non saprei. Della cena ricordo che mi fece strano l’assenza di vino. Quando abbiamo finito di mangiare un’altra

chiacchierata sul divano, quella più generale sul cinema e con la mia fissa di Oliver Stone. Ho tirato fuori Nato il quattro luglio per dirgli che per carità bello Mission: Impossible ma io avrei tanto voluto rivederlo fare l’attore in una parte come quella o come in Magnolia. Che sono cose che lì nessuno ti dice. Io almeno fino a questo film qui, Quello che so sull’amore, che fu una mazzata fortissima per me, avevo una spavalderia nell’interagire con le star che in pochi hanno, perché sapevo di avere dietro di me la porta aperta dell’Italia. Nella peggiore delle ipotesi avevo sempre il mio lavoro qui. Non avevo mai pensato che avrei vissuto in America dodici anni facendo quattro film come invece poi fu. A ogni film pensavo sarebbe stato l’ultimo, anche perché il sistema lì è cinico, bugiardo e sleale. Quando avete parlato di cinema hai capito se Tom Cruise aveva una conoscenza superficiale della storia del cinema come Will Smith? No, lui è un’altra cosa. Ha lavorato con i più grandi da Spielberg a De Palma, Michael Mann, Oliver Stone, Paul Thomas Anderson e Stanley Kubrick, non ha fatto solo cinema d’industria ma moltissimo cinema d’autore. La sua carriera è cambiata quando ha visto che nonostante tutto questo non vinceva un Oscar. Ha fatto di tutto per vincerlo nei primi anni duemila e dopo non esserci riuscito ha deciso che il suo obiettivo sarebbe stato il cinema d’incasso e basta. Sì, ma se voleva parlare con te non era per fare un blockbuster. Quello era il periodo in cui la Paramount l’aveva messo alla porta e Mission: Impossible non era andato bene. Credo volesse fare un altro Jerry Maguire e avendo visto La ricerca della felicità devo essergli sembrato adatto. E pensa che era talmente caduto in disgrazia che quando poi dissi a Amy Pascal, la boss della Columbia, che c’era questa possibilità di

un film con Tom Cruise, o come si dice nel gergo che Tom Cruise era “attached” alla mia sceneggiatura (cioè che se il film si fa, lui ci sta), lei mi rispose che non le interessava: «Tom Cruise non lo vogliamo» furono le parole esatte. Incredibile, no? Pensai esattamente questo: incredibile. Dopo è stata necessaria un’operazione simpatia gigantesca con quel ruolo in Tropic Thunder e poi finalmente un altro Mission: Impossible di successo per tornare a surfare. Hai dovuto dirgli tu che la Columbia non lo voleva? No, non gliel’ho mai detto. Però pensai proprio che era un mondo terribile. Se in un momento della tua vita hai fatto delle belle cose, viene dimenticato. E comunque, a dirla tutta, Mission: Impossible 3 non era stato un fallimento così clamoroso come lo facevano sembrare! Aveva incassato circa quattrocento milioni in tutto il mondo. Se non sbaglio andando in positivo di cento milioni. Certo il loro target per quei film di solito è molto maggiore, ma comunque non era stato un disastro! Non aveva mandato in bancarotta nessuno! A ogni buon conto, Tom Cruise o no, Amy Pascal il mio film non lo voleva fare. Le avevo citato Kramer contro Kramer come esempio e mi oppose che in quel film c’era Meryl Streep che era una figura di donna molto legata a quell’epoca mentre invece i tempi erano cambiati. Quindi basta. Fine. Non si fa. È incredibile avere a che fare con questa gente senza cultura cinematografica che tuttavia detta le leggi del cinema mondiale. Poi capisci perché un genio come David Fincher, uno che ha fatto poco più di dieci film in quarant’anni, si butta su Netflix, perché lì gli danno carta bianca. L’hai più sentito Tom Cruise? Un po’ eravamo rimasti in contatto. L’ultima volta è stato quando gli ho scritto un messaggio dopo aver letto del divorzio da Katie Holmes. Gli scrissi qualcosa tipo «Cazzo Tom, mi dispiace», perché avevo visto quanto fosse innamorato di quella figlia, e lui mi rispose una cosa che poi

ho pensato anche io per il mio di divorzio, mi scrisse: «I didn’t see it coming» cioè «Non me lo aspettavo proprio». Se non sbaglio per i dettami di Scientology una volta uscita dal nucleo familiare lui la figlia non la può più vedere. E alla fine tra Scientology e la figlia ha scelto Scientology a quanto pare. Arrivati a quei livelli si sentono un po’ come dei faraoni nell’antico Egitto. Interpretano così tante volte il ruolo di chi salva il mondo che finiscono davvero per crederci. Quando è finito il tuo idillio con Will Smith di tutti quegli incontri che hai fatto con le star non è uscito nulla? No, perché non erano nulla di speciale, era davvero ordinaria amministrazione. Lì le pubbliche relazioni funzionano così. Ero stato alle feste pre-Oscar della CAA in cui c’erano tutti quelli che loro curavano e praticamente non c’era un invitato che non fosse famoso, da Nicole Kidman a Tom Hanks. Quelli come me erano il 2 per cento degli invitati. Feste in cui c’è concentrato tutto insieme l’intero immaginario hollywoodiano. Del resto mi invitarono due volte e solo dopo La ricerca della felicità. Sono feste per un clan elitario, feste in cui ho visto Will Smith salutare Tom Hanks e chiedergli se si potevano incontrare per chiedergli dei consigli su come scegliere i film da fare. Will Smith!! Che all’epoca era il più grosso di tutti. Cos’è che Will Smith invidia alla carriera di Tom Hanks? La longevità. La maggior parte di questi attori che arriva a essere tra i più pagati ci rimane per poco in quella posizione. Chi arriva oltre i venticinque anni di quel tipo di fama ha sfondato il muro dell’immortalità. È Brad Pitt, è Leonardo DiCaprio o Meryl Streep naturalmente. È necessaria una grande intelligenza per riuscire a sopravvivere in quel sistema. Considera che loro possono non essere dei cinefili ma sono molto intelligenti. Per esempio in una festa simile nessuno beve. Non c’era una goccia di alcol. Sono gestite come feste di bancari. Hollywood non ha niente di rock’n’roll. Se ti vedono che bevi un bicchiere di troppo sospettano subito che tu sia

alcolizzato, quindi inaffidabile e ti parlano alle spalle. È davvero un mondo del cazzo, posso dirlo? Questo genere di equilibri, tenere la barra dritta su tantissimi aspetti lavorativi, non solo la recitazione in sé per sé, è quello che ti tiene a galla. Per questo è così complicato e terribilmente logorante. In queste feste immagino che ci fossero uomini e donne arriviste, quelli o quelle che sono lì per conoscere e farsi conoscere. La maggioranza di loro sono arrivati, eccome! Ci sono sempre però quelli che rincorrono l’Oscar mai vinto, il film della loro rinascita e altro. Insomma trovi di tutto. … e se non sbaglio tu a quel punto tra divorzio e tutto il resto eri uno scapolone. Regista di successo che ha sfondato il box office con un film piccolo, sulla cresta dell’onda, straniero… Ho capito dove vuoi arrivare. Sì, per uno nella mia posizione in quel momento il corteggiamento era molto breve. In quel mondo sei il tuo successo e io avevo avuto successo, quindi automaticamente per loro ero uno di valore. Non è che ci fossero ragazze a cui interessava conoscermi, o meglio chi lo sa, ci saranno pure state, ma per rispondere alla tua domanda ce n’erano anche tante a cui interessavo solo come regista di successo che può scritturare chi vuole. È durato un anno e mezzo il periodo in cui sono stato in quella condizione da single. A parte queste persone, gli altri come ti vedevano? Avevi avuto un solo film di successo in fondo… Io ero qualcosa di molto originale perché non avevo solo avuto un successo, l’avevo avuto con un film d’autore, che è una cosa che non capita di frequente oggi, è più da Coppola, De Palma o Scorsese. Nessuno sapeva cosa sarebbe successo ma per loro la mia potenzialità era quella, qualcuno di più difficile da incasellare del solito e per questo interessante. Così incontravo sia le grandi come Penelope Cruz, Cameron Diaz e

via dicendo, sia tutti quelli come Tom Cruise o Robert Downey Jr. che avevano bisogno di un film diverso, più piccolo, per emergere di nuovo e tornare in vetta. Mi capitò con Natalie Portman per esempio, che usciva dalla saga di Guerre stellari, aveva lasciato il cinema per laurearsi e ci voleva tornare. Era sconsolata poiché non aveva mai lavorato così poco come in quel momento. È un mondo alla rovescia, il contrario esatto di quanto si possa immaginare. Oppure mi capitò con Jennifer Lopez, che era in un momento difficile, in cui veniva tenuta lontana dalle scene. Stavo preparando Hancock (che come detto poi non feci) e lei ci teneva parecchio a entrare nel progetto. Solo che io avevo trovato in Charlize Theron l’interprete perfetta e lei se la prese a male non poco. Invece subito dopo La ricerca della felicità tu hai accettato il pilota di una serie tv, Viva Laughlin. Sì, era una serie musical con canzoni dei Rolling Stones, Elvis Presley e altri classici, era il remake di una serie britannica. Solo che era una robaccia della CBS vecchio stampo. Tutta ambientata in un casinò tristissimo a Laughlin, in Nevada, tra padre e figlio, prodotta e interpretata da Hugh Jackman. Se la serie era così da poco perché l’hai fatta? Proprio per Hugh Jackman, i miei agenti mi avevano detto che era un mio fan, conosceva L’ultimo bacio a memoria! E lui mi interessava. Visto che era produttore mi chiamò per dirigere il pilota e gli dissi di sì. Senza togliere poi che in America se tu giri il pilota di una serie e questa ha una vita anche senza di te, tu comunque prendi una percentuale su ogni episodio, per sempre. Praticamente un investimento. Io poi non avevo una mappa chiara di Hollywood all’epoca. Mi propongono una serie, un mese e mezzo di lavoro, ci sono i soldi, c’è Hugh Jackman… Accetto! Ma il ritmo era lento, terribilmente lento, e potevo farci poco.

Invece, alla fine, dopo tutto questo, dopo tutti questi incontri perché hai accettato di fare quel film con Gerard Butler? Voglio dire: avevi incontrato Tom Hanks e discusso con Natalie Portman. Come è successo che invece hai fatto un film con Gerard Butler? Perché tre quarti dei copioni che ti arrivano da leggere sono film che vorrebbero mettere in produzione ma spesso non sono nemmeno finanziati, inoltre i tempi che corrono da quando ti parlano di un progetto a quando il progetto prende eventualmente vita sono spesso molto lunghi. In quel momento della mia vita mi sentivo “parcheggiato” a Los Angeles, col costante dubbio se tornare a fare film in Italia oppure restare nell’industria hollywoodiana adattandomi alle loro regole. Un giorno mi arriva questo copione, tra i tanti che mi arrivavano, me lo dà il mio agente. Mi dice che me lo manda Gerard Butler (che del film era anche produttore), mi racconta che parla di un padre e di un figlio e, vivendo io in America ormai da qualche anno e mancandomi tantissimo i miei figli che stavano crescendo in Italia, avevo già rinunciato (pentendomene) a girare il remake di Karate Kid con Jaden, il figlio di Will Smith. Ero andato in Italia invece, a girare Baciami ancora. Quel film con Gerard Butler mi ricordava il mio struggimento di padre che deve scegliere tra crescere dei figli e la carriera. Leggo il copione e mi sembra che, con un po’ di lavoro sulla sceneggiatura, possa venirne fuori una cosa bella e onesta. I soldi per farlo bene c’erano. E i soldi lì servivano anche a me per vivere. A Los Angeles a un certo punto sei costretto a lavorare, cioè a girare qualcosa, perché la vita costa almeno quattro volte più che in Italia. Lo stile di vita ti porta a spendere più di quanto guadagni, anche se guadagni bene. Un attore può anche girare due-tre film l’anno, un regista no. Deve continuamente lavorare per vivere in quel sistema ma così rischi di fare film sbagliati. E se fai un film sbagliato, sai che dopo lavorerai di meno. Ti cercheranno di meno e verrai

persino pagato di meno. È un sistema che funziona così. C’è proprio un modo di dire specifico che lo spiega: sei l’ultimo film che hai fatto. Scegliere ogni volta il film giusto con questa pressione addosso non è facile affatto. Anzi è il motivo per cui spesso finisci per sbagliare. Per farla breve, dunque decido di incontrare Gerard Butler, il quale mi fa una buona impressione, cordiale, carino… Il suo manager, il mio agente e i produttori spingevano tutti perché io firmassi subito e accettassi di fare il film. Avevo intuito che sarebbe stato difficile fare delle modifiche alla sceneggiatura e quindi esitavo, e più esitavo più loro insistevano. Da quello dovevo capire che c’era qualcosa che non andava. Lo sapevo che quel che avevo vissuto con Will Smith non sarebbe stato ripetibile, ma in qualche modo dovevo pur lavorare. E alla fine, dopo tutte quelle insistenze, finii per accettare. Firmai il contratto e commisi uno degli errori più grandi che si possano immaginare. Cioè? I guai sono iniziati subito, già con lo sceneggiatore. Avevo l’impressione fosse un po’ dissociato, uno di quelli che quando chiedi una correzione o vuoi impostare il lavoro in un certo modo ti dicono di aver capito ma poi non fanno quello che gli avevi chiesto e tu comprendi che in realtà non avevano capito niente. Una sofferenza. Così prendiamo altri due sceneggiatori per le riscritture, perché pure loro si accorgono che il copione non funzionava. Uno di questi due addirittura ha poi creato e scritto la serie This Is Us, l’altro invece aveva scritto Rapunzel per la Disney. Insomma due sceneggiatori bravi, ingaggiati per una sola settimana per rimettere a posto l’intero copione. E già qui, era chiaro che le cose non andavano nella direzione giusta. Infatti il copione inizia a impasticciarsi sempre di più. Io avevo anche cercato di creare con Gerard Butler lo stesso rapporto che avevo creato con Will ma non era possibile. Lui usava il manager come scudo. E quando arriviamo sul set è da subito un incubo. Sembrava di girare una pubblicità. Per ogni

inquadratura c’erano sette persone che mettevano bocca su come dovesse essere, cioè i produttori. Senza contare che la sera mi arrivavano le scene riscritte, scene che avrei dovuto girare il giorno dopo! Riscritte male, inutilmente lunghe e verbose. Io avevo un po’ di potere sul set ma non sulla scrittura, quindi mi cambiavano all’ultimo momento le carte in tavola sulla sceneggiatura (che già non andava) e poi mi mettevano pressione quando giravo. Un disastro assoluto. Ogni sera all’arrivo delle pagine riscritte avevo un travaso di bile. Dopo un po’ fu evidente che Gerard Butler non si fidava per nulla di me e anzi mi remava scioccamente contro ogni giorno. Io dicevo: «Qui tu corri, lei apre la porta e tu la abbracci». E lui: «No, non la faccio così». Era un continuo mettersi di traverso. Aveva una sua visione personale di ogni cosa, rifiutava totalmente l’emotività che io metto nei miei film. Era una questione di scrittura? Ma no figurati! Pensa che la spiegazione che diede a mia moglie Angelica, che era anche la costumista del film e gli chiese di smettere di fare questa guerra al regista, fu: «Gabriele ha fatto tre famiglie, cosa ci capisce di amore?». Ufficialmente un idiota. Questa cosa come l’hai vissuta? Malissimo. Nella maniera peggiore possibile. Ero andato fuori di testa. Questo tormento mi faceva svegliare ogni mattina con la nausea, ogni cosa mi era insopportabile, anche il fischio del treno che mi svegliava la notte. Dopo due settimane di logorio, ogni mattina prima di andare sul set come prima cosa andavo dritto in bagno e vomitavo. Dopo quattro settimane, vomitavo anche dopo pranzo nel mio camper. Alla fine del film vomitavo mattina, pranzo e sera. E mica finisce con la fine del film, ci sono anche le proiezioni di prova che vanno malissimo! Quindi occorreva rigirare tutta una serie di scene per alleggerire il film con delle battute

orrende che miravano a compiacere il tipo di pubblico che loro volevano conquistare. Per lo stress ero ingrassato tantissimo, ero diventato Shrek. Il film finito è pieno di scene strane che non vanno da nessuna parte, momenti montati malissimo e movimenti di macchina inspiegabili… Sì, è proprio per queste litigate e per il fatto che abbiamo girato scene aggiuntive. Ci sono momenti che mi hanno tagliato via, come per esempio una scena molto struggente di Uma Thurman e un tentativo di suicidio; oppure ci stanno intere scene che hanno spezzettato e non si capisce più niente; altre in cui hanno inserito le riprese fatte a posteriori ma senza che ci sia vera continuità. C’è pure un intero personaggio aggiunto ex novo, il padrone di casa di lui, messo lì perché dovrebbe far ridere per via dell’accento indiano. È davvero terribile. Immagina solo che per il finale si erano fissati con l’idea di “wrap up”. Non ripetevano altro. Sarebbe come a dire “dare una chiusa” alla storia che sia soddisfacente e conciliante. Mi ossessionavano con questo “wrap up”. Così facciamo questo finale con Gerard Butler che gioca con il figlio in giardino, felici e la moglie che li guarda dalla finestra contenta. No, non va bene. “Wrap up” ancora di più, abbiamo dovuto fare che anche lei esce di casa e gioca con loro, altrimenti non bastava! Anche la recitazione non è curata come tuo solito. Perché non hanno voluto fare le mie solite settimane di prova prima. Questo nonostante ci siano anche grandi attrici come Uma Thurman o Catherine Zeta Jones. A proposito di Catherine, il giorno che è arrivata sul set io non l’avevo riconosciuta. Cioè non l’avevo mai vista prima e si presenta questa signora con i capelli grigi, annodati, le infradito e un abbigliamento dimesso. Davvero pensavo fosse qualcuno che passava di lì. Invece era lei. Era venuta a fare la prima prova trucco e costumi. Ci parliamo un po’ poi va da Angelica, e le

fa vedere cosa la produzione debba acquistare per lei. Abiti ma anche una specie di muta che si mette sotto gli abiti, ti stringe tutta ed è bombata nei punti giusti. Insomma ti fa le forme perfette. Così quando poi è uscita dal camerino, con la parrucca, il trucco, la muta che le fa il fisico perfetto era tornata Catherine Zeta Jones come la conosciamo. In tutto il film solo una scena sembra tua, quella del confronto più sentimentale con Jessica Biel in cui lei si commuove. È molto onesta. Sì, perché lei è una brava attrice. Hollywood l’ha messa da parte ma è brava. Ed è una delle poche scene che non mi hanno massacrato o in cui Gerard Butler non ha fatto il matto. Loro due dietro le quinte avevano una storia e di conseguenza quando c’era lei lui era più mansueto, si allineava a lei e non cercava il conflitto come al solito. Se tu guardi solo quella scena capisci che in fondo poteva essere anche un bel film. Il resto purtroppo è quello che è. Quando hanno cominciato ad arrivare le discussioni e le litigate la troupe come la prendeva? Era un covo di vipere, i produttori mi dicevano: «Guarda che Butler è uno stronzo, siamo tutti con te», poi andavano da lui e gli dicevano: «Resisti Gerard!». Lo scoprii grazie ad Angelica. Questo mi esasperò e facilmente arrivammo a un confronto particolarmente aspro. Fu un giorno in cui si girava una scena con un bambino. Lui sbagliò a chiamarlo, io gli dissi che la scena andava rifatta perché si chiama tipo Joe mentre lui aveva detto, fatti conto, Bill. Non so perché tuttavia la cosa lo aveva fatto scattare e insisteva che lui il bambino lo chiamava come gli pareva. Era una cretinata che ti fa capire quanto ormai fossimo bruciati dagli attriti. Io cominciai a urlare indicando la sceneggiatura, lui voleva puntare i piedi e disse: «Io lo chiamo Joe, va bene?!» e io risposi: «E io ti chiamo stronzo!» – «Vaffanculo!» – «No. Vaffanculo te!!» e via esasperando. Ero finito a un palmo da lui con lui con le mani ancora basse ma i

pugni chiusi, non mi era mai capitato in vita mia, proprio a brutto muso. Stavo per dargli un cazzotto e lui a me lo stesso. Veramente una brutta scena consumata davanti a tutti. Finì che urlai: «OK BASTA!! IO MOLLO, TROVATEVI UN ALTRO REGISTA!» e me ne andai a piedi verso casa in mezzo alle paludi del cazzo della Louisiana. Non era possibile fare un film in queste condizioni folli. E comunque anche lui, a film finito, lo hanno ricoverato in quelle cliniche di disintossicazione, come le chiamano loro. Non stava bene si vedeva. Sospetto che a Hollywood una cosa del genere abbia conseguenze gravissime… Guarda peggio di così non c’era niente. A oggi penso che avrei dovuto abbandonare il film e basta. Togliere la firma adducendo ragioni creative. Invece la sera ci fu un summit a casa mia organizzato dai produttori con Angelica per cercare di pacificare gli animi. Mi garantirono che avevano parlato con Gerard e tutto sarebbe cambiato. Il giorno dopo era di nuovo tutto come prima. E adesso il film ha il mio nome. Poi l’hanno promosso bene? Abbastanza, certo non erano un grande studio, non era la Columbia. In più questo era un film medio, ma alle volte capita che i film così vadano bene. Certo questo faceva davvero schifo. Incassò poco all’esordio, tipo otto milioni, poi qualcosa recuperò e finì con un incasso decente ma comunque in perdita. Dopo le proiezioni di prova, come ti dicevo, era stato ancora più massacrato, avevano fatto di tutto per prendere i quattro quadranti ma la linea dell’interesse nei confronti del film prima che il film uscisse restava sempre bassa. Di quel film al pubblico non importava niente. Però c’era Gerard Butler, che veniva dal successo di 300! Ma 300 è come Star Wars, non conta niente l’attore, è il brand che fa vincere il film, gli attori sono dei cartonati in questo

genere di film. Finito quel lavoro immagino tu sia rimasto in rapporti pessimi con tutti i coinvolti. Pessimi. Tanto che avevano una sceneggiatura bellissima su Zelda e Scott Fitzgerald che volevo fare ma ovviamente non me l’hanno data e credo non l’abbiano mai fatta. Era troppo per loro, probabilmente non hanno nemmeno capito cosa avevano per le mani. Ma sia chiaro che lo standard di Hollywood sono loro e non la produzione della Ricerca della felicità. Cioè lo standard non è avere una star dalla tua parte che ti rende tutto facile ma venticinque produttori esecutivi che vedono quel che giri e ti rompono le scatole su tutto, ti chiedono di rigirare alcune scene, o stare attento a una certa cosa, inquadrare di più un certo attore eccetera. Se sono sopravvissuto è solo perché in Italia avevo fatto tanta pubblicità, che più o meno funziona così e si era rivelata una palestra utilissima per sopravvivere a Hollywood. C’erano delle scene di Uma Thurman in cui è disperata e ubriaca. Scene dove lei recita molto bene. Il giorno dopo però mi vengono a chiedere cosa siano, perché lei recitasse in quella maniera… E a furia di parlarti e darti queste informazioni contrastanti mi hanno convinto di essere l’unico a pensare che lei stesse recitando bene. Distrussero completamente l’arco di quel personaggio, che era uno dei motivi per il quale avevo deciso di fare il film. Dev’essere stato un bel sollievo quando è tutto finito. In realtà sono stato malissimo. Stavo da solo a Los Angeles, completamente alienato. Passavo notti insonni e quando era giorno non sapevo come gestire le giornate. Ho passato almeno due anni molto dolorosi, sicuramente i più brutti della mia vita. Si erano accumulati l’allontanamento di mio fratello, la lotta con la mia ex moglie per vedere mio figlio e questo film.

Gli agenti, i produttori, quelli che ti avevano conosciuto, se ne erano resi conto che non eri al massimo? Penso proprio di sì. Non badano al lato umano ma vedono che un tuo film è un fallimento e come niente finisci nella director’s jail, la prigione dei registi. È uno stato nel quale sei considerato perdente, non vogliono avere a che fare con te e diventi un paria. E c’è anche l’actor’s jail ovviamente. Una condanna che non prevede appelli, quando sei nella galera dei registi o degli attori ci rimani a lungo, anche perché intanto il sistema si è infatuato di un altro che ti ha sostituito, tu diventi di colpo un ronzino. I ritorni da questo stato di emarginazione si contano sulle dita di una mano, tipo John Travolta con Pulp Fiction, e richiedono di lavorare a un film molto piccolo (perché a quelli grandi non hai più accesso) che faccia il botto di colpo, dimostrando che sei ancora qualcuno che può garantire un successo. La tua agenzia ti proponeva film peggiori? Dalla CAA me ne andai dopo Quello che so sull’amore. Mi avevano cambiato due o tre volte la persona che mi seguiva ed ero talmente scoppiato che non ce la facevo a non avere qualcuno che mi conoscesse bene. Questi nuovi agenti mi passavano sceneggiature che non avevano niente a che vedere con me, mi davano commedie romantiche o horror, quindi me ne andai alla WME, che un po’ mi aveva corteggiato ed effettivamente mi passavano progetti più in linea con quello che so fare. Solo che questi film poi non si facevano. Quindi cambiai ancora, e lì feci un vero errore. CAA e WME sono due agenzie grandi, io invece seguii uno degli agenti con cui mi ero trovato bene alla CAA e che mi aveva convinto ad andare con lui alla Paradigm. Un’agenzia piccolina dove finivano tutti gli agenti che venivano licenziati a loro volta. Solo che dopo due mesi questo agente se ne andò da un’altra parte ancora lasciandomi lì. Adesso in teoria sarei ancora alla Paradigm ma non mi chiamano più, ci hanno provato per i

primi due anni che sono tornato in Italia poi hanno capito che non leggevo niente di quello che mi mandavano e che sto molto meglio qui. L’unica cosa che mi spingerebbe a fare un altro film in America è se arrivasse un grande progetto con dei produttori seri e una star affidabile, ma questa ricetta perfetta è quasi impossibile che esca fuori. Anche perché non sto facendo nulla perché accada. So che però hai cercato di contattare Will Smith recentemente perché volevi dirigere il film sul padre delle Williams, le tenniste, che lui stava cercando di fare, è vero? Sì, ma poi l’ha fatto con un altro regista. Ci rimasi male perché gli chiesi di fare una videochiamata e spiegargli perché mi appassionasse tanto. Niente. Non mi rispose proprio. Veramente un mondo strano. E invece non hai mai pensato di sfruttare i buoni contatti che avevi sviluppato per un film italiano? Attirare qui alcuni talent americani, quelli che hanno dimostrato di stimarti e voler lavorare con te come Rosario Dawson, Hugh Jackman o Russell Crowe. Sì ho capito che dici, fare come fa Woody Allen, una storia di americani in Europa. Penso che questo scenario sarebbe molto più concreto e fattibile. Chi secondo te sarebbe realistico coinvolgere? Per attirare qualcuno con cui ho ottimi rapporti come Russell Crowe, Amanda Seyfried, Rosario Dawson o anche Eva Mendes, dovrei avere per le mani la sceneggiatura giusta. Se gliela mandassi io personalmente probabilmente la leggerebbero e potrebbero interessarsi. È sicuramente una strada a cui penso. Molto meno angosciante dell’idea di tornare a misurarmi col sistema hollywoodiano!

10 Quando sei sul set e arriva Russell Crowe ti devi spostare Padri e figlie (2015)

Se è vero che c’è sempre una forma di rincorsa tra i film di Gabriele Muccino e la sua vita, questo è particolarmente evidente in Padri e figlie. Un film su un uomo che sta male ma cerca di continuare a lavorare e guadagnare per non perdere la figlia, girato da un uomo reduce da una terribile esperienza lavorativa, sempre più a disagio a Los Angeles, con sua moglie e sua figlia con sé e gli altri due figli rimasti a vivere in Italia. Il film è tutto giocato tra il passato e il presente. Nel primo un padre scrittore lotta per ottenere l’affido della figlia in seguito alla morte della moglie in un incidente d’auto che ha risparmiato lui e la bambina. Ricoverato per qualche mese a seguito di problemi psichici, il suo reinserimento in società è un problema. Deve scrivere e scrivere molto e in fretta per guadagnare mentre gli zii a cui aveva affidato la bambina nel periodo di internamento vogliono avere la custodia. Loro sono benestanti e mettono in campo avvocati che lui non può permettersi, costringendolo a nascondere nuovi sintomi della malattia da cui dichiara di essere guarito e a scrivere

letteralmente fino alla morte per non perdere la bambina. Il libro, pubblicato postumo e tutto centrato su un personaggio chiamato come la figlia, sarà un capolavoro della letteratura americana. Nella linea del presente invece la figlia, adulta, ha difficoltà a relazionarsi con gli uomini, ne incontra uno con cui poter vivere ma la mancanza della figura paterna la spinge a sabotare la relazione fino a che gli eventi non la portano a conciliarsi con se stessa. Produzione medio piccola ma cast eccezionale. I ruoli comprimari sono quasi tutti affidati a grandi nomi. C’è Aaron Paul di Breaking Bad nella parte del fidanzato della protagonista, Diane Kruger in quelli della zia cattiva, Octavia Spencer in quelli del capo della figlia e Jane Fonda in quelli dell’agente del padre. I protagonisti poi sono Amanda Seyfried e Russell Crowe. Significa quattro Oscar in campo (i due di Jane Fonda più quelli di Russell Crowe e Octavia Spencer) per un melodramma purissimo, e il primo segno di vita dopo Quello che so sull’amore. Mai era capitato e mai più sarebbe capitato nella carriera di Gabriele Muccino che passassero più di due anni tra un film e l’altro. Ce ne vogliono invece tre per superare quell’esperienza e tornare a dirigere una storia di sentimenti disperati, questa volta in un mondo urbano e cupo, con al centro una professione intellettuale e una spiccata ricerca della lacrima. Là dove in passato l’importante era sempre stato il racconto del tormento interiore dei personaggi, esternalizzato nelle corse, nelle piogge, nel fiatone e nelle grandi scene in cui si muovono, stavolta siamo spettatori di una tragedia, di un grandissimo dramma umano. È questo quel che accade a chi viene separato dai figli, costretto a fare con fatica un lavoro che ama, pressato da parenti che non hanno pietà di lui e sballottato dal mondo. Padri e figlie non sarà mai il

capolavoro di Gabriele Muccino ma forse è il suo grido più sofferente, è un film in cui sciogliere i propri drammi testimoniando quelli degli altri. Russell Crowe ha la fama di essere uno che i registi se li mangia a colazione, a meno che non abbiano le spalle grosse come Ridley Scott o Ron Howard. È vero? Considera che quando sei sul set e arriva Russell Crowe ti devi spostare. Non è una metafora eh, ti devi letteralmente scostare tu perché altrimenti lui ti travolge camminando. È una presenza che incute timore e che ti può ribaltare il film in tutti i sensi. Può portarlo in cielo o può mettere a ferro e fuoco il set. Quando incontri uno così, quando lo vedi la prima volta per parlare del film e capire se si potrà fare o no, come ti poni? Cerchi di compiacerlo? Ti poni vero, reale. Perché è così che sarai poi sul set e devi capire se a lui vai bene così, se vi incastrate e c’è sintonia. Mica potevo ripetere l’esperienza orribile avuta con Gerard Butler! Ci siamo trovati bene da subito e non me ne stupisco troppo, gli attori veri sono animali, lo sentono immediatamente se possiedi una visione e una leadership. Se non le hai ti mangiano, cioè non ti seguono e perdi il controllo del film. Russell Crowe mi ha studiato per tutta la prima settimana di riprese, non parlava, mi guardava e basta. E tutti sapevano che, per come è fatto, poteva anche mollare il set se non gli fossi piaciuto. Del resto non ha firmato il contratto se non alcuni giorni dopo aver iniziato. Terminata quella prima settimana ha capito che avevo le idee che servivano e ha detto: «Facciamo questo film dai!». Io una cosa almeno la so fare: dirigere gli attori, non importa di che nazionalità o che lingua parlino. Lui ha sentito che io lo sapevo guidare e si è fidato. Questo rapporto di fiducia è stato molto intenso fin dall’inizio.

Lo sceneggiatore accreditato, Brad Desch, non ha nient’altro in filmografia. Solo questa sceneggiatura e basta. Chi sono queste persone, com’è che scrivono un film e finisce lì? In America che un film da una tua sceneggiatura si faccia è in sé un traguardo immenso. Se quel film fa il botto ne fai subito un altro, se va male invece non ne fai mai più. Molti degli sceneggiatori che avevano scritto sceneggiature che mi sono capitate in mano in America adesso fanno altri lavori. Sono autori di quelli che vengono chiamati “spec scripts” cioè le sceneggiature che nessuno ha commissionato ma qualcuno ha scritto di sua volontà e che poi cerca di piazzare. Solitamente sono di autori sconosciuti, perché quelli che hanno esperienza lavorano solo su commissione, vogliono essere pagati per scrivere e non scrivono se non c’è la certezza di un compratore e quindi di un compenso. Spesso però quelle non commissionate sono le sceneggiature più originali in circolazione, proprio perché concepite in libertà. Le migliori saranno tutte opzionate però. Non ti credere. Alcune di queste ci impiegano dieci anni a essere opzionate perché nessuno ci crede, anche quando poi sono dei grandi successi come Forrest Gump, che era uno spec script. Esiste proprio quella che chiamano la Black List, cioè l’elenco che esce ogni anno dei migliori copioni in circolazione ancora non acquisiti da nessuno. Ed è un elenco molto seguito nell’industria. Sia Sette anime che Padri e figlie per esempio sono stati entrambi in questa classifica. I produttori americani, come ti ho detto più volte, spesso non sanno dove si trovi il grande cinema. Non sanno riconoscerlo. Quello è un mondo di capolavori mai girati, perché questi executive degli studios hanno carriere di due, tre o quattro anni in media, sbagliano un film o due e saltano. Non rischiano facilmente il posto per produrre storie fuori dagli schemi. È un mondo di depressi cronici senza vere qualifiche, gente che non conosce il cinema e non è cinefila, ne parlano come fosse

finanza perché è del denaro che sono davvero appassionati. Amy Pascal, ex presidente della Columbia, aveva però un vero intuito filmico. Era una delle più potenti donne di Hollywood. Aveva riportato in auge la Columbia reinventandosi la nuova saga di Spider-Man. Insomma era molto considerata, prima che saltasse tutto con lo scandalo delle email hackerate. Quello del 2014 frutto dell’incidente diplomatico con la Corea del Nord? Sì, praticamente la Columbia aveva prodotto questo film con James Franco e Seth Rogen intitolato The Interview in cui prendevano in giro Kim Jong-un, avevano trovato un attore somigliante che lo interpretava e la trama prevedeva che i loro due personaggi andassero in Corea del Nord per fare uno show televisivo e venissero ingaggiati dalla CIA per uccidere il dittatore. E alla fine ci riuscivano! Era solo una commedia, ma Kim Jong-un (quello vero) non la pensò così. In Corea del Nord il dittatore è dio e non puoi certo mettere in scena il suo omicidio. Come vendetta e per forzarli a non far uscire il film i nordcoreani violarono i server delle email della Columbia. Praticamente finirono online liberamente, centinaia di migliaia di scambi email dei massimi vertici dello studio. Uno scandalo incredibile. C’erano scambi tra produttori in cui Amy Pascal parlava malissimo delle più grandi star, li descriveva come idioti, oppure diceva il contrario di quello che la società aveva dichiarato in pubblico, c’erano anche dei commenti scambiati con un altro produttore molto potente, Scott Rudin, su Obama e i suoi gusti sui film candidati all’Oscar e se il presidente degli Stati Uniti preferisse quelli interpretati da attori afroamericani. The Interview poi lo fecero uscire lo stesso anche se senza promozione ma Amy Pascal si dovette dimettere. Ora continua a fare quel lavoro e si è riguadagnata una sua influenza, ma da esterna. Quella sceneggiatura ti arrivò nonostante il fallimento di Quello che so sull’amore?

Arrivò proprio quando pensavo di andarmene dall’America. Dopo quell’esperienza con Gerard Butler, mi ero talmente depresso da disamorarmi anche del mio lavoro. Pensavo di non valere più un cazzo come regista, che non avrei più avuto un rapporto con un attore come quello avuto con Will Smith e che Hollywood fosse un posto di merda dove ormai venivo considerato un perdente e per questo non avrei più lavorato ai livelli cui ero arrivato. D’altra parte dopo dodici anni negli Stati Uniti il cinema italiano ormai non lo conoscevo più. Tutti mi dicevano: «Che torni a fare in Italia?». Insomma ero confuso e imballato come un toro pieno di banderillas, non mi arrivava più ossigeno al cervello. Ecco in questa situazione arriva di colpo un bel copione. Era una produzione indipendente, piccola, un film da dieci milioni diventato da quindici quando è salito a bordo Russell Crowe, anche se prima io avevo cercato in tutti i modi di avere Colin Firth, che conoscevo bene dal 1999, quando andai a presentare Come te nessuno mai al festival di Londra. Avevo anche dormito a casa sua una volta. Ci avevo instaurato un buon rapporto, ogni volta che lo vedevo mi diceva che voleva lavorare con me e che dovevamo assolutamente fare un film insieme, ma non ce la facemmo, non si incastrarono tempi e impegni o non lo so. Ti confesso che ci restai male, perché mi dici per anni che vuoi lavorare con me, poi ti propongo un film in cui credo e mi dici di no. Un attore come Colin Firth sarebbe venuto secondo te in una produzione così piccola? Be’ Russell non è venuto mica gratis! Per questo film ho anche parlato con Kevin Spacey per la parte dello zio cattivo. Una parte piccola certo ma, per l’appunto, non sai mai. In fondo sono paghe tipo di un milione per cinque giorni di lavoro totali. E pensa che quando ci parlai fu lui a tirare fuori che aveva fatto un film chiamato American Beauty, come se non lo conoscesse nessuno! E ovviamente senza sapere che era stata

l’ispirazione per L’ultimo bacio. Quant’è assurda e ridicola la vita, pensai. Adesso chiaramente Kevin Spacey è off-limits. Almeno nel suo caso c’è una ragione. Considera che io volevo anche Hilary Swank in questo film e non c’è stato verso. Siamo pure amici e lei ha vinto due Oscar. Non uno: due! E nessuno la fa più lavorare. Quando la proposi ai produttori di Padri e figlie per il ruolo della zia cattiva, mi dissero di no perché portava sfiga. Rimasi davvero senza parole. È finita nell’actor’s jail anche lei. Il punto è che dopo l’Oscar gli attori vivono una stagione di ribalta molto delicata in cui faticano a essere all’altezza delle aspettative che hanno creato e a trovare un film da storia del cinema da interpretare. Finiscono così in quell’imbuto di consigli e yes men in cui non capiscono più niente e spesso fanno scelte sbagliate. Il film perfetto arriva solo quando non lo stai cercando. E dopo un paio di flop puoi anche avere due Oscar a casa ma non ti fanno lavorare più lo stesso. Russell Crowe invece ha accettato dopo di te. Pensi che abbia influito la tua presenza? Sì certo, è evidente. È fondamentale per un attore sapere chi sia il regista. Lui non essendo americano ragiona anche con logiche meno schematiche. Accettò ma a patto di terminare un film che stava girando come regista: The Water Diviner. Il fatto che ci fosse di mezzo quel film ci creò non pochi problemi. Quando finimmo di girare Padri e figlie, non avevamo ancora una distribuzione per il Nord America. E nemmeno il suo film l’aveva. Russell faceva il giro delle sette chiese per trovare uno studio che distribuisse il suo film e questo impedì al nostro di posizionarsi sul mercato fino a che non avesse piazzato il suo. Ma parlando di chi avrebbe potuto far parte del film il nome più clamoroso è un altro: Stevie Wonder!

Doveva fare la colonna sonora? No, solo una canzone. Era successo che mia moglie Angelica era diventata casualmente amica della sua fidanzata dell’epoca e futura moglie, Tomeeka, e così aveva iniziato a organizzare cene con loro due a casa nostra. Per quanto possa sembrare assurdo finisce che io frequento stabilmente Stevie Wonder, il quale è uno che ti racconta cose come il fatto che quando era piccolo e andava a scuola, su tutto il percorso del bus lui non poteva entrare in nessun bar. Non era proprio possibile perché le fermate erano in posti in cui i bar erano solo per bianchi. Quindi la mattina prima di uscire di casa non poteva bere nulla per evitare di dover andare al bagno. Era l’America degli anni sessanta. Quindi per farla breve quando lavoro a Padri e figlie gli chiedo se vuole farmi la canzone dei titoli di coda, un brano originale. Lui allora si vide il film… In che senso scusa? Quel che mi disse fu: «Ho visto il film». L’aveva ascoltato e Tomeeka gliel’aveva raccontato, fatto sta che era in lacrime mentre rievocava la “visione”, giuro. Dopo alcuni giorni mi invita a casa sua e mi fa sentire la canzone che ha composto, tutta suonata e cantata da lui lì, live nel salotto. Mancavano solo le parole, c’era solo ogni tanto nel ritornello «Fathers and daughters», che era il titolo del film. Parole a parte però la canzone c’era tutta. Ed era bellissima! Quel giorno ero arrivato a casa sua di pomeriggio, eravamo solo noi due, con lui che continuava a cantarmi canzoni splendide. A un certo punto in tutto questo arpeggiare, cantare e parlare, Stevie Wonder non realizza che si era fatta notte. Così chiudiamo la conversazione, lui mi saluta e si avvia con sicurezza su per le scale che portano alle stanze. Io resto nel salone, totalmente al buio. Era ormai notte fonda e nessuno in quella casa aveva acceso delle luci. Erano ore che eravamo nel buio più totale, lui se n’era andato nelle sue camere e io dovevo uscire da solo. Non gli avevi detto niente?

E che vuoi dire a Stevie Wonder? «Oh Stevie qui io non vedo niente!»?? Non avevo assolutamente il coraggio di dire una cosa simile. Toccando le pareti, i mobili, urtando contro un divano, tavolini, e camminando quasi a carponi riesco dopo un po’ a trovare la porta d’ingresso. Trovo la maniglia, apro ed esco. Il giardino era illuminato. Lungo il vialetto le luci della notte di Los Angeles mi hanno poi riportato a casa come nulla fosse mentre canticchiavo ancora la sua canzone. Alla fine però nel film la canzone non c’è! È finita che i produttori della Voltage ritennero che 100 000 dollari per un brano originale di Stevie Wonder fossero troppi. Renditi conto. Lui lo aveva anche già inciso ma non fu mai comprato. È così Hollywood: hai possibilità pazzesche di entrare in contatto con leggende come Stevie Wonder che scrivono per te un brano, e poi sei in mano a produttori che pensano che 100 000 dollari per un suo brano originale siano troppi. Forte dell’esperienza di Quello che so sull’amore ti eri assicurato di non finire di nuovo in una lavorazione da incubo? Solo a parole. Non è che si possa fare molto di più. Il rischio c’era comunque. Dopo Sette anime di nuovo una storia di una persona che va verso la distruzione per fare del bene a qualcun altro. In un certo senso sì. Lui ha una malattia che non può curare perché se lo facesse e la rivelasse verrebbe internato e non vedrebbe più la figlia, deve invece lavorare come un matto, conciliare mille cose, per scrivere un romanzo che gli consenta di mantenersi e mantenere la figlia che vogliono levargli. Tutti temi che sentivo molto vicini… A un certo punto nel film il personaggio di Russell Crowe dice: «Viviamo negli Stati Uniti del denaro». Ce l’hai messa tu quella battuta?

No, c’era già, ma la trovai illuminante. Finalmente qui torni a fare un film fatto bene, tecnicamente audace, pieno di soluzioni di racconto originali. È perché i produttori mi hanno lasciato lavorare in pace, e perché avevo un direttore della fotografia con cui mi trovai molto bene, Shane Hurlbut, oltre allo scenografo, Daniel Clancy. Shane veniva da grandi film d’azione, tra cui anche Terminator Salvation, Act of valor, Need for speed e molti altri. Si era appassionato al lavoro che stavamo facendo e aveva un gran desiderio di misurarsi con film incentrati sulle relazioni umane. Ci siamo trovati così bene che poi l’ho chiamato per A casa tutti bene. Quando girammo Padri e figlie lui fu il primo a sperimentare la MoVi, un sistema rivoluzionario per cui la macchina da presa è comandata dall’esterno e ti permette di inventare sequenze altrimenti impensabili, in Italia non era ancora uscita. Che ci avete fatto? Tutto il lungo piano sequenza in cui Aaron Paul entra ed esce dai taxi con Amanda Seyfried. Con quella era possibile seguirli fuori dall’auto, poi quando entrano passarla attraverso il finestrino a un operatore nella macchina e idem all’uscita degli attori farla uscire di nuovo dal finestrino e continuare a tenere il piano sequenza. Tutto con fluidità e senza che nessuno noti che ci sono questi passaggi, facendolo sembrare naturale. È una scena fatta benissimo ma, levami una curiosità, mi hai spiegato che preferisci lavorare con i piano sequenza e odi i classici campo-controcampo. Ma perché in quel piano sequenza lì fai cose difficili, dentro e fuori dal taxi passando per il finestrino, e poi quando finalmente loro due si raggiungono e si parlano, interrompi il piano sequenza e fai un campo controcampo canonico sui visi? Dopo tutta quella fatica per non staccare mai!

È una cazzata. Un errore di insicurezza ereditato dalla grammatica filmica che avevo assimilato facendo film in America. Sono proprio le conseguenze di quello che ho vissuto su Quello che so sull’amore. I produttori ovviamente non potevano contemplare un piano sequenza come quello lì e io prima ancora che loro protestassero li ho anticipati interrompendolo. Chi lo sa? Magari avrei potuto tenerlo. Erano ragionevoli. Ma è questo che intendo quando dico che ero indebolito, la mia spavalderia e coraggio erano stati attenuati. A livello di scrittura invece il film è un po’ il trionfo delle grandi spiegazioni a parole. Sì lo so, c’è sempre un limite con questi film, dato dal fatto che lavori su una sceneggiatura scritta da un altro a cui tu hai un accesso limitato. Se ti ci vuoi inserire devi farlo piano piano, con piccoli tocchi che non urtino nessuno. Non è come con Will Smith che cambiavo tutto a piacimento, qui c’era da fare un delicato gioco di scacchi. Fa anche un po’ sorridere come nella storia il fatto che la protagonista, ormai adulta, abbia rapporti sessuali occasionali con diversi uomini sia vissuto da lei come qualcosa di cui vergognarsi e nascondere agli altri. È la perfetta espressione del loro puritanesimo. C’è tutto un protocollo lì su come si va a letto con un uomo. Per esempio non avverrà mai la prima ma la seconda notte. Considera però che alla fine della fiera questo film ha colpito molto il pubblico femminile. Le donne danneggiate, con qualche trauma o più fragili si ritrovano in questa storia di una ragazza con un padre mancante che si autodistrugge e continua a cercarlo andando con uomini sbagliati. È un archetipo comportamentale: cercare un padre che è venuto a mancare troppo presto in storie fallimentari con diversi uomini che poi vengono regolarmente sabotate.

Come funziona il rapporto tra un attore che incute timore come Russell Crowe e la bambina con cui in questo film deve recitare per tutto il tempo? Quando è arrivato lui l’avevamo chiaramente già scelta, ma gli è piaciuta, si sono trovati molto bene. Ha fatto di tutto per farla sentire a proprio agio, farle capire che sarebbe stato come un padre. Russell è proprio un attore generoso, me lo disse esplicitamente una volta: «La caratteristica fondamentale dell’attore è quella di essere generoso», se dai tanto ai tuoi partner loro pure ti danno tanto indietro. E tanti attori del resto non sono per niente generosi con i partner, non li ascoltano mentre gli danno le battute ma aspettano solo il loro turno per dire le proprie. Facendo così cercano di prevalere e non si accorgono di recitare peggio anche loro. Dopo Will Smith Russell Crowe è l’altra grandissima star che hai diretto. Una con anche un premio Oscar già conquistato. Lavorano diversamente quei due? Sono molto diversi. Will è proprio un cazzone, è un po’ come era Mastroianni, è uno che si diverte, fa l’intrattenitore per tutta la troupe tra un ciak e l’altro con battutacce a sfondo sessuale ma appena entra in scena è un grandissimo professionista. Russell Crowe invece è burbero. Fuori del set ama divertirsi, ama la compagnia ed è leale con i suoi amici di sempre, cosa non scontata in quel mondo. Si diverte e non disdegna le feste ma sul set è molto molto serio, e se sente che non sei serio anche tu può andare molto male. Quando ha girato Robin Hood con Ridley Scott hanno avuto dei problemi e lui non gli ha parlato per tutta la lavorazione! Me l’ha anche spiegato su cosa avessero litigato ma non l’ho capito benissimo perché il suo accento australiano non è facilissimo da comprendere, qualcosa che ha a che vedere con questioni finanziarie. Russell era anche produttore e un set tutto preparato lo hanno lasciato a marcire per mesi, facendogli perdere dei soldi. Non ho potuto lavorare come al solito con

lui, non ho potuto fare le mie lunghe prove prima di girare perché lui ci teneva a fare Padri e figlie e lo incastrò subito dopo la lavorazione del suo The Water Diviner. Esattamente dopo: prese un volo per venire da noi il giorno dopo la fine delle riprese di quello. Sarò sincero, fu fatto un po’ tutto a cazzo, fin dalla prova costumi. E non ho potuto nemmeno stargli addosso fisicamente per dirigerlo, perché se lo facevo mi metteva al mio posto. Cioè già lui di suo è fisico in tutto quello che fa, se io gli dico come muoversi, gli giro intorno, cerco di spiegarglielo con il linguaggio del corpo lui mi risponde: «No fermo. Parlami. Non mi toccare». Intendiamoci, ha sempre fatto tutto quello che gli chiedevo e ci siamo studiati insieme come mettere in scena le convulsioni guardando video su YouTube, vedendo come si muovono le persone quando hanno gli attacchi, ma tutto con una certa deferenza. Con un attore come Russell Crowe quanto ti puoi affidare a lui e quanto devi invece correggere il personaggio in corso? La scuola di recitazione e il metodo anglosassone tendono a far entrare gli attori nel personaggio e a volte a trasfigurarsi in ciò che interpretano. Spesso non sono contenti di troppe direzioni. Will Smith per esempio, che è molto talentuoso, una volta mi ha interrotto nelle mie spiegazioni, accadde nella scena in cui doveva ballare con Rosario Dawson in Sette anime. Io come al solito ero lì a spiegargli come accarezzarla, guardarla, flirtare e via dicendo, lui mi ferma e dice: «Così però ci togli tutto il divertimento!». A Hollywood il regista non ti dice, come invece faccio io in Italia, che (fatti conto) entri, passi di qui, poi vai sul divano e finisci di nuovo in piedi. Loro lavorano in un modo un po’ più complicato, mi ci è voluto un po’ a capirlo e abituarmici ma adesso lo sto importando in tutti i film che giro. Lo chiamano blocking e funziona che gli attori sul set provano la scena interpretandola meccanicamente ma focalizzandosi sui movimenti, in buona sostanza si muovono nello spazio nella maniera che più li

mette a proprio agio. Il regista in quella fase li corregge, se necessario, e cerca per quanto possibile di seguire e studiare il loro istinto. A volte questo gli suggerisce idee a cui non avresti pensato, altre volte invece no, non funziona e devi imporre la tua direzione nel dettaglio. Fatto il blocking gli attori vanno a prepararsi mentre regista e direttore della fotografia illuminano e provano i movimenti di macchina necessari a seconda della coreografia che è venuta fuori con gli stand-in, delle persone pagate apposta per stare lì, impalate, al posto degli attori veri mentre facciamo questi aggiustamenti. Quando tutto è pronto gli attori tornano sul set, provano la scena senza macchina da presa, cioè provano solo la recitazione con me accanto. Nel momento in cui tutto sembra rodato viene battuto il primo ciak. È la prima volta che sento parlare degli stand-in. Probabilmente è perché in Italia non si usano affatto. Anche nella fase di aggiustamento tecnico delle luci ci sono i veri attori in campo. Tanti di loro, anche grandi, non lo sanno che si può richiedere uno stand-in. Io non dico mai nulla perché mi sono più utili gli attori, ma quelli scafati che hanno lavorato all’estero come Favino lo sanno e col cavolo che si mettono lì! Se ne stanno in camerino durante la prova luci e si fanno chiamare quando si è pronti a girare. Il blocking per come me l’hai descritto sembra più dispendioso in termini di tempo rispetto a come si gira in Italia. Non è vero, in America tutto è improntato alla velocità, perché vuol dire risparmio. Quello che trovo pazzesco e vorrei si facesse anche da noi è che nel sistema americano le troupe per un film sono due, a volte addirittura tre. C’è la tua, quella principale che gira effettivamente, poi ce n’è un’altra che ti precede su tutte le location, arriva uno o due giorni prima di te e fa quello che si chiama “prelight”, ovvero prepara i proiettori, stende i cavi e fa insomma in modo che quando tu

arrivi bastano un paio di ritocchi del direttore della fotografia e sei pronto. Si risparmiano almeno due ore di tempo così e due ore oggi, due ore domani, alla fine sono settimane di girato in più, che costerebbero senz’altro di più di quanto non paghi la troupe aggiuntiva. Quando poi addirittura hai la terza troupe questa ti segue e sta nelle location il giorno dopo di te, per smontare tutto. In Italia invece la troupe è una, arriva la mattina, monta tutto, gira e alla fine smonta. Un dispendio di forze, energie e tempi che non capirò mai. Ho provato a spiegare più volte che con il sistema americano si risparmia molto nel tempo di messa in opera mantenendo alta la qualità, ma non sono riuscito a farlo passare. Alla fine sei soddisfatto di come è venuto Padri e figlie? Poteva venire meglio. Se avessi combattuto di più sarebbe stato sicuramente un film migliore, avrei potuto sistemare dei dialoghi troppo didascalici, invece ci ero arrivato un po’ sfiatato. Tuttavia lo considero un film onesto, che mi ha anche ridato fiducia in me stesso nonché voglia di riprendere in mano le redini del mio lavoro. L’avessi fatto un po’ meno alla ricerca della commozione sarebbe stato meglio. Erano i produttori che volevano arrivare a far piangere a tutti i costi e quando l’obiettivo è far piangere, stai certo che finirai per ottenere l’esatto contrario. Per esempio le musiche, anche se molto belle, potevano essere tenute più a bada, potevano essere meno presenti. Invece bisognava piangere, piangere, piangere… Che cazzo! Se il pubblico non avesse pianto, il film non avrebbe avuto successo, secondo Nicholas Cartier, che era il produttore. Avevamo lavorato bene insieme ma su questo non ero affatto d’accordo. Tuttavia un passo alla volta la sua insistenza portò sia me sia Paolo Buonvino, il compositore delle musiche, a calcare la mano. I miei più grandi successi non sono mai stati creati per far piangere, anche se poi hanno avuto quell’effetto. Sono sempre stati film fatti con la sola intenzione di emozionare e intrattenere.

11 Avevo bisogno di un film semplice L’estate addosso (2016)

In mano a qualunque altro regista italiano (e non) L’estate addosso sarebbe stata una commedia pura, un film di ragazzi, estate, viaggi, innamoramenti e scoperta di sé. Un coming of age se visto dal punto di vista americano. Un film di formazione se visto da quello italiano. Invece il temperamento drammatico di Gabriele Muccino invade tutto. Invade innanzitutto un inizio che forse è la parte migliore: la maturità, il senso di fine di un’era, il vuoto dei giorni e delle settimane successive, la solitudine, la noia di Roma d’estate e l’arrivo della possibilità di un viaggio come assurda salvezza. C’è un’amarezza in quei momenti che nessun regista di teen movie si azzarderebbe mai a toccare, nemmeno da lontano! Il genere che esalta l’età raccontata qui parte con una serie di luoghi comuni ribaltati: le vacanze, la fine della scuola e il viaggio sono ammantati di mestizia e tutto ottenuto solo con una serie di ellissi. Ci vorrà molto lavoro per il protagonista, arrivato a San Francisco con una compagna di scuola che conosce poco e che non gli sta simpatica, per ribaltare la sua vita, scoprire un altro sé, conoscere e fare esperienze fino a trovare il trionfo adolescenziale, ovvero la possibilità di vivere la vita nel senso più pieno.

Atterrato in America il film cambia lingua e cambia passo, inizia una rinascita per il protagonista con un ritmo, una fluidità e un senso nostalgico per quell’età che il cinema italiano proprio non conosce. Mescolando filmmaking indipendente americano e trovate del Muccino italiano, il ragazzo protagonista si innamora della compagna che non aveva in simpatia. Un amore sfortunato e non ricambiato che è però il segno più evidente della sua apertura a un altro mondo. Stringe un legame fortissimo con la coppia gay che li ospita, si droga, viaggia a Cuba e in una parola esce allo scoperto e vive. Dopo gli anni americani (e l’eccezione del ritorno parziale di Baciami ancora) L’estate addosso era un film italiano di piccole ambizioni e nessuna arroganza. Un film girato da qualcuno che riprende ad andare in bicicletta dopo un incidente e lo fa raccontando ciò che sa, cioè la propria vita. Presentato al festival di Venezia in una nuova sezione (Cinema nel giardino), girato in due lingue, pensato anche per l’estero, massacrato al box office come a Gabriele Muccino non accadeva dai tempi di Come te nessuno mai, è forse l’unico film che, a conti fatti, sia stato più utile al suo regista che agli spettatori. Adulto nel senso nostalgico e nello sguardo ma poi molto adolescenziale nei temi e negli eventi, non ha un pubblico chiaro ed è commercialmente indeciso. Tuttavia proprio per questo è artisticamente così inclassificabile, sorprendente e curioso. A ottobre del 2015 veniva distribuito Padri e figlie ma tu avevi già deciso di tornare in Italia, prima ancora di capire come sarebbe andato, che vita avrebbe avuto o se avrebbe influito sulla tua carriera americana, vero? In realtà avevo deciso da ancora prima però non riuscivo a spostarmi da Los Angeles perché Angelica amava stare lì e mi incastrava iscrivendo nostra figlia Penelope alle scuole americane. L’Italia è un paese molto piccolo quando lo guardi

da laggiù ma a me mancava moltissimo e non ne potevo davvero più di combattere ancora come un gladiatore in quel sistema che ormai detestavo. Ci avevo navigato per dodici anni e non lo sopportavo più. Aggiungi che il pubblico di qualità sempre di più stava migrando verso le piattaforme di streaming come Netflix, dove i registi che lavoravano alle serie televisive, anche quelle di alto profilo, venivano fatti ruotare così da non avere più potere dello showrunner. In pratica non contavano nulla. Il fallimento di Quello che so sull’amore ti aveva condannato? No, come per tutte le cose anche per ritornare in auge in America c’è un protocollo da seguire. Per riguadagnarmi la fiducia di Hollywood il mio agente disse che mi serviva un piccolo film in inglese, roba da festival che raccolga premi. Cosa che io comunque non so fare. Quello però, se fosse andato bene, mi avrebbe consentito di essere considerato di nuovo, come fu per L’ultimo bacio. Non sapevo più cosa scegliere. Un giorno, mentre mi trovavo a Roma, incontrai Domenico Procacci e gli dissi che volevo parlargli di un progetto da fare insieme. La vecchia band proprio… Esatto. Gli dissi che volevo fare un film su un fatto vero della mia vita che lui conosceva bene perché gliel’avevo raccontato quando nemmeno immaginavo di farne un film. Tornare a una storia così personale era per me come aprire un nuovo capitolo, un film da ambientarsi negli anni novanta, magari piccolo, per depurarmi. Domenico lesse il copione ma era titubante, mi disse: «Mah non lo so Gabriele… È un film che abbiamo già fatto», facendo riferimento a Come te nessuno mai. Che non era vero. Era un film completamente diverso. Non lo capii, anzi mi sorprese che non abbracciasse al volo la proposta di rilavorare insieme. Ci rimanesti male?

Più che altro ci rimasi confuso. Pensai che ci fossero altri motivi, più seri, che non aveva avuto il coraggio di dirmi. Tipo che avesse nuovamente problemi economici. Non volli essere indiscreto e non dissi nulla. Si trattava di un piccolo film con un budget molto limitato rispetto a quelli che avevamo fatto insieme in passato. Ma per me, incontrarlo e parlargliene significava comunque tanto: gli stavo dicendo che volevo tornare a lavorare in Italia e che avevo chiamato lui per primo. Vedere Domenico così scarico, così poco interessato, qualunque fosse il motivo, mi dispiacque. Tempo dopo, quando seppe che il film lo avrei fatto con altri mi disse di non aver capito che ci tenevo così tanto, di aver pensato fosse un’idea così… Sta di fatto che Marco Cohen di Indiana non vedeva l’ora di fare un film con me, mi è venuto sotto con il cash proprio. Tuttavia per farlo costare poco bisognava ambientarlo nel presente. Mi dispiaceva perdere quell’epoca, quella in cui si erano svolti i fatti, ma pur di fare un film che mi portasse di nuovo a raccontare le mie storie italiane modificai il copione. Avevi alternative? Cioè in Italia quanti produttori ci sono che possono fare un film come lo vuoi tu? Non ne avevo idea. In Italia avevo lavorato solo con Domenico mentre adesso, dopo L’estate addosso, ho firmato un contratto di esclusiva con Marco Belardi. Mi ero trovato straordinariamente bene a lavorare con Domenico e Medusa, che aveva anche distribuito La Ricerca della felicità in Italia. Purtroppo oggi Medusa non è più quel che era stata in quegli anni che ricordo magnifici. Le cause del ridimensionamento sono tante e di tante nature diverse, di certo però non li ha aiutati Baaria, il kolossal di Tornatore le cui riprese durarono il doppio del previsto e che nonostante avesse pure incassato parecchio (dieci milioni di euro) lo stesso non ripagò i suoi costi esorbitanti. Era un gioiello che produceva e distribuiva cinema con passione per gli autori, da Bertolucci ad Aldo, Giovanni e Giacomo. Si prendevano decisioni veloci ed

efficaci, soprattutto affidate all’intelligenza di Giampaolo Letta e Mario Spedaletti, un vero cinefilo, oggi purtroppo scomparso e a cui devo molto. Anche il settore del marketing, che gioca un ruolo fondamentale nel successo di un film, era eccellente. In molti oggi siamo orfani della Medusa. Il suo forte ridimensionamento ha proprio ristretto i giocatori in campo. Già non c’era più Cecchi Gori, ora senza la Medusa di quegli anni sono rimasti pochissimi a poter produrre film italiani con budget consistenti. I miei ultimi film li ho realizzati con Marco Belardi, Leone Film Group e Rai Cinema, mentre la distribuzione l’ha fatta (decisamente bene) 01 Distribution. Mi sono sentito a casa anche con loro, sia chiaro, però mi dispiace che queste ottime realtà di oggi non abbiano veri competitor. Penso che la concorrenza di qualcuno dotato della tua stessa forza sia un bene prezioso per tutti. Costringe ognuno a fare sempre meglio e alza il professionismo e la qualità di un’industria come quella del cinema. Insomma è essenziale. Anzi, è vitale. Cosa pensavi che avrebbe fatto per te L’estate addosso? Avevo bisogno di un film semplice. Tutto mio, senza pressioni, senza star, girato all’arrembaggio con una troupe leggera. Come Ecco Fatto. Come Rocky quando diventa famoso e perde la bussola, anche io avevo bisogno di tornare nella palestra di periferia dove tutto era iniziato per ritrovare me stesso e l’energia che temevo di aver smarrito. Lo capii una sera che mi trovavo a Roma. Ero a cena da Giovanni Veronesi. C’era parecchia gente e un’aria festosissima. Mi ricordo che risi talmente tanto da rendermi conto che erano anni che avevo smesso di ridere in quel modo! In America avevo letteralmente dimenticato cos’era la risata con le lacrime e gli amici intorno a un tavolo. Quella sera c’era anche Paolo del Brocco di Rai Cinema e io, estemporaneamente, gli chiesi se fosse interessato a fare un mio film italiano. Lui mi sorrise felice. Così iniziò un nuovo capitolo della mia vita.

Produttivamente era complicato? Non tanto, il film fu girato prevalentemente a Roma, dove abbiamo ricostruito anche tutti gli interni americani, mentre per gli esterni girammo una settimana a San Francisco, tre giorni a Cuba e due a New Orleans. Il mio desiderio era di fare un film bilingue, così che fosse più internazionale. E proprio tutto quello che racconta il film ti è accaduto? Al 100 per cento. Nel 1991 ero attanagliato dalla paura di diventare un regista mediocre, sempre se ce l’avessi fatta, cosa ancora tutta da dimostrare. Avevo sinceramente paura di non essere nulla nella vita. Che poi è esattamente quello che mi ha dato la forza e l’ostinazione per insistere così tanto nel mio sogno. In quell’anno di limbo e confusione partii per un viaggio con una ragazza che conoscevo, perché era parte del mio stesso giro di amicizie, ma che non sopportavo affatto. Finì che col passare delle settimane me ne innamorai senza essere corrisposto. Il film lo racconta fedelmente. A San Francisco vivevamo a casa di una coppia gay e uno dei due, Dale Nall, è accreditato come cosceneggiatore perché il film oltre alla storia mia e di Bia, racconta pure quella sua e del suo compagno Christopher. Dale mi ha aiutato a ricostruire i ricordi e ha sistemato i dialoghi inglesi. Nel corso di tutti questi anni poi siamo sempre rimasti in contatto. Mentre a me tra famiglie e divorzi sembra di aver vissuto venti vite, Dale e Christopher oggi stanno ancora felicemente insieme, come allora. Quindi in realtà questo film non è un ritorno a San Francisco, la città della Ricerca della felicità, ma era La ricerca della felicità a essere per te un ritorno a San Francisco! Sì, San Francisco è la città che ha definito la mia vita più di ogni altro posto al mondo a parte Roma. E L’estate addosso è il film più autobiografico che abbia mai fatto. A San Francisco scoprii l’America e anche di non essere assolutamente

omosessuale, perché se non diventi gay lì vuol dire proprio che non lo sei. Provai anche l’ecstasy come si vede nel film, io che poi con le droghe non avevo e non ho assolutamente familiarità vidi di tutto, anche alberi colorati come in Avatar. Immagina che in vita mia al massimo avevo fumato le canne ma come evento sociale, con gli amici. Niente di più. L’estate addosso alla fine della fiera è un teen movie molto più di Come te nessuno mai. Una storia di grandi domani, speranze, aspettative e passioni giovanili estreme. È vero. Passammo un periodo incredibile, quattro teste che ragionano come una sola, con una donna al centro, tutti innamorati a vicenda ma senza le corrispondenze giuste. Io innamorato della ragazza, lei innamorata di Dale a cui piacevo invece io. Alla fine nessuno ha avuto quel che sperava. Andammo tutti in bianco. Tornato a Roma poi, cercando di capire cosa fare della mia vita, incontrai Minoli e da lì come ti ho detto è partito tutto. Ma la ragazza l’hai più sentita? Il film lei l’ha visto? Bianca Maria, detta Bia, era proprio come nel film, un po’ rigida e bigotta. Era molto bella, ma mi era insopportabile per quei modi che aveva di fare. Dormivo nel letto con lei e riuscì a dirmi di no anche dopo esserci presi l’ecstasy! Comunque anche con lei non ci siamo mai persi davvero di vista e l’ho sentita quando il film era finito invitandola a vederlo alla prima. Ha risvegliato anche in lei ricordi conturbanti e stravolgenti. Era sconvolta ed emozionata, dopo la visione. Questo mi dà modo di chiederti una cosa che mi ero segnato. Marzia Gandolfi scriveva nella recensione della Ricerca della felicità: «L’altra metà del cielo conferma ahimè il modello femminile di Muccino ancora una volta isterico risentito e mai solidale». Non è la sola che ho sentito parlare male dei tuoi ritratti femminili, donne che rispondono spesso a un modello isterico deleterio.

È vero che ci sono nei miei film dei personaggi femminili irragionevoli, ammetto che nella mia vita non ho avuto esperienze eccezionali con le donne. Ho cercato di comprenderle senza mai veramente riuscirci. Ma le considero decisamente superiori alla natura abbastanza elementare degli uomini. Però forse è un problema tuo e non delle donne con le quali hai avuto a che fare. Questo è molto probabile. Sono cresciuto in una famiglia dove i modelli femminili forse erano sbagliati. A mia discolpa posso dire però che pure gli uomini non è che mi stiano così simpatici eh. Anch’io ho sentito dire questa cosa dei miei film, purtroppo non ricordo chi ma una critica scrisse che nei miei film uso le donne come fossero pistole. Che è una gran frase, lo devo ammettere. Credo a questo punto sia evidente che, pur non facendolo apposta, ci sia qualcosa in me che mi fa vedere nella donna un pericolo. Conta poco, mi rendo conto, ma in realtà mi trovo meglio a raccontare le donne rispetto agli uomini, che nei miei film non sono mai degli eroi (a parte in un paio di quelli americani, che non a caso non ho concepito io). Le tue amiche non ti hanno mai fatto notare questi tuoi personaggi? No. Credo perché sanno con quali persone ho avuto a che fare. Ho avuto un grande talento per trovarmi ogni volta la donna meno compatibile con me. Questo ha influenzato la mia visione dei rapporti tra sessi: essenziali ma conflittuali. E poi c’è poco da fare: se parliamo di cinema dal conflitto tra uomo e donna nasce la drammaturgia più grande. Quindi va bene così. Però il conflitto non vuol dire necessariamente ritrarre le donne come un pericolo.

Se è per questo non vuol dire nemmeno ritrarre gli uomini come eterni adolescenti. Non so che dirti, se non che amo tantissimo tutte le donne tormentate ma ferite e dunque smarrite dei miei film. Mai isteriche. Per questo film hai scelto come protagonista Brando Pacitto, un volto molto particolare. Rispecchia molto bene l’immagine che sentivo di avere in quegli anni, una non proprio da vincente. Di nuovo dopo L’ultimo bacio qui hai preso tutta una serie di attori che poi hanno fatto cose importanti, tutti bravissimi. Oltre a Brando Pacitto che sta in Baby c’è Ludovico Tersigni di Skam e Matilda Lutz che fa i film tra America e Italia… Ludovico Tersigni con me ebbe un blocco. Si impallò proprio. Motivo per il quale alla fine non gli ho dato il ruolo da protagonista. Dev’essere stata l’emozione, perché in realtà è bravissimo. Matilda Lutz invece mi è sempre sembrata più giusta quando recitava in inglese rispetto a quando lo faceva in italiano. Da una parte si esprimeva perfettamente e dall’altra tendeva ad avere un po’ di cantilena. Il lombardo, del resto, tra tutte le cadenze, è tra quelle meno amiche del cinema. C’è una cosa di cui non abbiamo mai parlato e che qui ritorna: il cognome Ristuccia. Nei tuoi film italiani c’è quasi sempre un personaggio che di cognome fa Ristuccia, solitamente è uno dei protagonisti. Lo è in Ecco fatto, in Come te nessuno mai, L’ultimo bacio e in Ricordati di me ma poi anche in A casa tutti bene e Gli anni più belli. E anche qui Ristuccia è il cognome del protagonista. C’è qualcosa che collega tutti questi film? Sono tutti personaggi legati tra di loro? A volte lo sono stati. Per esempio Carlo e Giulia, i protagonisti dell’Ultimo bacio, dopo tanti anni insieme erano nella mia testa Bentivoglio e la Morante di Ricordati di me. Ma i veri legami sono più che altro caratteriali. Tutti i Ristuccia hanno

un certo tipo di carattere. Solitamente quello di Pierfrancesco Favino o di Accorsi. Caratteri forti e impulsivi. Non è però l’unico cognome che ricorre, c’è anche Incoronato, che è Pasotti in Ecco fatto ma anche Kim Rossi Stuart in Gli anni più belli. Gli Incoronato sono più romantici e contemplativi. Infine ci sono i Morozzi, un nuovo cognome entrato nei miei film. È Claudio Santamaria in Gli anni più belli. I Morozzi sono dei vinti, vogliosi di essere qualcuno che non saranno mai e incapaci di trovare una rotta per la propria vita, insomma non riescono mai a farcela. Alla fine si tratta sempre di lati diversi del mio carattere, Ristuccia è la mia parte ambiziosa e testarda, Incoronato quella più sensibile e spirituale, mentre Morozzi quella più insicura e impaurita dalla mediocrità. Quello della voce fuoricampo è un espediente che usi spessissimo, forse giusto in due-tre film tuoi non c’è. Mi piace tantissimo. Lo sai che si dice sempre che sia uno strumento per registi incapaci? Una soluzione semplice, qualcuno che dice a parole ciò che dovresti saper mostrare con le immagini. Sono tutte cazzate. Anche Monicelli, che è un genio, disse che lo slow motion è per chi non sa emozionare. Quindi che dovremmo dire di Kubrick che lo usa spesso? E tra l’altro Kubrick usa anche moltissimo la voce fuoricampo. Io la uso perché ti fa entrare subito nella testa del protagonista osservando le cose dal suo punto di vista. Ti dà immediatamente le coordinate per conoscerlo senza perdere tempo nell’introdurlo attraverso una serie di scene di presentazione, spesso pedanti e inutili. Amo anche la voce letteraria, quella del narratore onnisciente, che uso in Ricordati di me, è quella che pure Truffaut o Woody Allen hanno usato in moltissimi film. Con L’estate addosso ritornavi al tuo cinema, eppure stranamente non è poi molto mucciniano nei tempi, nella furia

e nella gestione dei sentimenti. Forse perché non ci sono conflitti sufficientemente forti. Non ci furono nella storia vera e non ho sentito il bisogno di inventarli nella scrittura. Certo se fosse stato un lungo flashback ambientato negli anni novanta come avevo pensato, un po’ sulla falsa riga di Stand by Me, cioè dichiaratamente un ricordo del protagonista ormai cinquantenne, allora forse sarebbe stato più struggente. Il sentimento della nostalgia per quel tempo perduto avrebbe fatto da cassa di risonanza per sensazioni amare e irreversibili. E chi lo sa forse sarebbe stato anche più facile promuoverlo e trovare un’idea di marketing più precisa e convincente. È stata tutta una produzione battagliera. A un certo punto addirittura c’è una veduta di New York dall’aereo, quello che in teoria si vedrebbe dal finestrino arrivando, che è in 4:3, cioè il formato quadrato invece del classico 16:9 di tutto il resto del film. Perché era vecchissima. Materiale di repertorio come quello costa e quindi prendemmo questa terribile veduta vecchia che costava meno. Non doveva essere nemmeno l’unica, per come era stato scritto il film ogni tanto dovevano esserci anche degli inserti con animali che si accoppiano. Elefanti, felini, tartarughe, fenicotteri. Questo perché il protagonista pensa continuamente a scoparsi la ragazza con cui è partito e con la quale ha finito per condividere il letto ma senza sfiorarla. Volevo raccontare così l’esigenza che tutte le specie esistenti sulla terra hanno, l’urgenza di riprodursi. Solo che il materiale di repertorio, evidentemente pagato troppo poco, era così modesto da essere inutilizzabile. Lo dico senza polemica, solo con un po’ di dispiacere: Indiana qualche sforzo in più per migliorare la confezione del film avrebbe potuto farlo. Non ci sono nemmeno i tuoi tipici piani sequenza e movimenti di macchina.

Considera che ho punti di riferimento registici sideralmente opposti: da una parte Vittorio De Sica, per il classicismo e la modernità, specialmente per la naturalezza con cui la macchina da presa si muove intorno agli attori; dall’altra Oliver Stone, ma anche Elio Petri, per la partecipazione alla scena con il suo sguardo e i movimenti di macchina sempre molto plastici ed evidenti. Di volta in volta uso lo stile più giusto per la storia che racconto. E comunque, detto questo, anche in L’estate addosso ci sono dei bei piani sequenza e interessanti movimenti della macchina da presa. Ti sono sfuggiti! Nessuno è perfetto. Da cosa capisci se un montatore non è bravo? Vedo il film che non marcia, non né ha musica né un suo arco narrativo teso. Il montaggio, quando particolarmente modesto, riesce a farti perdere il filo della storia. Ma va pure detto che il montatore è sempre vincolato al materiale che hai girato. Se il materiale è scadente, non può fare miracoli. Il montatore ideale è quello che rielabora l’idea che avevi e la migliora, alle volte anche solo riorganizzando l’ordine delle sequenze, quindi riscrivendo in parte la sceneggiatura a partire dalle immagini. I miei film italiani, a parte L’estate addosso, sono stati tutti montati da Claudio di Mauro con cui c’è una simbiosi assoluta. E come fai con i registi di seconda unità, quelli che mentre tu giri le scene importanti girano o le parti d’azione o i raccordi? Non li uso. Come non li usi? Giri tutto il film tu dall’inizio alla fine? Tutto. Anche le scene di raccordo tipo un’inquadratura ravvicinata della mano di un personaggio che prende le chiavi di casa?

No dai, non faccio quelle cose. Mi fanno orrore quel tipo di dettagli. Deve essere davvero determinante perché ne giri uno. Preferisco semmai una panoramica sul personaggio che prende le chiavi e poi non so, magari mi muovo di nuovo sul volto mentre apre ed entra in casa. A parte il footage e l’ambientazione nell’epoca giusta c’era qualcos’altro che un budget maggiore avrebbe dato al film? Una buona uscita in sala. Ma lì tutta la distribuzione era difficile per via della doppia lingua. Ci furono esercenti del Sud Italia assediati dagli spettatori infuriati che rivolevano i soldi indietro. La gente usciva a metà film per via dei sottotitoli. Non siamo un paese per film in lingua originale sottotitolati. Pensa però che questa stessa identica caratteristica del film, il bilinguismo, è la ragione per la quale L’estate addosso è stato venduto a Netflix America per una cifra molto alta! Il film fu presentato al Festival di Venezia, in un certo senso un grande ritorno per te. Quant’era che non ci andavi? Da tantissimo, dai tempi di Come te nessuno mai. Però se nel frattempo non ci sono andato è anche per ragioni di uscita, io voglio sempre uscire tra gennaio e febbraio, e Venezia, che è a settembre, non è un festival considerato adatto per un lancio invernale. Che poi dove sta scritto che un film non possa andare al festival di Venezia e uscire in sala quattro mesi dopo?! Rimango sempre stupito quando vedo che moltissimi film italiani presentati a Venezia o a Cannes, poi si affrettino a uscire immediatamente dopo la presentazione. Specialmente perché in entrambi i casi parliamo di periodi non facili per il cinema in sala in Italia. E ancora una volta c’è un brano di Jovanotti abbinato. Sì ma non andò come doveva andare. Lo chiamai proprio per replicare l’accoppiata di Baciami ancora e l’idea gli piacque fin dal titolo. Si lesse il copione, raccolse un po’ di suggestioni

e compose la canzone. Solo che mancava un anno all’uscita del film, era il settembre precedente, io dovevo ancora cominciare a girare! Lorenzo smaniava per uscire con questo pezzo, sapeva che era forte e aveva il tour degli stadi, voleva a tutti i costi farlo girare prima dell’uscita del film, io non sapevo come dirgli di no, siamo amici e queste sono complicazioni che non so gestire con un amico. Così non ci fu quel traino che aveva funzionato così bene in Baciami ancora, anzi sembrò che io sfruttassi una canzone di Jovanotti che esisteva da prima del film. L’estate addosso è evidentemente nostalgico, per ragioni autobiografiche. Ma questa mancanza di un tempo lontano unita al rimpianto è qualcosa che in controluce c’è spesso nei tuoi film, anche quando non entra nella trama è una sensazione che pervade le storie. L’idea che ci sia stato per i personaggi un tempo migliore e quel tempo è finito. È sicuramente un motore che ho usato spesso. I miei personaggi spesso parlano del loro passato, quasi sempre idealizzandolo, non è mai pessimo. È un espediente drammaturgico estremamente efficace che ti consente di rilanciare la sfida al presente per migliorarlo prima che sia troppo tardi. È figlio di una certa sfiducia che ho verso i rapporti umani: «Se avete paura della solitudine, non sposatevi», diceva Cechov. Le relazioni sono sempre un labirinto di non detti e menzogne. O almeno è così per i miei personaggi che sentono sempre di non essere quello che avrebbero voluto. Mi sono veramente pentito di non essermi impuntato affinché il film fosse il racconto di un personaggio adulto che ritorna indietro con la memoria a un tempo di sentimenti intensi seppur volatili poi persi negli anni. In quel periodo se non sbaglio Paolo Genovese, il regista di Perfetti sconosciuti, venne a Los Angeles a proporti tutta una serie di film che avreste potuto scrivere insieme giusto?

Fu poco dopo che firmai con la Leone Film Group, e anche lui era sotto contratto con loro. Ero ancora molto insicuro, non conoscendo più lo scenario italiano ero convinto che lavorare con qualcuno che ne avesse più il polso sarebbe stato di aiuto. Che storie ti propose? Diversi progetti ma tempo dopo ho scoperto che non erano idee nuove ma film che non era mai riuscito a realizzare. Non erano nelle mie corde e quindi, dopo dodici anni, iniziai a cercare un’idea che non fosse un sequel per un mio nuovo film interamente in lingua italiana. Era arrivato il momento di tornare a vivere e lavorare in Italia? Era proprio quel momento. Me lo ricordo bene. Era il giorno in cui Donald Trump venne eletto presidente degli Stati Uniti. Pochi minuti dopo andai da mia figlia Penelope e le dissi che si tornava a Itaca. Si tornava a casa!

12 Alla fine quella famiglia si è sovrapposta alla mia A casa tutti bene (2018)

Le storie degli adolescenti di Come te nessuno mai, che poi diventano le storie dei trentenni dell’Ultimo bacio, che diventa la storia di una famiglia in Ricordati di me. Questo era stato il percorso italiano prima del viaggio in America. Nel 2018 Gabriele Muccino, dopo il timidissimo rientro nel cinema italiano di L’estate addosso, riprendeva quel filo lì dove l’aveva lasciato con la storia di una famiglia composta da tre generazioni, genitori, figli e nipoti. Una famiglia grande con grandi problemi. Lontano dall’idea di Ricordati di me di riuscire a raccontare un nucleo incastrato nel proprio tempo, A casa tutti bene è un film che si svolge in un luogo chiuso, in un altrove che pare una bolla. Riuniti su un’isola per le nozze d’oro dei genitori, figli, nipoti, annessi e connessi si ritrovano e rimangono incastrati. Una mareggiata li blocca più del dovuto, isolati dal mondo, e li costringe a dare fondo a incomprensioni, problemi e idiosincrasie (per non dire tradimenti e gelosie).

Mancando il rapporto con il contesto e il proprio tempo, A casa tutti bene sembra un film più semplice degli altri, in realtà ha lo spunto del cinema d’autore puro (sembra quasi un’idea da Michael Haneke, nei cui film basta una variazione anche piccola dal solito, un granello di sabbia in un ingranaggio, per far cadere le maschere di rispettabilità borghese) tradotto nella forma commerciale di Muccino. È un film che tiene sempre in scena diciannove personaggi raccontandoli tutti, mostrandoli, approfondendoli e componendo un vasto mosaico di personalità, intenzioni e umanità diverse. A scriverlo sembra serva una serie per raccontare tutto questo, in realtà a Muccino basta un film di 110 minuti tirato, calibrato con tale precisione che si ha l’impressione che ognuno dei personaggi sia al centro del dramma quando in realtà nessuno lo è. L’unico protagonista è il movimento tra di loro, le dinamiche, le ruggini e un passato che il film non racconta ma a cui fa così tanto riferimento che è possibile immaginarlo. Pensato per essere un successo. Prodotto con il costo di un film di successo. Promosso con l’intensità richiesta per aiutare un successo, A casa tutti bene è stato un successo. Aveva la data di uscita giusta, nel periodo giusto, con la promozione di Sanremo e un protagonista che era uno dei conduttori del festival. Per la prima volta dopo Ricordati di me un film italiano di Gabriele Muccino che non fosse un sequel era un grande successo in Italia. Nel 2016 erano passati otto anni dal tuo ultimo vero successo, Sette anime. Quello che so sull’amore era stato giustamente nascosto, qualcuno aveva amato Padri e figlie, nessuno aveva visto L’estate addosso. Eri l’opposto di un regista desiderabile, sembravi semmai uno al tramonto. Perché mai una società di prestigio come Leone Film Group ti mette sotto contratto?

La ragione fu proprio Marco Belardi, che credeva in me, voleva che tornassi a fare un film “mucciniano” alla massima potenza, così mi propose di lavorare con Lotus (che è una società di Leone Film Group). Stavano già lavorando con Tornatore, Genovese e Virzì, volevano accreditarsi come una grande realtà gestendo il cinema italiano con cui tutti vogliono parlare. Qual è lo spunto dell’idea di A casa tutti bene? Un fatto di cronaca. Il crollo dell’hotel di Rigopiano. L’idea che tu possa rimanere bloccato con la tua famiglia sotto la neve era la prima che mi è venuta in mente. Poi ci sono state le nozze d’oro dei miei genitori, occasione in cui vennero tutti i miei familiari, incluso mio cugino con l’Alzheimer, e quando mi trovai a fare la grande foto di gruppo davanti al portone di casa dei miei l’ho sentito senza incertezze: «È questo il mio prossimo film!». Ho chiamato Raffaella Leone il giorno dopo con la solita euforia che ho in questi momenti e sono partito a scrivere la storia di ogni singolo personaggio. Tutta la loro vita. Roba che nel film ne viene raccontata meno della metà, ma a me serviva per delinearli con chiarezza. L’idea piacque subito a Marco Belardi e un po’ meno a Raffaella, che era più perplessa su certi aspetti. Ovviamente era tutto molto grezzo e anche per questo mi proposero di dargli una forma lavorando con Paolo Costella che è un vero carpentiere del cinema, uno sceneggiatore che aggiusta, mette a posto, lima, sistema e dà forma alle tue idee, si è rivelato il collaboratore perfetto per questo film. Come mai qui non hai avuto lo stesso problema che lamentavi in Baciami ancora? Cioè il fatto che la struttura non sia piramidale. Anche qua in fondo tutti hanno la stessa importanza. Sì ma a differenza di Baciami ancora, qui hanno tutti solo momenti dedicati a ognuno di loro. E poi c’era unità di luogo e di tempo. Non ho dovuto dare gravitas e importanza a tutti per

forza. Soprattutto era proprio quello che so fare meglio: parlare di gente nevrotica che fondamentalmente sta male. Questi qui basta metterli tutti insieme forzatamente che esplodono. Qual era il film modello che hai usato come punto di riferimento? Festen di Thomas Vinterberg, unito ad altri archetipi come La tempesta di Shakespeare o Il giardino dei ciliegi di Cechov. Avevo in testa principalmente il teatro e la letteratura russa. Questa ricchezza dei personaggi, della loro storia e dei loro legami che capiamo subito avere un passato ed essere estremamente sedimentati, è un motore potentissimo e anima almeno i primi trenta minuti, quelli in cui li introduci. È un tour de force pazzesco: spiegare al pubblico una quindicina di personaggi in modo che per il resto del film ricordino tutti e che capiscano chi è il fratello di chi, chi la moglie di chi, chi appartiene a un ramo, chi è cugino eccetera. Tutto senza che sia pesante. Come ci hai lavorato? Era una cosa che mi preoccupava tantissimo. Trentacinque pagine densissime. Tutt’ora non so quanto quest’impresa sia riuscita in pieno, ma ce la siamo cavata. Ma non è solo scrittura, tantissime informazioni in quei trenta minuti le comprendiamo visivamente, da come sono seduti a tavola (i fratelli a capotavola) e da come si relazionano tra di loro… Non saprei dirti come l’abbiamo fatto. Questo tipo di scrittura a me viene fuori diretta, abbastanza facile. Il difficile lì era che non risultasse didascalico. Non voglio stare trenta minuti a raccontarti i legami, deve essere una cosa che capisci mentre ne accadono tante altre, seguendo gli eventi. C’è una parte del cervello che razionalmente tiene conto di chi ho introdotto e chi no, di che informazioni ho dato al pubblico e quali

mancano, mentre l’altra, istintiva, comincia ad avvertire la parte emotiva e trascinante delle relazioni. L’ultimo colpo di questa presentazione arriva al termine di quella prima parte, con il grande pranzo a tavola, e lì solo dalla disposizione e dalle interazioni abbiamo la conferma dei rapporti di forza, specialmente il trio di figli Impacciatore, Accorsi, Favino. In quel momento capisci che sono tre fratelli e hanno un passato e una storia comune pur essendo antitetici. Anche formalmente li inquadri come l’archetipo dei fratelli agli opposti. Come del resto dall’ansia di Sabrina Impacciatore capisci che è molto coinvolta in tutta questa preparazione e che quindi è una figlia premurosa ma anche molto sotto stress. Idem con la presentazione immediata del personaggio furente di Carolina Crescentini. Quella scena lì, quella a tavola in cui ci sono tutti gli attori del film, in quanto l’hai girata? Immagino che non li potessi tenere tutti lì fermi, avrai girato prima le parti di una certa porzione di tavolo con quegli attori, e poi le altre, no? Assolutamente no. Tutti e diciannove lì per tutto il tempo. Chi non era coinvolto in primo piano comunque recitava, anche in assenza di battute. Tutti al servizio degli altri. Avevo quattro macchine da presa che giravano contemporaneamente, non c’era nessuno che non fosse inquadrato. E non era complicatissimo tenerli buoni, cioè avere il silenzio prima del ciak successivo, evitare che facessero i ragazzini… Comunque hai diciannove attori di cui almeno sette-otto sono star del cinema italiano. Sono molte di più di sette-otto! Comunque non giro singoli ciak, cioè non amo spezzare le scene in inquadrature brevi a cui dare forma in montaggio. Breve o lunga che sia, una scena la giro tutta dall’inizio alla fine, come fossimo a teatro. Poi ovviamente ci sono dei primi piani e dei tagli necessari e

dedicati. Ma il grosso è portato a casa in lunghe sequenze. Penso che questo modo di girare abbia giocato un ruolo importante nel creare la particolare coesione artistica tra gli attori che c’è stata. Nel farla tutta dall’inizio alla fine se qualcuno si sbaglia e bisogna ripartire non deve essere semplice evitare che comincino a parlottare tra di loro, qualcuno controlla il cellulare di straforo… Avevo a che fare con veri professionisti. E poi c’è la mia leadership. Ho avuto un rigore pazzesco e loro di contro sono stati tutti eccezionali. Il primo che accennava a fare la diva veniva messo a tacere dal gruppo. Claudia Gerini ci ha provato, non voleva stare sull’isola quando si giravano le parti degli altri, aveva cominciato a dire: «Eh però qua non si può mai andare a casa», e non mi ricordo chi degli attori ha risposto «Ah Geri’, e basta! Non rompe’ il cazzo, stai qua con noi!». È stata una lavorazione splendida e indimenticabile. Non lo dico come fanno in tanti per piaggeria. È stato davvero un set con un’energia formidabile. Tutti questi attori, tutti insieme a Ischia per otto settimane e nessun problema, nessuna crisi, nessuna litigata, tutti perfettamente disciplinati e profondamente concentrati sul proprio ruolo. Mi sono davvero sentito amato da ognuno di loro. I personaggi sono tantissimi e per la prima volta trova spazio in un tuo film italiano il conflitto sociale, cioè due personaggi caratterizzati in modo molto molto forte, interpretati da Gianmarco Tognazzi e Giulia Michelini che sono livorosi per questioni di soldi. Riccardino… Ho una famiglia piena di Riccardini io, almeno tre che ho concentrato in questo personaggio. Stavolta accanto ai personaggi borghesi di molti dei miei film, ho raccontato anche la parte meno fortunata. Ho voluto mettere l’accento su quanto i soldi spacchino intere famiglie, creino risentimento e

invidia fino a far perdere del tutto la ragione o l’empatia dei più fortunati verso quelli che se la passano meno bene. Tua madre era costumista, ti portava spesso sui set? Sì, si è sviluppato lì credo il mio atteggiamento contemplativo verso il cinema. Nonostante per tanti anni abbia pensato che da grande avrei fatto il veterinario, ci volle una recita scolastica, il fatto che le persone ridessero per le battute che recitavo, per farmi capire che forse quella era la mia vera strada, che la messa in scena di qualcosa, la mia ombra proiettata, mi avrebbe consentito di esprimermi. Ovviamente non sapevo bene cosa facesse un regista, ma sentivo che sarebbe potuto essere il mio mestiere, il regista è colui che può raccontare come vede il mondo invece di accettare passivamente il racconto degli altri. Inoltre solo da leader avrei potuto dire quel che mi premeva e uscire dalla sudditanza psicologica di cui soffrivo nei confronti dei miei coetanei. Volevo essere straordinario e mi era chiaro che il cinema permetteva di esprimersi in modo straordinario. Quando cominciai a fare le prime cose ci fu molto stupore tra i miei coetanei e compagni di scuola. Quello che era stato il più sfigato, quello che balbettava, quello che subiva il giudizio paternalistico da parte del gruppo di amici, improvvisamente iniziava a far parlare di sé e sempre di più. Penso che per un po’ non ci abbiano davvero potuto credere. Finalmente qui tornano le parti di commedia più spinte, questo film è più una commedia amara che un dramma. Una commedia che tuttavia, come tuo solito, arriva a fiammate, momenti di impennata quasi imprevedibili. Come quando Sabrina Impacciatore canta a forza una canzone di Jovanotti a letto… Quanto mi piace quella scena! Ma quella è Sabrina, è stata una sua idea. Lei pensò al fatto che in quel dialogo così amaro, con un marito che la tradisce e lei che lo sospetta, poteva mettersi a

cantare, in una sovrapposizione sonora surreale, una canzone d’amore come a negare la propria condizione. Oppure c’è un altro momento di imprevisto umorismo che squarcia il dramma quando a Tognazzi viene riportato che una richiesta di aiuto fatta per conto suo è stata respinta, perché «non ti ci vogliono più vedere lì, sei troppo stronzo!», gli dice Giampaolo Morelli e lui chiede: «Sì, ma con che tono te l’hanno detto?» che è il mix di assurdo e disperazione tipico della commedia italiana. Guarda è talmente sublime quella stagione del cinema italiano, che appena posso rubo qualcosa e lo faccio mio. Gianmarco Tognazzi riprende quel personaggio che fa suo padre Ugo in Io la conoscevo bene. Glielo avevo scritto addosso rendendolo ancora più consapevole della propria condizione e forse per questo ancora più vinto. Con un film simile hai sentito l’esigenza di andare in sala con il pubblico per capire se ridevano? Vado sempre almeno una volta a vedere il film in sala con il pubblico, è importante per capire molte cose. Anche se è difficile adesso perché becco sempre qualcuno che mi riconosce e la cosa mi mette in imbarazzo, mi sento uno sfigato. Non so perché, forse mi riporta ai traumi di Ecco fatto, quando andavo al Quattro Fontane e alla cassiera chiedevo: «Quante persone?» e lei: «Quindici…» – «Quindici per spettacolo?» – «No, quindici in tutta la giornata!». Demoralizzatissimo mi affacciavo e in sala vedevo due o tre persone al massimo. A volte il film partiva senza che ci fosse un singolo spettatore! Per questo oggi prima di entrare a spiare mi assicuro che la sala sia piena. Anche perché altrimenti non capisco bene le reazioni, dove ridono, dove sono angosciati o se sono immersi nel film. E poi controllo quanto ci mettono ad alzarsi a film finito e andare via. Da quello si capisce molto dell’impatto che il film ha avuto. Per questo film il commento più comune che

riuscivo a cogliere al buio, poco prima di uscire, era: «È più vero del vero». Le reazioni sono sempre uguali? Bene o male sì. Quando un film funziona, funziona sempre allo stesso modo a prescindere dal cinema o dalla zona. Spiando il pubblico di Gli anni più belli per esempio mi stupì che fossero tutti molto tesi. Così tesi che scoppiavano a ridere alla prima battuta di Claudio Santamaria. Questo accade quando senti il bisogno di scaricare la tensione accumulata. La risata liberatoria. E significa soprattutto che il pubblico è totalmente nel film. Per questo film hai vinto il David dello spettatore. Hai fatto un baccano incredibile negli ultimi anni intorno a questa storia dei David di Donatello. Talmente hai rotto le scatole che te l’hanno dato ma, lo dico io e me ne assumo la responsabilità, non vale veramente niente. Perché gliel’hai estorto. Ho solo una domanda: perché?? Guarda che quella di creare un David dello spettatore, che va al film che ha venduto il maggior numero di biglietti, è stata un’idea di Piera Detassis, la presidente. Mica un’estorsione! Non sono d’accordo sul fatto che non vale niente. Anzi, forse è il David più prestigioso. Quello davvero super partes. È quello il motivo per cui hai realizzato il tuo film: perché venisse visto dal maggior numero di persone. Il cinema, senza pubblico, non esiste. Però hai spesso parlato di come trovi ingiusto il fatto di non aver ricevuto altri David canonici (oltre a quello per la regia dell’Ultimo bacio) dall’Accademia David di Donatello, che poi è il complesso di tutte le persone che fanno cinema in Italia. Il punto è che quando fai un film ti piacerebbe che ti riconoscessero il talento che sai di avere. Se non fosse così nemmeno esisterebbero i premi! Ma il punto vero, la ragione

per cui questa storia che non vengo mai considerato ai David mi offende, è che mi ferisce la piccolezza del cinema italiano. Non ci giro intorno: io mi sento migliore di molti miei colleghi. Ce ne sono pochi che ammiro, rispetto e stimo, si contano sulle dita di due mani, sono quelli che chiamo quando fanno film che mi piacciono. È dal 2003 che non riescono a concedermi una nomination. Io ci resto male, è vero, ma loro devono essere rosi dall’invidia per accanirsi così tanto da non farmi nemmeno toccare palla da tutto questo tempo. Questa mentalità provinciale che premia talenti che spesso non sono tali, film spacciati come di nicchia solo perché sgrammaticati e naturalmente i venerati maestri qualunque cosa facciano, fa male a tutto il cinema italiano. Nel periodo in cui vivevo in America mi era terribilmente evidente quanto fosse parrocchiale il mondo del cinema italiano. È per questo che ci sto così male. Sbaglio, lo so. Ma del resto, come i personaggi dei miei film, quando mi incazzo non me lo so tenere dentro! Prima, nel 2008, avevi vinto un altro David ancora, uno “speciale per meriti speciali” per i successi americani. Di nuovo un David creato apposta per dartelo. Tipica mossa da Gianluigi Rondi. Ti aveva fatto piacere? No. Mi aveva fatto incazzare così tanto che ci ho messo tre anni a ritirarlo, cioè per tre anni consecutivi Rondi mi ha pregato di andare a ritirarlo e non andai. Renditi conto che era da poco uscito Sette anime e non fu considerato nemmeno degno di essere candidato come miglior film straniero. Non pretendo di vincere, sia ben inteso, ma davvero non valeva nemmeno la candidatura? Però mi volevano consegnare un David speciale per i successi conseguiti in America! Un vero corto circuito. Invece con La ricerca della felicità eri stato nominato come miglior film straniero, però vinse Babel. Babel è un ottimo film. Non discuto. Ma La ricerca della felicità aveva ottenuto una candidatura all’Oscar, aveva

sbancato ed emozionato in tutto il mondo. Non era mai successo nella storia del cinema italiano che un film completamente concepito nel sistema hollywoodiano diretto da un regista italiano ottenesse quel risultato. Non posso non leggere in questo comportamento una forma di accanimento personale che ha l’odore dell’invidia. A casa tutti bene contiene molti personaggi e tante storie, sei riuscito a capire quali di queste hanno funzionato di più con il pubblico? I perdenti. Tognazzi, Michelini, Ghini e Claudia Gerini. Ci sono ruoli per i quali è difficilissimo trovare attori buoni, fasce d’età proprio che io non so dove mettere le mani. È il caso del patriarca della famiglia. Originariamente mi era venuta l’idea di avere Johnny Dorelli, sarebbe stato eccezionale. L’ho anche incontrato ma lui non se l’è sentita per motivi di salute. Così ho scelto Ivano Marescotti che tuttavia alla fine non credo funzioni quanto avrebbe dovuto. Nelle commedie esce molto bene ma io ho faticato molto per tirargli fuori chi fosse veramente Pietro Ristuccia. Gli unici a cui non faccio provini sono quelli che già so essere giusti per il personaggio che avranno. Claudio Santamaria per esempio lo conosco troppo bene per provinarlo. All’inizio avevo pensato anche a lui per un ruolo in questo film, purtroppo però era impegnato. Invece per il ruolo di Ginevra, la moglie di Favino, ne ho fatti tanti di provini, a tante attrici. Non era per nulla un ruolo facile. Alla fine ho scelto Carolina Crescentini semplicemente perché aderiva perfettamente al personaggio che cercavo. Sai alla fine non basta il talento per poter interpretare tutti i ruoli possibili. C’è la natura, la personalità, i traumi ricevuti che definiscono i tratti degli attori, di tutti gli attori, e anche di quelli più talentuosi e versatili. E non tutti possono fare tutto. Con Carolina avevo lavorato in una pubblicità, quando era ancora al Centro sperimentale. Forse era il primo lavoro in assoluto che faceva. Avevo subito visto in lei del talento però per lavorare insieme ci vuole il film giusto. E questo lo era.

Quel personaggio poi ha anche quella scena in cui il marito quasi la sta per lanciare giù dalla scogliera… Quando è stato il momento di girare quella scena per un momento ho pensato se fosse necessario o no, erano passati solo pochi mesi da quando mio fratello mi aveva accusato di essere un uomo violento e la cosa mi aveva ferito enormemente. In ogni caso poi quella scena tra Favino e Carolina sull’orlo del precipizio nel film c’è. Sì, l’ho girata lo stesso perché in fondo non me ne fregava un cazzo che si potesse associare a qualsiasi cosa mio fratello avesse potuto dire sul mio conto. Volevo raccontare come ho sempre fatto, le relazioni umane nei loro aspetti più scuri. In quella scena è rappresentato proprio quello scalino emotivo che porta alla possibilità di aggredirsi fisicamente e farsi del male. Quando ci si trova in una condizione di estremo stress e pressione emotiva può scattare negli esseri umani una reazione neuronale fisiologica che si chiama “fight or flight”, attacca o fuggi. La perdita di controllo dura un istante. Alla fine il personaggio sceglie di fuggire e Favino è molto bravo a gestire quel momento non facile da rappresentare Ma Favino è sempre molto bravo! Comunque nella scena si ravvede realizzando la gravità di quel che stava per fare. Favino ha questa grande dote di riuscire a essere lucidamente in controllo del pubblico e di quello che è l’arco narrativo complessivo. È uno dei pochissimi attori che non guarda solo se stesso. È uno che il film lo studia davvero. Anche per lui questa forza nasce da un desiderio di superare quelli che percepiva come difetti, non troppo bello, non troppo conosciuto, sempre in difficoltà a emergere… Lo studio e la disciplina estrema, oltre ovviamente anche all’intelligenza e al talento, gli hanno consentito di solcare il proprio percorso. Su Favino si può dire che nulla gli sia capitato per caso davvero,

ha cercato tutto e conquistato ogni traguardo pezzo per pezzo. Se la scrittura del film a cui partecipa è debole, lui è capace, a furia di aggiunte, modifiche e idee di riscriversi un intero personaggio da sé, modificarlo a tal punto che diventa una sua creazione. E quando accade è plausibile che il suo personaggio sia la cosa migliore di tutto il film. Tra quei diciannove attori sempre sul set non c’era nessuno che aveva avuto dei trascorsi, o delle litigate in passato? Solo Stefania Sandrelli e Sandra Milo. Si erano rubate uomini a vicenda lungo i decenni credo. Sandra Milo altra scelta particolare. È un tipo incredibile, ha marciato una vita sul personaggio della scema ma è intelligentissima, un po’ come nel film La visita di Antonio Pietrangeli, ha capito subito che comportarsi così funzionava. E non lo nasconde, non è ipocrita. Ha vissuto tantissime vite, ha avuto molti uomini, da Craxi a Fellini di cui era l’amante e per questo, quando lei era in scena con Giulietta Masina (la moglie di Fellini), lui la trattava malissimo apposta, per ricordare a tutti che sua moglie era Giulietta e Sandra solo l’amante. Stefania Sandrelli subiva molto la sua personalità sul set, da quel punto di vista, era azzerata da Sandra Milo, che ha pure tredici anni di più e una mente affilata come un rasoio. Non avevo pensato subito a lei per la parte di zia Maria. Accadde che al casting arrivavano tante attrici anziane e un po’ mosce, del resto la parte era piccola, poche battute, lo stesso io non sapevo che farci con queste attrici. Poi devo aver visto Sandra da qualche parte, magari in foto, e mi è venuta come una folgorazione l’idea di incontrarla. Non ti nego che c’era anche in me la voglia di lavorare con questa donna che aveva recitato con Vittorio De Sica, Pietrangeli, Fellini e molti altri. Così la convochiamo, lei si presenta con la sua vocina e questa bocca tutta rossa, le do le battute e lei me le ridà perfette. In quattro e quattr’otto era fatta. Zia Maria era lei. Era un altro mondo rispetto alle altre attrici, una botta di colore

inaspettata e infatti il personaggio esce fuori bene e tanto nonostante la dimensione del ruolo. Per questo film ti sei separato da Paolo Buonvino. Le musiche le ha fatte Nicola Piovani. Io amo Piovani da sempre, quando sognavo di fare il regista ascoltavo tantissimo le sue musiche, in certi casi anche senza sapere che fossero sue, come Non al denaro non all’amore e non al cielo, il disco di De André arrangiato da lui. Che per me è un disco fondamentale, malinconico, triste, fosco, cinematografico. Poi ho amato La notte di San Lorenzo, la cui colonna sonora forse è la più bella di sempre. Dopo Morricone per me c’era lui e tornato dall’America mi sono sentito di poterlo avvicinare. Mi ha composto una specie di filastrocca popolare perfetta per raccontare la famiglia e per quei momenti in cui una fiaba diventa scura. L’ho voluto anche in Gli anni più belli dove gli ho chiesto un po’ di evitare quegli accordi in minore con cui solitamente chiude le frasi musicali, per quel film volevo che i personaggi avessero un inaffondabile ottimismo nei confronti della vita, anche quando tutto intorno a loro sembra franare. Da dove ti vengono queste conoscenze musicali di composizione e di accordi? Hai suonato per un periodo della tua vita? Sì, ma non ho mai studiato, suono tutto a orecchio. Posso suonare anche per ore così, spontaneamente. E non hai mai pensato di farti le musiche dei tuoi film? Per gioco, sì. Ma solo per gioco. Ho troppa riverenza per i musicisti e per la musica. Però se non avessi fatto il regista forse avrei fatto il musicista per il cinema. O almeno credo che ci avrei provato. Pensi che un film così complicato con tutti questi attori sempre in scena e tutte queste informazioni da far comprendere al pubblico l’avresti potuto girare all’epoca di Ricordati di me?

Sì, ero già al massimo della mia carica allora, infatti poi riuscii a gestire Will Smith. Avevo già formato in pieno il mio stile e quello era comunque un film molto complicato che avevo condotto senza problemi. Nello stile che avevi già formato e che usi anche ora riconosci quello che gli americani chiamano un signature shot? Cioè un movimento di macchina o un tipo di inquadratura che è tua, la usi spesso e ti identifica? Credo sia quel movimento di macchina che va incontro a un attore e se ne fa agganciare per poi seguirlo da dietro ed esplorare insieme a lui lo spazio in cui si trova e i personaggi con cui interagisce. È una coreografia di gruppo che va elaborata, provata tante volte, prima senza l’operatore, poi lentamente anche con lui e quando tutti i punti sono chiari, si può finalmente girare. Quando si gira un piano sequenza gli attori sanno che non possono sbagliare, non possono dimenticare o inciampare sulle battute, né muoversi senza che l’operatore lo sappia. Non un secondo in anticipo e non uno in ritardo. Significa che non ci si può fermare ma bisogna sempre andare avanti, inesorabilmente, come nella vita, tutti consapevoli che l’alchimia di una scena girata con un’unica ripresa responsabilizza enormemente gli attori ma allo stesso tempo dà loro una libertà di linguaggio, anche del corpo, senza pari. In un piano sequenza gli attori sentono di mettere in scena la vita. La macchina da presa diventa un accessorio. È un’esperienza adrenalinica, eccitante e profondamente legata alla responsabilità collettiva di arrivare fino in fondo sapendo che nessun errore, nemmeno da parte del microfonista o dell’assistente ai fuochi, è contemplabile. Per questo girare un piano sequenza euforizza sempre molto anche l’intera troupe proprio per la sua unicità. Gli attori che lavorano molto con te hanno imparato a riconoscere questo tipo di logica di ripresa?

Assolutamente sì, del resto anche loro devono avere il senso del tempo e farsi trovare sempre al posto giusto, altrimenti la composizione dell’inquadratura si sbilancia e dobbiamo fermarci e ricominciare. Tutti quelli con cui lavoro capiscono subito in che campionato devono essere in grado di giocare, ma questo è eccitante. In questo tipo di coreografie l’attore non deve simulare la scena, ma proprio viverla. Se vedo che non è così fermo tutto e gli parlo, magari anche bruscamente, in modo che perdano il controllo che hanno su di sé perché magari così pensano di fare meglio. Sabrina Impacciatore, che è bravissima (lo so, lo dico spesso), si è fatta certi pianti con me… Però poi i risultati sono unici. In A casa tutti bene c’era una scena al tramonto tra lei e Giampaolo Morelli, difficile perché il sole se ne sarebbe andato di lì a pochissimo e quindi c’era la pressione di chiuderla in fretta. Be’, l’hanno centrata in un solo ciak. «Fatta. Andiamo avanti» – «Ma come Gabriele? Non me ne fai fare nemmeno un’altra?» – «Eri fantastica! È fatta. Andiamo». E giù lacrime. Parlando dei film americani mi hai spiegato come lì anche per le parti da una battuta ci siano sessioni di casting apposite e spesso a presentarsi sono ottimi attori che in casi sparuti poi sfondano, come è capitato a Octavia Spencer. In questo film c’è una comparsa al porto che dice solo: «Eh, che ne so quando parte?». Come funziona da noi? L’avete provinato? Quello era un pescatore ischitano scelto lì sul molo. Mi avvicinai a lui e ad altri due pescatori che erano con lui e gli chiesi di recitarmi quella battuta a modo loro. Lui la fece meglio degli altri ed ebbe il ruolo. E sarà uno stereotipo ma io nella mia carriera ho riscontrato che più vai al Sud e più è facile trovare bravi attori che magari non hanno mai recitato prima in vita loro. Per la parte ambientata a Napoli di Gli anni più belli ho preso degli scugnizzi conosciuti per strada ed erano eccezionali. Non solo recitavano proprio bene ma improvvisavano alla grande. Avrebbero tranquillamente potuto

improvvisare tutta la scena pure per venti minuti se non avessi dato lo stop. Nel film ci deve essere vento. Almeno al porto quando non possono partire. Ovviamente non aspettate una giornata di vento per girare, come lo si crea artificialmente? Avevamo dodici ventilatori enormi, uno dei quali era proprio un reattore, e in più Tonino Zera, lo scenografo con cui lavoro da anni, una vera eccellenza, ebbe la grande idea di far girare velocemente due o tre gommoni nelle acque del porto prima del ciak, in modo che il mare fosse mosso e le barchette ormeggiate beccheggiassero. Solo le onde più grandi sono state create in computer grafica. Tuttavia, visto che i ventilatori fanno un rumore assordante, subito dopo aver girato la scena abbiamo registrato solo l’audio delle loro battute, a caldo, pulite e senza il suono dei ventilatori. Tecnicamente si dice “a vuoto”. Poi, in post produzione, l’audio pulito “a vuoto” è stato sincronizzato con il labiale della scena. Per me è sempre decisamente meglio fare così che entrare mesi dopo in una sala asettica di doppiaggio, dove tutto il pathos del momento è ormai andato perduto. Il film è andato molto bene al botteghino. Considerato come oggi si incassi molto meno di vent’anni fa forse è uno dei tuoi successi maggiori. Ho rimesso le lancette indietro al 2003, A casa tutti bene ha incassato come Ricordati di me. E di nuovo, come all’epoca, la mia vita è cambiata. Sono tornato a casa a raccontare le mie storie in libertà. Dopo tutto quello che mi era successo è stata una grande botta di fiducia. Non è mai scontato che il pubblico continui a seguirti. Il tempo passa veloce, tutto viene consumato in fretta. Continuare a trovare il tuo pubblico è una cosa che mi pare abbia del miracoloso, ogni volta. Quando molte persone vanno a vedere un tuo film si vive un’esperienza davvero forte.

Soprattutto perché a oggi il cinema è ancora l’intrattenimento dal vivo che attira più persone. Quando un film va molto male e incassa tipo 350 000 euro ha staccato 60 000 biglietti, come lo stadio Olimpico di Roma quando è tutto pieno. Al contrario i film che vanno bene possono fare 60 000 spettatori in un solo giorno e nemmeno nel weekend, magari al giovedì, cioè un tutto esaurito all’Olimpico al giorno, sempre con persone diverse. I nove milioni di euro di incasso di A casa tutti bene invece vogliono dire un milione e mezzo di persone, come tutta la popolazione di Milano. Un’enormità. Tutte persone che sono uscite di casa, forse hanno anche trovato traffico, hanno parcheggiato, hanno acquistato il biglietto per il tuo film pensando di investire il loro tempo e denaro per il tuo e non per quello di un altro. È meraviglioso e mi ritengo straordinariamente fortunato ad aver provato questa sensazione più volte nella mia vita. Il film però andò molto bene anche grazie alla spinta non da poco che venne dalla partecipazione di Favino a Sanremo e dal vostro passaggio con tutto il cast su quel palco. Com’è il festival? Il festival di Sanremo è un posto indescrivibile. L’Ariston ha gli infissi in alluminio anodizzato e i corridoi strettissimi. I camerini sono minuscoli! Un teatro da ottocento posti e dietro le quinte un continuo saliscendi di artisti che stanno per entrare sul palco e altri che si sono appena esibiti. Negli anni non hanno cambiato niente, nemmeno un pomello. Sei nel medesimo camerino in cui è stato David Bowie, identico. Con un arredo fuori dal tempo come tutto quel posto. Una volta sul palco sei davanti a undici milioni di italiani, fuori dal teatro sei nel trionfo del kitsch. Eppure sul palco avviene qualcosa di strano e sorprendente: ti senti a casa, è tutto molto naturale. Forse perché lì ci sono passate così tante storie, così tanti successi e fallimenti, gente che si è ammazzata o che ha pensato di farlo, manager, arraffoni, soldi,

star, sogni e sognatori… e di tutte queste anime che lì sono passate, è davvero impregnato quel luogo. Chi decide cosa fate sul palco? Per A casa tutti bene fu di grande aiuto Favino. Suonammo Bella senz’anima di Cocciante, con Baglioni al pianoforte e l’intero cast intorno a lui. Mi sento di dire che fu abbastanza magico. Quando ci tornammo per Gli anni più belli invece fu più complesso. Scrissi venti versioni diverse della presentazione. Alla fine si optò per mettere gli attori adulti con accanto le controparti giovani. Che rapporto hai con queste forme di promozione in cui parli a un pubblico che magari al cinema nemmeno ci è mai andato? Terribile. Per me sono la cosa più difficile, perché sono timido e non sono affatto un bravo comunicatore. Quando vado con Favino o Will Smith si può fare perché mi appoggio a loro. Se sono da solo, per me è un incubo. Faccio tantissima fatica e rischio di dare il peggio di me. Appaio teso e rigido, e balbetto, a volte ancora parecchio, troppo. Di certo è il momento più stressante e delicato di tutta la realizzazione del film. Spero sempre che mandino molte clip come fa Fazio. Non hai imparato a fare queste cose in America? Troppo diverso. Alla Columbia c’era uno che veniva e diceva lui a me quel che dovevo dire per promuovere il film. Mi diceva le risposte che dovevo dare ai giornalisti. Specialmente per La ricerca della felicità, non si fidavano, ero comunque un italiano quindi per loro una variabile imprevedibile. Ma diciamo che con film di quel tipo fa tutto Will Smith, si manda avanti lui. Detto ciò quella hollywoodiana è una buona tecnica, adesso anche io do agli attori le linee guida per la promozione, come per esempio di quali aspetti del film parlare, per evitare che tirino fuori tematiche bizzarre, cosa che mi è capitata in passato. E quello non sarebbe nemmeno il peggio! Il peggio

sono gli attori snob, quelli che la promozione in tv non la vogliono fare o la fanno controvoglia, perché non è chic. Anni luce da come lavorano gli attori americani o come lavoravano Sordi, Gassman, Manfredi, Tognazzi e tutti loro all’uscita di un loro film. La promozione di un film è tutto e tu attore vieni pagato per fare il tuo lavoro fino in fondo, cosa che comprende fare in modo che il film venga promosso e visto dal maggior numero di spettatori. Perché è un’industria che costa soldi, che ti paga bene e se sei un professionista non ti fai pregare per andare a promuovere il lavoro che hai fatto. Non è un caso che Pierfrancesco, che ha lavorato in America, in questo sia il migliore. Ogni apparizione sempre affascinante, si spende tanto e va ovunque sia necessario. Da questo film hai tratto una serie che andrà su Sky. Non mi hai mai parlato dell’esigenza di fare una serie tv e l’unica che hai fatto in America la disprezzi. Da dove è venuta l’idea? Il fatto è che quel set è stato una bellissima favola. Ci ho lasciato il cuore. Ma la cosa determinante è stata il fatto che mi dispiaceva troppo lasciare per sempre quei personaggi così rotondi e veri. Voglio molto bene a quel film, e alla fine quella famiglia si è sovrapposta alla mia. Non potevo lasciarli lì su quell’isola. E così è nata la serie.

13 Gabrie’, io non so’ mai stato così male in vita mia! Gli anni più belli (2020)

Non la storia di un paese attraverso quattro persone che ne incarnano le diverse spinte e anime, ma la storia di quattro persone all’interno di un paese in cambiamento. In questo sta tutta la differenza tra C’eravamo tanto amati e Gli anni più belli, versione spostata in avanti di trent’anni del film di Scola che inizia là dove quello finiva, negli anni settanta, e racconta la ciclicità della storia italiana. Ai personaggi di Gli anni più belli accadono più o meno le medesime cose che accadono a quelli di C’eravamo tanto amati, nonostante vivano altri anni. C’è lo stesso arrivismo, le stesse dinamiche e le medesime delusioni, solo che ben poche passano per la politica, mentre tutto nel film di Scola passava per la politica. Nel cinema italiano, in cui raccontare il Novecento senza passare per la passione e l’attivismo politico sembra una bestemmia, Gli anni più belli porta un’altra lente, quella del melodramma. Tre amici che si conoscono da ragazzi, simbolicamente fuggendo da una manifestazione, si aiutano, si sabotano, si tradiscono, si separano e si reincontrano. Con loro una

ragazza, quella più in difficoltà, che intrattiene rapporti diversi con ognuno. Rifiutando l’idea di usare delle persone per raccontare un periodo, Gli anni più belli usa delle persone per raccontare le persone e cosa il tempo faccia ai rapporti umani (l’essenza di ogni melodramma). E se nel film di Scola le famiglie non esistevano, non c’erano quelle dietro ai protagonisti e non venivano raccontate le loro (eccezion fatta per il magnate delle costruzioni di Aldo Fabrizi), qui invece le famiglie sono la zavorra che il tempo crea. Ci sono padri orribili e violenti e i protagonisti stessi diventano padri assenti, redenti solo nel finale da un alito di speranza. Per la prima volta a un film di Muccino viene aggiunta la componente temporale, e quelle che prima erano storie fondate sul momento in cui avvengono, immerse nei propri contesti di riferimento, diventano storie nazionali. Nonostante lo spunto parzialmente biografico non c’è mai nostalgia in questo film che sembra guardare il passato per affermare che non è diverso dal presente, che siamo sempre stati così e che non saremo diversi. I quattro amici delusi dalle promesse infrante del dopoguerra italiano, diventano quattro amici delusi da un presente che non ha portato alcun cambiamento. Uscito poche settimane prima del lockdown di marzo 2020 Gli anni più belli era partito bene ma non ha mai completato la sua corsa cinematografica. Questo è il primo film che hai girato con Pierfrancesco Favino dopo che la sua fama ha fatto quel salto in avanti postSanremo. È stato diverso dal solito? Abbastanza. Quando gli proposi il ruolo di Giulio Ristuccia (che poi sarebbe l’equivalente di quello di Vittorio Gassman nel film di Scola) lui aveva già accettato Il traditore di Marco Bellocchio e Hammamet di Gianni Amelio, quindi in teoria io

avrei dovuto aspettare una cosa come due anni per poter girare il mio film con lui, ero finito ultimo in coda perché come ti avevo detto aveva lavorato tantissimo per anni per arrivare a quel tipo di film da circuito dei festival. Siccome però Gli anni più belli era chiaramente un film costoso ci serviva un cast di peso e quindi intanto comincio a scriverlo, e anche lì ci sono discussioni. Perché con Pierfrancesco non ci troviamo sul personaggio che a lui sembra davvero troppo stronzo, troppo negativo (cosa che in effetti era nella mia testa, uno che si è venduto al denaro dimenticando i propri ideali). E questo nonostante ne avesse fatti di personaggi negativi nei miei film! Sosteneva che visto il periodo la gente aveva bisogno di pacificazione (e nemmeno c’era stata la pandemia!). Ma credo fosse entrato nella fobia di deludere il pubblico, non piacere e perdere i favori. Insomma alla fine mi ha detto di sì, ma è stato l’ultimo del cast a farlo ed è stato necessario per forza cambiare il finale, altrimenti avevo capito che non ci sarebbe stato. Quello che tutti hanno visto, cioè la chiusura con la riunione dei tre amici sulla terrazza, è il compromesso che abbiamo trovato. Nella mia versione lui restava a casa sua con moglie e figli, il finale era insomma come l’inizio, lui lì fuori che fuma con la figlia e poi rientra e si siede a tavola. Sarebbe stato un finale ciclico come quello di C’eravamo tanto amati, che poi è qualcosa che faccio spesso, anche Come te nessuno mai si chiude in maniera simile a come inizia. Sembra cosa da poco ma per come scrivo io i film, tutti a incastro, cambiare una cosa ha ripercussioni su altre che poi vanno aggiustate di conseguenza. Che ripercussioni ha avuto? Per dare un senso a quel cambiamento nel finale ho dovuto aggiungere la scena in cui torna nella casa in cui era cresciuto. È stupenda quella scena! È bellissima, ma è stata un rattoppo. Quel desiderio di Favino di chiudere con un riscatto positivo del personaggio non era

mio, non lo condividevo e quindi non lo capivo. Se non lo capisci non lo puoi girare, o meglio: puoi ma viene male. Allora per rendere plausibile che il suo personaggio diventasse così nostalgico da voler trascorrere il Capodanno con gli amici di sempre ho creato una scena in più che lo spingesse in quella direzione. Poi la scena, come hai detto tu, è bellissima, una delle più toccanti secondo me. Ma, come la scena nel campo da basket tra Will Smith e suo figlio, è nata per rimediare a un’altra scritta male. Un problema nell’arco del personaggio di Favino ha portato a uno dei momenti più suggestivi del film. La cosa curiosa del film è che Claudio Santamaria e Pierfrancesco Favino sono parte della banda con cui lavori da tempo, mentre Kim Rossi Stuart è la prima volta che compare in un tuo film eppure sembra che anche lui sia con te (e con loro) da sempre. Infatti inizialmente il ruolo l’avevo proposto a Stefano Accorsi, che però aveva rifiutato perché non lo trovava empatico abbastanza e non gli piaceva il suo arco narrativo. Non ci trovava niente. Va detto che quando lo contattai avevo solo il trattamento del film e non la sceneggiatura completa. Kim invece non lo sapevo se voleva lavorare con me o no, perché come ti avevo detto aveva rifiutato il ruolo da protagonista nell’Ultimo bacio parecchi anni prima. E del resto all’inizio aveva avuto anche lui qualche ritrosia, non aveva visto bene che sul copione era indicato che il personaggio è interpretato sempre da lui (a parte quando è ragazzino), credeva ci fossero tre attori diversi e che quindi la parte fosse il 30 per cento di quella che è effettivamente. Quando ci siamo poi visti mi ha anche confessato quanto fosse pentito di quel rifiuto e che stupidaggine fosse stata fare la Uno bianca al posto dell’Ultimo bacio. In seguito ho anche pensato che Accorsi probabilmente avesse le sue ragioni per rifiutare, nel senso che l’avrebbe certamente fatto benissimo, ma con il senno di poi credo che Kim fosse molto più adatto, perché Stefano ha un po’ lo sguardo da figlio

di puttana, invece quegli occhi puri e quasi estranei al mondo terreno di Kim hanno dato a quel ruolo una profondità e una delicatezza che sulla sceneggiatura erano solo un accenno. Lui con Santamaria e Favino aveva fatto Romanzo criminale, anche con Micaela aveva già lavorato, si conoscono e sono affiatati. Ero io semmai a non conoscerlo e, nonostante abbia un carattere molto particolare, non sempre facilissimo, ci rifarei un film insieme subito. Domani. Che intendi quando dici “particolare”? È un attore che credo soffra un po’ essere diretto. Come se i cambi richiesti dal regista fossero rimproveri. È una mia supposizione, ma mi è capitato un paio di volte durante la lavorazione che ci fossero degli scontri con lui per questo motivo e forse non a caso è accaduto prima di girare un paio di scene complesse e importanti. Mi sono fatto l’idea che scazzare con il regista fosse un tentativo di sabotarle, magari per rimandarle oppure per entrarci dentro con una pressione ancora maggiore e così dare il meglio. Un po’ come John McEnroe che creava un putiferio sul campo ma era un modo per lui di dare il massimo. Stai parlando di scontri e urla sul set? Sto parlando per esempio di quando abbiamo dovuto girare il lungo piano sequenza di sei minuti sulle scale della scuola, che è una scena lunga, intensa e complicata, oppure di quando incontra Micaela sul tram, una scena meno complicata registicamente ma molto intensa. Si trattava in entrambi i casi di momenti fondamentali per i loro personaggi. Ma nonostante i nostri problemi scoppiati sul set all’improvviso, come mine antiuomo, lui alla fine in entrambe è sublime. O forse, chissà, lo è proprio per questo motivo. Lo vedevo soffrire in quelle scene e del resto me lo diceva pure, mi diceva: «Oh io sto male! Io faccio quello che mi dici ma te lo giuro Gabrie’, io non so’ mai stato così male in vita mia! Se era un altro film scappavo!» poi si rimetteva in sesto,

si diceva: «Okay, okay. Lo faccio! Lo faccio!!» e partiva. Forse avrei dovuto capire subito da questo che andava gestito diversamente ma ammetto di non averci pensato e l’ho trattato come tutti. Se non sbaglio la prima volta è stata quando ho iniziato a spiegargli come doveva muoversi nel lungo piano sequenza, dicendo dove sarebbe stata sempre la macchina da presa. Vedevo che era nervoso e a un certo punto è proprio esploso in palesi proteste: «Tutto de nuca lo devo fa’ ’sto film! Dai! Dai!! Allora riprendi ’sta nuca tanto solo quello vuoi, no?? Io solo de nuca devo esse’ ripreso!». Mentre la seconda è stata nel tram. Finisce il primo ciak e dico a lui e Micaela: «No, aspettate. Così non va, non mi piacete», un tipo di frase che sul set è frequente e di certo non vuol dire che non mi piacciono loro due ma che quel tipo di interazione dei loro personaggi fatta così non funziona bene e va ritarata. Tutte cose che stavo per spiegare ma lui esplode: «Ah non te piaccio! E a me non me piaci tu, guarda un po’!!» e io lì per lì non capisco proprio: «Scusa Kim, che dici?» e lui: «Ho detto che non mi piaci tu!» e se ne va. Solo che stavamo sul tram in corsa, con tutte le comparse a fare i passeggeri e la troupe in un’estremità, quindi sostanzialmente lui se n’è andato all’altra estremità. Mica poteva scendere. Questo non crea una cattiva atmosfera per gli altri che non sono coinvolti? No, perché tutti avevano già lavorato con lui e sapevano che è un suo modo di fare. Che poi è vero che sul set sono molto diretto e non mando a dire quel che penso. Non lo facevo con Will Smith e Russell Crowe, stavo per venire alle mani con Gerard Butler, e figuriamoci se non lo faccio con gli attori che parlano la mia stessa lingua! Ma non lo faccio come esercizio di potere! Anzi detesto quell’atteggiamento che alcuni hanno. È che ho molto chiaro in testa dove voglio andare, cerco di portarci tutti senza troppe storie, e alle volte è vero che lo faccio troppo bruscamente. È un modo di fare solitamente

apprezzato e mi è sembrato di capire lo fosse anche da Kim, che stando ai racconti che mi hanno fatto con me è stato più rilassato di quanto non sia stato su altri set. Quando si alzava questa maretta, Claudio Santamaria veniva da me e mi diceva con fare tranquillo: «Vedrai che poi torna, tranquillo», proprio da uomo di mondo. A me è subito sembrata una reazione di fragilità, anche se lì per lì ho alzato la voce anche io, sia chiaro. Era però evidente che non era un problema che aveva con me e lui era il primo a precisarlo, ma una tensione interna che stava vivendo perché le scene erano cruciali. Gli attori li devi capire, anche se alle volte è difficile, ma li devi anche saper attendere se vuoi tirargli fuori il meglio. E il meglio di Kim Rossi Stuart è eccezionale. Per questo non avrei problemi a rilavorarci insieme, lo farei subito. Perché ne vale la pena, eccome! Questa cosa poi finisce con la fine della lavorazione? Non so come abbia funzionato per gli altri set e gli altri film, ma con me no. Il fatto che sia stata per lui una lavorazione difficile lo diceva anche in tutte le prime interviste che dava, diceva che «… comunque alla fine siamo riusciti a condurlo in porto questo film». Come fosse stata un’Odissea. Cosa che probabilmente per lui è stata. Ho visto che l’atteggiamento è cambiato dopo che il film è uscito, la gente ha cominciato a vederlo e ha cominciato ad andare bene. Lui, come gli altri, ha ricevuto anche molti complimenti personali. Anche per questo un giorno io l’ho proprio chiamato per sapere se in futuro potrò chiedergli di lavorare ancora con me, ed è stato molto tranquillo, si è scusato e ha detto che assolutamente vorrebbe lavorarci ancora con me. Capisci che è proprio una forma di tensione molto forte per lui che non si scioglie fino a che non tocca con mano il buon risultato. E il suo poi è un ruolo ben poco usuale e decisamente complicato.

È un ruolo che non ha scene madri innanzitutto e non ha conflitti grossi con nessuno. Per molti queste due mancanze sarebbero un problema perché sono solitamente il tipo di scene che consentono agli attori di emergere e di spiegare bene quel che i personaggi hanno dentro. Lui invece raggiunge il medesimo risultato senza e non viene per niente schiacciato da Favino o Santamaria, e nemmeno da Micaela! Un personaggio come quello di Gemma nasce così come io l’ho visto sullo schermo o diventa così perché lo interpreta Micaela Ramazzotti? Sei tu che l’hai scelta perché ha delle corde vicine al personaggio o è lei ad attirare i personaggi nell’orbita del suo stile di recitazione? Ho subito pensato a lei, perché l’avevo adorata nella Pazza gioia (ma tutto il film mi è piaciuto tanto). Quindi avevo scritto il film pensando a lei e a quel suo modo inciampone e svagato se non proprio fuori sincrono di recitare, che tuttavia io trovo incantevole. Siccome poi ha subito accettato ho proseguito a scriverlo sempre pensando a lei. Un po’ zoccola all’inizio, totalmente smarrita al centro e a fuoco e centrata alla fine. E lei tutto questo lo consegna con precisione. Quando alla fine sta insieme a Paolo è completamente diversa da come è all’inizio quando sta con Nunzio, ha fatto un viaggio lungo tutto il film che mi ha concesso di raccontare una donna fino in fondo. È così che un personaggio femminile non è uno strumento per la definizione dei personaggi maschili ma un vero personaggio a tutto tondo, autonomo. Lei è una donna che come molte vive in una società di uomini che la schiacciano, il suo percorso è quello di una persona in cerca dell’amore che non ha ricevuto da bambina e di una possibile vita felice. Che per i miei film è un inedito, perché tendo a raccontare quasi sempre storie di uomini, storie in cui quando arriva una donna nel migliore dei casi è per dare il via a una storia d’amore piena di insidie. E poi c’è anche il personaggio di Emma Marrone.

Che è una madre non inappuntabile e lascia Santamaria brutalmente. Ma c’è da dire che pure lui non è che sia da meno… Padre inesistente e uomo mai davvero cresciuto. Hai mai pensato a fare un film solo su una donna? Mi piacerebbe tantissimo. Il modello potrebbe essere Io la conoscevo bene, quel tipo di percorso. Ma anche un film interamente incentrato sulla vita di Gemma sarebbe un viaggio bellissimo da realizzare! Ammetto che avevo anche già provato a scrivere una cosa del genere, un film sulla fatica di una donna a trovare la propria collocazione in una società di uomini. Se non ho capito male quando con la Lotus avete comprato i diritti di C’eravamo tanto amati per fare Gli anni più belli era la seconda volta che li facevi comprare a un produttore dopo l’acquisto di Weinstein a inizio anni duemila giusto? Sì, pensa quanto saranno stati felici i produttori del film, Angeletti e De Micheli, di avermeli venduti due volte… Eppure poi non è che l’hai seguito molto, solo l’impianto è riconoscibile. Io quello volevo, un perimetro. Del resto come noto il perimetro di C’eravamo tanto amati è il medesimo di Una vita difficile, con il personaggio di Sordi che si divide in tre. Mi importava la scansione temporale che guida l’azione come tipico nei copioni di Sonego, con gli spezzoni dei cinegiornali che aiutano lo spettatore a immergersi nella grande storia. Eppure non c’è quel medesimo giudizio nella storia. Esatto, non c’è. Non era intenzionale ma scrivendolo mi sono accorto che essendo gli anni in questione i miei anni, quelli che ho vissuto crescendo, in cui ho bramato, sognato e sofferto, ero naturalmente portato ad andare a parare nella biografia o autobiografia di quella parte della mia generazione che non aveva ideologia politica perché gli era stata tolta dai

padri e dai fratelli maggiori. Una parte che non aveva un giudizio morale su ricchi e poveri come l’aveva invece l’ideologia comunista di Scola, Age e Scarpelli o più in generale del cinema di quegli anni. Ero partito per fare un remake e poi è diventato un film liberamente ispirato. Stando a quel che mi hai detto dopo A casa tutti bene dovrebbe essere stato semplice mettere in piedi Gli anni più belli. Semplicissimo, nonostante il film fosse molto più ambizioso quindi più caro e con attori costosi. Quelli di A casa tutti bene non costavano? Lì ci fu un discorso diverso: se hai diciannove attori importanti e spieghi loro che un film così com’è è improducibile, cioè che costerebbe troppo se fossero tutti pagati il loro salario abituale, allora possono accettare una paga uguale per tutti, un forfait. Invece quando hai quattro primi attori come negli Anni più belli li paghi full fee. È un meccanismo che funziona anche meglio in America. Se un attore ci tiene a fare un film artsy, cioè uno che ha poche chance commerciali ma potrebbe vincere dei premi, può decidere di lavorare alla paga minima sindacale nonostante sia una star. Lo ha fatto Matthew McConaughey per Dallas Buyers Club. Il produttore di Padri e figlie era lo stesso di quel film e mi disse che era stato pagato 50 000 dollari. Poi naturalmente se il film va bene anche al box office, ci sono percentuali pure alte sugli incassi. Ma intanto ti sei messo alla prova e hai fatto il film che volevi fare. Un film in costume, in Italia, è complicato da girare? Non è stata una lavorazione facile, l’abbiamo girato in otto settimane che è poco per un film con cambi di epoca e quindi di costume, parrucche, trucco… E la giornata lavorativa si accorcia.

Di nuovo Piovani e una canzone di Baglioni, non una di Jovanotti. Che è successo? Nulla di particolare. Peraltro con Buonvino stiamo di nuovo lavorando insieme per A casa tutti bene la serie. Detto ciò, sperimentare ogni volta nuovi collaboratori (a parte alcuni che sai essere insostituibili) è fondamentale secondo me. Voglio cercare di evitare che quello che racconto possa invecchiare di colpo. Credo che andando avanti sia sempre più difficile tenere il pubblico vicino a te come autore, avere persone che seguono i tuoi film perché sono tuoi. È la fruizione della vita che sta vertiginosamente mutando. Bisogna riuscire a scuotere questo tempo dall’apatia che se lo sta divorando per avere una risposta all’altezza di quello che fai. Baglioni invece l’ho scelto anche come provocazione. Fai i film in America e non hai nessun desiderio di provocare. Torni in Italia e ti torna la voglia. Eh, ma è qua che io ho il mio vissuto. In America non ho avuto un’adolescenza che mi ha fatto sentire più debole rispetto alla società che si stava formando intorno a me e quindi lì non ho mai avvertito alcun desiderio di rivalsa. È qui che sono cresciuto con intorno a me compagni di scuola che si schieravano a prescindere contro Baglioni perché troppo pop. Il tipico atteggiamento provinciale di quegli anni strani che furono gli ottanta e che indebolì molte forme d’arte, compresa la musica e il cinema. Pop era stato Mozart, erano stati Picasso, Bach o Van Gogh… Ma a partire dalla fine degli anni settanta, tutto ciò che era di cassetta (che poi che vuol dire “di cassetta”? Che termine orribile!) veniva disprezzato. Disprezzato al punto che a me Baglioni piaceva e non potevo dirlo a nessuno. La politica e le ideologie che ci si appiccicavano addosso senza senso appiattivano tutto ipocritamente. Gemma direbbe: «Chi è che non ha sentito, amato, cantato Baglioni in quegli anni?! Alzi la mano!». Come l’hai approcciato?

Lo conobbi al festival di Sanremo ma poi più seriamente quando gli chiesi due canzoni sue: Mille giorni di me di te ed E tu come stai. Mi invitò a cena e la moglie Rossella mi raccontò che aveva un album in uscita pieno di inediti. Me li fece sentire nel suo studio, erano solo delle bozze, senza ancora il testo, un po’ come la canzone di Stevie Wonder per Padri e figlie, ed erano proprio il Baglioni classico, quello che veniva messo al bando nel mio liceo di finti sinistroidi. La scelta perfetta per definire il paese di quegli anni che poco avevo capito. All’uscita lessi che secondo te è il tuo film più riuscito. Lo pensi davvero? In realtà mi è impossibile valutarmi da solo. Quindi giudico in base alle reazioni del pubblico e questo film ha avuto una quantità fuori media (anche per i miei film) di gente che è tornata a vederlo due o tre volte, i “repeaters”. L’ultima volta che mi era capitato un dato simile era per La ricerca della felicità e prima ancora con L’ultimo bacio. Nessun altro dei miei film li ha avuti. E dire che il film è uscito nel momento peggiore, a metà febbraio 2020. Dopo poche settimane ha dovuto interrompere la corsa per via del lockdown e poi è tornato al cinema a luglio quando le sale hanno riaperto per la finestra estiva. In due settimane aveva fatto cinque milioni (con tutto il rallentamento di quella fase in cui le sale erano aperte ma non si sapeva se fosse sicuro andarci), sarebbe arrivato all’incasso di A casa tutti bene. A luglio non è potuta essere la stessa cosa, anche se alla fine fu visto da 900 000 spettatori, cioè sei milioni di euro di incasso, che nei mesi di post-pandemia sono un miraggio. Detto questo Gli anni più belli contiene una scena che è la summa di tutto il tuo cinema. Quando verso la fine Micaela Ramazzotti sale le scale di corsa e a ogni piano è diversa.

Prima bambina, poi ragazza, poi adulta… È una scena potentissima, un ritorno a quell’astrazione dei primi film unita alle tue corse e al grande sentimentalismo tramite un tecnicismo. Tutto in una scena madre che racchiude la vita di un personaggio in un movimento. In quella scena c’è tutta la mia idea di cinema: personaggi che corrono e pensano a cosa faranno mentre vanno incontro al proprio destino. Pieni di voglia di vivere, impulsivi, distruttivi e al tempo stesso inesauribilmente affamati d’amore.

14 Come fabbricare macchine di lusso alla velocità con cui si costruiscono utilitarie A casa tutti bene − La serie (2021)

La gran parte delle interviste necessarie alla stesura di questo libro sono state realizzate nel periodo tra Natale e Capodanno del 2020 a casa di Gabriele Muccino. In quelle settimane stava lavorando alla sceneggiatura e al casting della serie di A casa tutti bene per Sky. Otto mesi dopo, quando eravamo vicini alla stampa, ci siamo rivisti per aggiungere questo capitolo e parlare dell’esperienza di girare la sua prima serie, come avesse lavorato e come ne fosse uscito. Ci siamo visti in una sala di montaggio mentre assemblava le prime puntate ed era reduce da quattro mesi di riprese. Era soddisfatto, eccitato ma anche ancora in tensione perché la lavorazione non era finita e soprattutto era dimagrito, provato da tutto quel tempo sul set. La prima cosa che voglio sapere è se alla fine sei riuscito a girare una serie intera di otto ore con la medesima sofisticazione tecnica dei tuoi film.

Penso di sì. Ci ho provato con tutto me stesso. È stato necessario tutto il mio mestiere e la mia esperienza, andando ad attingere a tutto quello che avevo fatto in vita mia per mantenere, sotto la pressione dei tempi di una serie, dimezzati rispetto a quelli del cinema, uno standard di qualità alto, possibilmente internazionale e comunque il più vicino possibile al mio modo di fare cinema. È una serie piena di piani sequenza, piena di inquadrature ricercate, tutto realizzato a una velocità incredibile, dopo tredici film so talmente bene cosa voglio da poter girare senza coprirmi mai, senza inquadrature alternative per aggiustare il lavoro in montaggio qualora servisse. Quando il girato arriva al montatore non c’è mai un’inquadratura in più di quelle che poi verranno montate. Così ottimizzo al massimo i tempi e posso dedicarmi alla recitazione e ai dialoghi. Sempre nei limiti del possibile, s’intende. I tempi rimangono molto stretti. Nella pratica come riesci a girare piani sequenza e lo stesso essere veloce? Paradossalmente girare lunghi e bei piani sequenza mi consente di andare più veloce rispetto alla grammatica scolastica, fatta di campi, controcampi, campi medi e via dicendo con tutte le diverse angolazioni e i rispettivi cambi di luce che prendono tempo. Certo impostare un piano sequenza non è facile in sé, bisogna saperlo fare. Io, girando con piani sequenza da sempre ho sia metodo che istinto e oltre al coraggio ho sviluppato una certa destrezza. Imposto una scena complessa, la provo come fossimo a teatro, impiego anche tre ore per provarla pezzo per pezzo con gli attori e poi con la macchina da presa. Ma quando tutti hanno capito che fare, se l’idea e la struttura impostata non sono sbagliate, se hai una troupe di serie A come quella che ho avuto io (una che riesce a illuminare tutto e bene in tempi brevi), se hai degli attori affidabili e di talento che riescono a stare al passo, in pochi ciak riesci a portare a casa sequenze lunghe, complicate e a volte anche belle e sorprendenti. Detto ciò tenere un ritmo così

sostenuto per quattro mesi di riprese e al tempo stesso non abbassare mai il livello qualitativo che mi ero imposto all’inizio e ho mantenuto fino alla fine è stato faticoso. Avrei avuto bisogno di più tempo, il tempo di poter riflettere alla fine di ogni scena se tutto quello che avevo fatto fosse davvero giusto e non mancasse niente; perché una volta che chiudi una scena e passi alla successiva non c’è più ritorno. In uno stesso giorno passi da scene di flirt amoroso a scene di segno opposto, che se non altro non ti fa cadere nella routine, il peggiore dei mali, capace di distruggere grandi promesse e grandi talenti. L’ho visto accadere a tanti. Alla fine credo che questa esperienza abbia aggiunto ancora qualcosa alla mia capacità di raccontare storie con uno stile preciso. Se non ti copri, cioè se non giri un secondo ciak di sicurezza o non ti tieni una versione di backup di una scena, non temi di scoprire che poi quando vai a rivedere il girato al montaggio c’è un errore che non avevi visto, un dettaglio sbagliato che ti era sfuggito e di mangiarti le mani? Ti dirò la verità: non mi è capitato quasi mai. Considera che riguardiamo sempre le scene durante le riprese. Mentre io giro, il mio montatore, che mi conosce come le sue tasche perché è lo stesso dal 1997, pre-monta e io, quando ho tempo, cioè spesso durante il weekend, le guardo con lui. È un montaggio preliminare in cui manca la mia supervisione, ma lì mi posso accorgere che alcune scene non sono venute come dovevano. Alle volte semplicemente perché non hai colpito il bersaglio al primo colpo. Per esempio quando girai La ricerca della felicità avevo tutto il tempo del mondo per pensare e riflettere su quello che facevo, così mi accorsi che la scena di Will Smith che vede la Ferrari parcheggiata e chiede al suo proprietario che lavoro faccia non era efficace, mancava di forza e di una ragione d’esistere. Cosa non da poco. Quindi chiesi alla produzione di girarla di nuovo. La riscrissi, trovammo un’altra location, piena di banchieri e operatori del mondo della finanza che appaiono agli occhi di Will Smith felici, sorridenti

e compiuti. Solo a quel punto chiede al proprietario della Ferrari che lavoro faccia per permettersi un’auto del genere. Lui risponde: «Stock broker». Da lì, l’idea furiosa che si accende nel protagonista. Come diceva Nelson Mandela: «Tutto è impossibile finché non viene fatto». Ma alla fine ti è capitato di rigirare qualcosa durante la serie? È capitato che la recitazione in occasioni per fortuna rare fosse debole e non si portasse dentro quella carica che occorreva. I tempi naturalmente erano ben altri rispetto a quelli che avevo a disposizione per La ricerca delle felicità, chiedere di rigirare una scena implicava di sforare con i tempi, che poi vuol dire sforare col budget. Luca Mezzaroma, l’organizzatore con cui lavoro ormai da tre film, e ovviamente Marco Belardi non hanno battuto ciglio. Ho rigirato le scene di cui non ero soddisfatto e sono venute decisamente molto meglio. Incredibile che una serie possa essere girata esattamente come un film… Qualche differenza c’è. Un giorno il montatore mi telefona dicendomi che ci sono un paio di episodi che rischiano di essere troppo brevi. Più brevi di almeno cinque minuti rispetto alla durata prevista. Ci sono abituato, è da Ecco fatto che so che il principio secondo cui una pagina di sceneggiatura si traduce in un minuto di film con me non funziona. Il ritmo a cui faccio parlare gli attori, gli ingressi nel cuore delle scene, le uscite, la velocità a cui arriviamo al climax della scena, l’assenza di tanti set up, ovvero angolazioni della macchina da presa che rallentano anche il passo della scena, facendo sentire gli attori responsabili delle battute che devono dire e portandoli inconsciamente a rallentarne l’esposizione, asciugano il ritmo della narrazione. Credo poi siano gli stessi elementi che rendono anche il mio stile, sempre così urgente, furioso, e in una parola mucciniano, alla fine.

Per rimediare a quel problema di durata ho scritto tre scene per approfondire dei personaggi che non erano ancora stati raccontati con attenzione e non avevano il peso emotivo che meritavano. Sono scene più lunghe del mio standard perché servivano a fare minutaggio, però portano avanti con coerenza di stile delle sottotrame importanti, che credo abbiamo contribuito a rendere ancora più interessanti questi personaggi, alcuni momenti a loro legati e la serie stessa. Chissà, forse è vero quel modo di dire che hanno in America: «Tutto succede per una ragione…». Mah. Ho visto che la serie è scritta con Barbara Petronio, che è proprio una sceneggiatrice televisiva. L’hai scelta tu? Aveva un contratto con la Lotus. Inizialmente dovevo dirigere solo i primi due episodi, così lei ha supervisionato tutto l’arco della serie e scritto un paio di episodi, quelli che avrei dovuto girare io. Quando invece ho deciso di girarla tutta quanta, ho sentito il bisogno di riscrivere i dialoghi in modo che tutto aderisse al mio stile, sia narrativamente che stilisticamente. Riscrivere per me è anche un modo di ristrutturare le scene e mantenere il mio stile e il mio punto di vista. Nella mia testa è un unico lungo film di 400 minuti diviso in otto episodi. Alla sua versione cosa mancava per somigliarti? Ho un modo molto personale di far pulsare le tensioni romantiche e nevrotiche, quei motori e micromotori che mi appartengono e quando ai miei film mancano sembra sempre che i personaggi non abbiano abbastanza da dire. Li ho resi quindi più impulsivi e reattivi, appoggiandomi su una struttura che era comunque solida ma spesso aveva quell’handicap che i prodotti televisivi si portano dietro: i personaggi ogni tanto agiscono senza logica solo in funzione di mandare avanti l’arco della storia. Per gran parte della mia riscrittura ho dovuto ricostruire la logica dei comportamenti dei personaggi per portarli a compiere le azioni fondamentali per l’avanzamento della storia in modo naturale e credibile. Nella

scrittura delle prossime stagioni, vorrei assicurarmi che questi passaggi logici non manchino mai. Anche perché sono quelli più difficili da risolvere in corsa, quando magari ti ritrovi già nel mezzo delle riprese, e i più pericolosi perché, correndo come un pazzo, hai poco tempo per pensare e riflettere. E commettere errori fatali di riscrittura è facile. La storia si svolge prima o dopo quella del film? I personaggi sono gli stessi del film. Stessi tratti caratteriali, stessa indole, stessi difetti. Rispetto agli originali, sono però tutti più giovani di circa dieci anni. Il motore che scatena la storia è la morte del padre e l’apertura di un testamento che stravolge le dinamiche familiari. Purtroppo non ho potuto usare gli stessi attori del film (sarebbe stato impossibile riunire quel cast con quei nomi, tutti insieme, per un tempo così lungo, visti gli impegni di ognuno di loro). Ho incontrato un bravissimo casting director, Antonio Rotundi, che mi ha fatto conoscere una nuova generazione di attori, permettendomi di fare delle scoperte inattese e sorprendenti, che di certo mi porterò dietro in futuro. Quando si dice che in Italia lavorano sempre gli stessi attori è perché non c’è qualcuno che ha deciso coraggiosamente di puntare sugli sconosciuti o sui poco conosciuti, come feci io quando realizzai i miei primi film, facendoli crescere fino a farli diventare a loro volta le nuove star di una intera generazione. Credimi lì fuori, oggi, ci sono decine e decine di talenti eccezionali che aspettano solo di venir scoperti, molti di più di quando iniziai a fare i miei primi film, quando troppi attori equivocavano una buona recitazione con una dizione perfetta e noiosamente strutturata se non proprio cacofonica. Con l’enorme bisogno di contenuti che hanno le piattaforme digitali che stanno germogliando c’è richiesta di nuovi talenti, nuovi sceneggiatori, nuovi registi. Del resto le produzioni delle tv generaliste, ormai stanche, sono lo specchio di un’Italia che non c’è più. A rimetterci sono le sale purtroppo, almeno per il momento. Ma sono sinceramente ottimista riguardo al fatto che dopo questo black

out della socialità, le sale torneranno a essere aggreganti e il cinema verrà riscoperto per la sua potenza. Occorrerà solo un po’ di tempo. Alla fine la serie somiglia ai tuoi film o no? Sì, sento di poter direi che la mia mano si sente. Ci sono dei momenti che sono tipicamente miei, si sente anche la mia scrittura ma all’interno ci sono anche altri generi come quello del crime, che non avevo mai esplorato. Ed è importante nell’economia della serie? Molto! È stato interessantissimo fare qualcosa che non avevo mai fatto e in cui avevo molta meno esperienza. Considera che poi, essendo una serie, ogni puntata finisce con un cliffhanger, cioè un elemento di tensione che ti fa venire voglia di vedere quella successiva. Nel cinema ovviamente non esistono, invece in una serie sono fondamentali per agganciare il pubblico e condurlo per mano fino alla fine. Per riuscire a rendere credibili questi cliffhanger, alle volte devi fare un piccolo compromesso e ricordarti che, anche se giri l’intera serie pensandola come un film, alla fine rimane televisione, seppur di qualità e ambiziosa, stai parlando a un pubblico che non esce di casa per vedere a tutti i costi il tuo film. Dopo aver riscritto abbastanza febbrilmente tutti gli otto episodi e rese le dinamiche narrative più vicine al mio stile, una volta approvate da Sky e arrivato sul set, ho preso pian piano le misure con questa nuova creatura che avevo per le mani e quando l’ho sentito necessario, sono riuscito a riscrivere anche da zero scene che mi suonavano false, poco spinte dalla logica dei personaggi. Non mi sono risparmiato, ho lavorato sul set e contemporaneamente sulle sceneggiature finché possibile per migliorare la forza delle relazioni umane. Già adesso, alla fine di questa lunga chiacchierata su momenti della mia vita che in parte mi ero addirittura dimenticato di aver vissuto, perché erano già stati sommersi da altri episodi ancora più surreali, euforizzanti o molto tristi, mi sto riprendendo da quel senso di

esaurimento per aver dato fondo a tutta l’energia. Spero sia venuto tutto come speravo. Certo, non potrà mai essere la cosa migliore mai fatta nella mia carriera, ma spero che sarà ricca di energia, di grazia e di intrattenimento. Voglio dire: in fondo cos’è il nostro lavoro senza la capacità di intrattenere ed emozionare? Mi sento già pronto per parlare con gli sceneggiatori di quali saranno i vettori della prossima stagione. La serie ha una sorta di epicità familiare che, nonostante somigli per molti versi a racconti già esplorati nella mia filmografia, ha una struttura larga, aperta, da grande romanzo. Una serie è molto meno vincolante, non deve rispondere alla struttura in tre atti di un film. Non è per forza un pregio, sia chiaro, tuttavia puoi portare la drammaturgia in molte più direzioni di quante te ne vengano concesse in un film. Mi avevi detto che la ragione che ti aveva spinto a fare la serie era l’atmosfera che si era creata sul set del film. Sei riuscito a ritrovarla pur con un altro cast? È stata un’esperienza completamente diversa. Quindi sei deluso? No, per niente. Il punto è che quando fai un film, racconti la vita e lo fai ascoltando il tuo istinto, sintonizzandolo con quello degli attori e prestando un orecchio a quella che chiamiamo arte, ovvero l’aspirazione a fare qualcosa che resti e lasci qualcosa di noi. È tutta un’illusione umana, me ne rendo perfettamente conto, ma fare un film è anche questo: pensare che quando me ne andrò la mia esistenza sarà testimoniata dalle opere che ho realizzato. E per questo motivo cerco ogni volta di farle al massimo. Tuttavia quando capisci che molto di tutto quel che pensi di governare è comunque affidato al caso e non puoi prevedere davvero tutto perché umanamente impossibile, tenti di cercare l’onestà in quello che fai e di non avere rimorsi. Che come abbiamo visto, è purtroppo un’utopia.

Ho scelto di essere l’unico regista a differenza di quel che si fa solitamente, perché volevo che questo mio lavoro portasse la mia calligrafia, le mie impronte digitali, ma questo ha comportato farsi carico di una mole di lavoro superiore alle aspettative. È stato come fabbricare macchine di lusso alla velocità con cui si costruiscono utilitarie.. È una serie da una stagione sola o si apre a più annate? Il formato della miniserie mi attira molto, ma non è questo il caso, A casa tutti bene è una vera e propria serie con più stagioni. Non credo che sarò io a dirigere le prossime, adesso vorrei girare un film, ma comunque supervisionerò le sceneggiature e molto di più. Dovremo trovare un regista che possa sostituirmi, qualcuno con uno stile che possa somigliarmi per mantenere la coerenza formale. Temo che non sarà semplice affatto e dovremo cercare il migliore dei compromessi possibili per non perdere in qualità. A parte la seconda stagione di questa, ne faresti un’altra di serie se te la proponessero? Di certo ti posso dire che chiederei tempi più lunghi, qui per quattro mesi non ho pensato ad altro se non alla prossima scena da girare. È come se la vita reale, quella fuori del set, si fosse interrotta del tutto e non ci fosse stato altro che la serie da portare a termine. Ora credo che la condizione ideale sia di lavorare per piattaforme per cui realizzare film o miniserie, quelle che durano una sola stagione come La regina di scacchi o Escape at Dannemora, in cui il regista è uno e tutto inizia e finisce con lui. Ci sono un’infinità di storie da raccontare in un formato più vasto di quello che ti viene imposto in un lungometraggio. Ma intendiamoci bene, il mio amore incondizionato per il cinema resta intatto! Solo che in questo periodo di pandemia, le incertezze sul futuro sono così tante che sorgono i dubbi anche su come proseguire e quali scelte fare, dubbi a cui non eravamo preparati e con cui mai avremmo pensato di fare i conti.

Ho sentito solo te e David Fincher dire di preferire di andare su una piattaforma piuttosto che in sala. Gli altri registi di solito sono tutti per il cinema. Romanticamente lo vorrei dire anche io ma non so cosa davvero accadrà. Nessuno lo sa in questo momento. Prima bisogna capire quando e come passerà la devastazione spirituale di questo momento. Alla fine il distanziamento non è stato solo tra persone ma tra noi e la percezione delle cose che avevano prima una priorità e ora ne hanno assunta un’altra. Qualora il consumo di film in sala dovesse ripartire, come tutti ci auguriamo, sarà di nuovo l’obiettivo principale da centrare, questo è certo. E già solo l’ipotesi di rivedere le sale colme di spettatori fa venire le vertigini… Insomma nel dubbio di cosa accadrà, ti stai preparando ad abbandonare la nave? Sbagli a vederla così. Io sono pronto a transitare, un po’ come dal cinema muto a quello sonoro. C’è un momento in cui bisogna decidere cosa fare: allora si chiesero in tanti se iniziare davvero a fare film sonori, e produttori e opinionisti dell’epoca non credevano tutti in questa novità, dicevano che non avrebbe avuto alcun futuro. Di certo c’è che sia per una piattaforma o sia per la sala, i film io li girerò nella stessa identica maniera, come del resto ha fatto Alfonso Cuarón con Roma: un film concepito per la sala che abbiamo visto su piattaforma e che ha finito per vincere tre Oscar! Invece nel tuo caso se il film non uscisse in sala, per le regole dei David di Donatello, non potresti partecipare… Non mi freghi. È finita quella parte della mia carriera fatta di delusioni, ho deciso e annunciato che non parteciperò comunque più ai David. Parlo solo di quelli che mi riguardano naturalmente, regia e sceneggiatura. E se devo dirla tutta, da quando ho fatto questa scelta, mi sento anche molto più sereno. È come se l’adolescente eternamente giudicato e

imprigionato nella maschera che i coetanei gli avevano messo e di cui si sentiva prigioniero, si fosse liberato dal giudizio degli altri e avesse riassaporato di nuovo la libertà. Essere liberi dai giudizi altrui è un piccolo grande passo verso la felicità, credimi. Se non ti candidi più allora però non twitti nemmeno più niente sui David. Sì, basta. Promesso. Qualcosa lì non funzionava da tempo. E lo pensano in tanti, anche se a ripeterlo così tenacemente sono stato solo io. Ci sono fasi che iniziano e sono destinate a chiudersi per fare spazio a delle nuove. In questo momento mi sento esattamente così, nel pieno di una nuova fase di cui non so prevedere gli sviluppi. È la condizione ideale per chi fa il mio lavoro, quel costante stato di adrenalina, incertezza e anche paura che ti porta a raccontare chi sei attraverso le tue opere.

15 Mi mandavano questi copioni da vagliare, continuamente I film mai realizzati

Nel corso delle conversazioni con Gabriele Muccino più volte sono emersi film che avrebbe voluto girare e non ha girato, sceneggiature abbozzate e mai entrate in produzione o anche occasioni di girare film che non si sono concretizzate, magari anche inseguite a lungo. Tra questi, la sua carriera americana è stata fatta anche di una serie di film non realizzati di particolare rilievo. Magari perché non ci ha lavorato mai ma poi in mano ad altri registi sono diventati dei grandi successi, oppure perché al contrario ci ha lavorato molto e alla fine non li ha potuti realizzare o ancora per la stranezza dell’idea, la particolarità dello spunto e la curiosità di quello che avrebbero potuto essere in mano sua e invece non sono stati. Li abbiamo riuniti qua, come degli estratti dalle conversazioni su tutti i blockbuster che potevano essere di Gabriele Muccino e non lo sono stati, a partire da quello che più di tutti ha inseguito e meno di tutti è arrivato vicino a fare, il remake di Kramer contro Kramer. Più sei giovane, più il talento soffia. Più ti tieni i progetti che vorresti realizzare nel cassetto, più rischi di non farli mai o di

non farli come devi. Gli anni più belli era proprio quello, un progetto che meditavo da tanto e sono contento di essere riuscito alla fine a fare come volevo. Sono esattamente nell’età in cui si inizia a scavare nel cassetto dei progetti messi da parte. Alcuni scopri che non sono più buoni, andavano fatti prima, altri invece sono ancora validi e provi a farli. Cosa non potresti più fare? Il remake di Kramer contro Kramer. Quello che a un certo punto poteva essere Quello che so sull’amore se non fosse stata una lavorazione impossibile e un film massacrato dalla produzione, e quello scritto da me che proposi a Tom Cruise. Forse sono anche io che non sono mai riuscito davvero a capire come volessi farlo, quale dovesse essere il punto di vista giusto. Chi lo sa? Forse c’ero troppo dentro per raccontare quella storia con lucidità. Oggi invece sento di averne vissuti e raccontati troppi di divorzi e separazioni. E poi ormai l’ha fatto alla perfezione Storia di un matrimonio.

TWILIGHT Qual era la difficoltà più grossa nello scegliere che film fare dopo Sette anime? Il fatto di non essere madre lingua. Mi mandavano questi copioni da vagliare, continuamente, e volevano risposte dopo ventiquattro ore, mentre io ci mettevo tanto a leggerli e non sempre li capivo alla prima lettura. E poi facevo fatica a spiegare le mie idee ai produttori, facevo fatica a convincerli di quel che avevo in testa. E infine in quel momento era complicato per me capire cosa dovessi fare. La mia agente americana mi diceva che alla mia età dovevo puntare a vincere l’Oscar e per questo rifiutai gli ultimi due film della serie di Twilight. Roba che Bill Condon, il regista che li ha fatti, avrà

preso davvero tanti tanti soldi solo di royalties. Creativamente non ho rimorsi, finanziariamente invece più di qualcuno… Quindi quando ti sono arrivati già sapevi che si trattava di una saga di successo, cioè che era un goal a porta vuota? Ma sapevo anche che erano davvero mediocri. Brutti e di successo. Roba veramente di serie B e io non ce l’ho fatta a fare una cosa così. La scena di loro due a letto è una delle più raccapriccianti che abbia mai letto.

LITTLE GAME WITHOUT CONSEQUENCES Era un film che avrei dovuto realizzare con la Focus Features, che è una costola della Universal. Ci lavorai in quei mesi tra la fine della Ricerca della felicità e la sua uscita in sala. Era un lasso di tempo in cui ovviamente il film non lo poteva vedere nessuno ma è prassi a Hollywood che si facciano eccezioni per gli attori. Se devi lavorare con un attore e lui vuole vedere il tuo ultimo film, anche se questo non è uscito in sala, lo studio accetta di fare una proiezione privata. Quindi benché La ricerca della felicità fosse Columbia, accettarono di farlo vedere a una coppia di attori con cui avrei potuto fare un film per la Focus. Sai alla fine gli attori una volta lavorano con uno studio e una volta con un altro, se li tengono sempre buoni. Chi erano gli attori? Cameron Diaz e Jim Carrey. La coppia di The Mask! Esatto, anche se Jim Carrey aveva un ruolo più piccolo, nel film sarebbe stata Cameron Diaz la vera protagonista. Inizio a scrivere questo copione e il mio referente era il CEO della Focus, James Schamus, che era anche lo sceneggiatore di quasi tutti i film americani di Ang Lee. Mentre scrivevo avevo anche iniziato a preparare le location, fare il casting di tutti gli

altri ruoli, avevo scelto aiuto registi, direttore della fotografia, montatore… Tutto il film insomma era partito mentre lo stavo riscrivendo, perché il copione originale era tratto da una commedia teatrale francese. Il testo era molto carino, una commedia in stile Woody Allen che a me piaceva fare, certo era un film decisamente più piccolo della Ricerca della felicità, però io che ne sapevo che sarebbe andato così bene?! In quel momento Little Game Without Consequences mi sembrava proprio un film nelle mie corde. Qual era la trama? Parlava di una coppia che racconta per scherzo a degli amici di essere sul punto di lasciarsi. Per reazione gli amici iniziano a dire a ognuno di loro due quello che sapevano e pensavano dell’altro, questo finiva per portare la coppia realmente in crisi, a lasciarsi e poi alla fine a riunirsi. Una commedia romantica ma con dei risvolti interessanti. Insomma stavo riscrivendo il copione con Liz Tuccillo (la sceneggiatrice con cui feci anche la prima stesura di My life is a mess, il mio Kramer contro Kramer) e James Schamus mi dice: «Gabriele dammi una chance, lo voglio riscrivere io!». Cioè io stavo per consegnarglielo e il capo dello studio di produzione mi dice che lo vuole riscrivere lui, come faccio a dirgli di no? Era una richiesta davvero imbarazzante, e francamente una brutta mossa, ma in fondo aveva lavorato con Ang Lee a degli ottimi film, magari poteva uscirne qualcosa di buono… Anche se sentivo che voleva fregarmi e trasformare un film piccolo e sincero in uno mainstream a tutti i costi. Non oso immaginare come ti sia tornata indietro… Esattamente come temevo. La sceneggiatura che mi rimanda era una cosa imbarazzante, l’aveva stravolta. Praticamente, visto che gli erano cascati in mano questi due grossi attori, cioè Cameron Diaz e Jim Carrey (convinti dalla visione della Ricerca della felicità), si era messo in testa di fare un film molto più grosso di quelli che solitamente faceva la Focus, una

commedia molto più comica, più sfilacciata, e decisamente molto meno interessante. Come ti dicevo la Focus è una costola della Universal e lì le commedione di grande incasso le fa la Universal, la Focus è delegata a fare film più piccoli e audaci, quelli che magari vanno ai festival. Invece lui, evidentemente, pensò fosse la sua chance per fare un film con un grande cast. Voleva fare Notting Hill. Il vero problema, era che la struttura che aveva messo in piedi era debole, non aveva proprio le gambe per essere il filmone che Schamus pensava di aver scritto. Era orripilante e quando la lessi gli dissi: «Vi prego non mandatela a Cameron! Perché se lei la legge non farà mai il film». Lo sapevo perché, avendole parlato più volte della sceneggiatura, avevo sviluppato il suo personaggio in sinergia con lei. Quel copione di Schamus invece era l’opposto. La loro risposta fu: «Glielo abbiamo già mandato. Non ti preoccupare. Andrà tutto bene». Dopo quindici minuti mi chiamano gli agenti e mi dicono: «Cameron Diaz ha chiamato e ha detto che non vuole più fare il film». Io, nel panico. La chiamo e le dico: «Lo so che non ti è piaciuta, lo capisco, ma non ti preoccupare ci mettiamo adesso a fare le prove di tutto il copione, lo riscriviamo come ho fatto con Will Smith, tranquilla si può fare!». Ormai però era tutto finito, lei mi disse che quel copione adesso faceva veramente schifo e che lei stessa (che a Hollywood ci lavorava da un bel po’) non aveva capito come mai lo avessero distrutto in quel modo. A quel punto proprio non lo voleva più fare. E lì il film salta. Ancora peggio. La tecnica americana è che mi licenziano prima di farlo saltare. Così possono giustificarsi agli occhi della casa madre, cioè la Universal, per i costi di quelle sette settimane di preparazione dando la colpa a me invece di dire che il film non si fa più perché il capo di Focus ha riscritto il copione facendo scappare la protagonista. Ovviamente in Italia arrivò la notizia: «Gabriele Muccino licenziato dalla Universal!». La ricerca della felicità nemmeno era uscito e già

sentivo i corvi arrivare. Poi andò tutto bene, arrivò il successo. Però in quel momento per me fu un po’ un brutto colpo.

WOLVERINE La tua amicizia con Hugh Jackman ti ha fruttato delle possibilità? Sì, voleva che girassi un cinecomic tratto dai fumetti Marvel, lo spin-off su Wolverine che all’epoca si chiamava Wolverine Origins ed era molto fedele al fumetto originale. L’obiettivo era un trattamento simile a quello di Christopher Nolan con Batman. Un film scuro e autoriale. Io non sapevo niente di fumetti. Non sapevo di che stessimo parlando al punto che subito dopo che mi fu proposto mi appartai e chiamai Domenico Procacci in Italia, che invece è uno dei massimi appassionati, per chiedergli chi fosse Wolverine. Mi disse: «Gabriele, prendo un aereo domani mattina e vengo», gli risposi: «No, aspetta, si chiama Wolverine Origins tipo», e lui: «Gabriele, sto prendendo il biglietto in questo momento». Arriva davvero il giorno dopo con una pila di fumetti e mi spiega tutto di Wolverine. E devo dire che è una storia fichissima. Il copione invece era banalissimo, ma come sempre, gli studios pur di conquistare i famosi quattro quadranti riescono a rovinare anche le storie più potenti. Anzi spesso è proprio il fatto che siano potenti a spaventarli. Compresa la vera potenzialità di quella storia, la riscrivo tutta a modo mio in un viaggio tra Londra e Los Angeles. Scrivo un outline, cioè una scaletta di cosa accade dalla prima all’ultima scena. Tutto in aereo. Inizio alla partenza da Heathrow e quando atterriamo ho finito. Mi era chiarissimo tutto l’iter del personaggio ed ero stato fedelissimo al fumetto. Dalla madre uccisa dal patrigno, al fratellastro cattivo con cui cercano di ammazzarsi, alle ossa ad artiglio che gli escono fuori dalle mani proprio in quell’occasione. E poi la fuga nei boschi

selvaggi, la vita con i lupi dove diventa un po’ Mowgli, e poi quando decide di andare a cercare Rose, la ragazzina di cui era innamorato quando viveva con la madre e che verrà poi uccisa proprio dal fratellastro, Sabretooth… Poi veniva catturato dai servizi segreti russi (cosa che avviene nei fumetti ma nel primo copione non c’era) e lì subisce la sperimentazione per diventare l’arma X, quella in cui gli mettono l’adamantio nelle ossa per trasformarlo in una macchina da guerra e che solo lui poteva reggere per via del potere rigenerante che possedeva dalla nascita. C’era anche una scena bellissima in cui i russi lo facevano combattere a mani nude contro un orso polare per dimostrare l’efficacia dei suoi poteri. Insomma mi presentai con tutta questa cosa direttamente alla Marvel, quando non erano ancora uno studio di produzione autonomo ma lavoravano con la 20th Century Fox su tutto quello che è l’universo dei mutanti. Venne anche Domenico con me, un po’ come sparring partner. E a loro piacque! Fu la Fox a non volermi perché secondo loro facevo film femminili e questo era un film da veri uomini. Teste di cazzo! Perché per loro i film che parlano di relazioni umane senza che si imbracci un mitragliatore sono femminili. Poi hanno fatto un film completamente diverso unendo gli XMen a Wolverine Origins (per prendere tutto il pubblico e non una parte soltanto) e che si chiama appunto X-Men: Le origini – Wolverine. Ne venne fuori un papocchio infernale e un film orribile. Non sei mai tornato alla carica per i film successivi? No, il mio momento buono era quello. Il momento in cui ero “golden” come dicono loro, quando avevo dei film di successo alle spalle e non Quello che so sull’amore. Però questa storia era talmente buona che tante volte ho pensato di farla lo stesso levandogli tutto il fantastico, tenendo solo la trama scritta da me. Senza poteri e senza sovrannaturale. Farlo realistico, magari ambientato nell’Ottocento. La storia di un uomo animalesco che diventa uno strumento nelle mani dei governi e

cerca il suo amore. Alla fine quelle dei fumetti sono dinamiche eterne. Omeriche. Ti piacciono i film Marvel? Mi fanno schifo. Mi piace solo Iron Man che è stupendo. Come personaggio poi mi piace moltissimo Hulk, mi sarebbe piaciuto fare uno dei film su di lui. C’è quell’archetipo umano della rabbia che monta, alimenta altra rabbia e diventa inarrestabile. Ebbi una conversazione molto vaga con il capo della Marvel, poi però lo diedero a Leterrier, un ignobile boro francese e venne un filmaccio. Almeno quello di Ang Lee delle cose interessanti le aveva.

PASSENGERS Se non sbaglio il blockbuster a cui più hai lavorato in realtà è Passengers giusto? Me ne innamorai perdutamente. Per sei mesi ci ho lavorato, da qualche parte ho ancora tutti i bozzetti, che sono fantastici. Era un film interessante e a me piaceva molto l’idea di riprendere la fantascienza che amo, quella di Cameron e Scott, quella con un rapporto con l’attualità. Una volta tanto poi il copione era stupendo, la storia di un uomo che in un viaggio lunghissimo nello spazio insieme a una colonia umana tutta addormentata in un sonno criogenico viene svegliato per errore e ha questa astronave deserta a sua disposizione. Una nave gigante con un enorme centro commerciale con SPA, piscine, ristoranti, cinema… Solo che mancano cento anni di viaggio per arrivare a destinazione. Allora sveglia una donna perché dopo un po’ non ce la fa più a stare da solo. A furia di stare lì si innamorano ma quando lei scopre che non era stato un errore il suo risveglio, e che invece era stata opera di lui, lo odia e vorrebbe ucciderlo. Insomma proprio la storia di tutte le storie d’amore di cui andavo pazzo! Alla fine devono unire le forze

per salvare la colonia in viaggio da una possibile esplosione nucleare nella sala motori, rischiando a vicenda la vita l’uno per l’altra. Lui viene catapultato fuori della nave e mentre fluttua agonizzante nello spazio, lei si lancia per recuperarlo e lo riporta nella nave. Vivono così insieme fino alla fine dei loro giorni amandosi fino all’ultimo respiro. Con chi avevi trattato il tuo coinvolgimento? Avevamo messo tutto a punto con la Morgan Creek che è una società indipendente, non un grande studio. Praticamente loro erano grandissimi concessionari d’auto che volevano fare film e tra questi avevano fatto anche L’ultimo dei mohicani. Sarebbe stato un film da ottanta milioni. Insomma ci lavoro, preparo tutto: le capsule di ibernazione, il ponte di comando, la nave spaziale… Fare un film così era proprio il mio sogno, una storia d’amore nello spazio con tutti gli archetipi delle storie d’amore. Gli attori erano Keanu Reeves e Emily Blunt, che venne a casa mia a fare un provino alchemico con Keanu. Mi piacquero entrambi moltissimo. Ero così entusiasta di fare quel film e poi di punto in bianco mi mollano. Mi mollano nel modo tipico di Hollywood: senza chiamare. Di colpo smetti di ricevere telefonate e capisci che ti hanno mollato. Anni dopo poi vedi che il film lo fa un altro studio, cioè la Columbia e non più la Morgan Creek, e con un altro attore che non è più Keanu Reeves. E nel caso di Passengers hanno davvero sbagliato tutto. Dal protagonista, all’ambientazione, al tono, alla regia. Quello che poteva essere un capolavoro si è così trasformato in un filmino. Hai mai capito perché ti hanno mollato? Che cosa è successo? Ci fu quello scandalo delle email hackerate alla Columbia, quello per The Interview che costò il posto a Amy Pascal, che mi aveva preso per La ricerca della felicità e che aveva fiducia in me. Quello che venne dopo di lei invece no, non aveva fiducia in me, era l’ex presidente della 20th Century Fox, lo stesso che non mi aveva voluto per Wolverine, e ora me lo

ritrovavo per l’appunto alla Columbia! Dopo la delusione di Passengers arrivai quasi a girare Now You See Me. Non ero entusiasta di fare quel film, ma stavo inesorabilmente cadendo nelle dinamiche del sistema hollywoodiano, per le quali se fai il regista a un certo punto ti devi far affidare un blockbuster, non puoi fare eternamente lo snob che vuole solo progetti di alto profilo. Non è realistico come scenario. Quelli che hanno la fortuna di fare solo quello che desiderano sono una manciata di registi in tutta Hollywood. Non più di una decina di nomi. E comunque, dopo una serie di confronti con i produttori, alla fine affidarono il film di nuovo a Louis Leterrier, sempre lo stesso che fece Hulk al posto mio. Ricordo che mi dissero: «A volte si vincono delle medaglie d’oro. Questa volta hai preso quella d’argento». Bella battuta.

PONZIO PILATO Gli anni in cui sei stato in America erano quelli del ritorno di moda delle grandi biografie, te ne hanno proposte? Ce n’era una che ci tenevo moltissimo a fare, quella di Ponzio Pilato. Era interessante perché aveva anche un punto di vista particolare su Gesù. Fammi capire, che era il punto di vista particolare su Gesù? Andava rivisto eh, era un copione incasinato in cui non tutto era corretto. Era la storia di Ponzio Pilato, che in quanto procuratore era stato mandato a governare la Giudea con il culto dell’imperatore che i romani imponevano alle colonie. Lì trova uno che fa casino sostenendo di essere il Messia, creando un conflitto non da poco con il potere dei romani su quelle terre e popoli. C’era tutto quel che sappiamo, cioè l’arresto, Barabba, le mani lavate eccetera… Ma il bello era il percorso di Pilato, un uomo catapultato in un posto che era per lui il

Terzo mondo, un posto di cui non sapeva nulla e gli chiedono di prendere decisioni su questioni che lì erano fondamentali. Un po’ come se chiedessero a me di regolare le questioni tra sciiti e sunniti. Un uomo buttato allo sbaraglio che ha cambiato il corso dell’umanità. E a sua totale insaputa! Un’idea affascinantissima per un film, lo devi ammettere. Be’, sì. Però quelli sono film complicati, visivamente come lo volevi rendere? A Hollywood hai la possibilità di appoggiarti ai migliori costumisti e scenografi del mondo, non te ne devi preoccupare. Per il resto avrei seguito l’approccio con cui Ridley Scott ha rappresentato le colonie romane nel Gladiatore. Un racconto crudo, sporco e polveroso. Quello è proprio un film da fare ora che mi ci fai ripensare… Lo volevi fare spirituale come film? No, laicissimo. Sarebbe stato un film sulla pochezza dell’uomo, sulle nostre miserie attraverso le scelte piccole, o apparentemente tali, che ti definiscono. Chi l’aveva scritto il copione? Non ricordo però era un fanatico religioso, che era una cosa che mi dava un po’ fastidio. Ebbi dei conflitti con lui, avevamo idee pericolosamente lontane. Fu quello a bloccare il progetto? Ancora peggio! Tutto si bloccò per un’inezia. Perché non accettarono di pagarmi per sviluppare il copione. Lì se tu vuoi che un regista sviluppi un progetto e gli dia la sua impronta da filmmaker, cioè che ci lavori un po’ e faccia un prospetto esaustivo di come racconterebbe quella storia, c’è un costo standard di 25 000 dollari. Si chiama “development fee”. Che è pochissimo, cioè è una cifra che potrebbe tranquillamente essere pagata anche in Italia. Lì invece si bloccarono su questa cifra risibile a fronte di un progetto da venti milioni di dollari.

Non me li vollero dare, nemmeno per vedere cosa avrei fatto. E quindi non se ne fece niente. È un mondo pieno di venditori di fumo, te l’ho detto. Nei dodici anni trascorsi a Hollywood nel tentativo di realizzare film che mi appassionavano i venditori di fumo sono le persone con cui più ho avuto a che fare. Perché secondo te si fermarono davanti a una cosa così piccola? Spesso è perché non hanno le finanze per realizzare il film che vorrebbero produrre e cercano quindi di svilupparlo spendendo il meno possibile. Altre volte hanno il terrore del fallimento, di non scegliere il regista più adatto e fare un film sbagliato. Tutte queste paure finiscono per paralizzarli. Calcola che nel sistema americano un film non è considerato concreto fino a quando non viene dato quello che chiamano “greenlight”, la luce verde. Il greenlight arriva alla fine di un lunghissimo processo in cui tutto deve quadrare da un punto di vista economico e artistico. Se la star che avevi scelto e ti aveva dichiarato il suo interesse a fare il film cambia idea all’ultimo minuto per farne un altro, è una débâcle per il produttore, che magari aveva già venduto il film per la distribuzione in diversi paesi proprio sulla base della presenza di quella star. E succede più spesso di quanto non si pensi. Per questo è un sistema così fragile.

DRACULA Davvero stavi per fare un film dell’orrore su Dracula? Dietro c’era la Universal ed era una versione molto interessante. Era la vera storia del personaggio dietro la leggenda, ovvero Vlad III di Valacchia, meglio conosciuto come Vlad l’Impalatore. Una persona realmente esistita che fece cose agghiaccianti tra cui impalare migliaia di oppositori.

Il film prevedeva anche la figura di un grande amico di Vlad che si sarebbe ribellato a questa crudeltà, scatenando il conflitto tra il bene e il male. Il finale era la cosa più forte. L’amico lo trafigge con la spada e proprio quando crede che Vlad sia morto, lui, trasformatosi ormai in Dracula, cioè in un essere immortale, se la sfila e lo uccide. Fine. A che stadio sei arrivato di questa lavorazione? Nessuno. Il progetto si è fermato subito. Che poi è la cosa più frequente. Pensa che io ero anche fortemente interessato e appassionato a una sceneggiatura di Zemeckis chiamata Replay e che nemmeno lui, Robert Zemeckis, il regista e creatore di Ritorno al futuro e Forrest Gump (due dei più importanti film del Novecento), era mai riuscito a realizzare a causa del budget troppo alto. Il protagonista (che all’epoca era Johnny Depp) non riusciva a salvare sua figlia da un annegamento, solo che la storia ripartiva da capo ogni volta e lui cercava di non incontrare la madre della bambina in modo che questa non nascesse mai. Era tipo Ritorno al futuro per l’appunto ma al contrario: cercare di cambiare il passato per influenzare il presente. Pur di cambiare il suo destino cercava di cambiare quello di tutti, e pur di non incontrare questa donna, andava a Dallas riuscendo pure a salvare la vita a Kennedy, che tuttavia veniva ugualmente ucciso poco dopo. Insomma la morale era che l’appuntamento col tuo destino lo puoi rimandare ma non evitare del tutto, anche se cambi la Storia. Alla fine lui non poteva che innamorarsi di nuovo della stessa moglie e a sorpresa scoprivi che la figlia era ancora viva e chiedeva al padre di andare a farsi un bagno. Cosa ti fregò? Ci arrivai davvero vicino, ma Ben Affleck si interessò e visto che aveva un gran rapporto con la Warner (e veniva dagli Oscar vinti con Argo) gli chiese di tenerglielo da parte. Ancora oggi, dopo almeno quindici anni, se chiedi in Warner di quel

film ti rispondono allo stesso modo: c’è Ben Affleck che è interessato.

TYSON Qual è la persona più assurda con cui hai discusso di un possibile film? Il manager di Mike Tyson. Un giorno sono andato a cena con lui per discutere di fare un film sulla vita di Tyson. Avevo visto un documentario che la raccontava ed ero rimasto folgorato: Tyson di James Toback. Una storia grandiosa. Certo, l’impressione che ebbi durante l’incontro fu che il manager stesse unicamente pensando: “Ma cosa vuole questo bianco italiano da noi??”. Per loro credo che fosse come se un cinese che vive in Italia da qualche anno volesse fare un film su Padre Pio. Tu che ci avevi visto in quella storia che te la faceva desiderare così tanto? La morte di un piccione. La sua è una storia piena di poesia. Da piccolo era piccionaro come me, una gang gli ammazza un piccione, per reazione lui gli dà un pugno, il primo pugno che dà in vita sua, potentissimo! La gang si volatilizza e lui stesso spiega come fu solo in quell’istante che si accorse di essere così forte. Un po’ come un supereroe che si accorge improvvisamente dei suoi poteri. Aveva undici anni. A quel punto inizia ad andare in palestra, lo nota l’allenatore di Mohammed Alì e lo riscatta dal ghetto tramite lo sport. È una storia di una persona programmata per diventare campione con la forza della rivalsa unita a una forza fisica sovrannaturale. C’era nel documentario un momento in cui lui, a furia di pugni, piega il sacco come un pallone pieno d’aria, nell’incredulità generale. E poi ovviamente la decadenza: avere così tanti soldi da non capire più niente, tigri in casa,

prostitute, yes men ovunque si girasse, la demonizzazione da parte dei media… Tutto, fino al morso all’orecchio di Holyfield, raccontato da lui con una purezza e un’onestà eccezionali. Arrivai a incontrare l’attore che voleva interpretarlo, cioèJamie Foxx, che era un suo amico. Ho letto recentemente che ne parlava in un’intervista, hanno appena finito di girarlo. Spero davvero che sia almeno all’altezza del documentario. E che lascino la storia dei piccioni!

Postfazione The sound and the fury: ascoltando Gabriele Muccino Mario Sesti

Credo di aver conosciuto Gabriele Muccino poco prima che girasse Ecco fatto, intorno alla metà degli anni novanta. Leggevo sceneggiature per l’ufficio cinema di Mediaset e ce n’era una ambientata nel quartiere Esquilino, tra autoctoni ed extracomunitari. Il copione era tonico e inconsueto, con nel finale una curvatura noir e io cercai, inutilmente, di appoggiarlo. Non se ne fece niente (credo che Gabriele non si fidasse moltissimo del produttore). Però l’aspirante regista mi rimase impresso. Era aperto, ironico, entusiasta: con improvvisi lampi d’allarme nella balbuzie e nello sguardo. I suoi corti gli somigliavano. Avevo cercato all’epoca di dare una mano anche a Paolo Virzì, di cui avevo letto, più volte, il copione della Bella vita. Credo che i due si siano incontrati per la prima volta a cena a casa mia: ho il ricordo nettissimo di Paolo che passa il numero di telefono di un famoso attore a Gabriele, tra una mozzarella e un bicchiere di rosso, i due che ci tengono a darsi una mano l’un l’altro, due reclute coetanee che sognano

il grande cinema, una scena che potrebbe stare in un film di entrambi. Negli anni successivi ci siamo frequentati con una certa regolarità: l’ultima volta che ho fatto un incontro con lui è stato poco prima del lockdown in una conversazione in pubblico all’uscita di Gli anni più belli. Gabriele era preoccupatissimo, io meno. Aveva ragione lui. Ho vissuto nel pieno della tormenta il successo e la controrisacca dell’Ultimo bacio. All’epoca feci un’inchiesta per “L’Espresso” che lessero tutti (ma proprio tutti: allora “L’Espresso” vendeva più di 300 000 copie, ora credo meno di un ventesimo), dal titolo: Mucciniani contro Morettiani, durante la quale avevo raccolto la netta sensazione che, all’interno del mondo del cinema, il rancore che il film aveva generato fosse dovuto al fatto, del tutto inedito, che un film senza comici e non di Natale fosse riuscito, con la sola forza di una regia palpitante e di una sceneggiatura che pettinava, a volte contropelo, i trentenni e la borghesia sazia, infelice, opulenta di questo paese, a superare i dieci miliardi di lire. È l’ultimo film per il quale una qualche generazione di italiani può vantare un autentico colpo di fulmine – per mesi, prendere posizione pro o contro, pubblicamente o a casa di amici, era diventato interessante e a volte pericoloso. Non era così che funzionava una volta con i film italiani, capaci di smuovere tutti? Di eccitare magistrati bacchettoni e intellettuali d’avanguardia? Parrocchiani sconsolati e fratelli maggiori? Il Muccino che trovo in questa conversazione è anche il Muccino che conosco io. «Il ritmo dei miei attori viene dalla mia necessità freudiana di non annoiare. Io lo spettatore lo metto su un treno che va più veloce della sua capacità di annoiarsi». Basterebbe questa sentenza come principio di tutto il suo cinema. Non c’è bisogno di essere giornalisti e critici per sentire, tutte le volte che si entra in una sala a vedere un

suo film, le mani invisibili che dallo schermo ti prendono per la collottola per farti capire quanto sia urgente, disperato, tragico e divertente ciò che ha intenzione di raccontarti. Tuttavia Muccino è piuttosto sorprendente anche nella capacità di autoanalisi, senza rete, dei suoi film e della sua vita (ho ancora diverse ore di conversazioni con lui a integrazione dei dvd dei film che ha fatto, realizzati in diverse fasi, diverse controversie famigliari, che punteggiano la sua vita: potrei fare un Muccino Story in video). È raro che gli autori siano capaci di parlare all’altezza del cinema che fanno. Contro tutta l’ironia, e l’autoironia, dei problemi di locuzione, sono sempre uscito dalle conversazioni con lui con delle idee in più. Non solo sul cinema. Per esempio, la tecnica virtuosistica, e romanzesca, della narrazione corale dei suo film: «Le scrivo prima tutte lineari, cioè se pensi a L’ultimo bacio ho scritto prima tutta la storia di Carlo e Giulia, come fosse un film su di loro; poi scrivo tutta la storia di Paolo, cioè Claudio Santamaria; tutta la storia di Pasotti con la Impacciatore; tutta la storia di Marco Cocci… Una volta scritto tutto, le incrocio e così vengono fuori delle occasioni che ti portano a mutare la trama, perché prima non lo sai che alcuni dettagli possono coincidere in una certa maniera. È un telaio di trame che intersechi di fatto creando il film». Un «telaio di trame», è questo il tessuto dei film: quando spesso il limite dello storytelling del cinema italiano degli ultimi cinquant’anni è la tirannide lineare, e monostrato, di un Io. Gabriele, che ha imparato il cinema con Minoli e Un posto al sole, che ha mandato a quel paese il Centro sperimentale dopo un anno, è anche l’unico vero autore contemporaneo, dopo Tornatore – credo di essere l’unico che li abbia portati su un palco insieme a conversare – che si senta erede di qualcosa come il dna del cinema italiano del dopoguerra: «… sapevo solo di voler provocare stilisticamente, proprio con il linguaggio, volevo far vedere che esisteva anche in Italia un

tipo di cinema tutto tirato come si fa all’estero e che da noi c’era anche stato ma ormai era in terapia intensiva. Avevamo avuto Germi o anche Petri che usavano la macchina da presa in modo molto moderno e particolare e non parliamo poi di Fellini o Leone». Molto, di questo cinema, dipende dalla recitazione. Sottovalutatissima da noi (ma andate a leggere cosa dice Orson Welles nelle ultime conversazioni della sua vita, quanto la recitazione sia una vera e propria forma di regia per interposta persona, quanto sia importante come la regia). Contro il mito del set, Muccino prova a lungo prima delle riprese (soprattutto perché la cosa che odia di più è un attore impaurito dalle incertezze della memoria, anche se in queste conversazioni non ne parla). È questa la ragione per la quale gli attori, qualsiasi attore, nei suoi film, recita da un 25 per cento a un 50 per cento meglio che in tutti gli altri? Non lo so: quello che so, anche per esperienza personale, è che il set è il posto più sbagliato al mondo per far imparare, approfondire, metabolizzare una parte al suo interprete. Se non lo ha fatto prima, e se non si è dei geni o dei talenti fuori misura, raramente ciò accade nei tre ciak di media di routine o nei novanta di Kubrick. Dai film di Muccino si esce, quando è in forma, con la sensazione stordente della tragicità della vita e dell’abbandono irresistibile dell’amore, nessun altro autore della sua generazione ha saputo coniare lo stesso ossimoro di romanticismo, humour e pessimismo. Qual è il suo algoritmo? Truffaut diceva che la presunzione del critico è quella di saperne sui film più del loro autore e da questa conversazione scopro il ruolo delle mani nella messa in scena dei primi e degli ultimi baci. C’è un momento in cui Muccino scopre la bellezza di una scena di Baciami ancora dopo che gli viene descritta nel dettaglio. Il modo in cui lo fa non è narcisista e autoindulgente. «Posso dirlo dieci anni dopo. Se uno sconosciuto mi facesse vedere che ha girato una scena così,

forse mi impressionerei, perché capisco che è una composizione perfetta, una sinfonia precisa. Avendola fatta io ti posso dire che quella sinfonia è frutto di una voce che ti sussurra delle cose e te le fa fare in un certo modo. È per l’appunto la voce silenziosissima dell’istinto. Certo poi io le scrivo e le provo, quindi sono molto ragionate. E le location pure sono studiate e ricercate. Però se alla fine funziona davvero è perché quello che avevo pensato e preparato a priori si sposa perfettamente con la messa in scena.» Non sono d’accordo su Baciami ancora, mi mette un po’ tristezza il modo in cui Muccino elabora uno sbrigativo mea culpa del film, salvo poi riscoprirne alcune scene con un entusiasmo che sconfessa la condanna iniziale. All’epoca scrissi una recensione positiva del film per “Film Tv”: ma la redazione sollevò gli scudi e il direttore fu costretto ad affiancarne una di senso contrario. Eppure, secondo me, è uno dei pochi sequel che abbia un suo perché, nella tradizione italiana. Trovo che la Puccini aggiunga sfumature inedite al personaggio di Giulia, che il romanzo del film originale goda di integrazioni interessanti e che il passo del film non abbia molto da invidiare a quelli più riusciti di Muccino (e, certo, il parrucchino di Pasotti non l’ha aiutato). Ma non sono il solo a pensarla così, illustri autori e sceneggiatori la pensano allo stesso modo (come diceva Visconti del Dr. Zivago: «Vallo a vedere ma non dire a nessuno che ti è piaciuto»). Gabriele Muccino infine, ed è qualcosa che rende particolarmente interessante la sua vita e questa conversazione che la racconta, è l’unico regista italiano, dai tempi di Pastrone, che abbia girato in America film americani, che abbia resistito nell’industria americana per più film e che forse potrebbe farlo in futuro. Muccino lo sa, io non vado pazzo per i suoi film americani (anche se, produttivamente e narrativamente, mi tolgo il cappello per un paio di essi) ma è degno di nota che il regista dell’Ultimo bacio, osannato e disprezzato, abbia fatto nella fabbrica dei sogni dei film,

lavorando all’interno dell’industria, qualcosa che neanche De Sica o Leone, Fellini o Antonioni, Monicelli o Scola, hanno mai avuto la chance di fare. Anche per questo sarà sempre divertente leggere ancora, nei prossimi anni, i suoi post inappropriati contro Pasolini o i fratelli D’Innocenzo – nel mondo del cinema tutti gli autori vivono come una minaccia l’esistenza degli altri: lo dice sempre Orson Welles – sentirlo scivolare a perdifiato sulle sillabe, seguire le sue steadycam che ansimano dietro gli amanti, drizzare i capelli alle urla dei suoi film – tutte insieme ci ricordano lo strepito e il furore cui somiglia la vita, come nel monito del principe danese.

Ringraziamenti

Ci tengo a ringraziare tutte le persone che nella mia vita, tenacemente, a volte convintamente, altre volte addirittura inconsapevolmente, hanno mosso una pedina o in alcuni casi spostato una montagna per aver creduto in me. Le loro azioni hanno di fatto cambiato il corso della mia vita. Un grazie sincero a voi: Stefano Balassone, Alberto Barbera, Marco Belardi, Paolo Buonvino, Valentina Conti, Paolo Del Brocco, Romilda De Luca, Piera Detassis, Claudio Di Mauro, Craig Emanuel, Shane Harlbut, James Lassiter, Raffaella e Andrea Leone, Giampaolo Letta, Luigi Lonigro, Curzio Maltese, Eva Mendes, Giovanni Minoli, Nicola Piovani, Jeremy Plager, Paolo Pozzi, Domenico Procacci, Angelica Russo, Mario Sesti, Will Smith, Stefano Zarlenga. Ringrazio per la foto Joseph Cardo e Giorgio Armani. G.M. Ringrazio mia madre, che per una volta nella vita si è potuta fare i cazzi degli altri legittimamente autorizzata. G.N.

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ADRIANO FAVOLE, Vie di fuga. Otto passi per uscire dalla propria cultura EDUARDO MENDOZA, Che cosa succede in Catalogna. Un grande scrittore contro il pregiudizio, l’indifferenza e l’incomprensione GIACOMO PELLIZZARI, Gli Italiani al Tour de France CORRADO DEL BÒ, FILIPPO SANTONI DE SIO, La partita perfetta. Filosofia del calcio GIORGIO CAPONETTI, Il grande Gualino. Vita e avventure di un uomo del Novecento (6a ediz.) MARKUS TORGEBY, Running Wild. Trovare se stessi correndo nella foresta artica ROBERTO COTRONEO, L’invenzione di Caravaggio VINCINO, Mi chiamavano Togliatti. Autobiografia disegnata a dispense KARIN BOJS, I miei primi 54 000 anni. Storia della mia famiglia e del nostro DNA PIERLUIGI PANZA, L’ultimo Leonardo. Storia, intrighi e misteri del quadro più costoso del mondo ARRIGO PETACCO, L’uomo della provvidenza. La costruzione del mito di Mussolini dal trionfo alla catastrofe FIONA SAMPSON, La ragazza che scrisse Frankenstein. Vita di Mary Shelley MARTIN ANGIONI, Le 98 ragioni per cui vado in bicicletta GIGI DI FIORE, L’ultimo re di Napoli. L’esilio di Francesco II di Borbone nell’Italia dei Savoia (2a ediz.) RICCARDO RAO, Il tempo dei lupi. Storia e luoghi di un animale favoloso (2a ediz.) GUIDO COSSARD, Cieli perduti. Archeoastronomia: le stelle dei popoli antichi LELE SACCHI, Club Confidential. Cultura, dancefloor e rivoluzioni: un dj racconta la notte PAUL BEGG, Jack lo Squartatore. La vera storia (2a ediz.) MIKA RISSANEN, JUHA TAHVANAINEN, Storia dell’Europa in 24 pinte. Dieci secoli di birra (2a ediz.) VICTORIA EUGENIA HENAO, Ho sposato Pablo Escobar. La mia vita con il re dei Narcos KASSIA ST CLAIR, Atlante sentimentale dei colori. Da amaranto a zafferano, 75 storie straordinarie (4a ediz.) ERRICO BUONANNO, Falso Natale. Bufale, storie e leggende della festa più importante dell’anno STEVE BRUSATTE, Ascesa e caduta dei dinosauri. La vera storia di un mondo perduto (3a ediz.)

FABIO TONACCI, GIULIANO FOSCHINI, Jihadisti italiani. Le storie, le intercettazioni, i documenti segreti dell’ISIS in Italia PASQUALE CHESSA, Il romanzo di Benito. La vera storia dei falsi Mussolini ANDREA DE BENEDETTI, CARLO PESTELLI, La lingua feliz. Curiosità, bizzarrie e segreti: tutto quello che avreste voluto sapere sulla lingua spagnola VITTORIO DAN SEGRE, Storia di un ebreo fortunato AA. VV., Rompere le regole. Creatività e cambiamento NELLO TROCCHIA, Casamonica. Viaggio nel mondo parallelo del clan che ha conquistato Roma ANDREA CARANDINI, EMANUELE PAPI, Adriano. Roma e Atene (2a ediz.) DHARSHINI DAVID, Il mondo in un dollaro. Il viaggio di una banconota dal Texas alla Cina, dalla Nigeria all’Iraq, per capire l’economia globale DAVID ALLEGRANTI, Come si diventa leghisti. Viaggio in un paese che si credeva rosso e si è svegliato verde FRANCIS FUKUYAMA, Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi (3a ediz.) NICK POLSON, JAMES SCOTT, Numeri intelligenti. La matematica che fa funzionare l’intelligenza artificiale di Google, Facebook, Apple & Co. BEATRICE VENEZI, Allegro con fuoco. Innamorarsi della musica classica (2a ediz.) JUAN CARLOS KREIMER, Bici zen. Ciclismo urbano come meditazione ANTONIO PERAZZI, Il paradiso è un giardino selvatico. Storie ed esperimenti di botanica per artisti LIA CELI, ANDREA SANTANGELO, Le due vite di Lucrezia Borgia. La cattiva ragazza che andò in Paradiso MONA CHOLLET, Streghe. Storie di donne indomabili dai roghi medievali a #MeToo DIEGO FUSARO, La notte del mondo. Marx, Heidegger e il tecnocapitalismo (2a ediz.) GIOVANNI NEGRI, Il mistero del Barolo. Ma è il Nebbiolo che conquisterà il mondo AMEDEO BALBI, L’ultimo orizzonte. Cosa sappiamo dell’Universo (5a ediz.) SUE PRIDEAUX, Io sono dinamite. Vita di Friedrich Nietzsche ARRIGO PETACCO, L’archivio segreto di Mussolini TIM PARKS, Ma che cosa ho in testa. Viaggio di un ignorante tra i misteri della mente ROSANNA PANELLI MARVULLI, Abbagnano, una vita per la filosofia. Opere, documenti, ricordi

DANIELE ZOVI, Italia selvatica. Storie di orsi, sciacalli dorati, lupi, gatti selvatici, cinghiali, linci, lontre e un castoro (2a ediz.) PAOLO NORI, I russi sono matti. Corso sintetico di letteratura russa 1820-1991 (4a ediz.) VALENTINA FARINACCIO, Quel giorno. Racconti dell’attimo che ha cambiato tutto (2a ediz.) ERRICO BUONANNO, Sarà vero. Falsi, sospetti e bufale che hanno fatto la storia ALAIN MINC, Diavolo di un Keynes. Una vita di John Maynard Keynes PAUL HAZARD, La crisi della coscienza europea STEFANO FELTRI, 7 scomode verità che nessuno vuole guardare in faccia sull’economia italiana (3a ediz.) ALBERTO SAIBENE, Il paese più bello del mondo. Il FAI e la sfida per un’Italia migliore (2a ediz.) ALDO AGOSTI, GIOVANNI DE LUNA, Juventus. Storia di una passione italiana. Dalle origini ai giorni nostri (3a ediz.) GIGI DI FIORE, Napoletanità. Dai Borbone a Pino Daniele viaggio nell’anima di un popolo VITTORIO LINGIARDI, Io, tu, noi. Vivere con se stessi, l’altro, gli altri (4a ediz.) L’INTERNO DEL MINISTRO, L’insostenibile leggerezza del governo del cambiamento KASSIA ST CLAIR, La trama del mondo. I tessuti che hanno fatto la storia MATTHEW STURGIS, Oscar. Vita di Oscar Wilde VITTORIO SABADIN, Elisabetta, l’ultima regina (nuova edizione aggiornata) FRANCO CARDINI, SIMONETTA CERRINI, La storia dei templari in otto oggetti ENZO SORESI (CON PIERANGELO GARZIA), Come ringiovanire invecchiando. I segreti di medici, fisioterapisti, nutrizionisti e studiosi per una vita più lunga e più sana GIANFRANCO PASQUINO, Minima politica. Sei lezioni di democrazia (2a ediz.) MICHAEL D. GERSHON, Il secondo cervello. Gli straordinari poteri dell’intestino (2a ediz.) CARLO GREPPI, La storia ci salverà. Una dichiarazione d’amore FRANCIS FUKUYAMA, La fine della storia e l’ultimo uomo MATTEO LANCINI, Cosa serve ai nostri ragazzi. I nuovi adolescenti spiegati ai genitori, agli insegnanti, agli adulti GIOVANNI FORNERO, Indisponibilità e disponibilità della vita: una difesa filosofico giuridica del suicidio assistito e dell’eutanasia volontaria

ARMAND D’ANGOUR, Socrate innamorato. La giovinezza perduta del padre della filosofia occidentale PER J. ANDERSSON, Storia meravigliosa dei viaggi in treno. Sui binari del mondo dall’Orient Express all’Interrail, dalla conquista del West al futuro GIOVANNI DIAMANTI, I segreti dell’urna. Storie, strategie e passi falsi delle campagne elettorali LIA CELI, Quella sporca donnina. Dodici seduttrici che hanno cambiato il mondo (2a ediz.) PIERO RUZZANTE (CON ANTONIO MARTINI), Eppure il vento soffia ancora. Gli ultimi giorni di Enrico Berlinguer MARTIN ANGIONI, Le 101 ragioni per cui vado in bicicletta (nuova edizione aggiornata) JIM HOLT, Perché il mondo esiste. Una detective-story filosofica (2a ediz.) MALCOLM GLADWELL, Il dilemma dello sconosciuto. Perché è così difficile capire chi non conosciamo FEDERICO FALOPPA, #Odio. Manuale di resistenza alla violenza delle parole GIANLUCA DIEGOLI, Svuota il carrello. Il marketing spiegato benissimo STEVEN HELLER, Storia universale della svastica. Come un simbolo millenario è diventato emblema del male assoluto FRANCESCO BORGONOVO, La malattia del mondo. In cerca della cura per il nostro tempo GIAMPIERO CALAPÀ, A un passo da Provenzano. Una storia nascosta nella trattativa Stato-mafia HANS ULRICH OBRIST, Fare una mostra (2a ediz.) ROBERTO COTRONEO, Il sogno di scrivere. Perché lo abbiamo tutti, perché è giusto coltivarlo (2a ediz.) MARIA LUISA IAVARONE, NELLO TROCCHIA, Il coraggio delle cicatrici. Storia di mio figlio Arturo e della nostra lotta GIGI DI FIORE, Pandemia 1836. La guerra dei Borbone contro il colera JAMES WYLLIE, Naziste. Le mogli al vertice del Terzo Reich STEFANO FELTRI, 7 scomode verità che nessuno vuole guardare in faccia sull’economia italiana (nuova edizione aggiornata) MARCO MAGNANI, Fatti non foste a viver come robot. Crescita, lavoro, sostenibilità: sopravvivere alla rivoluzione tecnologica (nuova edizione aggiornata) MALCOLM GLADWELL, Il punto critico. I grandi effetti dei piccoli cambiamenti MARCO AIME, ADRIANO FAVOLE, FRANCESCO REMOTTI, Il mondo che avrete. Virus, Antropocene, Rivoluzione (4a ediz.)

ERNŐ RUBIK, Il Cubo e io. Storia del rompicapo che ha incantato il mondo e del suo inventore DANIELE ZOVI, Autobiografia della neve. Le forme dei cristalli, la fine dei ghiacciai e altre storie da un mondo silenzioso (2a ediz.) VITTORIO SABADIN, La guerra dei Windsor. William, Kate, Harry, Meghan e il futuro della monarchia inglese BEATRICE VENEZI, Le sorelle di Mozart. Storie di interpreti dimenticate, compositrici geniali e musiciste ribelli (2a ediz.) ALEC RYRIE, Il senso di non credere. Una storia emotiva del dubbio PAOLO NORI, I russi sono matti. Corso sintetico di letteratura russa 1820-1991 (2a ediz. ampliata e illustrata) ALESSANDRO MARI (CON GINEVRA AZZARI E MATILDE PIRAN), Libri, istruzioni per l’uso. L’arte di scegliere, organizzare e disordinare le librerie di casa ANDREW ROBERTS, Churchill. La biografia (3a ediz.) FERDINANDO SCIANNA, Il viaggio di Veronica. Una storia personale del ritratto fotografico FEDERICO MELLO, Compagni! Il romanzo del congresso di Livorno KEITH LOWE, Prigionieri della storia. Che cosa ci insegnano i monumenti della seconda guerra mondiale sulla memoria e su noi stessi GIOVANNI GRANDI, Scusi per la pianta. Nove lezioni di etica pubblica GIANFRANCO PASQUINO, Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana ANDREA DI NICOLA, GIAMPAOLO MUSUMECI, Cosa loro, Cosa nostra. Come le mafie straniere sono diventate un pezzo di Italia SHARON MOALEM, La metà migliore. La scienza che spiega la superiorità genetica delle donne DOMENICO QUIRICO, Il pascià. L’avventurosa vita di Romolo Gessi, esploratore GIOVANNI DE LUNA, Il partito della Resistenza. Storia del Partito d’Azione 1942-1947 GIOVANNI SPADACCINI, Compro libri, anche in grandi quantità. Taccuino di un libraio d’occasione LUCA BARCELLONA, Anima e inchiostro. Scrivere a mano come pratica per migliorare se stessi PAOLO COLOMBO, GIOACHINO LANOTTE, Azzurri. Storie della nazionale e identità italiana ERRICO BUONANNO, Non ce lo dicono. Teoria e tecnica dei complotti dagli Illuminati di Baviera al Covid-19

GIGI DI FIORE, I vinti del Risorgimento. Storia e storie di chi combatté per i Borbone di Napoli STEFANO ALLIEVI, Torneremo a percorrere le strade del mondo. Breve saggio sull’umanità in movimento FRANCES LARSON, Le intruse. Dalle aule di Oxford ai confini della civiltà: storie di donne che volevano scoprire il mondo GIORGIO CAPONETTI, Quando l’automobile uccise la cavalleria GIOVANNI DE LUNA, Cinema Italia. I film che hanno fatto gli italiani DANIEL KAHNEMAN, OLIVIER SIBONY, CASS R. SUNSTEIN, Rumore. Un difetto del ragionamento umano DANIELE ZOVI, In bosco. Leggere la natura su un sentiero di montagna EMANUELE TREVI, Viaggi iniziatici. Percorsi, pellegrinaggi, riti e libri PAOLO BERTINETTI, Shakespeare creatore di miti. Breve corso su Romeo e Giulietta, Amleto, Falstaff, Macbeth, Otello e il loro autore MALCOLM GLADWELL, Bomber Mafia. Gli scienziati, i generali e i piloti che volevano cambiare le sorti della seconda guerra mondiale