Con accordato canto. Studi sulla poesia tra Italia e Spagna nei secoli XV-XVII 9788820738815, 9788820762803

Il volume intende proporre al lettore un percorso che lo accompagni nell'immenso territorio delle relazioni tra let

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Con accordato canto. Studi sulla poesia tra Italia e Spagna nei secoli XV-XVII
 9788820738815, 9788820762803

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Table of contents :
Copertina
Frontespizio
Copyright
Indice
Prefazione
Parte prima
«La fortune d’une littèrature». Note sulla ricezione della letteratura italiana in Spagna
Modelli e stagioni del petrarchismo europeo
Parte seconda
Aspetti della poesia di corte. Carvajal e la poesia a Napoli al tempo di Alfonso il Magnanimo
Poesia iberica e poesia napoletana alla corte aragonese: problemi e prospettive di ricerca
La rinascita dell’egloga in volgare nei canzonieri quattrocenteschi. Note preliminari
Parte terza
«Petrarca y el traduzidor». Note sulle traduzioni cinquecentesche dei Trionfi
Garcilaso de la Vega e la nuova poesia in Spagna, dal retaggio «cancioneril» ai modelli classici
L’ode tra Italia e Spagna nella prima metà del Cinquecento
L’egloga a Napoli tra Sannazaro e Garcilaso
La «doppia gloria» di Alfonso D’Avalos e i poeti-soldati spagnoli (Garcilaso, Cetina, Acuña)
Parte quarta
La poesia nell’epoca di Filippo II: modelli italiani (Caro, Rainerio) e soluzioni ispaniche (Ramírez Pagán, Lomas Cantoral, de la Torre, Herrera)
Quevedo e il canone breve
Lettura del sonetto «Lo que me quita en fuego me da en nieve» di Quevedo: fra tradizione e contesti
Quevedo e le «poesías relojeras»
Indice dei nomi
Quarta di copertina

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Letterature 64 Collana diretta da M. Palumbo e A. Saccone fondata da G. Mazzacurati

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Antonio Gargano

Con accordato canto

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Studi sulla poesia tra Italia e Spagna nei secoli XV-XVII

ISSN 1828-8421

Liguori Editore

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Pubblicato con un contributo per Ricerche di Interesse Nazionale cofinanziate dal MIUR, CIP 2002104254_002.

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II. Collana

III. Serie

Aggiornamenti: ————————————————————————————————————————— 23 22 21 20 19 18 17 16 15 14 13 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

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INDICE

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XI

Prefazione PARTE PRIMA

3

«La fortune d’une litte´rature». Note sulla ricezione della letteratura italiana in Spagna 1. Premessa 3; 2. Un difficile rapporto: da Imperial alla «Propalladia» di Torres Naharro 6; 3. Un felice connubio: dalla poesia «italianizzante» di Bosca´n e Garcilaso all’«Agudeza y arte de ingenio» di Gracia´n 15; 4. Un dialogo in periferia: dal melodramma del Metastasio al «momento» dannunziano 29; Nota bibliografica 38.

45

Modelli e stagioni del petrarchismo europeo 1. Criteri per una definizione: variazioni e livelli del codice petrarchista 45; 2. «Un petrarchismo senza Petrarca» 51; 3. Dal «Petrarca non tradito» al «manierismo petrarchista» 57; 4. Il dissolvimento del codice. Petrarca, oltre il petrarchismo 73.

PARTE SECONDA 79

Aspetti della poesia di corte. Carvajal e la poesia a Napoli al tempo di Alfonso il Magnanimo

89

Poesia iberica e poesia napoletana alla corte aragonese: problemi e prospettive di ricerca 1. Una cultura poetica quadrilingue 89; 2. Canzonieri, poeti e poesie bilingui 95; 2.1. Canzonieri bilingui 95; 2.2 Poeti bilingui 99; 2.3. Poesie bilingui 102.

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INDICE

La rinascita dell’egloga in volgare nei canzonieri quattrocenteschi. Note preliminari

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PARTE TERZA 123

«Petrarca y el traduzidor». Note sulle traduzioni cinquecentesche dei Trionfi

141

Garcilaso de la Vega e la nuova poesia in Spagna, dal retaggio «cancioneril» ai modelli classici

157

L’ode tra Italia e Spagna nella prima meta` del Cinquecento

181

L’egloga a Napoli tra Sannazaro e Garcilaso

203

La «doppia gloria» di Alfonso D’Avalos e i poeti-soldati spagnoli (Garcilaso, Cetina, Acun˜a) PARTE QUARTA

219

La poesia nell’epoca di Filippo II: modelli italiani (Caro, Rainerio) e soluzioni ispaniche (Ramı´rez Paga´n, Lomas Cantoral, de la Torre, Herrera) 1. La poesia spagnola alla meta` del secolo 219; 2. Il ‘libro di rime’ italiano 223; 3. Due sonetti di Annibal Caro e Antonfrancesco Rainerio 227; 4. Peripezie dei sonetti del Caro e del Rainerio in terre iberiche 231; 4.1 Diego Ramı´rez Paga´ n 232; 4.2 Jero´ nimo Lomas Cantoral 233; 4.3 Francisco de la Torre 235; 4.4 Fernando de Herrera 238; 5. Brevi conclusioni 243.

247

Quevedo e il canone breve

259

Lettura del sonetto «Lo que me quita en fuego me da en nieve» di Quevedo: fra tradizione e contesti 1. Testo, tradizione e convenzione 259; 2. Il motivo della mano che copre 261; 3. Dal «concettino» al concetto 267; 4. «Las hazan˜as del fuego y de la nieve» 272.

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INDICE

Quevedo e le «poesı´as relojeras»

291

Indice dei nomi

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PREFAZIONE

I quattordici studi raccolti nel volume che il lettore ha tra le mani sono stati scritti e pubblicati in un periodo poco meno che trilustre, dai primi anni novanta a oggi. In tal senso, tenuto conto cioe` sia della varieta` delle circostanze che sono all’origine del loro concepimento sia della distanza dei tempi a cui risalgono le singole realizzazioni, la raccolta difficilmente potrebbe farsi rientrare nella categoria dei libri organicamente ideati e unitariamente composti. Tuttavia, non credo che si possa negare come le varie tessere che lo compongono, una volta assemblate, pur nell’autonomia delle singole genesi, vadano oltre la mera unita` garantita dal nome dell’autore e abbiano finito per generare un disegno a suo modo coerente che per grandi linee, almeno, potrebbe essere descritto nel modo seguente: il tentativo di ricostruire, facendo leva su alcuni episodi significativi, il radicale rinnovamento a cui si vide sottoposta la tradizione poetica spagnola in accordo alle esperienze e ai modelli lirici italiani, fino alla completa emancipazione da essi in concomitanza dei grandi poeti barocchi, con i quali la direzione dell’influenza conobbe spesso un’inversione di rotta. Nella prima delle quattro sezioni in cui gli studi sono stati ripartiti, due scritti introducono alle successive sezioni interamente dedicate, come si e` detto, al fenomeno lirico, il quale risulta cronologicamente scomposto nelle tre fasi che coincidono grosso modo, rispettivamente, con l’esperienza di una cultura poetica quadrilingue presso la corte napoletana in eta` aragonese; col processo di radicale rinnovamento operato in epoca carolina da Garcilaso de la Vega soprattutto, ma anche da poeti come Bosca´n, Cetina o Acun˜a, a partire sia del modello offerto dal Canzoniere e dai Trionfi petrarcheschi, sia da quelli, non sempre assimilabili, proposti dai contemporanei poeti italiani, come Bernardo Tasso o Jacopo Sannazaro, o direttamente dai classici; con lo sforzo di aggiornamento, infine,

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PREFAZIONE

compiuto dalla generazione dei poeti filippini nei confronti dell’ormai abusata maniera petrarchesca e, di lı` a poco, con la travolgente rivoluzione formale del linguaggio lirico barocco, di cui furono protagonisti i grandi poeti che, come Francisco de Quevedo, tra la fine del Cinquecento e le prime decadi del secolo seguente, contribuirono a imporre un gusto che, piu` d’ogni altro, si voleva originale. Si e` inteso cosı`, tramite l’assemblaggio dei contributi selezionati, proporre al lettore un percorso che lo accompagni nel vasto e complesso territorio delle intense relazioni tra letteratura italiana e spagnola in eta` moderna, con prevalente attenzione per la produzione lirica, anche se, come gia` accennavo, la prima parte fa posto a un piu` generale panorama dei rapporti tra le due letterature fra tardo Medioevo e primo Novecento e, insieme, a una visione di sintesi dei modelli e delle stagioni del petrarchismo europeo, all’interno dei quali – panorama e visione – il moderno fenomeno lirico spagnolo e il suo rinnovamento trovano la loro storica collocazione e motivazione. Nel secondo Quattrocento, la corte aragonese di Napoli costituisce un privilegiato campo d’indagine per cercare di scoprire se e con quali modalita` le produzioni poetiche, napoletana e castigliana, interagiscono, una volta che esse siano venute in contatto, grazie alla confluenza presso la corte napoletana di un gruppo di verseggiatori spagnoli con un largo esercizio di una maniera poetica ad alto tasso di codificazione, qual era quella cancioneril. Si scoprira`, allora, che nel contesto culturale napoletano trovano la piu` plausibile spiegazione fenomeni diversi come, da un lato, certe esperienze precorritrici di un poeta come Carvajal, il quale dovette condividere l’interesse professato dagli ambienti colti per la poesia popolare o popolareggiante, e, d’altro lato, quel significativo, seppur misurato per quantita`, insieme di peculiari testimonianze dell’interazione tra le diverse tradizioni poetiche che risulta formato da canzonieri, poeti e singoli componimenti bilingui. Ma il modello poetico italiano, nei generi petrarcheschi come in quelli neoclassici, risulto` agli spagnoli assai piu` proficuamente avvicinabile e imitabile solo dopo che essi ebbero assimilato la lezione umanistica, il che avvenne tardi, non prima delle ultime due decadi del XV secolo, grazie soprattutto all’opera di un grammatico come Antonio de Nebrija. Solo allora si crearono le condizioni che resero possibile una «traiettoria poetica» come quella di Garcilaso de la Vega, esemplare nell’illustrare la rivoluzione a cui deve la propria

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PREFAZIONE

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nascita il moderno linguaggio lirico spagnolo, e cio` – si badi bene – nel breve spazio di un decennio (1526-1536); tanto basto` – difatti – al geniale toledano per passare dai balbettii di un’incipiente imitazione dei sonetti petrarcheschi, dov’e` dato riconoscere ancora gli ingredienti a cui ricorreva la poesia cosiddetta cancioneril, ai maturi e splendidi esperimenti dei generi neoclassici, come l’egloga o l’ode, dove la lezione del Petrarca risulta profondamente assimilata e mirabilmente fusa con quella appresa direttamente dai classici. Una tale capacita` di bruciare le tappe e` unica nel panorama letterario spagnolo della prima meta` del Cinquecento, dal momento che le avanguardie poetiche pervennero a risultati simili solo alla meta` del secolo, con l’anno 1554 assunto come data simbolica ad indicare che il processo di assimilazione della lingua poetica italiana, iniziatosi circa tre decenni prima, poteva ormai considerarsi un fenomeno totalmente consumato, come – del resto – mostrano in forma esemplare le diverse traduzioni cinquecentesche dei Trionfi petrarcheschi, in particolare la complessa vicenda redazionale della versione di Hernando de Hozes. Alla successiva generazione di poeti spagnoli, quella cioe` pienamente attiva nei decenni posteriori alla meta` del secolo, prima che – tra la fine degli anni ottanta e l’inizio della decade seguente – s’imponesse una nuova e decisiva svolta, spetto` il non facile compito di superare il modello fondato sul binomio Garcilaso-Petrarca, pur nella sostanziale fedelta` ad esso. A favorire tale corso, un contributo non trascurabile venne ancora una volta dall’Italia, mediante quella pluralita` di voci a cui fecero da canale le antologie poetiche che conobbero un’enorme fortuna e una larga diffusione, dentro e fuori della nostra penisola, a partire dalla prima raccolta giolitina del ‘45. Nei Fiori delle rime de’ poeti illustri, libro allestito da Girolamo Ruscelli nel 1558, poeti come Ramı´rez Paga´n, Lomas Cantoral, Francisco de la Torre e il «divino» Herrera dovettero leggere i sonetti gemelli del Caro e del Rainerio, da cui presero le mosse per imbastire i loro esperimenti tardo rinascimentali e manieristici. Negli ultimi tre scritti, grazie ad altrettanti sondaggi nella poesia amorosa e morale di Francisco de Quevedo, si e` preteso di dar conto della nuova svolta di fine secolo, in occasione della quale codici, forme e temi della tradizione petrarchesca, ma non solo di essa, risultano spesso rovesciati in nome di arditezze fondate sull’eccezionalita` del concetto, come accade nei due sonetti quevediani presi in esame, dove l’elaborazione ingegnosa presiede allo svolgimento che,

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PREFAZIONE

rispettivamente, vi ricevono il canone breve e il motivo della mano che copre, entrambi di origine petrarchesca; o come avviene anche nella selva dello studio conclusivo, dedicata al tema letterario della «material macchinetta misuratrice del tempo», che, alla stregua degli altri componimenti che formano il gruppo delle «poesı´as relojeras» di Quevedo, finı` per alimentare le trame simboliche di cui sono intessuti i sonetti di Ciro di Pers, saldando almeno in parte il debito di gratitudine che la poesia spagnola aveva contratto nei confronti di quella italiana in epoca moderna. In tema di gratitudine, desidero cogliere l’occasione per ringraziare coloro senza il cui invito, spesso seguito da incoraggiamento, nessuno degli studi ora raccolti sarebbe stato intrapreso ne´, tanto meno, avrebbe visto la luce: I. Arellano, P. Botta, F. Bruni, A. M. Compagna, E. Cancelliere, G. Caravaggi, B. Lo´pez Bueno e gli amici del gruppo P.A.S.O. delle Universita` di Cordova e di Siviglia, S. Manferlotti, G. Mazzocchi, M. de las N. Mun˜iz Mun˜iz, G. Poggi, V. Roncero, E. Sa´nchez Garcı´a, A Va´rvaro, N. von Prellwitz. Sono pure assai grato agli amici e colleghi M. Palumbo e A. Saccone per l’accoglienza che hanno voluto riservare al volume nella collana che dirigono, e della quale hanno saputo conservare il carattere aperto e plurale che il fondatore si era prefisso. Un ringraziamento particolare, per il maggior debito contratto dal raccoglitore, deve essere espresso a Flavia Gherardi e Nu´ria Puigdevall, la cui generosita` ha sottratto i presenti scritti al loro destino, altrimenti ineluttabile, di disiecta membra. A. G. Napoli, 9 luglio 2005

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PREFAZIONE

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Gli studi qui raccolti e, in alcuni casi, tradotti dallo spagnolo erano stati precedentemente pubblicati nelle sedi seguenti, in ordine cronologico: «La fortune d’une litte´rature». Note sulla ricezione della letteratura italiana in Spagna, in F. Bruni (a cura di), Contributo italiano alla vita letteraria e intelletuale europea, Torino, Banca Nazionale dell’Agricoltura-UTET, 1993, pp. 269-92. «Petrarca y el traduzidor». Note sulle traduzioni cinquecentesche dei «Trionfi», in «Annali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli. Sezione Romanza», XXXV, 2 (1993), pp. 485-98. La oda entre Italia y Espan˜a en la primera mitad del siglo XVI, in B. Lo´pez Bueno (a cura di), La oda («Segundo encuentro internacional sobre Poesı´a del Siglo de Oro. Sevilla-Co´rdoba, 16-21 de noviembre de 1992»), Sevilla, Universidad de Sevilla, 1993, pp. 121-45. Poesia iberica e poesia napoletana alla corte aragonese: problemi e prospettive di ricerca, in «Revista de Literatura Medieval», VI (1994), pp. 105-24. Aspetti della poesia di corte. Carvajal e la poesia a Napoli al tempo di Alfonso il Magnanimo, in Atti del XVI Congresso Internazionale di Storia della Corona d’Aragona. Celebrazioni alfonsine (Napoli, 1997), a cura di G. D’Agostino e G. Buffardi, Napoli, Paparo Edizioni, 2000, vol. II, pp. 1443-1452. La «doppia gloria» di Alfonso d’Avalos e i poeti-soldati spagnoli (Garcilaso, Cetina, Acun˜a), in La espada y la pluma. Il mondo militare nella Lombardia spagnola cinquecentesca («Atti del Convegno Internazionale di Pavia, 16-18 ottobre 1997»), Viareggio, Mauro Baroni editore, 2000, pp. 347-60. El renacer de la e´gloga en vulgar en los cancioneros del siglo XV. Notas preliminares, in P. Botta, C. Parrilla, I. Pe´rez Pascual (a cura di), Canzonieri iberici, A Corun˜a, Editorial Toxosoutos, 2001, vol. II, pp. 71-84. La poesia nell’epoca di Filippo II: modelli italiani (Caro, Rainerio) e soluzioni ispaniche (Ramı´rez Paga´n, Lomas Cantoral, de la Torre, Herrera), in Spagna e Italia attraverso la letteratura del secondo Cinquecento («Atti del Colloquio Internazionale, I.U.O. – Napoli 21-23 ottobre 1999»), a cura di E. Sa´nchez Garcı´a, A. Cerbo, C. Borrelli, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 2001, pp. 443-74. Garcilaso y la nueva poesı´a en Espan˜a: del acerbo cancioneril a los modelos cla´sicos, in «Cervantes», II (2002), pp. 129-44. La e´gloga en Na´poles entre Sannazaro y Garcilaso, in B. Lo´pez Bueno (a cura di), La e´gloga («Sexto encuentro internacional sobre Poesı´a del Siglo de Oro. Sevilla-Co´rdoba, 20-23 de noviembre de 2000»), Sevilla, Universidad de Sevilla, 2002, pp. 57-76. Lectura del soneto «Lo que me quita en fuego me da en nieve» de Quevedo: entre tradicio´n y contextos, in «La Perinola. Revista de Investigacio´n Quevediana», VI (2002), pp. 117-36. Il petrarchismo, in P. Boitani, M. Mancini, A. Varvaro (diretta da), Lo spazio letterario del Medioevo. 2. Il Medioevo volgare, vol. III, La ricezione del testo, Roma, Salerno editrice, 2003, pp. 559-94. Quevedo y las «poesı´as relojeras», in «La Perinola. Revista de Investigacio´n Quevediana» («Actas del Congreso Internacional “Quevedo, lince de Italia y zahorı´ espan˜ol”. Palermo, 14-17 de mayo de 2003. Nu´mero coordinado por I. Arellano y E. Cancelliere»), VIII (2004), pp. 187-99. Quevedo e il canone breve, inedito. Relazione presentata al Convegno «La scrittura e il volto. Napoli, 11-12 aprile 2005», i cui Atti sono in corso di stampa.

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PARTE PRIMA

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´ RATURE». «LA FORTUNE D’UNE LITTE NOTE SULLA RICEZIONE DELLA LETTERATURA ITALIANA IN SPAGNA

1. Premessa Nel tessere l’elogio del «saggio esemplare» di Mario Praz sui Rapporti tra la letteratura italiana e la letteratura inglese, pubblicato nel 1948, Claudio Guille´n ha sottolineato come «lo studio delle influenze internazionali e` compito irto di ostacoli, trappole e possibili malinte` probabile che molti dei «malintesi» in cui incorre chi pretende si»1. E di studiare le cosiddette influenze letterarie siano dovuti all’impostazione data dai comparatisti della «stagione francese» – secondo la denominazione di Guille´n – tra la fine del passato secolo e l’inizio del nostro, e che comunque essi possano essere in buona misura evitati grazie a quel rinnovamento teorico del comparativismo, di cui il libro di Guille´n costituisce un’ampia e documentatissima trattazione. Quanto alle pagine che seguono, confesso che esse restano in larga misura estranee alle preoccupazioni teoriche a partire dalle quali si e` costituito il rinnovato quadro del comparativismo, e piuttosto risultano animate da un criterio empirico; il che pero` non vuol dire che manchino di qualsiasi principio ispiratore, e cio` al di la` sia di puntuali omissioni e dimenticanze sia di un certo eclettismo nella forma d’esposizione. In primo luogo, per il quadro complessivo che qui si e` inteso tracciare, ho creduto che – finche´ cio` fosse stato possibile – si dovesse evitare l’atomismo delle singole opere o autori, privilegiando da un lato i grandi generi letterari, e procedendo dall’altro a una trattazione cronologica dettata da un principio di assoluta sincronia 1

C. Guille´n, L’uno e il molteplice. Introduzione alla letteratura comparata, Bologna, Il Mulino, 1992. Cito da p. 251.

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PARTE PRIMA

tra le due letterature. Un tale atteggiamento ha comportato delle conseguenze, di cui mi limitero` a illustrare le piu` evidenti per mezzo di due brevi esempi. In qualche lettore potra` destare sorpresa il fatto che manchi un paragrafo esclusivamente dedicato alla presenza della letteratura italiana nell’opera di Cervantes, o, piu` esattamente, che se ne parli solo laddove si fa riferimento ai due generi della novella e del romanzo pastorale, e nulla si dica invece a proposito di una questione cosı` importante qual e` il rapporto tra il Chisciotte e l’Ariosto. Parimenti, qualche altro lettore potra` rimpiangere che, dopo aver appreso della diffusione di Dante nel Quattrocento, nulla gli venga detto del dantismo nel periodo della Controriforma, per esempio, o ` che, pur nei limiti del presente alla fine del secolo passato. E contributo, non si e` inteso tanto tracciare la fortuna di questa o quella opera, di questo o quell’autore, ma si e` cercato piuttosto di cogliere quale funzione fosse chiamata a svolgere, nelle grandi fasi storiche, la letteratura italiana nella formazione e nello sviluppo di quella spagnola. Giungo cosı` all’altra questione che mi preme affrontare preliminarmente. In secondo luogo, difatti, debbo avvertire che l’intero quadro che si presenta e` stato concepito secondo un partito preso iniziale. Negli ultimi decenni del XIV secolo, e per tutto il Quattrocento, la letteratura italiana e` presente in Spagna in forma non trascurabile. Ciononostante, il riuso che possono farne i letterari spagnoli e` piuttosto parziale e, in ogni caso, limitato ad alcuni aspetti, e cio` vale sia nei riguardi dei nostri tre grandi autori trecenteschi, sia in quelli della piu` recente letteratura umanistica. Perche´? Molto probabilmente perche´ i letterati spagnoli, pur avvicinandosi alle opere e agli autori di provenienza italiana, risultavano pero` carenti di quella formazione classica che doveva risultare indispensabile per assimilare fino in fondo non solo le opere degli umanisti, com’e` ovvio, ma anche la sintassi volgare del Decameron, il linguaggio lirico del Canzoniere petrarchesco, e finanche la mirabile costruzione allegorica dantesca. Il momento di svolta si colloca negli ultimi decenni del Quattrocento, quando quella carenza viene superata grazie alla realizzazione di un programma propriamente umanistico, del quale le Introductiones latinae (1481) di Nebrija possono essere assunte a massimo emblema. I risultati non si faranno attendere. Segnali di profondo rinnovamento, che attengono anche a un diverso rapporto con la letteratura italiana, sono gia` presenti tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento. E tuttavia il processo giunge a completa

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´ RATURE» «LA FORTUNE D’UNE LITTE



maturazione durante il regno di Carlo V, soprattutto nel secondo quarto del secolo. Prende cosı` avvio un secolo di letteratura spagnola che, per il numero di capolavori prodotti e per l’altissimo valore medio delle restanti opere, puo` essere considerato un autentico miracolo che non ha uguali nelle altre letterature europee dell’epoca. Un’epoca, peraltro, durante la quale per motivi di diverso ordine «Italia y Espan˜a constituı´an [...] un espacio cultural u´nico», come ha giustamente affermato Francisco Rico. All’interno di questo «spazio culturale unico», e con la cultura spagnola che ha sanato le sue carenze di formazione, la letteratura italiana e` ora in grado di fungere da modello con cui bisogna di volta in volta misurarsi, vuoi per imitarlo vuoi per fare i conti con esso. E allora, per non fare che qualche esempio, la moderna lirica spagnola ha origine con la costituzione di un linguaggio petrarchesco, oppure la formazione della prosa rinascimentale vede uno dei suoi momenti piu` significativi nella traduzione di un testo italiano, il Cortegiano di Castiglione, e finanche un autentico capolavoro come il Lazarillo, che pure non ha alcun parallelo nella letteratura italiana, si spiegherebbe di meno se non tenessimo conto della voga epistolografica proveniente dall’Ita` una fase che possiamo considerare sostanzialmente conclusa lia. E alla meta` del secolo, anche se continuera` a dare i suoi splendidi frutti nei primi decenni della seguente meta`. A partire dall’ultimo ventennio del Cinquecento, la letteratura spagnola, profondamente rinnovata dal contatto con quella italiana, ha ormai acquisito un’inedita autonomia, che se da un lato le permette di recuperare forme e temi della tradizione autoctona preumanistica, dall’altro non le impedisce di svolgere a sua volta la funzione di modello da imitare: il caso di Marino e Lope e`, in tal senso, esemplare. Dal Settecento in poi, quando i centri europei di produzione culturale si spostano in direzione settentrionale, le letterature italiana e spagnola, da una posizione divenuta marginale, continuano a mantenere contatti, anche significativi, ma di natura affatto diversa. Non a caso, nel terzo e ultimo paragrafo, ci si e` visti spesso costretti a far riferimento a quella che tradizionalmente era definita la fortuna di singole opere o autori italiani: una presenza piu` o meno diffusa, piu` o meno tardiva, ma che comunque ha poco a che vedere con l’anteriore funzione modellizzante.

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PARTE PRIMA

2. Un difficile rapporto: da Imperial alla «Propalladia» di Torres Naharro Alla fine del 1448 o, piu` probabilmente, nel 1449, In˜igo Lo´pez de Mendoza, marchese di Santillana, invio` al connestabile di Portogallo un manoscritto dei suoi «decires e canciones» accompagnato da un’epistola, destinata a diventare col tempo assai celebre, nella quale a un certo punto si legge:

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Los yta´licos prefiero yo – so emienda de quien ma´s sabra´ – a los franc¸eses, solamente ca las sus obras se muestran de ma´s altos ingenios, e ado´rnanlas e conpo´nenlas de fermosas e peregrinas ystorias; e a los franc¸eses de los yta´licos en el guardar el arte, de lo qual los yta´licos, syno solamente en el peso e consonar, no se fazen menc¸io´n alguna2.

Pressappoco negli stessi anni – alla meta` del secolo – in un’altra lettera, nella quale si dirigeva al figlio minore, al tempo studente a Salamanca, pregandolo di volgere «al nuestro castellano idioma» alcuni canti della traduzione latina dell’Iliade di Pier Candido Decembrio, il marchese confessava con grande dignita` la propria incompetenza nei confronti non solo del testo greco originale, ma anche di quello latino dell’umanista italiano, per poi concludere con una formula consolatoria d’ispirazione classica: diredes que la mayor parte o quasi toda de la dulc¸ura o grac¸iosidad quedan y retienen en sı´ las palabras y vocablos latinos; lo cual como quiera que lo yo non sepa, porque no lo aprendı´ [...]. Ca difı´c¸il cosa seria agora que, despue´s de assaz an˜os e no menos travajos, yo quisiese o me despusiesse a porfiar con la lengua latina [...]. E pues no podemos aver aquello que queremos, queramos aquello que podemos. E si carec¸emos de las formas, seamos contentos de las materias3.

Non essendo il caso di soffermarci su quell’argomento che rimane costante nei due passi, vale a dire il contrasto tra «materias» e «formas», che Francisco Rico ha giustamente definito «di indubbio gusto scolastico»4 e che pertanto la dice lunga sulla formazione 2

Vd. El «Prohemio e Carta» del marque´s de Santillana y la teorı´a literaria del s. XV, a c. di A. Go´mez Moreno, Barcelona, PPU, 1990. 3 I. Lo´pez de Mendoza, marchese di Santillana, Obras completas, a c. di A. Go´mez Moreno e M.P.A.M. Kerkhof, Barcelona, Planeta, 1988, pp. 455-57. 4 F. Rico, El quiero y no puedo de Santillana, in Primera cuarentena y tratado general de literatura, Barcelona, El festı´n de Esopo, 1982. Cito da p. 34.

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culturale del marchese, mi preme far notare che le due citazioni rimandano ad altrettante questioni, tra le quali le connessioni sono tutt’altro che superficiali: se nel primo passo il riferimento e` al problema dei rapporti con la letteratura italiana all’interno della tradizione romanza, nel secondo si pone la questione dei rapporti con la tradizione classica che a sua volta difficilmente potrebbe separarsi da quella dei rapporti con la cultura umanistica italiana. Forse, per farci un’idea di tali rapporti, non c’e` nulla di meglio che cominciare col dare un’occhiata alla biblioteca dello stesso Santillana: la famosa biblioteca di Guadalajara, dove il marchese era andato accumulando numerose opere italiane, e altre latine che provenivano pur sempre dalla nostra penisola, e alla cui formazione avevano fortemente contribuito intellettuali come Juan de Lucena e Nun˜o de Guzma´n, i quali nei lunghi soggiorni italiani cercavano, compravano e ordinavano copie per il loro insigne compatriota. Il grande interesse per la Divina Commedia, per esempio, vi e` attestato dalla presenza, oltre che di una copia in italiano, dalla traduzione dei due commenti di Pietro Alighieri e Benvenuto da Imola e, soprattutto, dalla versione spagnola in prosa che per incarico dello stesso marchese aveva preparato Enrique de Villena, lavorandoci per un intero anno tra il ’27 e il ’28. Trascritta negli ampi margini di un manoscritto italiano della Commedia e «condotta in stretta obbedienza alla singola parola»5, ossia seguendo il principio del tradurre verbum verbo, la versione fu realizzata perche´ il marchese se ne potesse servire di aiuto nella lettura dell’originale italiano. Circa un ventennio prima della traduzione di Villena, nei primi anni del secolo, in un clima di rinnovamento poetico mirante a una nobilitazione colta, filosofica e retorica insieme, della poesia, un genovese stabilitosi a Siviglia, Francisco Imperial, aveva contribuito in modo decisivo alla diffusione di Dante in terra iberica svolgendovi la funzione – com’e` stato sinteticamente scritto – di «mediatore fra la cultura italiana tardo medievale e quella castigliana dell’epoca dei primi Trasta´mara»6. Imperial – specialmente col Dezir a las siete virtudes – aveva introdotto quelle elaborate costruzioni allegoriche dantesche che diventeranno presto di moda nella poesia del regno di Juan II, aveva sperimentato per primo l’endecasillabo di tipo italiano, 5

J.A. Pascual, La traduccio´n de la «Divina Commedia» atribuida a D. Enrique de Arago´n, Salamanca, Universidad de Salamanca, 1974. Cito da p. 17. 6 G. Caravaggi, Francisco Imperial e il ciclo della «Stella Diana», in M. Picone (a cura di), Dante e le forme dell’allegoresi, Ravenna, Longo, 1987, pp. 149-68. Cito da p. 149.

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PARTE PRIMA

e aveva infine modellato il suo linguaggio poetico con elementi del sistema espressivo dantesco, cio` ottenendo anche attraverso la ripresa letterale di alcuni versi del poeta italiano. Si tratta di elementi che si ritroveranno, in misura e forme diverse, nei due massimi poeti del secolo, lo stesso Santillana e Juan de Mena. Non potendo entrare nello specifico dei singoli rapporti testuali, nient’affatto sporadici, che le opere degli autori menzionati intrattengono con la Commedia, mi limitero` a segnalare, sul piano generale, che due elementi di derivazione dantesca, lo schema del sogno o della visione, e la costruzione allegorica, si ritrovano alla base di importanti decires narrativi del marchese, quali l’Infierno de los enamorados e la Commedieta de Ponc¸a (1436) e anche delle maggiori opere poetiche di Juan de Mena, la Coronacio´n (1438) e il Laberinto de Fortuna (1444). E tuttavia, bisogna subito aggiungere che come per il secondo dei componimenti di Mena la vicinanza alla Divina Commedia e` dovuta alla comune appartenenza allo stesso genere di poema medievale, piu` che a una sua diretta dipendenza dal poema italiano, cosı` – anche nei casi in cui la relazione si manifesta piu` strettamente – i due elementi segnalati finiscono col costituire la caratteristica piu` macroscopica, un semplice involucro esterno, dietro il quale le divergenze risultano spesso radicali. Di Petrarca il marchese possedeva nella sua biblioteca le traduzioni italiane del De viris illustribus e del De remediis utriusque fortunae, alcuni frammenti dell’anonimo volgarizzamento castigliano del De vita solitaria, e un manoscritto contenente Sonetti e Canzoni in morte di madonna Laura. In effetti, l’inizio della diffusione di Petrarca in Spagna risale almeno agli anni immediatamente posteriori alla morte del poeta, e il tramite dovette essere costituito dagli ambienti curiali avignonesi. Con un destino in parte simile a quello del Boccaccio, lungo l’intero Quattrocento non fu il poeta in volgare bensı´ il prosatore latino ad affermarsi: Petrarca divenne presto una vera e propria auctoritas, le cui opere latine in prosa (o almeno alcune di esse) se da un lato si prestavano a una lettura di tipo «medievalizzante» (prevalente ricerca di sententiae ed exempla, da porre generalmente al servizio di una lezione morale; attenzione maggiormente pronunciata nei confronti dei contenuti; marcato gusto per lunghe liste di nomi, ecc.), d’altro lato contribuirono notevolmente a trasmettere e diffondere in Spagna materiali classici e patristici. Il che non tardo` ad avere ricche conseguenze all’interno di un certo settore della cultura spagnola. Se prescindiamo dall’anonima versione del De vita solitaria,

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letterariamente alquanto povera, e` esattamente alla meta` del secolo che il futuro arcivescovo di Granada, nonche´ uno dei grandi animatori della Preriforma spagnola, Hernando de Talavera, traduce le Invective contra medicum per il signore di Oropesa, vale a dire quel Fernando Alvarez de Toledo per la cui consolazione Santillana compone il Bı´as contra fortuna, opera che e` stata definita «una exposicio´n tan rotunda y plena de la moral estoica»7, a cui non sono estranei ne´ Seneca ne´ il De remediis petrarchesco. Non a caso la traduzione di quest’ultima opera del Petrarca dovra` attendere, all’inizio del secolo successivo, la sollecitudine di Francisco de Madrid, seguace di Talavera, e fratello di quell’Alonso Ferna´ndez che a sua volta era stato allievo dell’Arcivescovo e traduttore dell’Enchiridion di Erasmo. In conclusione, le opere latine del Petrarca influenzano e contribuiscono a formare un ambiente culturale dalle forti relazioni personali ed intellettuali, con il quale di fatto coincide il «terreno dove spunteranno atteggiamenti religiosi, intellettuali, convergenti con l’erasmismo»8. Il poeta in volgare s’imporra` solo a partire dal terzo decennio del XVI secolo, in un mutato contesto culturale; ma la straordinarieta` dell’evento sara` tale che si puo` tranquillamente affermare che il petrarchismo cinquecentesco segna la nascita di una nuova lingua poetica, con la quale ogni poeta spagnolo sara` destinato a fare i conti ininterrottamente fino ai nostri giorni. Fino a quando pero` quell’evento non si verifica, la presenza di Petrarca nella poesia cosiddetta cancioneril del Quattrocento risulta circoscritta e non sempre evidente, eppure niente affatto inesistente. Spetta ancora una volta a Santillana il merito di aver condotto un coraggioso, anche se poco riuscito, esperimento col quale intese rinnovare radicalmente le forme poetiche, introducendo il piu` fortunato genere metrico italiano: il sonetto. Nell’arco di un ventennio circa (1438-1455) il marchese compose quarantadue sonetti, nei quali peraltro il modello petrarchesco influı` solo superficialmente o – come ha scritto Lapesa – costituı` «una bella manera prestigiosa, una “fermosa copertura” ma´s, como antes las alegorı´as de los decires narrativos»9. Con la sola eccezione di Santillana, ha scritto lo stesso Lapesa in un saggio fondamentale, «l’influenza di Petrarca nella lirica e` molto piu` difficile 7 R. Lapesa, La obra literaria del Marque´s de Santillana, Madrid, Insula, 1957. Cito dalle pp. 217-18. 8 F. Rico, Cuatro palabras sobre Petrarca en los siglos XV y XVI, in Convegno Internazionale Francesco Petrarca, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1976, p. 49-58, p. 56. 9 Lapesa, La obra literaria, cit., p. 189.

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PARTE PRIMA

da valutare [...] sarebbe arrischiato affermare che qualsiasi poeta castigliano anteriore a Bosca´n avesse familiarita` col Canzoniere petrarchesco»10. Eppure Francisco Rico ha brillantemente dimostrato che esiste un Petrarca «a la maniera cancioneril», vale a dire che, specialmente nella generazione dell’ultimo quarto del secolo e degli inizi del successivo, cosı` ben rappresentata nel Cancionero General del 1511, non mancarono poeti i cui componimenti contenevano tracce piu` o meno profonde di poesia petrarchesca. La cosa sorprendente e` pero` che esse non risultano immediatamente evidenti, ma sono come mimetizzate, perche´ gli autori hanno sottoposto l’originale italiano a un processo di rifacimento nei termini del codice poetico spagnolo quattrocentesco. Nuclei di poesia petrarchesca vengono cosı` espressi mediante il lessico, la sintassi, la metrica e le figure retoriche che caratterizzano la poesia cancioneril. Ne´ fa difetto la varieta` di soluzioni, com’e` facile accorgersi confrontando un componimento quale Al tiempo que en mı´ porfia di Alvar Go´mez, nel quale nessun lettore di Petrarca riconoscerebbe il Triunphus Cupidinis se la rubrica del Cancionero de Gallardo non l’avvertisse che si tratta de «El Triunpho de Amor de Francisco Petrarca traduzido por Alvar Go´mez de Guadalajara»; confrontandolo, dicevo, con un componimento di Costana quale Tiene tanta fuerc¸a amor, dove il motivo petrarchesco vi e` svolto in maniera tale da mostrare l’indubbia familiarita` che il poeta dovette avere col Canzoniere. Tra i due poli cosı` esemplificati gli studi inaugurati da Rico sapranno certamente «delimitare una considerevole presenza di Petrarca nella poesia “a la castellana” delle generazioni prossime o contemporanee a Bosca´n e a Garcilaso»11. Che nel corso del XV secolo Boccaccio fosse letto piu` di Dante e Petrarca, ce lo conferma peraltro il fatto che la biblioteca del marchese fosse cosı` ben fornita di codici boccacciani (Fiammetta, Corbaccio, Filocolo, Philostrato, Teseide), a cui bisogna poi aggiungere le traduzioni castigliane di opere in italiano (Ninfale d’Ameto, oggi perduta) e in latino (Genealogia deorum, De montibus), oltre alla ` comunque all’erudito autore versione italiana della Vita Dantis. E delle opere latine che viene rivolta maggiore attenzione, con la 10

R. Lapesa, Poesı´a de cancionero y poesı´a italianizante (1962), in De la Edad Media a nuestros dı´as, Madrid, Gredos, 1971, pp. 145-71. Cito da p. 148. 11 F. Rico, Variaciones sobre Garcilaso y la lengua del petrarquismo, in AA.VV., Doce consideraciones sobre el mundo hispano-italiano en tiempos de Alfonso y Juan de Valde´s, Roma, Publicaciones del Instituto Espan˜ol de Lengua y Literatura, 1979, pp. 115-30. Cito da p. 129.

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conseguenza che «in un primo momento diventa autorita` morale e culturale al pari di tante altre autorita` latine e medievali, compresi il Dante della Commedia e il Petrarca latino»12. All’inizio del secolo risale la versione del De casibus i cui primi otto libri furono tradotti col titolo di Caı´da de prı´ncipes da Pero Lo´pez de Ayala, e che fu poi continuata e condotta a termine nel 1422 da Alonso de Cartagena. Al De casibus, entro la meta` del secolo, si aggiunsero le versioni della Genealogia e del De montibus, entrambi presenti nella biblioteca del marchese, e solo alla fine del secolo, nel 1494, quella del De mulieribus. «Non furono le opere latine di Petrarca e Boccaccio – la trita filosofia e la raccolta semierudita – quelle che per prime ottennero l’ammirazione?», ha difatti affermato Marı´a Rosa Lida facendo ricorso a un’interrogazione retorica13. «Raccolta semierudita»: fu questa, difatti, la dimensione che piu` segno` la prima fase del rapporto degli scrittori quattrocenteschi col Boccaccio. Una fase che fu caratterizzata, piu` che da un’imitazione vera e propria, da singole e frequenti citazioni, le quali erano a loro volta dettate dal prevalente interesse per gli aspetti dottrinari ed edificatori. Cosı`, per non fare che qualche esempio generale, al De mulieribus attinsero costantemente gli autori di quella fiorente tradizione letteraria costituita dal dibattito sui difetti e sulle virtu` delle donne, mentre una funzione analoga svolse il Corbaccio all’interno della complementare tradizione di letteratura misogina. Ed e` significativo che da un’opera come il Filocolo i letterati del Quattrocento estraessero quelle tredici Questioni d’amore che maggiormente indulgono al gusto medievale, richiamandosi in particolare ai francesi jugements delle corti d’amore. L’imitazione, quando ci fu, comincio` col riguardare soprattutto lo stile, o per meglio dire quel «virtuosismo retorico» che – come ha scritto Samona` – si presenta ai quattrocentisti spagnoli «con la stessa opulenza delle opere latine e che li spinge con ogni probabilita` a mettere l’italiano della Fiammetta sullo stesso piano di generica elevatezza stilistica del latino del De claris mulieribus o del De casibus virorum illustrium»14. Del resto, proprio la Fiammetta sarebbe stata – secondo un’autorevole ancorche´ invecchiata tradizione critica – alla base di 12 J. Arce, Boccaccio nella letteratura castigliana: panorama generale e rassegna bibliograficocritica, in Il Boccaccio nelle culture e letterature nazionali, Firenze, Olschki, 1978, pp. 63-105. Cito da p. 64. 13 M.R. Lida de Malkiel, Juan de Mena poeta del prerrenacimiento espan˜ol, Me´xico, El Colegio de Me´xico, 1950. Cito da p. 17. 14 C. Samona`, Studi sul romanzo sentimentale e cortese nella letteratura spagnola del Quattrocento, Roma, Carucci, 1960. Cito dalle pp. 78-79.

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PARTE PRIMA

un fortunato genere narrativo, la cosiddetta novela sentimental, che fiorı` in Spagna nella seconda meta` del Quattrocento con alcuni prolungamenti fin nel secolo successivo. Anche se da tempo e` stato convincentemente contestato un tale valore fondante, quest’opera testimonia comunque di una piu` matura fase nel rapporto col Boccaccio. Tradotta solo nel 1497, anche se abbondantemente letta nei decenni anteriori, la Fiammetta rappresentera` l’opera nei confronti della quale gli autori spagnoli esercitarono un’imitazione che non si limitava piu` al solo «virtuosismo retorico», ma si spingeva ben oltre, in direzione di una nuova concezione del narrare: basti pensare – per limitarmi all’esempio forse piu` vistoso – al Grimalte y Gradissa di Juan de Flores che dell’opera italiana costituisce «una immaginosa continuazione»15. Nella biblioteca del marchese un posto di rilievo occupavano i classici, i quali – sebbene non mancassero copie in latino – erano presenti molto piu` spesso in volgarizzamento italiano o castigliano, ne´ erano del tutto assenti le opere di umanisti italiani come Leonardo Bruni, Giannozzo Manetti o Pier Candido Decembrio, anch’esse per lo piu` in versione castigliana, a testimonianza diretta dei rapporti di Santillana col mondo umanistico italiano, a cui fecero spesso da mediatori intellettuali quali il vescovo di Burgos, Alonso de Cartagena, Nun˜o de Guzma´n, Juan de Lucena. In cio` la biblioteca del marchese e` specchio fedele, al piu` alto livello naturalmente, delle relazioni tra la Spagna e la cultura umanistica italiana, nella stessa misura in cui «el quiero y no puedo» espresso nella lettera al figlio, menzionata all’inizio, e` stato giustamente assunto ad emblema del «drama del prehumanismo espan˜ol», il quale e` stato definito come: La tragicommedia di una e´lite di curiali e nobili abbagliati dalla cultura di moda in Italia, e incapaci di seguirla (o addirittura di comprendere di cosa si trattasse in realta`) per essersi formati attingendo ad una tradizione culturale completamente distinta16.

In effetti, gia` a partire dal XVI secolo, un cospicuo numero di classici recuperati dagli umanisti italiani e alcune opere degli stessi umanisti circolavano in Spagna, ad opera di rappresentanti piu` o meno alti della nobilta` e del clero oltreche´ dei curiali o burocrati. Nei confronti di queste opere, ossia della nuova cultura umanistica di 15 16

Ivi, p. 75. Rico, Primera cuarentena, cit., p. 33.

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

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provenienza italiana, gli spagnoli mostrarono una varieta` di atteggiamenti che Francisco Rico ha sinteticamente descritto in una mezza pagina che conviene riprodurre per intero: Molti non si resero conto (o non vollero farlo) che le novita` bibliografiche che allora si diffondevano formavano solo una parte di un piu` vasto continente intellettuale: e si limitarono a usarle con impassibile neutralita`, mescolandole indifferentemente con le autorita` medievali che continuavano a costituire la base e l’orizzonte del loro mondo. Altri, invece, videro molto bene che nelle pagine dei classici o degli umanisti affiorava un ideale che puntava contro il paradigma del sapere generalmente accettato: il paradigma scolastico (vale a dire, specialistico, tecnico); e poiche´ lo videro molto bene, disprezzarono e attaccarono tali pagine, anche se in qualche caso non seppero evitare piccoli contagi. I terzi, poi – ma l’enumerazione dovrebbe prolungarsi –, riconobbero negli studia humanitatis un fermento creativo e cercarono di appropriarsene: sfortunatamente, quando era gia` tardi; perche´ avevano irrimediabili vizi di formazione e non erano capaci di intendere pienamente la nuova cultura, ne´ di assimilarla se non in alcuni tratti superficiali, copiati, inoltre, con metodi e strumenti caduchi, a cominciare dall’impossibile impegno di avvicinarsi allo stile classico mediante le ricette della precettistica medievale e di dar prova di erudizione accumulando nomi antichi o riferimenti mitologici – per esempio – racimolati nei poveri repertori dell’eta` oscura17.

La storia dei rapporti tra gli intellettuali spagnoli e la cultura umanistica italiana nei primi tre quarti del secolo e` nel suo complesso ancora tutta da scrivere, anche se in questi ultimi vent’anni si sono andati accumulando studi specifici di grande qualita` su singoli fenomeni, aspetti, autori e opere, che permettono fin d’ora di intravedere alcune linee generali lungo le quali quella storia dovra` necessariamente articolarsi. Gli «irrimediabili vizi di formazione» saranno superati e, di conseguenza, anche in Spagna si sara` in grado di intendere pienamente e assimilare la nuova cultura umanistica, solo negli ultimi due decenni del secolo, quando Antonio de Nebrija, dopo un decennio trascorso in Italia, avra` fatto proprio il programma educativo di Lorenzo Valla, e con le Indroductiones latinae (1481) e il suo magistero nell’Universita` di Salamanca avra` cominciato a formare le prime generazioni di

17 F. Rico, Ima´genes del Prerrenacimiento espan˜ol: Joan Roı´s de Corella y la «Trage`dia de Caldesa», in Homenaje a Horst Baader, Frankfurt-Barcelona, Hogar del libro, 1984, pp. 15-27. Cito dalle pp. 15-16.

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

PARTE PRIMA

giovani studenti sui grandi maestri delle lettere antiche. Ne´ manco´ il diretto apporto degli umanisti italiani, alcuni dei quali come Lucio Marineo Siculo e Pietro Martire d’Anghiera – per limitarci ai casi piu` famosi – si trasferirono in Castiglia, dove rimasero il resto della loro vita, impegnati nel magistero di poesia latina e di eloquenza a Salamanca, il primo, nell’educazione del fiore della nobilta` presso la stessa corte reale, il secondo. Le conseguenze di una cosı` profonda trasformazione culturale non si fecero attendere; esse risultano ben visibili gia` nei decenni a cavallo tra i due secoli, in quella che suole definirsi l’epoca dei Re Cattolici. La stessa poesia di tipo cancioneril non fu esente da un avvio di rinnovamento dovuto alla crescente penetrazione della cultura umanistica, sia per i contatti con gli autori classici sia per quelli con i contemporanei poeti rinascimentali italiani. Si e` gia` detto delle ` ora il caso di notare che nella infiltrazioni della poesia di Petrarca. E seconda edizione del Cancionero general di Hernando del Castillo, pubblicata di nuovo a Valenza nel 1514, fecero il loro ingresso generi poetici tipicamente italiani e riprodotti in lingua italiana: alcuni capitoli, tra i quali uno famoso del Bembo, e i sonetti di Bertomeu Gentil: accanto ad essi, si trovano pure le coplas castigliane di Bosca´n che rifanno una ben nota canzone petrarchesca, o la sestina in dodecasillabi di arte mayor che Crespı´ de Valldaura scrisse per la morte della regina Isabella. Da Valenza a Napoli il passo e` breve. Nella citta` partenopea, si pubblica nel 1517 la Propalladia di Torres Naharro. Tra le poesie che fungono da «antepasto» e «postpasto» alle commedie, ne troviamo non poche che appartengono alla tradizione poetica italiana: di nuovo capitoli e sonetti, ma anche epistole, una satira e un ritratto. E, naturalmente, il teatro dello stesso Torres Naharro e` impregnato delle preoccupazioni teoriche che intorno a tale genere si venivano elaborando in Italia, anche se poi non e` sempre facile trovare significativi punti di contatto tra le commedie dello spagnolo e le opere italiane. Cosı` come nel teatro di Juan del Encina, specie in quello posteriore alle dieci rappresentazioni raccolte nell’edizione del 1507, e` possibile scorgere un progressivo avvicinamento alle concezioni teatrali italiane, che non poco deve alla conoscenza del dramma pastorale italiano e ai contatti con i poeti che ruotavano nell’orbita di Isabella d’Este (il Tebaldeo, per esempio): conoscenza e contatti che furono certo favoriti dai due soggiorni romani iniziati, rispettivamente, nel ’12 e nel ’14. Ma, anche al di la` della poesia e del teatro, il rinnovamento del clima

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culturale, per l’assimilazione della cultura umanistica, e` ben evidente – per non fare che qualche esempio – nell’adozione di tecniche e prospettive degli umanisti italiani in campo storiografico da parte di Alonso de Palencia; nell’uso sapiente delle fonti petrarchesche nel capolavoro dell’epoca, la Celestina di Fernando de Rojas; nella ricezione della geografia umanistica; nelle stesse traduzioni dall’italiano, tra le quali vide finalmente la luce, nel 1496, quella del Decameron, ecc. ecc.

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3. Un felice connubio: dalla poesia «italianizzante» di Bosca´n e Garcilaso all’«Agudeza y arte de ingenio» di Gracia´n Poco meno di un secolo separa il giudizio di Santillana nel Prohemio e Carta, laddove il marchese esprimeva la sua preferenza per la varieta` metrica dei francesi rispetto al piu` limitato repertorio metrico degli italiani, dalla presa di posizione di Bosca´n nella Carta a la duquesa de Soma, che il barcellonese antepose al secondo libro dell’edizione postuma (1543) della poesia sua e di Garcilaso, e nella quale fin dall’inizio leggiamo: Este segundo libro terna´ otras cosas hechas al modo italiano, las quales sera´n sonetos y canciones, que las trobas d’esta arte assı´ han sido llamadas siempre. La manera d’e´stas e´s ma´s grave y de ma´s artificio y (si yo no me engan˜o) mucho mejor que la de las otras18.

dove con «otras» Bosca´n si riferisce alle «coplas [...] hechas a la castellana» raccolte nel primo libro, le cui forme metriche sono storicamente imparentate – come ben sapeva il marchese – con quelle della poesia francese. Le forme metriche italiane si prendevano cosı` la rivincita rispetto al piu` severo giudizio di Santillana, tanto piu` che la Carta a la duquesa de Soma, nel difendere quelle forme e nell’illustrarne la storia, intendeva in effetti giustificare il rivoluzionario rinnovamento poetico che lo stesso Bosca´n e Garcilaso venivano conducendo dalla meta` degli anni venti, nel segno del codice metrico e poetico italiano («por que´ no provava en lengua castellana sonetos y otras artes de trobas usadas por los buenos 18

Obras poe´ticas de Juan Bosca´n, a c. di M. de Riquer, A. Comas, J. Molas, Barcelona, CSIC, 1957.

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PARTE PRIMA

authores de Italia») e di un modello poetico determinato, quello petrarchesco naturalmente («Petrarcha fue´ el primero que en aquella provincia le [l’endecasillabo] acabo´ de poner en su punto, y en e´ste se ha quedado y quedara´, creo yo, para siempre»). Bosca´n, non a torto, rivendicava a se´ il primato del rinnovamento: «he querido ser el primero que ha juntado la lengua castellana con el modo de escrivir italiano»; eppure, non e` difficile riconoscere che la sua poesia si muove in «un’area di sperimentalismi a meta´ strada fra il nuovo e l’antico», e il suo petrarchismo «ammette [...] come presupposto culturale determinante, una sintesi della dialettica consumata dei canzonieristi quattrocenteschi e del rigore logico della tradizione catalana (con Ausias March all’apice)»19. In ogni caso, e` a un amico di Bosca´n e suo compagno di sperimentazione («si Garcilaso [...] alaba´ndome muchas vezes este mi propo´sito y acaba´ndomele de aprovar con su enxemplo»); e` dunque al toledano Garcilaso de la Vega che spetta l’enorme merito di aver creato, specie con la piu` matura produzione del secondo soggiorno napoletano tra il ’32 e il ’36, la moderna lingua poetica castigliana, che coincide sostanzialmente con quella del petrarchismo rinascimentale italiano: una lingua che un autorevole studioso ed editore del poeta ha definito a due livelli, «strettamente apparentati, da una parte, al linguaggio normale di Toledo e del nord della Spagna e, d’altra parte, alla scrittura classica e italiana»20. I modelli poetici sono noti: da un lato Petrarca, nella versione restaurata dal Bembo; dall’altro, in coincidenza con i fitti contatti stabiliti nell’ambiente umanistico della corte vicereale, i contemporanei poeti italiani: lo stesso Bembo, Ariosto, e soprattutto Sannazaro e l’Arcadia. E a proposito di quest’ultimo, oltre ai pur importanti rapporti intertestuali, e` ancor piu` significativo segnalare che dal poeta napoletano, forse piu` che da ogni altro, Garcilaso apprese una lezione che doveva rivelarsi decisiva per lo sviluppo della sua poesia, quella riguardante il sapiente uso e adattamento delle fonti classiche. Il che peraltro ci porta ad accennare a un’altra questione, quella dei generi neoclassici, ossia lo sforzo che in Italia – e in Europa – i poeti stavano compiendo «per conciliare la metrica e le forme esistenti – sviluppate in Italia durante i secoli XIV e XV, 19 G. Caravaggi, Alle origini del petrarchismo in Spagna, in «Miscellanea di studi ispanici», XXIV (1971-73), pp. 7-101. Cito dalle pp. 92 e 100. 20 E.L. Rivers, L’humanisme linguistique et poe´tique dans les lettres espagnoles du XVI e sie`cle, in A. Redondo (a cura di), L’humanisme dans les lettres espagnoles, Paris, Vrin, 1979, pp. 169-76. Cito da p. 171.

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soprattutto da parte di Petrarca e del petrarchismo – con i generi poetici grecolatini [...] che l’umanesimo della fine del XV e del primo terzo del XVI aveva di nuovo sentito e coltivato»21; a tale sforzo Garcilaso partecipo` con risultati eccellenti, se si ricorda che, accanto ai sonetti e alle canzoni petrarchesche, la sua poesia si arricchı` presto di generi quali l’ode e l’epistola oraziana, l’elegia, l’egloga, per limitarsi a quelli piu` significativi. La gia` menzionata edizione del ’43, nella quale la poesia di Bosca´n dei primi tre libri veniva stampata accanto a quella di Garcilaso del quarto, svolse una funzione di primaria importanza, contribuendo in modo decisivo a diffondere ed imporre la nuova poesia di tipo «italianizzante». Il processo, avviato negli anni venti, puo` dirsi pienamente compiuto qualche anno dopo la meta` del secolo: buon testimone ne e` il Cancionero general de obras nuevas nunca hasta aora impressas assi por ell arte espan˜ola como por la toscana del 1554. Difatti, con la poesia di Cetina e Acun˜a, due poeti di formazione italiana, e con quella di Hurtado de Mendoza, Silvestre e Montemayor, maggiormente compromessi rispetto ai primi con la vecchia tradizione poetica «a la castellana», il trionfo della metrica italiana e della nuova poetica fu assicurato. Da questo punto di vista, e` davvero emblematico lo sforzo compiuto nel 1552 da Fernando de Hozes che sottopose l’intera sua versione dei Trionfi petrarcheschi a un puntuale rifacimento, in ossequio alla nuova norma metrica che prescriveva che «ninguno [verso] tenga acento en la u´ltima»; una norma che del resto, proprio in quegli anni, cominciava ad essere condivisa dalla quasi totalita` dei poeti, anche se non tutti l’adottarono con la severita` di Hozes e, ancor prima di questi, dal Garcilaso maturo. Parimenti, alla meta` del secolo, la costituzione del nuovo sistema dei generi metrici e poetici si era sostanzialmente compiuta: accanto al sonetto e alla canzone petrarcheschi, e ai generi neoclassici gia` menzionati a proposito di Garcilaso, e` forse il caso di ricordare almeno l’ottava, il capitolo in terzine e la favola mitologica in endecasillabi sciolti, inaugurati da Bosca´n, l’epistola in terzine da Hurtado de Mendoza, il madrigale da Cetina, ecc. Quanto poi ai poeti italiani che ebbero una maggior influenza in questa seconda fase, oltre a quelli di primo piano, un posto di rilievo occuparono il napoletano Tansillo e i poeti raccolti da Ludovico Domenichi nelle 21

C. Guille´n, Sa´tira e poe´tica en Garcilaso (1972), in El primer Siglo de Oro. Estudios sobre ge´neros y modelos, Barcelona, Crı´tica, 1988, pp. 15-48. Cito da p. 21.

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PARTE PRIMA

antologiche Rime diverse del 1545. Con quest’ultimo episodio s’inaugura, di fatto, l’influenza di quel cosiddetto «petrarchismo mediato», che doveva svolgere un ruolo di primaria importanza nei confronti della poesia spagnola dei due decenni successivi, gli anni ’60-’80, attraverso le prime due raccolte delle Rime diverse, i Fiori e i primi due tomi delle Rime scelte. A un’iniziativa di Garcilaso e al sapiente lavoro di Bosca´n si deve quello che forse non a torto e` stato giudicato «il miglior libro di prosa scritto in Spagna durante il regno di Carlo V» (Mene´ndez Pelayo), vale a dire la traduzione del Cortegiano di Castiglione, che Bosca´n termino` nel 1533 e che fu pubblicata l’anno seguente. Realizzato secondo una concezione totalmente moderna della traduzione («Yo no terre´ fin en la traduccio´n deste libro a ser tan estrecho que me apriete a sacalle palabra por palabra, antes, si alguna cosa en e´l se ofreciere, que en su lengua parezca bien y en la nuestra mal, no dexare´ de mudarla o de callarla», promette Bosca´n nella dedica a Gero´nima Palova de Almoga´var)22, il Cortesano ebbe un’influenza enorme, dando cosı` un contributo decisivo alla diffusione di alcuni temi e idee della cultura rinascimentale italiana. Sebbene, come dialogo, non abbia esercitato una grande influenza sulle numerose opere spagnole appartenenti allo stesso genere, ad eccezione dello Schola´stico di Villalo´n, il suo apporto e` stato invece decisivo per quanto riguarda la diffusione della concezione neoplatonica dell’amore. A tale riguardo, e` forse il caso di ricordare brevemente che l’altra opera fondamentale, gli Asolani del Bembo, fu tradotta solo nel 1551; ad essa seguirono nella seconda meta` del secolo ben tre versioni dei Dialoghi d’amore del giudeo spagnolo Leone Ebreo. Bisogna dire, comunque, che il dialogo o il trattato d’amore non ebbe molti imitatori tra gli spagnoli, se prescindiamo dai pochi casi segnalati da Mene´ndez Pelayo, tra i quali si trova quello intitolato Do´rida che apparve a Valladolid nel 1593. Tornando alla traduzione di Bosca´n, la sua importanza maggiore consiste nel fatto che essa costituisce un esempio ammirevole di prosa rinascimentale; una prosa che se da un lato si definisce in contrasto con la prosa artistica e latineggiante del secolo anteriore, come ha sottolineato la Morreale: Una prosa che non pretende piu` di essere latina, ma di fluire secondo i propri canali in stretta relazione con la lingua parlata. [...] non e` meno 22

B. Castiglione, El Cortesano, traduccio´n de J. Bosca´n, Madrid, CSIC, 1942.

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significativo lo sforzo di Bosca´n di rispettare il genio della lingua e di restaurarla nella sua purezza, dopo l’irruzione di latinismi – o pseudolatinismi – del periodo precedente23

d’altro lato, segue un preciso ideale estetico, che gia` Garcilaso aveva sinteticamente segnalato:

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[Bosca´n] guardo´ una cosa en la lengua castellana que muy pocos la han alcanzado, que fue huir del afectacio´n sin dar consigo en ninguna sequedad (A la magnı´fica sen˜ora don˜a Gero´nima Palova de Almoga´var).

Quest’ultimo giudizio permette anche di collocare facilmente la traduzione di Bosca´n nel quadro della riflessione spagnola cinquecentesca sulla propria lingua e letteratura, una riflessione che peraltro e` impegnata a «condurre sulla realta` locale una verifica di alcuni principi della dottrina extra-spagnola»24, vale a dire della dottrina linguistico-letteraria italiana. Nel corso del XVI secolo, difatti, tra i letterati spagnoli si andarono avvicendando le due linee che si erano formate in Italia a proposito della questione della lingua, quella costituita dalla «concezione formalistica, aulica, retorica del Bembo» e quella del «realismo linguistico del Castiglione»25. Se il rifiuto dell’afetacio´n e l’importanza concessa all’uso nel Dialogo de la lengua, che Juan de Valde´s scrisse a Napoli nel 1535, legano la posizione valdesiana a quella del Castiglione (e di Bosca´n e Garcilaso, in Spagna), le posizioni bembiane sembrano risultare maggiormente assimilate nella riflessione spagnola del piu` tardo Cinquecento, in Herrera o Medina per esempio, con un punto di svolta, alla meta` del secolo, costituito dal Discurso sobre la lengua castellana (1546) di Ambrosio de Morales, dove «l’assunzione delle posizioni bembiane e` tutt’altro che completa [...] e viene continuamente contemperata da riserve e precisazioni che mantengono i criteri della lingua d’arte molto piu` ancorati al terreno dell’uso di quanto non avvenisse nel Bembo»26. A un trentennio circa di distanza dalla prima divulgazione e successo in Italia del Furioso data la diffusione in Spagna del «canone 23

M. Morreale, Castiglione y Bosca´n: el ideal cortesano en el Renacimiento espan˜ol, 2 voll., Madrid, Real Academia Espan˜ola, 1959. Cito da p. 24. 24 L. Terracini, Lingua come problema nella letteratura spagnola del Cinquecento (con una frangia cervantina), Torino, Stampatori, 1979. Cito da p. 125. 25 Ivi, pp. 121-22. 26 Ivi, p. 175.

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PARTE PRIMA

di Ferrara», come Antonio Prieto ha chiamato il modello epiconarrativo desumibile dai poemi del Boiardo e dell’Ariosto. Difatti, se si prescinde dalla versione del Morgante che risale agli anni 1533-35, e` intorno alla meta` del secolo che si concentrano sia le due traduzioni del Furioso – quella fortunatissima di Gero´nimo de Urrea (1549) e quella meno nota di Hernando de Alcocer (1550) – sia la traduzione dell’Innamorato di Francisco Garrido de Villena (1555). Val la pena di notare che in Spagna il poema del Boiardo gode di una notevole fortuna, che per qualche tempo tende addirittura ad oscurare quella del Furioso, quando in Italia, sopraffatto fin dal 1520 dalla fama del capolavoro ariostesco, risulta di una qualche popolarita` solo in aree culturalmente provinciali. Cio` si spiega se si tien conto del particolare tipo di lettura che, da un lato, tendeva a considerare il secondo Orlando come una semplice continuazione del primo, e dall’altro vedeva nei due poemi, presi nel loro complesso, la rappresentazione di un omogeneo complesso di vicende eroiche. Tutto cio` si puo` constatare con evidenza maggiore, rispetto alle traduzioni, in quelle opere che debbono considerarsi delle continuazioni dei poemi italiani come, per esempio, La segunda parte de Orlando (1555) di Nicola´s Espinosa, o il Verdadero suceso de la famosa batalla de Roncesvalles (1555) dello stesso Garrido de Villena. Pur seguendo piuttosto da vicino i poemi cavallereschi italiani, da cui traggono personaggi, episodi, situazioni e tecniche narrative, le trame di queste continuazioni risultano subordinate a un grande disegno di gesta eroiche, ove la dimensione epica si concretizza poi nel doppio proposito nazionale e genealogico. Tale tradizione, inaugurata da Espinosa e Garrido de Villena, che potremmo sinteticamente definire come un’epopea di importazione italiana costruita attorno a un personaggio della locale mitologia nazionale (per es., Bernardo del Carpio), raggiunge il suo pieno compimento in autori del tardo rinascimento o addirittura del secolo successivo, come Agustı´n Alonso o Balbuena, le cui opere segnano anche una maggiore originalita` nei confronti dei modelli italiani. E tra i modelli, oltre ai due Orlando, bisogna annoverare le cosiddette giunte; cosı` Espinosa conobbe e utilizzo` l’Innamoramento di Orlando di Niccolo` degli Agostini, Garrido de Villena e Barahona de Soto l’Angelica innamorata di Vincenzo Brusantino ecc. Ma la vera fioritura del genere si ebbe in Spagna con un gruppo di opere in cui si fusero «motivi ariosteschi da un lato, [e] i grandi temi nazionali dall’altro (le nuove conquiste, europee e transoceaniche, la guerra contro i Turchi, la Controrifor-

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ma»27. Gli autori di queste opere, per quanto tendessero ad «assumere un atteggiamento antiariostesco, e a difendere una posizione di “veridicita`”, contrapposta in assoluto ai poemi “fittizi”», in omaggio ai nuovi ideali estetici dell’aristotelismo ormai imperante, tuttavia «non seppero resistere al fascino poetico» dei poemi cavallereschi italiani, dai quali ricavarono se non «prestiti vistosi» quanto meno «dei moduli stilistici che sono non meno evidenti»28. Si tratta di un numeroso gruppo di opere che occupa tutta la seconda meta` del secolo: da La Carolea (1560) di Sempere a La Dragontea (1598) di Lope di Vega, passando per La Araucana (1569-89) di Ercilla, che e` considerato il capolavoro della serie. L’Arcadia di Sannazaro, che pur aveva svolto un’importante funzione nel rinnovamento della poesia – come ho gia` accennato a proposito di Garcilaso –, e che fu presto considerata un autentico capolavoro del genere pastorale, circolo` a lungo in Spagna nella lingua originale, prima di ricevere ben quattro traduzioni, di cui pero` solo una conobbe la stampa, quella pubblicata a Toledo nel 1547. Pur costituendo il modello del romanzo pastorale che si sviluppo` in Spagna nella seconda meta` del secolo, tuttavia solo pochi elementi marginali accomunano l’opera italiana ai primi due romanzi spagnoli che fondarono il genere, la Diana (1559) di Montemayor e la Diana enamorada (1564) di Gil Polo. L’influenza dell’Arcadia sul romanzo pastorale spagnolo era comunque destinata ad aumentare notevolmente nella parte finale del secolo, a partire da El Pastor de Fı´lida (1582) di Luis Ga´lvez de Montalvo, come meglio vedremo in seguito. Con la pubblicazione in Italia delle Lettere dell’Aretino del 1538 comincio` la voga del genere epistolare, le cosiddette «lettere volgari». La straordinaria fortuna della raccolta dell’Aretino ebbe un immediato riverbero in Spagna, dove le «popolarissime Epı´stolas familiares (1539-1541) di Guevara, se da un lato sorgono favorite dalla prima consegna dell’Aretino, dall’altro si traducono subito in toscano e contribuiscono a riorientare il corso originario delle lettere volgari»29. Nel 1551, a pochi mesi dall’originale italiano, l’editore Marcolini pubblicava l’anonima traduzione spagnola de La zucca del Doni che, oltre alla piu` significativa importanza per la tradizione apoftegmatica 27

G. Caravaggi, Studi sull’epica ispanica del Rinascimento, Pisa, Universita` di Pisa, 1974. Cito da p. 135. 28 Ivi, p. 164. 29 F. Rico, Introduccio´n a Lazarillo de Tormes, Madrid, Ca´tedra, 1987. Cito da p. 69.

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PARTE PRIMA

e quella emblematica, ha un certo rilievo per lo stesso genere epistolare a causa delle lettere che vi sono inserite. La fortuna del genere, intorno alla meta` del secolo, acquista in Spagna un valore particolare, se si considera che degli stessi anni e` la composizione di quell’autentico capolavoro della narrativa europea rinascimentale che e` il Lazarillo de Tormes, un racconto pseudo-autobiografico sotto forma epistolare. Minore fortuna ebbe, invece, la novella, con l’eccezione di pochi casi tra cui e` da menzionare almeno El Patran˜uelo (1567) di Timoneda, che Mene´ndez Pelayo giudico` «la primera coleccio´n espan˜ola de novelas escritas a imitacio´n de las de Italia»30, e che comunque ebbe il merito di introdurre un genere nuovo destinato ad avere il massimo successo nel secolo seguente. Sempre in ambito narrativo val la pena di ricordare la traduzione – o meglio, il rifacimento – del Baldus di Teofilo Folengo, opera che in Spagna, come nel resto d’Europa, dovette leggersi molto, soprattutto tra gli studenti di latino. L’anonimo rifacimento spagnolo, condotto sulla redazione Toscolana del 1521, si pubblico` a Siviglia nel 1542, ed e` interessante per piu` di un motivo. In primo luogo, il rifacitore sembra compiere un cammino inverso a quello del Folengo, perche´ – come scrive Blecua – «l’italiano parte da uno schema topico dei libri di cavalleria, e dell’epica in generale, per scrivere un’opera parodica. Il suo rifacitore ricostruisce questo archetipo eroico, eliminando l’elemento parodico e aggiungendo di suo descrizioni e situazioni tipiche dei libri di cavalleria»31. In secondo luogo, vi sono introdotte le due biografie di Falcheto e di Cingar, e quest’ultima puo` essere avvicinata per piu` di un tratto al Lazarillo, tanto piu` che l’opera e` di dodici anni anteriore alla prima edizione conosciuta del capolavoro del romanzo picaresco. Una funzione non trascurabile nella formazione del teatro spagnolo dovette svolgere l’arrivo in Spagna delle compagnie italiane, la cui presenza, documentata fin dal 1538, divenne maggiormente consistente ed organizzata tra il 1574 e il 1587, quando a Madrid e a Valenza operarono le compagnie del celebre Alberto Naselli, detto Ganassa, e di Stefanello Bottarga. La presenza di tali compagnie esercito` una doppia influenza: se da un lato, attraverso il loro 30 M. Pelayo, Orı´genes de la novela («Edicio´n nacional de las obras completas de M. Pelayo»), Santander, CSIC, 1943, III, p. 75. 31 A. Blecua, Libros de caballerı´as, latı´n macarro´nico y novela picaresca: la adaptacio´n castellana del «Baldus» (Sevilla, 1542), in «Boletı´n de la Real Academia de Buenas Letras de Barcelona», XXXV (1971-1972), pp. 147-239. Cito da p. 155.

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repertorio molto vario (tragedie, tragicommedie, rappresentazioni pastorali, commedia dell’arte), esse contribuirono alla formazione dei generi teatrali spagnoli, d’altro lato dettero un decisivo apporto alla dimensione spettacolare del teatro, attraverso l’introduzione delle macchine teatrali e lo sviluppo della scenografia nel teatro di corte. Oltre a cio` le traduzioni – alla meta` del secolo – de La Ramnusia dello Schioppi e Il Sergio del Fenarolo attestano l’interesse per la commedia italiana, a cui si rifa` anche l’autore che forse piu` di tutti contribuı` a formare il nuovo teatro spagnolo: il sivigliano Lope de Rueda, che in almeno due delle quattro commedie conservateci – Los engan˜ados e Medora – segue da vicino modelli italiani, e che anche nei piu` originali pasos dovette attingere a certe situazioni drammatiche tipiche dell commedia dell’arte. Piu` recentemente, nella Comedia de Sepu´lveda, e nelle Tres comedias di Timoneda, e` stato riconosciuto il tentativo di adattare la commedia erudita italiana, cosı` come il tentativo di resuscitare la tragedia antica, negli adattamenti di Pe´rez de Oliva per esempio, fu probabilmente ispirato a quello che aveva compiuto il Trissino in Italia. ` cosa risaputa che gli ultimi due decenni del XVI secolo segnaE rono una profonda trasformazione del gusto letterario, che coinvolse la quasi totalita` dei generi. Dal punto di vista teorico, comunque, il panorama spagnolo seguito` a presentare il grande vuoto che si era aperto all’indomani della pubblicazione, nel 1496, de El arte de poesı´a castellana di Juan del Encina. Molto diversamente stavano le cose in Italia dove, com’e` noto, l’affermarsi dell’aristotelismo, a seguito della divulgazione della Poetica, aveva prodotto, a partire dal commento del Robortello del 1548, un’abbondante fioritura di trattati teorici. Naturalmente, anche in assenza di trattati, la riflessione estetica italiana non era affatto sconosciuta in Spagna, come attestano i prologhi alle diverse opere, i discorsi in difesa della poesia, i commenti alla poesia dei grandi autori e, infine, i singoli passi di opere letterarie che trattano piu` o meno esplicitamente di questioni estetiche. Il primo trattato completo si ha, tuttavia, solo nel 1596, anno in cui vide la luce la Filosofı´a antigua poe´tica del medico di Valladolid Alonso Lo´pez Pinciano. Prima di esso c’erano stati, in verita`, due trattati: l’Arte poe´tica en romance castellano (1580) di Miguel Sa´nchez de Lima, e l’Arte poe´tica espan˜ola (1592) di Juan Dı´az Rengifo. Ma si trattava, dopotutto, di modesti manuali di versificazione, che si limitavano a divulgare i precetti metrici di Antonio da Tempo, a cui l’Arte di Sa´nchez de Lima aggiungeva alcune idee tratte dalle Genea-

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PARTE PRIMA

logie deorum boccacciane, conosciute attraverso la traduzione italiana di Giuseppe Betussi. La Filosofia antigua poe´tica del Pinciano, considerata a buon diritto il maggior contributo teorico spagnolo, viene pertanto a colmare un vuoto durato un secolo. Pur non essendo priva di spunti originali, essa e` comunque un’opera di vasta sintesi delle idee aristoteliche che si erano andate elaborando in Italia nella seconda meta` del Cinquecento. Benche´ citi i soli Vida e Scaligero, il Pinciano da` prova di aver letto con attenzione e profondita` Robortello, Castelvetro, Minturno, Fracastoro e, in modo particolare, i Discorsi del poema eroico del Tasso, con il quale coincide pressoche´ totalmente sui precetti del genere epico. Di assoluta mancanza di originalita` si e` parlato, invece, a proposito del maggiore continuatore del Pinciano per quanto riguarda la teoria letteraria aristotelica, cioe` Francisco Cascales. Le sue Tablas poe´ticas, che furono pubblicate solo nel 1617 benche´ fossero state terminate piu` di dieci anni prima, sono state definite dal loro maggiore studioso come un «plagio literal» di tre trattati poetici italiani, tra quelli che avevano raggiunto piu` larga diffusione: il commento di Robortello alla Poetica aristotelica, la redazione italiana L’arte poetica del Minturno, e i Discorsi dell’arte poetica del Tasso. Del resto, l’utilizzazione di redazioni superate a proposito delle ultime due opere menzionate, confermerebbe il giudizio di «catedra´tico provinciano» data del Cascales, il che comunque non impedı` al suo trattato di diventare la poetica di maggiore influenza e diffusione a partire dalla meta` del secolo. A questa data risale l’Agudeza y arte de ingenio di Baltasar Gracia´n, opera che aveva conosciuto una doppia redazione, nel ’42 e nel ’48, e che e` da considerare la maggiore teoria e antologia del concettismo. Molto si e` discusso, fin dai tempi della prima redazione, dell’influenza che sull’opera di Gracia´n aveva esercitato il primo trattato teorico italiano di tipo sistematico sulla poesia concettista, il Delle acutezze di Matteo Pellegrini, apparso appena tre anni prima di quello spagnolo, ` stato giustamente osservato che tale questione ha fatto nel 1639. E spesso dimenticare la vera dimensione assoluta delle opere dei due scrittori e quella relativa dell’importanza che entrambe hanno nel singolo ambito delle rispettive letterature di ogni paese e, infine, nel processo di sviluppo complessivo della modalita` concettista letterario-barocca32. 32

A. Garcı´a Berrio, Espan˜a e Italia ante el conceptismo, Madrid, CSIC, 1968. Cito da p. 55.

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In ogni caso, il raffronto sistematico operato da Garcı´a Berrio ha confermato sostanzialmente il giudizio a suo tempo espresso da Benedetto Croce, per il quale «alcune somiglianze si riscontrano qua e la` nella parte teorica del suo [di Gracia´n] lavoro col libro del Pellegrini. Ma, per conto nostro, preferiamo credere che si trattasse d’incontro fortuito». L’Agudeza di Gracia´n si colloca alla fine di un periodo splendido per la poesia spagnola, quando questa aveva ormai dato i suoi migliori frutti, e il suo prestigio aveva di fatto invertito la direzione d’influenza tra poesia spagnola e italiana, rispetto ai tempi di Bosca´n e Garcilaso. Cio` premesso, e benche´ Petrarca e i rinascimentali continuassero ad esercitare la loro influenza anche sulle successive generazioni, va comunque detto che il nuovo gusto poetico spingeva gli spagnoli a mostrare una piu` spiccata preferenza «per quelli italiani che ostentavano maggiormente l’affettazione, come Tansillo, Torquato Tasso, alcuni dei poeti presenti nelle Rime scelte I e Rime scelte II e i quattrocentisti Tebaldeo e Aquilano»33. Dei contemporanei, Torquato Tasso e` certamente il poeta che gode di maggiore prestigio. Alla sua poesia si avvicinarono in modo particolare poeti come Francisco de la Torre e Francisco de Medrano; anzi, per quest’ultimo costituisce – come ha notato Da´maso Alonso – il poeta seguito con maggior fedelta`, dopo Orazio. Lo stesso Go´ngora, buon conoscitore della letteratura italiana, in una fase iniziale corrispondente agli anni 1582-85, quando uso` la poesia italiana come «falsilla para sus propios ejercicios escolares»34, compose un gruppo di sonetti a diretta imitazione di quelli del Tasso. Nella produzione piu` matura, dove – come sostiene lo stesso Alonso – «qui e la` si aprono brevi spazi nei quali s’intravede un modello italiano»35, i rapporti si fanno piu` mediati; e, tuttavia, tracce della poesia del Tasso non mancano neppure nei componimenti maggiori, il Polifemo e le Soledades. Sulla presenza dell’altro grande poeta italiano, il Marino, Juan Manuel Rozas, che ha dedicato alcuni studi al problema, ha recentemente osservato che «i risultati [...] non sono vistosi per quel che riguarda la quantita`» e che solo «tre o quattro autori (lasciando da parte lo spinoso problema Marino-Go´ngora) presentano una sufficiente affinita` col napoleta-

33

J.G. Fucilla, Estudios sobre el petrarquismo en Espan˜a, Madrid, CSIC, 1960, p. 308. D. Alonso, Notas sobre el italianismo de Go´ngora, in Obras completas, vol. VI, Madrid, Gredos, 1982, pp. 331-98. Cito da p. 397. 35 Ivi, p. 398. 34

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PARTE PRIMA

no»36. Tra questi «tre o quattro autori», ci sono certamente i due poeti Villamediana e Soto de Rojas, ai quali lo stesso Rozas ha dedicato altrettanti studi tra quelli prima menzionati. Quanto, poi, allo «spinoso» problema dei rapporti tra Go´ngora e Marino, si allude al fatto che, presto notate le relazioni tra i due poeti, e cio` fin dal tempo del commento di Salcedo Coronel, la difficolta` e` consistita nello stabilire la direzione dell’imitazione. Solo in tempi recenti, Antonio Vilanova, in uno studio fondamentale sulle fonti del Polifemo, si e` pronunciato a favore dell’imitazione da parte del cordovese nei confronti del napoletano. Diverso e` il caso dei rapporti tra Marino e Lope de Vega, a proposito dei quali i debiti contratti dal primo hanno permesso a Da´maso Alonso di dare a un suo studio sull’argomento il titolo di Lope despojado por Marino, che suggestivamente suggella quanto gia` si diceva circa l’inversione avvenuta nella direzione dell’influenza. Il prestigio del Tasso, gia` grande nella lirica, non soffre paragoni nel genere epico. Il modello ariostesco aveva dominato in Spagna pressoche´ incontrastato fino al 1590 circa; poi, a partire dall’ultimo decennio del secolo, le dottrine e il modello tassiani cominciano a diffondersi, e riescono a imporsi completamente in pieno XVII secolo. Tale processo prende il via dalla traduzione di Juan de Seden˜o della Gerusalemme liberata, che vide la luce nel 1587, e a cui fecero seguito altre due traduzioni: quella di Cairasco, a pochi anni di distanza, rimasta inedita, e quella di Sarmiento de Mendoza, che fu pubblicata nel 1649. Forse, piu` ancora degli stessi traduttori, a svolgere un ruolo decisivo fu Cristo´bal de Mesa, che in un giovanile soggiorno romano aveva avuto occasione di frequentare direttamente il Tasso; cio` avveniva, tra la fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta, in un periodo in cui a Roma attorno al Tasso si era raccolto un folto gruppo di ammiratori spagnoli, tra i quali Cascales, Virue´s, Baltasar de Escobar, Lo´pez de Aguirre ed altri. L’incontro col Tasso era destinato a risultare determinante sull’evoluzione poetica del Mesa, per il quale il Tasso costituı` il «singular ora´culo de la e´pica poesı´a», come egli stesso scrisse nel prologo della Restauracio´n de Espan˜a. Per tutto cio`, Mesa «si rivela subito come il piu` acceso divulgatore della poetica tassiana»37 sia per quanto attiene alle dottrine sul poema eroico, sia per quello che riguarda la costituzione di 36 37

J.M. Rozas, Sobre Marino y Espan˜a, Madrid, Editora Nacional, 1978. Cito da p. 71. Caravaggi, Studi sull’epica ispanica, cit., p. 238.

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un’epopea nazionale sulla falsariga della Liberata. Mesa fissa le caratteristiche tematiche e formali della nuova epica erudita in tre poemi, il primo dei quali – diviso, come la Liberata, in venti canti – tratta un tema tipico della Reconquista, come indica lo stesso titolo: Las Navas de Tolosa (1594); il secondo, la gia` menzionata Restauracio´ n de Espan˜a (1607), rielabora materiali tasseschi provenienti sia dalla Liberata che dalla Conquistata; il terzo, infine, El patro´n de Espan˜a (1612), che si compone di soli sei canti. Oltre Mesa, il tentativo di costituzione di un poema eroico ispanico fu portato avanti da un’intera generazione di poeti che annoverava Juan de la Cueva, lo stesso Alonso Lo´pez Pinciano, Cristo´bal de Figueroa e, naturalmente, Lope de Vega. Quest’ultimo, che negli anni giovanili aveva gia` tentato la materia ariostesca con Hermosura de Angelica (1602), e` anche l’autore di quella Jerusale´n conquistada (1609), che puo` considerarsi l’imitazione piu` importante del modello tassiano. Tale imitazione della Gerusalemme, di cui Lope utilizza entrambe le versioni, e` evidente nel numero dei ventiquattro canti, nell’idea centrale del poema – il tema delle Crociate –, nella forma metrica, nella ripresa di episodi e situazioni, e perfino nel titolo; e tuttavia i due poemi, pur prescindendo dalla disparita` degli esiti, rivelano significativi contrasti in questioni fondamentali per l’estetica dell’epoca, come per la concezione dell’unita` strutturale del poema, o l’atteggiamento verso la storicita` dell’argomento trattato. A proposito de El pastor de Fı´lida, si e` gia` accennato alla nuova tappa del romanzo pastorale spagnolo negli ultimi due decenni del secolo XVI e nei primi di quello successivo; una tappa che, per quanto riguarda i modelli, fu segnata dalla crescente importanza assunta dall’Arcadia di Sannazaro che divenne, insieme alla Diana di Montemayor, l’indiscutibile modello seguito dagli autori spagnoli del periodo. Bisogna tuttavia precisare che scarsi sono i rapporti con l’opera italiana nella Galatea (1585) di Cervantes, che si colloca pertanto in una linea di perfetta continuita` con la tradizione nazionale; mentre l’Arcadia (1598) di Lope, nell’utilizzare diversi elementi dell’omonima opera italiana, li combina, spesso originalmente, con quelli che trae dalla tradizione spagnola immediatamente anteriore. ` comunque all’inizio del secolo XVII, con le Tragedias de amor E (1607) di Arze Solo´rzano e, sopratutto, con El Siglo de Oro (1608) di Bernardo de Balbuena, che il modello sannazariano trionfa su quello nazionale, il che peraltro significa che la vena «lirica» maggiormente caratteristica del mondo arcadico sannazariano prende il soprav-

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PARTE PRIMA

vento su quella «narrativa» o «romanzesca» della tradizione locale, la quale nel mezzo secolo circa che separa la Diana di Montemayor dall’Arcadia di Lope era andata esaurendo le proprie possibilita`. Del resto, Sannazaro non fu l’unico italiano ad essere imitato, se si tien conto dell’immensa fortuna critica ed editoriale che arrise all’Aminta del Tasso, nella traduzione di Juan de Ja´uregui, e che fu certamente favorita dal grande valore della traduzione medesima, di cui gia` nel Quijote si affermava che «felizmente ponen en duda cua´l es la traduccio´n o cua´l el original» (II, 52). Grande fu anche il debito che la prosa narrativa e il teatro seicenteschi contrassero nei confronti delle raccolte di novelle italiane. La grande novellistica spagnola ha un anno di nascita: quel 1613, anno in cui videro la luce le Novelas ejemplares di Cervantes, il quale nel prologo della raccolta rivendicava a se´ il primato del genere: Yo soy el primero que he novelado en lengua castellana, que las muchas novelas que en ella andan impresas todas son traducidas de lenguas extranjeras, y e´stas son mı´as propias, no imitadas ni hurtadas.

E, infatti, prima di Cervantes troviamo traduzioni dall’italiano o tentativi isolati d’imitazione del modello italiano. Per le prime, se escludiamo il Decameron che circolava in castigliano fin dalla fine del XV secolo, e` negli anni ottanta del secolo successivo che si erano concentrate le traduzioni di alcune importanti raccolte italiane: nel 1583 videro la luce le Piacevoli Notti di Straparola col titolo di Primera parte del honesto y agradable entretenimiento de damas y galanes; nel 1589 una scelta del Novelliere di Bandello fu tradotta in spagnolo, attraverso il francese, e apparve come Historias tra´gicas ejemplares; e l’anno seguente Luis Gayta´n de Vozmediano pubblico` una Primera parte de las cien novelas di Gianbattista Giraldi Cinthio. Quanto ai tentativi d’imitazione, essi erano risultati piuttosto isolati e parziali: accanto al gia` menzionato Patran˜uelo di Timoneda, si dovrebbero citare almeno i racconti in verso del Licenciado Tamariz e, immediatamente prima di Cervantes, le Noches de inverno (1609) di Antonio de Eslava. Ne´ si possono tralasciare quei casi di opere di piu` ampio respiro, in cui gli autori intercalano delle novelle: a volte ci si trova dinanzi ad autentici capolavori del genere, come risulta per le novelle inserite da Mateo Alema´n nel Guzma´n de Alfarache, o dallo stesso Cervantes nella prima parte del Quijote. Le Novelas ejemplares furono dunque all’origine di un fenomeno

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di vera e propria esplosione editoriale del genere novellistico, che duro` pressoche´ inalterato dagli anni venti sino alla fine del secolo. Nelle numerose raccolte che si susseguirono, accanto al modello cervantino, continuo` ad operare l’imitazione delle raccolte italiane, sia per il ricorso alla cornice, l’uso della quale era invece assente dall’opera di Cervantes, sia per la ripresa di specifiche novelle. Lo stesso Lope de Vega, che pur giudicava il genere «ma´s usado de italianos y franceses que de espan˜oles», e che riteneva di esservi poco portato («Yo, que nunca pense´ que el novelar entrara en mi pensamiento»), fu indotto a praticarlo sotto l’insistente invito di Marta de Nevares, alias Marcia Leonarda, per la quale scrisse quattro novelle. E poiche´ era convinto che le raccolte di novelle fossero solo dei «libros de grande entretenimiento» e che, per risultare «ejemplares», dovessero essere scritte da «hombres cientı´ficos», nell’introduzione alla sua seconda novella enuncio` il principio che lo aveva ispirato nella composizione: Ya de cosas altas, ya de humildes, ya de episodios y pare´ntesis, ya de historias, ya de fa´bulas, ya de reprehensiones y ejemplos, ya de versos y lugares de autores pienso valerme, para que ni sea tan grave el estilo que canse a los que no saben, ni tan desnudo de algu´n arte que le rimitan al polvo los que entienden.

Per altro verso, le difficolta` di comporre novelle, per lui che non si era mai dedicato al genere, avrebbero dovuto essere facilmente superabili «habiendo hallado tantas invenciones para mil comedias». La connessione tra i due generi, teatrale e novellistico, e` importante per molte ragioni, la cui trattazione ci porterebbe assai lontano dall’obiettivo di queste pagine; e` pero` il caso di ricordare rapidamente che Lope ricavo` i soggetti di numerose sue commedie da novelle italiane, in particolare da quelle di tre autori: Boccaccio, Bandello e Giraldi Cinthio, e che in generale i novellieri italiani svolsero una funzione non trascurabile nel fornire argomenti alla commedia spagnola del Secolo d’Oro.

4. Un dialogo in periferia: dal melodramma del Metastasio al «momento» dannunziano Con l’arrivo di Elisabetta Farnese, e del nutrito gruppo di parmensi che l’aveva seguita, alla corte madrilena, il teatro italiano – e l’opera

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PARTE PRIMA

soprattutto – vi ebbe uno spazio sempre maggiore, che contribuı` a favorire la fortuna del melodramma di Pietro Metastasio, a partire dagli anni trenta del secolo. Ne´ a tale fortuna e` estraneo il fatto che a rappresentarne i melodrammi nei giardini del Buen Retiro fosse stato chiamato il piu` celebre tenore dell’epoca, Carlo Broschi, detto il Farinello. Rappresentazioni e traduzioni, comunque, non furono limitate al periodo della Farnese; anzi, la fortuna del Metastasio, che duro` settant’anni circa, raggiunse le punte di massima intensita` nella seconda meta` del secolo, piu` precisamente nel ventennio 1750-1769. Numerose furono le traduzioni, alcune delle quali – spesso accompagnate dal testo italiano – furono piu` volte ristampate. Qualcuna di esse merito` l’attenzione di piu` di un autore: tale fu il caso de L’isola disabitata tradotta nientemeno che da Jovellanos, Ramo´n de la Cruz e F. Sa´nchez Barbero. A tale fortuna non fu da meno il Metastasio lirico, specie l’autore di celebri canzonette, quali La liberta` e La partenza, che conobbero traduzioni e imitazioni da parte dei migliori poeti spagnoli, tra cui Mele´ndez, Cienfuegos e Arriaza. Allo stesso Metastasio, che l’aveva utilizzata nelle canzonette e nelle arie dei melodrammi, deve la propria diffusione un tipo di strofa che, conosciuta col nome di octavilla italiana, fu largamente usata dai poeti romantici spagnoli. Il neoclassicismo conobbe presto la sua teorizzazione con la Poe´tica di Ignacio de Luza´n, che si pubblico` nel 1737 ed esercito` un’influenza decisiva sui poeti neoclassici spagnoli. Luza´n, che era vissuto a lungo in Italia, dove peraltro aveva composto il primo abbozzo della Poe´tica, quei sei Ragionamenti sulla poesia scritti in italiano che lesse pubblicamente a Palermo nel 1728; Luza´n – dicevo – da` prova nella sua Poe´tica di conoscere bene la trattatistica italiana, a cui fa spesso riferimento, menzionando sia i piu` antichi commentatori della Poetica aristotelica, sia gli autori suoi contemporanei, tra cui Orsi, il conte Monsignani, Gravina e, soprattutto, il Della perfetta poesia del Muratori. Sembra, comunque, certo che l’influenza italiana sia stata indebitamente sopravvalutata, a svantaggio delle fonti classiche, e che si debba ritenere che: Luza´n adotto` delle teorie poetiche senza prestare alcuna attenzione alla nazionalita` delle loro fonti, perche´, in quanto legislatore poetico, la sua prima lealta` era – doveva per forza essere – nei confronti della tradizione occidentale. Se dopo Aristotele e gli altri antichi Luza´n si riferiva con maggiore frequenza agli italiani, cio` era dovuto solo al fatto che in

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Italia, piu` che in qualsiasi altro paese moderno, c’era stata una forte tradizione di commenti sulla Poetica aristotelica38.

Col regno di Carlo III, a partire dal 1759, i contatti con l’illuminismo italiano, milanese e napoletano, si fanno piu` significativi, soprattutto nell’ambito economico-giuridico. Dal 1774, anno in cui si pubblico` la traduzione del famoso trattato del Beccaria, Dei delitti e delle pene, fino alla fine degli anni ottanta, furono tradotte diverse opere degli illuministi italiani, tra cui quelle del Filangieri, del Geno` ovvio, comunque, che queste versioni attestano vesi e del Galiani. E un interesse tardivo, e che quasi tutte le opere tradotte dovettero circolare ed essere conosciute negli ambienti riformatori spagnoli nella lingua originale. Stando soprattutto alla testimonianza contenuta nei Diarios di Jovellanos, in ambito religioso, una certa ripercussione dovettero avere le opere del teologo Pietro Tamburini; mentre, a giudicare dal numero di traduzioni ed edizioni, una notevole diffusione ebbero le opere del Muratori di contenuto religioso e morale, quali La devocio´n arreglada del cristiano o La Filosofı´a moral. Agli anni settanta appartiene pure un episodio di storia culturale reso famoso dal racconto che ne fece Leandro F. de Moratı´n nella biografia di suo padre, Nicola´s. All’indomani della caduta del conte di Aranda, nel 1772, un gruppo di intellettuali spagnoli tra i quali lo stesso Nicola´s, i poeti Iriarte e Cadalso, e numerosi altri, prese a riunirsi nella «Fonda de San Sebastia´n», nella madrilena strada che portava lo stesso nome. Alla «tertulia», in cui si discuteva di diversi temi di politica culturale, e molto di teatro, parteciparono anche alcuni eruditi italiani residenti nella capitale. Costoro, tra i quali si trovavano Pietro Napoli Signorelli e Giambattista Conti, che svolsero un apprezzabile ruolo di mediazione tra le letterature dei due paesi, portarono nelle conversazioni puntuali ragionamenti sulla poesia petrarchista e rinascimentale; e tra le letture di poesia italiana ci furono «muchos sonetos y canciones de Frugoni, Filicaja, Chiabrera, Petrarca, y algunos cantos del Tasso y del Ariosto», sempre secondo la testimonianza di Leandro. A parte i poeti di epoche passate, i contemporanei citati – Filicaia e Frugoni – fecero parte della romana Accademia degli Arcadi, a cui non a caso apparteneva, in qualita` di ` chiaro che socio corrispondente, lo stesso Nicola´s F. de Moratı´n. E 38 R.P. Sebold, Ana´lisis estadı´stico de las ideas poe´ticas de Luza´n: Sus orı´genes y su naturaleza, in El rapto de la mente, Madrid, Editorial Prensa Espan˜ola, 1970, pp. 57-97. Cito da p. 89.

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PARTE PRIMA

la «Fonda» non fu un’accademia ne´ una scuola poetica; l’importanza dell’episodio – per quanto ci riguarda – consiste piuttosto nel segnalare che la lirica italiana continuo` a costituire per i neoclassici spagnoli un valido modello, alla cui configurazione contribuivano sia gli arcadi settecenteschi, sia – e in misura forse maggiore – i classici da Petrarca a Tasso. Sulla fortuna del teatro italiano, a proposito del Metastasio, si e` gia` detto; una fortuna certo piu` limitata arrise al teatro del Goldoni, del quale sono testimoniate le rappresentazioni di una trentina di drammi giocosi e di una quarantina di commedie nei teatri barcellonesi, piu` ancora che in quelli della capitale, ma anche in teatri ` significativo, comunque, che a diffondersi in Spagna, a minori. E partire della meta´ del secolo, furono per primi i drammi musicali: evidentemente, il teatro del veneziano s’inseriva nel cammino aperto dal melodramma metastasiano. Solo nel 1770, o – se si preferisce – nel 1765 con la rappresentazione de La esposa persiana, ebbe inizio una seconda fase caratterizzata dalla diffusione della commedia propriamente detta. Eppure, nonostante una tale presenza, sono minime le tracce che il commediografo veneziano ha lasciato nelle opere dei due maggiori autori di teatro: Leandro F. de Moratı´n e Ramo´n de la Cruz. Tanto piu` che entrambi conoscevano bene e ammiravano molto il teatro dell’italiano; il primo ci ha lasciato, tra l’altro, un ammirato ricordo dell’incontro che ebbe, lui ventisettenne, col commediografo ormai ottuagenario a Parigi nel 1787; il secondo fu addirittura il piu` importante traduttore del Goldoni nel XVIII secolo: alle sue traduzioni e adattamenti si deve in buona misura la diffusione spagnola dei drammi giocosi. Minimi, oltreche´ dubbi, sono anche i contatti segnalati tra la poesia del Parini e alcuni autori spagnoli, tra i quali Jovellanos, lo stesso Leandro, e Cadalso. Si sa che nel 1796, un certo Antonio Ferna´ndez Palazuelo tradusse le prime parti del Giorno, ma la sua traduzione non ebbe diffusione alcuna, tant’e` che fino ad epoche recenti si dubitava che fosse stata persino pubblicata. La relazione tra l’ode del Parini, L’innesto del vaiuolo (1765) e quella di Manuel Jose´ Quintana, A la expedicio´n espan˜ola para propagar la vacuna en Ame´rica bajo la direccio´n de don Francisco Balmis, proverebbe che la poesia del Parini dovette attendere i primi anni del XIX secolo per essere valorizzata; una sorte, del resto, che condivise col teatro dell’Alfieri. A proposito di quest’ultimo, le sue tragedie raggiunsero la notorieta` in Spagna solo nel cinquantennio circa che seguı` alla sua morte. Il

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periodo di massima diffusione, comunque, si ebbe tra il 1805 e il 1823. Al 1805, difatti, risalgono le prime traduzioni della Congiura dei Pazzi, e della Virginia; ben presto seguiranno le rappresentazioni affidate all’interpretazione di Isidoro Ma´iquez, uno dei maggiori attori del tempo: quelle del Polinice (1806) e dell’Oreste (1807), su testi tradotti, rispettivamente, da Antonio Savin˜o´n e Dionisio Solı´s. A partire dall’invasione francese del 1808, Alfieri era destinato a diventare il drammaturgo della lotta contro Napoleone. In tale contesto si collocano le rappresentazioni nel 1812, prima a Cadice e poi a Madrid, del Bruto primo, che nella traduzione spagnola fu significativamente ribattezzato Roma libre, e nel 1813 della Virginia, nella traduzione di Dionisio Solı´s. A partire dal 1823, i maggiori diffusori del teatro alfieriano (Savin˜o´n, Ma´iquez, Sa´nchez Barbero) subirono le conseguenze della restaurazione fernandina, ma l’interesse per le opere dell’Alfieri perduro` in varie forme fino alla meta` del secolo. Una tale «falta de sincronı´a en relacio´n con el gusto dominante» – come l’ha definita Arce – non caratterizza solo il caso dell’Alfieri, ma anche quelli del Parini e, in misura minore, del Metastasio e del Goldoni; e ancora di piu` si verifichera` nel caso del Leopardi, a proposito del quale si puo` parlare di una sua diffusione in Spagna solo alla fine del secolo. Ma tornando ai primi decenni dell’Ottocento, la letteratura italiana ben poco incide su quel «gusto strano, che sembra preso dal francese, dal tedesco e dall’inglese», che – secondo Manuel Jose´ Quintana – va affermandosi nella penisola iberica. Anche se e` opportuno distinguere l’area catalana dal resto della penisola. In Catalogna, infatti, il contributo italiano alla cultura romantica e` sicuramente piu` consistente, come testimonia una serie di fattori ed episodi, che dalla fondazione dell’Europeo giunge fino agli studi di Mila` y Fontanals: la breve vita, negli anni 1823-24, di un giornale quale El Europeo, che ebbe forti legami e affinita` con il milanese Conciliatore, e che fra i suoi principali redattori contava due italiani, Luigi Monteggia e Fiorenzo Galli, provenienti appunto dalla rivista lombarda; la presenza di intellettuali come Lo´pez Soler che diresse la nuova rivista barcellonese El Vapor (1833-35) dove ritrovo` espressione l’italianismo lombardo, e come Aribau, a cui si deve una traduzione parziale dell’Ildegonda di Tommaso Grossi (opera che peraltro Monteggia aveva ampiamente presentato sulle pagine dell’Europeo), e al cui stimolo dobbiamo la traduzione de I promessi sposi di Juan Nicasio Gallego, numerose volte ristampata a partire dagli anni 1836-37; la pubblicazione da parte di Joan Cortada della tradu-

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PARTE PRIMA

zione catalana de La fuggitiva dello stesso Grossi, nel 1834, e di quella castigliana de La disfida di Barletta di Massimo D’Azeglio, nel 1836; l’interesse per il Manzoni mostrato, prima, da Jose´ Quadrado, autore della traduzione degli Inni sacri e di uno dei primi saggi stranieri su I promessi sposi, uscito sul settimanale maiorchino La palma nel 1841, e, successivamente, dal filologo e romanista Mila` y Fontanals, che fu un vero cultore dell’opera del milanese. Fuori di Catalogna, la letteratura romantica e` piu` tardiva: per muovere i primi decisivi passi deve attendere il ritorno, nel l833, degli intellettuali liberali esiliati in Francia ed Inghilterra, e di conseguenza molto deve alla letteratura di questi due paesi. L’interesse per le opere italiane e` limitato al romanzo storico di Grossi, D’Azeglio, Cantu` e Guerrazzi; ai libri di storia dello stesso Cantu`, oltre che di Colletta e Botta; agli scritti di vario genere di Silvio Pellico, il cui successo duro` per piu` di un trentennio. Insieme a Cantu` e Pellico, e` comunque Alessandro Manzoni l’autore piu` conosciuto in Spagna. Si e` gia` accennato alla presenza del Manzoni in area catalanomaiorchina, dove la sua sorte – resa inseparabile da quella di Tommaso Grossi, avvolta nella musica di Bellini e Donizetti, con Scott come costante pietra di paragone – oscillo` tra «la bolgia di Dante e i pinnacoli di Gaudı´», da un lato, e «la riduzione sentimentale della media degli uomini onesti, rappresentati dal Llausa´s», dall’altra. Cosı` si e` espresso Oreste Macrı` nella sua monografia sulla Varia fortuna del Manzoni in terre iberiche39. Con la prima delle due espressioni, l’ispanista italiano alludeva a una lettura del Manzoni che, in contrasto con le posizioni moderate e concilianti assunte da Monteggia e Galli sull’Europeo, andava prendendo consistenza sulle pagine del Vapor; si trattava di una lettura byroniana, per cosı` dire, che nell’opera dello scrittore milanese tendeva a mettere in risalto «quell’eloquenza delle passioni che da` origine a personaggi veementi, contrapposizioni acute, scene di forte chiaroscuro», e che sarebbe risultata in sintonia col futuro sviluppo dell’arte catalana. In secondo luogo, si alludeva all’atteggiamento di Jose´ Llausa´s, autore di una Resen˜a crı´tica de la literatura italiana contempora´nea (1841), nella quale Manzoni risultava ridimensionato a discepolo di Scott, allo stesso livello di un Tommaso Grossi, al quale andavano peraltro le maggiori simpatie, e, in sostanza, a uno scrittore per nulla paragonabile agli «hombres gigan39

O. Macrı`, Varia fortuna del Manzoni in terre iberiche (con una premessa sul metodo comparatistico), Ravenna, Longo, 1976.

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´ RATURE» «LA FORTUNE D’UNE LITTE

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tes literarios» sia dell’antica tradizione italiana, che di quella contemporanea francese, inglese e tedesca. A un tale ridimensionamento si puo` intendere che reagı` la «critica oggettiva» di un Quadrado o di un Mila`, che nei loro studi riportarono il Manzoni nel piu` ampio raggio del romanticismo europeo. Assai piu` ridotto fu il ruolo che il Manzoni ebbe nel romanticismo spagnolo, anche a causa del carattere che quest’ultimo assume, come ben spiega Macrı`: «il Manzoni non poteva entrare come componente di fondo nella linea chimericofatalista dal Don Alvaro al Don Juan, la linea che la letteratura centrale sentı´ come unica carta possibile nel gioco creativo del romanticismo europeo»40. I promessi sposi vi furono, comunque, presto conosciuti: in un primo momento nella pessima e mutilata traduzione di Fe´lix Enciso Castrillo´n, del 1833; poi, per fortuna, venne la traduzione assai piu` corretta, e piu` volte ristampata, di Juan Nicasio Gallego, un canonico di Siviglia, che fu stimolato all’impresa da Aribau. A partire dalla meta` del secolo seguirono altre traduzioni. Scarsissime furono invece le imitazioni, che si limitano a quelle registrate nel racconto leggendario El lago de Carucedo (Tradicio´n popular) di Enrique Gil y Carrasco, e, in misura minore, nel romanzo El Sen˜or de Bembibre dello stesso autore, e infine nel romanzo storico di area periferica, Ave Maris Stella, di Amo´s di Escalante. Una menzione a parte merita lo straordinario successo che riscosse l’ode napoleonica Il Cinque maggio, di cui si conoscono ben ventisei versioni distinte, anche se le piu` diffuse – da quella di Rubı´ a quella di Llausa´s – coprono gli anni 1844-68 (e la prima catalana e` addirittura del 1867): un’epoca piuttosto tardiva, che si spiega probabilmente con l’atteggiamento antifrancese e antinapoleonico della storia e della cultura spagnola. In tutta la prima meta` del secolo XIX, nella cultura spagnola non vi e` alcuna traccia di Leopardi, neppure la semplice menzione. La valutazione critica della sua poesia ha inizio poco dopo la meta` del secolo, col saggio di Juan Valera, Sobre los cantos de Leopardi (1855), e continuo`, a un quindicennio di distanza, con le riflessioni di Jose´ Alcala´ Galiano contenute in Poetas lı´ricos del XIX: Leopardi, e con quelle che Mene´ndez Pelayo gli dedico` – a cavallo tra i due secoli – in vari suoi scritti. Posteriore e, in parte, contemporanea a tale valutazione critica e` la presenza di un leopardismo – certo, tardivo – nella poesia spagnola: negli ultimi due o tre decenni del secolo XIX, 40

Ivi, p. 36.

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

PARTE PRIMA

e` dato riscontrare tracce della poesia o del pensiero leopardiani in poeti non di primo piano, come Joaquim Maria Bartrina e Federico Balart, cosı` come il «diffuso leopardismo» d’inizio secolo XX e` tanto piu` evidente in poeti periferici come, per esempio, Carlos Ferna´ndez Shaw. Numerosi sono i riferimenti al poeta italiano nelle opere di Unamuno, che diede prova di una vera devozione nei suoi confronti. Le preferenze andarono a «La ginestra» – che tradusse – e al «Canto notturno di un pastore errante dell’Asia», echi del quale si ritrovano nella poesia «Aldebara´n». Piu` in generale, bisogna riconoscere un fatto che lo stesso Unamuno ribadı` in piu` di una occasione, vale a dire che «il verso libero leopardiano e la sua sobrieta` nell’uso della rima hanno contribuito – com’e` noto – alla liberta` delle strutture formali nelle prime poesie unamuniane»41. Unamuno ebbe vaste conoscenze della letteratura italiana, come dimostrano le ricerche di Foresta e di Gonza´lez Martı´n. La stessa devozione, se non maggiore, che provava per Leopardi, l’ebbe – tra i poeti italiani suoi contemporanei – per Carducci, mentre per D’Annunzio nutrı` sempre una profonda avversione, che si spinse fino all’insulto, come quando lo definı` «insoportable comediante, vano y hueco», in uno scritto non a caso dedicato a Carducci, in occasione della sua morte. Carducci fu conosciuto e ammirato in Spagna soprattutto negli ambienti liberali e democratici, dove pero` la sua opera letteraria era meno nota dell’attivita` politica. Si sa dell’entusiasmo che il poeta e canonico maiorchino, Miguel Costa y Llobera, riservo` alle Odi barbare, la cui lezione metrica gia` accolta nelle poesie in castigliano che formano il volume Lı´ricas (1879), risulta pienamente assimilata nella raccolta Horacianes (1906), in catalano. In ogni caso, come ha scritto Vari, «el encuentro Carducci-Unamuno es sin duda alguna el episodio ma´s importante del carduccianismo espan˜ol»42. I primi contatti con l’opera del poeta maremmano dovevano risalire al 1891, anche se le menzioni ad essa s’infittirono nel periodo 1904-10, e si spinsero con frequenza minore fino al 1936, anno in cui e` datata l’ultima menzione del Carducci. Benche´ ne conoscesse approfonditamente l’opera, Unamuno non sfuggı` al fascino di una personalita`, per la quale Carducci era spesso noto piu` che per la stessa opera, come si e` gia` accennato: cio` almeno fanno presupporre alcuni giudizi del basco, tra i quali il seguente:

41 J. Arce, Leopardi en la crı´tica y la poesı´a espan˜olas, in Literaturas italiana y espan˜ola frente a frente, Madrid, Espasa-Calpe, 1982, pp. 316-32. Cito da p. 328. 42 V. B. Vari, Carducci y Espan˜a, Madrid, Gredos, 1963. Cito da p. 217.

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«Carducci, el hombre indomable e intege´rrimo, el gran ciudadano de Italia, el excelso poeta civil, cuya grandeza como poeta le proviene de su grandeza como hombre y como italiano». Di Carducci, Unamuno tradusse le due poesie: «Miramare» e «Su Monte Mario»; frequenti risultano i riferimenti al concetto carducciano di «rima rigeneratrice» che lo spagnolo prima rifiuto` e, successivamente, a partire dagli anni 1909-10, accetto` e pratico`; dal 1904, anno a cui risale la traduzione di «Miramare», l’uso della strofa saffica divenne maggiormente frequente nella poesia di Unamuno: il fenomeno, che pur si potrebbe spiegare attraverso un rinnovato legame con la tradizione poetica spagnola, non deve comunque ritenersi estraneo alla lezione metrica carducciana, se lo stesso Unamuno, in una lettera a Carlos Vaz Ferreira scrive «en mis Poesı´as vera´s muchos sa´ficos al modo carducciano»; l’influsso si fa ancora piu` evidente nella successiva raccolta, Rosario de sonetos lı´ricos, del 1911. La diffusione di D’Annunzio in Spagna ebbe come canale principale la letteratura ispanoamericana, e in particolare l’opera di Rube´n Darı´o, che esercito` una notevole influenza sugli esponenti del modernismo. Nelle Prosas profanas, che Darı´o pubblico` a Buenos Aires nel 1896, e` gia` possibile riscontrare le prime tracce di dannunzianesimo, quando nessuna delle poche opere in verso pubblicate dall’italiano e nessuno dei suoi romanzi erano stati ancora tradotti in spagnolo. A cominciare da L’Innocente, le traduzioni videro la luce a partire dal 1900, lo stesso anno in cui Darı´o compı` il suo primo viaggio in Italia, che doveva dar luogo a quel Diario dove i riferimenti a D’Annunzio ` questo il periodo di maggiore influsso dannunsi fanno frequenti. E ziano, che – insieme alla poesia del Carducci – dovette spronarlo all’uso della metrica barbara, e che culmino` col Canto a la Argentina, dove si nota una relazione soprattutto con le Laudi. Attraverso la lezione di Rube´n Darı´o, il dannunzianesimo giunge a due poeti modernisti: Francisco Villaespesa, di cui interessano – dal nostro punto di vista – soprattutto le raccolte La copa del rey de Tule ed El alto de los bohemios, entrambe degli ultimissimi anni del secolo, e Manuel Machado, a proposito del quale piu` che di concreti contatti testuali si e` parlato di «un temperamento estrechamente afı´n al de D’Annunzio»43. Una breve menzione merita pure la lirica di Ramo´n Pe´rez de Ayala, in cui gli echi dannunziani risultano, spesso inestri43

F. Meregalli, D’Annunzio en Espan˜a, in «Filologı´a Moderna», 15-16 (1964), pp. 26589. Cito da p. 275.

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PARTE PRIMA

cabilmente, intrecciati a quelli che risalgono alla poesia di Whitman. In Pe´rez de Ayala, peraltro, sono maggiormente presenti i rapporti con la poesia dell’Alcyone, una raccolta che per il resto aveva ricevuto scarsa attenzione. L’episodio piu` significativo del dannunzianesimo spagnolo resta, comunque, l’opera di Ramo´n del Valle Incla´n. La lettura di D’Annunzio si avverte gia` nei racconti di Femeninas (1895) e nell’Epitamio (1897), anche se le suggestioni dannunziane si fanno piu` consistenti nelle Sonatas, specialmente in quella de primavera, e nelle Comedias ba´rbaras, la prima delle quali e` del 1907. Successivamente D’Annunzio e` scarsamente presente in Valle Incla´n; e, piu` in generale, un atteggiamento di disinteresse per l’opera dell’italiano e la fine di quel «momento» dannunziano, come gia` nel 1895 l’aveva definito con qualche esagerazione Andre´s Gonza´lez Blanco, si verificano intorno al 1920, quando la cultura spagnola aveva come punto di riferimento intellettuali come D’Ors, Jime´nez, Antonio Machado e, sopratutto, Ortega y Gasset, tutti caratterizzati da un radicale disinteresse per l’opera dannunziana. A tale atteggiamento sfugge, forse, il solo teatro: nel 1930, Ricardo Baeza inizia la pubblicazione del Teatro completo di D’Annunzio, un’opera progettata in dieci volumi, di cui vedranno la luce unicamente i primi due, che peraltro contengono traduzioni dello stesso Baeza e di Villaespesa risalenti agli anni 1906-1911. Non a caso il teatro di Garcı´a Lorca che forse conosceva i due volumi di Baeza e` l’ultima manifestazione letteraria in cui non e` escluso che si possa rinvenire qualche elemento di provenienza dannunziana.

Nota bibliografica Nella premessa cito C. Guille´n, L’uno e il molteplice. Introduzione alla letteratura comparata, Bologna, Il Mulino, 1992. Trattazioni generali, anche se non sistematiche, sono le seguenti: A. Farinelli, Italia e Spagna, Torino, Bocca, 1929, 2 voll.; J.G. Fucilla, Relaciones hispanoitalianas, Madrid, C.S.I.C., 1953; F. Meregalli, Le relazioni tra la letteratura italiana e la spagnola. I.: fino all’abdicazione di Carlo V, Venezia, Libreria Universitaria, 1961; Id., Storia delle relazioni letterarie tra Italia e Spagna. II, fasc. 2: La letteratura italiana in Spagna nell’epoca di Filippo II, Venezia, Libreria Universitaria, 1967; III: 1700-1859, ivi, 1962; IV: del 1859, ivi, 1963; IV, fasc. 2: la letteratura italiana in Spagna nel sec. XX, ivi, 1964; si veda anche la sintesi dello stesso Meregalli, La ricezione delle letterature occidentali nella letteratura spagnola. La letteratura italiana in F. Meregalli (a cura di) Storia della civilta` letteraria spagnola, Torino, UTET, 1990, vol. II, pp. 1056-69; J. Arce, Literaturas italiana y espan˜ola frente a frente, Madrid, Espasa-Calpe, 1982. Un repertorio

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bibliografico ancora utile e`: J. Siracusa-L. Laurenti, Relaciones literarias entre Espan˜a e Italia, Boston, Hall, 1972. L’epistola al connestabile di Portogallo e` citata nella recente edizione El «Prohemio e Carta» del marque´s de Santillana y la teorı´a literaria del s. XV, a c. di A. Go´mez Moreno, Barcelona, PPU, 1990; mentre la lettera al figlio lo e` da I. Lo´pez de Mendoza, marque´s de Santillana, Obras completas, a c. di A. Go´mez Moreno e M.P.A.M. Kerkhof, Barcelona, Planeta, 1988, pp. 455-57. Su quest’ultima lettera, cfr. F. Rico, El quiero y no puedo de Santillana, in Primera cuarentena y tratado general de literatura, Barcelona, El festı´n de Esopo, 1982. Sulla biblioteca del marchese, lo studio classico e` M. Schiff, La bibliothe`que du Marquis de Santillane, Paris, Ecole Pratique des Hautes Etudes, 1905. Sulla traduzione della Commedia di E. de Villena, cfr. J.A. Pascual, La traduccio´n de la «Divina Commedia» atribuida a D. Enrique de Arago´n, Salamanca, Un. de Salamanca, 1974; J.A. Pascual e R. Santiago Lacuesta, La primera traduccio´n castellana de la «Divina Commedia»; argumentos para la identificacio´n de su autor, in Serta Philologica F. La´zaro Carreter, vol. II, Madrid, Ca´tedra, 1983, pp. 391-402; e il recente contributo di C. Zecchi, La traduzione della Commedia dantesca attribuita a Enrique de Villena: il «Paradiso», in «Annali di Ca’ Foscari», XXVII (1988), pp. 327-45. Per F. Imperial, oltre a G. Caravaggi, Francisco Imperial e il ciclo della «Stella Diana», in M. Picone (a cura di), Dante e le forme dell’allegoresi, Ravenna, Longo, 1987, pp. 149-68, si veda l’ed. del Dezir a las siete virtudes y otros poemas, a c. di C.J. Nepaulsingh, Madrid, Espasa-Calpe, 1977, a cui si rimanda per ulteriore bibliografia sull’autore. Sull’italianismo del marchese di Santillana e di Juan de Mena, e` d’obbligo il rinvio agli studi classici di R. Lapesa, La obra literaria del Marque´s de Santillana, Madrid, Insula, 1957, e M. R. Lida de Malkiel, Juan de Mena poeta del prerrenacimiento espan˜ol, Me´xico, El Colegio de Me´xico, 1950. Su Petrarca in Spagna, si veda F. Rico, Cuatro palabras sobre Petrarca en los siglos XV y XVI, in Convegno Internazionale Francesco Petrarca, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1976, pp. 49-58; e, per una diversa ipotesi sulla sua prima diffusione, A.D. Deyermond, The Petrarchan Sources of «La Celestina» (1961), Westport, Greenwood Press, 1975, (soprattutto il cap. «Petrarch’s Latin Works in Spain and Portugal»). Un’utile raccolta di prose petrarchesche, contenente i testi dei volgarizzamenti dell’anonimo traduttore del De vita, di Talavera e di F. de Madrid, e` F. Petrarca, Obras I. Prosa, a c. di F. Rico, Madrid, Alfaguara, 1978. Cfr. anche P.E. Rusell, Francisco de Madrid y su traduccio´n del «De remediis» de Petrarca, in Estudios sobre literatura y arte dedicados al profesor E. Orozco Dı´az, vol. III, Granada, Universidad de Granada, 1979, pp. 203-20. Per la presenza di Petrarca nella poesia quattrocentesca, cfr. R. Lapesa, Poesı´a de cancionero y poesı´a italianizante (1962), in De la Edad Media a nuestros dı´as, Madrid, Gredos, 1971, pp. 145-71; e F. Rico, Variaciones sobre Garcilaso y la lengua del petrarquismo, in AA.VV., Doce consideraciones sobre el mundo hispanoitaliano en tiempos de Alfonso y Juan de Valde´s, Roma, Publicaciones del Instituto Espan˜ol de Lengua y Literatura, 1979, pp. 115-30. Dei sonetti del marchese di Santillana esistono tre recenti edd.: di J. Sola´-Sole´, Barcelona, Puvill, 1980; di M.P. Kerkhof e D. Tuin, Madison, Medieval Hispanic Seminary, 1985; dello stesso Kerkhof, Madrid, Ca´tedra, 1986. Ad esse si rinvia per ulteriore bibliografia sull’argomento. Su Boccaccio in Spagna, si veda J. Arce, Boccaccio nella letteratura castigliana: panorama generale e rassegna bibliografico-critica, in Il Boccaccio nelle culture e letterature nazionali, Firenze,

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PARTE PRIMA

Olschki, 1978, pp. 63-105. Sulle traduzioni delle opere latine del Boccaccio: per il De Casibus, F. Ferna´ndez Murga, El Canciller Ayala, traductor de Boccaccio, in Estudios roma´nicos dedicados al prof. A. Soria Ortega, vol. I, Granada, Un. de Granada, 1985, pp. 313-24; E.W. Naylor, Pero Lo´pez de Ayala’s Translation of Boccaccio’s «De casibus», in Hispanic Studies in Honor of Alan D. Deyermond. A North American Tribute, Madison, Medieval Hispanic Seminary, 1986, pp. 205-15; e B. Mion, Per un’edizione critica della traduzione spagnola del «De Casibus virorum illustrium», in «Annali di Ca’ Foscari», XXVIII, 1-2, 1989, pp. 263-80; per le Genealogie, J. Piccus, El traductor espan˜ol de «De Genealogia deorum», in Homenaje a Rodrı´guez Mon˜ino, vol. II, Madrid, Gredos, 1966, pp. 59-75; per il De mulieribus, F. Ferna´ndez Murga e J.A. Pascual, La traduccio´n espan˜ola del «De Mulieribus Claris» de Boccaccio, in «Filologı´a Moderna», LV (1975), pp. 499-511; degli stessi autori, Anotaciones sobre la traduccio´n espan˜ola del «De Mulieribus Claris» de Boccaccio, in «Studia Philologica Salmanticensia», I (1977), pp. 53-64; e l’ed. a c. di G. Boscaini, La traduzione spagnola del «De mulieribus claris», Verona, Un. di Verona, 1985. Sui rapporti tra novela sentimental e Boccaccio, cfr. C. Samona`, Studi sul romanzo sentimentale e cortese nella letteratura spagnola del Quattrocento, Roma, Carucci, 1960. Per la traduzione della Fiammetta, cfr. Juan Bocacio, Libro de Fiameta, a c. di L. Mendia Vozzo, Pisa, Giardini, 1983. Sulla penetrazione della cultura umanistica in Spagna sono fondamentali i lavori di F. Rico: Nebrija frente a los ba´rbaros, Salamanca, Un. de Salamanca, 1978; Un pro´logo al Renacimiento espan˜ol, in Homenaje al profesor Marcel Bataillon, Sevilla, Universidad de Sevilla-Universite´ de Bordeaux III, 1979, pp. 59-94; e Ima´genes del Prerrenacimiento espan˜ol: Joan Roı´s de Corella y la «Trage`dia de Caldesa», in Homenaje a Horst Baader, Frankfurt-Barcelona, Hogar del libro, 1984, pp. 15-27. Per un giudizio diverso da quello di Rico sul «prehumanismo espan˜ol», cfr. O. Di Camillo, El humanismo castellano del siglo XV, Valencia, F. Torres, 1976. Sulle innovazioni poetiche nei primi decenni del Cinquecento, cfr. F. Rico, A fianco di Garcilaso: poesia italiana e poesia spagnola nel primo Cinquecento, in «Studi Petrarcheschi», IV (1987), pp. 229-36. Sui rapporti italiani del teatro di Torres Naharro e Juan del Encina, si veda almeno O. Arro´niz, La influencia italiana en el nacimiento de la comedia espan˜ola, Madrid, Gredos, 1969. Su Alonso de Palencia e la concezione umanistica della storiografia, si vedano gli studi di R.B. Tate: Alonso de Palencia y los preceptos de la historiografı´a, in V. Garcı´a de la Concha (a cura di), Nebrija y la introduccio´n del Renacimiento en Espan˜a, Salamanca, Un. de Salamanca, 1983, pp. 37-51; Las «De´cadas» de Alonso de Palencia: un ana´lisis historiogra´fico, in Estudios dedicados a James Leslie Brooks, Barcelona, Puvill, 1984, pp. 223-41. Sulla geografia umanistica, cfr. F. Rico, El nuevo mundo de Nebrija y Colo´n. Notas sobre la geografı´a humanı´stica y el contexto intelectual del descubrimiento de Ame´rica, in Nebrija y la introduccio´n, cit., pp. 157-85. Sull’uso delle fonti petrarchesche nella Celestina, cfr. il gia` menzionato Deyermond, The Petrarchan Sources of «La Celestina». Per l’abbondante bibliografia sul petrarchismo spagnolo, cfr. il ricco repertorio di M. P. Manero Sorolla, Introduccio´n al estudio del petrarquismo en Espan˜a, Barcelona, PPU, 1987. Nel testo mi sono esplicitamente riferito a: J.G. Fucilla, Estudios sobre el petrarquismo en Espan˜a, Madrid, CSIC, 1960; G. Caravaggi, Alle origini del petrarchismo in Spagna, in «Miscellanea di studi ispanici», XXIV (1971-73), pp. 7-101; C. Guille´n, Sa´tira y poe´tica en Garcilaso (1972), in El primer Siglo de Oro. Estudios sobre ge´neros y modelos, Barcelona, Crı´tica, 1988, pp. 15-48; E.L.

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Rivers, L’humanisme linguistique et poe´tique dans les lettres espagnoles du XVI e sie`cle, in A. Redondo (a cura di), L’humanisme dans les lettres espagnoles, Paris, Vrin, 1979, pp. 169-76; F. Rico, El destierro del verso agudo (con una nota sobre rimas y razones en la poesı´a del Renacimiento), in Homenaje a Jose´ Manuel Blecua, Madrid, Gredos, 1983, pp. 525-51. La Carta a la duquesa de Soma si cita nell’ed. delle Obras poe´ticas di Juan Bosca´n, a c. di M. de Riquer, A. Comas, J. Molas, Barcelona, CSIC, 1957. Sulla traduzione del Cortegiano, cfr. lo studio esemplare di M. Morreale, Castiglione y Bosca´n: el ideal cortesano en el Renacimiento espan˜ol, 2 voll., Madrid, Real Academia Espan˜ola, 1959; per il testo, B. Castiglione, El Cortesano, traduccio´n de J. Bosca´n, Madrid, CSIC, 1942. Sul Do´rida, cfr. E. Asensio, Damasio de Frı´as y su «Do´rida», Dia´logo de Amor. El italianismo en Valladolid, in «Nueva Revista de Filologı´a Hispa´nica», XXIV, 1975, pp. 219-34. Sulla riflessione linguistica cinquecentesca, e` fondamentale L. Terracini, Lingua come problema nella letteratura spagnola del Cinquecento (con una frangia cervantina), Torino, Stampatori, 1979. Sull’epica rinascimentale spagnola fino alla diffusione del Tasso, si vedano: A. Prieto, Origen y transformacio´n de la e´pica culta en castellano, in Coherencia y relevancia textual. De Berceo a Baroja, Madrid, Alhambra, 1980, pp. 117-78; M. Chevalier, L’Arioste en Espagne (1530-1650), Bordeaux, Universite´ de Bordeaux, 1966; G. Caravaggi, Studi sull’epica ispanica del Rinascimento, Pisa, Universita` di Pisa, 1974. Sulle traduzioni dell’Arcadia di Sannazaro, cfr. R. Reyes Cano, «La Arcadia» de Sannazaro en Espan˜a, Sevilla, Universidad de Sevilla, 1973. Sulla diffusione del genere epistolare, oltre a F. Rico, Introduccio´n a Lazarillo de Tormes, Madrid, Ca´tedra, 1987, si vedano anche D. Yndura´in, Las cartas en prosa e J.N.H. Lawrance, Nuevos lectores y nuevos ge´neros: apuntes y observaciones sobre la epistolografı´a en el primer Renacimiento espan˜ol, entrambi in V. Garcı´a de la Concha (a cura di), Literatura en la e´poca del emperador, Salamanca, Universidad de Salamanca, 1988, rispettivamente, pp. 53-79 e 81-99. Sul Baldus, cfr. A. Blecua, Libros de caballerı´as, latı´n macarro´nico y novela picaresca: la adaptacio´n castellana del «Baldus» (Sevilla, 1542), in «Boletı´n de la Real Academia de Buenas Letras de Barcelona», XXXV (1971-1972), pp. 147-239. Sull’influenza del teatro italiano, oltre al gia` cit. Arro´niz, La influencia italiana, si veda anche R. Froldi, Lope de Vega y la formacio´n de la comedia, Salamanca, Anaya, 1973; AA.VV., Teorı´a y realidad en el teatro espan˜ol del siglo XVII. La influencia italiana, Roma, Instituto Espan˜ol de Cultura, 1981; su Lope de Rueda e il teatro italiano, in particolare, cfr. Lope de Rueda, Los engan˜ados. Medora, a c. di F. Gonza´lez Olle´, Madrid, Ca´tedra, 1973 e C. Oliva, Tipologı´a de los «lazzi» en los pasos de Lope de Rueda, in «Critico´n», 42 (1988), pp. 65-76. Sulla Comedia de Sepulveda, cfr. A. Asenjo, La Comedia de Sepulveda y los intentos de comedia erudita, in J. Oleza Simo´ (a cura di), Teatros y pra´cticas esce´nicas, I: El Quinientos valenciano, Valencia, 1984, pp. 301-28. Sulla precettistica letteraria in generale, possono consultarsi: A. Vilanova, Preceptistas de los siglos XVI y XVII, in G. Dı´az Plaja (a cura di), Historia general de las literaturas hispa´nicas, vol. III, Barcelona, Barna, 1953, pp. 567-692; e A. Porqueras Mayo, La teorı´a poe´tica en el Renacimiento y Manierismo espan˜oles e La teorı´a poe´tica en el Manierismo y Barroco espan˜oles, entrambi con ricca antologia dei testi, Barcelona, Puvill, 1986 e 1989. Su Cascales, cfr. A. Garcı´a Berrio, Introduccio´n a la poe´tica clasicista: Cascales, Barcelona, Planeta, 1975; e su Gracia´n, dello stesso Garcı´a Berrio, Espan˜a e Italia ante el conceptismo, Madrid, CSIC, 1968. Su Tasso, cfr. J. Arce, Tasso y la poesı´a espan˜ola, Barcelona, Planeta, 1973.

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PARTE PRIMA

Sull’italianismo di Go´ngora: D. Alonso, Notas sobre el italianismo de Go´ngora, in Obras completas, vol. VI, Madrid, Gredos, 1982, pp. 331-98 (e si veda anche A. Vilanova, Las fuentes y los temas del «Polifemo» de Go´ngora, Madrid, CSIC, 1957). Su Marino, cfr. J.M. Rozas, Sobre Marino y Espan˜a, Madrid, Editora Nacional, 1978. Sull’italianismo di Lope de Vega: E. Mu¨ller-Bochat, Lope de Vega und die italienische Dichtung, Magonza, Akademie der Wissenschaften und der Literatur, 1956 (e si veda anche D. Alonso, En torno a Lope, in Obras completas, vol. III, Madrid, Gredos, 1974, in part. le pp. 741-833, sui rapporti Lope-Marino). E ancora: R. Lapesa, La «Jerusale´n» del Tasso y la de Lope (1944-46), in De la Edad Media a nuestros dı´as, Madrid, Gredos, 1971, pp. 264-85. Per la traduzione dell’Aminta, si veda J. de Ja´uregui, Aminta traducido de Torquato Tasso, a c. di J. Arce, Madrid, Castalia, 1970. Sulla novella si trovera` la bibliografia piu` recente in J.M. Laspe´ras, La nouvelle en Espagne au Sie`cle d’Or, Montpellier, Un. de Montpellier, 1987. Sui rapporti tra commedia e novelle italiane nel teatro di Lope, si veda almeno Arce, Literaturas italiana y espan˜ola, cit., pp. 231-58; C. Segre, Da Boccaccio a Lope de Vega: derivazioni e trasformazioni, in Semiotica filologica, Torino, Einaudi, 1979, pp. 97-115; e i saggi del gia` menzionato volume collettaneo Teoria y realidad. Sulla diffusione della letteratura italiana nel Settecento, si veda il capitolo di carattere generale di J. Arce, Presencia de la cultura literaria italiana, in La poesı´a del siglo ilustrado, Madrid, Alhambra, 1981, pp. 70-104. Su Metastasio, cfr. A. Stoudemire, Metastasio in Spain, in «Hispanic Review», IX (1941), pp. 184-91; A. Coester, Influences of the lyric drama of Metastasio on the Spanish romantic movement, in «Hispanic Review», VI (1938), pp. 10-20; J. G. Fucilla, Poesı´as lı´ricas de Metastasio en la Espan˜a del siglo XVIII y la octavilla italiana, in Relaciones hispano-italianas, cit., pp. 202-14. Sulle fonti della Poe´tica di Luza´n, cfr. R. P. Sebold, Ana´lisis estadı´stico de las ideas poe´ticas de Luza´n: Sus orı´genes y su naturaleza, in El rapto de la mente, Madrid, Editorial Prensa Espan˜ola, 1970, pp. 57-97. Sui riformatori in ambito economico-giuridico, cfr. F. Venturi, Economisti e riformatori spagnoli e italiani del ’700, in «Rivista storica italiana», LXXIV (1962), pp. 532-61; e su Beccaria, in particolare, G. Calabro`, Beccaria e la Spagna, in Atti del Convegno su Beccaria, Torino, Accademia delle Scienze, 1965, pp. 101-20. Su Goldoni, P.P. Rogers, Goldoni in Spain, Oberlin-Ohio, 1941; e A. Mariutti de Sa´nchez Rivero, Fortuna di Goldoni in Spagna nel Settecento, in «Studi goldoniani», Venezia, 1959, pp. 315-38. Su Parini e Quintana, cfr. J. Arce, Scienza e lirica illuministica. Dall’inoculazione al vaccino in Italia e Spagna, in Letteratura e scienza nella Storia della cultura italiana. Atti del IX Congresso A.I.S.L.L. I, Palermo, Manfredi, 1978. Su Alfieri, cfr. E. Allison Peers, The vogue of Alfieri in Spain, in «Hispanic Review», VII (1939), pp. 122-40; e A. Parducci, Traduzioni spagnole di tragedie alfieriane, in «Annali alfieriani», I (1942), pp. 31-152. Sulla letteratura romantica in Spagna, in generale, cfr. J. Arce, La literatura roma´ntica italiana en la Espan˜a de la primera mitad del siglo XIX (1968), in Literaturas italiana y espan˜ola, cit., pp. 296-307. Su Manzoni, cfr. O. Macrı`, Varia fortuna del Manzoni in terre iberiche (con una premessa sul metodo comparatistico), Ravenna, Longo, 1976. Su Leopardi, cfr. J. Arce, Leopardi en la crı´tica y la poesı´a espan˜olas, in Literaturas italiana y espan˜ola, cit., pp. 316-32; e R. Arque´s, El «leopardismo» de J.M. Bartrina. ¿Mite o realitat?, in «Rassegna iberistica», XXV (1986), pp. 19-30. Sulla cultura italiana di M. de Unamuno, cfr. G. Foresta, Unamuno e la letteratura italiana, Roma, Dialoghi, 1974; e V. Gonza´lez Martı´n, La cultura italiana en Miguel de Una-

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muno, Salamanca, Un. de Salamanca, 1978. Su Carducci, cfr. V.B. Vari, Carducci y Espan˜a, Madrid, Gredos, 1963. Su D’Annunzio, cfr. F. Ferna´ndez Murga, Gabriele D’Annunzio e il mondo di lingua spagnola, in Gabriele D’Annunzio nel primo centenario della nascita, Roma, Centro di Vita Italiana, 1963, pp. 143-60; e F. Meregalli, D’Annunzio en Espan˜a, in «Filologı´a Moderna», 15-16 (1964), pp. 265-89.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO

1. Criteri per una definizione: variazioni e livelli del codice petrarchista Precedendo di un lustro esatto un’analoga iniziativa veneziana, a Basilea, sullo scorcio del XV secolo, apparvero per la prima volta raccolte in un unico volume a stampa le opere latine di Francesco Petrarca. Ma solo molto piu` tardi, nel 1554, quando cioe` l’evento si riprodusse con una nuova edizione (poi ristampata nel 1581), al lettore era offerto il privilegio di ritrovare unite, le une accanto alle altre, le opere latine e le poesie volgari. Non c’e` dubbio che, nell’intervallo tra le due edizioni di Basilea, l’ampliamento del volume all’«opera quae extant omnia» era stato propiziato e reso necessario da quel fenomeno letterario e sociale che, noto col termine di ‘petrarchismo’, testimoniava della capacita` espansiva della cultura letteraria italiana ben oltre i propri confini linguistici, come col consueto acume annotava il Dionisotti: L’inclusione del Petrarca volgare nelle stampe di Basilea del medio e tardo Cinquecento conferma che durante la prima meta` del secolo la cultura italiana era riuscita a ottenere dall’Europa il riconoscimento della sua lingua propria, e con essa lingua di una pur propria interpretazione del Petrarca1.

Sulla «pur propria interpretazione del Petrarca» dovremo – com’e` ovvio – tornare in seguito; per il momento, piu` urgente si pone il problema di definire cosa s’intenda, o meglio: cosa abbiamo deciso d’intendere nelle pagine seguenti, col termine che presta il titolo all’intero 1

C. Dionisotti, Fortuna del Petrarca nel Quattrocento, in «Italia Medievale e Umanistica», XVII (1974), pp. 61-113, p. 67.

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PARTE PRIMA

capitolo. Nelle riflessioni riservate al tema da uno studioso, che al Petrarca ha consacrato l’attivita` durata tutta la vita, incontriamo in primo luogo una definizione che si presenta come la piu` ampia possibile: Il termine ‘petrarchismo’ puo` essere usato correttamente, se si desidera l’applicazione piu` ampia possibile, per designare ‘l’attivita` produttiva in letteratura, arte o musica sotto l’influenza diretta o indiretta delle opere di Petrarca, l’espressione di ammirazione per lui, e lo studio delle sue opere e della loro influenza’2

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per imbatterci poi in un suo adattamento entro limiti molto piu` circoscritti, a suggerire i quali opera il mutamento introdotto sin dal termine che, arricchendosi di una specificazione storico-culturale, diventa ora «Renaissance Petrarchism», descritto a sua volta come la composizione di poesia lirica sotto l’influenza diretta o indiretta di Petrarca in un periodo che comincia quando il poeta era ancora in vita e finisce intorno al 16003.

E a questa seconda e piu` ristretta accezione che ci atterremo nel corso dell’esposizione seguente, con la sola precisazione che al termine impiegato da Wilkins si preferira` sostituire quello di ‘petrarchismo lirico’, dal momento che cio` che con esso si vuole indicare e` quel fenomeno specificatamente letterario per il quale la lirica volgare del grande aretino, col Canzoniere in posizione privilegiata, fu assunta a modello della propria produzione da parte di alcune generazioni di poeti che, in Italia e fuori di essa, dal tardo Trecento si spinsero oltre il primo Seicento. Resteranno, pertanto, fuori dal nostro discorso capitoli pur essenziali della presenza di Petrarca nella cultura europea, come quello considerevole riguardante la diffusione e l’influenza delle sue opere latine; o quello avvincente che concerne l’azione esercitata dai suoi scritti – latini e volgari – nelle altre arti, e perfino nei generi letterari diversi dalla lirica; o, ancora, quello assai significativo, ma totalmente autonomo, della sua fortuna critica. Ma, senza dubbio alcuno, il maggior rammarico sara` per la decisione di dover ugualmente escludere il capitolo sugli innumerevoli poeti che continuarono a trarre ispirazione dalla lirica petrarchesca dal Seicento in avanti, quando cioe` il petrarchismo ha smesso di rappresen2 E. H. Wilkins, A General Survey of Renaissance Petrarchism, in «Comparative Literature», II (1950), pp. 327-42, p. 327. 3 Ivi, p. 328.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO

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tare il codice poetico che, sia pure con modalita` fortemente differenziate, impronta di se´ alcune stagioni della lirica europea, senza che tuttavia la poesia di Petrarca abbia smesso di esercitare un’influenza, talora rilevante, nella produzione dei singoli e autorevoli poeti. Una rinuncia oltremodo inaccettabile, per non tentare di compensarla in minima parte, almeno, con un breve cenno finale, dove – se non altro, simbolicamente – si rendera` giustizia alla presenza del Petrarca, oltre la stagione del petrarchismo. Ho appena fatto riferimento, seppur incidentalmente, alle modalita` fortemente differenziate con cui il codice petrarchista si e` di volta in volta realizzato, nei due secoli larghi della sua esistenza. Con cio` non alludevo affatto alle modalita` a cui individualmente dettero vita i singoli poeti che lo assunsero a modello, ma a quelle di carattere piu` generale, tali da produrre varianti di petrarchismo che contraddistinguono epoche particolari, o determinati ambienti geograficoculturali, oppure specifiche esigenze di assolvimento. Del resto, perche´ sorprendersi piu` di tanto, dinanzi a un cosı` ampio ventaglio di realizzazioni, quando si convenga che «il petrarchismo lirico, nella sua intera parabola, rappresenta il primo [...] episodio di letteratura di massa della storia letteraria italiana»4, e fors’anche europea? Insomma, all’interno della vasta area coperta dal termine, mi accingo a individuare almeno tre varianti di petrarchismo, a seconda che entri in gioco il fattore temporale, spaziale, funzionale. Mi spieghero` meglio con una breve serie di rapidi esempi, che saranno trattati con maggiore autonomia nei successivi paragrafi. Per la variante diacronica, basti pensare, all’interno della poesia italiana, a tipi cosı` lontani di petrarchismo, come quelli quattro e cinquecentesco, per il primo dei quali valga la nota e fondamentale precisazione della Corti, per cui «nel Quattrocento il Petrarca non e` che una delle componenti del petrarchismo»5; mentre per il secondo, relativo al Cinquecento, non c’e` che da ricordare l’ancora piu` celebre definizione di Contini, per il quale il petrarchismo bembesco e` il frutto della «stagione di un Petrarca non tradito»6. Ne´ la diversita`

4 M. Santagata, Dalla lirica ‘cortese’ alla lirica ‘cortigiana’: appunti per una storia, in M. Santagata e S. Carrai (a cura di), La lirica di corte nell’Italia del Quattrocento, Milano, Franco Angeli, 1993, pp. 11-30, p. 13. 5 M. Corti, Introduzione a P. J. De Jennaro, Rime e lettere, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1956, p. XLVI. 6 G. Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca (1951), in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970, pp. 169-92, p. 191.

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PARTE PRIMA

geografica produsse, nei secoli in questione, minori effetti sulla maniera di richiamarsi al modello petrarchesco. Nel tardo Quattrocento, per esempio, si dettero esperienze poetiche cosı` discordanti come quelle che prendevano forma a Napoli, dove la produzione lirica di un Sannazaro, o anche di un Cariteo, parzialmente giustifica l’asserzione per cui l’imitazione petrarchesca messa in pratica da entrambi i poeti anticipava le tendenze linguistiche e stilistiche del classicismo cinquecentesco; o, in altra direzione, come le esperienze che, nello stesso giro di anni, tutti concentrati nell’ultima decade del secolo, trovavano un naturale spazio di gradimento presso la corte dei Gonzaga, a Mantova, dove – in effetti – furono accolti poeti come il ferrarese Antonio Tebaldeo, o l’aquilano Serafino de’ Ciminelli, ossia i piu` significativi rappresentanti di quella lirica che, piegandosi alla prassi cortigiana, finiva inevitabilmente per adattare le forme e i temi ricavati dal modello all’eterodosso intento dell’intrattenimento mondano da consumare in societa`. Quest’ultima considerazione, in effetti, c’introduce direttamente alla terza variante di petrarchismo, quella che abbiamo chiamato ‘funzionale’, e che senz’altro mette in gioco una «storia sociale del petrarchismo», intesa come «una storia attenta ai dati linguistici, formali e sociologici, ma, soprattutto, capace d’individuare gli intrecci politico-istituzionali, apparati ideologici e formalizzazioni letterarie»7. Ricorrero`, in questo caso, a un doppio esempio. La poesia napoletana d’eta` aragonese, per la quale contiamo sull’eccellente monografia di Marco Santagata, tra i poeti della cosiddetta «vecchia guardia», nati cioe` tra il 1430 e il ’45, presenta una significativa concomitanza di poeti come De Jennaro, Galeota e Perleoni, accanto a lirici della natura di un Aloisio o di un Caracciolo, autori entrambi di raccolte di rime intitolate – rispettivamente – Naufragio e Amori. Ebbene, lo studio di Santagata ha messo in luce con assoluta evidenza come all’«uso socializzato di Petrarca», che caratterizza i primi, si contrapponga la pratica poetica dei secondi che, sebbene non possa farsi coincidere con l’«aristocratica e solitaria esperienza petrarchista» del Sannazaro, risulta tuttavia dettata da un uso meno socializzato dell’attivita` lirica e dello stesso modello petrarchesco: due prassi poetiche, insomma, che trovano la loro ragion d’essere nella diversita` della funzione sociale e dei pre8 supposti ideologici, con cui ci si richiama allo stesso modello . 7

Santagata, Dalla lirica ‘cortese’ alla lirica ‘cortigiana’, cit., pp. 13-14. M. Santagata, La lirica aragonese. Studi sulla poesia napoletana del secondo Quattrocento, Padova, Antenore, 1979; le citazioni sono dalla p. 94. 8

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L’altro esempio ci conduce gia` fuori dell’Italia quattrocentesca, riportandoci nell’Europa del secolo successivo, quando il petrarchismo dilago` nelle varie letterature nazionali dei paesi del vecchio continente. Ebbene, anche in questo caso, e` possibile individuare una determinazione funzionale, la quale pero`, piuttosto che essere motivata a livello storico-sociale, risulta «tutta interna alla letteratura», come ha recentemente precisato Klaus W. Hempfer che, a sua volta basandosi sul noto libro di Forster9, ha ulteriormente ribadito che il petrarchismo europeo «attraverso la facile imitabilita` dei suoi modelli ha favorito nelle singole letterature nazionali il distacco dall’antica norma poetica e la costituzione di una nuova poesia volgare»10. Il lettore di queste pagine avra` facilmente compreso che solo le inevitabili esigenze espositive mi hanno spinto a presentare per separato i tre tipi di variazione del petrarchismo, i quali – nella loro concreta realizzazione storica – non poterono che operare nel piu` totale intreccio e nella piu` inestricabile dipendenza l’uno dall’altro. Il problema e`, piuttosto, un altro, dal momento che, una volta stabilito che il petrarchismo – dal tardo Trecento agli ultimi decenni del Cinquecento – variava nel tempo, nello spazio, e per funzione, varrebbe la pena di chiedersi ora in cosa esso variasse. In altri termini, non basta aver determinato i fattori in rapporto ai quali la variazione si verifica, se contemporaneamente non si hanno chiari i criteri, in base ai quali sia possibile distinguere i vari prodotti della variazione stessa. Ora, come per tutti i codici, anche per quello petrarchista, oltre che lecito, e` necessario individuare una molteplicita` di livelli d’articolazione, che – nel caso specifico – possono essere sintetizzati in un numero non inferiore a quattro: linguistico, formale, tematico, strutturale. Per illustrarli, non ricorrero` neppure ai fugaci esempi di cui mi sono servito per introdurre i fattori che generano la variazione, preferendo rimandare l’intero discorso alla trattazione storica consegnata ai successivi paragrafi. Accennero` solo, molto rapidamente, alle ragioni che inducono a fissare i menzionati quattro livelli, e a cosa debba intendersi con ognuno di essi. A differenza delle lettera-

9

L. W. Forster, The Icy Fire. Five Studies in European Petrarchism, Cambridge, University Press, 1969. 10 K. W. Hempfer, Per una definizione del petrarchismo (1987), in Testi e contesti. Saggi post-ermeneutici sul Cinquecento, Napoli, Liguori, 1998, pp. 146-76, p. 170. Sulla fortuna europea del Petrarca, vd. i recenti contributi raccolti in AA. VV., Pe´trarque en Europe. XIV e-XX e sie`cle, «Actes du XXVIe congre`s international du CEFI, Turin et Chambe´ry, 11-15 de´cembre 1995», Paris, Honore´ Champion, 2001.

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PARTE PRIMA

ture non italiane, per le quali il livello linguistico risulta quasi o del tutto irrilevante, nella italiana le opere volgari di Petrarca svolsero l’autorevole ruolo di modello di lingua quanto, o ancor piu`, che di modello di poesia11; con l’effetto che al recupero e alla valorizzazione di Petrarca si e` rigorosamente accompagnato il processo di toscanizzazione della lirica, nel corso del quale si attuo` parallelamente il distanziamento dagli usi linguistici tipici della letteratura provinciale. Quanto agli altri livelli, strettamente pertinenti al Petrarca assunto come modello di poesia, appare opportuno distinguere, in prima istanza, un piano microstrutturale da uno macrostrutturale. Nel primo, vanno fatti rientrare sia il livello formale, che comprende piu` di un repertorio: da quello metrico al retorico allo stilistico, sia anche il livello tematico, ulteriormente scomponibile nei singoli temi e motivi tutti di stampo petrarchista. Resta, infine, il livello strutturale, che qui intendiamo – alquanto arbitrariamente – solo nel senso di macrostruttura, e col quale ci riferiamo a quell’aspetto essenziale del Canzoniere, grazie al quale assunse presto – nonostante l’esistenza di significativi precedenti – un’indiscutibile funzione di archetipo. Mi riferisco, naturalmente, al suo carattere di ‘libro chiuso’, dotato cioe` di una tale coerenza testuale da imporlo come insieme – appunto – strutturato, contro la tendenza – che e` pure storicamente affiorata – di considerarlo alla stregua di una mera raccolta di rime, dove l’autonomia dei frammenti ha la meglio sul complesso che li integra. Le brevi riflessioni finora svolte, pur nei limiti dell’estrema sintesi con cui sono state necessariamente presentate, e di conseguenza del carattere che sara` risultato o troppo astratto, nel caso di talune indicazioni teoriche, o troppo generico, in occasione dei pochi esempi concreti riportati; pur nei limiti descritti, dicevo, mi appaiono imprescindibili come preliminari a un discorso che, dovendo trattare del petrarchismo europeo in poche pagine, non puo` comunque sottrarsi al compito di specificare di volta in volta, perche´ la categoria storico-letteraria abbia un senso: quali livelli del codice sono implicati, in quale epoca e in quale ambito geografico-culturale si colloca, con quale funzione sociale e ideologica e` assunto. Non meno imprescindibile per la materia che ci si accinge a trattare – sia detto in chiusura di premessa –, sarebbe da considerare quel capitolo che si

11 Cfr. A. Vallone, Di alcuni aspetti del Petrarchismo napoletano (con inediti di Scipione Ammirato), in «Studi petrarcheschi», VII (1961), pp. 355-75, p. 364; e Hempfer, Per una definizione del petrarchismo, cit., p. 153.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO

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occupa specificatamente della tradizione dei testi petrarcheschi, dal momento che e` fin troppo facile intuire che nulla e` – forse – piu` indicativo e, perfino, determinante del singolo tipo di petrarchismo che il tipo di testo petrarchesco di cui quello si alimenta, prendendolo a modello. Un simile capitolo difficilmente avrebbe trovato posto in un preambolo dettato dalla massima concisione;12 e, tuttavia, sempre che lo si riterra` opportuno, non ci si asterra` dal fare riferimento, in relazione ad alcuni episodi salienti, alla storia della tradizione dei testi volgari petrarcheschi.

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2. «Un petrarchismo senza Petrarca» Fu nell’Italia del Quattrocento, specie della seconda meta` del secolo, che la poesia lirica s’identifico` col petrarchismo. Ma, come suggerisce la formula a prima vista paradossale che da` titolo al paragrafo, largamente debitrice – peraltro – degli studi della Corti, i rimatori quattrocenteschi, poco assimilabili ai lirici che nel secolo successivo aderirono alla soluzione bembesca, improntarono la propria imitazione del Petrarca a un radicale sperimentalismo che, promosso dalla prassi dei singoli poeti e – pertanto – estraneo a un comune programma teorico, ebbe tra le sue piu` dirette conseguenze quella di ‘tradire’ il modello, a livello sia metrico che stilistico e tematico. A questo tipo di lirica, nella quale finirono per convergere gli opposti atteggiamenti dell’osservanza e della trasgressione nei confronti di Petrarca, ci si suole riferire col termine di ‘petrarcheggiante’, volendo con esso indicare almeno due tratti basilari, che risultano – a ben vedere – tra di loro complementari. Il primo di essi consiste nel ruolo assegnato alla lirica petrarchesca, la cui influenza, lungi dal presentarsi come l’unica ad operare nei nostri rimatori, convive con quella di una variegata tradizione che dai classici latini arriva a includere la poesia volgare fino a Dante e, persino, ai contemporanei poeti quattrocenteschi. Al primo si salda il secondo dei due tratti menzionati, dal momento che, una volta assunto come un ingrediente tra i tanti, il Petrarca imitato nel Quattrocento subisce un processo di «lessicalizzazione», vale a dire – nelle parole di Santagata – una

12 Lo si legga, in rigorosa sintesi, in C. Bologna, Tradizione testuale e fortuna dei classici italiani, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana 6. Teatro, musica, tradizione dei classici, Torino, Einaudi, 1986, pp. 445-928; sul Petrarca, le pp. 612-47.

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PARTE PRIMA

«riduzione a vocabolario del tessuto espressivo e tematico dei Fragmenta»13. Poco fedeli al Petrarca per la tendenza ad accogliere tradizioni poetiche diverse sul piano della lingua e dello stile, per la volonta` di saggiare forme metriche nuove, per il ricorso a un ventaglio troppo ampio e occasionale di temi o motivi rispetto a quello autorizzato dall’originale, per il disinteresse – infine – che le loro raccolte rivelano nei confronti del libro strutturato della formacanzoniere, i rimatori quattrocenteschi – e` bene, comunque, non dimenticarlo – guardano pur sempre ai Rerum vulgarium fragmenta come al piu` vasto e privilegiato repertorio di forme e contenuti a loro disposizione, dal quale – con la liberta` sperimentale di cui si e` detto – ricavano lessico, specifiche unita` retorico-stilistiche, immagini peculiari, riconoscibili modulazioni ritmiche, situazioni sentimentali. Ne´, in verita`, il singolo rimatore si sentiva vincolato all’insieme degli aspetti elencati, essendo chiaro – spero – che l’autonomia dei livelli del codice petrarchista e` uno dei fattori che meglio caratterizza il petrarchismo anteriore alla proposta del Bembo. In tal senso, anzi, possiamo affermare che un vero e proprio codice petrarchista, nel Quattrocento, non esiste, se con esso intendiamo un’imitazione tale che non solo assicuri la fedele riproduzione del modello, ma che preveda anche l’integrazione di tutti i livelli in cui il codice si articola. Una situazione particolarmente fluida, dunque, alla cui impronta di variabilita` contribuı` non poco il fenomeno delle particolarita` regionali che, essendo una caratteristica essenziale del petrarchismo quattrocentesco, conferisce all’aspetto strettamente linguistico una speciale rilevanza. Petrarchismo ed espansionismo del toscano furono, difatti, eventi che procedettero congiuntamente, ricevendo entrambi lo stimolo necessario dalla volonta`, che animo` i rimatori dei singoli ambiti geografico-culturali, di superare gli usi linguistici tipici della letteratura provinciale, nella prospettiva di una lingua poetica extraregionale, a formare la quale l’apporto principale, accanto al toscano contemporaneo, fu fornito dalla tradizione poetica che aveva in Petrarca la personalita` maggiormente rappresentativa. Ma ancora piu` pertinente del piano linguistico, in questa sede, si rivela quello ideologico, in rapporto al quale tanto piu` evidente e necessario appare il nesso tra la prassi letteraria dei rimatori e la realta` sociopolitica, in cui essi operavano. In tale prospettiva, e` utile ricordare che la compenetrazione di lirica e petrarchismo, fino alla quasi totale 13

Santagata, La lirica aragonese, cit., p. 90.

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identificazione, fu un processo che si verifico` nella seconda meta` del secolo, e che pertanto si svolse in parallelo sia alla formazione e al consolidamento degli Stati regionali, sia alla nascita delle grandi corti della penisola. S’intuisce, allora, che la predominante funzione e destinazione sociale del petrarchismo lirico, con cui finı` col coincidere la poesia cortigiana, era rivolta ai signori e al ceto degli uomini di corte, per i quali la lirica ispirata al Petrarca funziono` da vero e proprio collante ideologico, nel senso che fornı` loro un insieme di ‘valori cortesi’ e di modelli di comportamento da cui trarre motivo di celebrazione e di legittimazione. Va da se´ che si trattava di un «uso socializzato» della poesia, a cui nulla era piu` estraneo che la concezione dello stesso Petrarca, donde la motivata affermazione che, anche sul piano ideologico, i rimatori quattrocenteschi, nella loro ripresa e rivalorizzazione del Canzoniere, finirono per tradirne le piu` profonde motivazioni, confermando il proprio petrarchismo ‘eterodosso’. Trattandosi, come ho appena rammentato, di un fenomeno tipico della seconda meta` del Quattrocento, urge – a questo punto – introdurre una differenziazione tra la prima parte del secolo e gli ultimi decenni di esso. Nella prima meta` del Quattrocento, difatti, se si esclude il folto gruppo di rimatori toscani e quello piu` esiguo, seppur ragguardevole, dei veneti, concentrati a Padova, la maggiore manifestazione di produzione lirica, ispirata alla lezione del Petrarca, si trova concentrata nel comprensorio feltresco-romagnolo, dove erano assenti grandi istituzioni cortigiane, e dove si elaboro` una lirica anticipatrice delle future tendenze, maturate poi nella poesia cortigiana del secondo Quattrocento14. Alla corte malatestiana di Rimini, del resto, soggiorno` a lungo, trascorrendovi gli ultimi anni della sua esistenza, il nobile romano Giusto de’ Conti di Valmontone (1390ca.-1449), che esercito` un’influenza profonda e duratura sui rimatori di area feltresco-romagnola. Giusto fu autore di un canzoniere che, conosciuto col titolo arbitrario di La bella mano, suole considerarsi il piu` precoce e notevole tentativo di petrarchismo primoquattrocentesco.

14

M. Santagata, Fra Rimini e Urbino: i prodromi del petrarchismo cortigiano (1984), in Santagata e Carrai, La lirica di corte, cit., pp. 43-95. Sul petrarchismo toscano, vd. la vecchia, ma ancor oggi insuperata, monografia di F. Flamini, La lirica toscana del Rinascimento anteriore ai tempi di Lorenzo il Magnifico, Pisa, Nistri, 1891; su quello veneto, A. Balduino, Le esperienze della poesia volgare, in G. Arnaldi e M. Pastore Stocchi (a cura di) Storia della cultura veneta, III, I: Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza, Neri Pozza, 1980, pp. 265-367; Id., Rimatori veneti del Quattrocento, Padova, Clesp, 1980.

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PARTE PRIMA

Composto di 150 componimenti, che furono assemblati verso il 1440, e che anche nelle scelte metriche rispettavano la tipologia dell’esempio petrarchesco, se si eccettuano i tre capitoli e l’egloga polimetra, il canzoniere di Giusto puo`, difatti, considerarsi il punto d’avvio di un’intera tradizione, che fonda la propria tenuta stilistica sulla fedelta` a un modello privilegiato in forma assoluta, a tal punto da far meritare al suo autore la recente definizione di «Pietro Bembo del Quattrocento»15. La svolta si ebbe negli anni sessanta del secolo, quando la poesia lirica conobbe un’espansione senza precedenti, e allorche´ i centri di produzione dalle piccole signorie del comprensorio feltrescoromagnolo si spostarono presso le grandi corti settentrionali (Ferrara, Mantova, Milano) e meridionali (Napoli), che vennero cosı` ad aggiungersi a Firenze e al Veneto, centri gia` efficacemente attivi nella prima meta` della centuria. I mutamenti, del resto, non interessarono solo l’aspetto quantitativo ne´ unicamente quello geografico, dal momento che coinvolsero il tipo stesso di rapporto col modello, dando luogo a un petrarchismo – per cosı` dire – piu` rigoroso, come testimoniano alcune personalita` poetiche di rilievo quali Boiardo, Sannazaro e Lorenzo dei Medici. Non e` facile indicare i tratti che distinguono, rispettivamente, le produzioni estense, sforzesca e mantovana delle grandi corti del Nord, accomunate, in cambio, da «un uso socializzato del Petrarca» che poneva singoli temi e forme tratti dal modello al servizio dell’immediata fruizione all’interno della corte16. Tra Ferrara, Mantova e Milano, oltre che in numerose altre citta` della penisola, si mossero l’aquilano Serafino de’ Ciminelli (1466-1500), meglio noto come Serafino Aquilano, e il ferrarese Antonio Tebaldi (1463-1537), latinamente detto Tebaldeo, due massimi rappresentanti della cosiddetta lirica cortigiana che in quell’uso socializzato del Petrarca e, piu` in generale, della poesia trovava la sua maggiore fonte d’ispirazione. Entrambi godettero, com’e` noto, di un’enorme fortuna presso i contemporanei: il primo per le sue doti di abile versificatore di metri

15

Santagata, Dalla lirica ‘cortese’ alla lirica ‘cortigiana’, cit., p. 27. Per Giusto, in assenza di un’edizione critica, si deve ancora ricorrere a Giusto de’ Conti, Il Canzoniere, a c. di L. Vitetti, 2 voll., Lanciano, Carabba, 1918. 16 In generale, sulla poesia delle corti del Nord nel secondo Quattrocento, vd. A. Tissoni Benvenuti, Quattrocento settentrionale, Bari, Laterza, 1972, pp. 121-71. Per l’ambito ferrarese, vd. ora I. Pantani, «La fonte d’ogni eloquenzia». Il canzoniere petrarchesco nella cultura poetica del Quattrocento ferrarese, Roma, Bulzoni, 2002.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO

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brevi, come il sonetto e soprattutto lo strambotto, a cui si univano quelle di musicista e di cantante; il secondo per la sua maniera «concettistica», dove cioe` prevalevano le antitesi e le iperboli, i motti finali nei sonetti, i giochi metaforici spesso arditi, se non addirittura astrusi. Per tali vie, la lezione petrarchesca finiva per sfumare nell’elaborazione di prodotti poetici ritagliati sulle esigenze delle vicende mondane e del vivere sociale17. Ma a Ferrara, tra il ’69 e il ’76, si consumo` anche l’esperienza lirica che porto` il conte Matteo Maria Boiardo (1441ca. -1494) alla stesura degli Amores libri tres, un canzoniere a proposito del quale il suo piu` recente editore ha dimostrato «il petrarchismo della raccolta, cosı` dei singoli testi come del macrotesto», sottolineando, peraltro, come in esso si sia realizzata «un’assimilazione sicuramente senza pari nel Quattrocento della lezione di Petrarca, probabilmente superiore anche a quella operata dallo stesso Giusto dei Conti»18, della cui raccolta, del resto, il canzoniere del conte risulta largamente debitore, a livello sia di trama che di riutilizzo del repertorio lessicale e di immagini. Tra i maggiori centri di produzione lirica della seconda meta` del secolo, la Napoli aragonese conobbe, gia` all’interno della cosiddetta «vecchia guardia», ossia dei funzionari-poeti della nobilta` cittadina nati tra il 1430 e il ’45, una significativa differenziazione tra coloro che, come Francesco Galeota e Pietro Jacopo De Jennaro, furono interpreti di una poesia cortigiana e, pertanto, di un petrarchismo compromesso, e poeti piu` isolati che, allontanandosi consapevolmente dalla prassi corrente della lirica cortigiana, si mantennero maggiormente fedeli alla lezione petrarchesca ed esperirono originali soluzioni ai livelli macrostrutturali del canzoniere, come accade nel Naufragio di Giovanni Aloisio e negli Amori di Joan Francesco ` , comunque, alla seguente generazione dei poeti naCaracciolo19. E poletani che appartengono le due maggiori personalita` poetiche, la 17

Di Serafino, oltre a Le Rime di Serafino de’ Ciminelli dell’Aquila, a c. di M. Meneghini, I (solo vol. uscito), Bologna, Romagnoli-Dall’acqua, 1896 (contiene sonetti, egloghe, epistole e Rappresentazione allegorica), vd. la recente edizione degli Strambotti, a c. di A. Rossi, Parma, Fondazione Pietro Bembo/Ugo Guanda Editore, 2002. Su di lui, vd. lo studio dello stesso A. Rossi, Serafino Aquilano e la poesia cortigiana, Brescia, Morcelliana, 1980. Del Tebaldeo, vd. la monumentale edizione delle Rime, a c. di T. Basile e J. J. Marchand, 3 voll., Modena, Panini, 1989-92. 18 M. M. Boiardo, Amorum libri tres, a c. di T. Zanato, Torino, Einaudi, 1998, pp. IX e XXX. Fondamentale lo studio di P. V. Mengaldo, La lingua del Boiardo lirico, Firenze, Olschki, 1963. 19 Sulla poesia della Napoli aragonese, disponiamo dell’ottimo volume di Santagata, La lirica aragonese, cit.

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PARTE PRIMA

cui adesione alla lezione petrarchesca si distacca piu` risolutamente dalle forme della poesia cortigiana: il barcellonese Benet Garret (1450ca.-1514ca.), meglio conosciuto col nome italianizzato di Cariteo, che nel canzoniere amoroso intitolato Endimione riuscı` a fondere unitariamente la lettura dei classici e quella di Petrarca, e Jacopo Sannazaro (1455-1530) che, attraverso i rifacimenti a cui sottopose tanto le rime amorose quanto le egloghe della fortunatissima Arcadia, pervenne a un piu` rigoroso petrarchismo che, in qualche modo, aprı` la via al Bembo e alla sua teorizzazione20. A Firenze, l’ultimo trentennio del secolo fu dominato dalla personalita` di Lorenzo de’ Medici (1449-1492), la cui produzione giovanile – una settantina di liriche amorose per Lucrezia Donati – dette luogo, intorno al 1474-75, all’allestimento di un Canzoniere che, modellato sui Fragmenta, ripercorre l’«amorosa istoria» di Lorenzo e Lucrezia «secondo canoni, moduli e caratteristiche prettamente petrarcheschi». Solo nel successivo ampliamento, che vide piu` che raddoppiato il numero dei componimenti, il Canzoniere laurenziano, non solo si aprı` ai recuperi sia classici che stilnovistici, «ma lo stesso petrarchismo a tutto tondo del Magnifico sapra` decantarsi per approdare a vette di suprema rarefazione espressiva, attraverso un amalgama di influssi culturali e di stimoli stilistici rivissuti su una personalissima tastiera»21. Sebbene, come si e` appena visto, i risultati raggiunti da lirici come Boiardo, Sannazaro e lo stesso Lorenzo costituiscano le punte avanzate del piu` rigoroso petrarchismo quattrocentesco, e` bene ricordare che, come ha di recente scritto Fedi: prima della codificazione bembesca e della moda culturale del Cinquecento, l’incontro di queste personalita` con il Petrarca [...] avviene nel segno di una esperienza non univoca ma intensamente articolata, che

20

Le Rime del Chariteo, a c. di E. Pe`rcopo, 2 voll., Napoli, Biblioteca Napoletana di Storia e Letteratura, 1892; su di lui, vd. il recente volume di B. Barbiellini Amidei, Alla luna. Saggio sulla poesia del Cariteo, Firenze, La Nuova Italia, 1999. I. Sannazaro, Sonetti e canzoni, in Opere volgari, a c. di A. Mauro, Bari, Laterza, 1961, pp. 135-254. Sul Sannazaro, vd. almeno gli studi di P. V. Mengaldo, La lirica volgare del Sannazaro e lo sviluppo del linguaggio poetico rinascimentale, in «La Rassegna della letteratura italiana», LXV (1962), pp. 436-82; C. Dionisotti, Appunti sulle rime del Sannazaro, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXL (1963), pp. 161-211; M. Corti, Rivoluzione e reazione stilistica nel Sannazaro (1968), in Ead., Metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 307-23. 21 T. Zanato, Introduzione a Lorenzo de’ Medici, Opere, Torino, Einaudi, 1992, pp. 6 e 10. Piu` in generale, vd. S. Carrai, La lirica toscana nell’eta` di Lorenzo, in Santagata e Carrai, La lirica di corte, cit., pp. 96-144.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO

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dell’illustre modello assapora ma non ancora subisce il fascino, secondo una fruizione disinteressata e personalissima che e` ancora lontana dal fenomeno del bembismo, se pure gli e` quasi coeva22.

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3. Dal «Petrarca non tradito» al «manierismo petrarchista» In Italia, un’organica soluzione del petrarchismo lirico ando` progressivamente imponendosi solo nel Cinquecento, grazie al coerente sforzo di teorizzazione compiuto da Pietro Bembo (1470-1547) lungo l’intero primo decennio del secolo. Le tappe del processo sono arcinote. Proprio all’inizio del nuovo secolo, nel 1501, a Venezia, il Bembo pubblico` nei tipi di Aldo Manuzio un’edizione del Canzoniere petrarchesco, il cui testo, che si offriva nell’inconsueto e maneggevole formato in ottavo, era stato scrupolosamente ricostruito sul codice vaticano 3197 (solo successivamente lo stesso Bembo ritrovo` e acquisto` il manoscritto autografo, Vat. Lat. 3195), e si presentava rigorosamente privo di ogni commento. Il libro, il cui carattere innovativo risulto` largamente premiato dalle oltre 160 edizioni conosciute prima della fine del secolo, rappresento` il punto iniziale di una lunga fase di riflessione sulle forme e le funzioni della nuova letteratura, il cui esito finale si conobbe solo cinque lustri piu` tardi, con la pubblicazione delle Prose della volgar lingua. Nel frattempo, nel 1505, con la comparsa degli Asolani, il Bembo poneva le basi per una rifondazione del linguaggio letterario volgare, e successivamente, nel 1513, con l’epistola polemica De imitatione, esprimendosi in difesa della stretta ortodossia ciceroniana e contro l’eclettismo di Pico di non lontana derivazione polizianesca, favoriva quel processo di cristallizzazione dell’uso letterario del latino, che avrebbe costituito un modello per fissare anche i nuovi criteri dell’uso linguistico relativo al ` alle Prose (1525), tuttavia, che il Bembo affido` il volgare letterario. E proprio programma di rifondazione del linguaggio letterario, operando una ricostruzione della tradizione in volgare in termini esclusivamente di lingua e di stile, e applicando al volgare toscano una retorica imitativa basata sui modelli di Petrarca, per la poesia, e di Boccaccio, per la prosa. Si tratto`, dunque, di una «proposta normativa di ritorno all’ordine petrarchesco», che risultava in netto contrasto col carattere sperimentale del petrarchismo quattrocentesco, come ha ben avvertito, tra gli altri, Mazzacurati: 22

R. Fedi, Invito alla lettura di Petrarca, Milano, Mursia, 2002, pp. 183-84.

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PARTE PRIMA

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Sottraendosi al consumo rapido, capriccioso, dissipante di tanta esperienza quattrocentesca, sia in area «cortigiana» che in area tardomunicipale, l’ideologia della letteratura che le Prose sanciscono sembra prevedere e precedere una sorta di stasi quantitativa, di iterazione e moltiplicazione a partire da un gioco di sistemi chiusi23.

Le conseguenze di cio` sulla produzione lirica cinquecentesca furono molteplici e profonde. Intanto, c’e` da dire che l’esemplificazione del programma teorico esposto nelle Prose arrivo` solo cinque anni piu` tardi, con la pubblicazione della raccolta delle Rime. Su di esse, si conosce il giudizio che, con giusta severita`, espresse il Dionisotti, per il quale «troppe volte il recupero critico della tradizione si esauriva in se´ stesso, nella ostentazione puramente e facil24 mente tecnica della disponibilita` di un modello» . D’altronde, nello stesso anno delle Rime bembiane, apparvero a stampa anche quelle del Sannazaro che, pur appartenendo a un tempo diverso, si staccavano dallo sperimentalismo e dal plurilinguismo di stampo cortigiano, per presentare soluzioni linguistiche e stilistiche analoghe agli esiti a cui frattanto era pervenuto il Bembo e che, beninteso, in quest’ultimo si fondavano su una prassi imitativa ben piu` consapevole e, soprattutto, teoricamente attrezzata. La mirabile coincidenza detto` al Dionisotti la celebre affermazione, per la quale «si puo` ben dire che il 1530 sia la data di nascita del petrarchismo lirico cinquecentesco»25. Sia chiaro, pero`, che l’imitatio stili della mediazione bembiana non escluse necessariamente la possibilita` di leggere il testo petrarchesco come documento di vita, ossia di farne oggetto di un’imitatio vitae. Su tale aspetto ha insistito opportunamente Baldacci, come risulta dal seguente brano: Cosicche´ l’interesse critico-retorico che sara` compiutamente espresso dalle poetiche (in primo piano le Prose del Bembo nella loro non ancora sufficientemente rivelata intenzione di poetica), e` assente quasi del tutto nei commenti al Canzoniere, ove non si tratta di presentare la poesia sotto un aspetto paradigmatico sul piano della forma, bensı` su

23 G. Mazzacurati, Pietro Bembo e il primato della scrittura, in Id., Il Rinascimento dei moderni. La crisi culturale del XVI secolo e la negazione delle origini, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 103 e 114-15. 24 C. Dionisotti, Introduzione a P. Bembo, Prose e Rime, Torino, Utet, 19662, p. 49 (il testo dell’Introduzione e` ora raccolto in C. Dionisotti, Scritte sul Bembo, a c. di C. Vela, Torino, Einaudi, 2002, pp. 23-65). 25 Ibid.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO

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quello della vicenda biografica di un uomo esemplarmente eccezionale26.

Esemplare, in tal senso, e` il commento del Vellutello che fu dato alle stampe nel 1525, lo stesso anno – si badi – delle Prose, e che ebbe una grande fortuna con la trentina circa di ristampe cinquecentesche. Ebbene, il riordino e il commento del Vellutello avvengono in chiave biografico-cronologica, tendendo cosı` a fare del Canzoniere la cronaca di una vicenda amorosa intesa come trasposizione del vissuto. In ogni caso, fu nella mediazione teorica e pratica del Bembo che il modello petrarchesco s’impose fino a diventare egemone, con la conseguenza che alla produzione di testi petrarcheschi finı` per corrispondere l’intera produzione di scrittura lirica. Perche´ la proposta delle Prose consisteva, in effetti, nell’elaborazione di una grammatica della lingua letteraria, nella fattispecie lirica, facendola coincidere con un unico testo concreto, il Canzoniere petrarchesco, appunto. Il risultato fu che, come ha suggerito Quondam, «la proposta del modello-Petrarca si trasformo` [...] in codificazione di uno specifico sistema linguistico rigidamente normativo e selettivo», ovvero nella resa di un «sistema linguistico ripetibile», all’interno del quale e` 27 dato riunire la «serie costante e fitta di testi lirici» cinquecenteschi . Se ne discostano, anche se solo parzialmente, alcune voci femminili, che risultarono piu` immuni dai condizionamenti del bembismo28, e – naturalmente – colui che e` considerato il maggior lirico del secolo, prima del Tasso, ossia Giovanni della Casa (1503-1556), il cui «canzoniere bifronte» e` stato giudicato «un imprescindibile dato di partenza per le future schiere di rimatori volgari, quasi un ponte gettato fra la generazione umanistico-bembiana della prima meta` del secolo e i postumi poeti veneziani dell’eta` che si era avviata al L. Baldacci, Il petrarchismo italiano nel Cinquecento, Padova, Liviana, 19742, p. 59. A. Quondam, Petrarchismo mediato. Per una critica della forma «antologia», Roma, Bulzoni, 1974, pp. 211-12. 28 Sul fenomeno delle donne poetesse vd. L. Borsetto, Narciso ed Eco. Figura e scrittura nella lirica femminile del Cinquecento: esemplificazioni ed appunti, in M. Zancan (a cura di), Nel cerchio della luna: figure di donna in alcuni testi del XVI secolo, Venezia, Marsilio, 1983, pp. 171-233; J. Schiesari, The Gendering of Melancholia. Feminism, Psychoanalysis, and the Symbolics of Loss in Renaissance Literature, Ithaca-London, Cornell University Press, 1992, ˆ ge et a` la Renaissance, «Actes pp. 160-90; AA.VV., Les femmes e´crivains en Italie au Moyen A du colloque international Aix-en-Provence, 12-14 novembre 1992», Aix-en-Provence, Universite´ de Provence, 1994. In prospettiva europea, S. R. Jones, The Currency of Eros: Womens Love Lyric in Europe (1540-1620), Bloomington-Indianapolis, Indiana University Press, 1990. 26 27

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PARTE PRIMA

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Manierismo»29. E, tuttavia, proprio l’epoca, nel corso della quale la prassi imitativa inaugurata dal bembismo fondava un codice petrarchista, fu anche quella che conobbe il massimo disinteresse per la forma canzoniere; se ne deduce che il codice petrarchista cinquecentesco non contemplava, fra i suoi elementi costitutivi, il livello macrostrutturale, al piu`, concepiva il Canzoniere come una vita in rime di messer Francesco Petrarca. Si tratta di un significativo fattore distintivo rispetto al petrarchismo quattrocentesco, la cui propensione all’esperimento coinvolgeva il livello macrostrutturale, dando luogo – pur raramente e in forme diverse – a canzonieri di tipo petrarchista. ` che, come ha spiegato con acume Santagata: E un petrarchismo «forte» non richiede il libro di rime, un petrarchismo «debole» ne favorisce lo sviluppo. In termini un poco piu` generali: un codice petrarchista formato e fissato espunge il livello macrostrutturale, mentre un codice petrarcheggiante ancora aperto e in via di formazione empirica puo` accoglierlo fra i suoi settori sperimentali30.

Del resto, rispetto al petrarchismo quattrocentesco, anche la dimensione geografica risulta assai meno pertinente, dal momento che la diffusione decisamente nazionale della proposta bembiana lascio` poco spazio alle spinte centrifughe, con la sola significativa ` comprensibile, allora, che a pareccezione dell’area napoletana31. E tire dalla meta` del secolo, quando cioe` il petrarchismo divenne un grande fenomeno di comunicazione di massa, «la forma-canzoniere si va mutando gradatamente nella forma-raccolta o libro di rime»32. Ebbe cosı` inizio, con le Rime diverse, pubblicate nel 1545 presso l’editore veneziano Giolito de Ferrari, la fortunata stagione delle antologie poetiche, quei contenitori che facevano convivere poeti rappresentativi alla stregua di un Bembo, accanto a poeti di fama di dubbia abilita` e, perfino, a poeti del tutto sconosciuti. Ne risultava, 29

R. Fedi, I due canzonieri di Giovanni Della Casa, in Id., La memoria della poesia. Canzonieri, lirici e libri di rime nel Rinascimento, Roma, Salerno Editrice, 1990, p. 248. Per l’edizione, vd. G. Della Casa, Rime, a c. di R. Fedi, 2 voll., Roma, Salerno Editrice, 1978. 30 M. Santagata, Introduzione a Id., Dal sonetto al canzoniere, Padova, Liviana, 19892, p. 15. 31 Vd. E. Raimondi, Il petrarchismo nell’Italia meridionale (1973), in Id., Rinascimento inquieto, nuova edizione, Torino, Einaudi, 1994, pp. 264-306; G. Ferroni e A. Quondam, La «locuzione artificiosa». Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell’eta` del manierismo, Roma, Bulzoni, 1973. 32 R. Fedi, Canzonieri e lirici nel Cinquecento. I. Dall’imitazione alla citazione, in Id., La memoria della poesia, cit., p. 49.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO

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come ha suggerito Gorni, che la disorganicita` del «libro di rime» aveva la meglio sull’organicita` della «forma-canzoniere», e con cio` crestomazia, frammento, esemplarita` finivano per prevalere sulla lettura continua, sulla coesione interna, sulla contestualita`33. Ce n’e` abbastanza; e, tuttavia, le conseguenze di tali operazioni editoriali, lungi dall’arrestarsi all’interno del libro, finiscono col coinvolgere lo stesso rapporto che il testo intrattiene con la dimensione storica. Roberto Fedi ha, difatti, giustamente sottolineato come il «libro di rime», nell’assemblare uno di seguito all’altro sia gli autori che i testi, ottenesse il doppio effetto – per un lato – di perdita di gerarchia e – per altro lato – di perdita di profondita` storica. Insomma, la silloge poetica tendeva a disporre gli autori e i testi selezionati sul piano unidimensionale della massima scambiabilita` e della pura contemporaneita`, consentendo che da un’operazione di imitazione si passasse a un processo di citazione34. D’altronde, una pratica poetica dispersiva e un gusto per il verso nato da occasioni contingenti, resero inattuale anche presso il piu` grande lirico del secolo, Torquato Tasso (1554-1595), l’idea del libro di poesia fortemente coeso, a favore del frammentismo o della strutturazione delle rime «a grappolo» (amorose, d’encomio, sacre). Ne´ e` un caso che il menzionato Della Casa fosse poeta amatissimo dal Tasso, autore di un monumento lirico di vastissime proporzioni (1708 componimenti raccolti), la cui vicenda compositiva ed editoriale risulta assai intricata, e che il piu` recente editore ha definito «uno dei piu` fervidi laboratori sperimentali della lirica tra Rinascimento e Barocco»35. Difatti, pur essendo ancorata agli schemi del petrarchismo cinquecentesco, la poesia del Tasso pervenne, a un progressivo svuotamento dei motivi petrarcheschi, e a un graduale affrancamento dagli stilemi piu` consueti derivati dal magistero dei Rerum vulgarium fragmenta. Sulle forme perfette e sorvegliate del modello prevalse, in effetti, la propensione per il dettato musicale, per il gusto dolce del suono, che raggiunsero vette di particolare maestria nel genere del madrigale. Favorito dalla supremazia culturale italiana nel Cinquecento, quando per la nostra cultura si creo` un nuovo pubblico europeo, e, soprattutto, promosso dalla proposta bembiana, che col testo del 33

G. Gorni, Il canzoniere (1984), in Id., Metrica e analisi letteraria, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 114. 34 Fedi, Canzonieri e lirici nel Cinquecento, cit., p. 51. 35 B. Basile, Introduzione a T. Tasso, Le Rime, Roma, Salerno Editrice, 1994, vol. I, p. VII.

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PARTE PRIMA

Canzoniere faceva coincidere l’elaborazione di una grammatica della lingua poetica, il modello petrarchista si diffuse nel giro di pochi decenni per tutta l’Europa, dove l’imitazione del Petrarca e dei suoi seguaci contribuı` decisamente al radicale rinnovamento poetico, motivando la rottura con la tradizione della poesia nazionale, e favorendo la fondazione del moderno linguaggio lirico. In Spagna, al tempo della prima edizione del Cancionero general (1511) di Hernando del Castillo, gli esperimenti con in quali Bosca´n e Garcilaso avrebbero rivoluzionato la poesia spagnola avrebbero tardato ancora tre lustri. E tuttavia, specie negli ultimi anni dell’epoca dei Re Cattolici, non mancarono segnali che, in forme diverse, preannunciavano cio` che si stava lentamente preparando. Per esempio, sia nelle aggiunte dei nuovi poeti e componimenti della rinnovata edizione del menzionato Cancionero, che vide la luce a tre anni di distanza dalla prima, sia nei componimenti poetici che Bartolome´ de Torres Naharro presento` come «ante pasto» e «post pasto» delle commedie pubblicate nella Propalladia, stampata a Napoli nel 1517, non mancavano numerosi e significativi esempi che non solo mostravano la penetrazione della poesia del Petrarca, ma erano anche indice dell’attenzione rivolta alla contemporanea poesia italiana. Beninteso, si trattava pur sempre di fenomeni nei quali ci si sforzava di combinare la fedelta` a una tradizione locale, ancora molto forte e consolidata da decenni, con i timidi tentativi di apertura al nuovo, ossia alla poesia che proveniva dalla penisola italiana36. Al 1526, appena un anno dopo la pubblicazione delle Prose bembiane, risalgono i primi esperimenti nella nuova maniera di poetare, da parte del barcellonese Juan de Bosca´n (1487ca.-1542), il quale fornisce la difesa del rinnovamento formale da lui stesso – e dal suo amico Garcilaso – avviato e promosso, nella celebre Epistola alla 36 Vd. F. Rico, Variaciones sobre Garcilaso y la lengua del petrarquismo, in AA.VV., Doce consideraciones sobre el mundo hispano-italiano en tiempos de Alfonso y Juan de Valde´s, Roma, Publicaciones del Instituto Espan˜ol de Lengua y Literatura, 1979, pp. 115-30; Id., A fianco di Garcilaso: poesia italiana e poesia spagnola nel primo Cinquecento, in «Studi Petrarcheschi», IV (1987), pp. 229-36; R. Lapesa, Los ge´neros lı´ricos del Renacimiento: la herencia cancioneresca (1988), ora in Id., De Berceo a Jorge Guille´n, Madrid, Gredos, 1997, pp. 122-45. Sul petarchismo, in generale, un’utile rassegna e` il volume di M. del P. Manero Sorolla, Introduccio´n al estudio del petrarquismo en Espan˜a, Barcelona, PPU, 1987; alla stessa studiosa dobbiamo anche il vasto repertorio Ima´genes petrarquistas en la lı´rica espan˜ola del Renacimiento, Barcelona, PPU, 1990. Vd. anche i piu` recenti contributi di M. Morreale, Il petrarchismo in Spagna: antecedenti e tramonto, in La cultura letteraria italiana e l’identita` europea, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 2001, pp. 107-66, e di A. Alonso, La poesı´a italianista, Madrid, Laberinto, 2002.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO



duchessa di Soma, che funge da prologo al secondo libro delle opere, pubblicate postume, un anno dopo la morte dell’autore. Traduttore del Cortegiano (1534), Bosca´n comincio` a tentare «en lengua castellana sonetos y otras artes de trobas usadas por los buenos authores de Italia»37, su sollecitazione di Andrea Navagero, all’epoca ambasciatore di Venezia alla corte dell’imperatore Carlo V. Nelle 10 canzoni e nei 102 sonetti, raccolti nel menzionato libro secondo, il modello petrarchesco risulta spesso contaminato dai moduli poetici delle due illustri tradizioni, di cui Bosca´n era naturale erede: quella della lirica catalana (Andreu Febrer, Jordi de Sant Jordi, e soprattutto Ausias March) e quella dei cancioneros di corte castigliani. In particolare, sono gli schemi logici derivati dalla poesia del grande Ausias March quelli che interagiscono piu` frequentemente col tessuto petrarchesco, dando origine ai prodotti di maggiore interesse per la studiata sintesi delle distinte tradizioni poetiche. Il che, tuttavia, non ha impedito al poeta di ricostruire la storia di un amante che «nel processo di separazione dalla sua condizione, dovra` elevarsi fino all’amore platonico e alla redenzione cristiana»38. ` al toledano Garcilaso de la Vega (1501ca.-1536) che spetta, E comunque, il merito di aver portato avanti con maggiore determinazione la sperimentazione avviata con leggero anticipo dal suo amico e sodale barcellonese, e di aver imposto – grazie a risultati sorprendentemente maturi – il nuovo modello poetico a coloro che possiamo considerare con una certa approssimazione i suoi continuatori e imitatori. Eppure, anche un poeta precocemente e sorprendentemente maturo come Garcilaso, conobbe la sua stagione di apprendistato, come risulta evidente da un esiguo numero di sonetti che risalgono, probabilmente, all’anno della svolta, il 1526, o a un periodo immediatamente successivo, e nei quali e` dato riconoscere con relativa facilita` una commistione tra il modello petrarchesco e gli ingredienti di cui si avvale – fino ad abusarne – la poesia cosiddetta cancioneril, un esasperato e tormentato concettismo espresso col ricorso non meno accentuato a figure di ripetizione e di antitesi. Molto presto, pero`, come nella canzone dell’esilio danubiano, «Con un manso ru¨ido», composta tra i mesi di marzo e luglio del ’32, 37 Obra poe´tica de Juan Bosca´n, a c. di M. de Riquer, A. Comas e J. Molas, Barcelona, Facultad de Filosofı´a y Letras, 1957, p. 89; «in lingua castigliana sonetti ed altre forme metriche usate dai buoni autori italiani». 38 A. Armise´n, Estudios sobre la lengua poe´tica de Bosca´n. La edicio´n de 1543, Zaragoza, Universidad de Zaragoza-Libros Po´rtico, 1982, p. 387.

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PARTE PRIMA

l’adeguamento al nuovo modello poetico appare, se non definitivamente compiuto, per lo meno spinto a tal punto da consentire di riconoscere – in alcune strofe – la nascita di una lingua poetica, nella quale in conseguimento di un petrarchismo perfetto apre il passo al ricupero delle fonti classiche. Modello petrarchesco e modelli classici vedranno presto invertire i ruoli; o, per lo meno, assumere un peso equivalente nella produzione napoletana di Garcilaso, la piu` considerevole dal punto di vista quantitativo, e anche la piu` matura e perfetta sotto il profilo qualitativo. L’esilio danubiano non duro` che pochi mesi; esso, difatti, fu presto comminato nell’esilio napoletano, dove Garcilaso giunse nel settembre del ’32, e dove trascorse – con alcune interruzioni – il resto della sua breve esistenza, fino alla fatale campagna in Provenza, nella quale trovo` la morte nel corso di una scaramuccia militare. Al suo arrivo a Napoli, Garcilaso, ben introdotto in una fitta rete di rapporti intellettuali tra corte vicereale e Accademia Pontaniana, e attivamente partecipe del dibattito sulla letteratura che vi si andava svolgendo, impresse una nuova svolta alla sua produzione poetica, abbandonando in parte gli esiti petrarcheschi quasi esclusivamente perseguiti fino ad allora, e inseguendo il tentativo di impiantare – anche nella lingua spagnola – le principali forme poetiche classiche. In fondo, possiamo sinteticamente affermare che, durante gli anni del soggiorno napoletano, Garcilaso visse a stretto contatto con un ambiente culturale nel quale, insieme all’affermazione del petrarchismo bembiano, andavano maturando gli esperimenti di una nuova poesia che nei generi neoclassici trovava la sua piu` compiuta realizzazione. Nascono cosı` piccoli capolavori di poesia rinascimentale, come – per esempio – la prima delle tre egloghe, «El dulce lamentar de dos pastores», o l’Ode ad florem Gnidi, «Si de mi baja lira», nelle quali il poeta seppe coniugare con arte sapiente il classicismo dei generi e dei modelli (Virgilio, Orazio) con l’intimo petrarchismo che e` dato rintracciare in entrambi i testi menzionati39. Intorno alla meta` del secolo, il processo di assimilazione della lingua poetica da parte degli spagnoli, iniziatosi circa tre decenni prima, deve essere ormai considerato un fenomeno totalmente consumato. Alla successiva generazione di poeti spagnoli, quella cioe` pienamente attiva nei decenni posteriori alla meta` del secolo, prima 39

Vd. Garcilaso de la Vega, Obra poe´tica y textos en prosa, a c. di B. Morros, Barcelona, Crı´tica, 1995.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO

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che – tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta – fosse imposta una nuova e decisiva svolta; a questa generazione di poeti filippini – dicevo – spetto` un compito di rinnovamento, che consistette nello sperimentare nuove vie, senza peraltro travalicare il solco del petrarchismo; ovvero, detto in altri termini, spetto` il compito di superare il modello fondato sul binomio Petrarca-Garcilaso, pur nella sostanziale fedelta` ad esso. In questo sforzo di rinnovamento, un contributo non trascurabile venne ancora una volta dall’Italia: non piu`, pero`, attraverso la voce straordinariamente unica di un solo poeta (Petrarca), ma mediante una pluralita` di toni, tutti veicolati da quel vasto fenomeno editoriale che caratterizzo` il panorama poetico della seconda meta` del Cinquecento. Mi riferisco, naturalmente, a quelle antologie poetiche che conobbero un’enorme fortuna e una larga diffusione, dentro e fuori della penisola italiana. Insomma, dopo una prima fase in cui Garcilaso aveva forgiato il moderno linguaggio lirico sul modello di Petrarca e dei classici, alcuni poeti delle successive generazioni inaugurano una nuova fase, durante la quale il tentativo di rinnovamento da essi compiuto passa anche attraverso il confronto con i rimatori petrarchisti italiani, resi fruibili dai «libri di rime», a partire dalla prima raccolta giolitina di Rime diverse del ’45 fino a quelle antologie tratte dalle stesse antologie, conosciute con i titoli di Rime scelte e di Fiori40. Tra i poeti di questa generazione emerge il sivigliano Fernando de Herrera (1534-1597) che, dopo aver dato alle stampe un esteso commento della poesia di Garcilaso (Anotaciones, 1580), pubblico` due anni dopo una selezione di 91 componimenti della sua poesia, mentre il resto della sua produzione poetica vide la luce solo molti anni dopo la sua morte, in un’edizione curata da Francisco Pacheco (Versos, 1619). Ebbene, nei testi pubblicati in vita e, maggiormente, in quelli pubblicati postumi, il nuovo linguaggio lirico risulta sottoposto a un processo d’intensificazione, col risultato di uno stile artificioso che e` caratteristico del gusto manierista, come del resto lo stesso Herrera manifestava in un passo delle Anotaciones: «Y es cları´ssima cosa que toda la ecelencia de la poesı´a consista en el ornato de la elocuencia»41. 40 Risulta ancora utile lo studio classico di J. G. Fucilla, Estudios sobre el petrarquismo en Espan˜a, Madrid, CSIC, 1960. 41 F. de Herrera, Anotaciones a la poesı´a de Garcilaso, a c. di I. Pepe e J. M. Reyes, Madrid, Ca´tedra, 2001, p. 561; «Ed e` chiarissimo che tutta l’eccellenza della poesia consiste nell’ornato dell’eloquenza». Per la poesia, vd. Obra poe´tica, a c. di J. M. Blecua, 2 voll., Madrid, Real Academia Espan˜ola, 1975.

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PARTE PRIMA

Anche in Portogallo, all’inizio del secolo, la pubblicazione di una grossa raccolta di poesia, il Cancioneiro geral (1516) di Garcı´a de Resende, mostra come tra i testi di tipo tradizionale facciano capolino le nuove tendenze che s’ispirano ai modelli italiani, tra i quali il Canzoniere petrarchesco. Fu, pero`, Francisco Sa´ de Miranda (1481-1558), di ritorno dal suo viaggio in Italia (1521-1526), dove a Roma soggiorno` presso Vittoria Colonna, a svolgere un ruolo fondamentale nell’introduzione in Portogallo del modello petrarchesco e delle nuove forme metriche ad esso collegate, la medida nova42. Il petrarchismo portoghese si affermo` definitivamente intorno alla meta` del secolo, con la seguente generazione di poeti, nei quali la lezione del Petrarca risulta fortemente contaminata con quella dei classici, dei neolatini, dei contemporanei petrarchisti italiani e degli stessi poeti della vicina Spagna, con particolare interesse per Bosca´n e Garcilaso. Del resto, una caratteristica di Sa´ de Miranda, comune peraltro a tutti gli scrittori portoghesi del Cinquecento, e` il bilinguismo letterario, per cui essi utilizzavano, pressoche´ indifferentemente, tanto il portoghese quanto il castigliano. Con l’eccezione di Anto´nio de Ferreira (1528-1569), che e` anche autore dell’unico canzoniere petrarchesco concepito come sequenza di testi narrativamente organizzati; si tratta del libro di 102 sonetti raccolto nei Poemas lusitanos, i quali – per il resto – sono strutturati in sezioni in base ai differenti generi poetici (odi, elegie, egloghe, epistole, epitaffi e, finanche, la tragedia Castro). Con la lirica di Luı´s Vaz de Camo˜es (1524/25-1580), che pure deve a Petrarca il suo apprendistato, «i grandi motivi dell’universo sentimentale di Petrarca sono ricreati alla luce di un disinganno e di una drammaticita` che superano di molto i termini in cui, nel Canzoniere, era rappresentato questo sentimento di dissidio»43. La maggiore inquietudine si riflette, del resto, in una maggiore liberta` nei confronti del Petrarca e dei suoi imitatori, che lo condusse al superamento del modello petrarchesco, con esiti di indubbio gusto manieristico, come d’altronde era possibile gia` riscontrare nella poesia del

42

F. Sa´ de Miranda, Obras completas, a c. di M. Rodrigues Lapa, 2 voll., Lisboa, 1943. R. Marnoto, Il petrarchismo in Portogallo, in L. Stegagno Picchio (a cura di), Il Portogallo. Dalle origini al Seicento, Firenze, Passigli, 2001, pp. 380-81. Per la poesia lirica di Camo˜es, pubblicata postuma nel 1595, vd. Lı´rica completa, a c. di M. de L. Saraiva, Lisboa, 3 voll., 1980-1981. Sul petrarchismo portoghese, in generale, vd. il volume della stessa Marnoto, O petrarquismo portugue´s do renascimento e do maneirismo, Coimbra, Universidade de Coimbra, 1997. 43

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO

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menzionato Ferreira, appartenente, con lo stesso Camo˜es, alla generazione dello spagnolo Herrera e dei francesi, Du Bellay e Ronsard. Considerato l’introduttore del Petrarca nella poesia francese del Cinquecento, Cle´ment Marot (1496-1544), un poeta per molti aspetti ancora legato alla maniera dei «grands rhe´toriqueurs», fu autore di numerosi epigrammi di contenuto amoroso, in alcuni dei quali e` dato avvertire la presenza del Petrarca accanto a quella, ben piu` preponderante, dei famosi strambottisti italiani, Serafino Aquilano e il Tebaldeo. Piu` direttamente, Marot, che negli anni 1534-36 conobbe l’esperienza dell’esilio in Italia, tra Ferrara e Venezia, del Petrarca tradusse una canzone, «Standomi un giorno solo a la fenestra», e sei sonetti, nei quali introdusse un’importante novita` metrica, dal momento che le due terzine dello schema italiano furono da lui rese con un distico seguito da una quartina a rime incrociate (AABCCB)44. A Lione, importante crocevia commerciale e culturale tra Francia e Italia, Maurice Sce`ve (1501-1560) compose e pubblico` De´lie object de plus haulte vertu (1544), una raccolta di 449 «dizains», dedicati alla poetessa Pernette de Guillet. Il «dizain», nella definizione di Thomas Sebillet (Art poe¨tique, 1548), e` un epigramma di dieci versi e, pertanto, esso si ricollega al genere classico e a quello neolatino dei poeti contemporanei come Nicolas Bourbon o Jean Visagier, che Sce`ve frequentava nella citta` natale. Dal punto di vista metricoformale, quindi, non v’e` nulla che si accordi col modello petrarchesco, col quale la raccolta di Sce`ve aveva, tuttavia, significativi punti di contatto sia a livello delle numerose reminiscenze presenti nei singoli componimenti, sebbene non possa escludersi la mediazione dei petrarchisti italiani quattrocenteschi, sia a livello macrostrutturale, essendo stato De´lie considerato il primo «canzoniere» francese, benche´ non manchino divergenze rilevanti, a partire dall’assenza di quel pentimento che i giovanili errori ispirano al modello italiano45. Di ventiquattro sonetti, invece, oltre che di tre elegie, e` formata l’esile opera poetica che Louise Labe´ (1524-1566), altra illustre rappresentante della cosiddetta «scuola di Lione», pubblico` nel 1555. Come quello del Petrarca, il «canzoniere» della Labe´ ricostruisce retrospettivamente una storia amorosa che, pur pretendendo di ser-

44 Sul petrarchismo di Marot, vd. Ch. Dedeyan, La fortune de Petrarque en France, in La Ple´iade e il Rinascimento italiano, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1977, pp. 39-52. 45 M. Sce`ve, De´lie, a c. di F. Joukovsky, Paris, Dunod, 1996.

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PARTE PRIMA

vire da monito alle altre «dames» («et gardez vous destre plus malheureuses!»), tuttavia difetta della dimensione cristiana e, persino, di uno sviluppo spirituale46. Ma, sei anni prima che la «belle cordie`re» di Lione desse alle stampe la sua breve raccolta, nella primavera del 1549, a Parigi, uno dei due protagonisti della «Ple´iade», Joaquin Du Bellay (1522-1560), aveva pubblicato due raccolte di versi, l’Olive e i Vers lyriques, precedute dal trattato sulla Deffence et illustration de la Langue Franc¸oyse, dove al dovere di rendere illustre la lingua nazionale si raccordava l’idea d’una imitazione creatrice in poesia. Al poeta futuro, vero interlocutore del discorso sulla difesa della lingua, tocca, in effetti, di rinnovare, arricchendolo e migliorandolo, l’idioma francese, per mezzo – non della traduzione – bensı` dell’imitazione tanto dei modelli classici quanto di quelli italiani. Petrarca finiva cosı` per essere trattato alla stregua degli auctores della classicita`, e il sonetto petrarchesco acquistava pari dignita` dell’ode oraziana. In tal modo, nel trattato come nelle raccolte, il lettore trovava espressa – in termini sia teorici che pratici – una nuova concezione della poesia lirica che, nella recente sintesi di Franc¸ois Rigolot, «rifiutava i generi medievali (ballata, chant royal, rondo`), la prosodia complicata della seconda retorica e le “facilita`” della scuola marotica»47. Con i 50 sonetti composti «a` la louange de l’Olive» che, nella seconda edizione del 1550, risultarono piu` che raddoppiati, Du Bellay, in conformita` dei precetti espressi nella Deffence, impose il genere poetico che in Francia risultava pressoche´ nuovo, nonostante i precedenti di poeti come Saint Gelais, Marot, Sce`ve, Marguerite de Navarre, Peletier, e sebbene un anno prima – nel 1548 – un poeta di Carpentras, Vasquin Philieul, avesse presentato in traduzione 196 sonetti di Petrarca. Il risultato fu raggiunto grazie all’applicazione del principio d’imitazione che, una volta teorizzato e fortemente difeso nel trattato, nei sonetti risultava concretamente esercitato nei confronti del Petrarca, ma anche di quei numerosi petrarchisti che con i loro componimenti avevano riempito le antologie giolitine di Rime diverse, pubblicate negli anni 1545 e 1547. Ne´ la raccolta risultava priva di un principio organizzativo interno, dal momento che del Canzoniere petrarchesco essa accoglieva sia il punto di vista retrospettivo, sia

46 L. Labe´, Oeuvres comple`tes, a c. di E. Giudici, Gene`ve, Droz, 1981; e la posteriore edizione a c. di F. Rigolot, Paris, Flammarion, 1986. 47 F. Rigolot, Poe´sie et Renaissance, Paris, du Seuil, 2002, p. 187.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO

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l’idea di uno sviluppo spirituale, entrambi completati da un’ispirazione neoplatonica, che risultava maggiormente evidente nell’edizione ampliata. Piuttosto, bisogna insistere sul fatto che, grazie anche ai molteplici prestiti dagli autori delle Rime diverse, i sonetti dell’Olive presentano un ricorso piu` frequente alla mitologia, cosı` come una propensione all’uso del concetto o della pointe finale, che li rendono partecipi dell’incipiente gusto manierista48. Dopo un debutto letterario, nel 1550, consacrato al genere classico dell’ode, tanto pindarica quanto oraziana (Quatre Premiers Livres des Odes), e nel segno di un dichiarato disprezzo per i «petits sonnets pe´trarquize´s», due anni dopo, l’altro grande protagonista della «Ple´iade», amico e condiscepolo di Du Bellay presso il collegio di Coqueret, Pierre de Ronsard (1525-1585), aderisce alla moda del petrarchismo, pubblicando a sua volta una raccolta di sonetti dedicati a Cassandre, le Amours, che ebbe presto – l’anno seguente – una nuova edizione ampliata, e fu accompagnata da un ampio commento curato da Marc-Antoine Muret. Al celebre umanista, in effetti, era affidato il compito di decifrare i non pochi luoghi oscuri, i quali risultavano tali per effetto delle numerose allusioni erudite che Ronsard ricava dagli autori classici, e che peraltro creavano un significativo fenomeno di contaminazione della lingua del Petrarca con le reminiscenze classiche. E, tuttavia, nelle sue imitazioni, Ronsard si mostra piu` libero e assai piu` discreto del suo sodale Du Bellay, rispetto al quale rivela una netta preferenza per i grandi maestri – Bembo e, naturalmente, lo stesso Petrarca – piuttosto che per la pletora di petrarchisti piu` o meno noti; fa un uso molto piu` moderato delle antologie giolitine, che pure conosce e annota; e, infine, qualunque sia il modello a cui presti l’orecchio, suole carpire da esso uno spunto piuttosto che ricalcarne il dettato49. Intanto, nello stesso anno in cui vide la luce l’edizione aumentata delle Amours, il 1553, Du Bellay, nel ripubblicare il Recueil de Poesie, vi inseriva l’ode «A une dame» che si proponeva come una vera e propria satira contro la poesia petrarchista («J’ay oublie´ l’art de petrarquizer»), e che, difatti, fu ripresa e rimaneggiata qualche anno dopo, nei Divers jeux rustiques, col titolo «contre les pe´trarquistes»50. 48 J. Du Bellay, L’Olive, in Oeuvres poe´tiques, a c. di D. Aris e F. Joukovsky, 2 voll., Paris, Bordas, 1993-1996, vol. I, pp. 1-74. 49 P. De Ronsard, Les Amours, a c. di H. E. C. Weber, Paris, Garnier, 1998. 50 Le due redazioni del componimento possono leggersi in Du Bellay, Oeuvres poe´tiques, ed. cit., vol. I pp. 170-77 e vol. II pp. 190-96.

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PARTE PRIMA

Anch’essa frutto dell’incontro con i modelli italiani: la tradizione antipetrarchista di un Niccolo` Franco o di un Berni, la satira e` non di meno la reazione contro i troppo facili risultati poetici dei petrarchisti e, quindi, anche contro l’autore dell’Olive. Essa puo` essere assunta, pertanto, come un punto di svolta, rispetto al quale le grandi raccolte dell’esilio italiano, Antiquitez de Rome e Regrets, pubblicate nel 1558, dopo il ritorno dell’autore in patria, rappresentano gli esiti piu` maturi e coerenti, nei quali l’allontanamento dal petrarchismo non cancello` i debiti contratti nei confronti dei modelli italiani e classici, sulle cui orme si era andato forgiando il nuovo linguaggio lirico francese. Di non minore complessita` si configura il rapporto che Ronsard intrattenne col petrarchismo nelle opere poetiche di argomento amoroso che seguirono alla raccolta delle Amours del ’53. Nella Continuation des Amours (1555) e nella Nouvelle Continuation (1556), dove Cassandre e` abbandonata per Marie, le novita` che si presentano al lettore sono molteplici, spaziando dalle inedite soluzioni metricoformali, con l’alessandrino che prende il posto del decasillabo nella maggior parte dei sonetti, alla piu` generale e inattesa estetica della semplicita` che ispira entrambe le nuove raccolte, in luogo dei raffinati artifici dell’opera precedente, per finire con i modelli piu` attivamente operanti, che vedono gli elegiaci latini – Catullo, Properzio, Tibullo – controbilanciare la raggiunta liberta` dalla costrizione petrarchista. Ma i Sonnets pour He´le`ne (1578) segnano un ritorno al Petrarca e al petrarchismo che, pur determinando il tono dominante dell’intera raccolta, sono sottoposti a una forte contaminazione con gli elegiaci latini e i poeti greci dell’Antologia palatina. Le fonti petrarchiste, pero`, sono rappresentate da quei poeti cortigiani del Quattrocento, che in Francia erano tornati in auge grazie alla poesia del modesto e fortunato Philippe Desportes (1546-1606), il quale nei suoi primi libri di rime – Amours de Diane e Amours d’Hipolyte –, pubblicati entrambi nel 1573, aveva fatto massicciamente ricorso ai poeti quattrocenteschi come Panfilo Sasso, Tebaldeo, Aquilano, insieme a quelli cinquecenteschi presenti nell’antologia giolitina delle Rime scelte del 156351. All’ambiente cortigiano di Enrico VIII e` strettamente collegato il processo di rinnovamento della poesia inglese grazie al ricorso al 51

Sul petrarchismo francese e` ancora molto utile il volume complessivo di J. Vianey, Le pe´trarquisme en France au XVI e sie`cle (1909), Gene`ve, Slatkine Reprints, 1969.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO

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modello italiano. Il ruolo di introduttore delle nuove forme spetto`, difatti, a Sir Thomas Wyatt (1503-1542), cortigiano e diplomatico al servizio del re in diversi paesi europei, e autore – almeno fino al 1526 – di ballatelle che altro non sono che la continuazione di una lunga e fiorente tradizione locale. Solo dopo i viaggi in Italia del biennio 1526-27, Wyatt compose una serie di sonetti che risultano essere diretta traduzione o imitazione di Petrarca e – in misura minore – di petrarchisti come Serafino Aquilano. Sui trenta sonetti, in realta`, piu` di venti si rifanno ad altrettanti testi del Canzoniere, selezionati peraltro tra quelli che abbondano in ripetizioni, antitesi e ossimori. Spesso Wyatt mostra una straordinaria duttilita` nell’adottare il testo originale e prestigioso, di argomento amoroso, alle circostanze concrete della vita di corte. Peraltro, come ha scritto Dasenbrock, «la sua trasformazione di Petrarca in una direzione piu` realistica, personale ed egocentrica e` tanto importante per i piu` tardi e grandi sonettisti del Rinascimento inglese quanto lo e` la sua introduzione della forma del sonetto»52. Quanto a quest’ultimo, poi, il sonetto introdotto da Wyatt presentava la particolarita` metrica di sostituire le due terzine, canoniche in quello italiano, con una quartina e un distico, che costituira` la variante formale tipicamente inglese. In tal modo, Wyatt sembra che mescolasse la struttura metrica del sonetto con quella dello strambotto. Le opere di Wyatt circolarono a lungo manoscritte presso il ristrettissimo pubblico di corte, finche´ un quarto di secolo dopo la sua morte l’editore Richard Tottel non pubblico` l’antologia Songes and Sonnets, opera oggi piu` nota come Tottels Miscellany, che costituı` il canale attraverso il quale la poesia europea e le sue nuove forme liriche si diffusero in Inghilterra. Le opere di Wyatt vi comparivano accanto a quelle di Henry Howard (1517-1547), conte di Surrey, al cui riadattamento di alcuni sonetti petrarcheschi si deve l’invenzione della forma definitiva del sonetto inglese, con la quale verra` usata dai poeti della grande stagione sonettistica, negli ultimi due decenni del secolo. Difatti, Surrey, da un lato, fa sua la divisione di Wyatt in tre quartine e un distico, ma, d’altro lato, preferisce e impone uno schema metrico un po’ differente (abab cdcd efef gg)53. Bisogna, tuttavia, attendere piu` di una ventina d’anni, dopo la 52

R. W. Dasenbrock, Imitating the Italians: Wyatt, Spenser, Synge, Pound, Joyce, Baltimore, John Hopkins University Press, 1991, p. 31. 53 Vd. Th. Wyatt, The Complete Poems, a c. di R. A. Rebholz, Harmondsworth, Penguin, 1978; H. Howard, The poems, a c. di E. Jones, Oxford, Oxford University Press, 1964.

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PARTE PRIMA

pubblicazione della prima edizione della Miscellany di Tottel, perche´ si sviluppi una vera generazione di petrarchisti. Figura internazionale e cosmopolita, Philip Sidney (1554-1586), entrato nella storia della letteratura come «English Petrark», fu – in effetti – l’autore della raccolta che e` considerata il primo canzoniere inglese e il capolavoro della lirica elisabettiana di ispirazione petrarchista. Cominciati nel 1581 e ispirati dalla passione del poeta per Penelope Devereux, i 108 sonetti e le undici canzoni che compongono la raccolta di Astrophil and Stella, furono pero` pubblicati postumi nel 1591. Nel canzoniere si racconta la storia d’amore senza speranza di Astrophil, il cui nome gioca sul doppio senso di «amante delle stelle» e l’iniziale del nome di Sidney (Phil), per Stella, in una forma nella quale l’ostinata dichiarazione di passione si esprime spesso con quei concetti sottili (conceits), che erano ormai divenuti parte integrante della piu` tarda tradizione petrarchista. Alludendo al famoso verso, «“Fool”, said my Muse to me, “look in thy heart and write”», Mario Praz ha scritto che «il Sidney, pur professando di ascoltare solo la voce del suo cuore, e di disprezzare la turba petrarcheggiante, di fatto scrive nello stile stravagante dei piu` artificiali dei petrarchisti»54. La pubblicazione della raccolta di Sidney fu all’origine di una frenesia sonettistica che, sebbene fosse destinata ad esaurirsi ben presto, tuttavia caratterizzo` la produzione poetica dell’ultimo decennio del secolo. Val la pena solo di ricordare, tra le altre, Delia di Samuel Daniel e Diana di Henry Constable, entrambe del 1592, Partenophe and Partenophil (1593) di Barnaby Barnes, Ideas Mirror (1594) di Michael Drayton. Una menzione particolare meritano, invece, gli Amoretti di Edmund Spenser (1552-1599), una raccolta di 89 sonetti che risalgono ai primi anni novanta, ma che furono pubblicati nel 1595. Dedicati a Elizabeth Bayle, sua seconda moglie, i sonetti raccontano una vera storia d’amore che sembra sfociare nell’Epithalamion finale, celebrazione del matrimonio e della felicita` coniugale. Nella serie di sonetti, dove l’amore terreno arriva a coniugarsi con il volere di Dio («Love is the lesson which the Lord us taught»), sono numerosi gli echi del Petrarca, ne´ mancano quelli di altri italiani, come Bembo e Tasso, o dei francesi, Ronsard e Deportes. In ogni caso, nel giudizio di Praz,

54 M. Praz, Petrarchismo e eufuismo in Inghilterra (1971), in Id., Bellezza e bizzaria. Saggi scelti, a cura di A. Cane, Milano, Mondadori, 2002, p. 57. Per la poesia di Sidney, vd. Ph. Sidney, The poems, a c. di W. A. Ringler, Oxford, Oxford University Press, 1962.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO



«lo Spenser predilige imitare quei temi che contengono qualche tratto eufuistico. Il Petrarca che troviamo negli Amoretti di Spenser e` un Petrarca visto nello specchio deformante di Serafino»55. Le capacita` tecniche del poeta risultano, peraltro, particolarmente evidenti nello schema di rime che suole adottare (abba bcbc cdcd ee), dove i versi delle tre quartine sono accortamente intrecciati nel gioco del ritmo e delle rime e tenuti distinti dal distico finale56.

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4. Il dissolvimento del codice. Petrarca, oltre il petrarchismo Rivolgendosi al «generosissimo Cavalliero» Philip Sidney, dedicatario dell’opera, un indignato Giordano Bruno, in polemica con la grande tradizione della poesia petrarchista, cosı` scriveva nel paragrafo iniziale dell’«Argomento» preposto a Gli eroici furori (1585): Che spettacolo (o Dio buono) piu` vile e ignobile puo` presentarsi ad un occhio di terso sentimento, che un uomo cogitabundo, afflitto, tormentato, triste, maninconioso [...] un che spende il meglior intervallo di tempo, e gli piu` scelti frutti di sua vita corrente, destillando l’elixir del cervello con mettere in concetto, scritto, e sigillar in publichi monumenti, quelle continue torture, que’ gravi tormenti, que’ razionali discorsi, que’ faticosi pensieri, e quelli amarissimi studi destinati sotto la tirannide d’una indegna, imbecille, stolta e sozza sporcaria?57

Effettivamente, con la stagione del ‘manierismo petrarchista’, si puo` asserire che il petrarchismo smette di essere quel codice poetico sul quale, nel corso dei sei o sette decenni centrali del XVI secolo, si era andata via via formando e consolidando una lirica europea che aveva radicalmente rinnovato le singole tradizioni nazionali. Tuttavia, mentre per il Nolano la polemica antipetrarchesca costituisce la 55

Praz, Petrarchismo e eufuismo, cit., p. 60. E. Spenser, Amoretti and Epithalamion, a c. di K. J. Larsen, Tempe, AZ, Medieval&Renaissance Texts&Studies, 1997. Sullo sviluppo del sonetto nella letteratura inglese, vd. F. T. Prince, The Sonnet from Wyatt to Shakespeare, in J. Russell Brown e B. Harris (a cura di) Elisabethan Poetry, London, Stratford-upon-Avon Studies 2, 1960; M. R. G. Spiller, The Development of the Sonnet, London, Routledge, 1992. Sul petrarchismo inglese, vd. gli studi complessivi di T. P. Roche, Petrarch and the English Sonnet Sequences, New York, 1989; Dasenbrock, cit.; H. Dubrow, Echoes of Desire: English Petrarchism and its Counterdiscourses, Ithaca, Cornell University Press, 1995. 57 G. Bruno, De gli eroici furori, in Id., Dialoghi filosofici italiani, a c. di M. Ciliberto, Milano, Mondadori, 2000, p. 755. 56

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PARTE PRIMA

premessa teorica «per il recupero in positivo della tensione irrisolta connaturata al linguaggio del Canzoniere, i cui moduli verranno costantemente richiamati come cifra esplicativa di un’esperienza di se´ fuori dall’ordinario»58, per le future generazioni di poeti europei, attivi nel periodo tra la fine del Cinquecento e le primissime decadi del Seicento, i Rerum vulgarium fragmenta continuarono a essere il grande codice di riferimento specie per la poesia amorosa, ma solo per essere sottoposto al superamento e alla rottura di tutti i suoi schemi formali e disegni tematici. Insomma, cio` a cui ci si vuol riferire e` quel processo di dissoluzione del codice petrarchista, da cui paradossalmente ebbe vita una sezione rilevante della nuova poesia barocca. Basta menzionare alcune delle maggiori figure di questa nuova stagione della lirica europea: Giovan Battista Marino, in Italia, tre grandi poeti spagnoli come Lope de Vega, Luis de Go´ngora, e il piu` giovane Francisco de Quevedo, e ancora gli inglesi William Shakespeare e John Donne, tutti vissuti tra le date estreme del 1561 e del 1645, per rendersi conto del fatto che per la loro formazione fu fondamentale la lezione del Petrarca e dei petrarchisti cinquecenteschi. Difatti, nella loro produzione poetica, in qualche caso sterminata, al lettore e` dato incontrare numerosi componimenti che partono da immagini assolutamente convenzionali, che appartengono cioe` alla riconosciuta tradizione lirica petrarchista. Ma va anche detto subito che, al di la` delle notevoli differenze che contraddistinguono le varie personalita` artistiche, l’originaria vena petrarchista subisce, nella pratica poetica di ognuno di loro, una metamorfosi tale da mettere in questione i fini e i metodi della convenzione petrarchesca, generando cosı` un’incrinatura di quel codice che essi smontano e ricostruiscono con tecniche sempre nuove. Nelle loro raccolte di rime, peraltro, spesso la casistica amorosa non e` tanto quella del Petrarca quanto piuttosto – per intenderci – quella del Tasso lirico, con il suo repertorio di temi cortigiani alla moda, teso a fissare atteggiamenti e movenze esteriori. Le conseguenze, sul piano macrostrutturale, sono evidenti: le ripartizioni delle raccolte e il frazionamento interno dei componimenti escludono qualsiasi rapporto con la struttura unitaria del Canzoniere petrarchesco, tranne le parziali eccezioni rappresentate dai sonetti shakespeariani e dal breve canzoniere quevediano, Canta sola a Lisi. In ogni caso, tutto sembra testimo58

Ivi, p. 1349, n. 3.

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MODELLI E STAGIONI DEL PETRARCHISMO EUROPEO

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niare un gusto di poesia fondata sull’invenzione – «la nuova maniera dell’invenzione», per dirla col Marino –, alla quale, piu` che all’erudizione o alla qualita` dello stile, si affida il pregio della loro scrittura lirica che, difatti, attinge a una fantasia metaforica inesauribile. Insomma, e` il trionfo del gioco concettoso delle metafore, nel quale risultano maestri ineguagliati i cinque poeti menzionati, e nel quale finisce anche per dissolversi quel codice petrarchista, la cui impalcatura formale e tematica risulta distrutta – per cosı` dire – dal di dentro. Col dissolvimento del codice operato dai poeti barocchi, la storia del petrarchismo puo` davvero dirsi giunta al capolinea; il che non vale certo per Petrarca, la cui presenza continuo` ad essere vigente nelle diverse stagioni della lirica europea posteriore al Seicento. Tuttavia non e` azzardato dire che il prestigio di cui egli godette fu piu` nominale che reale. Difatti, pur essendo generalmente considerato – sul piano dei contenuti – come il cantore per eccellenza della passione amorosa, e – su quello formale – come il perfetto artefice di versi sublimi, la sua incidenza difficilmente potrebbe considerarsi determinante, e la sua fortuna – invero – non ha nulla di paragonabile a quella di cui godette Dante, tra Otto e Novecento. Naturalmente, le cose si presentano affatto diverse, se restringiamo il campo alla sola poesia italiana, dove la lezione petrarchesca non smette di esercitare la propria essenziale influenza nelle maggiori voci poetiche. Per rendersene conto, sarebbe sufficiente ricordare il giudizio del nostro Leopardi, il quale nella poesia del Petrarca ritrovava «una forma ammirabilmente stabile, completa, ordinata, adulta, uguale, e quasi perfetta di lingua, degnissima di servire di modello a tutti i secoli quasi in ogni parte»59. Coerentemente, lo sforzo di creazione di una lingua poetica moderna, compiuto nei Canti, coincideva in larga misura col recupero del modello petrarchesco. Anche nel secolo successivo, del resto, alcune delle piu` originali esperienze poetiche risultano profondamente segnate dalla lezione petrarchesca: «qualunque operazione – ha scritto Guglielminetti –, che nel Novecento abbia avuto di mira la restaurazione del linguaggio poetico come strumento assoluto di approfondimento interiore e di colloquio intersoggettivo, e` avvenuto all’insegna di un certo petrarchismo»60. Tre 59

G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a c. di G. Pacella, 3 voll., Milano, Garzanti, 1991, vol. I, p. 453. 60 M. Guglielminetti, Petrarca e il petrarchismo. Un’ideologia della letteratura, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1994, p. 49.

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PARTE PRIMA

nomi per tutti, a conclusione di una parabola il cui arco sottende sei secoli circa di poesia, all’insegna di un modello lirico col quale, piu` che con ogni altro, puo` farsi coincidere la modernita`: Guido Gozzano, che ripropone il Canzoniere come libro di apprendistato poetico per eccellenza, infittendo di citazioni petrarchesche l’abbondante materiale di riuso che confluisce in quel «romanzo autobiografico» che sono I Colloqui; Giuseppe Ungaretti, la cui raccolta Sentimento del tempo segno` un ritorno a Petrarca e a Leopardi, dopo la stagione avanguardistica del Porto sepolto e di Allegria di naufragi («Quando mi posi al lavoro del Sentimento, due poeti erano i miei favoriti: ancora il Leopardi e Petrarca»)61; Umberto Saba, che menziona il Petrarca tra i principali modelli della sua poesia giovanile («Ma, nella sua formazione, non entro` solo il Leopardi. Ci entro` anche, piu` o meno, il Petrarca»62, ma il cui Canzoniere, tuttavia «malgrado il titolo [...] non ha – almeno direttamente – molto a che fare col Canzoniere per antonomasia [...] quasi nessun rapporto (se non quello che lega appunto l’archetipo ai suoi derivati) sussiste per cio` che riguarda la concezione e la strutturazione del ‘libro lirico’ e l’articolazione interna dei contenuti»63.

61 G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie (1969), a c. di L. Piccioni, Milano, Mondadori, 1992, p. 531. 62 U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere (1948), Milano, Mondadori, 1963, p. 41. 63 F. Brugnolo, «Il Canzoniere» di Umberto Saba, in Letteratura italiana. Le Opere, 4 voll., Torino, Einaudi, 1992-1996, vol. IV, t. I, p. 537.

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PARTE SECONDA

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ASPETTI DELLA POESIA DI CORTE. CARVAJAL E LA POESIA A NAPOLI AL TEMPO DI ALFONSO IL MAGNANIMO

Paragonati con le ricerche degli eruditi di fine secolo passato e d’inizio del nostro, gli studi dell’ultimo trentennio mostrano una spiccata propensione a fortemente circoscrivere, se non addirittura a negare, l’influenza che i modelli poetici italiani esercitarono sulla produzione di quei poeti iberici che con piu` stretti vincoli si congiunsero alla corte aragonese di Napoli, dove essi soggiornarono per periodi piu` o meno lunghi, a seconda dei casi. Tale propensione, frutto meritorio di sapienti e approfondite indagini, ha dato origine a un luogo comune della critica, che riportero` facendo ricorso alla sua piu` recente formulazione da me conosciuta. In un breve studio sulle serranas di Carvajal, che verte principalmente sui rapporti tra «Andando perdido, de noche ya era» e il Libro de buen amor, l’autore, E. Michael Gerli, pone fine al suo scritto col suggerimento di sei conclusioni generali, nella penultima delle quali e` dato riconoscere il comune luogo critico a cui siamo interessati: the prevailing literary inspirations and models at court of Alfonso V – scrive Gerli – remained [...] primarily Castilian, harking back to 1 Iberian roots rather than bending toward Italian models .

1

E. M. Gerli, Carvajal’s Serranas: Reading, Glossing, and Rewriting the Libro de buen amor in the Cancionero de Estu´n˜iga, in N. Vaquero e A. Deyermond (a cura di), Studies on Medieval Spanish Literature in Honor of Charles F. Fraker, Madison, Hispanic Seminary of Medieval Studies, 1995, pp. 159-71 (cito da p. 168). Il trentennio circa di studi, a cui ho fatto cenno nel testo, e che culmina col citato studio di Gerli, puo` farsi risalire al noto lavoro di P. E. Russel, Armas versus Letters: Toward a Definition of Spanish Humanism, in A. R. Lewis (a cura di), Aspects of Renaissance: A Symposium, Austin-London, 1967, pp. 45-58 (tr. sp. in Id., Temas de «La Celestina» y otros estudios, Barcelona, Ariel, 1978, pp. 207-39; con riferimenti alla Napoli aragonese nelle pp. 219-21), e alcuni momenti significativi nella puntuale indagine di R. G. Black, Poetic Taste at the Aragonese Court in Naples, in Florilegium

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PARTE SECONDA

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[l’ispirazione e i modelli letterari prevalenti nella corte di Alfonso V rimasero [...] fondamentalmente castigliani, ritornando alle radici iberiche piuttosto che rivolgersi ai modelli italiani].

‘Radici iberiche’ contro ‘modelli italiani’, dunque, con l’inatteso quanto deludente sopravvento delle prime sui secondi. Ora, senza pretendere di contestare un’opinione resa autorevole dall’indiscusso rigore degli studiosi che l’hanno professata, la mia premura maggiore e` rivolta a cogliere il reale contesto poetico nel quale i poeti iberici si trovarono a svolgere la loro attivita`; e insisto sull’aggettivo reale, perche´ mi e` difficile evitare la sensazione che la situazione poetica napoletana al tempi di Alfonso sia stata spesso o scambiata con quella coeva di altri centri della penisola, o confusa con quella napoletana di altre epoche: della seconda meta` del Quattrocento, di solito, e, sebbene piu` raramente, del primo Cinquecento perfino. Mi affretto, pertanto, a precisare che – in tutto quel che segue – mi riferiro` essenzialmente al quindicennio circa con cui coincise il regno di Alfonso, tenendo cioe` fuori dalla portata della mia riflessione il successivo periodo di Ferrante, per il quale valgono tutt’altre considerazioni. Mi chiedero`, allora, quali fossero i modelli italiani a cui Carvajal e i suoi colleghi volsero le spalle, preferendo radicare i propri componimenti nei gia` collaudati schemi della maniera cosiddetta cancioneril. Il maggiore esperto di lirica aragonese della seconda meta` del Quattrocento, Marco Santagata, concisamente ci avverte che «Sino alla generazione di De Jennaro, Aloisio, Galeota ecc. quasi nessuna voce rompe il silenzio calato con la crisi politico-culturale dell’eta` durazzesca: il petrarchismo, cioe`, rinasce a Napoli nella seconda meta` del secolo privo di una tradizione che in qualche modo lo radichi nell’humus culturale indigeno»2. Una condizione di silenzio – poetico, beninteso – che va fatta risalire alla prima parte del secolo; all’ultimo, difficile periodo del regno angioino che prelude al cambio dinastico, come lo stesso Santagata, tornando sull’argomento in due piu` recenti contributi, conferma in termini ancor piu` concisi e perentori:

Hispanicum. Medieval and Golden Age Studies presented to C. Clotelle Clarke, Madison, Hispanic Seminary of Medieval Studies, 1983, pp. 165-78, nonche´ nel libro di J. C. Rovira, Humanistas y poetas en la corte napolitana de Alfonso el Magna´nimo, Alicante, Instituto de Cultura «Juan Gil-Albert», 1990. 2 M. Santagata, La lirica aragonese. Studi sulla poesia napoletana del secondo Quattrocento, Padova, Antenore, 1979, p. 94.

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ASPETTI DELLA POESIA DI CORTE

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Nella prima meta` [...] Napoli e il Regno, in preda alla crisi che portera` al passaggio dinastico, tacciono. La Napoli angioina e` ridotta al silenzio e solo nei tardi anni ’50 comincera` a farsi sentire il risveglio aragonese3.

La generazione di rimatori a cui fa riferimento Santagata nella prima citazione da me riportata e` quella della cosiddetta ‘vecchia guardia’: quella, cioe`, immediatamente anteriore a Cariteo e Sannazaro, formata dai poeti nati tra il 1430 e il 1445, e attivi nei primi anni ’60, o – nei casi piu` precoci – alla fine degli anni ’50. Durante tutto il regno di Alfonso, e fino all’inizio di quello di suo figlio Ferrante, non esiste una tradizione poetica a Napoli e, pertanto, non si danno modelli poetici a cui i verseggiatori spagnoli avrebbero potuto o dovuto ispirarsi. Il discorso rischia di chiudersi qui, imputando la tanto deprecata mancanza d’interazione di tradizioni e modelli all’assenza di uno dei reagenti, piuttosto che alla refrattarieta` ispanica nei confronti di maniere poetiche locali avvertite come difformi ed estranee. Si tratta, tuttavia, di un rischio potenziale, dal momento che – a un’analisi piu` ravvicinata – la situazione doveva presentarsi alquanto piu` articolata di quanto il sintetico quadro finora tracciato lasci intendere. Per comprenderla meglio, dobbiamo tornare alla prima meta` del secolo, agli ultimi decenni del regno angioino, quando in ambito poetico si verifico` un fatto nuovo, destinato ad avere vaste conseguenze in epoca aragonese. Mi riferisco al recupero della poesia popolare e all’estendersi di essa sotto forma scritta; un fenomeno 4 che, essendo stato autorevolmente segnalato da Francesco Sabatini , ha poi ricevuto ampie ed approfondite conferme negli studi di 5 Rosario Coluccia . Quest’ultimo, parallelamente ai «maldestri e rozzi 3

I due contributi, Dalla lirica ‘cortese’ alla lirica ‘cortigiana’: appunti per una storia e Fra Rimini e Urbino: i prodromi del petrarchismo cortigiano, possono ora leggersi nella raccolta di M. Santagata, S. Carrai, La lirica di corte nell’Italia del Quattrocento, Milano, Franco Angeli, 1993, pp. 11-30 e 43-95. Per le citazioni, cfr. le pp. 16 e 90 dell’ed. cit. 4 F. Sabatini, Napoli angioina. Cultura e societa`, Napoli, Esi, 1975, dove – a proposito del «passaggio dalla tradizione orale a quella scritta» (p. 195), verificatosi a partire dalla fine del Trecento – possiamo leggere: «nel nuovo clima culturale dell’ultimo Trecento, e certo di piu` nei decenni successivi, anche a Napoli ci si avviava verso un recupero della poesia popolareggiante. Che in ogni caso vi fioriva allora abbondante, se emerse decisamente, in ricche sillogi anonime o trasfusa nei canzonieri dei poeti d’arte, nella piena eta` aragonese» (p. 196). Un’ampia bibliografia sulla «poesia popolare amorosa del nostro Mezzogiorno» si trova indicata alle pp. 289-90 n. 162. 5 Di R. Coluccia, oltre a Tradizioni auliche e popolari nella poesia del regno di Napoli in eta` angioina, in «Medioevo romanzo», II (1975), pp. 44-153, che cito nel testo, si vedano anche: Un rimatore politico della Napoli angioina: Landulfo di Lamberto, in «Studi di Filologia

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PARTE SECONDA

tentativi»6 rappresentati dalle scarse rime di uno sparuto gruppo di poeti aulici (da Guglielmo Maramauro a Cola Maria Bozzuto), documenta un’abbondante produzione di poesia ‘popolare’, che «si rivela dotata di notevole originalita`, robustezza tecnica e vitalita` e capace di larga irradiazione (o per tutti questi motivi intrinsecamente destinata all’«ascesa»)»7. L’ascesa a cui Coluccia allude si realizzera` nella seconda meta` del secolo, fin dai primordi del regno di Ferrante, quando, con le parole dello studioso citato:

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i poeti dell’eta` aragonese – analogamente alle contemporanee esperienze degli esponenti del cenacolo mediceo, del Giustinian, del Boiardo – perseguono programmaticamente la commistione di forme, contenuti, modi espressivi letterari e popolari, cui fa riscontro, dal punto di vista linguistico, la ricerca di “un ideale cosciente di koine´”8.

Si tratta, naturalmente, di quella lirica di koine´ che in gran parte ci e` pervenuta attraverso tre note e ricche antologie poetiche, la piu` vicina delle quali al regno di Alfonso, conservata dal ms. parigino 1035, e` conosciuta come Cansonero de Popoli, dal nome del raccoglitore, il conte Giovanni Cantelmo, che vi trascrisse e riunı` ad uso personale i componimenti poetici che gli amici gl’inviavano9. Accanto alle numerose poesie anonime, vi si trovano versi – barzellette e strambotti, soprattutto – usciti dalla penna di riconosciuti poeti della cosiddetta ‘vecchia guardia’ aragonese, e di altri meno noti o, addirittura, ignoti; i quali tutti, come ha scritto la Corti nelle imprescindibili pagine dedicate all’argomento: Italiana», XXIX (1971), pp. 191-218, e I sonetti inediti di Cola Maria Bozzuto, gentiluomo napoletano del sec. XV, in «Zeitschrı´ft fu¨r Romanische Philologie», CII (1992), pp. 293-318. 6 R. Coluccia, Tradizioni auliche e popolari, cit., p. 61. 7 Ivi, p. 83. 8 Ivi, p. 84. 9 Il Cansonero del conte di Popoli puo` consultarsi integralmente nell’edizione, non sempre affidabile, dei Rimatori napoletani del Quattrocento, con prefazione e note di M. Mandalari, Caserta, tip. A. Iaselli, 1885 (rist. anast. Bologna, Forni, 1979). Un’esauriente descrizione del ms. si trova in P. J. De Jennaro, Rime e lettere, a c. di M. Corti, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1956, pp. CLXXIX-CLXXXVII. Le restanti due sillogı´ sono costituite dal Vat. Lat. 10656 e dal Riccardiano 2752. Del primo si veda l’edizione in G. B. Bronzini, Serventesi, barzellette e strambotti del Quattrocento dal Cod. Vat. lat. 10656, in «Lares», XLV (1979), pp. 71-96, 251-62; XLVI (1980), pp. 43-53, 219-37, 357-371; XLVII (1981), pp. 389-400; XLVIII (1982), pp. 213-47, 389-400, 547-70; XLIX (1983), pp. 413-45, 591-618. Le due sillogi (ms. parigino 1035 e Vat. Lat. 10656) sono state edite congiuntamente da A. Altamura, Rimatori napoletani del Quattrocento, Napoli, Fausto Fiorentino Editore, 1962. Sul Riccardiano 2752, cfr. G. Parenti, «Antonio Carazolo desamato». Aspetti della poesia volgare aragonese nel ms. Riccardiano 2752, in «Studi di Filologia Italiana», XXXVII (1979), pp. 119-279.

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ASPETTI DELLA POESIA DI CORTE

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aspirano a una fusione di elementi letterari con altri popolareggianti, assunti come mezzi espressivi al fine di creare un’atmosfera di vivacita` allusiva, quasi che un pizzico di popolare e di dialettale, autorizzato dall’analogo comportamento di poeti toscani, e non solo toscani, contemporanei, fosse nuova linfa per la vecchia pianta, tocco di immediatezza artigianesca e qualche volta di comicita` in un arredamento ormai stantio10.

La commistione tra aulico e popolare che caratterizza, dunque, almeno uno degli indirizzi in cui si concretizzo` il «risveglio [poetico] aragonese» al tempo di Ferrante, se – per un lato – avviene in convergenza con analoghe esperienze di altre aree d’Italia, avvertendone – piu` o meno sensibilmente – l’influenza, per altro verso, affonda comunque le sue non lontanissime radici in quel recupero ed estendersi sotto forma scritta della poesia popolare; un fenomeno, quest’ultimo, che, prodottosi nel periodo finale del regno angioino, dovette certamente godere di una qualche vitalita` anche al tempo di Alfonso11. Anche a rischio di un eccessivo schematismo, provo comunque a riassumere la situazione poetica in cui ebbero a imbattersi i poeti iberici che affluirono a Napoli durante il regno di Alfonso: essi, dunque, oltre a incontrare un prestigioso circolo umanistico da cui pero` – come sappiamo – rimasero per lo piu` esclusi, si trovarono in assenza di una vera e propria tradizione locale di poesia aulica, come ho sottolineato all’inizio, e, al tempo stesso, vennero inevitabilmente in contatto con la persistente e vitale tradizione poetica popolare che, nel volgere di pochi anni, avrebbe dato i frutti di commistione con la poesia aulica, a cui ho appena accennato12. Del folto gruppo di poeti iberici, Carvajal e` da tempo considerato 10

Corti, Introduzione a P. J. De Jennaro, Rime e lettere, cit., p. XIX. «il fatto nuovo del primo Quattrocento e` il recupero e l’estendersi sotto forma scritta della poesia popolare: si buttano ora le basi per quella fioritura di testi popolari e popolareggianti che sboccera` nell’eta` aragonese» (M. Santagata, La lirica aragonese, cit., p. 94 n. 12), e M. Corti: «i nostri poeti [del Cansonero del conte di Popoli] trovano gia` robusti filoni di tradizione popolareggiante costituiti» (Introduzione all’ed. cit., p. XXVI). 12 Ampie e aggiornate ricostruzioni della situazione poetica e culturale a Napoli in eta` aragonese possono leggersi nelle recenti storie della letteratura italiana: F. Tateo, L’umanesimo meridionale, in Letteratura italiana Laterza, 16, Roma-Bari, Laterza, 19762, in part. pp. 110-21; N. De Blasi e A. Varvaro, Napoli e l’Italia meridionale, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana. Storia e geografia. L’eta` moderna, Torino, Einaudi, 1988, II, t. I, pp. 235-325, in part. le pp. 242-44 e 258-68; R. Rinaldi, Dalla bucolica alla crisi della lirica cortigiana (il laboratorio aragonese), in G. Barberi Squarotti (a cura di), Storia della civilta` letteraria italiana. Umanesimo e Rinascimento, Torino, UTET, 1990, II, t. I, pp. 624-44; G. Villani, L’umanesimo napoletano, in E. Malato (a cura di), Storia della letteratura italiana. Il Quattrocento, Roma, Salerno Editrice, 1996, pp. 709-62, in part. le pp. 739-47. 11

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PARTE SECONDA

il caso piu` rappresentativo, non foss’altro che per un dato meramente quantitativo: la sua presenza, difatti, e` attestata da ben 52 componimenti nella tradizione n da cui, come risulta dalla ricostruzione di Alberto Varvaro13, dipendono i maggiori canzonieri confezionati a Napoli: quelli d’Estu´n˜iga (MN54), della Casanatense di Roma (RC1), della Marciana di Venezia (VM1)14. Ma, a fare di Carvajal il piu` significativo poeta del gruppo, concorrono altri elementi non meno importanti; tutti di ordine qualitativo, questa volta. Sorvolo su fattori di tipo referenziale, come il particolare legame che unı` il poeta al re Alfonso, e che traspare chiaramente da alcune rime, e su quelli che vincolano molti suoi componimenti a personaggi e situazioni della corte, o anche a luoghi specifici del regno15. Intendo riferirmi, piuttosto, a una caratteristica generale della sua produzione, in virtu` della quale tale produzione finisce per inquadrarsi perfettamente in un contesto poetico come quello che ho tentato sinteticamente di tracciare in precedenza. Mi spiego. Delle rime che conserviamo di Carvajal, la maggior parte – esattamente come tante altre dei poeti iberici presenti a corte – in poco o nulla diverge per metrica, contenuti e tecniche retoriche dalla maniera cancioneril. Spero che, dopo quanto si e` detto, un tale esito non ci meravigli piu` di tanto, dal momento che, mancando a Napoli – negli anni di Alfonso – una tradizione di poesia aulica, appare piuttosto scontato che i verseggiatori spagnoli che volessero comporre rime di tono elevato finissero per rivolgersi alla propria tradizione. Cio` che, invece, rende davvero interessante il caso di Carvajal, ancorandolo definitivamente al contesto napoletano, e` quella commistione di aulico e popolare che riscontriamo in non poche delle sue rime, e che abbiamo visto anche 13 A. Varvaro, Premesse ad un’edizione critica delle poesie minori di Juan de Mena, Napoli, Liguori, 1964, in part. p. 70. 14 Le sigle adottate per i mss. sono quelle fissate da B. Dutton, Cata´logo-Indice de la Poesı´a Cancioneril del siglo XV, Madison, Hispanic Seminary of Medieval Studies, 1982, e poi usate nella magna opera di Id., El Cancionero del Siglo XV, 7 voll., Salamanca, Universidad de Salamanca, 1990-91. Per un completo e dettagliato conteggio dei componimenti, presenti in n, di «autori legati stabilmente alla corte napoletana di Alfonso», cfr. L. Vozzo Mendia, La lirica spagnola alla corte napoletana di Alfonso d’Aragona: note su alcune tradizioni testuali, in «Revista de Literatura Medieval», VII (1995), pp. 173-86, in part. le pp. 179-80, dove la studiosa suggerisce l’ipotesi, secondo la quale «in n e` confluito in tutto o in parte il canzoniere individuale di Carvajal o lo stesso poeta e` il compilatore della raccolta a cui attinsero MN24 [errata per MN54] e RC1» (p. 181). 15 Adeguate introduzioni generali della poesia di Carvajal possono leggersi in E. Scoles, Introduzione a Carvajal, Poesie, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1967, in part. le pp. 29-39, e N. Salvador Miguel, La poesia cancioneril. El «Cancionero» de Estu´n˜iga, Madrid, Alhambra, 1977, pp. 55-73 e passim.

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ASPETTI DELLA POESIA DI CORTE

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caratterizzare uno degli indirizzi, a cui dara` luogo l’incipiente risveglio della poesia napoletana in eta` aragonese. Lo spazio significativo accordato, all’interno della sua produzione, a un genere come la serranilla16; l’inserimento di elementi tradizionali in un tessuto che per il resto si presenta, linguisticamente e stilisticamente, colto17; la sperimentazione sia sul versante del recupero alla poesia aulica di un genere di trasmissione orale come il romancero18 sia sul versante del sondaggio – nell’ambito di un raffinato gioco cortigiano – delle possibilita` letterarie del napoletano, con esiti che probabilmente anticipano di poco la nascente lirica di koine´19; tutti questi sono elementi che testimoniano un’attenzione non episodica da parte di Carvajal nei confronti della poesia popolare o popolareggiante, e c’inducono a condividere, senza riserva alcuna, l’invito espresso da Margherita Morreale, quando – nel recensire l’edizione critica del nostro poeta – sottolineava l’opportunita` di «plantear en su conjunto el problema de la confluencia de los dos veneros, el culto y el tradicional (o popular, segu´n los casos), en cuanto a motivos tema´ticos y en cuanto a lengua»20. Io stesso, posto sul cammino indicato dall’illustre filologa, ho avventurato l’ipotesi che perfino un componimento come «Sicut passer solitario» di Carvajal, se messo in relazione con un piccolo corpus di testi sul motivo tematico del passero, costituito da uno strambotto popolare con varianti calabresi, dal sonetto di Petrarca, e da uno strambotto di Francesco Galeota, puo` essere letto come un’operazione di «commistione tra la tradizione popolare, dove il motivo e` abbondantemente

16 Sulle serranillas di Carvajal, oltre al gia` citato studio di Gerli (cfr. supra n. 1), si vedano anche i lavori di N. F. Marino, The Serranillas of the Cancionero de Stu´n˜iga: Carvajales’ Interpretation of this Pastoral Genre, in «Revista de Estudios Hispa´nicos», 15 (1981), pp. 43-57; Id., La serranilla espan˜ola: Notas para su historia e interpretacio´n, Potomac, Scripta Humanistica, 1987, in part. le pp. 108-25; P. Garcı´a Carcedo, Las serranillas de Carvajal, in J. Paredes (a cura di), Medioevo y Literatura. Actas del V Congreso de la Asociacion Hispanica de Literatura Medieval (Granada 27 septiembre-1 octubre 1993), Granada, Universidad de Granada, 1995, II, pp. 345-58. 17 Cfr. M. Morreale, rec. a Carvajal, Poesie, ed. cit. di E. Scoles, in «Revista de Filologı´a Espan˜ola», LI (1968), pp. 275-87, in part. p. 276 e n. 1. 18 Cfr. infra. 19 Cfr. L. Vozzo Mendia, La scelta dell’italiano tra gli scrittori iberici alla corte aragonese. I. Le liriche di Carvajal e di Romeu Llull, in P. Trovato (a cura di), Lingue e culture dell’Italia Meridionale (1200-1600), Roma, Bonacci, 1993, pp. 102-71; e, con diversa valutazione, M. Alvar, Las poesı´as de Carvajal en italiano. Cancionero de Estu´n˜iga, nu´meros 143-145, in Estudios sobre el Siglo de Oro. Homenaje al profesor Francisco Yndura´in, Madrid, Editora Nacional, 1984, pp. 13-30. 20 Morreale, rec. citata all’ed. delle Poesie di Carvajal, p. 276.

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PARTE SECONDA

attestato, e la tradizione poetica colta, in cui tale motivo si risolve pressoche´ interamente»21. Eppure, non c’e` alcun dubbio che, sul terreno della commistione tra aulico e popolare, l’esempio piu` efficace della poesia di Carvajal e` costituito da uno dei due o tre romances che di lui conserviamo, «Terrible duelo fazı´a», essendo l’altro, il celebre «Retraida estava la reina», quello che ha ricevuto maggiore attenzione dalla critica, soprattutto per il problema della datazione22. In «Terrible duelo fazı´a», Carvajal riunisce nello stesso componimento modi e materiali derivati da tradizioni poetiche varie ed eterogenee, e li combina cosı` abilmente da ottenere un prodotto originale nel suo genere. Non essendo possibile – per esigenze di tempo – spingermi in una lettura meno generica del componimento, mi limitero` a notare che, da un lato, vi convergono le forme metriche e le tecniche narrative di quei «romanc¸es e cantares de que las gentes de baxa e servil condic¸io´n se alegran», secondo la nota e aristocratica definizione di Santillana23; d’altro lato, pero`, vi confluiscono motivi tematici e usi retorici attinti alla maniera altamente codificata della poesia cancioneril; da un altro, ancora, concorrono a fissarne definitivamente l’assetto singole immagini tratte dalla poesia italiana, nientemeno di un Petrarca (o, forse, di un Boccaccio)24. ` sorprendente come questo «poeta con ribetes de vanguardia» – E secondo la recente definizione di Di Stefano25 – non soltanto abbia anticipato quel romancero trovadoresco che – nella penisola iberica – sara` in voga solo verso la fine del secolo, ma abbia anche preceduto – sebbene solo di qualche anno appena – quella lirica di koine´, con la quale la «vecchia guardia» dei poeti napoletani si cimentera` a sua volta – a partire dagli anni ’60 – in un analogo tentativo di commistione di tradizione aulica e popolare, su cui ho piu` volte insistito. Del resto, non sono stati i «componimenti redatti in italiano» dal 21 A. Gargano, Poesia iberica e poesia napoletana alla corte aragonese: problemi e prospettive di ricerca, in «Revista de Literatura Medieval», VI (1994), pp. 105-24 (cit. a p. 123). Lo studio e` qui raccolto nelle pp. 89-110. 22 Per l’‘odissea’ della datazione del romance, si veda l’ampio resoconto contenuto in Scoles, Introduzione a Carvajal, Poesie, ed. cit., pp. 25-29. Quanto al terzo romance di Carvajal, e` nota l’attribuzione di «Mirava de Campoviejo» al nostro poeta da parte di R. Mene´ndez Pidal, Romancero hispa´nico, Madrid, Espasa-Calpe, 1968, II, p. 20. 23 El Prohemio e Carta del Marque´s de Santillana y la teorı´a literaria del siglo XV, a c. di A. Go´mez Moreno, Barcelona, PPU, 1990, p. 57. 24 Cfr. F. Rico, Variaciones sobre Garcilaso y la lengua del petrarquismo, in Doce consideraciones sobre el mundo hispano-italiano en tiempos de Alfonso y Juan de Valde´s, Roma, Publicaciones del Instituto Espan˜ol de Lengua y Literatura, 1979, pp. 115-30, in part. p. 125 n. 31. 25 G. Di Stefano, Introduccio´n a Romancero, a c. di G. D. S., Madrid, Taurus, 1993, p. 17.

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ASPETTI DELLA POESIA DI CORTE

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nostro Carvajal a fornire a uno storico della lingua come Nicola De Blasi l’argomento, in base al quale suggerire che «i poeti castigliani sono probabilmente i primi a sondare le possibilita` letterarie del napoletano»26? Se, dunque, un problema di cronologia s’impone, e` unicamente in termini di contesto culturale che si puo` tentare di risolverlo. Voglio dire che l’attenzione di un poeta come Carvajal per la poesia popolareggiante, e il conseguente tentativo di fusione di tradizione colta e popolare, sono il frutto dell’incontro particolarmente felice di due diversi fattori, che si dettero alla corte napoletana di Alfonso: da un lato, il gruppo di poeti spagnoli confluiti a Napoli con un largo esercizio di una maniera poetica ad alto tasso di codificazione, qual era quella cancioneril; d’altro lato, un contesto culturale, in cui anche gli ambienti colti facevano da tempo un ` da quest’incontro che abbondante consumo di poesia popolare. E nasce la capacita` doppiamente precorritrice di un poeta come Carvajal, che per il resto e` stato non a torto definito «un escritor de 27 segunda y tercera fila» . Concludo, percio`, affermando che, se e` incerto che la corte napoletana di Alfonso debba considerarsi il luogo ove ebbe origine il primo romancero trovadoresco, tale corte costituı` sicuramente il terreno piu` propizio, affinche´ una forma di commistione tra tradizione colta e popolare, qual e` appunto il romancero trovadoresco, potesse essere avviata, per poi imporsi attraverso strade che, via via, andarono allontanandosi sempre di piu` da Napoli e dalla sua corte28.

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De Blasi e Varvaro, Napoli e l’Italia meridionale, cit., p. 243. Morreale, rec. citata a Carvajal, Poesie, ed. cit., p. 275. 28 Cfr. F. Rico, Los orı´genes de «Fontefrida» y el primer romancero trovadoresco, in Texto y contextos. Estudios sobre la poesia espan˜ola del siglo XV, Barcelona, Crı´tica, 1990, pp. 1-32, dove l’autore – a partire da uno splendido e denso studio di Fontefrida – ha formulato una doppia ipotesi sul luogo d’origine del primo romancero trovadoresco, situandolo o nella Bologna dei primi decenni del Quattrocento, e negli ambienti universitari spagnoli, o anche nella Napoli aragonese, e nella cerchia alfonsina, benche´ – a proposito di quest’ultima – lo stesso autore precisi che «al pensar en los aldeanos de Alfonso V no tenemos por que´ limitarnos al periodo ma´s esplendoroso de su asentamiento en Na´poles» (p. 29). Sui rapporti, in generale, tra «la moda popularizante» in poesia e «la corte napolitana de Alfonso V», cfr. anche R. Mene´ndez Pidal, Poesı´a juglaresca y orı´genes de las literaturas roma´nicas, Madrid, Instituto de Estudios Polı´ticos, 19576, p. 324; Id., Romancero hispa´nico, cit., II, pp. 19-22; M. Frenk Alatorre, ¿Santillana o Suero de Ribera?, in «Nueva Revista de Filologı´a Hispa´nica», XVI (1962), pp. 437; e Id., Estudios sobre lı´rica antigua, Madrid, Castalia, 1978, p. 51; A. Sa´nchez Romeralo, El villancico (estudios sobre la lı´rica popular en los siglos XV y XVI), Madrid, Gredos, 1969, p. 50. 27

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POESIA IBERICA E POESIA NAPOLETANA ALLA CORTE ARAGONESE: PROBLEMI E PROSPETTIVE DI RICERCA

1. Una cultura poetica quadrilingue Nel fare il punto sull’ultimo decennio di studi dedicati alla poesia spagnola quattrocentesca, l’illustre medievista Alan Deyermond, dopo aver premesso che «los poetas de la corte aragonesa de Na´poles, ası´ como el importante conjunto de cancioneros de allı´ procedentes han despertado u´ltimamente el intere´s de varios investigadores», ha precisato che un «importante aspecto de la corte aragonesa de Na´poles [...] es que su cultura poe´tica fue cuatrilingu¨e», senza poter nascondere la sorpresa per il fatto che un cosı´ importante aspetto «no haya sido ma´s estudiado»1. Deyermond ha dunque perfettamente ragione nel porre al centro della questione l’incontro – in ambito poetico – di quattro tradizioni linguistiche: italiana, latina, castigliana e catalana. Mi affretto solo a sottolineare cio` che nelle sintetiche osservazioni di Deyermond resta implicito, vale a dire che la poesia che si esprime in ogni singola lingua non e` affatto omogenea, o almeno non lo e` sempre: basta mettere in fila tre nomi della «vecchia guardia» napoletana come Cola di Monforte, il De Jennaro delle Rime e Giovanni Francesco Caracciolo per metterci sull’avviso che l’indagine sull’interazione tra le varie tradizioni linguistiche non puo` mai prescindere da quella – strettamente complementare – tra le varie tradizioni poetiche all’interno di ogni singola tradizione linguistica2. Ne´ debbono sfuggire quelle ulteriori dimensioni del problema 1 A. Deyermond, Edad Media. Primer suplemento de Historia y Crı´tica de la literatura espan˜ola, in F. Rico (a cura di), Historia y Crı´tica de la literatura espan˜ola, Barcelona, Crı´tica, 1991, pp. 242-43. 2 Per la poesia a Napoli nella seconda meta` del Quattrocento sono fondamentali M. Corti, Introduzione a P. J. De Jennaro, Rime e lettere, Commissione per i testi di lingua,

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PARTE SECONDA

che sembrano apparentemente estranee all’ambito napoletano. Si sarebbe portati a credere, per esempio, che le interazioni poetiche che escludono le componenti italiana e latina abbiano poco a che vedere con la corte napoletana. Eppure non sempre e` cosı`, dal momento che in uno tra i piu` significativi fenomeni letterari che si verificano nella peninsola iberica tra Quattro e Cinquecento: la castiglianizzazione dei poeti valenziani, gioca un non trascurabile ruolo la corte aragonese di Napoli, dove i molti aristocratici valenzani che vi si installarono «havien de sentir-se atrets pels modes i per les modes de la cort», come ha scritto Joan Fuster, che nella stessa pagina fa esplicito riferimento alla «castellanitzacio´ cultural de la noblesa [valenciana] relacionada amb Na`pols»3. Del resto, le cose non cambiano molto se il discorso si sposta da Valenza a Barcellona4. Da questo punto di vista, e` estremamente esemplare il caso di Romeu Llull, un poeta su cui dovremo presto tornare, e a proposito del quale per ora mi limitero` a notare che finche´ fu a Napoli, alla corte di Ferrante, compose poesie in italiano e castigliano, mentre, una volta che fece ritorno a Barcellona, la sua produzione si limito` al catalano, con qualche incursione nel castigliano. Ne´ la considerazione del fattore cronologico interviene a semplificare le cose; piuttosto il contrario. Non credo, difatti, che nello studio delle interazioni tra poesia iberica e poesia italiana presso la

Bologna, 1956, in part. le pp. XVI-LXIII; M. Santagata, La lirica aragonese. Studi sulla poesia napoletana del secondo Quattrocento, Padova, Antenore, 1979. Molto utili sono i recenti panorami di R. Coluccia, La coine` nell’Italia meridionale, in L. Serianni e P. Trifone (a cura di), Storia della lingua italiana, vol. III, Le altre lingue, Torino, Einaudi, 1994, pp. 373-405 e N. De Blasi, Il «volgare» durante la dominazione aragonese, in P. Bianchi, N. De Blasi, R. Librandi, I’ te vurria parla’. Storia della lingua a Napoli e in Campania, Napoli, Tullio Pironti Editore, 1993, pp. 47-49. 3 J. Fuster, Llengua i societat, in AA.VV., Histo`ria del paı´s valencia`. De les germanies a la nova planta, vol. III, Barcelona, Edicions 62, 1975, p. 169. Di Fuster si veda anche Poetes, moriscos i capellans, ora in Obres completes, I, Barcelona, Edicions 62, 19752, pp. 317-508, in part. 333-36. Cfr. inoltre Ph. Berger, Contribution a` l’e´tude du de´clin du valencien comme langue litte`raire au seizie`me sie`cle, «Me´langes de la Casa Vela´zquez», XII (1976), pp. 173-94; e Id., Libro y lectura en la Valencia del Renacimiento, Valencia, Edicions Alfons el Magna`nim, 1987, vol. I, pp. 329-34. 4 Sulla questione cfr. M. Canher, Llengua i societat en el pas del segle XV al XVI. Contribucio´ a l’estudi de la penetracio´ del castella` als Paı¨sos catalans, in J. Bruguera e J. Massot i Muntaner (a cura di), Actes del Cinque` Col.loqui Internacional de Llengua i literatura catalanes, Montserrat, Publicaciones de l’Abadia de Montserrat, 1980, pp. 183-255; e Id., Introduccio´ a Epistolari del Renaixement, Vale`ncia, Albatros, 1977, in part. le pp. 20-21. Cfr. anche P. M. Ca´tedra, Introduccio´n a Poemas castellanos de cancioneros bilingu¨es y otros manuscritos barceloneses, Exter, University of Exter, 1983.

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POESIA IBERICA E POESIA NAPOLETANA ALLA CORTE ARAGONESE

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corte aragonese convenga limitarsi al solo periodo alfonsino, come pure alcune considerazioni – soprattutto di ordine strettamente filologico – consiglierebbero di fare. Un recente e bel saggio di Francisco Rico ci induce – direi, perentoriamente – a non attestarci su quel 1442, anno dell’inizio del regno alfonsino, se e` vero che un romance come Fontefrida – e, piu` in generale, gli esordi del romancero trobadoresco – risulta «como brotado en un entreverarse de raı´ces castellanas y cultura italiana, verosı´milmente a trave´s de engarces catalanes», il che ci rimanda agli «aledan˜os de Alfonso V, y particularmente en aquella corte napolitana donde se codean italianos, catalanes y castellanos de lengua», dove per ‘prossimita`’ di Alfonso – e qui e` il punto – «no tenemos por que´ limitarnos al periodo ma´s esplendoroso de su asentamiento en Na´poles: la aventura italiana se abre con la expedicio´n a Cerden˜a y Sicilia en 1420, sin otro pare´ntesis espan˜ol que el de 1424 a 1432»5. Se dunque, dal nostro punto di vista, il periodo da prendere in considerazione si allarga verso l’alto di almeno un ventennio, un diverso ordine di considerazioni ci invita a compiere una simile operazione verso il basso: e` cioe` auspicabile tener presente il quindicennio circa posteriore alla crisi della corte aragonese, il che ci permette di arrivare al 1511, quando a Valenza si pubblica il Cancionero general di Hernando del Castillo; o meglio ancora, al 1514, data della seconda edizione valenzana con significative aggiunte; e addirittura al 1516, anno in cui vide la luce il Cancioneiro geral di Resende. Il Cancionero general fu un’opera imponente per la sua epoca: una raccolta poetica senza paragoni in Spagna – e forse in Europa – con le sue 484 pagine, scritte a tre colonne e contenenti piu` di mille componimenti. Hernando del Castillo, un castigliano che si era stabilito a Valenza al servizio del Conte di Oliva, aveva raccolto le poesie per un ventennio circa, ossia fin dal 1490, come egli stesso c’informa nel prologo: «que de veinte an˜os a esta parte esta natural inclinacio´n me hizo investigar ayer y recolegir de diversas partes y diversos autores, con la ma´s diligencia que pude, todas las obras que de Juan de Mena aca´ se escrivieron»6. Il Cancionero general nasce e si realizza a Valenza, e di esso (e della sua seconda edizione) capiremmo molto meno se non tenessimo in 5 F. Rico, Los orı´genes de ‘Fontefrida’ y el primer romancero trovadoresco, in Texto y contextos. Estudios sobre la poesı´a espan˜ola del siglo XV, Barcelona, Crı´tica, 1990, pp. 1-32; cito dalle pp. 28-29. 6 Cancionero general recopilado por Hernando del Castillo (Valencia, 1511), ed. facsimile a c. di A. Rodrı´guez-Mon˜ino, Madrid, Real Academia Espan˜ola, 1958.

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PARTE SECONDA

debito conto il consistente circolo dell’italianismo valenzano, a cui non furono certo estranei quegli autori che con la corte napoletana ebbero contatti piu` o meno profondi7. Quanto all’altro importante canzoniere peninsulare, quello di Resende, mi limitero` a riportare quanto ha affermato Brian Dutton in un lavoro pubblicato recentemente: «Este cancionero tiene otro factor sorprendente: coincidencia con elementos italianos y napolitanos que demuestran la presencia en la corte portuguesa de gente desterrada de Na´poles cuando el rey Federico III fue expulsado a Francia en 1501 por el rey Fernando el Cato´lico»8. Non trascurerei, infine, quell’aspetto della questione che riguarda la direzione dell’influenza; un aspetto per il quale dalle posizioni risolutamente affermative, se non proprio incaute, di fine secolo passato e inizio del nostro si e` passati a posizioni possibiliste sı´, ma molto piu` prudenti. Com’era da prevedere, si e` maggiormente insistito sugli apporti che la poesia iberica avrebbe ricevuto da quella napoletana. Alla fine del passato secolo, per esempio, Arturo Farinelli poteva affermare risolutamente che «i verseggiatori spagnuoli [...] sebbene scrivessero nella loro lingua natı´a, imitavano allegramente la poesia volgare italiana, ed innestavano a profusione gli italianismi nelle loro liriche»9. Con gli anni la prudenza ha preso il sopravvento. Peter E. Russell, in un saggio famoso dove affronta il problema dell’umanesimo spagnolo del secolo XV come conflitto tra le armi e le lettere, notava che «los caballeros [catalanes] que rodeaban a Alfonso en Na´poles, como sus iguales castellanos, escribı´an mucha poesı´a cortesana, pero sorprende lo poco que extendieron en algu´n sentido, por su estancia en Italia, sus horizontes literarios»10. Si tratta di un giudizio che, sotto mentite spoglie, ritroviamo nel recente libro che Jose´ Carlos Rovira ha dedicato a Humanistas y poetas en la corte napolitana de Alfonso el Magna´nimo, dove – sempre a proposito 7

Si veda M. de Riquer, Histo`ria de la literatura catalana, III, Barcelona, Ariel, 1964, in part. le pp. 321-64; Canher, Llengua i societat, cit., in part. le pp. 238-45; e, piu` in generale, F. Rico, A fianco di Garcilaso: poesia italiana e poesia spagnola del primo Cinquecento, «Studi Petrarcheschi. Nuova Serie», IV (1987), pp. 229-36. 8 B. Dutton, El desarrollo del «Cancionero General» de 1511, in E. Rodrı´guez Cepeda (a cura di), Actas del Congreso Romancero Cancionero, UCLA (1984), Madrid, Jose´ Porru´a Turanzas, 1990, I, pp. 81-96; cito da p. 83. 9 A. Farinelli, Cenni sul dominio degli aragonesi a Napoli, in Italia e Spagna, Torino, Bocca, 1929, II, p. 76 (le pagine qui raccolte risalgono pero` al 1894). 10 P. E. Russell, Las armas contra las letras: para una definicio´n del humanismo espan˜ol del siglo XV, in Temas de «La Celestina», Barcelona, Ariel, 1978, pp. 209-39, cito dalle pp. 219-20.

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dei poeti iberici – si parla del «desconocimiento que mantienen del mundo cultural que les rodea, al menos como estı´mulos directos y detectables»11. La posizione maggiormente perentoria sull’argomento e` stata espressa, comunque, dall’americano Robert G. Black, che a conclusione di un’accurata indagine sul ms. parigino 226 (PN4, nella classificazione di Dutton)12 scrive: The court at Naples did not function as a great melder of different national traditions, nor was it a place where Hispanic poets apprenticed themselves to an on-going Renaissance lyric tradition, as has been previously assumed [...] they were neither encouraged nor rewarded for adopting Italian lyric conventions for their Castilian and Catalan poetry – quite the contrary. Poetic taste during the period of composition, copying, and promulgation of Hispanic cancioneros in Naples demandes stern allegiance to poetry written with Hispanic conventions, in Hispanic styles, and on Hispanic themes13.

Posso giustificare la lunga citazione, adducendo due ragioni. In primo luogo, il passo di Black contiene la piu` esplicita e radicale contestazione di quello che possiamo definire – senza connotazioni negative – un luogo comune della critica. Quando alla seconda ragione, ricorrero`, per formularla, alla forma interrogativa: quando Black si riferisce alla «tradizione lirica rinascimentale» non pensa a una tradizione fortemente omogenea che coincide di fatto col petrarchismo cinquecentesco, e che riflette poco la situazione poetica del secondo Quattrocento napoletano? Comunque stiano le cose, mi affretto a notare che sul versante complementare assistiamo a una traiettoria simile ma meno nettamente marcata, anche perche´ il problema dei rapporti con la lirica iberica occupa un posto periferico negli studi sulla poesia napoletana in eta` aragonese. Sono note, tuttavia, le posizioni espresse all’inizio del secolo dal Savj Lo´pez, che collego` gli schemi metrici della barzelletta – cosı` diffusa in alcuni poeti napoletani – con quelli delle canciones spagnole, congetturando

11 Alicante, Instituto de Cultura «Juan Gil-Albert», 1990, p. 97. Cfr. la rec. di A. M. Compagna Perrone Capano in «Medioevo Romanzo», XVII (1992), pp. 155-58. 12 B. Dutton, Cata´logo-Indice de la Poesı´a Cancioneril del siglo XV, Madison, The Hispanic Seminary of Medieval Studies, 1983, pp. 165-78; cito da p. 174. 13 R. G. Black, Poetic Taste at the Aragonese Court in Naples, in Florilegium Hispanicum. Medieval and Golden Age Studies presented to D. Clotelle Clarke, Madison, The Hispanic Seminary of Medieval Studies, 1983, pp. 165-78; cito da p. 174.

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PARTE SECONDA

addirittura una derivazione da parte napoletana14; le tesi del Savj Lo´pez, furono prudentemente riportate dal Croce nel saggio su Spagnuoli e cose spagnuole alla corte di Ferrante di Napoli, dove, pero`, puntuale cade in nota il rinvio alla critica recensione del Percopo15. In tempi piu` recenti, Maria Corti ha dedicato al nostro problema alcune pagine della sua imprescindibile introduzione all’edizione delle Rime e lettere di De Jennaro. Pur contestando radicalmente – com’era da attendersi – le tesi del Savj Lo´pez, la Corti ha assunto una posizione di maggiore equilibrio, da un lato, affermando con chiarezza che «con cio` non si vuol negare da un lato un influsso spagnolo su questi poeti», e non tardando a precisare, dall’altro, che la sua «sensazione» e` che si tratti di «un iberismo a fior di pelle, prodotto dai costumi di una corte, non da una penetrazione spirituale del mondo artistico spagnolo»16. In ultimo, in ordine di tempo, ricordo che Nicola De Blasi, trattando della presenza iberica alla corte d’Alfonso e, in particolare, dei «componimenti redatti in volgare napoletano» di Carvajal, ha sottolineato il fatto non irrilevante che «i poeti castigliani sono probabilmente i primi a sondare le possibilita` letterarie del napoletano»17. Credo che il campo d’indagine risulti ora piu` precisamente definito. In sintesi, si tratta d’indagare sui possibili rapporti di una produzione poetica quadrilingue, senza trascurare ne´ le tradizioni poetiche interne a ogni singola lingua, ne´ quelle questioni solo apparentemente estranee alla corte napoletana, in un periodo che ai due poli eccede di tre o quattro lustri quello strettamente aragonese (1442-1501), e con la precisazione finale che in tali rapporti potrebbe essere eventualmente implicata una doppia direzione d’influenza. Mi rendo conto che in tal modo il quadro si fa enormemente complesso, ma e` anche vero che solo per questa via sara` possibile, da un lato, evitare facili malintesi e, dall’altro, recuperare alla poesia di

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P. Savj Lo´pez, Lirica spagnola in Italia nel secolo XVI, in «Giornale storico della letteratura italiana», XLI (1903), pp. 1-41 (poi raccolto in Trovatori e poeti. Studi di lirica antica, Palermo, pp. 189 e ss.). 15 Il saggio di Croce fu raccolto in La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, Bari, Laterza, 1917, pp. 54-74; per il riferimento allo studio del Savj Lo´pez, cfr. p. 66 e n. 5, dove si trova anche la menzione della recensione del Percopo pubblicata in «Rassegna critica della letteratura italiana», VIII (1903), pp. 83-84. 16 Cfr. M. Corti, Introduzione a De Jennaro, ed. cit., pp. XXXV e XXXVI. 17 Cfr. N. De Blasi e A. Varvaro, Napoli e l’Italia meridionale, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana. Storia e geografia. L’eta` moderna, Torino, Einaudi, 1988, pp. 234-325; cito da p. 243.

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questo periodo un fascino che difficilmente saremmo disposti a riconoscerle in virtu` dei soli risultati estetici, spesso – in verita` – piuttosto limitati.

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2. Canzonieri, poeti e poesie bilingui Non potendo naturalmente affrontare il problema in tutta la sua vasta portata, mi avvicinero` ad esso prendendo in considerazione tre casi particolari, dalla discussione dei quali spero di poter trarre qualche riflessione generale sui rapporti tra le diverse tradizioni poetiche che vennero, in qualche modo, in contatto. Quanto ai tre particolari casi di contatto che saranno presi in considerazione si tratta dei canzonieri, dei poeti e dei componimenti bilingui.

2.1. Canzonieri bilingui Per il primo di essi, si puo` subito constatare che non si danno veri e propri canzonieri bilingui, come pure ci si sarebbe potuto attendere in una situazione culturalmente plurilinguistica, quale era quella della corte napoletana. A questo proposito, senza uscire dall’ambito della dinastia aragonese, si potrebbe citare il caso di non pochi canzonieri bilingui, catalano-castigliani, della vicina Catalogna, dove nella seconda meta` del Quattrocento – come pure si e` gia` accenato per Valenza – il catalano stava cedendo il passo al castigliano come lingua poetica di maggior prestigio18. Tornando a Napoli, nei canzonieri spagnoli confezionati sicuramente nella citta` partenopea non c’e` quasi traccia di poesia in italiano: nei due codici in cui confluiscono le tradizioni a ed n, ossia i canzonieri di Estu´n˜iga e di Roma, cosı` come nei quattro parigini (mss. n. 226, 227, 230, 313) e in quello appartenuto al Conde de Haro, troviamo solo due poesie in italiano, attribuite entrambe a Carvajal, che meriteranno un discorso a parte19. Leggermente diversa e` la situazione dei canzonieri napoletani. 18 Sui canzonieri bilingui catalano-castigliani, cfr. Ca´tedra, Introduccio´n a Poemas castellanos, cit., in part. le pp. IX-XVI, dove si trovera` anche la bibliografia sull’argomento. 19 Sui rapporti tra i canzonieri spagnoli di area napoletana e` imprescindibile A. Va`rvaro, Premesse ad un’edizione critica delle poesie minori di Juan de Mena, Napoli, Liguori, 1964, le cui conclusioni sono state piu` volte confermate in lavori posteriori, tra i quali si vedano gli ultimi, in ordine di tempo: Juan de Mena, Poesie minori, a c. di C. de Nigris, Napoli, Liguori, 1988, e L. de Stun˜iga, Poesie, a c. di Lia Vozzo Mendia, Napoli, Liguori, 1989. Il Cancionero di Estu´n˜iga e` stato recentemente riedito in edizione paleografica da Manuel e

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Delle grandi sillogi contenenti la cosiddetta poesia di koine´, il Parigino n. 1035, il famoso cansonero raccolto dal conte di Popoli intorno al 1468, contiene tre componimenti in castigliano20 e il Riccardiano n. 2752 ne contiene cinque. Si tratta, naturalmente, di infiltrazioni minime, se si pensa che nel Parigino abbiamo tre poesie su un totale che oltrepassa il centinaio, e nel Riccardiano, ancora piu` vistosamente, solo cinque su un totale di centocinquanta poesie circa (erroneamente l’indice del Parenti ne conta sette, perche´ in due casi considera componimenti autonomi quelle che sono le due meta` di una stessa canzone)21. Sugli otto componimenti cosi inventariati, si possono fare considerazioni di diverso ordine. Mi limitero` a due osservazioni che riguardano, rispettivamente, la diffusione e il genere metrico. Quanto alla prima, mentre le cinque poesie del Riccardiano sono attestate solo in questo codice, due di quelle contenute nel Parigino hanno una diffusione leggermente piu` ampia22. Si tratta della canzone «Aunque soy apartado» presente anche nel canzoniere catalano conservato presso l’Ateneo barcellonese, ossia uno di quei canzonieri catalano-castigliani a cui ho fatto riferimento poco prima23; e della canzone «Triste que sera´ de mı´» che viene glossata da

Elena Alvar, Zaragoza, Institucio´n «Fernando el Cato´lico», 1981, e in edizione critica da N. Salvador Miguel, Madrid, Alhambra, 1987. Per il Cancionero de Roma bisogna rifarsi all’edizione di M. Canal Go´mez, Firenze, 1935, 2 voll. Sul ms. parigino n. 226 (PN4 secondo la sigla di Dutton, Cata´logo-Indice, cit.), si veda lo studio gia` menzionato di Black, Poetic Taste, cit. Per un tentativo di «delimitare con maggiore precisione il corpus poetico che si puo` definire a pieno titolo napoletano-aragonese», cfr. Lia Vozzo Mendia, La lirica spagnola alla corte napoletana di Alfonso: note su alcune tradizioni testuali, «Revista de Literatura Medieval», VII (1995). 20 Del Cansonero del Conte di Popoli esiste l’edizione integrale ma inaffidabile: Rimatori napoletani del Quattrocento, a c. di M. Mandalari, Caserta, 1885 (ristampa anastatica Bologna, Forni, 1979). I tre componimenti in spagnolo sono i seguenti: Triste que serra de mi (p. 88), Mengua la chacta roppera (p. 94), A hun que soy apartado (p. 122). Il testo delle tre poesie si trova ora anche in B. Dutton, El Cancionero del Siglo XV, Salamanca, Biblioteca Espan˜ola del siglo XV, 1991, vol. III, p. 486. 21 Cfr. G. Parenti, ‘Antonio Carazolo desamato’. Aspetti della poesia volgare aragonese nel ms. Riccardiano 2752, in «Studi di Filologia Italiana», XXXVII (1979), pp. 119-279. I cinque componimenti in spagnolo sono i seguenti: Muore mi vida bivie(n)do (49v.), Dura te aglia esin demerce (121v.), No es mester quos coprais (121v.), Aquesta tal pena mia lo co(n)siento (122v.), Nagliora la giorando Se despida (122v.). 22 Per tale diffusione, cfr. Dutton, Cata´logo-Indice, cit., ai seguenti numeri dell’Indice Maestro: 2772, 4942, 5094. 23 Si tratta del Canc¸oner de l’Ateneu, conservato dal ms. 1 della Biblioteca de l’Ateneu Barcelone´s. Fu parzialmente edito da F. Valls Taberner, El canc¸oner catala` del XVe`n segle de l’Ateneu Barcelone´s, in «Butlletı´ de l’Ateneu Barcelone´s», I (1915), nº 1. Sull’edizione piu` volte annunciata di R. Aramo´n i Serra, cfr. M. de Riquer, Histo`ria de la literatura, cit., III, p. 13, n. 1. Sulla presenza di poesia italiana nel canzoniere, si veda dello stesso Aramon i

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Joa˜o Manuel nel portoghese Cancioneiro de Resende del 1516, ossia una di quelle coincidenze a cui aveva accennato Dutton nel saggio che ho anteriormente menzionato24. Quanto alla seconda questione, mentre la maggior parte delle otto poesie rientra nella tradizione metrica e poetica castigliana, una sola – «Aquesta tal pena mı´a que io consiento» – e` invece uno strambotto, il genere che – come ha precisato Santagata – per i poeti della «vecchia guardia» napoletana «era essenzialmente, per non dire unicamente, il metro tipico di quella produzione semipopolare di cui la raccolta del conte di Popoli fornisce l’esemplificazione piu` estesa»25. Lo strambotto in questione presenta inoltre una caratteristica ben evidente: Aquesta tal pena mı´a que io consiento Laura ermosa c’alegre t’esta´s, C’alegre t’esta´s de mi gran tormento Con’l qual tormento muorte me das, Muorte me das desequal de stento Que juraste y chisze que nu[n]ca jama´s Jama´s disdixeste ni por pensamiento; Mas tiempo vendra` che tu megliorara´s26.

Come si sara` notato, ciascun verso (tranne che 2, 6, 8) riprende da principio le ultime parole del verso precedente. Nello stesso Riccardiano, alla c. 136r, si trova uno strambotto, questa volta in italiano, che presenta la stessa caratteristica: «Questa gran pena mia per te la sento». Peraltro e` da notare che tale tecnica – come gia` segnalo` il Flamini – venne usata in non pochi strambotti da Francesco Galeota, lo stesso poeta che aveva rifatto in italiano il componimento «Siete gozos de amor» di Juan Rodrı´guez del Padro´n27. Inoltre,

Serra, Dues canc¸ons populars italianes en un manuscrit catala` quatrecentista, «Estudis Roma`nics», I (1947-48), pp. 159-88. 24 Oltre alla menzionata canzone spagnola, si consideri che la poesia italiana Amor tu non mi gabasti, che compare nel Cansonero del Conte di Popoli e in altri manoscritti musicali italiani, e` presente anche nel Cancioneiro de Resende, tradotta al portoghese nel componimento 195 di Joa˜o Manuel; cfr. Dutton, El desarrollo, cit., p. 83 e n. 5, e A. F. Dias, O «Cancioneiro Geral’» e a poesia peninsular de Quatrocientos (contactos e sobrevivencia), Coimbra, Liuraria Almedina, 1978, pp. 25-26. 25 Santagata, La lirica aragonese, cit., p. 255. 26 Il testo si trova ora trascritto in Dutton, El Cancionero del siglo XV, cit., vol. I, p. 78. Cfr. anche Savj Lo´pez, Lirica spagnola, cit., p. 34 e Parenti, ‘Antonio Carazolo desamato’, art. cit., p. 270. 27 F. Flamini, Francesco Galeota e il suo inedito canzoniere, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», XX (1892), p. 32 e n. 2, e p. 16.

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PARTE SECONDA

la gia` menzionata canzone «Triste que sera´ de mı´» e` preceduta, nel Parigino che la conserva, dalla sigla F che, secondo una congettura, potrebbe indicare lo stesso Galeota (o, in alternativa, un altro Francesco: lo Spinello)28. Comunque stiano le cose, non e` difficile presumere che i pochi componimenti castigliani che si trovano nelle sillogi napoletane siano da attribuire a poeti napoletani, funzionari di Ferrante, che furono protagonisti della rinascita della poesia napoletana, e che occasionalmente cedevano al gusto di comporre qualche poesia nella lingua della dinastia che servivano, e cio` facevano per lo piu` adattandosi agli usi poetici – oltre che alla lingua – castigliani, piu` raramente invece adattando la tradizione poetica locale alla lingua foranea. Ma l’assenza di veri e propri canzonieri bilingui ci permette di riflettere su alcuni punti generali, che e` bene precisare. In primo luogo, i canzonieri spagnoli e le sillogi napoletane erano destinati a non incontrarsi, perche´ riflettono due situazioni poetiche diverse e – in certa misura – complementari. Voglio dire, che i primi – i canzonieri spagnoli – sono il riflesso del periodo alfonsino, allorquando alla forte presenza a corte e al prestigio dei poeti iberici (castigliani, aragonesi e catalani) corrispondeva un momento di vuoto nella poesia napoletana; le seconde – le sillogi napoletane – sono il riflesso del posteriore periodo ferrantino, quando la forte spinta alla rinascita della poesia napoletana corse parallela al decremento – perfino numerico – della presenza a corte di poeti iberici. Insomma, le condizioni che favoriscono un fenomeno come i canzonieri bilingui, ossia la contemporanea vitalita` di tradizioni diverse, non si sono date alla corte napoletana. In secondo luogo, stando al particolare tipo di presenza di poesia in castigliano nelle sillogi napoletane, dovremmo concludere che scambi significativi tra i diversi codici poetici di fatto non si verificarono, perche´ tali non possono considerarsi quei casi di napoletani che occasionalmente si prestarono all’uso del castigliano, per dar luogo a componimenti che in nulla differiscono dal tipico prodotto poetico della cosiddetta poesia cancioneril. Diverso e` il caso dello strambotto in castigliano. Qui si e` fatto un passo piu` in la` nell’interazione dei codici poetici; eppure, e` bene precisare subito che da tale interazione restano escluse non certo a caso quelle tradizioni della poesia napoletana che meno immediatamente potrebbero vedersi tradotte in castigliano. Si tratta di una questione che vedremo 28

Croce, La Spagna nella vita italiana, cit., p. 65, e Corti, Introduzione a De Jennaro, ed. cit., p. xxxvi.

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POESIA IBERICA E POESIA NAPOLETANA ALLA CORTE ARAGONESE

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ulteriormente confermata dalla trattazione del seguente caso, quello dei poeti bilingui.

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2.2 Poeti bilingui Alle sporadiche occasioni di bilinguismo coltivato dai rimatori napoletani ho, in effetti, gia` accennato a proposito dei canzonieri. Quanto alle singole individualita`, mi pare che il caso di Francesco Galeota possa meritare in futuro qualche attenzione maggiore. Ricorderei, inoltre, l’anomala raccolta del conte di Policastro che, pur essendo costituita pressoche´ totalmente di sonetti (78 su 80 testi), fa spazio a una breve poesia in spagnolo dedicata alla contessa di Modica, consorte di Federico Enrı´quez, almirante di Castiglia. E alla nobildonna e` pure dedicato il sonetto «Anna polita, bella e signorile»29. Ma i casi piu` interessanti si trovano sull’altro fronte, quello dei poeti iberici. Conserviamo due poesie in italiano di Carvajal; si tratta delle due canzoni in ottonari «Tempo sarebbe horamai» e «Non credo che piu` grande doglia», tra`dite dal Cancionero di Estu´n˜iga e da quello della Marciana. Poco o nulla si sa di questo poeta che fece parte della corte di Alfonso, di cui fu una specie di alter ego poetico; alla morte del suo re, dovette continuare a Napoli, perche´ tra i poco piu` di cinquanta componimenti a lui attribuiti ce n’e` uno dedicato alla morte del valenzano Jaumot Torres, ufficiale del re Ferrante, morto in battaglia presso Carinola nel 146030. Ho gia` fatto riferimento al catalano Romeu Llull, nato tra il 1430 e il 1439, e la cui presenza alla corte napoletana e` attestata dal 1466 al 1479. Il famoso canzoniere denominato Jardinet d’orats conserva tre suoi componimenti in italiano, che risultano essere altrettante barzellette con strambotto finale. Nell’introduzione all’edizione de Lo despropriament de amor di Romeu Llull, il suo giovane editore Jaume Turro´ ha tracciato un utile profilo biografico e culturale dell’autore che si chiude con la seguente sintesi:

29

Cfr. E. Perito, La congiura dei baroni e il conte di Policastro. Con l’edizione completa e critica dei sonetti di G. A. de Petruciis, Bari, Laterza, 1926; per il testo della poesia in spagnolo, v. p. 250, dove la rubrica precisa che si tratta di una «envencione», vale a dire del mote o letra che, insieme alla devisa, formava la invencio´n o empresa (cfr. F. Rico, Un penacho de penas. De algunas invenciones y letras de caballeros, in Texto y contextos, cit., pp. 189-227). 30 Cfr. N. Salvador Miguel, La Poesı´a Cancioneril. El «Cancionero de Estu´n˜iga», Madrid, Alhambra, 1977, pp. 55-73.

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

PARTE SECONDA

Ens trobem, doncs, davant un escriptor format a Na`pols, que n’havia frequ¨entat la cort, i que sota el seus estı´muls, havia omplert els seus ocis de solter desvagat amb rims italians i castellans i amb la co`pia i la lectura d’alguns dels productes humanı´stics que aquella cort posava al seu abast31.

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Orbene, questi cinque componimenti in italiano – le due canzoni di Carvajal e le tre barzellette con strambotto di Romeu Llull – sono stati studiati da Lia Vozzo, che e` giunta a delle conclusioni di grande interesse per i problemi che ci stanno occupando. Per quanto strettamente legati, i problemi sono comunque due. Il primo e` linguistico, e la Vozzo, a differenza di Manuel Alvar, che a proposito di Carvajal aveva parlato di «italiano literario, es decir con cun˜o toscano»32, afferma che La lingua usata da Carvajal non sembra molto diversa da quella che caratterizzera` la produzione poetica napoletana dei decenni successivi, comunemente designata come letteratura di koine´; essa presenta infatti una analoga oscillazione tra forme locali e forme letterarie, preferendo in genere quelle in cui l’uso napoletano trova l’appoggio della tradizione letteraria ed evitando i fenomeni troppo decisamente connotati 33 come dialettali .

Conclusioni sostanzialmente analoghe valgono anche per l’ita` sul piano letterario, liano dei tre componimenti di Romeu Llull. E pero`, che i due poeti meritano conclusioni affatto diverse. Difatti, la studiosa napoletana sostiene che mentre Carvajal ha redatto in volgare napoletano delle composizioni che potrebbero appartenere a tutti gli effetti al corpus della poesia cancioneril castigliana [...] Romeu Llull, nel comporre queste sue liriche, deve aver tenuto presente il modello offerto dal gruppo di poeti napoletani la cui produzione e` raccolta nel Cansonero del conte di Popoli. Il suo 31 R. Llull, Lo despropriament de amor, a c. di J. Turro´, Barcelona, Stelle dell’Orsa, 1987, pp. 30-31; per la biografia del poeta, cfr. N. Coll i Julia`, Nova identificacio´ de l’escriptor i poeta Romeu Llull, in Estudios histo´ricos y documentos de los archivos de protocolos, vol. V, (Misce´lanea en honor de Josep Maria Madurell i Marimon), Barcelona, 1977, pp. 245-97. 32 M. Alvar, Las poesı´as de Carvajales en italiano. Cancionero de Estu´n˜iga, nu´meros 143-145, in Estudios sobre el Siglo de Oro. Homenaje al profesor Francisco Yndura´in, Madrid, Editora Nacional, 1984, pp. 13-30. 33 L. Vozzo Mendia, La scelta dell’italiano tra gli scrittori iberici alla corte aragonese. I. Le liriche di Carvajal e di Romeu Llull, in P. Trovato (a cura di) Lingue e culture dell’Italia Meridionale (1200-1600), Roma, Bonacci, 1993, pp. 162-71.

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POESIA IBERICA E POESIA NAPOLETANA ALLA CORTE ARAGONESE

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scrivere in napoletano non e` piu` dunque, come era ancora per Carvajal, l’omaggio piu` o meno estemporaneo fatto a una parte della nobilta` di corte, ma rappresenta il tentativo cosciente di inserirsi in un determinato filone tradizionale, scartandone altri, ugualmente presenti nell’ambiente letterario dell’epoca, in primo luogo il petrarchismo34.

Si tratta di conclusioni ineccepibili a cui vorrei solo aggiungere qualche osservazione di carattere generale. Anche a una rapida lettura, ci si accorge che i tre componimenti di Romeu Llull sono estranei non solo all’«aristocratica e solitaria esperienza petrarchista», che dalla linea Aloisio-Caracciolo porta al Sannazaro, ma lo sono anche a quell’«uso socializzato del Petrarca fatto dai poeti ‘cortigiani’»35; e cio` per le ragioni piu` svariate, che vanno da quelle metriche fino all’assenza – direi, totale – del pur minimo sintagma che possa far pensare alla lingua del Petrarca. Interamente risolti nella poesia di koine´, si ha inoltre l’impressione che i tre componimenti si collochino a meta` strada tra i due poli rappresentati da un Coletta e il De Jennaro del Cansonero parigino: del primo, mancandogli quell’«attraente e spericolato impudore espressivo», «sicche` par vi sia un incontro naturale fra la sua poesia e l’elemento popolaresco piu` autentico»36, e non condividendo, del secondo, la preoccupazione di «accogliere motivi e forme avallate dai poeti toscani al suo tempo, 37 evitando un ampio compromesso con la pura tradizione indigena» . Il petrarchismo, nella doppia versione sopra precisata, era ancora troppo distante dall’esperienza poetica degli autori iberici, e cio` valeva anche per un Romeu Llull di cui non solo ci e` attestata la presenza a Napoli, ma conosciamo anche il suo interesse per i classici38. Se pensiamo che quando Llull era gia` a Napoli, vi arrivo` anche – tra il ’67 e il ’68 – un altro catalano, Benedetto Gareth, meglio noto col nome di Cariteo, sembra che i poeti iberici, posti dinanzi all’esperienza petrarchista, potessero o rimanervi sostanzialmente estranei, o aderirvi fino alla definitiva e totale negazione delle proprie origini, anche linguistiche39. Quanto alle mediazioni tra le 34

Ibid. Santagata, La lirica aragonese, cit., p. 94. 36 Corti, Introduzione a De Jennaro, ed. cit., p. XXI. 37 Ivi, p. XXVII. 38 Cfr. Llull, Lo despropriament, cit., pp. 22-27. 39 A quanto detto farebbero eccezione «i quattro ‘sonetos’ concordemente attribuiti [a] Juan de Villalpando, che rappresentano invece un tentativo precoce di sperimentazione petrarchesca» (G. Caravaggi, I ‘sonetos’ di Juan de Villalpando, in B. Perin˜a´n e F. Guazzelli (a cura di), Symbolae Pisanae. Studi in onore di Guido Mancini, Pisa, Giardini, 1989, vol. I, pp. 99-111, in part. p. 102; sui rapporti con la corte alfonsina, v. pp. 103-04 e n. 6. 35

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PARTE SECONDA

due poesie, italiana e iberica, quando ci sono, si verificano sempre a livello di quelle tradizioni poetiche che piu` facilmente potevano specchiarsi l’una nell’altra. Ed e` cio` che vedremo meglio nell’ultimo caso che ci resta da considerare, quello delle poesie bilingui.

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2.3. Poesie bilingui Non abbondano le poesie bilingui castigliano-italiane, e meno ancora quelle catalano-italiane. Carvajal e` autore di una di esse: «¿Do´nde sois gentil galana?», dove la risposta della galana di Aversa e` per l’appunto in italiano40. Il discorso su questo componimento ci porterebbe a trattare di alcune caratteristiche della poesia di Carvajal che preferisco introdurre ricorrendo a un caso diverso di bilinguismo poetico. Occupandosi del tema degli scarti rispetto al codice petrarchista, Marco Santagata cita sia uno strambotto burchiellesco del De Jennaro, che termina con un verso in latino del salmo XXXI e che l’autore esclude dalla raccolta amorosa, sia un capitolo del Perleone, il cui incipit e` «O vos omnes che errando ite per via». Dopo aver ricordato altri casi di citazioni scritturali in componimenti raccolti nel Parigino 1035 e nel Vaticano latino 10656, Santagata propone tre conclusioni: in primo luogo, «quella delle citazioni scritturali» e` «una tecnica che si discosta dalla tradizione strettamente petrarchesca, e fa pensare piuttosto a certo ibridismo trecentesco e anche dei primi del ’400 (valga per tutti il nome del Saviozzo)»; in secondo luogo, ignorato dai lirici aulicizzanti, «l’uso dei passi scritturali gode invece di notevole fortuna nel settore della lirica popolareggiante, o comunque piu` lontana dalla temperie petrarchista»; e, infine, quanto alla diffusione di «tali moduli nella produzione di koine´», si chiede quanto «possa avere influito la fortuna di cui a Napoli godette un poeta come il Saviozzo, che di quelle tecniche fa largo uso»41. Si tratta, naturalmente, di un episodio minore, ma cio` non esclude che possa introdurre a tematiche piu` vaste. Ricordo che l’incipit scritturale del gia` menzionato capitolo di Rustico si ritrova anche in un capitolo del Galeota («O vos omnes qui trasitis per la via») e in un’anonima barzelletta del Pangino 1035 («O vos omnes qui transi-

40 Se ne veda il testo in Carvajal, Poesie, edizione critica, introduzione e note a c. di E. Scoles, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1967, pp. 186-87. 41 Santagata, La lirica aragonese, cit., pp. 252-53 e n. 6.

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POESIA IBERICA E POESIA NAPOLETANA ALLA CORTE ARAGONESE

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tis»). Ebbene, le stesse parole di Geremia le ritroviamo in una poesia di Juan de Tapia, un poeta legato al Magnanimo almeno dal 1435, ben radicato nella corte napoletana, dove peraltro seguito` a vivere al servizio di Ferrante42. Il verso in questione non si trova al principio della poesia, e tuttavia occupa una posizione iniziale perche´ con esso prende l’avvio il discorso riportato nell’ultima copla della canzone:

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Por el mal que me fezistes, dire´ con muy grand pesar: O vos, omnes, que transistes Por la via de bien amar!43 .....................................

Ma il caso piu` interessante e` un altro, e ce lo offre ancora una volta Carvajal. Mo riferisco alla poesia che inizia per l’appunto con la citazione del Salmo CII: «Sicut passer solitario»44. Dobbiamo forse concludere che la tecnica invalsa nel «settore della lirica popolareggiante» napoletana si e` diffusa tra i poeti castigliani? Non credo che le cose stiano proprio cosı`; e non solo per le ovvie ragioni cronologiche. Chiunque abbia un minimo di pratica con la poesia quattrocentesca spagnola, difficilmente avra` potuto evitare di imbattersi in un particolare genere costituito da componimenti come i «Siete gozos de amor» e i «Diez mandamientos de amor» di Juan Rodrı´guez del Padro´n, le «Misas de amor» di Suero di Ribera e Juan de Duen˜as, e tutti e tre i poeti furono peraltro presenti nella corte napoletana; e ancora la «Letanı´a» e i «Salmos penitenciales» di Diego de Valera, il «Miserere» di Francisco di Villalpando, il «De profundis» di Mose´n Gac¸ull, il «Sermo´n de amores» di Diego de San Pedro, le «Lic¸iones de Job» di Garci Sa´nchez de Badajoz, il «Nunc dimittis» di Fernando de Yanguas, la «Vigilia de la enamorada muerta» di Juan del Encina. Come alcuni di tali componimenti indicano fin dal titolo, si tratta di un genere sacro-profano, che e` stato definito di «parodia litu´rgica»45, anche se Pierre Le Gentil preciso` che «ces paraphrases de textes

42 Su Juan de Tapia, cfr. Salvador Miguel, La poesı´a Cancioneril, cit., pp. 200-06, e Rovira, Humanistas y poetas, cit., pp. 134-37. 43 Cancionero de Estu´n˜iga, ed. cit., pp. 386-87. 44 Carvajal, Poesie, ed. cit., pp. 112-13. 45 M. R. Lida de Malkiel, Juan Rodrı´guez del Padro´n: vida y obras, «Nueva Revista de Filologı´a Hispa´nica», VI (1952), pp. 313-51, in part. p. 319 (lo studio e` ora raccolto in Estudios sobre la Literatura Espan˜ola del Siglo XV, Madrid, Jose´ Porru´a, Turanzas, 1977, pp. 21-77).

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PARTE SECONDA

saints ne sont [...] de ve´ritables parodies»46, perche´ mancano di «burlesque spirit», ha aggiunto piu` recentemente Patrick Gallagher, il moderno editore di Garci Sa´nchez47. In conclusione, ci troviamo dinanzi a un genere poetico molto diffuso tra i poeti della corte di Giovanni II di Castiglia, costituito da versioni «a lo profano» di testi biblici e di funzioni liturgiche (le misas, per esempio); inoltre, tali versioni «a lo profano» risultano spesso farcite di espressioni bibliche e liturgiche, direttamente in latino. Si ricordera` che lo stesso Galeota aveva rifatto in italiano uno di questi componimenti, i «Siete gozos de amor» di Juan Rodrı´guez del Padro´n, a cui ho avuto gia` occasione ` comunque da questo genere che dipende l’uso della di riferirmi. E citazione scritturale, con valore di incipit o meno, in poesie amorose che con i testi sacri non hanno alcun legame se non quello costituito dalla stessa citazione. Cosı`, per non fare che un paio di esempi, Pedro de Santa Fe, un poeta che partecipo` alla prima spedizione italiana del Magnanimo, e che si stabilı` successivamente alla corte di 48 Navarra , inserisce un verso in latino: «Tristis est anima mea», tratto da San Matteo e San Luca, nella canzone «Pues mi triste corazo´n» che, come indica la rubrica del Cancionero de Palacio, gli e` stata dettata dalla «pasio´n por la poca piedat de Maymia»49; e Soria compone una glosa al «mote de una dama»: Sola soys vos quien pode´s hazerme alegre de triste pues tan penado me ves sen˜ora si possible es transeat a me calix iste50.

46

P. Le Gentil, La poe´sie lyrique espagnole et portugaise a la fin du Moyen Age, Rennes, Plihon, 1949, vol. I, p. 203. 47 P. Gallagher, The Life and Works of Garci Sa´nchez de Badajoz, London, Tamesis, 1968, p. 175. Alla bibliografia citata, oltre a F. Lecoy, Recherches sur le «Libro de buen amor», Paris, 1938, pp. 221-25, si aggiungano i seguenti due lavori: F. Ma´rquez Villanueva, Investigaciones sobre Juan Alvarez Gato. Contribucio´n al conocimiento de la literatura castellana del siglo XV, Madrid, 1960, pp. 234-39, e B. Perin˜a´n, Las poesı´as de Suero de Ribera. Estudio y edicio´n crı´tica anotada de los textos, «Miscellanea di Studi Ispanici», XVI (1968), pp. 24 ss. 48 Cfr. Ch. V. Aubrun, Le Chansonnier espagnol d’Herberay des Essarts. Edition pre´cede´e´ d’une e´tude historique, Bordeaux, Fe´ret et Fils, 1951, pp. LXXIX-LXXXII, e Rovira, Humanistas y poetas, cit., pp. 132-34. 49 Cancionero de Palacio, a c. di F. Vendrell, Madrid, CSIC, 1945, e Dutton, El Cancionero del Siglo XV, cit., vol. IV, p. 157. 50 Cancionero general, f. Cxliiijr.

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Tornando a Napoli, voglio subito precisare che non e` mia intenzione contraporre all’influenza del Saviozzo congetturata dal Santagata quella della poesia castigliana; piuttosto, mi preme di sottolineare ancora una volta una certa convergenza di esiti, anche a livello di una tecnica minore, tra la tradizione poetica di koine´ e la poesia spagnola di tipo cancioneril. Ma aldila` dell’incipit scritturale, il componimento «Sicut passer solitario» si rivela di grande interesse perche´ ci aiuta a comprendere meglio quale poteva essere la posizione di un poeta come Carvajal in un contesto che vide presto intrecciarsi varie tradizioni poetiche. Com’e` noto, il motivo biblico del «passero solitario» del Salmo CII.8 («Vigilavi, et factus sum sicut passer solitarius in tecto») e` stato di grande fecondita` nell’ispirare una lunga serie di testi poetici51. Qui, naturalmente, mi limitero` a considerare solo quelli che possono avere un certo interesse per le questioni che ci occupano: oltre alla canzone di Carvajal, dunque, terremo presenti la rima CCXXVI di Petrarca, il sonetto «Passer mio solitario in alcun tetto», e lo strambotto di Francesco Galeota «Son passaro solitario tornato», conservato nei mss. XVII.1 di Napoli e It. 1168 dell’Estense di Modena. Ma a rendere la cosa piu` interessante e` che ai testi finora menzionati bisogna aggiungere uno strambotto popolare di cui si conoscono varianti calabresi, pugliese, laziale e piu` d’una marchigiana. Giovanni Battista Bronzini, che ha segnalato tutte queste varianti, assicura «la provenienza meridionale e l’origine antica dello strambotto popolare»52. Le varianti marchigiane, e quelle laziale e pugliese, ci presentano un «passero solitario» in quanto tradito dagli altri uccelli e perseguitato dai cacciatori, ma nei loro testi non c’e` traccia alcuna di discorso amoroso. Di tali varianti va comunque segnalato il primo verso: «Passero solitario ben tornato!», nella versione di Macerata, e «Passero solitario io son tornato», in quella di Fermo53. Sono, invece, le varianti calabresi a fondere il motivo del passero solitario, tradito e perseguitato, con la situazione amorosa. Abbiamo, pertanto, un piccolo corpus di testi costituito dallo stram-

51 Alla bibliografia segnalata da Scoles in Carvajal, Poesie, ed. cit., p. 113, si aggiunga quella riportata in Rico, Los orı´genes de ‘Fontedrida’, in Texto y contextos, cit., p. 13 n. 21 e p. 17 n. 31. 52 G. B. Bronzini, Il ‘Passero solitario’ e un antico strambotto, in Leopardi e la poesia popolare dell’Ottocento, Napoli, De Simone, pp. 45-84; la citazione e` a p. 53. Dello stesso autore si veda anche Poesia popolare del periodo aragonese, in «Archivio storico per le provincie napoletane», 3ª serie, XI, XC (1973), pp. 255-85, in part. le pp. 282-83. 53 Cfr. Bronzini, Il ‘Passero solitario’, art. cit., p. 51.

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PARTE SECONDA

botto popolare, nelle varianti calabresi, il sonetto di Petrarca, lo strambotto di Galeota, e la canzone di Carvajal54: Varianti calabresi:

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Pa`ssaru solitariu su’ chiamatu, di tutti l’autri acedhi su’ fujutu, facia lu nidu meu tantu ammucciatu supra n’arbaru siccu, e non hhiurutu! D’un cacciaturi fudi secatatu, d’un amicu di cori tradutu! ` megghiu essari amanti non amatu, E ch’essari amatu amanti e po tradutu. [Son detto passero solitario, / sono schivato da tutti gli altri uccelli, / facevo il mio nido cosı` nascosto / sopra un albero secco e non fiorito! / (Ma) fui perseguitato da un cacciatore, / fui tradito da un amico di ` meglio essere amante non riamato, / che essere amante cuore! / E riamato e poi tradito]. Pa`ssaru sudita`ariu su chiame`otu; ’e tutti d’e`otri acielli su fuggitu. Era lu nidu mia tantu cede`otu Supra n’a`rburu siccu e no` fiuritu. ’E d’e`otri acielli sugnu addimmanne`otu: duv’e` lu nidu tua tantu graditu? C’era na donna ch’e`oju troppu ame`otu, chi m’ha puntu allu kori e m’ha traditu! [Sono chiamato passero solitario e ho abbandonato tutti gli altri uccelli. Il mio nido era tanto nascosto (lett.: celato) su un albero rinsecchito e, percio`, senza fioritura. Gli altri uccelli mi hanno chiesto (lett.: dagli altri uccelli sono domandato)/ dov’e` il nido che preferivi tanto? C’era una donna che ho troppo amato e chi mi ha ferito (lett.: punto) al cuore tradendomi!] Francesco Petrarca, R. V. F. CCXXVI Passer mai solitario in alcun tetto non fu quant’io, ne´ fera in alcun bosco, ch’i’ non veggio ’l bel viso, et non conosco altro sol, ne´ quest’occhi a`nn’altro obiecto.

54 Lo strambotto popolare e quello di Galeota sono citati da Bronzini, Il ‘Passero solitario’, art. cit., pp. 53-54. Per il sonetto di Petrarca uso l’ed. di G. Contini, Torino, Einaudi, 1974, p. 288; per la canzone di Carvajal la gia` citata edizione della Scoles.

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Lagrimar sempre e` ’l mio sommo diletto, il rider doglia, il cibo assentio et to`sco, la notte affanno, e ’l ciel seren m’e` fosco, et duro campo di battaglia il letto. Il sonno e` veramente qual uom dice, parente de la morte, e ’l cor sottragge a quel dolce penser che ‘n vita il tene. Solo al mondo paese almo, felice, verdi rive fiorite, ombrose piagge, voi possedete, et io piango, il mio bene.

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F. Galeota Son passaro solitario tornato che vivo solo et piango sopra un tecto, del locho dond’io era descacciato fugo el piacere e pianto e` ’l mio dilecto: d’amici et da compagni allontanato, dove mal tempo e la fortuna aspecto, dapoi che, bene amando, desamato me trovo da chi amava in puro affecto. Carvajal Sicut passer solitario Soy tornado a padescer, triste e pobre de plazer. Quanto ma´s vos me mata´is, tanto ma´s yo vos deseo; con quanto mal me mostra´is, resucito quando vos veo. Pues si fuese el contrario ¡mirad, si podrı´a ser triste e pobre de plazer! Aunque vos a mı´ mate´is, non sere´is ya ma´s loada, e dira´n, si lo faze´is: a moro muerto grand lanc¸ada. Pues non seis atal salario a quien vuestro quiere ser, triste e pobre de plazer.

In entrambe le versioni popolari il discorso amoroso compare nei due versi finali, ma con una differenza. Nella prima variante, per

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PARTE SECONDA

quanto il linguaggio di tali versi sia vistosamente di tipo amoroso, il riferimento e` pur sempre al tradimento dell’«amicu di cori», per cui l’intero strambotto non si discosta dalle altre versioni. Solo nella seconda versione c’e` un esplicito riferimento alla donna che, dopo aver ferito il cuore, tradisce; il che suggerisce di leggere l’intero strambotto come un paragone, solo parzialmente esplicito, tra il passero solitario e l’amante tradito. Si tratta dello stesso paragone sul quale, a tutt’altro livello naturalmente, si costruisce il sonetto di Petrarca. Galeota si mantiene, per cosı` dire, equidistante rispetto al testo popolare e a quello di Petrarca; o meglio ancora, egli opera una commistione tra i due testi, e di conseguenza tra le tradizioni che essi rappresentano: del testo popolare Galeota conserva, oltre alla forma metrica, i due versi finali che riprendono quasi alla lettera quelli conservatici da una variante calabrese, e qualche elemento contenutistico, come per esempio nel v. 5: «d’amici et da compagni allontanato», dove si avverte l’eco del passero tradito dagli amici; del testo petrarchesco Galeota conserva, invece, la costruzione d’insieme, ossia il paragone tra il passero solitario e l’amante che soffre per il disamore della sua donna, la rima in – etto, e singoli sintagmi, come quello del v. 4: «pianto e` il mio dilecto», che riprende il v. 5 di Petrarca: «Lagrimar sempre e` il mio sommo dilecto». Carvajal, infine, non compie un’operazione molto diversa da quella di Galeota, nel senso che, proprio come Galeota, egli, mediante la tecnica dell’incipit scritturale, opera una commistione tra la tradizione popolare, dove il motivo e` abbondantemente attestato, e la tradizione poetica colta, in cui tale motivo si risolve pressoche´ interamente. La differenza tra i due consiste nel fatto che, mentre per Galeota la tradizione colta e` rappresentata da Petrarca, per Carvajal tale funzione e` svolta dalla poesia cancioneril e dal codice tematico e formale che la definisce. La sostanziale estraneita` di «Sicut passer solitario» rispetto al sonetto petrarchesco non deve indurre ad escludere automaticamente che ci possano essre contatti tra la poesia di Carvajal e il Canzoniere, tant’e` vero che Francisco Rico ha segnalato un’«indudable imitacio´n de Petrarca»55 nei seguenti versi di Carvajal56: 55 Cfr. F. Rico, Variaciones sobre Garcilaso y la lengua del petrarquismo, in Doce consideraciones sobre el mundo hispano-italiano en tiempos de Alfonso y Juan de Valde´s, Roma, Publicaciones del Instituto Espan˜ol de Lengua y Literatura de Roma, 1979, pp. 115-30, cit. a p. 125 n. 31. 56 Carvajal, Poesie, ed. cit., p. 174.

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POESIA IBERICA E POESIA NAPOLETANA ALLA CORTE ARAGONESE

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....... aquı´ la vide tal dı´a, aquı´ llorando e sospirando aquı´ pendava sus cabellos aquı´ la vide muy bella aquı´ la vide tal fiesta con graciosa fermosura aquı´ mostrava sus secretos



por aquı´ se paseava, aquı´ comigo fablava, mis males le recontava; se vestı´a e despojava, muchas vezes disfrac¸ada; quando mi vida penava mucho ma´s que arreada; los que yo deseava

che si rifanno alla serie anaforica contenuta nel sonetto CXII, e che comincia «Qui tutta humile, et qui la vidi altera». I menzionati versi di Carvajal fanno parte di un Romance, per cui ancora una volta ci troviamo dinanzi a un caso di commistione di tradizione colta e tradizione popolare. Com’e` noto, di simili casi di «mescidazione del modello petrarchesco con altre fonti», quelle popolari per esempio, sono piene le sillogi napoletane, a partire da quella del conte di Popoli. A proposito della piu` generale questione della «commistione di forme dotte e popolari», il gia` menzionato Bronzini si chiedeva «che cosa determino` nell’e`ta` aragonese quel collegamento tra l’aulico 57 e il popolare [...] collegamento che invece manco` nell’eta` angioina» . Ritengo inopportuno entrare nel merito di risposte che non spetta a me di valutare. Da parte mia, a conclusione di queste note e in considerazione di quella domanda, vorrei suggerire che a quanto gia` affermato dal De Blasi, e cioe` che «i poeti castigliani sono probabilmente i primi a sondare le possibilita` letterarie del napoletano»58, potremmo aggiungere che nel fare cio` tali poeti – o almeno alcuni di essi – indicarono anche un percorso che presto si rivelo` di grande ampiezza, quello per l’appunto della contaminazione di modelli poetici colti e popolari. Per cui sarei tentato di dare contenuto letterario all’algoritmo esclusivamente linguistico proposto dalla Corti, laddove scrive che «la miscela del linguaggio di koine` (dialetto+Petrarca+ latino) si arricchisce di un nuovo filone, lo spagnolismo»59. 57 G. B. Bronzini, Prospettiva storica dei rapporti tra forme auliche, popolari e dialettali nell’eta` sveva, angioina e aragonese, in Atti dell’Accademia Pontaniana, n. s. XIX (1969-70), pp. 6-44, cit. a p. 35. 58 De Blasi e Va`rvaro, Napoli e L’Italia meriodinale, cit., p. 243. 59 Corti, Introduzione a De Jennaro, ed. cit., p. XXXVI. Mi corre l’obbligo di precisare che non e` mia intenzione riprendere la vecchia tesi del Savj Lo´pez, a suo tempo gia` giustamente contestata (cfr. supra n. 16). Da un lato, difatti, e` un’ide´e rec¸ue quella per cui «la moda popularizante es totalmente ajena al espı´ritu de la Castilla de Juan II. Sus comienzos estaban fuera de la Penı´nsula, en la corte napolitana de Alfonso V» (M. Frenk Alatorre, ¿Santillana o Suero de Ribera?, in «Nueva Revista de Filologı´a Hispa´nica», XVI (1962), p. 437. Della stessa autrice, cfr. anche Estudios sobre lı´rica antigua, Madrid, Castalia, 1978, p.

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51; e prima di lei, R. Mene´ndez Pidal, Romancero hispa´nico (hispano-portugue´s, americano y sefardı´). Teorı´a e historia, Madrid, Espasa-Calpe, 1968 (2ª ed.), vol. II, pp. 19-22). D’altro lato, e` da tempo noto cio` che Rinaldi – per ultimo – ha ribadito con le seguenti parole: «la maggior parte [della lirica di koine´] incarna piuttosto una sorta di emulazione napoletana della poesia popolareggiante che andava per la maggiore nella Firenze medicea (quindi culta e letteratissima)» (Umanesimo e Rinascimento, in G. Ba´rberi Squarotti (diretta da), Storia della civilta` letteraria italiana, Torino, UTET, 1991, vol. II, t. I, p. 633). Tutto cio`, pero`, non toglie che i poeti iberici della corte di Alfonso, risentendo del particolare clima letterario italiano, abbiano potuto dare un loro contributo alla formazione ed affermazione a Napoli di quel gusto poetico che si definiva per la fusione di elementi letterari con altri popolareggianti.

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LA RINASCITA DELL’EGLOGA IN VOLGARE NEI CANZONIERI QUATTROCENTESCHI. NOTE PRELIMINARI

Non e` molto che, con la sua consueta sagacia, Juan Alcina annotava una verita` che col tempo va acquistando sempre piu` credito. Diceva, dunque, che: La poesı´a de cancionero tan fuertemente apegada a sus tradiciones y modelos, oculta y medievaliza sus fuentes, pero en algunos casos creo que la cortina se puede levantar un poco para dejarnos entrever incidencias neolatinas que deberı´an permitir hablar de cierto humanis1 mo de cancionero .

Forse, pochi generi si prestano a confermare una tale affermazione, come accade con l’egloga, specie se – messi sulle tracce «de un cierto humanismo de cancionero» – la nostra ricerca non si limiti alle sole «incidencias neolatinas», ma includa anche quelle segnate dall’umanesimo volgare. In realta`, i canzonieri quattrocenteschi spagnoli – gli individuali come i collettivi – non abbondano di egloghe; e, tuttavia, considerato il poco spazio di cui dispongo, credo conveniente delimitare ulteriormente il discorso, circoscrivendolo – da un lato – al sottogenere allegorico di carattere politico e satirico, e precisandone – d’altro lato – la natura assolutamente preliminare. A questa categoria appartiene – com’e` noto – un esiguo, ma significativo numero di testi che, dalla meta` degli anni ’60 in poi, arriva a comprendere le cosiddette Coplas 1 J. Alcina, Entre latı´n y romance: modelos neolatinos en la creacio´n poe´tica castellana de los Siglos de Oro, en J. M. Maestre Maestre e J. Pascual Barea (a cura di), Humanismo y pervivencia del mundo cla´sico (Alcan˜iz 8 al 11 de mayo de 1990), Ca´diz, Instituto de Estudios Turolenses, CSIC e Servicio de Publicaciones de la Universidad de Ca´diz, 1993, pp. 3-27. Cito da p. 7.

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PARTE SECONDA

de Mingo Revulgo, quelle che iniziano «Abre las orejas», l’adattamento di Encina delle Buco´licas virgiliane, l’Egloga – «curiosı´sima», secondo Mene´ndez Pelayo – di Francisco de Madrid, cosı` come l’Egloga sobre el molino de Vascalo´n, con la quale con ogni probabilita` siamo gia` dentro il secolo successivo2. Il filo che congiunge i testi menzionati, e che li fa risalire al comune modello della bucolica allegorico-politica3, e` un fatto ormai acquisito, almeno da parte degli studiosi maggiormente consapevoli delle correnti poetiche che s’intrecciarono nell’Europa unita dalla diffusa aspirazione alla cultura umanistica. Maggiori difficolta` insorgono quando si tenta di determinare la posizione che le opere in questione occupano rispetto alla tradizione. Difatti, sul piano dei rapporti – per cosı` dire – esterni, ossia dei rapporti che i nostri testi intrattengono con la tradizione egloghistica nel suo insieme, gli studiosi non hanno mancato di riferirsi – con maggiore o minore concretezza, a seconda dei casi – alla bucolica latina medievale e umanistica4, cosı` come, al tempo stesso, nei loro 2 Per i testi citati, disponiamo delle eccellenti edizioni che seguono: Las Coplas de Mingo Revulgo, a c. di M. Ciceri, in «Cultura Neolatina», XXXVII (1977), pp. 75-149 e 187-266 (per le Coplas, si veda anche Las Coplas de Mingo Revulgo, a c. di V. Brodey, Madison, The Hispanic Seminary of Medieval Studies, 1986); Una satira anonima del XV secolo: «Abre abre las orejas», a c. di P. Elia, in «Annali dell’Istituto Orientale di Napoli – Sezione Romanza», XIX (1977), pp. 313-42 e Le «Coplas del tabefe», una satira del XV secolo spagnolo, a c. di P. Elia, in «Studi e Ricerche. Istituto di Lingue e Letteratura Straniere. Facolta` di Magistero, Universita` dell’Aquila», II (1983), pp. 137-83; A. Blecua, La Egloga de Francisco de Madrid en un nuevo manuscrito del siglo XVI, in Serta Philologica F. La´zaro Carreter, Madrid, Ca´tedra, 1983, vol. II, pp. 39-66; M. A. Pe´rez Priego, La Egloga sobre el molino de Vascalo´n: texto y sentido literario, in Crı´tica textual y anotacio´n filolo´gica en obras del Siglo de Oro, a c. di I. Arellano e J. Can˜edo, Madrid, Castalia, 1991, pp. 402-16. L’adattamento delle Bucoliche virgiliane di Encina, oltre che nell’ed. facsimile del Cancionero del 1496 (cc. 30-48), puo` leggersi in J. del Encina, Obras Completas, a c. di A. M. Rambaldo, Madrid, Espasa-Calpe, 1978, vol. I, pp. 218-341 e in Id., Obra Completa, a c. di M. A. Pe´rez Priego, Madrid, Fundacio´n Jose´ Antonio de Castro, 1996, pp. 205-98. 3 In questo senso, risulta molto utile il panorama tracciato da H. Cooper, Pastoral. Medieval into Renaissance, Ipswich-Totowa, D. S. Brewer-Rowman & Littlefield, 1977, dove tuttavia manca, com’e` abituale, ogni riferimento alla situazione spagnola. Parimenti, per l’egloga neolatina non ispanica, puo` consultarsi L. Grant, Neo-latin Literature and the Pastoral, Chapell Hill, The University of North Carolina Press, 1965. Per la penisola iberica, in cambio, disponiamo ora dell’eccellente repertorio di J. Alcina, Repertorio de la poesı´a latina del Renacimiento en Espan˜a, Salamanca, Ediciones Universidad de Salamanca, 1995. 4 Si leggano, tra gli altri, queste linee di Blecua: «Estas Coplas [de Mingo Revulgo] – o mejor, Buco´lica, como reza uno de sus manuscritos [Egerton 939 del British Museum ] – [...] son eco inmediato de las e´glogas humanistas que, a imitacio´n de Petrarca y Boccaccio, comenzaban a abundar en Italia y que, a trave´s del velo alego´rico pastoril, transparentaban, para quien conociera la clave, determinadas realidades sociales, religiosas o polı´ticas», in La Egloga de Francisco de Madrid, cit., pp. 40-41. Imprescindibile per una corretta valutazione della Translacio´n de Encina il recente studio di J. Lawrance, La tradicio´n pastoril antes de

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LA RINASCITA DELL’EGLOGA IN VOLGARE

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scritti non sono assenti menzioni dell’egloga umanistica in volgare italiano, che pero` solgono limitarsi per lo piu` a troppo generiche allusioni alla rinascita del genere in ambito mediceo, cio` che avvenne nella decade dei sessanta5. D’altro lato, sul piano dei rapporti interni ai testi spagnoli considerati, credo che si possa affermare che tra gli studiosi maggiormente avvertiti c’e` un unanime consenso nell’indicare le Coplas de Mingo Revulgo come l’archetipo del genere in Spagna, che gli autori posteriori hanno tenuto comunque presente, sebbene non sempre sia stato da loro imitato, nel senso stretto del termine6. Orbene, com’e` noto, si suole datare le Coplas alla meta` degli anni sessanta, cosicche´ l’insieme dei tratti che il testo presenta (bucolismo, allegoresi di tipo politico, linguaggio rusticano) farebbero di esso un sorprendente esempio – per la sua precocita` – di egloga allegorico-politica in volgare. Il problema e` – in qualche modo

1530: imitacio´n cla´sica e hibridacio´n romancista en la Translacio´n de las Buco´licas de Virgilio de Juan del Encina, in J. Guijarro Ceballos (a cura di), Humanismo y literatura en tiempos de Juan del Encina, Salamanca, Ediciones Universidad de Salamanca, 1999, pp. 103-21; per una diversa tesi, si veda J. Go´mez, Sobre la teorı´a de la buco´lica en el Siglo de Oro: hacia las e´glogas de Garcilaso, in «Dicenda. Cuadernos de Filologı´a Hispa´nica», X (1991-1992), pp. 111-26. Sugli aspetti teorici, utili riferimenti si troveranno in A. Egido, Sin poe´tica hay poetas. Sobre la teorı´a de la e´gloga en el Siglo de Oro, in «Critico´n», XXX (1985), pp. 41-77. 5 La precisazione vale soprattutto per la Translacio´n di Encina, a proposito della quale si vedano le concise osservazioni di J. C. Temprano, Mo´viles y metas en la poesı´a pastoril de Juan del Encina, Oviedo, Universidad de Oviedo, 1975, pp. 139-41, raccolte – ma senza ulteriore sviluppo – da Lawrance: «Sorprende [...] que no se haya profundizado en el interesante apunte de Temprano, sobre algunos posibles antecedentes italianos en la corte de los Medici de Florencia, donde la traduccio´n en verso de las Buco´licas en dialecto toscano de Bernardo Pulci en 1480 inspiro´ a Bartolomeo Scala, a Girolamo Benivieni, a Lorenzo de Medici y a otros a componer e´glogas rusticanas en metro frottolato y dialetto contadino» (La tradicio´n pastoril, cit., p. 115). Speriamo di poter presto disporre dei definitivi chiarimenti che ci offrira` la professoressa M. Morreale, che – riferendosi all’argomento della prima egloga tradotta da Encina – annuncia: «El entronque con la poesı´a en lo que concierne a la clave rusticana del Quattrocento italiano habra´ de hacerse en otro lugar, ampliando las apuntaciones de Temprano», in Juan del Encina y Luis de Leo´n frente a frente como traductores de la 1ª Buco´lica de Virgilio in J. Canavaggio e B. Darbord (a cura di), Edad Media y Renacimiento. Continuidades y rupturas, Caen, Centre de Publications de l’Universite´ de Caen, 1991, p. 91; si vedano ora le interessanti e persuasive Apuntaciones para el estudio ´ glogas Virgilianas de Juan del Encina, in P. Botta, C. Parrilla e I. Pe´rez Pascual (a de las E cura di), Canzonieri iberici, A Corun˜a, Editorial Toxos Outos, Universita` di Padova e Universidade da Corun˜a, 2001, vol. I, pp. 35-57. 6 Molto espliciti, in questo senso, risultano i giudizi di Lawrance, per il quale gli studiosi di Encina, anche se non ignorano «la existencia de las Coplas de Mingo Revulgo, pero no han advertido [...] su verdadera importancia en la historia de la pastoral castellana del primer Renacimiento castellano» (La tradicio´n pastoril, cit., p. 117); e di Blecua, che – a proposito dell’opera di Francisco de Madrid – ha sostenuto che «son las Coplas de Mingo Revulgo las ´ gloga de que con mayor intensidad influyeron en la ge´nesis alego´rica y en la lengua» (La E Francisco de Madrid, cit., p. 44).

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PARTE SECONDA

– al centro di quello che e` ancora uno dei migliori lavori dedicati alle Coplas, se prescindiamo dalla magnifica edizione del testo curata dalla filologa Marcela Ciceri; mi riferisco, naturalmente, allo studio di Charlotte Stern, che del resto vide la luce quasi contemporaneamente all’edizione menzionata, poco meno di un quarto di secolo fa. La studiosa americana, difatti, dopo aver opportunamente ricordato che i contemporanei – o, almeno, alcuni di essi – non ebbero alcun dubbio nell’annoverare le Coplas nel genere bucolico, aggiunge che «the poem must be examined within the framework of the pastoral in the late Middle Ages»; e, in tale prospettiva, si pronuncia a favore della «influence [sulle Coplas] of a tradition, harking back to Vergil and revived in the late Middle Ages by the Italian poets»7, a proposito dei quali menziona il Bucolicum Carmen di Petrarca e di Boccaccio. Non dubito che la prospettiva adottata sia quella giusta, mi chiedo soltanto se all’anonimo poeta spagnolo potesse riuscire l’operazione di plasmare l’egloga allegorico-politica in volgare, nella totale assenza di precedenti, ossia senza alcuna mediazione vernacolare. Evidentemente, lo stesso interrogativo dovette porsi anche la Stern se, in una nota, sentı` la necessita` di specificare che «there are also vernacular precedents for the Mingo Revulgo»8 e il lettore s’imbatte di seguito nei titoli della Pastoralet e delle Pastourelles politiques di Froissart. Ora, se e` proprio necessario ricercare dei ‘precedenti vernacolari’ – e credo che valga la pena tentarlo –, a me pare piu` coerente e proficuo seguire la pista italiana, di quegli eredi – cioe` – del Petrarca e del Boccaccio, i quali nel corso del Quattrocento effettivamente si sforzarono coi loro componimenti di dar vita a un codice bucolico in volgare, a partire dagli esempi dei due grandi trecentisti, e – va senza dire – in concomitanza con la nuova produzione pastorale umanistica in latino. Ho gia` ricordato come, nel riferirsi ai precedenti italiani, gli studiosi dell’egloga spagnola siano soliti alludere, ancorche´ genericamente, alla rinascita di cui il genere pastorale godette nella Firenze medicea, in un lasso di tempo: gli anni sessanta, al centro dei quali si collocherebbe anche la composizione delle nostre Coplas, sempre che si accetti – come tutti fanno – l’indicazione di Fernando del Pulgar

7 Ch. Stern, The Coplas de Mingo Revulgo and the Early Spanish Drama, in «Hispanic Review», XLIV (1976), pp. 311-32; le citazioni sono alle pp. 316 e 317 n. 20. 8 Ivi, p. 326 n. 35.

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LA RINASCITA DELL’EGLOGA IN VOLGARE

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contenuta nella sua glossa alla strofa xxiii del componimento9. Il fatto e` che gli studi sempre piu` numerosi e puntuali sull’argomento hanno finito per restituirci un quadro molto piu` complesso e articolato dello sviluppo dell’egloga in volgare, tanto che un’avveduta studiosa del genere, come Paola Vecchi Galli, ha potuto recentemente affermare che «a poco a poco i poeti bucolici del Quattrocento sono cosı` divenuti una schiera, ordinati nei testi, nelle diverse scansioni cronologiche e nelle rispettive designazioni geografiche (da Firenze e Siena a Napoli, Ferrara e Venezia)»10. In conseguenza di cio`, la riscoperta di alcuni autori cosı` come la rilettura critica di quelli gia` noti ci obbliga ad abbandonare l’ide´e rec¸ue secondo la quale le prime testimonianze della rinascita dell’egloga in volgare risalirebbero a quell’«accademia dei boccoici», raccoltasi intorno alla persona di Lorenzo nella prima meta` degli anni sessanta. Le cose non stanno esattamente cosı`; e – sebbene gli anni ’60 del secolo XV restino cruciali nello sviluppo dell’egloga volgare – per rintracciare i primi esempi del genere e` necessario andare indietro di alcuni anni, e perfino di qualche decennio, e allontanarsi da Firenze, sebbene non sia forse indispensabile abbandonare del tutto la Toscana. ` , difatti, al primo trentennio del Quattrocento che dobbiamo E risalire, se vogliamo incontrare i primi esempi di egloga in volgare, il cui autore, il senese Francesco Arzocchi, e` considerato l’«inventore del genere volgare». E tale fu considerato anche dai suoi contemporanei, come ci mostra con assoluta evidenza un episodio, che contribuı` notevolmente al rilancio del genere nella seconda meta` del secolo; ossia, l’edizione Miscomini delle Egloghe elegantissime, che videro la 9 La data del 1464, implicitamente suggerita da Fernando del Pulgar nella sua glossa alla strofa «Del collado aquilen˜o»: «luego otro an˜o que estas coplas se fizieron, ovo la divisio´n en el reyno, de que procedieron muchos dan˜os y males» (ed. cit., 234), fu espressamente indicata da J. Amador de los Rı´os, Historia crı´tica de la literatura espan˜ola, Madrid, Joaquı´n Mun˜oz, 1865, vol. VII, p. 130. Questa datazione, che in generale e` stata accettata dagli studiosi ed editori dell’opera (si vedano, per esempio, J. Rodrı´guez Pue´rtolas, Sobre el autor de las Coplas de Mingo Revulgo, in Homenaje a Rodriguez-Mon˜ino, Madrid, Castalia, 1966; raccolto in Id., De la Edad Media a la edad conflictiva. Estudios de literatura espan˜ola, Madrid, Gredos, 1972, pp. 121-36, in part. pp. 123-24; e Ciceri, Las Coplas de Mingo Revulgo, cit., p. 75), piu` recentemente e` stata contestata, con argomenti degni di considerazione da Brodey, Las Coplas de Mingo Revulgo, cit., pp. 23-24, che anticipa la composizione dell’opera ai primi anni del regno di Enrique IV, fissandone, in ogni caso, la data a un anno non posteriore al 1456. 10 P. Vecchi Galli, «Alcuni rustici, inepti e mal composti versi...»: una bucolica volgare tardo quattrocentesca alla Biblioteca Estense, in S. Carrai (a cura di), La poesia pastorale del Rinascimento, Padova, Editrice Antenore, 1998, pp. 151-72; cito da p. 151.

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PARTE SECONDA

luce a Firenze nel 1482. Dei quattro autori ivi raccolti, le egloghe di Arzocchi seguivano immediatamente la traduzione delle Bucoliche virgiliane di Bernardo Pulci, e precedevano la produzione originale di Benivieni e Boninsegni; l’organizzazione della raccolta, pertanto, in luogo di basarsi sull’«ordine cronologico di composizione» privilegiava il «disegno di storicizzazione dello sviluppo del genere pastorale volgare». I curatori dell’edizione intesero, cosı`, «stabilire la continuita` 11 ideale fra la produzione virgiliana e quella volgare» , assegnando all’Arzocchi il ruolo di antesignano nella ripresa volgare del genere classico. Cronologia e circolazione dei testi arzocchiani risultano percio` fattori importanti nella costituzione del genere. Orbene, la tendenza a una ricollocazione cronologica della sua poesia pastorale, a lungo considerata della seconda meta` del secolo, si e` andata affermando sempre piu` nel corso delle ultime ricerche sull’autore, fino a giungere alla recentissima edizione della Fornasiero che, sulla base della testimonianza di un manoscritto miscellaneo di fine Trecento o – al massimo – dei primissimi del Quattrocento, «sposta indietro di un quarantennio l’attivita` del poeta»12, e colloca prudenzialmente le sue quattro egloghe nelle prime decadi del secolo, diciamo entro il 1440. C’e` di piu`. Poiche´ prima di questa data – e col precedente dell’Arzocchi – dovettero comporsi anche il Tyrsis dell’Alberti e il capitolo La notte torna, e l’aria e il ciel s’annera di Giusto de’ Conti13, si puo` affermare che, prima della definitiva fioritura del genere negli anni ’60, e` dunque nei primi decenni del secolo che ci conviene situare la nascita della bucolica volgare, col trio degli autori menzionati, e – e` chiaro – soprattutto con Arzocchi, che da` un contributo decisivo alla formazione del canone bucolico, il quale, col passaggio al volgare, si apre non solo a «materiali poetici eterogenei», ma anche a «esecuzioni

11

F. Battera, L’edizione Miscomini (1482) delle Bucoliche elegantissimamente composte, in «Studi e problemi di critica testuale», XL (1990), pp. 149-85; cito da p. 182. 12 F. Arzocchi, Egloghe, a c. di S. Fornasiero, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1995, p. IX. Il manoscritto in questione e` quello che si conserva presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, ms. Landau Finaly 89, per la descrizione del quale si veda l’ed. cit. di Fornasiero, pp. LX-LXIII. 13 Per i due componimenti, si veda lo studio di C. Grayson, Alberti and the Vernacular Eclogue, in «Italian Studies», XI (1956), pp. 16-29, su Alberti, che puo` completarsi con G. Tanturli, Note alle rime dell’Alberti, in «Metrica», II (1981), pp. 103-21 e quello di I. Pantani, Il polimetro pastorale di Giusto de’ Conti, in Carrai (a cura di), La poesia pastorale nel Rinascimento, cit., pp. 1-55, su Giusto.

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LA RINASCITA DELL’EGLOGA IN VOLGARE

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stilistiche anche molto vistose»14, per mezzo del ricorso al plurilinguismo e l’introduzione del linguaggio rusticano15. Le egloghe dell’Arzocchi non costituirono un fenomeno isolato nello spazio ne´ circoscritto nel tempo, come mostrano alcuni episodi che risalgono a un periodo anteriore agli anni ’60, e a cui accennero` brevemente. Alla circolazione e diffusione della sua poesia bucolica non fu estranea la diaspora a cui gli intellettuali senesi si videro a lungo costretti, a partire dalla fine del Trecento e per tutto il Quattrocento, come segnalo` a suo tempo Carlo Dionisotti in uno dei suo classici studi16. «Se considerato alla luce della tradizione manoscritta delle sue egloghe – ha scritto la massima esperta dell’Arzocchi – si presenta [...] come un poeta che ebbe nell’ambiente feltresco una tempestiva diffusione e, in generale, una prima fortuna in area padana e poco piu` tardi fiorentina»17. Al Montefeltro, difatti, ci porta uno zibaldone, con ogni probabilita` anteriore al 1446, nelle cui pagine il suo raccoglitore, il medico urbinate Battista Felici, trascrisse le prime due egloghe dell’Arzocchi18. A Rimini, del resto, presso la corte malatestiana finı` per trascorrere gli ultimi anni della sua esistenza quel Giusto de’ Conti che aveva composto il gia` menzionato polimetro pastorale, La notte torna, incluso nel suo canzo14

Arzocchi, Egloghe, ed. cit., p. XX. Per una visione globale dello sviluppo della poesia bucolica italiana nel Quattrocento e` ancora molto utile E. Carrara, La poesia pastorale, Milano, Vallardi, 1909, sebbene – com’e` ovvio – debba aggiornarsi e correggersi con i nuovi e ricchi dati presenti negli studi che nel frattempo sono stati prodotti sul genere, specialmente negli ultimi anni. Imprescindibili contributi di carattere generale sono M. Corti, Il codice bucolico e l’«Arcadia» di Jacobo Sannazaro, in «Strumenti critici», VI (1968); raccolto in Ead., Metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 281-304, e D. De Robertis, L’ecloga volgare come segno di contraddizione, in «Metrica», II (1981), pp. 61-80 (quest’ultimo, in versione piu` breve, era apparso in Le genre pastoral en Europe du XV e au XVII e sie`cle. «Actes du Colloque international tenu a` Saint-Etienne du 28 septembre au 1er octobre 1978», Saint-Etienne, Universite´ de SaintEtienne, 1980, insieme al contributo di G. Ponte, Perspectives de la litte´rature de sujet pastoral au XV e sie`cle en Italie, ivi, pp. 15-24). Un utile strumento e` rappresentato ora dall’insieme di studi raccolti in Carrai, La poesia pastorale nel Rinascimento, cit. 16 C. Dionisotti, Jacopo Tolomei tra umanisti e rimatori, in «Italia Medievale e Umanistica», VI (1963), pp. 137-76. 17 S. Fornasiero, Presenze (e assenze) della bucolica senese, in Carrai (a cura di), La poesia pastorale nel Rinascimento, cit., pp. 57-72; cito da p. 65. 18 Si tratta del ms. 393 della «Bibliothe`que Inguimbertine» di Carpentras, cc. 47v-49v, 85r-86v; si vedano G. Parenti, «Antonio Carazolo desamato». Aspetti della poesia volgare aragonese nel ms. Riccardiano 2752, in «Studi di filologia italiana», XXXVII (1979), pp. 119-279, in part. p. 279; M. Santagata, Fra Rimini e Urbino: i prodromi del petrarchismo cortigiano, in Id. e S. Carrai, La lirica di corte nell’Italia del Quattrocento, Milano, Franco Angeli, 1993, pp. 43-95, in part. p. 89 n. 143; e, piu` per esteso, Arzocchi, Egloghe, ed. cit., pp. LV-LVIII. 15

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PARTE SECONDA

niere d’osservanza petrarchista, noto col titolo de La bella mano. Il suo tema indubbiamente amoroso e la dominante tonalita` petrarchesca, che segnano l’acquisizione del genere al complessivo programma di recupero della lezione del Petrarca, non hanno impedito a uno studioso di proporre recentemente una lettura del testo in chiave allegorico-politica19; una lettura che e` stata condivisa anche da chi, pur affermando la natura essenzialmente amorosa del testo, non ha escluso che «un sovrasenso in chiave politica sarebbe [...] ugualmente recuperabile», precisando che si tratterebbe pero` di «un sovrasenso ed apparizione intermittente»20. Di Giusto e` stato sottolineato il debito contratto nei confronti dell’Arzocchi, soprattutto della sua prima egloga21, della quale si e` anche detto che il suo argomento e` «politicomorale»22, come del resto indica la didascalia di uno dei codici che la contengono23. Analogo discorso a quello fatto per Giusto potrebbe farsi per un’altra egloga, «Pastori, o voi che havete in man la verga», del rimatore marchigiano Francesco Palmario che del resto, fu amico di Giusto, col quale coincise a Padova, nel corso degli studi. I due testi – di Giusto e del Palmario –, oltre ad apparire coevi, mostrano piu` di un punto di contatto, cosicche´ si e` proposto che, sotto il velame amoroso e pastorale, essi «costituiscono un dialogo poetico ravvicinato d’argomento politico»24. Un ultimo episodio riconduce ancora una volta alle egloghe dell’Arzocchi. Si tratta, difatti, di una precoce imitazione e continuazione della sua prima egloga ad opera del bergamasco Giovan Francesco Suardi, il quale ebbe occasione di conoscere il testo del senese o al tempo del suo soggiorno a Siena, come podesta`, tra il ’58 e il ’59, ovvero un paio d’anni prima, in ambiente feltresco25. 19

G. Biancardi, Esperimenti metrici del primo Quattrocento: i polimetri di Giusto de’ Conti e Francesco Palmario, in «Italianistica», XXI (1992), pp. 651-78, in part. p. 661. 20 Pantani, Il polimetro pastorale di Giusto de’ Conti, cit., pp. 42 e 41. 21 Arzocchi, Egloghe, ed. cit., pp. XXXIX-XL. 22 Battera, L’edizione Miscomini, cit., p. 179 n. 62. 23 Cosı` recita la rubrica del menzionato codice (Cambridge, Massachusetts, Harvard College, Houghton Library, ms. Typ. 24): «Egloga nella quale Tyrinto e Grisaldo pastori e man / driali con sue rime isdruzule dimostrano l’eta` presente / esser gionta in summa inopia et miseria e piu non si / extimar virtute et come la corte di sancta chiesia / e piena di vicij e scelleragine» (si veda Arzocchi, Egloghe, ed. cit., p. LVIII). 24 Biancardi, Esperimenti metrici del primo Quattrocento, cit., p. 661. 25 Per tutto cio`, si vedano R. Tissoni, Un ternario inedito attribuibile al Bianco da Siena e la quarta ecloga di Francesco Arsochi, in «Giornale storico della letteratura italiana», LXXXVII (1970), pp. 367-90; F. Brambilla Ageno, La prima ecloga di Francesco Arsochi e un’imitazione di Giovan Francesco Suardi, in «Giornale storico della letteratura italiana», XCIII (1976), pp. 523-48; cosı` come Santagata, Fra Rimini e Urbino, cit., p. 89 n.143.

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LA RINASCITA DELL’EGLOGA IN VOLGARE

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In entrambi i casi, con l’egloga del Suardi, ci siamo avvicinati a quegli anni ’60 che si rivelarono cruciali per lo sviluppo della bucolica volgare in Toscana, tra Firenze e, di nuovo, Siena. A Firenze, gia` nella prima meta` del decennio, fu attiva quell’«accademia dei buccoici», nella quale si distinsero i tre fratelli Pulci, ognuno dei quali contribuı` alla sua maniera allo sviluppo della poesia pastorale: Bernardo col volgarizzamento delle egloghe virgiliane; Luca contaminando l’epistola ovidiana col genere bucolico, e con gli inserti bucolici nel Driadeo; lo stesso Luigi – il piu` famoso dei tre – ricopiando di suo pugno le egloghe dell’Arzocchi, a testimonianza di una sua presenza mai interrotta, e che prelude al riconoscimento concessogli dall’edizione Miscomini come ‘inventore del genere’26. A Siena, invece, bisognera` attendere la seconda meta` del decennio per imbattersi nelle quattro egloghe del Boninsegni27, con le quali siamo gia` di poco oltre la data fissata per la composizione delle Coplas de Mingo Revulgo. Sono consapevole del fatto che, nell’eccessivo schematismo di queste note, e` come se avessi giustapposto i due pannelli di un dittico, lasciando in ombra le connessioni che giustificano il loro raccordo. Non e` solo che la mancanza di spazio mi impedisca di illuminarle, ma anche che la stessa esistenza di tali connessioni potrebbe essere messa in dubbio. All’inizio segnalavo la natura assolutamente preliminare del breve discorso che mi accingevo ad esporre, e dicevo il vero, nel senso che, dovendo cercare qualcosa, e` necessario sapere pregiudizialmente dove cominciare a cercare. Ebbene, non e` una novita` che, tra coloro che si sono interessati all’egloga quattrocentesca spagnola, quelli che si sono riferiti alla tradizione in italiano volgare non sono andati piu` in la` dell’esperienza

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Sui fratelli Pulci (Luca e Luigi), oltre al libro di S. Carrai, Le muse dei Pulci. Studi su Luca e Luigi Pulci, Napoli, Guida editore, 1985, si vedano le puntuali osservazioni dello stesso Carrai, La lirica toscana nell’eta` di Lorenzo, in Santagata e Carrai (a cura di), La lirica di corte, cit., pp. 96-144, in part. pp. 104-107, a proposito del rifiorire della bucolica fiorentina degli anni sessanta e dell’«impulso concordemente datole dai fratelli Pulci» (p. 104), a cui fa riferimento anche la «Introduzione» della Fornasiero in Arzocchi, Egloghe, ed. cit., pp. XXVIII-XXXIII, dove si trovera` la descrizione del ms. 2508 della «Biblioteca Palatina» di Parma, che contiene la copia delle quattro egloghe di Arzocchi. Al volgarizzamento delle Bucoliche virgiliane di Bernardo dedica un ampio studio S. Villari, Una bucolica «elegantissimamente composta»: il volgarizzamento delle egloghe virgiliane di Bernardo Pulci, in V. Fera e G. Ferrau´ (a cura di), Filologia Umanistica. Per Gianvito Resta, Padova, Antenore Editrice, 1997, vol. III, pp. 1873-1937. 27 Su Boninsegni e le sue egloghe, si veda specialmente Battera, L’edizioni Miscomini, cit., pp. 152-56 e 161-82.

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PARTE SECONDA

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fiorentina degli anni sessanta, quando invece la formazione di un codice bucolico in volgare si era gia` sostanzialmente incanalata nelle prime sei decadi del secolo. Nelle mie note, pertanto, non ho preteso altro che richiamare l’attenzione degli studiosi su questa originaria produzione, la quale – credo – dovra` essere tenuta in conto quando si riconsiderera` la genesi dell’egloga spagnola, nelle sue relazioni con la tradizione latina e volgare. Che tutto cio` possa condurre a una differente e piu` esatta valutazione del problema, e` un verdetto che dovra` rimettersi agli studi, molto piu` puntuali e pazienti, di coloro che considereranno degno d’attenzione l’invito che ho inteso fare in queste brevi e preliminari note.

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PARTE TERZA

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«PETRARCA Y EL TRADUZIDOR». NOTE SULLE TRADUZIONI CINQUECENTESCHE DEI TRIONFI Tiene de estar advertido el letor que hallara´ en esta traduccio´n algunas cosas quitadas y muchas de otra manera puestas de como esta´n en lo thoscano, y puesto que la mayor parte de la culpa desto sea el mal entendimiento del traduzidor, a que no ac¸erto´ a darle mejor trac¸a... Fernando de Hozes, Los Triumphos, BNM ms. 3687, c.5v.

1. Siamo con ogni probabilita` nel 1535, quando Garcilaso indirizza al poeta ed amico napoletano Giulio Cesare Caracciolo un sonetto, nel quale la «reiteracio´n conceptista en juegos de palabras» notata da 1 Lapesa nei primi tre versi Julio, despue´s que me partı´ llorando de quien jama´s mi pensamiento parte y dexe´ de mi alma aquella parte2

una volta tanto, non e` in contrasto con i pur tersi versi di Petrarca che furono segnalati dal Brocense come punto di partenza per il toledano3: I dolci colli, ov’io lasciai me stesso Partendo onde partir gia` mai non posso (R.V.F., CCIX, 1-2). 1

R. Lapesa, La trayectoria poe´tica de Garcilaso (1948), ora raccolto in Garcilaso: Estudios completos, Madrid, Istmo, 1985, pp. 50-52. 2 Cito da Garcilaso de la Vega, Obras completas con comentario, a c. di E. L. Rivers, Madrid, Castalia, 1981, pp. 116-17. 3 Cfr. A. Gallego Morell, Garcilaso de la Vega y sus comentaristas, Madrid, Gredos, 1972, 2ª ed., p. 268; si veda anche M. Rosso Gallo, La poesı´a de Garcilaso de la Vega. Ana´lisis filolo´gico y texto crı´tico, Madrid, Real Academia Espan˜ola, 1990, p. 117.

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PARTE TERZA

Eppure, non e` nei versi iniziali del testo spagnolo dove si avverte la maggiore presenza di Petrarca, bensı` nella sestina: Y con este temor mi lengua prueva a razonar con vos, o dulce amigo, del amarga memoria d’aquel dı´a en que yo comence´ como testigo a poder dar, del alma vuestra, nueva y a sabella de vos del alma mı´a.

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Non e` il caso di addentrarsi nell’esegesi di questi versi, soprattutto quelli dell’ultima terzina, a proposito dei quali mi permetto di rimandare il lettore a un mio precedente studio4. In questa sede m’interessa richiamare l’attenzione sul v. 10: del amarga memoria d’aquel dı´a

nel quale, stranamente, nessuno tra i commentatori antichi e moderni di Garcilaso ha riconosciuto il verso di Petrarca: per la dolce memoria di quel giorno

che e` poi il secondo verso del Triunphus Cupidinis: Al tempo che rinova i mie’ sospiri per la dolce memoria di quel giorno che fu principio a sı´ lunghi martiri5.

Naturalmente, non mi e` concesso di indugiare troppo a lungo sul testo di Garcilaso; tuttavia voglio almeno far notare il grado di complessita` che puo` raggiungere l’imitatio di Garcilaso, foss’anche in un caso cosı` semplice come quello a cui ci siamo appena riferiti. Si sara` notato come Garcilaso trasformi il sintagma dolce memoria in amarga memoria. Ora la iunctura «dolce memoria», pur trovandosi 4 A. Gargano, «Imago mentis»: fantasma e creatura reale nella lirica castigliana del Cinquecento, in F. Bruni (a cura di), Capitoli per una storia del cuore. Saggi sulla lirica romanza, Palermo, Sellerio, 1988, pp. 181-220, in part. le pp. 217-19. 5 F. Petrarca, Triumphi, a c. di M. Ariani, Milano, Mursia, 1988. Ho tenuto presenti anche le edizioni di C. Calcaterra, Torino, UTET, 1927; di F. Neri, in F. Petrarca, Rime e Trionfi, 2ª ed. riveduta a c. di E. Bonora, Torino, UTET, 1960; di F. Neri, G. Martellotti, in F. Petrarca, Rime Trionfi e Poesie latine, a c. di F. Neri, G. Martellotti, E. Bianchi, N. Sapegno, Milano-Napoli, R. Ricciardi Editore, 1951.

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«PETRARCA Y EL TRADUZIDOR»

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attestata nel Petrarca latino (De vita, II, 392 e 426; Fam. VI, 3, 66; VII, 12, 10; Sen III, 9, 863)6 risulta assente nel Canzoniere, con la parziale eccezione del settenario nella famosa canzone Chiare, fresche e dolci acque: «dolce ne la memoria» (CXXVI, 41). Del resto, lo stesso lemma memoria non e` tanto frequente nel Canzoniere, quanto forse ci si potrebbe attendere. Delle 18 occorrenze di memoria, una sola volta lo troviamo in concomitanza dell’aggettivo dolce (il settenario citato), mentre e` del tutto assente la iunctura: «amara memoria». Se prescindiamo dal lemma memoria, e rivolgiamo in cambio l’attenzione alla coppia aggettivale antitetica: dolce/amaro, ci accorgeremo di un fatto piuttosto interessante. L’aggettivo dolce e` frequentissimo nel Canzoniere, dove compare 251 volte; meno frequente e` amaro, che comunque pur vi e` presente 32 volte. Cio` che tuttavia interessa notare e` che in ben 23 occasioni (su un totale di 32) l’aggettivo amaro e` «collocato a contrasto col termine dolce, nello stesso verso o almeno nello stesso periodo metrico sintattico»7. Risulta, dunque, chiara la preferenza stilistica di Petrarca per l’antitesi: dolce/amaro. Ritorniamo ora, brevemente, al sonetto di Garcilaso per notare come l’antitesi viene ricostruita contrapponendo al secondo emistichio del v. 9: ... o dulce amigo

il verso che immediatamente segue: del amarga memoria d’aquel dı´a.

Riassumendo, a me pare evidente che Garcilaso, nel citare in castigliano il secondo verso del Trionfo d’Amore, abbia da un lato operato la modifica aggettivale, trasformando l’originale italiano dolce in amarga, e tuttavia l’immediato tradimento alla lettera del verso ridonda in una piu` profonda fedelta` a una cifra stilistica che percorre l’intero Canzoniere. In conclusione, anche in un esempio che ha volutamente privilegiato le «microstrutture linguistiche e concettuali», viene confermata la sapienza a cui era pervenuto Garcilaso nella sua arte imitativa, e,

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Cfr. la nota di Ariani nell’ed. cit., p. 78, n. 2. E. Chirilli, Studio sulle concordanze nel «Canzoniere» di Francesco Petrarca, in «Studi e problemi di critica testuale», XVI (1978), pp. 137-91, in part. le pp. 173-74. 7

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PARTE TERZA

allo stesso tempo, si ha una tangibile prova del rinnovamento a cui era pervenuta la lingua poetica in Spagna. Facciamo ora, rispetto al sonetto di Garcilaso che – ripeto – e` con ogni probabilita` del 1535, un passo indietro e uno in avanti: andiamo, cioe`, a ripescare il secondo verso del Triunphus Cupidinis nelle traduzioni di Alvar Go´mez e di Antonio de Obrego´n, entrambe anteriori al componimento di Garcilaso, e in quella di Fernando de Hozes, che e` invece ad esso posteriore. Ecco, dunque, la traduzione di Alvar Go´mez:

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con la memoria del dı´a que dio´ fin a mi alegrı´a.

Ad essa fanno eco i tre ottonari con cui Obrego´n traduce lo stesso verso: por memoria que renueva el mal que supe por prueva en el semejante dı´a

fino ad arrivare al terzo endecasillabo di Fernando de Hozes, che leggiamo nell’edizione di appena qualche anno posteriore alla meta` del secolo: por la dulce memoria de aquel dı´a.

Nel proporre un confronto cosı` ravvicinato tra le diverse traduzioni del v. 2 del Trionfo d’Amore, nulla mi e` piu` estraneo che un proposito di ironizzazione. Al contrario, non mi costa dire che, da un punto di vista strettamente poetico, si tratta di risultati che godono di pari dignita`, perche´ ognuno di essi raggiunge un livello nient’affatto disprezzabile all’interno del codice poetico nel quale e` stato concepito. Se pero` assumiamo un diverso punto di vista, quello cioe` dello storico della letteratura per il quale si fa, tra l’altro, pertinente l’evoluzione delle forme poetiche, allora diventa impossibile evitare di notare quanto attardate risultino le traduzioni di Alvar Go´mez e di Obrego´n rispetto a quella di Hozes, e come tra le prime due e quest’ultima ci sia la mediazione del modello poetico garcilasiano diffusosi dall’edizione barcellonese del ’43 in poi. 2. Prendero` in considerazione le tre traduzioni di Alvar Go´mez,

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«PETRARCA Y EL TRADUZIDOR»

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Antonio de Obrego´n e Fernando de Hozes, sulle quali credo che sia opportuno dare, preliminarmente, qualche informazione di carattere generale. Alvar Go´mez – La traduzione di Alvar Go´mez e` parziale: essa, infatti, si limita al solo Triunphus Cupidinis (e, piu` esattamente, a tre dei quattro capitoli di cui si compone il testo petrarchesco). Il testo spagnolo ci e` stato conservato nei codici manoscritti di Ixar e Gallardo, che possono leggersi nelle edizioni di Aza´ceta8. In forma ridotta (88 strofe su 142/143), il testo di Alvar Go´mez accompagna alcune edizioni della Diana di Montemayor (per l’esattezza tredici: da quella di Cuenca del 1561 a quella di Lisbona del 1624)9. La traduzione non conserva il genere metrico dell’originale: la terzina di endecasillabi, ma ricorre alla decima di ottonari, i quali sono ordinati secondo il seguente schema di rime: abaabccddc. I 513 endecasillabi italiani (dal cui conteggio e`, naturalmente, escluso il secondo capitolo che non e` tradotto), diventano 1430 ottonari nella versione conservataci da Ixar, e 1420 in quella di Gallardo. Dal testo italiano a quello castigliano assistiamo, pertanto, a una notevole amplificazione. Antonio de Obrego´n – La traduzione di Antonio de Obrego´n e` per contro completa: essa comprende tutti e sei i Trionfi, ed e` accompagnata da un esteso commento. Dedicata all’almirante di Castiglia, Fadrique Enrı´quez de Cabrera, essa fu stampata a Logron˜o da Arnao Guillermo de Brocar nel 151210. In seguito, fu ristampata due volte a Siviglia, nel 1526 e 1532, per i tipi di Juan Valera de Salamanca, e una volta a Valladolid, nel 1542, per quelli di Juan Villaquira´n11. Come Alvar Go´mez, lo stesso Obrego´n rinuncia alla terzina di endecasillabi e ricorre alla copla real o doble quintilla di ottonari. Eppure, per quanto simili nella scelta metrica, le due traduzioni, di

8 Cancionero de Juan Ferna´ndez de Ixar, a c. di J. M. Aza´ceta, Madrid, CSIC, 1956, II, pp. 819-62; El Cancionero de Gallardo, a c. di J. M. Aza´ceta, Madrid, CSIC, 1962, pp. 98-151. Il testo contenuto nel Cancionero de Gallardo era stato pubblicato da B. J. Gallardo, Ensayo de una biblioteca de libros raros y curiosos (1863), ed. facsı´mil, Madrid, Gredos, 1968, I, pp. 618-38. 9 Per l’elenco completo, cfr. J. de Montemayor, Los siete libros de la Diana, Madrid, Espasa-Calpe, 1954, pp. LXXXVII-CII. 10 Francisco Petrarca con los seys triunfos del toscano sacados en castellano con el comento que sobrellos se hizo, Logron˜o, Arnao Guillermo de Brocar, 1512. Per l’esemplare comprato da Ferdinando Colombo nel 1518, cfr. Gallardo, Ensayo, cit., II, 523, n. 2718. 11 Cfr. A. Palau y Dulcet, Manual del Librero hispano-americano, Barcelona, Libreria anticuaria de A. Palau, 1977, 2ª ed., II, pp. 306-7.

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PARTE TERZA

Alvar Go´mez e di Obrego´n, presentano – come vedremo – caratteristiche del tutto differenti. Fernando de Hozes – Problemi molto piu` complessi presenta la traduzione di Fernando de Hozes. Innanzitutto, c’e` da dire che essa e` completa di tutti e sei Trionfi, accompagnati da un commento, per il quale Hozes attinge in larga misura a quelli italiani del Vellutello e dell’Illicino, come lo stesso Hozes dichiara nel Pro´logo, diretto al duca di Medinaceli, Juan de la Cerda: «Y assı´ mismo puse nuevo comento, no tan breve como el de Alexandro Vellutello, ni tan largo en muchas cosas, como el de Bernardo Illicino, sino tomando a pedac¸os de entrambos, quitando algo de lo que paresc¸´ıa superfluo, y an˜adiendo lo que en mi juyzio era muy necessario». La grande novita` rispetto alle precedenti e` costituita dal fatto che Hozes traduttore conserva il genere metrico dell’originale; una scelta, le cui ragioni si trovano spiegate ad apertura del menzionato prologo, dove Hozes rende anche omaggio alla traduzione di Obrego´n: Despue´s que Garcilasso dela Vega y Joan Bosca´n truxeron a nuestra lengua la medida del verso thoscano, han perdido con muchos tanto cre´dito todas las cosas hechas o traduzidas en qualquier ge´nero de verso de los que antes en Espan˜a se usavan, que ya casi ninguno las quiere ver, siendo algunas – como es notorio – de mucho precio. Y como una dellas, y aun a mi parescer de las mejores, fuesse la traductio´n de los Triumphos de Petrarca, hecha por Antonio de Obrego´n, porque algunos amigos mı´os no entendı´an el thoscano, no dexassen por esta causa de ver una casa de tanto valor, como los dichos Triumphos son, en algunos ratos del verano passado, que para ello tuve desoccupados, hize otra nueva traductio´n en la misma medida y nu´mero de versos que el toscano tiene.

Quanto alla complessita` a cui accennavo, essa e` dovuta al fatto che di questa traduzione conserviamo due diverse redazioni. La prima ci e` pervenuta in manoscritto unico12, mentre la seconda redazione e` invece a stampa, e fu pubblicata a Medina del Campo da Guillermo de Millis nel 155413. Di tale edizione esistono delle copie datate 1555, che conservano pero` alla fine la data del 1554, e che presentano una portadilla leggermente diversa, ma sempre di Guil12 Il codice manoscritto si trova conservato presso la Biblioteca Nacional de Madrid, ms. 3687. 13 Los triumphos de Francisco Petrarcha, ahora nuevamente traduzidos en lengua Castellana, en la medida, y numero de versos, que tiene en el Toscano, y con nueva glosa, Medina del Campo, Guillermo de Millis, 1554.

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«PETRARCA Y EL TRADUZIDOR»

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lermo de Millis. Di circa un trentennio posteriore, ossia del 1581, e` l’edizione di Juan Perier di Salamanca. Alla traduzione di Hozes, e, in particolare, alla questione della doppia redazione ha dedicato non poca attenzione Francisco Rico, in un importante articolo che l’autore ha suggestivamente intitolato: El destierro del verso agudo. Secondo i convincenti argomenti dello studioso spagnolo, Hozes dovette lavorare alla prima redazione, quella pervenutaci in manoscritto, nel 1549. L’anno successivo, il 1550, Hozes sottopose il testo a una revisione, di cui il manoscritto conserva chiare tracce. Ma ne´ il testo primitivo ne´ quello rivisto furono stampati. Difatti, nell’estate del 1552, Hozes lavoro` alla seconda redazione la quale, questa sı`, vide la luce a Medina del Campo nel 155414. 2.1 Piuttosto che limitarmi allo studio di un particolare aspetto, preferisco prendere in considerazione un piccolo campione d’analisi, che tenga conto pero` dei vari fattori – o almeno di quelli piu` interessanti – che caratterizzano i testi, i quali raggiungono il numero di quattro, in considerazione della doppia redazione della traduzione di Hozes. Quanto alla scelta della porzione di testo da sottoporre ad analisi, essa e` caduta sulle prime terzine del Triunphus Cupidinis che permettono un confronto tra tutti e quattro i testi in questione. Tali sono la terza e la quarta, dal momento che il manoscritto di Hozes manca della carta contenente la traduzione delle prime due terzine. Ecco, dunque, i sei endecasillabi italiani: Amor, gli sdegni e ’l pianto e la stagione ricondotto m’aveano al chiuso loco ov’ogni fascio il cor lasso ripone. Ivi fra l’erbe, gia` del pianger fioco, vinto dal sonno, vidi una gran luce e dentro assai dolor con breve gioco. (vv. 7-12)

Si ricordera` che nelle due terzine precedenti Petrarca aveva fornito la determinazione temporale (Al tempo che rinnova...), ossia la stagione primaverile. Ora, nella terza, Petrarca da` indicazioni sul luogo: Valchiusa, il «chiuso loco» di v. 8; e, nella quarta, e` descritto 14 Cfr. F. Rico, El destierro del verso agudo (con una nota sobre rimas y razones en la poesı´a del Renacimiento), in Homenaje a Jose´ Manuel Blecua, Madrid, Gredos, 1983, pp. 525-51, in part. le pp. 533-35.

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

PARTE TERZA

l’inizio della visione che fa da cornice ai sei Trionfi. Il caso ha voluto che su questi versi esista un fine commento di Gianfranco Contini, che si puo` leggere nel fondamentale saggio dedicato alle Correzioni al Petrarca volgare. Scrive Contini:

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` cosı` che i Trionfi ci possono apparire come ispirati a un mezzo di E transizione da sostanza a sostanza che sia insieme un passaggio fonico, una partitura vocalica (nel primo d’Amore, 10-12: Ivi fra l’erbe, gia` del pianger fioco, Vinto dal sonno, vidi una gran luce, E dentro assai dolor con breve gioco; dove il transito e` aiutato, anzi promosso, dalla simmetria degli emistichıˆ, dalla simmetria dell’epitetare, dall’allitterazione vintovidi15.

Com’e` proprio del suo stile, Contini ci ha sinteticamente mostrato la perfetta corrispondenza tra l’unita` di contenuto e la trama formale che regola i versi di Petrarca. Tocca a noi, ora, vederne gli esiti castigliani. Comincero` con Alvar Go´mez, per passare ad Obrego´n e finire con Hozes. L’ordine ubbidisce solo in parte al dettato cronologico, dal momento che e` difficile stabilire quale delle due traduzioni, di Alvar Go´mez e di Obrego´n, sia stata composta con anteriorita`16. 2.2 Se passiamo ad esaminare il testo di Alvar Go´mez: El Amor el gran desde´n, la bentura y la sac¸on, y la falta de aquel bien que se esta agora con quien tiene alla mi corac¸on; mis gemidos, mi llorar, me abian puesto en vn lugar, do el pensamiento cansado la carga de su cuidado

15

G. Contini, Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, 1970, p. 28. 16 Alvar Go´mez de Ciudad Real o de Guadalajara (1488-1538) fu autore di varie opere in latino. Non e` difficile congetturare che il suo Triumpho del Amor dovette essere opera giovanile, anche in considerazione del fatto che nel 1522 pubblico` il Talichristia, con un prologo di Antonio de Nebrija: l’opera, con i suoi seimila esametri latini, dovette impegnarlo per non breve tempo (cfr. J. F. Alcina, La poesı´a latina del humanismo espan˜ol: un esbozo, in AA.VV., Los humanistas espan˜oles y el humanismo europeo (IV Simposio de Filologı´a Cla´sica), Murcia, Universidad de Murcia, 1990, pp. 12-33, in part. p. 16).

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«PETRARCA Y EL TRADUZIDOR»



dexaua por repossar. Asi estaua yo cautibo en vna huerta de flores, do sanara vn onbre vibo de qualquiera mal asquibo; si no fuera mal de amores; que aqueste es vn mal tan fuerte, de tal fuerc¸a y de tal suerte, que d’el no puede ser sano, quien no sana por la mano que le pudo dar la muerte.

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Puseme por me alegrar entre las yerbas, buscando algo con que descansar, ni olgaua en no llorar, ni descansaba llorando; ya mis ojos, que asi abiertos, fueron a los desconc¸iertos, avnque duermen agora, les bino vn sueno a desora, que los paro como muertos. Con el sueno que tenia passaua mi soledad, mas poco abia que dormia quando bi como benia vna muy gran claridad, y dentro vn graue dolor, y vn plazer, que de pequenno tan presto huye a su dueno como se seca la flor17

balza subito alla vista il numero spropositato dei 40 ottonari spagnoli per rendere i sei endecasillabi italiani. In effetti, la prima decima corrisponde alla prima terzina; la seconda strofa spagnola, sostanzialmente, non ha corrispettivo nel testo italiano; e, per finire, ben due strofe (la terza e la quarta) stanno per l’unica terzina dell’originale. L’amplificazione, dunque, caratterizza senza alcun dubbio la traduzione di Alvar Go´mez. Su quest’aspetto si e` soffermato il moderno editore dei canzonieri di Ixar e Gallardo, l’Aza´ceta, nella breve descrizione che ci fornisce della traduzione: 17

Ho riprodotto il testo contenuto nel Cancionero de Gallardo, ed. cit., pp. 98-100, dove sono riportate in nota le varianti del testo conservatoci da Ixar.

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

PARTE TERZA

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Alvar Go´mez sigue el pensamiento petrarquista un tanto de lejos, y au´n adopta´ndolo hay un nuevo proceso de creacio´n al considerar la libertad con que ejecuta su tarea y el nuevo volumen que le da...18.

Sullo stesso aspetto aveva a lungo insistito il nostro Giuseppe Carlo Rossi in un breve articolo, in cui il compianto studioso si era soffermato soprattutto sul primo capitolo19. Con la tendenza all’amplificazione siamo, in effetti, all’interno di un prassi secolare del volgarizzamento e della traduzione. La vera questione, a questo punto, non consiste tanto nella misurazione dell’amplificazione, quanto nel determinare le esigenze a cui quella amplificazione ubbidisce. In altre parole, si tratta di definire il tipo di cultura poetica che Alvar Go´mez rivela quando modifica, amplificandolo, il testo di Petrarca. Francisco Rico, in uno studio imprescindibile per comprendere la situazione della poesia castigliana nei primi decenni del Cinquecento, ha fornito una convincente spiegazione della tecnica amplificatoria di Alvar Go´mez. A proposito degli otto ottonari con cui il traduttore rende l’endecasillabo: l’amante ne l’amato si trasforme (III.162)

lo studioso spagnolo nota epigrammaticamente come: «Petrarca enuncia, Alvar Go´mez explica»; descrive, in poche linee, l’uso delle tecniche della reiterazione e dell’antitesi, cosı` come quello del mozdobre esteso dalla rima alla testura fonica, alla sintassi, al lessico e allo stesso pensiero, per concludere poi che «nuestro autor se cin˜e al estilo que la veta ma´s intelectualizada y formalista de la tradicio´n trovadoresca habı´a asumido en la Espan˜a de los Reyes Cato´licos y del Emperador: el estilo lı´rico del Cancionero general (1514). Alvar 20 Go´mez, pues, ha diluido a Petrarca a la maniera cancioneril» . 18

Aza´ceta, Petrarca traducido por Alvar Go´mez. Nuevos datos para el estudio del influjo del poeta italiano en nuestra lı´rica renacentista, in Cancionero de Gallardo, ed. cit., p. 45. Il corsivo e` mio. Cfr. anche dello stesso autore, Un traductor del Petrarca: Alvar Go´mez, in Cancionero de Juan Ferna´ndez de Ixar, ed. cit., pp. XCVI-XCVII. 19 G. C. Rossi, Una traduzione cinquecentesca spagnola del «Trionfo d’Amore», in «Convivium», fasc. 1º gennaio-febbraio 1959, pp. 40-50, dove, a proposito dei versi qui riportati, si legge: «La traduzione continua con una parafrasi, ora ampia ora amplissima del testo: alle due terzine di cui ai versi 7-12 corrispondono ben quattro decime (vv. 11-50), dove l’azione petrarchesca del poeta, che si riduce in solitudine e lı` sogna, si diluisce nel tempo e nei particolari» (p. 45). 20 F. Rico, Variaciones sobre Garcilaso y la lengua del petrarquismo, in Actas del Coloquio Interdisciplinar «Doce consideraciones sobre el mundo hispano-italiano en tiempos de Alfonso y

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

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Questa ‘diluizione’ e` ben evidente nelle strofe che abbiamo preso in considerazione. I quattro elementi del primo endecasillabo di Petrarca, per esempio, diventano sette, due dei quali in dittologia sinonimica: gemidos e llorar per l’it. pianto; cosı` come l’aggiunta di un elemento che non si trova nell’originale, ossia l’assenza dell’oggetto amato, diventa l’occasione per far ricorso a un topos frequente nella poesia erotica, vale a dire quello del cuore o dell’anima dell’amante che si trova «ubi amat quam ubi animat», per ricorrere alla fortunata formulazione di S. Bonaventura, e, prima di lui, di Bernardo di Chiaravalle: y la falta de aquel bien que se esta agora con quien tiene alla mi corac¸on.

Al contrario, nel v. 7: me abı´an puesto en un lugar, il traduttore rinuncia all’aggettivo it. chiuso di chiuso loco, con esso perdendo sia il riferimento a Valchiusa, sia quello al topos dell’hortus conclusus come scenario del sogno. Del resto, mentre Petrarca evita gli strumenti principali del topos, ossia la enumeratio e la descriptio connesse ad ogni topografia letteraria, e riduce tutto a erbe, il traduttore spagnolo sviluppa un’intera strofa (la seconda) sulla huerta de flores, che diventa lo spunto per dire del mal de amores, e per fornire una definizione dell’amore tra le piu` ricorrenti della poesia cancioneril: que aqueste es un mal tan fuerte, de tal fuerc¸a y de tal suerte ................................................21

Passando direttamente alla quarta strofa, l’endecasillabo italiano: e dentro assai dolor con breve gioco

e` sviluppato in un’intera quintilla, la seconda, dove non solo si rinuncia all’architettura delle simmetrie del verso italiano, ma nel-

Juan de Valde´s» (Bolonia, abril de 1976), Roma, Publicaciones del Instituto Espan˜ol de Lengua y Literatura, 1979, pp. 115-30, in part. le pp. 121-22. 21 Cfr. R. Lapesa, Poesı´a de cancionero y poesı´a italianizante (1962), in De la Edad Media a nuestros dı´as. Estudios de historia literaria, Madrid, Gredos, 1971, pp. 145-71, in part. p. 151; Id., La trayectoria, cit., pp. 26-27; e Rico, Variaciones, cit., p. 125.

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

PARTE TERZA

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l’amplificatio a mezzo di paragone degli ultimi tre ottonari, lo stesso motivo classico22 e` ricondotto alla maniera cancioneril. 2.3 Ho gia` notato che, pur nella scelta metrica sostanzialmente simile, le due traduzioni di Go´mez e Obrego´n presentano caratteristiche affatto distinte. Alvar Go´mez sottopone la lingua poetica del Petrarca a un processo di totale disintegrazione, nel quale un codice poetico riduce a zero la distanza dall’altro perche´ lo nega assimilandolo a se´; a differenza di quanto avviene nella traduzione di Obrego´n, nella quale i due codici si guardano piu` da vicino e, la` dove possono, pervengono a momenti di osmosi. Fuor di metafora, il testo di Obrego´n, pur rimanendo molto al di qua` della linea che segna il rinnovamento della poesia castigliana, si rivela piu` permeabile, nel conservare in se´ delle tracce dei ricorsi poetici presenti nel testo originale: El amor y desden˜ar con el tiempo y con el llanto me cerraron en lugar donde suele descansar el corac¸on de quebranto. cansado de llorar tanto entre las yerbas dormido vi gran luz donde ove espanto y yo vi dentro entre tanto breve risa y gran gemido23.

La serie di coplas reales per il capitolo di terzine, oltre che di Alvar Go´mez, sara` la scelta dell’anonimo traduttore del Purgatorio dantesco24, sempre nel primo terzo del secolo, e la si trovera` nel 1547 nella traduzione toledana dell’Arcadia di Sannazaro, in nove delle dodici egloghe25. Sia pur brevemente, credo che valga la pena di accennare ai criteri in base ai quali avviene il passaggio da un sistema metrico all’altro. Tali criteri, difatti, ubbidiscono a regole alquanto precise. Obrego´n ha lavorato tenendo conto, essenzialmente, di due unita` 22

Per i rimandi ai classici, cfr. Ariani, ed. cit., p. 81, n. 12. Francisco Petrarca con los seys triunfos (1512), vj. Ho utilizzato l’esemplare conservato presso la Biblioteca Nacional de Madrid, R. 8092. 24 Cfr. J. Arce, Petrarca y el terceto «dantesco» en la poesı´a espan˜ola, in Literaturas Italiana y Espan˜ola frente a frente, Madrid, Espasa-Calpe, 1982, pp. 157-68, in part. p. 162. 25 Cfr. R. Reyes Cano, La Arcadia de Sannazaro en Espan˜a, Sevilla, Publicaciones de la Universidad de Sevilla, 1973, pp. 90-109. 23

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

metriche: l’emistichio e la terzina. Egli, cioe`, ha tenuto fermi, salvo poche eccezioni, i limiti della terzina per la quintilla, ricavando da ` chiaro che questa doppia corrisponogni emistichio un ottonario. E denza (terzina-quintilla; emistichio-ottonario) pone un problema di asimmetria; Obrego´n ricorre alla tecnica che consiste nel ricavare quattro ottonari dagli emistichi di due endecasillabi, e un solo ottonario dal restante endecasillabo. Nei versi qui riprodotti, il primo, il secondo e il sesto sono ottonari ottenuti da altrettanti emistichi; mentre il terzo verso: me cerraron en lugar e` un esempio di ottonario ricavato da un intero endecasillabo, attraverso una tecnica di abbreviatio che, nel verso in questione, e` costituita dal passaggio da una forma verbale composta a una semplice, e dalla contemporanea soppressione dell’aggettivo chiuso, la cui marca semantica passa al verbo cerrar, con forte affievolimento, ma non scomparsa, dell’allusione a Valchiusa, e al topos letterario di cui si e` detto. Naturalmente, non sostengo che il criterio ora esposto sia l’unico col quale Obrego´n abbia operato; ma che esso costituisca il meccanismo di base, questo sı`. Per arricchire il quadro, voglio solo accennare a un ulteriore aspetto. Consideriamo un verso del tipo: come uom che per terren / dubio cavalca (II.88)

Da esso Obrego´n ricava sı` due ottonari, ma senza che questi ne rispettino gli emistichi: como al que va caminando per terren que es de temer.

Cio` avviene, a mio parere, per un motivo preciso. Nell’endecasillabo, la cesura cade tra terren e dubio, con un forte effetto di spezzatura, che separa l’aggettivo dal sostantivo a cui si riferisce. I due ottonari spagnoli ricompongono le microunita` sintattiche e, cio` facendo, essi privilegiano l’unita` sintattica su quella metrica. Effettivamente, si tratta di due criteri che spesso si fronteggiano, anche se, avendo spesso gli emistichi dei Trionfi una struttura bimembre, unita` metrica (emistichio) e unita` sintattica coincidono. Con cio` non pretendo affatto di aver esaurito la complessa questione del passaggio da un sistema metrico all’altro, ma credo tuttavia di aver fornito i criteri di fondo che spiegano la traduzione di un gran numero di versi. Tornando ai versi del nostro campione d’analisi, la trama formale

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

PARTE TERZA

che Contini ha posto in rilievo per i versi italiani e` qui andata perduta. Non del tutto, comunque. Nulla rimane della costruzione perfettamente simmetrica di vinto dal sonno / vidi una gran luce, se non forse la ripetizione del verbo vi come tentativo di riprodurre l’allitterazione vinto/vidi che e` andata perduta. In cambio, la costruzione bimembre di: ivi fra l’erbe / gia` del pianger fioco e` stata, in qualche modo, resa con la costruzione chiastica:

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cansado de llorar tanto entre las yerbas dormido.

Ma e` soprattutto l’ultimo ottonario: breve risa y gran gemido che riproduce la forma dell’endecasillabo italiano. Lo sforzo di conservazione si nota soprattutto nella coppia aggettivale, con breve che e` «aggettivo quantitativo e temporale nello stesso tempo», come annota il Calcaterra; mentre la coppia sostantivale: gioco/dolor subisce una concretizzazione con l’uso di risa e gemido. Questa riduzione di aulicita` (penso soprattutto a risa per gioco) si presenta altrove in questi versi, sia a livello di costruzioni che di lessico. Si veda, per esempio: vinta dal sonno = dormido riporre ogni fascio = descansar de quebranto del pianger fioco = cansado de llorar.

2.4 Passiamo, infine, alla traduzione di Hozes che fornisco nella doppia redazione: 7 amor desden mi llanto y la sazon entonc¸es al lugar me avian llevado que suele dar alivio al corac¸on 10 Entre la yerva de llorar cansado yo vi una luz al suen˜o ya Rendido y dentro poco bien y gran cuydado (Redazione manoscritta) 7 Amor, desdenes, llanto, el tiempo, y pena Me havian puesto en el lugar cerrado,

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

Adonde toda cuyta queda agena.

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10 Entre las yervas de llorar cansado Durmiendo vi una luz resplandenciente Y dentro plazer breve y gran cuydado26 (Redazione a stampa).

Il cambio piu` vistoso e significativo dalla prima alla seconda redazione, Fernando de Hozes lo effettua a proposito della rima tronca. Come ha gia` osservato Rico, nello studio anteriormente menzionato, Hozes non lascia un solo caso di finale ossitona, con atteggiamento ancora piu` rigido degli stessi rimatori italiani, i quali, sia pur sporadicamente, ammettevano questo tipo di rima. Si tratta di un chiaro indizio del fatto che, dalla redazione manoscritta degli anni ’49-’50 alla revisione del ’52, non solo si e` lasciato indietro l’ottonario, ma, nell’adottare l’endecasillabo, aderisce alle piu` rigorose leggi che ne regolavano l’uso. Tuttavia, nell’estate del ’52, Hozes non si limito` ad intervenire unicamente sui versi che presentavano una finale tronca, ma sottopose il testo a una revisione sistematica che si estese a molti altri aspetti. Il risultato fu quello di ottenere una delle migliori traduzioni poetiche di questa meta` del Cinquecento27. Nella prima delle due terzine, non solo scompare la rima tronca (sazo´n: corac¸o´n) dei versi estremi, ma lo stesso verso centrale risulta totalmente modificato. In esso, difatti, viene reintrodotto l’aggettivo cerrado, con l’importante valore semantico che sappiamo, a discapito di entonc¸es, che svolgeva nel verso una funzione puramente riempitiva. Piu` in generale, nella redazione a stampa la scansione degli emistichi e delle unita` sintattiche che tali emistichi ritagliano e` molto piu` vicina al dettato dell’originale, tranne che nel primo verso, dove l’introduzione di un quinto elemento: pena – per ragioni di rima – rompe la simmetria tra primo e secondo emistichio. La struttura bimembre degli endecasillabi caratterizza soprattutto 26

Per il testo della redazione a stampa, ho utilizzato l’edizione di Juan Perier, Salamanca, 1581, secondo l’esemplare conservato presso la Biblioteca Universitaria de Barcelona, R. 47165. L’edizione utilizzata non presenta alcuna variante per i versi delle due terzine che qui si analizzano. 27 «La refundicio´n de 1552 – no documentada en el co´dice – elevo´ extraordinariamente la calidad del trabajo, hasta convertir a Los Triumphos en una de las mejores traducciones del italiano pergen˜adas en la e´poca», Rico, El destierro del verso agudo, cit., p. 535.

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

PARTE TERZA

la seconda terzina di Petrarca. Nella traduzione di Hozes, essa viene sapientemente rispettata nei versi estremi; anzi, nel passaggio alla redazione definitiva, risulta ulteriormente perfezionata. Nel terzo verso i cambi sono piu` vistosi: l’antitesi gioco/dolor e` effettivamente resa meglio dalla coppia plazer/cuydado, piuttosto che dall’anteriore bien/cuydado; e a cio` deve aggiungersi il recupero dell’agg. breve. Nel primo verso, il passaggio dal singolare al plurale: la yerva < las yervas risponde, certo, a un maggiore adeguamento all’originale; il che, tuttavia, non toglie che, cosı` facendo, Hozes abbia evitato una dialefe che sarebbe risultata strana. Cosı` come la ristrutturazione del verso centrale, dovunque vada ricercata la sua causa, evita ancora una volta una dialefe, questa volta tra suen˜o e ya. Quanto poi all’intero verso: durmiendo vi una luz resplandeciente, esso, pur costituendo un ottimo endecasillabo, segna un allontanamento dalla struttura simmetrica dell’originale petrarchesco, con relativa perdita dell’allitterazione. Le ragioni dei cambi introdotti non sono, pero`, da ricercare nell’endecasillabo in se´, ma nella terzina seguente. 3. Pur con la consapevolezza che quanto finora esposto no va molto piu` in la` di un primissimo approccio al materiale offertoci dalle tre traduzioni, ritengo che sia doveroso trarre alcune brevi conclusioni. Sul piano generale, ossia su quello della ricezione della letteratura italiana in Spagna, Alberto Blecua presento` nel Coloquio di Bologna, tenutosi nel 1976, un denso stato della questione che, cronologicamente, abbracciava la prima meta` del XVI secolo. In esso, tra l’altro, concludeva: «faltan estudios detallados de las traducciones, tan interesantes algunas de ellas, a las que se podrı´a aplicar el mismo me´todo que realiza Margherita Morreale en su ana´lisis del Cortesano»28. A piu` di un quindicennio di distanza dall’incontro bolognese, l’invito implicito contenuto nelle parole di Blecua andrebbe riproposto, nelle convinzione che queste traduzioni costituiscono una delle piu` importanti officine in cui si va elaborando la nuova lingua letteraria in Spagna. A livello piu` specifico della lingua poetica, e tornando a Garcilaso da cui le presenti note hanno preso l’avvio, questo primo approccio ai Trionfi castigliani riconferma almeno due dati che gli studi degli ultimi anni sulla poesia della prima meta` del Cinquecento hanno 28

A. Blecua, Gregorio Silvestre y la poesı´a italiana, in Actas del Coloquio interdisciplinar «Doce consideraciones», cit., pp. 155-73, in part. p. 161.

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«PETRARCA Y EL TRADUZIDOR»



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reso definitivamente acquisiti. Innanzitutto, si puo` constatare che la poesia del toledano, sviluppatasi nell’arco di un solo decennio gia` conteneva in se´ l’intero processo che la poesia spagnola nel suo complesso avrebbe compiuto in 40 anni circa, gli stessi anni cioe` che separano la traduzione di Obrego´n da quella a stampa di Hozes29. In secondo luogo, risulta sempre piu` chiaro che tra i due estremi di una poesia arroccata intorno alla vecchia maniera, da un lato, e lo splendido modello poetico di Garcilaso, dall’altro, risulta attestata una lunga e variegata serie di esiti intermedi, la cui ricchezza rende molto complessa, e percio` tanto piu` affascinante, la situazione della poesia spagnola della prima meta` del Cinquecento30.

29

Limitatamente allo sforzo per evitare «el acento en la u´ltima», cfr. Lapesa, La trayectoria, cit., p. 183-84, e Rico, El destierro, cit., p. 531. 30 Cfr. soprattutto Rico, Variaciones, cit., R. Lapesa, Los ge´neros lı´ricos del Renacimiento; la herencia cancioneresca, in Homenaje a Eugenio Asensio, Madrid, Gredos, 1988, pp. 259-75; e ancora, F. Rico, A fianco di Garcilaso: poesia italiana e poesia spagnola nel primo Cinquecento, in «Studi petrarcheschi», nuova serie, IV (1987), pp. 229-36, il cui ultimo paragrafo sintetizza mirabilmente la situazione poetica dei primi decenni del secolo: «La matassa si presentava, dunque, piu` ingarbugliata di quanto a volte pensiamo: coplas castigliane e metri toscani, volgare e latino, petrarchismo e classicismo si combinano in molti piu` sensi di quelli che finirono per trionfare. L’originalita` e il merito dell’apporto maturo di Garcilaso e Bosca´n non devono impedirci di riconoscere che all’inizio della loro attivita` anch’essi conobbero le incertezze di altri poeti piu` modesti. E che se la superiore qualita` non ci fa dimenticare la prelazione di Garcilaso su Bosca´n, non e` neppure giusto disattendere la priorita` o contemporaneita` che in relazione ad entrambi corrisponde ad altri rimatori» (p. 236). Solo al momento della correzione delle bozze [in occasione della pubblicazione dell’articolo in rivista], mi e` stato possibile – grazie al gentile invio dell’autrice che ringrazio – prendere visione del lavoro di A. J. Cruz, The «Trionfi» in Spain: Petrarchist Poetics, Translation Theory, and the Castilian Vernacular in the Sixteenth Century, in K. Eisenbichler e A.A. Iannucci (a cura di), Petrarch’s «Triumphs», Toronto, Dovehouse Editions, 1990, pp. 307-24.

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GARCILASO DE LA VEGA E LA NUOVA POESIA IN SPAGNA, DAL RETAGGIO CANCIONERIL AI MODELLI CLASSICI

1. Nell’arco di tre decenni scarsi, dal 1526 al 1554, la poesia spagnola conobbe una vera e propria rivoluzione, che ebbe l’effetto non solo di sconvolgere forme e generi poetici di una tradizione consolidata e – per cosı` dire – a alto tasso di codificazione, ma anche d’instaurare un nuovo ordine poetico, col quale le future generazioni di poeti sarebbero state costrette a fare i conti comunque, sia per adeguarvisi che per differenziarsene, sia ancora per restaurarlo, a seguito dei molti e non univoci tentativi di disfacimento. Come ogni processo rinnovatore, anche quello di cui stiamo per occuparci, per quanto celere e radicale, diede luogo a esiti e momenti che finirebbero per raffigurare una complessa articolazione, se l’occhio dello storico – invece di limitarsi a uno sguardo d’assieme – reclamasse d’indugiare sui singoli fatti o fenomeni che ne determinarono lo sviluppo. Ci si accorgerebbe, per esempio, che la poesia alla vecchia maniera non ignoro` affatto tentativi, sia pure timidi, di rinnovamento, che – fin dalla seconda decade del Cinquecento, almeno – segnalano un orientamento che di lı` a una decina d’anni si sarebbe affermato con totale autonomia. D’altronde, gia` entrati nel pieno del processo rinnovatore, si sarebbe indotti a dare il massimo rilievo ai primi esperimenti generosi, e tuttavia carenti della desiderata compiutezza, di cui e` un caso esemplare Juan Bosca´n; esperimenti che, del resto, corsero paralleli alle prove presto mature con le quali un geniale Garcilaso de la Vega provvide a dotare il nuovo modello di quel carattere definitivo e fondante che assunse per le innumerevoli generazioni successive. E, ancora, perche´ non soffermarsi sul ruolo decisivo che ebbero alcuni poeti piu` giovani degli iniziatori, o minori e – addirittura – anonimi, nell’affermazione e

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PARTE TERZA

nella diffusione di un modello ormai costituito, ma non ancora del tutto consacrato? In tal senso, un posto non proprio trascurabile vedrebbero assegnarsi figure non di primo piano come – per esempio – un Fernando de Hoces che, nel 1552, si sottopose alla non indifferente fatica di un completo rifacimento della sua traduzione dei Trionfi petrarcheschi, nello sforzo di adeguarsi meglio alle rigorose leggi che regolavano l’uso del metro d’importazione: l’endecasillabo italiano; come non di primo piano, del resto, dovevano certamente risultare quei rimatori – molti dei quali anonimi – che con i loro componimenti – per lo piu` sonetti – riempirono il Cancionero general de obras nuevas, che sin dal titolo si ricollegava all’illustre precedente del principio del secolo, quello cioe` costituito dal Cancionero general, pubblicato da Hernando del Castillo nel 1511, ma che – a differenza di quest’ultimo – a una prima sezione ancora contenente opere composte «por el arte espan˜ola» aggiungeva significativamente una seconda parte dedicata alle «obras que van por el arte toscana compuestas». E si consideri che le ultime due opere menzionate – i Trionfi di Hoces e il Cancionero general de obras nuevas – portano la stessa data di pubblicazione, l’anno 1554, con cui ho fatto coincidere il trentennio circa, nel corso del quale prese forma la nuova poesia in 1 Spagna . ` al toledano Garcilaso de la Vega che spetta, comunque, il E merito di aver portato avanti con maggiore determinazione la sperimentazione avviata con leggero anticipo dal suo amico, il barcellonese Juan Bosca´n, e di aver imposto – grazie a risultati sorprendente1

Sulle traduzioni cinquecentesche dei Trionfi del Petrarca, oltre ai contributi di G.C. Rossi, Una traduzione cinquecentesca spagnola del Trionfo d’Amore, in «Convivium», XXVII (1959), pp. 40-50, di A.J. Cruz, The Trionfi in Spain: Petrarchist Poetics, Translation Theory, and the Castilian Vernacular in the Sixteenth Century, in K. Eisenbichler e A.A. Iannucci (a cura di), Petrarch’s Triumphs. Allegory and Spectacle, Toronto, Dovehouse, 1990, pp. 307-24, di A. Gargano, «Petrarca y el traduzidor». Note sulle traduzioni cinquecentesche dei Trionfi, «Annali dell’Istituto Universitario Orientale, Sezione Romanza», XXXV (1993), pp. 485-98, di C. Alvar, Alvar Go´mez de Guadalajara y la traduccio´n dei Triunfo d’Amore, in J. Paredes (a cura di) Medioevo y literatura. Actas del V Congreso de la Asociacio´n Hispa´nica de Literatura Medieval, I, Granada, Universidad de Granada, 1995, pp. 261-67, si vedano gli studi di R. Recio, Petrarca y Alvar Go´mez: la traduccio´n del Triunfo de Amor, New York, Peter Lang, 1996; Petrarca en la penı´nsula ibe´rica, Alcala´ de Henares-Madrid, Universidad de Alcala´ de Henares, 1996; e la piu` recente edizione della traduzione di Alvar Go´mez de Ciudad Real, El «Triumpho de Amor» de Petrarca traduzido por Alvar Go´mez, Barcelona, PPU, 1998. Il Cancionero general de obras nuevas, modernamente edito da A. Morel-Fatio, in L’Espagne au XVI et au XVII sie`cle, Heilbronn, 1878, pp. 489-602, e` stato recentemente riproposto in volume autonomo a cura di C. Claverı´a: [Esteban de Na´gera], Cancionero general de obras nuevas (Zaragoza, 1554), Barcelona, Edicions Delstre’s, 1993.

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GARCILASO DE LA VEGA E LA NUOVA POESIA IN SPAGNA

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mente maturi – il nuovo modello poetico a coloro che possiamo considerare con una certa approssimazione i suoi continuatori e imitatori. Non indugero`, pertanto, in ulteriori considerazioni generali, preferendo richiamarmi direttamente alle opere di colui che, nel breve arco di una decina d’anni d’attivita` (dal ’26 al ’36, anno quest’ultimo della sua morte), compendio` l’intero processo di evoluzione da cui fu investita la poesia spagnola. Comincero` ricorrendo a un testo che ci colloca giusto nel mezzo di quel processo che pretendo di ricostruire velocemente nel corso delle seguenti note. Si tratta di un sonetto panegirico, che Garcilaso compose in onore di una nobildonna napoletana, e che – forse a torto – non ha ricevuto l’attenzione che merita2: Illustre honor del nombre de Cardona, / de´cima moradora de Parnaso, / a Tansillo, a Minturno, al culto Tasso / sujeto noble de inmortal corona, / si en medio del camino no abandona / la fuerza y el espirtu a vuestro Laso, / por vos me llevara´ mi osado paso / a la cumbre difı´cil d’Elicona. / Podre´ llevar entonces sin trabajo, / con dulce son qu’el curso al agua enfrena, / por un camino hasta agora enjuto, / el patrio, celebrado y rico Tajo, / que del valor de su luciente arena / a vuestro nombre pague el gran tributo3. Senza dubbio alcuno, il sonetto fu composto a Napoli, dove Garcilaso era giunto direttamente dall’esilio danubiano nell’autunno del ’32, per unirsi al duca d’Alba, Pedro di Toledo, recentemente nominato vicere´ del regno partenopeo. La nobildonna a cui esso va dedicato e` Maria di Cardona, marchesa di Padula, al tempo nota anche per la sua attivita` poetica, che Garcilaso celebra – con iperbole non originale – come decima musa. A lei, del resto, avevano gia` reso omaggio, con alcuni componimenti, i tre poeti nominati nel terzo verso, ossia: Luigi Tansillo, Antonio Sebastiano detto il Minturno, e Bernardo Tasso. Si tratta, com’e` noto, di tre poeti che all’epoca soggiornavano a Napoli, e con i quali il nostro Garcilaso non tardo` a stringere stretti rapporti culturali. Nella seconda quartina, il poeta non esita a concedersi l’augurio di conservare la fuerza y el espirtu, godendo dei quali si dice certo di poter ascendere alla vetta del Parnaso, grazie soprattutto alla nobilta` del tema scelto, il sujeto noble di v. 4, su cui si sono gia` esercitati i poeti prima menzionati. Va senza dire che tale soggetto coincide con la stessa persona di Maria, 2

Si veda, comunque, D.L. Heiple, Garcilaso de la Vega and the Italian Renaissance, Pennsylvania, The Pennsylvania State University Press, 1994, pp. 275-78. 3 Garcilaso de la Vega, Obra poe´tica y textos en prosa, a c. di B. Morros, Barcelona, Crı´tica, 1995, pp. 45-46.

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tema nonche´ dedicataria del sonetto. L’espressione en medio del camino di v. 5 avrebbe, percio`, il significato di «a meta` del sonetto», ovvero «lungo il corso della composizione», anche se – alla luce dei versi che seguono – quell’espressione potrebbe prestarsi ad assumere un significato piu` generale e ancor piu` impegnativo, rispetto alla mera contingenza del sonetto in via d’esecuzione. Nelle terzine, difatti, ricompare il termine camino, che pero` ora risulta riferito al nuovo e insolito percorso lungo il quale il poeta – novello Orfeo – intende deviare col dulce son della sua poesia le acque del patrio Tago, il fiume che notoriamente bagna la sua citta` natale: Toledo. Se seguiamo fino in fondo il suggerimento del testo, e assegniamo pertanto al patrio ... Tajo il valore di lingua – o meglio ancora – di poesia natı`a, allora il significato dell’intero sonetto ci si rivela, pur nelle forme consuete del componimento panegirico, come la dichiarazione di un vero e proprio programma di poetica. Perche´ deviare il corso del fiume Tago equivale da parte di Garcilaso ad affermare che, col suo canto, egli intende dirottare la poesia spagnola dal percorso seguito fino ad allora, per imporle una direzione affatto nuova. Quale sia, poi, l’inedito camino enjuto che Garcilaso pretende di bagnare con le acque della nuova poesia, non e` difficile determinare, dal momento che, scegliendo il noble sujeto di Maria, egli ha deciso di seguire le orme dei tre poeti italiani chiamati in causa, e di meritare cosı` – al pari di essi – l’«inmortal corona» di poeta laureato. Appare, dunque, chiaro che nel sonetto Garcilaso sta, di fatto, enunciando un programma poetico, il quale in sintesi consiste nella rottura con l’antica tradizione spagnola, a favore del modello italiano. Sui modi e sulle tappe di un tale programma dobbiamo ora interrogarci, abbandonando il sonetto alla nobildonna napoletana, e facendo un passo indietro nel tempo e nello spazio, dal momento che dal punto centrale del percorso (en medio del camino) ci conviene retrocedere al suo punto iniziale. 2. Anche un poeta, precocemente e sorprendentemente maturo come Garcilaso, conobbe la sua stagione di apprendistato, come risulta evidente dal sonetto composto probabilmente quando l’autore aveva tra i venticinque e i ventisette anni, era gia` un cortigiano di rilievo di Carlo V, e non aveva ancora messo piede nella nostra penisola, dove si rechera` per la prima volta di lı` a poco, nel marzo del 1529, al seguito dell’imperatore la cui incoronazione avvenne solo un anno dopo, a Bologna, nell’aprile del ’30. Ma leggiamo il sonetto, di

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GARCILASO DE LA VEGA E LA NUOVA POESIA IN SPAGNA

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cui mi limito a riprodurre la quartina iniziale: Siento el dolor menguarme poco a poco, / no porque ser le sienta ma´s sencillo, / mas fallece el sentir para sentillo, / despue´s que de sentillo estoy tan loco4. Chi abbia un minimo di frequentazione della poesia alla vecchia maniera, con quella – per esempio – del Cancionero general di Hernando del Castillo del 1511, che ho anteriormente menzionato, non tardera` a riconoscere, sia pure convogliati nello schema metrico di un sonetto del tutto regolare, gli ingredienti a cui ricorreva – fino ad abusarne – la poesia cosiddetta cancioneril. Il poeta, difatti, non sa rinunciare all’esasperato e tormentato concettismo, caratteristico di tanta poesia cancioneril: il dolore va scemando non perche´ l’amante del sonetto lo senta meno intenso, ma piuttosto perche´, essendo egli impazzito per il troppo dolore, e` la sua stessa sensibilita` che viene meno. E quest’intricato viluppo di concetti, che inerisce ovviamente all’ambito dei contenuti, risulta poi combinato, sul piano formale, con una figura di ripetizione come il polittoto (sienta-sentir-sentillo), anch’essa peculiare dello stesso tipo di poesia5. Pochi anni dopo la composizione del sonetto, caduto in disgrazia presso l’imperatore per uno sfortunato incidente, ritroviamo Garcilaso tristemente esiliato in una sperduta isola del Danubio, dove sicuramente scrisse – tra i mesi di marzo e luglio del ’32 – una canzone in cui, nel lamento per la propria situazione presso le rive del fiume, si fondono intricatamente la lagnanza per la perdita del favore imperiale e la pena per l’amore lontano. Gli anni che separano la canzone dal sonetto da noi precedentemente citato sono quattro o cinque al massimo, eppure l’adeguamento al nuovo modello poetico appare, se non definitivamente conquistato, per lo meno spinto a tal punto da consentire di riconoscere – in alcune strofe – la nascita di una lingua poetica, nella quale il conseguimento di un petrarchismo compiuto apre il passo al ricupero delle fonti classiche. Non che, nella canzone, manchino del tutto echi della poesia cancioneril, i quali sopravvivono – per esempio – nel vistoso polittoto che invade i vv. 35-38: aquı´ me ha de hallar, / en el mismo lugar, / que otra cosa ma´s dura que la muerte / me halla y me ha hallado6, versi che peraltro appartengono a quella stessa terza strofa che presenta anche una rima ossi4

Ivi, p. 60. Sulle tracce di poesia cancioneril che sopravvivono nella prima produzione di Garcilaso, restano fondamentali le pagine di R. Lapesa, La trayectoria poe´tica de Garcilaso (1948), ora in Id., Garcilaso: Estudios completos, Madrid, Istmo, 1985, pp. 9-210, in part. le pp. 48-56. 6 Nell’ed. cit., la canzone occupa le pp. 72-75. 5

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tona, contro la quale – come ho gia` ricordato – Hoces combattera` la propria battaglia a vent’anni di distanza, ma che gia` Garcilaso, nel frattempo, avra` provveduto a bandire in modo definitivo nella sua produzione posteriore all’esilio. Tornando, dunque, alla canzone, e sempre che si eccettuino gli echi a cui ho accennato, il tono prevalente di essa lascia ormai trasparire ben poco della superata maniera di poetare, come mostra – a titolo d’esempio – la strofa d’esordio, dove – nei tredici versi che la compongono – si alternano endecasillabi e settenari con un ordine e uno schema delle rime che riproducono esattamente quelli della celeberrima Chiare, fresche et dolci acque del Petrarca. Ecco il testo spagnolo: Con un manso ru¨ido / d’agua corriente y clara, / cerca el Danubio, una isla que pudiera / ser lugar escogido / para que descansara / quien, como esto´ yo agora, no estuviera; / do siempre primavera / parece en la verdura / sembrada de las flores, / hacen los ruisen˜ores / renovar el placer o la tristura / con sus blandas querellas, / que nunca, dı´a ni noche, cesan dellas. Versi nei quali i calchi o i richiami petrarcheschi sopravanzano quelli classici, che tuttavia non sono assenti del tutto. Basta, difatti, ricordare i versi del Petrarca addotti da Lapesa, nel suo classico libro sul nostro poeta: Se lamentar augelli, o verdi fronde / mover soavemente a l’aura estiva, / o roco mormorar di lucı´de onde / s’ode d’una fiorita e fresca riva (279, 1-4), contro la piu` debole eco di Virgilio: illa [unda] cadens raucum per levia murmur / saxa ciet ... (Georg., I 109-110)7. 3. Modello petrarchesco e modelli classici vedranno presto invertire i ruoli; o, per lo meno, assumere un peso equivalente nella produzione napoletana di Garcilaso, la piu` considerevole dal punto di vista quantitativo, e anche la piu` matura e perfetta sotto il profilo qualitativo. L’esilio danubiano non duro` che pochi mesi; esso, difatti, fu presto comminato nel confino napoletano, dove Garcilaso giunse nel settembre del ’32, e dove trascorse – con alcune interruzioni – il resto della sua breve esistenza, fino alla fatale campagna di Provenza, nella quale trovo` la morte nel corso di una scaramuccia militare. Si consideri che, al momento dell’arrivo a Napoli, Garcilaso non aveva composto che poche centinaia di versi comprendenti un gruppo di sonetti e, al massimo, le quattro canzoni che conserviamo. Intendia-

7 Per il riferimento a Lapesa, cfr. La trayectoria poe´tica, cit., p. 81. La quartina petrarchesca e` citata da F. Petrarca, Canzoniere, ed. commentata di M. Santagata, Milano, Mondadori, 1996, p. 1114.

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GARCILASO DE LA VEGA E LA NUOVA POESIA IN SPAGNA

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moci: questi versi sarebbero bastati per assegnare al giovane toledano un posto d’onore nella poesia spagnola; e, messi ad attribuire meriti, il suo sarebbe stato un posto ne´ maggiore ne´ minore di quello che ha poi finito per occuparvi l’amico e sodale barcellonese, Juan Bosca´n. Ma, per fortuna di Garcilaso e nostra, sulla strada del giovane soldato e cortigiano, venne a interferire la citta` di Napoli, dove lo seguiremo, tornando al punto in cui l’avevamo lasciato en medio del camino del suo progetto poetico, al tempo cioe` del sonetto a Maria di Cardona. La citta` partenopea, difatti, svolse un ruolo non secondario nella nuova svolta poetica di Garcilaso, la seconda dopo quella del ’26. E sui motivi culturali di tale determinazione ambientale e` bene interrogarsi brevemente, se si vuole comprendere meglio la nuova direzione lungo la quale la poesia di Garcilaso si sviluppo`, con decisive ricadute sull’intera poesia spagnola degli anni a venire. Nell’ode latina diretta ad Antonio Telesio, al disprezzo per l’isola danubiana, dove dichiara di essere stato ... barbarorum / ferre superbiam et insolentes / mores coactus ... (3-5)8, Garcilaso fa seguire la lode della pulchra Partenope, dove peraltro egli ha avuto la ventura di trovare nuovi e dotti amici che s’incontrano nella honesta domus di uno di essi, per dar luogo alle riunioni dell’Accademia Pontaniana. Nell’ultima strofe dell’ode, Garcilaso lo dichiara esplicitamente: la citta` delle sirene, la pulchra Partenope, ha ormai preso il posto che nel suo cuore occupava la citta` «abbracciata» dal Tago, la natia Toledo, ne´ sarebbe disposto a scambiare gli amici della prima con i luoghi della seconda: Num tu fluentem divitiis Tagum, / num prata gyris uvida roscidis / mutare me insanum putabas / dulcibus immemoremque amicis? (69-72). I «dolci amici», a cui Garcilaso allude, sono «Tansillo, Minturno, il culto Tasso», i poeti menzionati nel sonetto a noi gia` noto, a cui bisognera` aggiungere naturalmente la vasta schiera dei molti altri poeti e intellettuali che al tempo frequentavano sia la corte di don Pedro, il vicere´, sia il centro culturale che godeva ancora del maggior prestigio nella citta`: quell’Accademia Pontaniana, le cui riunioni dopo la morte di Sannazaro continuarono a celebrarsi in casa di Scipione Capece, la nuova guida del gruppo, e videro tra i suoi partecipanti lo stesso Garcilaso. Se diamo una rapida occhiata alle opere composte dal nostro poeta a Napoli, tra il ’32 e il ’36, ci accorgeremo che, oltre ad alcuni sonetti e alle tre egloghe, egli 8

Per il testo dell’ode latina, cfr. ed. cit., pp. 245-51.

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andava sperimentando nuove soluzioni, come si evince – per esempio dall’Epistola a Bosca´n, o dall’Elegia per la morte di don Bernardino di Toledo, o ancora dall’Ode ad florem Gnidi; soluzioni che mostrano con tutta evidenza come egli fosse impegnato nello sforzo di conciliare le forme metriche esistenti con i generi poetici neoclassici, riuscendo spesso ad anticipare esiti poetici a cui i poeti in volgare – ivi compresi gli italiani – perverranno solo in un secondo momento. Sia chiaro, comunque, che il medesimo sforzo vedeva impegnati nello stesso giro di anni anche altri poeti europei, dando luogo a quella che Claudio Guille´n ha definito una «coyuntura europea», nella quale una generazione di poeti europei, «unidos todos por un comu´n amor a la poesı´a italiana», si sforzarono di ricostruire le principali forme poetiche classiche nelle diverse lingue nazionali: «los ge´neros posteriores al petrarquismo – afferma ancora Guille´n – las “formas” que mejor expresan el nuevo “classicismo” del momento, se esta´n forjando durante la primera mitad del siglo XVI. Y los caminos que emprenden los italianos no sera´n siempre los elegidos por los poetas – en bastantes casos, superiores a ellos – de Espan˜a, Portugal, Francia o Inglaterra»9. A questo tipo di operazione risultava particolarmente propizio proprio l’ambiente poetico e culturale napoletano, in quel quarto decennio del secolo, coincidente in parte col soggiorno di Garcilaso nella citta`, dove il rilancio della poesia in volgare e la persistenza di una forte tradizione classica risultavano fenomeni inestricabilmente avvinti l’uno all’altro. Cerchero` di illustrare, nella forma piu` breve possibile, e – di conseguenza – con gli inevitabili schematismi del caso, la situazione culturale, e poetica in particolare, nella quale Garcilaso si trovo` a vivere e a operare, e dalla quale la sua poesia finı` per essere inevitabilmente influenzata. Ricordo, allora, che a Napoli, nel primo trentennio del secolo, aveva dominato pressoche´ incontrastata la presenza di una vigorosa tradizione di produzione latina, che con difficolta` si apriva verso l’esperienza in volgare. Nel periodo indicato, insomma, il conflitto tra le ragioni del latino e quelle del volgare aveva dato a Napoli esiti che possono considerarsi antitetici rispetto a quanto accadeva nel resto d’Italia, soprattutto a Firenze e a Venezia, dove si assisteva all’affermazione della nuova lingua e della letteratura che in essa si esprimeva. A Napoli, in cambio, risulta 9

C. Guille´n, Sa´tira y poe´tica en Garcilaso (1972), ora raccolto in Id., El primer Siglo de Oro. Estudios sobre ge´neros y modelos, Barcelona, Crı´tica, 1988, pp. 15-48; la cit. a p. 25.

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esemplare la scelta operata dal piu` prestigioso intellettuale della citta`, la cui autorita` culturale era universalmente riconosciuta; mi riferisco, naturalmente, a Jacopo Sannazaro che, al ritorno dall’esilio francese alla fine del 1504, accantono` del tutto la produzione volgare per attendere esclusivamente a quella latina, fino alla sua stessa morte nel 1530. Sotto la sua guida, del resto, per circa un quarto di secolo, si svolse l’attivita` dell’Accademia, che aveva garantito la sopravvivenza della cultura umanistica in latino all’indomani dell’invasione di Carlo VIII (1494), e i cui membri furono sempre accomunati dal culto della lezione dei classici, dalla confidenza sistematica con la poesia latina e i suoi artifici, nel solco dell’esempio dettato dallo stesso Pontano, che ne era stato la guida prima che gli subentrasse Sannazaro. In verita`, gia` alla fine degli anni venti, in particolare tra il ’28 e il ’30, l’Accademia aveva elevato a dibattito la questione della letteratura in volgare, ma solo a partire dal ’30, dall’anno cioe` della morte di Sannazaro che coincise con la pubblicazione dei suoi Sonetti e canzoni, nonche´ con le Rime del Bembo; solo da quell’anno – dicevo – comincio` a diffondersi e a imporsi in ambito napoletano il cosiddetto modello lirico bembiano. Nacque cosı`, lanciata dalla stessa Accademia, la proposta di una nuova letteratura e di una nuova poesia, che possiamo riassumere sotto l’etichetta di ‘classicismo volgare’, e che si basava sulla confluenza dei due modelli, di Bembo e di Sannazaro. Del primo si esaltava la soluzione apportata dalle Rime, a cui comunque non era affatto estranea la stessa tradizione classica; al secondo si riconosceva soprattutto il titolo di poeta dotto in latino, nel segno della tradizione umanistica, ma che con la raccolta di Sonetti e canzoni garantiva la validita` della soluzione volgare del Bembo10. Non desta alcuna meraviglia, dunque, che al suo arrivo a Napoli Garcilaso, ben introdotto in una fitta rete di rapporti intellettuali tra corte vicereale e Accademia Pontaniana, e attivamente partecipe del dibattito sulla letteratura che vi si andava svolgendo, imprimesse una nuova svolta alla sua produzione poetica, abbandonando in parte gli esiti petrarcheschi quasi esclusivamente perseguiti fino ad allora, e inseguendo il tentativo di impiantare – anche nella lingua spagnola – 10 Sulla situazione letteraria, e poetica in particolare, a Napoli nei primi decenni del Cinquecento, esiste naturalmente una vasta bibliografia, a cui non mi sembra il caso di accennare neppure per le voci principali; mi limito, pertanto, a menzionare unicamente l’ottima sintesi di N. De Blasi, La letteratura a Napoli nel primo Cinquecento, in A. Asor Rosa (a cura di) Letteratura italiana. Storia e geografia, II 1, Torino, Einaudi, 1988, pp. 290-315.

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le principali forme poetiche classiche. In fondo, possiamo sinteticamente affermare che, durante gli anni del soggiorno napoletano, Garcilaso visse a stretto contatto con un ambiente culturale nel quale, insieme all’affermazione del petrarchismo bembiano, andavano maturando gli esperimenti di una nuova poesia che nei generi neoclassici trovava la sua piu` compiuta realizzazione. 4. Si comprende meglio a cosa si riferisse Garcilaso nel sonetto a Maria di Cardona, con la metafora del camino enjuto, che le acque del Tago opportunamente deviate avrebbero dovuto bagnare: i generi neoclassici, difatti, potevano ben dirsi un cammino non ancora tentato in lingua spagnola, che la nuova poesia di Garcilaso provvedera` a esplorare, come si verifica nel caso dell’ode11. Tra la primavera e l’estate del 1535, Garcilaso fu impegnato in una celebre spedizione tunisina, in occasione della quale si era mobilitata gran parte della nobilta` spagnola e napoletana, al seguito dello stesso imperatore Carlo V. Tra coloro che vi parteciparono c’era anche uno dei tre poeti menzionati nel sonetto a Maria di Cardona, quel Bernardo Tasso che, appena un anno prima, aveva pubblicato una raccolta poetica col titolo di Amori. «Es sumamente probable – ha ragionevolmente congetturato uno dei massimi studiosi del poeta spagnolo – que [Garcilaso] llevara entonces consigo [nel viaggio verso la costa africana] su propio ejemplar del libro»12. La raccolta risultava estremamente interessante e innovativa per molte ragioni, una delle quali era rappresentata dalla presenza di un esperimento pressoche´ unico nel panorama poetico dell’epoca: tra i componimenti che vi erano raccolti, difatti, potevano leggersi anche dodici odi, con le quali il loro autore aveva tentato di dar vita nella lingua e nella metrica italiane alla cosiddetta ode oraziana13. I problemi che Bernardo aveva dovuto affrontare non erano stati pochi: 11

Sull’ode nella letteratura spagnola nel Cinque e Seicento, oltre alla piu` recente monografia di S. Pe´rez-Abadı´n Barro, La oda en la poesı´a espan˜ola del siglo XVI, Santiago de Compostela, Universidade de Santiago de Compostela, 1995, si veda il volume collettaneo La oda, a cura di B. Lo´pez Bueno, Sevilla, Universidad de Sevilla, 1993, dove si trovera` anche il mio contributo La oda entre Italia y Espan˜a en la primera mitad del siglo XVI, da cui estraggo e rielaboro alcuni materiali delle pagine seguenti. Lo studio e` qui raccolto e tradotto nelle pp. 157-80. 12 E.L. Rivers, Nota sobre Bernardo Tasso y el manifiesto de Bosca´n, in Homenaje al profesor Antonio Vilanova, Barcelona, Universidad de Barcelona, 1989, I, pp. 601-05. Cito da p. 602. 13 Nell’edizione del Libro primo de gli amori, Venezia, Giov. Antonio Fratelli da Sabbio, 1531, la presenza dell’ode oraziana era limitata a tre soli componimenti.

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GARCILASO DE LA VEGA E LA NUOVA POESIA IN SPAGNA

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da quello strettamente metrico e della rima, a quello dei rapporti tra metrica e sintassi, a quello triplice concernente – con termini dello stesso Tasso – «l’invenzione, l’ordine e le figure del parlare», vale a dire tutta una serie di questioni, tra cui assumevano particolare rilievo la varieta` della materia poetica, il riferimento al materiale mitologico, l’uso di paragoni prolungati, la presenza o meno di un proemio, il ricorso alle digressioni e la relazione di esse con il tema principale. Negli esperimenti costituiti dalle dodici odi, Tasso si sforzo` di trovare un’adeguata soluzione a tutti questi problemi, benche´ non sempre i risultati a cui pervenne fossero del tutto convincenti. Una delle maggiori preoccupazioni dell’italiano fu quella che concerneva la tessitura dell’ode, o – con altri termini – cio` che potremmo chiamare il suo disegno strutturale. Gia` nella dedica a Ginevra Malatesta, che compariva nella prima edizione del libro degli Amori, del 1531, Tasso, dopo aver alluso alla liberta` dei poeti classici sulla possibilita` di iniziare o meno col «proemio», indugia alquanto sulla questione piu` generale delle «digressioni», a proposito delle quali scrive: «secondo l’ampia licentia poetica, [i poeti classici] entravano in qualunque materia, et vagando n’uscivano in favole, o ‘n qualunque altra digressione a lor voglia; et ancho spesse volte senza ritornar in essa, fornivano quello che non hanno havuto ardir di far i Provenzali, et Toschi, et gli altri, che lor stile seguirono, li quali a pena toccano pur le favole con una parola, o con un solo verso»14. Vent’anni piu` tardi, ritroviamo la stessa preoccupazione in una lettera a Girolamo della Rovere; cosı` come, in un’altra lettera, di poco anteriore, dirigendosi a Vincenzo Laurio, al quale aveva inviato una sua ode, Tasso scrive un interessante passo su cio` che egli stesso definisce «la natura e l’artificio dell’ode»: «il lirico [classico], – cosı` scrive – cominciata la materia principale che s’ha proposto di trattare, e uscendo poi con la digressione, alle volte ritorna alla materia principiata, alle volte finisce il suo poema nella digressione; il che si vede in Pindaro, e in Orazio in moltissimi lochi. Questo ho voluto ricordarvi, perche´ mostrandola a persone di minore giudicio, che voi non sete, non si pensino ch’io mi sia dimenticata la strada da tornare a casa»15.

14

«Alla Signora Ginevra Malatesta», in Libri primo de gli amori, cit., p. 8r. Delle lettere di M. Bernardo Tasso, I-II, Padova, 1733: II, pp. 124-26 (la lettera e` datata 6 settembre 1553). 15

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PARTE TERZA

In queste dichiarazioni teoriche, Tasso sembra interessato piu` che altro a una maggiore «liberta` nell’intessitura», attraverso la concessione di maggiore o minore spazio a, e l’integrazione di, quelle parti che egli stesso chiamava «proemio», «materia principale», «digressione» e, per quanto riguarda quest’ultima, l’interesse maggiore era riservato alla digressione di natura mitologica. Nella pratica poetica, ossia nelle dodici odi che comparivano nell’edizione del ’34 del libro degli Amori, si nota chiaramente come il poeta non era ancora riuscito a sciogliere i nodi che riguardavano l’architettura – il disegno strutturale – del componimento, probabilmente perche´ era ancora troppo impegnato dalla novita` della sperimentazione; certo e`, comunque, che – come ha notato con lucidita` un suo attento studioso – Tasso «abuso` forse non soltanto con terminare nella similitudine, ma con prendere spesso di qui le mosse, non concedendo talor neppur luogo adeguato al soggetto proprio della poesia»16. Chi, invece, con un sol colpo di genio poetico, dette una felice soluzione ai molteplici problemi che si erano posti al Tasso fu Garcilaso, il quale – al ritorno dalla spedizione africana – compose l’Ode ad florem Gnidi, ad imitazione dell’amico italiano e sull’esempio delle odi che aveva letto nel libro degli Amori, ma risalendo direttamente al modello oraziano (il poeta latino da lui piu` letto e ammirato), e tenendo conto peraltro della coeva poesia neolatina (per esempio, di Andrea Navagero). Il risultato ottenuto fu un’ode di ventidue brevi strofe pentastiche di endecasillabi e settenari: una soluzione metrica che, in verita`, Garcilaso ricavava di sana pianta da una delle dodici odi tassiane, quella che inizia con l’invocazione 0 pastori felici. Da questo punto di vista, quello strettamente metrico, il debito nei confronti dell’amico e sodale italiano risultava, dunque, molto forte. Cio` che, in cambio, davvero sorprende e` la perfezione del disegno compositivo, col quale Garcilaso riusciva ad assemblare i diversi momenti (proemio, materia principale, digressione mitologica), la cui coesione tante difficolta` aveva creato all’iniziatore Tasso, come – sia pur rapidamente – abbiamo avuto modo di vedere. Le ventidue strofe dell’ode spagnola compongono, difatti, un disegno perfettamente armonico17:

16 F. Pintor, Delle Liriche di Bernardo Tasso, in «Annali della Reale Scuola Superiore di Pisa», XIV (1900), p. 167. 17 Per il testo dell’ode garcilasiana, cfr. la citata ed. di Morros, pp. 84-91.

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GARCILASO DE LA VEGA E LA NUOVA POESIA IN SPAGNA



— le prime sei strofe costituiscono il proemio, dove – peraltro – il problema del rapporto tra metrica e sintassi trova una soluzione adeguatamente originale. Si tratta, difatti, di un unico periodo ipotetico, che si va snodando in coppie di strofe: le prime due introducono la protasi, a cui fanno seguito altre due con un’apodosi negativa, per concludersi con le ultime due strofe, che contengono l’apodosi positiva, introdotta dall’avversativa mas. Il valore proemiale di queste prime sei strofe e` garantito dal tema che esse svolgono e che fa riferimento direttamente alla stessa poesia: se la mia poesia avesse il magico potere di quella di Orfeo (protasi), non canterei la guerra (apodosi negativa), ma canterei soltanto la tua bellezza e crudelta`, per cui soffre colui che ti ama (apodosi positiva); — l’ode prosegue, poi, con sette strofe, alle quali il poeta affida l’esposizione della ‘materia principale’: si tratta, in effetti, dell’esortazione a una donna ad amare; esortazione, che il poeta rivolge direttamente alla belle dame sans merci, la cui identita` – coperta da un sottile gioco di parole – coincide con quella di una nobildonna napoletana, Violante Sanseverino. La bellezza e crudelta` di lei sono all’origine della misera condizione, a cui e` stato tristemente ridotto un amico del medesimo poeta, il cavaliere e cortigiano Mario Galeota, la cui identita` e` – ancora una volta – coperta e, al tempo stesso, rivelata da un altro raffinato e colto gioco di parole; — di nuovo sette strofe, con cui l’ode prosegue, e che contengono la ‘digressione mitologica’, introdotta pero` con una funzione ben precisa: il mito negativo di Anassarete e Ifi, difatti, e` addotto con valore suasorio nei confronti della crudele dama; — e, in effetti, l’ode si conclude con due strofe finali, nelle quali il poeta ritorna alla ‘materia principale’ mediante l’invocazione alla nobildonna napoletana, esortandola a non seguire l’esempio dell’eroina del mito. La perfezione del disegno compositivo o strutturale e` sı` indice del genio poetico di Garcilaso, ma tale genio difficilmente avrebbe potuto trovare espressione in concrete realizzazioni, se esso non si fosse alimentato di un autentico e profondo rapporto con le fonti di poesia volgare e neolatina, ma soprattutto con quelle classiche, come risulta

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

PARTE TERZA

evidente dal tracciato che Garcilaso dovette ipoteticamente seguire nella composizione dell’Ode ad florem Gnidi, a partire dal materiale poetico, classico e contemporaneo, che gli si offriva. Tra le dodici odi che Tasso aveva incluso nell’edizione del libro degli Amori del ’34, Garcilaso potette leggerne due dedicate a Venere, una delle quali – Che pro mi vien ch’io t’abbia, o bella Diva – era un’invocazione alla dea affinche´ vincesse le resistenze della vezzosa Terilla la quale, avendo armato il cor di mattutino gelo, disprezzava il dolce fuoco della dea, cosı` come il desir ... ardente dell’amante-poeta. Benche´ tale schema risulti totalmente oraziano, in questo caso Tasso, piu` che alle odi del venusino, si era ispirato a un’ode neolatina di Andrea Navagero, nella quale il poeta e umanista veneziano si dirigeva, a sua volta, Ad Venerem, ut pertinacem Lalagem molliat18. In cambio, Navagero sı´ che si era ispirato direttamente a Orazio, e piu` concretamente all’ode dove l’infelice amante dell’«arrogante Cloe», che in passato era stato fortunato amante e soldato onorato: Vixi puellis nuper idoneus / et militavi non sine gloria, si dirige ora a Venere marina perche´ frusti, almeno una volta, la sdegnosa donna: ... sublimi flagello / tange Chloen semel arrogantem (III 26). Garcilaso legge l’ode del Tasso, conosce con ogni probabilita` quella del Navagero, e attraverso questi due testi – dell’amico e del vecchio maestro – finisce per giungere all’ode di Orazio, col quale non gli manca certo familiarita`. E fu in virtu` di tale familiarita` che la memoria poetica di Garcilaso non potette evitare di stabilire certi nessi con altri componimenti del venusino: l’ode tassiana a Venere, difatti, lo riporto`, per un verso, a quella oraziana diretta a Lidia (I 8), e, per altro verso, a quella sempre oraziana rivolta a Mercurio (III 11). In effetti, l’ode a Lidia, con la sua diretta invocazione alla donna, da` luogo alla parte centrale del componimento di Garcilaso, con l’unica differenza che il rimprovero alla donna cambia di segno: l’eccesso di amore che ha ridotto in pessime condizioni Sibari, l’amante di Lidia, si vede sostituito dall’«aspereza» di Violante, il cui effetto su Mario, tuttavia, non risulta meno catastrofico. Infine, bisogna considerare l’ode a Mercurio, in cui – come ha notato La´zaro Carreter – «Horacio construye el motivo tema´tico de ‘exhorto dirigido a una mujer para 18 Per il testo dell’ode neolatina, ho utilizzato A. Navagero, Opera omnia, Venezia, 1754, pp. 192-93. 19 F. La´zaro Carreter, La «Ode ad florem Gnidi» de Garcilaso de la Vega, in V. Garcı´a de la Concha (a cura di), Actas de la IV Academia literaria renacentista. Garcilaso, Salamanca, Universidad de Salamanca, 1986, pp. 109-26. Cito da p. 114.

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GARCILASO DE LA VEGA E LA NUOVA POESIA IN SPAGNA



que ame’, y lo combina, por vez primera con un persuasivo ejemplo mitolo´gico»19. Difatti, quest’ode di Orazio si compone di due parti, dal momento che manca in essa il discorso alla donna: c’e`, dunque, una prima parte costituita dall’invocazione alla divinita` affinche´ conceda al poeta-amante i modos Lyde quibus obstinatas / applicet aures, mentre la seconda parte e` il racconto mitologico delle figlie di Danao. Nell’ode di Garcilaso, queste due parti si riflettono, rispettivamente, nell’esordio che contiene il riferimento alla «lira» – cioe` alla poesia stessa –, e nel finale che espone il mito di Anassarete, con pari valore suasorio. Prescindo, naturalmente, da altre fonti, cosı` come dal concreto adattamento di cui esse furono oggetto nel testo di Garcilaso, perche´ cio` che m’interessava maggiormente era porre in rilievo il disegno strutturale in rapporto alle sue fonti. Prendendo a prestito la terminologia del Tasso, potremmo dire che l’ode di Garcilaso acquista la seguente configurazione: un ‘proemio’ con il riferimento canonico al proprio canto introduce la ‘materia principale’, ossia l’esortazione alla donna, da cui prende origine la ‘digressione’, che consiste nell’esempio mitologico, per terminare col ritorno alla ‘materia principale’ delle ultime due strofe. Al rigoroso tessuto del disegno contribuisce non poco la perfetta geometria di proporzioni di ognuna delle parti che lo formano, come abbiamo gia` avuto modo di osservare. Il «precioso juguete» – secondo l’indovinata definizione di Mene´ndez Pelayo20 – si rivela, tra le altre cose, una risposta ai problemi di composizione che Tasso, in quegli stessi anni, era stato il primo a porre e a tentare di risolvere. D’altro lato, seppur in rapida sintesi, abbiamo avuto modo di costatare come il confluire di distinti testi – di Tasso, di Navagero e, soprattutto, di Orazio – nell’ode di Garcilaso si traduca in un preciso disegno strutturale che – a dire il vero – non appare in nessuna delle fonti oraziane utilizzate dal poeta spagnolo, e ancor meno nelle odi tassiane che Garcilaso ebbe modo di conoscere. In effetti, l’ode di Garcilaso si caratterizza principalmente per il rigore con cui il suo autore seppe selezionare e integrare in un unico disegno le varie parti che compongono l’ode alla maniera oraziana; ma il processo di composizione che siamo venuti brevemente illustrando si definisce forse ancora meglio se ci riferiamo all’arte sapiente con cui il poeta spagnolo seppe esplorare e assimilare un’intera tradizione letteraria, quella cioe` in cui si concertava «la piu` eletta 20

M. Mene´ndez Pelayo, Horacio en Espan˜a, Madrid, 1885, 2ª ed., II, pp. 13-15.

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

PARTE TERZA

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poesia latina e romanza»21: dai modelli classici oraziani all’avanguardia poetica dell’epoca, rappresentata dal Tasso, passando per la poesia neolatina di un Navagero. La responsabilita` maggiore di un’arte cosı` sapiente e` senza dubbio da addebitare all’assoluta genialita` del poeta, ma sarebbe ingiusto non riconoscere il ruolo rilevante che svolse l’ambiente culturale, in cui quella genialita` ebbe modo di compiersi: la Napoli spagnola di don Pedro, nella quale – come si e` gia` detto – il rilancio della poesia in volgare e la persistenza di una forte tradizione umanistica risultavano fenomeni inestricabilmente avvinti l’uno all’altro.

21 F. Rico, La tradicio´n y el poema, in Breve biblioteca de autores espan˜oles, Barcelona, Seix Barral, 1990, p. 285 (tr. it., Biblioteca spagnola. Dal Cantare del Cid al Beffatore di Siviglia, Torino, Einaudi, 1994, p. 284), dove l’illustre studioso, dopo aver ricostruito – a proposito dell’Elegı´a primera di Garcilaso – la catena intertestuale costituita dai componimenti elegiaci di Girolamo Fracastoro, della Consolatio ad Liviam e di Bernardo Tasso, conclude con la dichiarazione seguente, che vorremmo far nostra, anche in relazione all’Ode ad florem Gnidi: «l’Elegı´a primera diventa un’indagine sulla sua stessa genealogia, sulla sua posizione nella serie letteraria; e` a un tempo poesia e storia della poesia; e il genio di Garcilaso si sviluppa nel dipanare la matassa di quella storia, in un doppio impulso di omaggio e sfida ai modelli» (tr. it., p. 285, che pero` traduce erroneamente l’originale «modelos» con moderni; cfr. l’orig. sp., p. 286).

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L’ODE TRA ITALIA E SPAGNA NELLA ` DEL CINQUECENTO PRIMA META

Tra il Certame coronario del 1441 e le edizioni della poesia di Gabriello Chiabrera, nella seconda meta` del Cinquecento, si estende quasi un secolo e mezzo, nel corso del quale si realizza un complesso processo poetico che dal precoce tentativo di contaminare forme poetiche classiche e volgari conduce a una radicale «riforma delle 1 maniere de’ versi toscani» , passando naturalmente per l’egemonia del codice petrarchista nella sua restaurazione bembiana. Mi tratterro` molto brevemente sulle due estremita` di questo lungo periodo in tal modo delimitato, per concentrarmi poi sulla parte centrale, che coincide piu` o meno con la prima meta` del Cinquecento. Il certame poetico organizzato da Leon Battista Alberti nel 1441 costituı` – come e` stato scritto recentemente – «la provocatoria distruzione di ogni compartimento e, appunto, di ogni specializzazione» sulla quale si fondava il sistema umanistico, e cio` per la semplice ragione che in essa si contaminarono «generi letterari e modi di intervento classico-umanistico [...] con il volgare e le forme ad esso tradizionalmente associate»2. Tra i testi di piu` avanzato sperimentalismo metrico presentati nel certame, si trovava, accanto al De amicitia dello stesso Alberti, la Scena di Leonardo di Piero Dati, la cui terza parte rappresenta il primo tentativo di imitazione della strofa saffica3 in volgare. 1

G. Carducci, Dello svolgimento dell’ode in Italia, in «Nuova Antologia», 1902; poi in Id., Prose, Bologna, Zanichelli, 1905; piu` tardi in Id., Opere, Edizione Nazionale, XV, Bologna, Zanichelli, 1944, pp. 3-81, in part. p. 34. Un ampio panorama dell’ode puo` leggersi nel libro di C. Maddison, Apollo and the Nine. A History of the Ode, Baltimore, The Johns Hopkins Press, 1960, che dedica singoli capitoli all’ode greca e latina, umanistica, italiana, francese e inglese. 2 R. Rinaldi, Umanesimo e Rinascimento, in G. Ba`rberi Squarotti (a cura di), Storia della Civilta` letteraria italiana, Torino, UTET, 1990, vol. II, t. I, p. 202. 3 I testi sono raccolti in G. Carducci (a cura di), La poesia barbara nei secoli XV e XVI,

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

PARTE TERZA

All’estremo opposto, ossia dall’altra parte del lungo processo poetico a cui accennavo, si colloca la sperimentazione rivoluzionaria di Gabriello Chiabrera, a proposito della quale Mario Martelli ha dato questa sintetica definizione:

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le disparate sperimentazioni [cinquecentesche, ad eccezione di Bernardo Tasso] non intaccavano certo la sostanza dell’eredita` tradizionale: i canzonieri [...] continuavano ad essere costituiti da sonetti, da canzoni, da ballate. La vera e propria rivoluzione viene consumata soltanto con Gabriello Chiabrera4.

La riforma – o rivoluzione, se si preferisce – che Chiabrera opero` nei confronti dei generi metrici petrarcheschi ebbe il suo sviluppo sotto il segno della varieta` metrica, e in particolare si realizzo` attraverso la sperimentazione delle molteplici forme dell’ode, conferendo in tal modo un impulso e un vigore nuovi alle forme metriche che erano gia` state sperimentate, con diverso risultato, dai poeti italiani, in relazione all’ode pindarica e a quella oraziana, o dai poeti della Ple´iade e soprattutto da Ronsard, com’e` il caso della cosiddetta «anacreontica»5. Una volta stabiliti i limiti massimi nei quali si consumo` il processo che aveva portato all’affermazione dell’ode, concentrero` l’attenzione su alcuni episodi che risalgono alla prima meta` del Cinquecento, ovvero all’epoca decisiva per la formazione di quella «corriente general» nella quale si forgio` la «conjuncio´n de petrarquismo y clasicismo» e che Rafael Lapesa riuscı` a descrivere con ammirevole sintesi in una pagina del suo libro su Garcilaso6. In un saggio giustamente famoso, Claudio Guille´n sottolineo` due aspetti di questa «corriente general»: il suo «cara´cter dina´mico, abierto o inacabado», e le sue «dimensiones europeas»7, definendo cosı` – soprattutto rispetto Bologna, Zanichelli, 1881, (ristampa anastatica con la presentazione di E. Pasquini, Bologna, Zanichelli, 1985); si veda anche L. Bertolini, I testi del primo Certame Coronario. Edizione e saggio di commento, tesi di dottorato, Universita` di Bologna, 1988-89. 4 M. Martelli, Le forme poetiche italiane dal Cinquecento ai nostri giorni, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana, vol. III Le forme del testo, t. I Teoria e poesia, Torino, Einaudi, 1984, pp. 577-78. 5 Sull’importanza dei modelli di Ronsard e dei poeti della Ple´iade in Chiabrera risulta ancora fondamentale il libro di F. Neri, Il Chiabrera e la Ple´iade francese, Torino, Bocca, 1920. 6 R. Lapesa, La trayectoria poe´tica de Garcilaso (1948), ora raccolto in Garcilaso: Estudios completos, Madrid, Istmo, 1985, pp. 95-96. 7 C. Guille´n, Sa´tira y poe´tica en Garcilaso, in Homenaje a Casalduero, Madrid, Gredos, 1972, pp. 209-33; ora raccolto in Id., El primer Siglo de Oro. Estudios sobre ge´neros y modelos, Barcelona, Editorial Crı´tica, 1988, pp. 15-48, in part. p. 25.

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` DEL CINQUECENTO L’ODE TRA ITALIA E SPAGNA NELLA PRIMA META

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alla quarta decade del secolo – una «coyuntura europea», in cui una generazione di poeti europei, «unidos todos por un comu´n amor a la poesı´a italiana»8, si sforzo` di ricostituire le principali forme poetiche classiche nelle diverse lingue nazionali. Tra i molti risultati che il menzionato saggio raggiunge, ce n’e` uno che mi e` sempre parso particolarmente valido, perche´ corregge finalmente una prospettiva erronea sulla quale si era basata, in parte, la storia della poesia europea del Rinascimento. Cio` che l’autore afferma rispetto all’epistola oraziana, ossia che «la epı´stola de Bosca´n […] no introduce en Espan˜a ninguna “forma italiana” por la sencilla razo´n de que nadie habı´a resuelto en Italia el problema de la epı´stola oraciana cuando se publican en 1543 Las obras de Bosca´n y algunas de Garcilaso de la Vega»9; quest’affermazione – ripeto – potrebbe estendersi a molti dei generi non petrarcheschi che andavano sperimentandosi negli anni che abbiamo preso in considerazione. Infatti, lo stesso Guille´n non tarda ad affermarlo esplicitamente, poco piu` avanti nella stessa pagina: Los ge´neros posteriores al petrarquismo, las «formas» que mejor expresan el nuevo «clasicismo» del momento, se esta´n forjando durante la primera mitad del siglo XVI. Y los caminos que emprenden los italianos no sera´n siempre los elegidos por los poetas – en bastantes casos, superiores a ellos – de Espan˜a, Portugal, Francia o Inglaterra.

In questo contesto, dunque, si colloca la questione specifica dell’ode, che presenta una notevole complessita` per almeno due ordini di problemi. Innanzitutto, col termine ‘ode’ ci riferiamo generalmente a una gran varieta` tanto di forme metriche quanto di generi poetici. Senza entrare, per il momento, in ulteriori dettagli, e` necessario tuttavia distinguere tra i diversi fenomeni che siamo soliti situare sotto la stessa etichetta metrica. Attenendoci, per semplificare il discorso, ai modelli classici che ispirano i diversi tipi di ode, distingueremo l’ode che imita il modello pindarico da quella che riproduce il modello oraziano, nonche´ da quella che con nome fittizio chiamiamo «anacreontica», in riferimento alle odi greche falsamente attribuite ad Anacreonte nell’appendice dell’Antologia di Costantino Cefala e pubblicate da Henri Estie`nne nel 1554. Infine, non possiamo egualmente dimenticare un fenomeno che ho avuto gia` 8 9

Ivi, p. 32. Ivi, p. 23.

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

PARTE TERZA

l’occasione di menzionare a proposito del Certame coronario: mi riferisco all’imitazione, in varie forme realizzata, della strofa saffica. Inoltre, sussiste un problema che rende ancora piu` complicata la questione dell’ode, quello delle relazioni che il genere neoclassico intrattiene con la canzone petrarchesca. Si tratta di un problema fondamentale che rimanda inevitabilmente a uno dei nodi centrali della lirica dei primi decenni del secolo XVI: la relazione tra il petrarchismo e il classicismo, che non sempre e` stata risolta nei termini di una pacifica integrazione, ma che in piu` di un’occasione ha dato luogo a fenomeni in cui tale relazione ha assunto toni piu` dialettici. ` appena il caso di ricordare che i primi decenni del secolo XVI, E fino al 1525, si caratterizzarono per un fenomeno di sovrapposizione di una «onda lunga», cioe` di un «approccio a Petrarca non piu` mediato o incompleto, ma direttamente e facilmente verificabile sui testi», e una serie di «onde brevi» che «di volta in volta costituivano altrettanti punti di riferimento, non sempre alternativi alla prima»10, fino a giungere al 1530, anno che – secondo l’arcinota definizione di Carlo Dionisotti – costituisce «la data di nascita del petrarchismo lirico cinquecentesco»11. Tornando al carattere, talvolta dialettico, della relazione tra classicismo e petrarchismo, e` stato lo stesso Dionisotti che, prendendo spunto dai Versi et regole della nuova poesia toscana, una raccolta promossa dal senese Claudio Tolomei e pubblicata a Roma nel 1539, ci ha offerto una descrizione di detta relazione nei seguenti termini: Il tentativo di rinnovare la poesia toscana applicando ad essa la metrica della poesia classica non ebbe successo allora, ma resta documento di una crescente insoddisfazione e impazienza dei limiti stretti in cui la riforma linguistica e letteraria operata dal Bembo aveva ridotto la poesia, e di una precisa e decisa volonta` di rompere quei limiti sul versante della poesia classica. [...] La disposizione ad allargare ed arricchire la nuova poesia aveva il suo limite insuperabile nella preoccupazione di mantenere intatta la base linguistica e stilistica petrarchesca. Ammissibile era il tentativo di comporre anche elegie, epigrammi, odi italiane, ma senza che percio` il carattere petrarchesco della lirica 10 F. Erspamer, La lirica, in F. Brioschi e C. Di Girolamo (a cura di) Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, Torino, Bollati-Boringhieri, in corso di stampa. [il capitolo e` stato ora pubblicato nel vol. II Dal Cinquecento alla meta` del Settecento, 1994, pp. 183-255, in part. p. 190] 11 C. Dionisotti, Introduzione a P. Bembo, Prose e Rime, Torino, UTET, 1966, 2ª ed., p. 49.

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` DEL CINQUECENTO L’ODE TRA ITALIA E SPAGNA NELLA PRIMA META

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italiana risultasse alterato. Alla responsabilita` di una traduzione poetica di Catullo, Tibullo, Properzio o delle Odi di Orazio, nessuno voleva ne´ poteva sobbarcarsi12.

Mi pare che il passo appena citato possa risultare molto utile in quanto fornisce le coordinate generali all’interno delle quali bisognera` valutare la piu` circoscritta questione dell’ode: da un lato, dunque, abbiamo l’«impazienza e insoddisfazione dei limiti stretti» del petrarchismo bembiano, con la conseguente volonta` di rottura, soprattutto in direzione classica; dall’altro, tuttavia, tale volonta` di rottura si scontra con la fedelta` linguistica e stilistica a Petrarca. Ne´ mancheranno soluzioni piu` o meno originali a tale dilemma: l’ode del Rinascimento, ad esempio, e` fra le piu` significative. Poiche´ bisognera` considerare le diverse forme che l’ode rinascimentale assume rispetto alla canzone petrarchesca, cominciamo dunque con l’esaminare quali furono le definizioni di canzone. Negli anni che ci interessano, anteriori alle innumerevoli teorizzazioni poetiche della seconda meta` del secolo, si poteva contare sull’accurata sistematizzazione di Giangiorgio Trissino il quale, nella Quarta divisione della sua Poetica, offriva una minuziosa casistica della canzone petrarchesca13. La Poetica era stata pubblicata nel 1529 insieme ad altre opere del Trissino, tra le quali e` annoverata la versione del De vulgari eloquentia, nuovamente portato alla luce, in cui Dante offriva una complessa descrizione della stanza di piedi e sirma. Nel discorso metricologico e prosodico di Trissino molte erano le orme lasciate dal trattato di Dante e da quello di Antonio da Tempo, la Summa Artis Rithimici Vulgaris Dictaminis. Quattro anni prima, tuttavia, nelle Prose della volgar lingua, Pietro Bembo, sebbene fosse tra i pochi che conoscevano il De vulgari dantesco14, aveva dato una definizione di canzone molto diversa. Aveva scritto, dunque, Bembo: E nelle canzoni puossi prendere quale numero e guisa di versi e di rime a ciascuno e` piu` a grado, e compor di loro la prima stanza; ma, presi che essi sono, e` di mestiero seguirgli nell’altre con quelle leggi

12 C. Dionisotti Tradizione classica e volgarizzamenti, in Id., Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1980, 3ª ed., pp. 174-75. 13 Si veda G. Trissino, Poetica, in B. Weinberg (a cura di), Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, vol. I, Bari, Laterza, 1970. 14 Sulla copia del De vulgari realizzata per il Bembo, che si trova nel ms. Vat. Reg. lat. 1370, cfr. Dante Alighieri, De vulgari eloquentia. I. Introduzione e testo, a c. di P. V. Mengaldo, Padova, Antenore, 1968, p. CVI.

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PARTE TERZA

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che il compositor medesimo, licenziosamente componendo, s’ha prese15.

Come si vede, si tratta di una definizione piuttosto ampia: in essa, Bembo ammetteva qualsiasi schema di versi e di rime; l’unica regola a cui il poeta doveva attenersi era quella di mantenere lo ` appena il caso di aggiungere che stesso schema in tutte le stanze. E gli unici versi ammessi erano l’endecasillabo e il settenario. Secondo la definizione di colui che era considerato la massima autorita` del petrarchismo lirico, all’etichetta di ‘canzone’ potevano ricondursi, oltre alla petrarchesca, anche le nuove formule che avevano origine nella tendenza rinascimentale a ripercorrere, nelle forme metriche italiane, le vie della poesia classica. Orbene, nel periodo che ho deciso di prendere in considerazione, le nuove formule della canzone possono essere ricondotte ai due modelli classici dell’ode, vale a dire, quello pindarico e quello oraziano. Diversamente, non trattero` il terzo modello classico, l’anacreontico, dal momento che la sperimentazione di questa formula fu opera soprattutto di Gabriello Chiabrera e, pertanto, rimane fuori dal periodo qui considerato. All’inizio del secondo decennio del secolo videro la luce due edizioni di Pindaro: la prima fu l’edizione aldina del 1511, mentre la seconda fu pubblicata due anni piu` tardi, nel 1513, per i tipi dell’editore Caliergi di Roma16. Nello stesso anno, 1513, l’aristocratico vicentino Giangiorgio Trissino era impegnato nella composizione della Sofonisba, l’opera che rappresenta la «prima tragedia regolare» dell’eta` moderna17. La soluzione metrica risulto` molto importante: Trissino fece ricorso agli endecasillabi sciolti, adottando al tempo stesso una soluzione distinta per i quattro cori presenti nell’opera. In tre di essi, in effetti, si servı` della struttura triadica tipica dell’ode pindarica, con le due prime parti (strofa e antistrofa) corrispondenti tra loro per il tipo di versi e per lo schema delle rime, e una terza parte (epodo), generalmente piu` breve delle prime due, destinata a variare18. La Sofonisba costituı` il primo passo di un programma piu` ampio, ispirato alla riproduzione dei caratteri pecu15

Bembo, Prose della volgar lingua (II, xi), ed. cit., p. 153. Carducci, Dello svolgimento dell’ode, cit., p. 14. 17 Dedicata al papa Leone X nel 1518 e pubblicata a Roma nel 1524, la Sofonisba fu composta tra il 1513 e il 1515. Trissino attese alla composizione dei cori a partire dal 1513. 18 G. Trissino, Sofonisba, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1959. I tre cori con struttura triadica sono i seguenti: «Almo celeste ragio», «Lassa, ben mi credeva esser venuto», «Amor, che ne i leggiadri alti pensieri». 16

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` DEL CINQUECENTO L’ODE TRA ITALIA E SPAGNA NELLA PRIMA META

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liari dei testi classici nell’ambito della letteratura volgare; tale programma, destinato a svilupparsi sino alla fine degli anni quaranta col poema epico Italia liberata dai Goti, ebbe il suo momento cruciale nel 1529, anno in cui Trissino dette alle stampe nella sua citta` natale una sorta di Opera omnia, «una summa teorica e pratica di testi, [che] tende a porre il Trissino come polo globale di riferimento nel dibattito letterario contemporaneo, e, con lui, tende ad affermare una vocazione protagonistica di un centro veneto di forti tendenze imperiali»19. Tra le numerose opere pubblicate nel 1529 c’erano anche le Rime, contenenti dodici canzoni. Tre di esse c’interessano direttamente, poiche´ sono, in effetti, altrettante odi pindariche. Le prime due, «Quella virtu` che del bel vostro viso» e «Per quella strada ove il piacer mi scorge», sono di argomento amoroso, mentre la terza e` una canzone panegirica dedicata al cardinale Ridolfi20. Queste tre odi furono composte in epoche molto differenti. Le prime due, insieme all’intero nucleo ‘amoroso’ delle Rime, «risale [...] agli anni cortigiani del Trissino, alle sue relazioni con Milano, Mantova, Ferrara, ai primi anni del Cinquecento insomma», mentre la canzone in lode del cardinale Ridolfi si colloca «negli anni immediatamente a ridosso dell’edizione»21. Prima di approfondire ulteriormente la questione, credo sia opportuno menzionare gli altri esperimenti di ode pindarica che furono prodotti intorno agli stessi anni e che in realta` furono, numericamente, piuttosto limitati. In effetti, per completare il quadro, alle tre canzoni gia` ricordate del Trissino bisogna solo aggiungere gli otto inni che il poeta Luigi Alamanni dedico` «al cristianissimo re Francesco Primo», pubblicati nel 153222, e le due canzoni che Minturno dedico`, nel 1535, «a Carlo V vincitore e trionfante dell’Africa»23. In totale, si tratta di un piccolo corpus di tredici testi che ci offre l’indice dello scarso successo di cui godette il genere nella prima meta` del Cinquecento. Ancora: il numero di testi

19

V. De Caprio, Roma, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana. Storia e geografia, vol. II, L’eta` moderna, cit., t. I, p. 446. 20 I testi delle tre odi possono leggersi ora in G. Trissino, Rime (1529) a c. di A. Quondam, Vicenza, Neri Pozza Editore, 1981. 21 A. Quondam, Introduzione a Trissino, Rime, ed. cit., p. 20. 22 L. Alamanni, Opere Toscane, Lyon, Gryphius, 1532-33. Per gli Inni, ho utilizzato L. Alamanni, Versi e prose, ed. a c. di P. Raffaelli, Firenze, Le Monnier, 1859, vol. II, pp. 84-111. 23 Si tratta dei due componimenti «Qual semideo, anzi qual novo Dio» e «Alma et antica madre», pubblicati in A. Sebastiani, detto Minturno, Rime et prose, Venezia, Francesco Rampazetto, 1559, pp. 166 e 176.

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PARTE TERZA

si vede ridotto ulteriormente se consideriamo che uno degli otto inni di Alamanni e` una canzone a tutti gli effetti, costruita, tra l’altro, secondo l’abusato schema di «Chiare fresche e dolci acque»24. Il fatto e` che, perfino nei restanti dodici componimenti, la discrepanza rispetto alla canzone petrarchesca e`, da un punto di vista stretta` stato giustamente notato che mente metrico, piu` teorica che reale. E nelle menzionate odi pindariche «la struttura della canzone petrarchesca non e`, in sostanza, intaccata»25. Effettivamente, ognuna delle strofe che compongono le odi in questione e` una stanza di canzone petrarchesca a tutti gli effetti, costituita di piedi e sirma. Quanto alla fronte, le dodici odi coincidono, nella prevalenza dei casi, con lo schema petrarchesco, per cui essa e` divisa in due piedi, secondo il doppio modello: ABC ABC, o ABC BAC. Quanto alla sirma, le odi rimangono parimenti fedeli allo schema indiviso che Dante aveva stabilito e che Petrarca fece suo. D’accordo con un’antica osservazione di Chiabrera contenuta nel dialogo L’Orzalesi ovvero della tessitura delle canzoni, Pietro Beltrami, in un suo recente trattato di metrica italiana, ha potuto notare che «a parte il travestimento pindarico e l’aumento delle dimensioni, la struttura triadica richiama ancora la tripartizione petrarchesca di piedi e sirma» e che, in definitiva, nelle nostre odi «la stanza petrarchesca e` moltiplicata per tre»26. In conclusione, risulta evidente che l’ode pindarica non svolge una funzione di vera riforma metrica, anche se forse sarebbe esagerato sostenere che manchi in essa qualsiasi elemento di novita`. Distinguendo fra i tre poeti, direi per esempio che non c’e` nessun elemento di novita` nelle due odi che Minturno dedica alla spedizione africana di Carlo V cosı` come alla trionfale accoglienza che la citta` di Napoli gli riservo`. In uno dei rarissimi commenti che hanno meritato le composizioni del Minturno, le due odi sono state ragionevolmente giudicate come «un tentativo di risuscitare le strutture della canzone eroico-pindarica al solo livello delle articolazioni formali», il che, d’altro canto, conferma l’inerzia teorica che il patrimonio della tradizione classica trova nell’ambito dell’esperienza intellettuale del Minturno, che ne riesce a

24 V. H. Hauvette, Luigi Alamanni (1495-1556). Sa vie et son oeuvre, Paris, Hachette, 1903, p. 228 e n.1. 25 G. Gorni, Le forme primarie del testo poetico, in Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana, vol. III Le forme del testo, t. I Teoria e poesia, cit., p. 467. 26 P. Beltrami, La metrica italiana, Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 114 e 300.

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prospettare soltanto utilizzazioni esteriori o puramente strumentali, come anche appare dai testi poetici, in cui i frequenti richiami mitologici o storici classici valgono soltanto come elementi di decoro in una funzionalita` subalterna e degradata27.

Passando ora agli otto inni dell’Alamanni, ci rendiamo conto che le sette odi con struttura pindarica presentano una sola novita`, quella di essere costituita esclusivamente di settenari, contravvenendo cosı` a uno dei precetti fondamentali della canzone – l’alternanza di endecasillabi e settenari –, considerato irrinunciabile perfino nella ampia definizione formulata da Bembo. Le strofe isometriche di settenari erano state frequenti nei poeti siciliani e continuarono ad esserlo nel 28 Guinizelli di «Donna, l’amor mi sforza» , ma la supremazia dell’endecasillabo nella canzone era stata definitivamente stabilita dal De vulgari eloquentia, e la combinatio di endecasillabi e settenari si era presto convertita nella testura canonica della canzone lirica italiana. Degna di maggiore attenzione e`, invece, la canzone in lode del cardinale Ridolfi di Trissino, nella quale – si e` detto – «emerge con maggiore evidenza la cura sperimentatrice» del poeta vicentino, a tal punto che di essa si e` potuto affermare che «la sua liberta` e` radicale»29. Il tratto distintivo di questa canzone e` la combinazione di due elementi che Trissino, in altri suoi componimenti, aveva sperimentato separatamente l’uno dall’altro: mi riferisco, da un lato, alla struttura triadica dell’ode pindarica e, dall’altro, alla forma continua della strofa, cioe` senza rima. Entrambi i fenomeni, d’altronde, risalgono a una comune matrice classicista, stando al programma di rinnovamento letterario che si fondava prevalentemente sui modelli greci30. Mettendo in discussione la rima, secondo l’esempio della poesia greca e latina, gli autori cinquecenteschi finivano per mettere in discussione la stessa forma poetica tradizionale, dal momento che, come ha precisato Mario Martelli nel gia` citato saggio: cio` che il mondo classico aveva affidato al ricorrere costante di versi differenti o, nel caso di strofi omeometre (come i sistemi asclepiadei 27

G. Ferroni e A. Quondam, La «locuzione artificiosa». Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell’eta` del manierismo, Roma, Bulzoni, 1973, p. 304. 28 Gorni, Le forme primarie, cit., pp. 453-54. 29 G. Milan, Nota metrica, in Trissino, Rime, ed. cit., pp. 47 e 50. 30 Sull’ellenismo del Trissino, si veda C. Dionisotti, L’Italia del Trissino, in N. Pozza (a cura di), Convegno di studi su Giangiorgio Trissino (Vicenza, 31 marzo-1 aprile 1979), Vicenza, Accademia Olimpica, 1980, pp. 11-22, in part. pp. 17-18. Risultano ancora utili le osservazioni di G. Toffanin, Il Cinquecento, in Storia letteraria d’Italia, Milano, Vallardi, 1941, pp. 448-53.

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primo e quinto) ai suggerimenti della semantica e della sintassi, il medioevo romanzo affida anche e soprattutto alla rima, che sottolinea spesso e conferma il concludersi del pensiero logico, ma talvolta non esita a prescindere o, addirittura, ad opporglisi31.

Due furono le strade attraverso le quali i poeti cinquecenteschi cercarono di risolvere il problema della rima: da un lato, semplicemente, la sua eliminazione, e, dall’altro, il recupero della sua funzione attraverso cio` che Martelli ha definito la «consapevolezza della funzione eminentemente strutturale della rima»32. Nell’ode pindarica dedicata al cardinale Ridolfi, Trissino sperimento` la prima delle due alternative; peraltro, non va dimenticato che in opere di maggior impegno, come la Sofonisba e, soprattutto, la Italia liberata dai Goti, Trissino fece ricorso all’endecasillabo sciolto. Tuttavia, di non minore interesse doveva risultare la seconda delle alternative possibili, quella che ritroveremo a proposito di Bernardo Tasso e delle sue odi oraziane. Ma prima di rivolgere l’attenzione a queste ultime, mi sembra opportuno soffermarmi – anche se brevemente – sull’ode pindarica come genere poetico, dal momento che l’abbiamo considerata, finora, solo dal punto di vista metrico. Nel trattato L’arte poetica, che in realta` e` posteriore al periodo che abbiamo preso in considerazione, il suo autore, Minturno, inserisce un’esposizione teorica sull’ode pindarica. Dopo aver fatto ampio riferimento alla prima delle sue due odi del 1535, scrive che «a questa maniera di canzoni certo niuna altra materia sta cosı` bene, come la grave et illustre, la quale eroica si chiama»33. In effetti, prescindendo dalla specificita` dei contenuti, una «materia [...] grave et illustre» si trova in tutto il gruppo delle odi considerate. Si tratta, in sostanza, di componimenti celebrativi, destinati non solo a «cantare le vittorie»34 di un imperatore, come nel caso di Minturno, ma anche ad esaltare le virtu` di un re, una regina o un’antico genovese – rispettivamente, Francesco I, Margherita di Navarra e Megollo Larcaro –, come nel caso dell’Alamanni, o a tessere le lodi di un cardinale, come nella gia` citata canzone del Trissino. Ne´ mancano esempi di poesia amorosa, rappresentata da due inni dell’Alamanni e da altrettante odi del

31

Martelli, Le forme poetiche italiane, cit., p. 525. Ibid. 33 Minturno, L’arte poetica, Venezia, Valvassori, 1564; il passo citato puo` leggersi in Ferroni-Quondam, La «locuzione artificiosa», cit., p. 69. 34 Ibid. 32

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Trissino, dove l’intenzione celebrativa da` luogo a un tono poetico non meno elevato. Orbene, a proposito della canzone cinquecentesca, Guglielmo Gorni ha parlato di «bifrontismo», concetto sul quale dovremo molto presto tornare in relazione all’ode oraziana; per il momento, possiamo limitarci a indicare che un polo di tale «bifrontismo» e` costituito dalla canzone petrarchesca, la quale, nella sua evoluzione cinquecentesca «accentua – secondo Gorni – la sua gravitas, e asseconda (con l’impiego di strofe lunghe, piu` volte iterate) un’istanza narrativa e digressiva, prediligendo la materia morale, politico-storica, speculativa, funebre e religiosa, la cui piu` alta affer` una mazione si ritrovera` nelle rime di Giovanni Della Casa»35. E descrizione che non si allontana molto da quella che potremmo dare dell’ode pindarica la cui sperimentazione, difatti, avanzo` parallelamente agli sviluppi della canzone petrarchesca del Cinquecento, tanto dal punto di vista metrico quanto strettamente poetico. Se, come abbiamo appena visto, un polo del «bifrontismo» e` occupato dalla canzone petrarchesca, e da quella che possiamo ormai considerare una sua variante, l’ode pindarica, al polo opposto si colloca un tipo di canzone che mira a una maggiore semplificazione, attraverso la riduzione del numero dei versi in ogni stanza e la soppressione delle articolazioni interne a ognuna di esse. Questo tipo di canzone ebbe come modello classico l’ode oraziana, e trovo` in Bernardo Tasso il suo interprete piu` instancabile. E, tuttavia, non e` escluso che si siano avuti tentativi anteriori al Tasso. In uno studio che risale alla fine degli anni cinquanta, Carlo Dionisotti suggerı` di anticipare di qualche decennio la sperimentazione dell’ode oraziana in volgare, basandosi su un’affermazione del Calmeta, il quale, in una lettera a Isabella d’Este, datata 5 novembre 1504, scriveva di aver sperimentato non solo «tutte le diversita` di rime che in stile materno ritrovare si possono», ma anche – ed e` cio` che piu` ci interessa – «molti stili fatti da nuovo ad emulazione di Orazio che a li lettori, spero, non poca dilettazione porgeranno»: Sicche´ – affermava Dionisotti – la ripresa dell’ode oraziana tradizionalmente attribuita a rimatori del medio Cinquecento deve con tutta probabilita` essere ricercata e giustificata in eta` d’un buon tratto anteriore e affatto diversa36. 35

Gorni, Le forme primarie, cit., p. 466. Dionisotti, Tradizione classica e volgarizzamenti, cit., p. 161. Per l’epistola a Isabella d’Este, si veda V. Calmeta, Prose e lettere edite e inedite, a cura di C. Grayson, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1959. 36

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In effetti, nello stesso anno della lettera del Calmeta, Pietro Bembo pubblico` gli Asolani, dove inserı` due canzoni del tutto irregolari, «Io vissi pargoletta in festa e ’n gioco» e «Io vissi pargoletta in doglia e in pianto», che il moderno editore del trattato non esita a definire ‘odi’, «forma metrica – aggiunge nella nota a pie` di pagina – di cui ancora non e` ben chiara la storia o preistoria nell’ambito della lirica musicale del tardo Quattrocento e del primo Cinquecento»37. Entrambe le canzonette-odi del Bembo sono formate da tre quartine di endecasillabi e presentano, inoltre, un disegno strutturale identico: alla presentazione del tema nelle quartine iniziali (l’amore infelice, nella prima canzonetta; quello felice, nella seconda) segue un’esemplificazione mitologica che occupa la terza e ultima quartina. Si tratta dello stesso disegno strutturale che troveremo nell’ode di Garcilaso. Prima di passare a questi due poeti, tuttavia, bisogna accennare brevemente ai tentativi di imitazione dell’ode oraziana che, almeno da un punto di vista metrico, sembrano essere piu` vicini al modello originario: mi riferisco, com’e` ovvio, alla sperimentazione in volgare della strofa saffica. Ad essa si giunse attraverso due diverse strade: da un lato, mediante la diretta traduzione delle odi di Orazio; dall’altro, come caso particolare di quel fenomeno piu` ampio che consistette nel tentativo di rinnovare la metrica italiana sulla base quantitativa, mediante l’imitazione dei versi classici. Per quanto attiene alla prima delle soluzioni, abbiamo gia` visto come il successo che ebbe la proposta bembiana, e la conseguente egemonia del modello petrarchesco, impedirono di fatto che si realizzassero versioni dalla poesia latina. Tra i rari esempi di traduzione delle odi oraziane, e` possibile menzionare quella di Trissino, il quale traduce «Donec gratus eram tibi» (III, 9) ricorrendo alla quartina di tre endecasillabi e un settenario38. Piu` facilmente percorribile si rivelo` la seconda delle strade a cui alludevo, grazie soprattutto a un gruppo di poeti appartenenti, in prevalenza, all’Accademia Romana de la Nuova Poesia. Con totale autonomia rispetto agli anticipatori esperimenti dell’Alberti e del Dati, questi poeti si sforzarono di comporre versi che corrispondes37

Bembo, Prose e Rime, ed. cit., p. 318 n.2. Per la versione citata, si veda G. Trissino, Opere, vol. I, Verona, Jacopo Vallarsi, 1729, p. 362. Ricordo anche la versione di Benedetto Varchi dell’ode oraziana III, 13, cosı` come quella di un anonimo autore del secolo XVI dell’ode IV, 13; entrambe possono leggersi in G. Federzoni, Alcune odi d’Orazio volgarizzate nel Cinquecento, Bologna, Zanichelli, 1880, pp. 127 e ss. 38

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sero alle forme metriche della poesia classica: essi «non si accontentarono – scrive Mario Geymonat, nel suo breve studio sulla questione – di applicare la metrica latina alla lingua italiana ma concepirono un proposito piu` complesso: quello di fornire all’idioma toscano una propria prosodia quantitativa»39. Non credo che sia opportuno entrare ora nel dettaglio delle soluzioni tecniche che questi poeti arrivarono a proporre, in quanto finiremmo per allontanarci dal problema. Pertanto, mi limitero` a ricordare la raccolta di Claudio Tolomei, Versi et regole de la Nuova Poesia Toscana (1539), a cui contribuirono molti degli Accademici romani e dove si trovano, tra l’altro, le odi saffiche quantitative di Antonio Renieri da Colle, Pierpaolo Gualterio e Alessandro Bovio, i quali fecero ricorso alla strofa tetrastica di tre endecasillabi e un quinario, senza rima, con un sistema di regole molto puntuali che aderiva allo scopo di riprodurre i versi italiani secondo le regole quantitative del latino40. Per varie ragioni, l’esperimento del Tolomei e dei suoi seguaci era destinato al fallimento. In proposito, e` stato giustamente notato che una rivoluzione impossibile a compiersi, per ragioni culturali prima di tutto, dato il radicamento nella tradizione italiana dei metri di origine romanza, e poi per ragioni linguistiche, perche´ l’operazione d’attribuire regole quantitative all’italiano [...] era (e rimase ogni volta che fu tentata) un’operazione del tutto artificiosa41.

La forma piu` comune di saffica italiana – sia detto per inciso – fu quella elaborata da Angelo di Costanzo: si trattava sempre di strofa tetrastica di tre endecasillabi e un quinario, ma con rima, e senza 42 nessun vincolo col sistema quantitativo latino . Tuttavia, i piu` proficui tentativi d’ispirarsi all’ode oraziana furono realizzati nell’ambito della totale accettazione della tradizione metrica italiana. Un passo decisivo in tale direzione fu mosso da Bernardo Tasso. Com’e` noto, la storia redazionale degli Amori del Tasso si caratterizza per il nutrito numero di rielaborazioni a cui il libro fu 39

M. Geymonat, Osservazioni sui primi tentativi di metrica quantitativa italiana, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXLIII (1966), pp. 378-89, in part. 383. 40 Si veda W. Th. Elwert, Versificazione italiana dalle origini ai giorni nostri, Firenze, Le Monnier, 1989, pp. 184-85. Le odi saffiche di A. Renieri da Colle, P. P. Gualterio e A. Bovio sono state raccolte in Carducci, La poesia barbara nei secoli XV e XVI, cit. 41 Beltrami, La metrica italiana, cit., p. 107. 42 Si veda Elwert, Versificazione, cit., p. 186; e anche R. Spongano, Nozioni ed esempi di metrica italiana, Bologna, Pa`tron, 1986, pp. 232-34, dove si trovera` riprodotto il componimento «Tante bellezze il cielo ha in te cosparte» di Angelo di Costanzo.

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PARTE TERZA

sottoposto nel corso di trent’anni. Lo stesso lavoro di rielaborazione tocco` alla sezione delle odi. Queste, che nell’edizione del 1531 non erano piu` di tre, erano destinate ad aumentare a partire dalla successiva edizione del 1534, nella quale arrivarono a dodici; ad esse se ne aggiunsero altre tre nel 1537, in occasione della pubblicazione del Libro terzo degli Amori, per poi essere ulteriormente incrementate, fino a raggiungere il numero di trentatre´, nell’edizione del 1555 e, infine, quello di cinquantacinque nell’ultima edizione del 156043. Qui mi limitero` unicamente ad alcune osservazioni sull’edizione del 1534, con qualche eccezione per le tre odi del 153744; in questo modo, non solo saro` stato fedele al limite cronologico che mi ero imposto all’inizio di queste note, ma avro` anche aperto la strada verso l’ode di Garcilaso, la cui conoscenza della poesia tassiana – per ovvie ragioni – non poteva andare molto piu` in la` di quanto conteneva l’edizione del 1534. Gia` nella dedica a Ginevra Malatesta del 1531, Tasso distingueva, all’interno della sua produzione poetica, tra le poesie che aveva «composto ad imitatione de’ moderni provenzali, ed di Messer Francesco Petrarcha» e le altre – in realta`, in quell’epoca, molto poche – nelle quali aveva seguito «la via ed l’arte degli antiqui boni poeti greci et latini»45. Piu` tardi, Tasso torno` sullo stesso discorso, ampliandolo, nella dedica al principe di Salerno, con la quale si apre l’edizione del 1534. Rivolgendosi, dunque, al suo protettore, Tasso intese rispondere alla critica che maggiormente doveva preoccuparlo, quella cioe` di aver costretto le Muse thoscane «quasi per viva forza [...] a favellare», «oltre il loro costume, in varie et strane maniere di rime: Hinni, Ode, Egloghe et Selve»46. Tasso fornı` una doppia risposta: 43 Si veda G. Cerboni Baiardi, La lirica di Bernardo Tasso, Urbino, Argalia Editore, 1966, p. 102 n. 2. Sulle odi del Tasso nel contesto piu` generale del recupero dei generi poetici classici, si veda E. Williamson, Form and Content in the Development of the Italian Renaissance Ode, in «Publications of the Modern Language Association», LXV (1950), pp. 550-67; lo studio e` stato riprodotto dall’autore nel suo libro Bernardo Tasso, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 1951, in part. le pp. 68-90; si veda anche, infine, Maddison, Apollo and the Nine, cit., pp. 150-75. 44 Per le odi del Tasso, ho utilizzato: Libro primo de gli amori, Venezia, Giov. Antonio Fratelli da Sabbio, 1531; Libro primo e secondo degli amori. Himni et ode. Selva. Epithalamio. Favola di Piramo et de Thisbe. Egloghe sei. Elegie sei, Venezia, Joan. Ant. da Sabbio, 1534. Per le tre odi aggiunte nell’edizione del ’37, ho utilizzato le Rime di m. Bernardo Tasso. Edizione la piu` copiosa finora uscita colla vita nuovamente descritta dal sig. abate Pierantonio Serassi, Bergamo, Pietro Lancellotti, 1749, 2 voll. 45 «Alla Signora Ginevra Malatesta», in Libro primo de gli amori (1531), cit., p. 7v. 46 «Al Prencipe di Salerno suo signore», in Libro primo e secondo degli amori (1534), cit., p. 2r.

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ostinarsi a imitare i «duo lumi della lingua thoscana, Dante e Petrarcha» equivarrebbe, da un lato, a sottomettersi a una «vana [...] fatica»47, dato il livello ineguagliabile della loro poesia; dall’altro, nel migliore dei casi, equivarrebbe a condannarsi alla mera ripetizione: «dire quelle istesse cose con altre parole, o con quelle istesse parole altri pensieri». Tenendo conto di tutto cio`, e considerando «quanto ampio et spatioso [sia] il campo della poesia, et segnato da mille fioriti et be’ sentieri», ogni poeta farebbe bene a «questa anchor giovene lingua [toscana] per tutti que’ sentieri menare, che i latini e greci le loro condussero, et la varieta` de’ fiori mostrandole de’ quali l’altre due ornandosi sı` vaghe si scopreno a’ riguardanti»48. Negli argomenti della sua abile difesa, non e` difficile riconoscere la doppia esigenza di rinnovamento che Dionisotti ha evidenziato a proposito della raccolta di Tolomei: «insoddisfazione o impazienza dei limiti stretti in cui la riforma linguistica e letteraria operata dal Bembo aveva ridotto la poesia» e «precisa e decisa volonta` di rompere quei limiti sul versante della poesia classica». Ma, a differenza di Tolomei e del suo gruppo, Tasso non penso` mai di adottare la soluzione della metrica quantitativa. Nella dedica al principe di Salerno, dopo aver espresso la sua grande ammirazione per l’esametro, in relazione alle sue poesie afferma: «Non neghero` il verso essere endechasillabo e non exametro»49. E in forma ancora piu` esplicita, in una lettera a Girolamo della Rovere del 26 ottobre del 1533, Tasso precisa che egli ha scritto «odi alla oraziana, non quanto ai numeri del verso, perche´ questa nostra lingua non lo sopporta, ma quanto alle altre parti dell’artificio»50. In ogni caso, gli esordi della sperimentazione si rivelarono abbastanza timidi. Le due odi All’Aurora e A Pan, composte per prime51, 47

Ivi, p. 2v. Ivi, p. 3r. Tasso raccolse lo stesso concetto in una lettera a Girolamo della Rovere, datata 26 ottobre 1553, dove si legge: «Io cammino, Sig.mio, alcuna volta per questi sentieri della poesia, dall’orme de’ Greci e da’ Latini scrittori segnati, i quali, al mio giudicio, mi paiono piu` belli e piu` vaghi di quelli per li quali agli antichi Toscani e` piaciuto di camminare; giudicando (se non m’inganno) questa poesia piu` dilettevole, e piu` piena di spirito e di vivacita`, che la loro, ancor che dubiti che no debbia piacere a chi delle buone composizioni greche e latine non avra` perfetta cognizione; per dar a divedere ad alcuni che hanno opinione che questa nostra lingua non sia capace di tutte quelle vaghezze poetiche delle quali e` capace la greca e la latina», cfr. Delle lettere di M. Bernardo Tasso, Padova, Giuseppe Comino, 1733 (lettera n. 38, vol. II, pp. 124-26). 49 Libro primo e secondo degli amori (1534), cit., p. 4v. 50 Delle lettere di M. Bernardo Tasso, cit., vol. II, p. 125. 51 Sulla data di queste due odi, si veda F. Pintor, Delle Liriche di Bernardo Tasso, in «Annali della Reale Scuola Superiore di Pisa», XIV (1900), p. 168 n. 1. 48

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PARTE TERZA

presentano una strofa che, con diciannove versi rispettivamente, non si allontana molto dalla stanza di canzone. Ma, a partire dall’ode A Diana, dove i versi di ogni strofa sono ridotti a sette, Tasso compie un ulteriore passo in direzione della strofa che si rivelera` tipica del genere. In effetti, nelle restanti nove odi dell’edizione del 1534, Tasso usa la strofa pentastica di endecasillabi e settenari, con un numero di strofe che oscilla notevolmente, per ogni ode, da un minimo di sei in «Che pro mi vien, ch’io t’habbia o bella Diva» a un massimo di ventuno in «O pastori felici». Per quel che riguarda la rima, ho gia` avuto occasione di alludere alla posizione che su di essa assunsero alcuni poeti del Cinquecento, i quali ne contestarono l’uso proponendo la sua eliminazione (l’endecasillabo sciolto), oppure recuperandone la funzione strutturale. A questa seconda soluzione si avvicino` maggiormente Tasso, il cui interesse per la questione non dovette essere debole, giacche´ su di essa indugio` non poco nella dedica al principe di Salerno. In questo testo, a proposito della rima nelle odi, Tasso scrive che le «voci in picciola stanza rinchiuse, subitamente a guisa d’Echo, una et due ` cio` che si verifica, in volte vanno iterando il suono proposto»52. E particolare, nelle sei odi che presentano lo schema abAbB, con varianti nel numero e nell’ordine degli endecasillabi e settenari. Tuttavia, nelle tre odi la soluzione e` un’altra e, se vogliamo comprendere il senso di questa nuova soluzione, e` necessario tornare alla dedica al principe di Salerno, nella quale Tasso sviluppa un lungo discorso con il quale si propone di conservare la rima, benche´ ne limiti il mero effetto fonico. A un certo punto, Tasso si chiede: perche´ non cosı` a’ volgari puo` esser lecito asconder alcuna volta ne’ versi loro la rima, et quella tra le altre parole mischiare, in maniera che prima ella ci trapassi l’orecchie c’huom s’accorga di doverla incontrare53.

Come ha notato giustamente Martelli, Tasso tenta di «escogitare nuove testure, in cui la rima fosse sı` conservata, ma non tanto da generare, se troppo avvertibile, un qualche insopportabile fastidio [...] L’intento, insomma [...] era quello di nascondere la rima conser-

52

«Al Prencipe di Salerno suo signore», in Libro primo e secondo degli amori (1534), cit., p.

4r. 53

Ivi, p. 4v.

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

vandola»54. Tasso sperimento` la ‘nuova testura’ in tre delle dodici odi contenute nell’edizione del 153455. In ogni strofa delle odi in questione, un verso resta senza legame, sebbene rimi con il primo e con il terzo della strofa successiva; inoltre, nell’ultima strofa questo secondo verso viene fatto rimare col primo (e terzo) verso dell’ode, assicurando cosı` una struttura circolare all’intero componimento. Ricorro di nuovo allo studio di Martelli per sottolineare che

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sia l’incatenamento di una strofe all’altra, sia la redditio che fa tornare su se stessa l’intera ode, sono fatti che, pur ottenuti attraverso la disposizione delle rime, non riguardano piu` l’orecchio, ma solo la struttura dell’opera56.

Le novita` non si limitano alla sola struttura della strofa e della rima, ma riguardano anche le relazioni tra metrica e sintassi. A tale proposito, nella citata lettera a Girolamo della Rovere, Tasso osservava: io passo talora con la clausola lunga di una stanza nell’altra, talora la faccio breve come meglio mi pare57.

Queste dichiarazioni sono state verificate da Fortunato Pintor, che – nel suo studio – osservo` come «l’effetto confermasse il proposito, a volte con poco di misura, prolungandosi un sol periodo, non senza stento, per tre intiere strofe»58. Invece, se considerassimo le sole odi del ’34, ci renderemmo conto che i legami sintattici tra le strofe sono del tutto inesistenti nelle tre odi con strofa lunga, come era facile prevedere, mentre compaiono con una certa frequenza nelle nove odi con strofa pentastica. Per quanto attiene a queste ultime, non risulteranno inutili due precisazioni. In primo luogo, i legami in questione, almeno quelli sintatticamente forti, non sono molto frequenti, dal momento che non oltrepassano il numero di uno o due casi per ogni componimento. In secondo luogo, l’estensione di detti legami e` a corto raggio: risultano rari i casi in cui il legame investe piu` di due strofe. Ne´ cambiano le cose nelle tre odi 54

Martelli, Le forme poetiche italiane, cit., p. 575. Si tratta delle tre odi seguenti: «Cada dal puro cielo», «Non sempre il cielo irato», «Che pro mi vien, ch’io t’habbia o bella Diva». 56 Martelli, Le forme poetiche italiane, cit., p. 577. 57 Delle lettere di M. Bernardo Tasso, cit., vol. II, p. 125. 58 Pintor, Delle liriche di Bernardo Tasso, cit., p. 171. 55

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

PARTE TERZA

che Tasso pubblico` nel 1537. Al contrario, l’eccezione piu` evidente a quanto e` stato osservato si trova nell’edizione del ’34, ed e` costituita dall’ode «O pastori felici», in cui compaiono almeno cinque casi di legame, tutti sintatticamente forti; due di essi, inoltre, si estendono su tre strofe. Per quanto riguarda la metrica, possiamo concludere affermando che, dopo i primi tentativi, abbastanza timidi, Tasso opto` a favore della strofa pentastica di endecasillabi e settenari, la cui brevita` fu compensata – per cosı` dire – con i legami sintattici tra le strofe e, a volte, con il recupero della funzione strutturale della rima. Tuttavia, la relazione con i classici, e in particolare con Orazio, deve essere misurata sul piano poetico piu` che su quello strettamente metrico. Ce lo testimonia lo stesso Tasso il quale, alla fine di un trentennale processo di elaborazione, nella nuova dedica al duca di Savoia, Emanuele Filiberto, precisa che egli ha scritto le odi «ad imitazione de’ buoni poeti greci e latini; non quanto al verso, il quale in questa nostra italiana favella e` impossibile d’imitare, ma nell’invenzione, nell’ordine, e nelle figure di parlare»59. E su questi tre aspetti non sono poche, difatti, le indicazioni teoriche che e` possibile ricavare dalle diverse dediche inserite dal Tasso nelle successive edizioni degli Amori, cosı` come da alcune lettere scritte agli amici. Nelle une come nelle altre troviamo precise prese di posizione circa le seguenti questioni: il precetto della varieta` della materia poetica, il riferimento alla materia mitologica, l’uso di comparazioni prolungate, la presenza o meno del proemio, il ricorso alle digressioni e alla relazione di esse con il tema principale. Dall’insieme di queste riflessioni non e` difficile dedurre che una delle maggiori preoccupazioni del poeta fu quella riguardante la testura dell’ode o – per meglio dire – cio` che possiamo chiamare il suo disegno strutturale, risalente agli inizi della sperimentazione del nuovo genere. In effetti, nella dedica a Ginevra Malatesta, dopo aver accennato alla liberta` dei poeti classici circa la possibilita` di iniziare o meno il componimento col «proemio», Tasso indugia sull’argomento piu` generale delle «digressioni», a proposito delle quali scrive: secondo l’ampia licentia poetica, [i poeti classici] entravano in qualunque materia, et vagando n’uscivano in favole, o ’n qualunque altra digressione a lor voglia; et ancho spesse volte senza ritornar in essa, fornivano quel che non hanno havuto ardir di far i Provenzali, et 59

«Al duca di Savoia» (Venezia, 11 gennaio 1560), in Tasso, Rime, ed. Serassi, vol. II, p. LXVII.

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

Toschi, et gli altri, che lor stile seguirono, li quali a pena toccano pur le favole con una parola, o con un solo verso60.

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Vent’anni dopo, ritroviamo la stessa preoccupazione nella lettera a Girolamo della Rovere; parimenti, in un’altra lettera non di molto precedente, rivolgendosi a Vincenzo Laurio, al quale aveva inviato una sua ode, Tasso scrive un interessante passo su cio` che egli stesso chiama «la natura e l’artificio dell’ode»: il lirico [classico], – afferma – cominciata la materia principale che s’ha proposta di trattare, e uscendo poi con la digressione, alle volte ritorna nella materia principiata, alle volte finisce il suo poema nella digressione, il che si vede in Pindaro, e in Orazio in moltissimi lochi. Questo ho voluto ricordarvi, perche´ mostrandola a persone di minore giudicio, che voi non sete, non si pensino ch’io mi sia dimenticata la strada da 61 tornare a casa .

Nelle sue dichiarazioni teoriche, Tasso sembra interessato piu` che altro a una maggiore «liberta` nell’intessitura» – nelle parole di Pintor62 –, grazie alla concessione di maggiore o minore spazio e all’integrazione delle parti che egli stesso chiamava «proemio», «materia principale», «digressione». Nella pratica poetica, cosı` come realizzata nelle odi del ’34, Tasso mostra una chiara predilezione per la presenza del proemio, foss’anche molto convenzionale, purche´ di breve estensione: difatti, non oltrepassa mai le due strofe e spesso e` costituito solo dalla prima. Piu` complesso e`, invece, il problema della relazione tra «materia principale» e «digressione». Tra le odi esclusivamente mitologiche, come quelle dedicate A Diana e A Pan o quelle che unicamente consistono nella celebrazione di personaggi contemporanei (Per li tre abbati Cornelii, Per il marchese del Guasto), c’e` un terzo gruppo di odi che si caratterizza per la presenza di entrambi i piani, tra loro intrecciati secondo varie modalita`. In due odi, per esempio, la descrizione celebrativa dell’Aurora e di Venere occupa la maggior parte del componimento, per cui le occasioni che ne sono all’origine risultano alluse molto brevemente solo nell’ultima strofa. Ma perfino nei casi in cui l’integrazione dei piani raggiunge un maggiore equilibrio la disparita` risulta evidente; piu` concretamente, 60

«Alla Signora Ginevra Malatesta», in Libro primo de gli amori (1531), cit., p. 8r. La lettera al Laurio e` del 6 settembre 1553, per cui si veda Delle lettere di M. Bernardo Tasso, cit., vol. II, p. 123. 62 Pintor, Delle Liriche di Bernardo Tasso, cit., p. 167. 61

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PARTE TERZA

nelle odi dedicate A Apollo e Al Sol, la celebrazione delle due divinita` continua a godere di uno spazio maggiore se paragonato a quello riservato alle brevi allusioni e ai temi che hanno dato origine ai due componimenti: le malattie del principe di Salerno e del duca di Mantova, rispettivamente. Riassumendo, nelle odi del Tasso c’e` un problema che investe l’architettura del componimento, al quale il suo autore non ha ancora trovato una corretta soluzione, forse perche´ ancora troppo preso dalle novita` della sperimentazione. Cio` che, tuttavia, non capito` a Garcilaso nell’unica ode da lui composta. ` all’ode spagnola, pertanto, che va ora rivolta la nostra attenE zione. Per far cio`, nulla obbliga a lasciare Napoli e l’ambiente di Bernardo Tasso, dal momento che fu nella citta` partenopea che Garcilaso compose l’Ode ad florem Gnidi, di ritorno da quella spedizione tunisina alla quale non solo aveva partecipato in compagnia del suo amico Tasso, ma «es sumamente probable – come congettura Rivers – que llevara entonces consigo su propio ejemplar del libro» degli Amori63, di recente pubblicato dall’italiano. A distanza di poco piu` di un lustro, quasi in coincidenza con la fine del periodo che stiamo considerando, dall’altra parte del Mediterraneo si verificava un avvenimento di enorme portata per la poesia spagnola: l’editore barcellonese Amoro´s pubblicava, in un unico volume, l’opera poetica di Bosca´n e di Garcilaso. Lo stesso Rivers ha ragionevolmente insistito sul fatto che i quattro libri di cui constava l’edizione, contenevano il nuovo sistema dei generi poetici che si sarebbero imposti piu` tardi, dove, accanto alla poesia in metro castigliano, prendevano posto i nuovi generi petrarcheschi (sonetti e canzoni) e, soprattutto, i generi poetici neoclassici64. Tra questi ultimi, l’ode era presente col solo componimento scritto da Garcilaso alcuni anni prima e con il cui titolo in latino l’autore segnalava, tra le altre cose, la tradizione poetica che si proponeva di imitare e di emulare. Vorrei quindi concludere queste note con alcune brevi osservazioni sull’ode garcilasiana, considerandola esclusivamente sotto il segno che la genero`, vale a dire, la teoria e la pratica poetica che il suo amico Tasso aveva consegnato all’edizione degli Amori del 1534. In altre 63

E. L. Rivers, Nota sobre Bernardo Tasso y el manifiesto de Bosca´n, in Homenaje al profesor Antonio Vilanova, Barcelona, Universidad de Barcelona, 1989, vol. I, pp. 601-05. Cito dalla p. 602. 64 E. L. Rivers, El problema de los ge´neros neocla´sicos y la poesı´a de Garcilaso, in V. Garcı´a de la Concha (a cura di), Actas de la IV Academia literaria renacentisca. Garcilaso, Salamanca, Universidad de Salamanca, 1986, pp. 49-60.

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

parole, vorrei poter continuare, nei limiti delle mie possibilita`, il discorso che Da´maso Alonso aveva ammirevolmente cominciato nel suo breve saggio, Sobre los orı´genes de la lira. In esso, il maestro degli studi ispanici, facendo riferimento alla relazione di Garcilaso con la raccolta tassiana del 1534, scriveva:

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interesa no so´lo, en concreto, la adopcio´n, de la «lira», sino todo el campo de donde elegı´a esta forma, y todo lo que de preocupaciones este´ticas adivinamos tierra vegetal de este campo65.

Null’altro potrei aggiungere alle conclusioni di Da´maso Alonso circa la scelta metrica che fece Garcilaso rispetto alle varianti di strofa pentastica offerte dalle odi del Tasso; scelta che ricadde – com’e` noto – su quella che l’italiano aveva usato una sola volta, piu` precisamente, in «O pastori felici». Tuttavia, le «preocupaciones este´ticas», pertinentemente evocate dal maestro, non sempre coincidono del tutto con quelle metriche; e questo, credo, rende possibile continuare il discorso. Si e` gia` avuto modo di vedere come le riflessioni teoriche del Tasso ponessero una serie di problemi in rapporto a cio` che abbiamo chiamato il disegno strutturale dell’ode, e come la sua pratica poetica costituisse una risposta – in realta`, non sempre indovinata – a tali problemi. Prendendo come punto di partenza il risultato metrico raggiunto dall’amico poeta, Garcilaso dette la sua personale soluzione al problema del disegno strutturale; e lo fece come il suo genio gli dettava, vale a dire, ricorrendo alla tradizione poetica che si lasciava intravedere dietro le sperimentazioni neoclassiche del Tasso. In altre parole, la soluzione del disegno strutturale non puo` essere giudicata indipendentemente da quella adottata dalle fonti che maneggio`. Tra le dodici odi incluse dal Tasso nell’edizione del 1534, Garcilaso potette leggerne due dedicate a Venere, una delle quali – «Che pro mi vien ch’io t’habbia, o bella Diva» – era un’invocazione alla dea affinche´ vincesse le resistenze della «vezzosa Terilla» la quale, avendo «armato il cor di mattutino gelo», disprezzava il «dolce fuoco» della dea, cosı` come il «desir [...] ardente» dell’amante-poeta. Benche´ 65

Il breve studio di D. Alonso, Sobre los orı´genes de la lira, pubblicato come appendice in Poesı´a espan˜ola. Ensayo de me´todos y lı´mites estilı´sticos, Madrid, Gredos, 1950, e` ora raccolto in Obras completas, vol. IX, «Poesı´a espan˜ola» y otros estudios, Madrid, Gredos, 1989, pp. 508-13. Cito dalla p. 510.

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

PARTE TERZA

tale schema fosse totalmente oraziano, in questo caso Tasso si era ispirato, piu` che alle odi del venosino, a un’ode latina di Andrea Navagero, nella quale il poeta e umanista veneziano si rivolgeva, a sua volta, «Ad Venerem, ut pertinacem Lalagem molliat»66. In cambio, Navagero sı` che si era ispirato direttamente a Orazio e, piu` direttamente, all’ode in cui l’amante infelice dell’«arrogante Cloe», che in passato era stato fortunato amante e soldato onorato: Vixi puellis nuper idoneus et militavi non sine gloria

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si rivolge ora a Venere marina affinche´ frusti, almeno una volta, la sdegnosa fanciulla: ... sublimi flagello tange Chloen seme arrogantem (III, 26).

Garcilaso legge l’ode del Tasso, conosce con ogni probabilita` quella del Navagero e, attraverso questi due testi – dell’amico e del vecchio maestro –, finisce per arrivare all’ode di Orazio, col quale, naturalmente, aveva buona familiarita`. E fu in virtu` di questa familiarita` che la memoria poetica di Garcilaso non manco` di stabilire certi nessi con altri componimenti del venosino: l’ode a Venere lo condusse, da un lato, a quella Lidia (I, 8) indicata come fonte da tutti i commentaristi, dal Brocense fino a Dunn67; e dall’altro, all’ode a Mercurio (III, 11), solo di recente segnalata, per abile merito di La´zaro Carreter, in un saggio che risulta imprescindibile alla lettura dell’ode di Garcilaso68. La dea d’amore e la fanciulla disamorata, entita` separate nell’ode a Venere, risultano condensate nella figura unica di Violante, cosı` come in Mario percepiamo il riflesso del protagonista maschile della stessa ode, ossia, di colui che come amante non si considera piu` «puellis ... idoneus» e che come soldato vive un presente «sine gloria». L’ode a Lidia, con la sua diretta invocazione alla donna, da` luogo alla parte centrale del componimento di Garcilaso, con l’unica differenza che il rimprovero alla

66

A. Navagero, Opera omnia, Venezia, 1754, pp. 192-93. Si veda P. N. Dunn, La oda de Garcilaso «A la flor de Gnido» (1965), ora in E. L. Rivers (a cura di), La poesı´a de Garcilaso, Barcelona, Ariel, 1981, pp. 127-62. 68 F. La´zaro Carreter, La «Ode ad florem Gnidi» de Garcilaso de la Vega, in Garcı´a de la Concha (a cura di), Actas de la IV Academia literaria renacentista, cit., pp. 109-26. 67

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

donna cambia di segno: l’eccesso d’amore che ha ridotto in cattive condizioni Sibari, l’amante di Lidia, si vede sostituito dall’«aspereza» di Violante, il cui effetto su Mario, tuttavia, non risulta meno catastrofico. Infine, c’e` da considerare l’ode a Mercurio, nella quale – come ha notato molto bene La´zaro Carreter – «Horacio, construye el motivo tema´tico de ‘exhorto dirigida a una mujer para que ame’, y lo combina, por vez primera, con un persuasivo ejemplo mitolo´gico»69. In effetti, quest’ode di Orazio si compone di due parti, dal momento che manca in essa il discorso rivolto alla donna: c’e`, dunque, una prima parte costituita dall’invocazione alla divinita` affinche´ conceda al poeta-amante i «modos Lyde quibus obstinatas / applicet aures», mentre la seconda parte e` il racconto mitologico delle figlie di Danao. Nell’ode di Garcilaso queste due parti si riflettono, rispettivamente, nell’inizio, contenente il riferimento alla «lira», al potere e alla materia di essa, e nel finale che espone il mito di Anassarate, con eguale valore suasorio. Prescindo, naturalmente, dalle altre fonti, cosı` come dal concreto adattamento di cui furono oggetto nel testo di Garcilaso, in quanto cio` che m’interessa ora e` il suo disegno strutturale. Prendendo a prestito la terminologia del Tasso, potremmo dire che l’ode di Garcilaso assume la seguente configurazione: un «proemio», con il riferimento canonico al canto stesso, introduce la «materia principale», cioe` l’esortazione alla donna, da cui prende spunto la «digressione» consistente nell’esempio mitologico, per terminare, infine, col ritorno alla «materia principale» delle ultime strofe. Alla rigorosa orditura del disegno contribuisce in buona misura la perfetta geometria di proporzioni di ognuna delle parti. In effetti, il proemio, che e` formato da sei strofe, si divide al suo interno in tre gruppi di due strofe ognuno, secondo la traccia data dalle unita` sintattiche: protesi, apodosi negativa e avversativa; la materia principale si estende lungo sette strofe, alle quali corrisponde un eguale numero di strofe nella digressione; il componimento si chiude col ritorno al tema principale, che occupa due strofe, come le unita` del proemio. Il «precioso juguete» – secondo l’appropriata definizione di Mene´ndez Pelayo –70 si rivela, tra l’altro, una risposta ai problemi di composizione che il Tasso, negli stessi anni, era stato il primo a sollevare e a cercare di risolvere. Le brevi osservazioni che precedono mostrano come la confluenza dei diversi testi oraziani 69 70

Ivi, p. 114. M. Mene´ndez Pelayo, Horacio en Espan˜a, 1885, 2ª ed., vol. II, pp. 13-15.

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

PARTE TERZA

nell’ode di Garcilaso si traduca in un preciso disegno strutturale che, a dire il vero, non compare in nessuna delle fonti oraziane utilizzate dal poeta spagnolo, e ancor meno nelle odi del Tasso che Garcilaso ebbe la possibilita` di conoscere. Rispetto ai tentativi quasi contemporanei del Tasso, col suo eccessivo ricorso alla materia mitologica e i suoi difetti di composizione: «abuso` forse» – scrisse Pintor con perspicacia a proposito dell’artificio della digressione – «non soltanto con terminare nella similitudine, ma con prendere spesso di qui le mosse, non concedendo talor neppur luogo adeguato al soggetto proprio della poesia»71; rispetto ai tentativi non sempre felici del Tasso – dicevo – l’ode di Garcilaso si caratterizza per il rigore con cui il suo autore seppe selezionare e integrare, in un disegno unico, le varie parti che compongono l’ode alla maniera oraziana, e aggiungerei, in ultimo, per la sapienza con cui seppe coniugare il classicismo del genere con l’intimo petrarchismo che, nonostante le apparenze, puo` essere rintracciato nell’intero testo72. Ma cio` ci porterebbe molto lontano.

71

Pintor, Delle Liriche di Bernardo Tasso, cit., p. 167. Un esempio di cio` puo` vedersi nelle fini osservazioni di F. Rico, Variaciones sobre Garcilaso y la lengua del petrarquismo, in Actas del Coloquio Interdisciplinar «Doce consideraciones sobre el mundo hispano-italiano en tiempos de Alfonso y Juan de Valde´s» (Bolonia, abril de 1976), Roma, Publicaciones del Instituto Espan˜ol de Lengua y Literatura de Roma, 1979, pp. 115-30, in part. le pp. 128-29. Per una diversa interpretazione della sesta strofa, si veda E. M. Wilson, La estrofa sexta de la cancio´n «A la flor de Gnido» (1952), ora in Rivers (a cura di), La poesı´a de Garcilaso, cit., pp. 121-26, e W. M. Whitby, Transformed into What?: Garcilaso’s Ode ad Florem Gnidi, in «Revista Canadiense de Estudios Hispa´nicos», XI (1986), pp. 131-43. Sull’ode di Garcilaso, in generale, oltre agli studi finora citati, si vedano: Lapesa, La trayectoria poe´tica, cit., pp. 146-47; A. J. Cruz, Imitacio´n y transformacio´n. El petrarquismo en la poesı´a de Bosca´n y Garcilaso de la Vega, Amsterdam / Philadelphia, John Benjamins Publishing, 1988, pp. 67-9; K. Reichenberger, Garcilaso Ode ad florem Gnidi, in Studia Iberica. Festschrift fu¨r Hans Flasche, Bern / Mu¨nchen, Francke Verlag, 1973, pp. 511-27; e, infine, S. Pe´rez-Abadı´n Barro, La oda en la poesı´a espan˜ola del siglo XVI, Tesi di dottorato, Universidade de Santiago de Compostela, 1992, pp. 168-230 [la tesi e` stata ora pubblicata con lo stesso titolo dalla Universidade de Santiago de Compostela, 1995, pp. 65-94]. 72

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L’EGLOGA A NAPOLI TRA SANNAZARO E GARCILASO

«La e´gloga II, escrita al an˜o o an˜o y medio de su residencia en Na´poles...»: con queste parole, in cui gli esordi di un genere appaiono vincolati al nome di una citta`, comincia il primo dei nove paragrafi che il libro classico di Rafael Lapesa dedica all’opera 1 menzionata . L’appaiamento, del genere e della citta`, non puo` certo ritenersi casuale; e cio` non solo per le ovvie ragioni inerenti alle vicende biografiche del toledano, ma soprattutto per motivi inseparabili dalla cultura letteraria che era venuta determinandosi nella capitale aragonese, prima, e vicereale, poi, nei decenni che precedettero l’arrivo di Garcilaso in essa. Carlo Vecce, uno studioso di letteratura latina umanistica, e di Sannazaro in particolare, cosı` riassume il prolungato processo, nel corso del quale si era sviluppato il genere pastorale, e il cui risultato finı` per imporsi – nei primi anni del XVI secolo – da Napoli al resto d’Italia ed Europa: Il codice bucolico napoletano [...] nelle forme in cui si era storicamente determinato, tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’90, alla corte degli Aragonesi di Napoli, assumeva [con l’Arcadia di Sannazaro] una posizione dominante in Italia ed Europa, perdendo via via i connotati residui di cronaca contemporanea in veste pastorale2.

Si tratta di un’affermazione che merita di essere brevemente illustrata. Torniamo, per un momento, alla citazione di Lapesa, dove indirettamente ci viene suggerita la data di composizione dell’Egloga 1 R. Lapesa, La trayectoria poe´tica de Garcilaso (1948), ora raccolto in Id., Garcilaso: Estudios completos, Madrid, Istmo, 1985, pp. 96-116. Cito dalla p. 96. 2 C. Vecce, L’egloga Melisaeus di Giano Anisio tra Pontano e Sannazaro, in S. Carrai (a cura di), La poesia pastorale nel Rinascimento, Padova, Antenore, 1998, pp. 213-34. Cito dalla p. 213.

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PARTE TERZA

II. Poiche´ Garcilaso arriva a Napoli tra l’estate e l’autunno del ’32, risulta che, nell’ipotesi del maestro spagnolo, l’egloga in questione dovette essere composta tra la seconda meta` del ’33 e i primi mesi dell’anno seguente. A quell’epoca, l’egloga a Napoli contava gia` su una lunga storia, che potremmo far cominciare nell’aprile del 1468, quando il senese Iacopo Fiorino de’ Boninsegni invio` le sue quattro egloghe, da poco composte, ad Alfonso, duca di Calabria e primogenito del re Ferrante di Napoli3. Qualche tempo dopo, gia` nel corso degli anni settanta, un gruppo di poeti napoletani debuttava nel genere per essi nuovo, contribuendo cosı`, con le proprie opere, a generare quell’«epidemia bucolica», che si protrasse negli ultimi due o tre decenni del secolo XV, nelle corti settentrionali come nel sud della penisola. Va senza dire che nelle loro egloghe, risultava ampiamente operante la lezione senese e fiorentina, a partire dalla quale, nei decenni precedenti, era venuto formandosi il codice bucolico quattrocentesco4. A Napoli, del resto, piu` che altrove, non erano 3

Sulle relazioni politiche e culturali tra le citta` di Siena e di Napoli e, in particolare, sull’influenza senese come fattore che favorı` l’introduzione del genere bucolico tra i letterati della citta` partenopea, si vedano: E. Carrara, La poesia pastorale, Milano, Vallardi, [1909], pp. 170-80, 187, 202, dove leggiamo: «Pare che ai Senesi spetti il diritto di privativa nell’introdurre il bucolismo in Napoli»; M. Corti, Le tre redazioni della «Pastorale» di P. J. De Jennaro con un excursus sulle tre redazioni dell’«Arcadia», in «Giornale storico della letteratura italiana», CXXXI (1954), pp. 305-51, in part. pp. 316, 340, 345; C. Dionisotti, Jacopo Tolomei fra umanisti e rimatori, in «Italia Medievale e Umanistica», VI (1963), pp. 137-76, in part. pp. 173-76. Su Siena e la sua produzione bucolica, in particolare, sull’episodio dell’invio delle quattro egloghe di Boninsegni a Alfonso, si veda S. Fornasiero, Presenze (e assenze) della bucolica senese, in Carrai (a cura di), La poesia pastorale, cit., pp. 57-72, in part. p. 58. 4 Il processo risulta cosı` sintetizzato dalla Corti: «In Italia, a parte il filone dell’egloga allegorica trecentesca e del romanzo allegorico-didattico (Ameto), e qualche sporadico esempio di egloga della prima meta` del Quattrocento (Giusto de’ Conti, L. B. Alberti), in realta` solo a partire dal decennio 1460-70 [...] l’indirizzo bucolico assume la fisionomia di una corrente letteraria che da Siena e da Firenze si diffondera` nei centri culturali del Nord e del Sud, sino a trasformarsi, come testimonia la tradizione manoscritta, in una sorta di epidemia bucolica», in Il codice bucolico e l’«Arcadia» di Jacobo Sannazaro (1968), raccolto in Metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 283-304; cito dalla p. 287. In effetti, questo quadro risulta parzialmente modificato dagli studi e ricerche degli ultimi anni, grazie ai quali la produzione dell’«inventore del genere in volgare», il senese Francesco Arzocchi, deve anticiparsi alle prime decadi del secolo XV, finendo cosı` per coincidere, cronologicamente, con le opere bucoliche di Giusto e dell’Alberti; cosı` come alcuni episodi che risalgono a un periodo anteriore agli anni ’60 testimoniano che le quattro egloghe dell’Arzocchi godettero di una relativa circolazione manoscritta e perfino di imitazioni, per cui si vedano almeno: S. Fornasiero, Introduzione a F. Arzocchi, Egloghe, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1995, pp. LV-LXXVIII; F. Brambilla Ageno, La prima ecloga di Francesco Arsochi e un’imitazione di Giovan Francesco Suardi, in «Giornale storico della letteratura italiana», XCIII (1976), pp. 523-48. Per quanto riguarda Napoli, la moda bucolica fu introdotta dal patrizio romano, Giuliano Perleoni, che, nel 1474, si rifugio` nella

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L’EGLOGA A NAPOLI TRA SANNAZARO E GARCILASO

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mancate precoci occasioni di contatto con questo tipo di produzione, grazie soprattutto agli intensi rapporti che la corte aragonese intrattenne con la citta` di Siena, il che spiega il menzionato invio del Boninsegni al duca di Calabria; ma grazie anche all’amicizia tra alcuni letterati, come quella che unı` in anni giovanili il senese Filenio Gallo, autore di un paio di egloghe, a due protagonisti dello sviluppo del genere a Napoli, De Jennaro e Perleoni5. D’altronde, ben presto, la pubblicazione di un volume, fresco di stampa nel febbraio del 1482, contribuı` in modo decisivo a fissare il canone della nuova poesia pastorale in volgare, permettendone al contempo l’ampia circolazione nell’intera penisola. Mi riferisco, naturalmente, alla fiorentina edizione Miscomini, dove si trovava raccolta – in sostanza – l’intera produzione dell’«avanguardia bucolica quattrocentesca». L’incunabolo, in effetti, si apriva col volgarizzamento delle Bucoliche virgiliane ad opera di un accademico «dei buccoici», Bernando Pulci; proseguiva con le quattro egloghe del senese Francesco Arzocchi, considerato l’«inventore del genere volgare»; e si completava con la produzione del fiorentino Benivieni e quella di un altro senese, il Boninsegni, le cui egloghe – abbiamo visto – circolavano a Napoli quasi tre lustri prima che vedesse la luce la stampa Miscomini6.

capitale aragonese, dove compose due egloghe di tema politico-encomiastico – si veda E. Saccone, L’Arcadia: storia e delineamento di una struttura, in «Modern Language Notes», LXXXIV (1969), in part. pp. 91-95, dove si trova il testo dell’egloga per Galeazzo Maria Visconti; G. Angiolillo, La «Satyra morale e prophetica» di Giuliano Perleoni (Rustico Romano), in «Misure critiche», V (1972) –; per il nobile napoletano, Francesco Galeota, autore di due componimenti pastorali, la Strussula in laude del Duca di Calabria e la Cansone in strusciola a modo d’egrogha – si vedano M. Santagata, La lirica aragonese. Studi sulla poesia napoletana del secondo Quattrocento, Padova, Antenore, 1979, pp. 360-61; G. Parenti, «Antonio Carazolo desamato». Aspetti della poesia volgare aragonese nel ms. Riccardiano 2752, in «Studi di filologia italiana», XXXVII (1979) p. 178n –; e, soprattutto, per il poeta-funzionario, Pietro Jacopo De Jennaro – si vedano E. Percopo, La prima imitazione dell’Arcadia, Napoli, Pierro, 1894 e lo studio citato della Corti, Le tre redazioni della «Pastorale» di P. J. De Jennaro. 5 Sulle relazioni tra i tre letterati, si vedano i lavori della Corti, Le tre redazioni, cit., p. 316, e Per un fantasma di meno, in Metodi e fantasmi, cit., pp. 327-67, in part. pp. 355-57. Per i testi delle due egloghe di Filenio, Lilia y Safira, si veda Rime di Filenio Gallo, a c. di M. A. Grignani, Firenze, Olschki, 1973, pp. 69-85 e pp. 192-217, rispettivamente. 6 Sulle Bucoliche elegantissimamente composte (Firenze, Miscomini, 1482), in generale, si veda F. Battera, L’edizione Miscomini (1482) delle Bucoliche elegantissimamente composte, in «Studi e problemi di critica testuale», XL (1990), pp. 149-85. Piu` in particolare, sulla traduzione di Pulci, S. Villari, Una bucolica «elegantissimamente composta»: il volgarizzamento delle egloghe virgiliane di Bernardo Pulci, in V. Fera e G. Ferrau´ (a cura di), Filologia Umanistica. Per Gianvito Resta, Padova, Antenore, 1997, vol. III, pp. 1873-937; per Arzocchi, si veda la citata edizione della Fornasiero (supra, n. 4); sulle egloghe di Boninsegni, si veda Fornasiero, Presenze (e assenze), cit., pp. 58-62; su Benivieni, si veda F. Battera, Le egloghe di Girolamo Benivieni, in «Interpres», X (1990), pp. 133-223.

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PARTE TERZA

Con quali tratti si presentava, dunque, il canone della nuova poesia pastorale in volgare, ai lettori della raccolta fiorentina? Metricamente, le egloghe lı` riunite oscillavano tra la soluzione del polimetro, appannaggio della fase piu` arcaica – quella dell’Arzocchi, per intenderci –, e l’adozione della terzina spesso sdrucciola e per lo piu` frottolata, che prevaleva nettamente nella produzione piu` recente di un Benivieni7. I caratteri dello stile erano dettati da un manifesto plurilinguismo, in virtu` del quale coesistevano – gli uni e gli altri – moduli pseudorustici e aulici, toni drammatici e sentenziosi8. Quanto ai contenuti, infine, il «velame pastorico» trionfava. Grazie ad esso, il letterato otteneva il sistematico travestimento di personaggi e avvenimenti della vita cittadina in situazioni pastorali. Un breve passo, che estraggo da un noto studio sull’argomento di Maria Corti, illustra l’artificio con sintetica sapienza e ironica perizia: Vi e` – scrive la Corti – un fitto conversare per l’Italia, divenuta un gran club bucolico, di vicende letterarie e politiche, di speranze, delusioni, vi e` un continuo ammiccare dietro i simboli pastorali, a volte segreto e oscuro a noi, chiaro per i contemporanei9.

Tracciati in estrema sintesi, questi erano i tratti fondamentali con cui si presentava il modello dell’egloga quattrocentesca; un modello a cui si mantennero sostanzialmente fedeli i poeti napoletani, al momento di proseguire nel cammino intrapreso dai loro predecessori

7

«L’idea che gli sdruccioli in rima siano connotatori non equivoci del territorio formale della poesia bucolica» (Fornasiero, Presenze (e assenze), cit., p. 69), si andra` affermando a partire dalle inserzioni bucoliche nel Driadeo e nelle Pistole di Luca Pulci (Fornasiero, Introduzione a Arzocchi, Egloghe, ed. cit., pp. XXVIII-XXXIII); una sintesi sulle relazioni dei fratelli Pulci con la poesia bucolica si trova in S. Carrai, La lirica toscana nell’eta` di Lorenzo, in M. Santagata e S. Carrai (a cura di), La lirica di corte nell’Italia del Quattrocento, Milano, Franco Angeli, 1993, pp. 104-06), e piu` per esteso, in S. Carrai, Alle origini della bucolica rinascimentale: Lorenzo e l’umanesimo dei fratelli Pulci, in Id., I precetti di Parnaso. Metrica e generi poetici nel Rinascimento italiano, Roma, Bulzoni, 1999, pp. 113-28. Un precedente della specializzazione degli sdruccioli per l’egloga e` costituito dalla «continuazione» di Giovan Francesco Suardi (si veda Brambilla Ageno, La prima ecloga, cit.). Per gli aspetti formali e la metrica, soprattutto, dell’egloga quattrocentesca, e` imprescindibile lo studio di D. De Robertis, L’ecloga volgare come segno di contraddizione, in «Metrica», II (1981), pp. 61-80. 8 Cfr. M. Corti, Rivoluzione e reazione stilistica nel Sannazaro (1968), raccolto in Metodi e fantasmi, cit., pp. 307-23; cito dalla p. 310. Sulla questione, si veda anche Carrara, La poesia pastorale, cit., pp. 170 ss. 9 Corti, Il codice bucolico, cit., p. 288. Sulla bucolica allegorico-politica in epoca soprattutto medievale, e` utile il panorama di H. Cooper, Pastoral. Medieval into Renaissance, Ipswich-Totowa, D. S. Brewer-Rowman & Littlefield, 1977.

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L’EGLOGA A NAPOLI TRA SANNAZARO E GARCILASO

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toscani. Ma il piu` giovane di essi, un allievo di Lucio Grasso e di Giuniano Maio, che presto divenne il maggior discepolo del Pontano: Jacopo Sannazaro, insomma, era destinato a rivoluzionare il genere pastorale, rinnovandone le forme e i temi, e offrendo cosı` – con l’Arcadia – il nuovo modello bucolico, con cui si sarebbero misurate diverse generazioni di poeti cinquecenteschi, italiani ed europei. Eppure, l’Arcadia, lungi dall’essere concepita in maniera unitaria, fu il risultato di un lento e difficile processo di elaborazione, che si estese sull’arco di un quindicennio almeno, e conobbe tre diverse redazioni. Quando ai «principiı´ de la sua adolescenzia», sui vent’anni o poco piu`, il giovane Jacopo cedette alla voga della bucolica10, lo fece seguendo le orme dei letterati napoletani piu` anziani di lui11, con la composizione cioe` di alcune egloghe sciolte, dove – pero` – al lettore attento non sfuggiva come la lezione dei bucolici senesi si combinasse con una piu` accentuata presenza petrarchesca, del Petrarca del Canzoniere. La strada che lı` era stata appena tracciata, fu poco dopo percorsa con maggior risolutezza col

10 L’espressione riprodotta nel testo si legge nella prosa VII, 32, in occasione della risposta di Carino a Sincero: «E sı´ come insino qui i principıˆ de la tua adolescenzia hai tra semplici e boscarecci canti di pastori infruttuosamente dispesi...» (J. Sannazaro, Arcadia, a c. di F. Ersparmer, Milano, Mursia, 1990, p. 124). La ritroviamo nell’epistola dedicatoria di Pietro Summonte «Al Rev. Ill. Signor Cardinale di Aragona»: «essendo ella [l’opera] stata composta son gia` molti anni e ne la prima adolescenzia del poeta» (ed. cit., p. 50). Sull’espressione si vedano le precisazioni di G. Villani, Arcadia, in Letteratura italiana. Le opere I. Dalle origini al Cinquecento, Torino, Einaudi, 1992, pp. 869-87, in part. pp. 870-71. Essendo nato nel 1457 (cfr. M. Corti, Ma quando e` nato Jacobo Sannazaro?, in G. Aquilecchia, S. N. Cristea, S. Ralphs (a cura di), Collected essays on Italian language & literature presented to Katleen Speight, Manchester, Univ. Press Barnes & Noble Inc., 1971, pp. 45-53), Sannazaro dovette comporre le sue prime egloghe sciolte tra la fine degli anni sessanta e l’inizio della decade seguente; a favore della collocazione cronologica piu` precoce sembra inclinarsi G. Velli: «il Sannazaro ha esordito sul terreno bucolico molto presto, sui vent’anni, e con pezzi poetici isolati» (Sannazaro e le «Partheniae Myricae»: forma e significato dell’«Arcadia», in Id., Tra lettura e creazione. Sannazaro-Alfieri-Foscolo, Padova, Antenore, 1983, pp. 1-56; cito dalla p. 32). A Sannazaro, oltre alle tre egloghe sciolte poi confluite nell’Arcadia, Velli attribuisce anche l’egloga Alfanio e Cicaro, trasmessa da alcuni settori della tradizione insieme all’Arcadia (si veda lo studio menzionato, pp. 20-32). 11 Se si considera che le egloghe sciolte di Sannazaro sono posteriori a quella di Rustico Romano, Che fai, Thelemo, in questa riva strania, che – al massimo – risale al 1477 (si veda E. Saccone, L’Arcadia: storia e delineamento di una struttura, raccolto in Id., Il «soggetto» del furioso e altri saggi tra Quattro e Cinquecento, Napoli, Liguori, 1974, pp. 9-64, in part. le pp. 21-24), la questione della relazione cronologica con le piu` antiche egloghe della Pastorale di De Jennaro sembra presentarsi ancora problematica, dal momento che l’influenza di quest’ultimo sulle egloghe piu` antiche dell’Arcadia (I, II y VI), che pareva doversi considerare un fatto acquisito, grazie ai lavori della Corti (Le tre redazioni, cit.; Rivoluzione e reazione stilistica, cit., p. 314), e` stata messa in dubbio da Velli, Sannazaro e le «Partheniae Myricae», cit., p. 33.

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PARTE TERZA

passaggio dalla pratica estravagante all’opzione per il libro strutturato, durante la prima meta` degli anni ottanta, quando nacque quel Libro pastorale nominato Arcadio, che costituı` la prima redazione del prosimetro, composto da dieci unita` (prosa piu` egloga), introdotte da un prologo12. Scrittore sempre insoddisfatto dei compromessi, e che percio` amava ritornare sulla pagina scritta per rifiutare o consolidare alcune scelte, il Sannazaro – tra il ’91 e il ’9613, probabilmente – rimise di nuovo mano all’opera, sottoponendola a una puntuale e significativa revisione: le unita`, in prosa e in verso, furono ampliate a dodici; le egloghe subirono «un gioco sottile di rifacimenti e correzioni, maturati all’ombra pacificante del Petrarca»14; le stesse prose non furono esenti da interventi che incisero soprattutto sul piano linguistico. Il libro pastorale si era trasformato cosı` nell’Arcadia, come noi la leggiamo – e i lettori del Cinquecento lo fecero –, a partire dall’edizione summontina del 150415. Ripercorrere le diverse fasi della formazione dell’opera sarebbe, forse, il modo migliore per arrivare a comprendere la natura del nuovo modello bucolico che, all’alba del secolo, soppiantando definitivamente l’egloga quattrocentesca, si era nutrita della precoce esperienza senese e fiorentina. Temo, tuttavia, che cio` richiederebbe uno 12

La prima redazione del prosimetro dovette essere terminata nel 1484 «o poco piu` oltre», secondo la testimonianza di Niccolo` Liburnio, sul quale ha richiamato l’attenzione per primo C. Dionisotti, Niccolo` Liburnio e la letteratura cortigiana, in «Lettere italiane», XIV (1962), pp. 57-58, e che e` stata poi ripresa anche da Velli, Sannazaro e le «Partheniae Myricae», cit., pp. 14-15. Tuttavia, si veda ora il cap. III, Il Libro intitulato Archadio: un’ipotesi di datazione, di M. Riccucci, Il Neghittoso e il Fier Connubbio: Storia e filologia nell’Arcadia di Jacopo Sannazaro, Napoli, Liguori, 2001, pp. 161-204, dove si legge: «una serie di indizi induce a credere che il libro Archadio abbia cominciato a prendere forma nel 1482-83 e che sia stato presentato alla Duchessa di Calabria a distanza di pochissimo tempo, se non addirittura a ridosso della composizione della decima egloga: quando ancora non era stata firmata la pace tra Innocenzo VIII e Ferrante (11 agosto 1486) e dunque tra il 14 gennaio e l’11 agosto dell’anno 1486» (p. 165). 13 Secondo la Corti, «l’attivita` correttoria inizio` nel periodo di relativa tranquillita` seguito in Napoli alla restaurazione aragonese, cioe` dopo il 1496» (Il codice bucolico, cit., p. 312). La proposta del periodo 1491-1495 risale a E. Carrara, Sulla composizione dell’«Arcadia», in «Bullettino della Societa` filologica romana», VIII (1906), pp. 27-48; e, piu` recentemente, e` stata ripresa da Velli, Sannazaro e le «Partheniae Myricae», cit., pp. 33-41. 14 Corti, Rivoluzione e reazione, cit., p. 311. 15 Per i processi redazionali, con ampie illustrazioni relative alla struttura del testo cosı` come alla sua lingua e stile, risultano fondamentali i menzionati studi della Corti: Le tre redazioni, Il codice bucolico, Rivoluzione e reazione; a cui si aggiunga L’impasto linguistico dell’«Arcadia» alla luce della tradizione manoscritta, in «Studi di Filologia italiana», XXII (1964), pp. 587-619. Un quadro del processo redazionale globale offre il piu` recente volume di G. Villani, Per l’edizione dell’«Arcadia» del Sannazaro, Roma, Salerno, 1989; dello stesso autore si veda anche l’utile e documentata sintesi in Arcadia, cit., pp. 869-72.

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L’EGLOGA A NAPOLI TRA SANNAZARO E GARCILASO

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spazio maggiore di quello a mia disposizione. Rivolgiamoci, pertanto, direttamente al testo definitivo, che e` come, in effetti, l’opera circolo` tra i lettori del nuovo secolo, a partire dalla princeps citata, o – meglio ancora – in una delle numerosissime edizioni cinquecentesche (nell’ordine di una settantina), che si succedettero a cominciare dalla prima giuntina o dalla prima aldina, entrambe del 151416. Orbene, nel passaggio dalle prime egloghe estravaganti alla provvisoria redazione del Libro pastorale, sino ad arrivare all’assetto definitivo dell’Arcadia, un dato sembra imporsi con assoluta evidenza. Non c’e` dubbio, difatti, che l’autore, da una fase all’altra, ando` progressivamente realizzando un unico e coerente disegno che, pur nella pluralita` dei livelli di esecuzione, ebbe come risultato quello di ridurre la poesia bucolica nell’orizzonte della lirica, mettendo a segno parimenti un doppio ritorno, a Virgilio e a Petrarca. Questa e`, tra le altre, una delle principali conclusioni del bel saggio di Edoardo Saccone, che – in proposito – afferma: Il genere pastorale [...] posto [...] da Sannazaro sotto il segno di Virgilio e Petraca, si e` andato in lui con chiarezza e coscienza via via crescenti, sempre piu` avvicinandosi, e a tratti risolvendosi nel genere lirico17

e di seguito segnala l’emblematico riscontro di un tale programma in una delle prime egloghe dell’Arcadia, la seconda, dove la Zampogna di Montano e la lira di Uranio risultano «agguagliate», poste cioe` sullo stesso piano: Egli e` Uranio, il qual tanta armonia Ha ne la lira, et un dir sı´ leggiadro, che ben s’agguaglia a la sampogna mia (vv. 16-18)

versi nei quali, va senza dire, mentre la zampogna rappresenta la poesia pastorale, la lira e` il simbolo di quella lirica. Ma cosa significa, esattamente, che con l’Arcadia Sannazaro ridusse la bucolica nell’orizzonte della lirica? Per prima cosa possiamo dire che egli recupero` l’amore come tema predominante del 16

Ampia informazione sulle edizioni cinquecentesche dell’opera di Sannazaro, il lettore trovera` in Villani, Per l’edizione dell’«Arcadia», cit., e nella «Nota sul testo» di A. Mauro nella sua edizione di J. Sannazaro, Opere Volgari, Bari, Laterza, 1961, pp. 415-35. 17 Saccone, L’Arcadia: storia e delineamento, cit., p. 38.

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PARTE TERZA

genere pastorale, lasciandosi alle spalle quella «ridottissima diffrazione rispetto al reale»18, ossia quel «continuo ammiccare» alle vicende politiche e letterarie della vita cittadina, che – come abbiamo visto – caratterizzava l’egloga quattrocentesca. Nell’Arcadia, difatti, quest’elemento subisce un netto ridimensionamento, sebbene non scompaia del tutto, come testimoniano – per esempio – le egloghe sesta e decima, che con maggiore difficolta` si lasciano ricondurre al tema d’amore, e dove riaffiora la tematica del «guasto del secolo», nel mondo arcadico (la sesta), cosı` come nel regno di Napoli (la decima). E, tuttavia, se vista nel suo complesso, l’Arcadia non puo` non apparirci come una singolare variazione sulla tematica del desiderio. In tal senso, l’approdo sempre piu` convinto alla lezione petrarchesca del Canzoniere risultava ineluttabile, era un elemento – per cosı` dire – prestabilito del disegno che progressivamente si andava identificando e, al tempo stesso, realizzando, man mano che l’opera procedeva verso l’assetto definitivo. Sull’argomento dovro` presto tornare. Ma, e Virgilio, l’altro modello, sotto la cui guida Sannazaro porto` a termine il rinnovamento del genere? Nell’ampio riferimento alle Bucoliche virgiliane, contenuto nella Prosa X, il poeta napoletano, per bocca del «savio sacerdote» Enareto, passa in rassegna – con la sola esclusione della settima e della nona – la maggior parte delle egloghe, delimitandone la tematica19; ebbene – come nota il gia` menzionato Saccone – «l’amore sembra in effetti quasi l’unico tema, certo il predominante, che il Sannazaro intende sottolineare nelle bucoliche virgiliane»20. Si tratta, naturalmente, di una lettura tendenziosa di Virgilio, funzionale alla propria definizione della bucolica, sulla quale ci converra` tornare, quando si porra` la questione del rapporto tra Sannazaro e Garcilaso. Se, dunque, la riduzione della bucolica all’ambito della lirica costituisce il fattore che meglio e piu` in generale definisce il rinnovamento prodotto dall’Arcadia, le sue conseguenze furono davvero molteplici, sia sul piano formale che su quello tematico. Limitiamoci alle sole egloghe, ai componimenti – cioe` – propriamente in versi. Sul 18 Velli, Sannazaro e le «Partheniae Myricae», cit., p. 52 n. 36. Per una lettura «politica», si veda, invece, M. Santagata, L’alternativa ‘arcadica’ del Sannazaro, in La lirica aragonese, cit., pp. 342-74. Nella stessa linea, M. Riccucci, Jacopo Sannazaro e la scelta del genere bucolico, in G. D’Agostino e G. Buffardi (a cura di), Atti del XVI Congresso Internazionale di Storia della Corona d’Aragona (Napoli, 1997), Napoli, Paparo Edizioni, 2000, vol. II, pp. 1575-602, e, con maggiore estensione, il piu` recente libro di Ead., Il Neghittoso e il Fier Connubio, cit. 19 Sannazaro, Arcadia, pr. X 17-18, p. 169 dell’ed. cit. 20 Saccone, L’Arcadia: storia e delineamento, cit., p. 15.

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L’EGLOGA A NAPOLI TRA SANNAZARO E GARCILASO

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piano dei contenuti, difatti, sin dalla prima egloga, interamente dedicata al canto disperato di Ergasto, fino a quella conclusiva che contiene il canto di Meliseo «in doglia e lacrime» (v. 62) per la morte dell’amata Filli, pressoche´ tutti i componimenti insistono sul tema amoroso, variandone i modi e i toni, pur rimanendo sostanzialmente fedeli al motivo dell’amore infelice e del desiderio inappagato. A questo, in fondo, sembrano adeguarsi, oltre i gia` citati componimenti estremi, anche i sospiri di Montano e Uranio dell’egloga seconda, la canzone intonata da Galicio per Amaranta nella terza, il doppio canto di Logisto ed Elpino nella quarta, i turbamenti di Sincero e Clonico nelle egloghe settima e ottava e, naturalmente, le centrali storie di Carino e Sincero, le cui vicende amorose appaiono parallele e antitetiche, al tempo stesso. Ciononostante, in un limitato numero di componimenti il tema amoroso risulta assente, come nel caso del doppio canto funebre di Ergasto per Androgeo e Massilia nella quinta e undicesima egloga; o come nel caso, ancora piu` evidente e significativo, dei due componimenti che denunciano il «guasto del secolo» a favore dell’eta` dell’oro, e dove percio` sembra rispuntare – come si e` gia` detto – la piu` vistosa caratteristica tematica della superata egloga quattrocentesca. D’altro lato, sarebbe un errore voler ignorare che l’integrazione di certe egloghe nel libro non sempre risulta un’operazione perfettamente riuscita, aspetto che introduce il difficile problema dell’unita` dell’opera, a cui dovremo accennare, non prima – pero` – di aver fornito qualche breve ragguaglio sull’aspetto formale – metrico e stilistico – delle egloghe stesse. Ho gia` ricordato che, prima che nascesse il progetto dell’Arcadia, il giovane Sannazaro si era dedicato alla composizione di alcune ` anche egloghe sciolte, alla stregua di altri letterati napoletani. E certo, grazie agli studi della Corti, che tre di esse vennero recuperate al progetto del libro, dove occuparono stabilmente la prima, seconda e sesta posizione. Orbene, la metrica di queste composizioni mostra come all’epoca su Jacopo operasse decisamente l’influsso della poesia bucolica quattrocentesca, del modello senese in particolare. Difatti, se la polimetria della prima egloga rimanda direttamente all’Arzocchi, l’impiego di terzine sdrucciole per lo piu` frottolate delle altre due confermava la forma specifica che, in quanto a metrica, l’egloga aveva assunto nella fase matura del suo sviluppo quattrocentesco. Con la realizzazione del libro, tuttavia, la spinta rinnovatrice emerge con forza, tanto e` vero che furono promosse a forme metriche dell’egloga, forme consacrate dalla tradizione lirica petrarchesca: due

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PARTE TERZA

egloghe, difatti, si presentavano come canzoni, nel metro – nientemeno – di Chiare, fresche e dolci acque e di Se ’l pensier che mi strugge; e altre due assumevano la veste metrica della sestina, «consegnata dal medesimo Petrarca ai fasti della lirica fino ai giorni nostri»21. Ma, in verita`, se astraiamo dal fattore metrico, l’intuizione di uno sviluppo lirico della bucolica risultava gia` tangibile nelle stesse egloghe sciolte, che precedettero l’ideazione del libro. Non c’e` alcun dubbio, difatti, che gia` in queste prime egloghe, Sannazaro operi, a livello di linguaggio poetico, su un doppio registro, il primo dei quali riporta al modello bucolico quattrocentesco, senese e toscano, mentre il secondo rinvia alla presenza, maggiormente accentuata, della lezione petrarchesca, di quella del Canzoniere in particolare. L’oscillare tra i due registri indicati, oltre che indizio dell’irresolutezza in cui ancora si dibatteva il giovane poeta, lascia pero` scorgere una precisa direttrice lungo la quale probabilmente egli si sarebbe mosso, qualora avesse deciso – come di fatto fece – di impegnarsi ulteriormente nella poesia pastorale. Insomma, in questa primissima fase, l’accentuata presenza di stilemi petrarcheschi, accanto a tratti desunti dal linguaggio bucolico quattrocentesco, lascia chiaramente prevedere la formazione di un nuovo modello bucolico che, incamminato verso la lirica e nutrito dalla lezione petrarchesca, avrebbe finito per rinnovare profondamente il genere cosı` nei temi e nelle forme metriche, a cui ho gia` avuto modo di accennare, come nello stile; aspetto – quest’ultimo – che cerchero` di illustrare concretamente con un solo esempio estrapolato dall’egloga II, ossia da una delle egloghe precedenti l’Arcadia, che ebbero circolazione estravagante. Se leggiamo rapidamente i versi che pronuncia il pastore Montano, alla fine dell’egloga, nella prima redazione dell’opera: Pastor, che sete intorno al cantar nostro, se algun di voi ricerca fuogho e escha per riscaldar lo ovile, non bisogna focile ma venite al mio cor ch’io ve’l dimostro; che in fuogho e’n fiamma ognior piu` se rinvescha dal dı´ ch’io vidi l’amoroso sguardo, ove anchor ripensando aghiaccio et ardo (vv. 117-124)

21 De Robertis, L’ecloga volgare, cit., dove il lettore trovera` un’esposizione fondamentale della relazione tre le varie soluzioni metriche delle egloghe dell’Arcadia e la tradizione che le presuppone, in part. pp. 62-66; la citazione e` dalla p. 62.

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L’EGLOGA A NAPOLI TRA SANNAZARO E GARCILASO

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Lezione petrarchesca e linguaggio bucolico quattrocentesco convivono l’una accanto all’altro; per intenderci facilmente: l’ossimoro «aghiaccio et ardo» segue a breve distanza la rima ovile / focile, prelevata dai bucolici anteriori. Una tale contemperanza stilistica risulta attenuata, o cancellata addirittura, nella redazione definitiva, dove i versi centrali possono leggersi nella seguente versione:

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per riscaldar la mandra, vegna a me salamandra, felice inseme e miserabil mostro, con cui convien ch’ognor l’incendio cresca

completamente rifatti con un piu` massiccio richiamo a microunita` stilistiche delle Rime22. In conclusione, con l’Arcadia del 1504, l’egloga ne usciva del tutto rivoluzionata, per tematica, metrica e stile. Ma la novita` maggiore dell’Arcadia consisteva, senza dubbio alcuno, nell’ideazione di un libro strutturato, che pertanto supponeva il superamento delle egloghe sciolte, la cui presenza risultava rifunzionalizzata all’insieme piu` organico del prosimetro che le conteneva. Tuttavia, sarebbe ingiusto considerare univoco il rapporto che lega il radicale rinnovamento dell’egloga all’ideazione del libro strutturato. Difatti, se e` vero che la realizzazione del libro spinse l’autore a una maggiore risolutezza nella trasformazione dell’egloga, e` altrettanto vero che il doppio registro gia` presente nelle egloghe sciolte dovette suggerirgli l’idea di un loro superamento, a favore di un progetto piu` ampio e unitario. ` Ma davvero l’Arcadia puo` essere considerata un’opera unitaria? E noto che, in proposito, non esiste unanimita` di giudizio, dal momento che c’e` chi ha reputato l’opera un coacervo incoerente, che rispecchia le numerose e complesse fasi di elaborazione, e che – pertanto – non e` esente da incongruita` e dissolvenze; ma c’e` anche chi, con autorevolezza non minore, ha invece difeso il carattere unitario e l’organica strutturazione del libro, pur concedendo che il tormentoso processo che porto` alla sua realizzazione ha lasciato inevitabili tracce nel prodotto definitivo, dove e` – difatti – possibile

22 Per la prima redazione dell’Arcadia bisogna ricorrere ancora a «Arcadia» di Jacopo Sannazaro secondo i manoscritti e le antiche stampe, a c. di M. Scherillo, Torino, Loescher, 1888. Per l’esempio addotto, si veda anche Corti, Rivoluzione e reazione stilistica, cit., pp. 319-20 e Saccone, L’Arcadia, storia e delineamento, cit., p. 29, dove si troveranno i riferimenti esatti al Canzoniere petrarchesco (CLXV, 8-9, 13; CCVII, 40-44).

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

PARTE TERZA

ravvisare un’armonizzazione non del tutto riuscita e un’integrazione non perfetta di certe egloghe23. In ogni caso, e` evidente che l’idea del libro strutturato e` tutt’uno con la presenza dell’io nel mondo pastorale: una presenza che, nella prima parte dell’opera, compare appena nella discretissima figura dell’«osservatore insieme partecipe e distaccato rispetto al mondo dei pastori»24; emerge, poi, con piu` precisi connotati nella prosa sesta, in un passo decisivo: «Finalmente io (al quale e per la allontananza de la cara patria e per altri giusti accidenti ogni allegrezza era cagione di infinito dolore)...»25; e` protagonista, infine, del racconto autobiografico della prosa settima, che prosegue e culmina nel ritorno in patria nell’ultima prosa del testo definitivo. Pur con le inconfutabili indecisioni e discrepanze, il libro finisce col delineare il racconto di un viaggio di andata e ritorno, compiuto da Sincero – Sannazaro: da Napoli alle selve dell’Arcadia, e da questa di nuovo a Napoli, o – meglio – alle selve napoletane, perche´ la storia si conclude presso le rive del Sebeto, ai piedi del colle, dove il rimpatriato ritrova «Barcinio e Summonzio, pastori fra le nostre selve notissime»26. E, tuttavia, sarebbe un errore accordare un eccesso di favore alla dimensione narrativa dell’opera; sbaglierebbe, insomma, chi pretendesse di fare dell’Arcadia il primo romanzo pastorale. Il significato del libro, allora, piu` che in un’infondata volonta` affabulatrice, va ricercato piuttosto nel graduale affioramento di una soggettivita`, che – nel corso dell’opera – va acquistando, via via, sempre piu` forma e consistenza, e che – del resto – fa tutt’uno con quel processo di liricizzazione, con cui – come abbiamo visto – Sannazaro rinno-

23 A favore di una contraddizione tra la prima e la seconda parte dell’Arcadia si era gia` ` stata, tuttavia, la Corti che, pronunciato Carrara, La poesia pastorale, cit., p. 193. E nell’apportare il massimo contributo alla conoscenza del processo redazionale dell’Arcadia, ha sottolineato lo sviluppo narrativo che l’opera riceve nella seconda parte, concludendo il suo studio su Il codice bucolico, cit., con l’affermazione secondo la quale «nella seconda Arcadia la crisi del sistema delle fonti coincide con la crisi della struttura dell’opera. [...] Il solo livello unitario della seconda redazione e` in certa misura il linguistico» (p. 304). All’individuazione di una struttura coerente dell’opera sono tesi gli sforzi di due studiosi, autori di altrettanti lavori importanti sull’Arcadia, sebbene raggiungano risultati distinti in relazione soprattutto al valore che l’autore assegna alla poesia bucolica: Saccone, L’Arcadia: storia e delineamento, cit., e F. Tateo, La crisi culturale di Jacopo Sannazaro, in Id., Tradizione e realta` nell’Umanesimo italiano, Bari, Dedalo, 1974, pp. 11-109, in part. pp. 11-70. Alla struttura globale dell’opera e alla ricostruzione del suo ordinato equilibrio interno sono dedicate le pagine finali dello studio di Velli, Sannazaro e le «Partheniae Myricae», cit., pp. 42-56. 24 Velli, Sannazaro e le «Partheniae Myricae», cit., p. 44. 25 Sannazaro, Arcadia, pr. VI 4; ed. cit., p. 107. 26 Ivi, pr. XII 48; ed. cit., p. 222.

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L’EGLOGA A NAPOLI TRA SANNAZARO E GARCILASO



` , dunque, in rapporto a questo nucleo centrale di vava la bucolica. E significato, ossia: la progressiva emersione di una soggettivita` rappresenta dal personaggio di Sincero, da cui viene come filtrato il mondo dei pastori osservato e descritto da quell’«esule volontario»; e` in rapporto a tale nucleo – dicevo – che andrebbero commisurate tutte le altre materie e i singoli temi che, via via, si affacciano ed espandono nel corso dell’opera: dal tema predominante del desiderio inappagato che pervade l’intero libro, a quello della morte che si concentra nella parte finale, con i tre lutti femminili di Massilia, di Filli e della «singulare Fenice»; e ancora: dal connubio di natura, come ordine perduto, e di arte o artificio, a cui si affida il recupero della perdita, all’intreccio tra concreta storicita` individuale, da un lato, e realta` arcadica, mitica e atemporale per definizione, dall’altro. Come tali materiali si coagulino in un insieme coerente di significati, e` davvero un’impresa troppo ardua per essere tentata nel poco tempo che rimane, e che vorrei invece impiegare per tornare all’aspetto essenziale della definizione e delimitazione della bucolica, come la concepı` e concretamente realizzo` Sannazaro; un aspetto che – come si vedra` – ci fara` da ponte verso le egloghe di Garcilaso. Ma, prima di entrare in quest’ultima impegnativa questione, concediamoci non piu` di una rapida occhiata sulle sorti del genere bucolico a Napoli, nel trentennio circa che separa l’edizione summontina dell’Arcadia dal primo esperimento bucolico di Garcilaso. Ebbene, nel periodo che ora c’interessa, nonostante il momento di massima fortuna del genere e la supremazia di Sannazaro, a ` vero che, nel 1508, poco dopo la Napoli la bucolica scomparve. E morte dell’autore, si pubblico` la Pastorale di Pietro De Jennaro, ma l’opera era il frutto di una stagione superata della bucolica. Non si verifico` lo stesso fuori di Napoli, dove si produssero alcune significative novita`, come quella metrica: qui, difatti, l’egloga prese la strada dell’endecasillabo sciolto che, dopo l’esempio dell’Alemanni subito seguito dal Trissino, finı` per imporsi in sostituzione della terza rima. In cambio, a Napoli, nei primi tre decenni del secolo, l’egloga fu solo latina: in cio` poeti come Egidio da Viterbo, Pomponio Gaurico, Girolamo Angeriano e Giano Anisio seguirono, in sostanza, l’esempio dello stesso Sannazaro che, di ritorno dall’esilio francese nella primavera del 1505, portava a cinque le Eclogae piscatoriae, lasciando incompiuto un frammento della sesta27. Bisognera` attendere la 27

Cfr. Vecce, L’egloga Melisaeus, cit., pp. 213-16.

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

PARTE TERZA

quarta decade del secolo per assistere a Napoli alla rinascita dell’egloga in volgare. In non piu` di un lustro, un gruppo di poeti, tutti – o quasi – amici di Garcilaso, ne promosse il risveglio: all’inizio della decade dovrebbe, infatti, risalire I due pellegrini di Tansillo; tra il ’31 e il ’34, Tasso compose la sezione delle sette egloghe che provvide a pubblicare nella seconda edizione degli Amori; nel ’33, Bernardino Rota componeva ben 13 egloghe piscatorie, che furono stampate molti anni dopo; al ’35, infine, risalgono le tre egloghe di Antonio Minturno, con le quali fu introdotta a Napoli la novita` metrica del genere, che ho appena ricordato28. Alla fine e – direi – al culmine di questo percorso napoletano, ritroviamo Garcilaso. Non sorprende che giunto a Napoli nel ’32, in un contesto culturale e poetico che vantava una tradizione egloghistica da piu` di mezzo secolo – a partire da quell’episodio dell’ormai lontano 1468 con cui ho dato inizio a queste note –, e in un clima di fervido e rinnovato interesse per l’egloga in volgare; non sorprende – dunque – che Garcilaso decidesse di «llevar [...] el patrio celebrado y rico Tajo» «por un camino hasta agora enjuto», seguendo in cio` «a Tansillo, a Minturno, al culto Tasso». Sono parole e versi programmatici, che – a mio parere – vanno ben al di la` del semplice proposito di seguire l’esempio dei sodali menzionati nell’elogio della nobildonna Marı´a de Cardona, e che lasciano intravedere il piu` ampio e impegnativo intento di fecondare con la sua arte l’arido terreno della poesia spagnola, allo scopo di far germogliare in esso il frutto dei nuovi generi poetici, di quelli neoclassici in particolare29. Lo fece, in primo luogo,

28 Sullo sviluppo dell’egloga cinquecentesca risulta ancora utile Carrara, La poesia pastorale, cit., pp. 383 ss. I due pellegrini di Tansillo e` accesibile solo nella vecchia edizione contenuta in L’egloga e i poemetti, a c. di F. Flamini, Napoli, Biblioteca napoletana di storia e letteratura, 1893, pp. 1-46. Su questo componimento possono leggersi le pagine di F. Tateo, Giardino principesco e Paradiso biblico, in Chierici e feudatari del Mezzogiorno, RomaBari, Laterza, 1984, pp. 115-43, in part. pp. 120-25. Per le egloghe di Tasso e di Rota, si vedano ora: B. Tasso, Rime, a c. di D. Chiodo, Torino, Res, 1995, vol. I, pp. 261-87; B. Rota, Egloghe piscatorie, Torino, Res, 1990. Infine, per quanto riguarda i componimenti bucolici di Alamanni e Trissino, si puo` ricorrere a: L. Alamanni, Versi e prose, a c. di P. Raffaelli, Firenze, Le Monnier, 1859, 2 voll.; G. Trissino, Rime 1529, a c. di A. Quondam, Vicenza, Neri Pozza, 1981. 29 Per il testo del sonetto Illustre honor del nombre de Cardona, si veda Garcilaso de la Vega, Obra poe´tica y textos en prosa, a c. di B. Morros, Barcelona, Crı´tica, 1995, pp. 45-46. Su di esso, si veda anche il breve commento di D. L. Heiple, Garcilaso de la Vega and the Italian Renaissance, Pennsylvania, The Pennsylvania State University Press, 1994, pp. 275-77, e le mie fugaci osservazioni in Garcilaso de la Vega e la nuova poesia in Spagna, dal retaggio cancioneril ai modelli classici, in U. Criscuolo (a cura di), Mnemosynon. Studi di letteratura e di umanita` in memoria di Donato Gagliardi, Napoli, Pubblicazioni del Dipartimento di Filologia

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L’EGLOGA A NAPOLI TRA SANNAZARO E GARCILASO

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con una lunga egloga – la seconda –, i cui debiti nei confronti dell’Arcadia sono cosı` palesi e molteplici da giustificare l’idea che in lui operasse la deliberata volonta` di misurarsi col Sannazaro sul terreno della concezione generale della bucolica, spingendo cosı` il rapporto col modello oltre i limiti della pur fondamentale scelta metrica, o della macroscopica versificazione della prosa VIII, e di altre piu` puntuali riprese testuali30. Del resto, e` ovvio che per un poeta della genialita` di Garcilaso l’assimilazione di un modello non va mai separata dalla propensione a intraprendere nuove rotte. Proprio dalle pagine di Lapesa che ho ricordato all’inizio, sappiamo che l’egloga II pone un difficile problema d’unita`, che il maestro ha in parte risolto sul piano formale, riconoscendo il gioco di simmetrie sotteso all’impiego delle diverse forme metriche; una ricognizione che, tuttavia, non gli ha impedito di ribadire la mancanza di «toda la cohesio´n este´tica deseable»31. Non credo che i componiClassica «Francesco Arnaldi» dell’Universita` degli Studi di Napoli “Federico II”, 2001, pp. 267-82 [ora raccolto in questo volume, pp. 141-56]. 30 Considerata da Lapesa «la mina ma´s explotada» da Garcilaso nella sua seconda egloga (La trayectoria, cit., p. 107), all’Arcadia e alle sue relazioni con il componimento di Garcilaso sono dedicate molte delle pagine del libro di I. Azar, Discurso reto´rico y mundo pastoral en la «Egloga segunda» de Garcilaso, Amsterdam, John Benjamins, 1981, pp. 84-119, cosı` come le puntuali note, a pie di pagina e complementari, di B. Morros nella sua citata edizione di Garcilaso de la Vega, Obra poe´tica y textos en prosa, pp. 141 ss. 31 Lapesa, La trayectoria, cit., p. 115, per la «disposicio´n notablemente sime´trica», si vedano le pp. 98-100. Al carattere eterogeneo dell’egloga, sul quale si era gia` pronunciato per primo Herrera (Garcilaso de la Vega y sus comentaristas, a c. di A. Gallego Morell, Madrid, Gredos, 1972, p. 501, H-503), e ai vari tentativi di ricomporre la sua unita` di costruzione e di significato e` dedicata la maggior parte dei contributi critici sul componimento, tra i quali si vedano almeno: A. Lumsden, Problems connected with the Second Eclogue of Garcilaso de la Vega, in «Hispanic Review», XV (1947), pp. 251-71; M. Arce de Va´zquez, La Egloga segunda de Garcilaso, in «Asomante», V (1949), n˚ 1, pp. 57-73 e n˚ 2, pp. 60-78; I. Macdonald, La Egloga II de Garcilaso (1950), raccolto in E. L. Rivers (a cura di), La poesı´a de Garcilaso, Barcelona, Ariel, 1974, pp. 209-35; R. O. Jones, The Idea of Love in Garcilaso’s Second Eclogue, in «Modern Language Review», XLVI (1951), pp. 388-95; P. M. Komanecky, Epic and Pastoral in Garcilaso’s Eclogues, in «Modern Language Notes», LXXXVI (1971), pp. 154-66; E. L. Rivers, Nymphs, Shepherd and Heroes: Garcilaso’s Second Eclogue, in «Philological Quarterly», LI (1972), pp. 123-34; P. Waley, Garcilaso’s Second Eclogue is a Play, in «Modern Language Review», LXXII (1977), pp. 585-96; I. Azar, Discurso reto´rico, cit., in part. il cap. La estructura reto´rica de la Egloga segunda, pp. 120-39; D. Ferna´ndez–Morera, The Lyre and the Oaten Flute: Garcilaso and the Pastoral, London, Tamesis, 1982, pp. 54-72; S. Zimic, Las e´glogas de Garcilaso de la Vega: ensayos de interpretacio´n, in «Boletı´n de la Biblioteca de Mene´ndez Pelayo», LXIV (1988), pp. 5-107, in part. le pp. 35-78; A. Ramajo Can˜o, Para la filiacio´n literaria de la Egloga II de Garcilaso, in «Revista de Literatura», LVIII (1996), pp. 27-45; M. A. Wyszynski, Friendship in Garcilaso’s Second Ecloghe: Thematic Unity and Philosoplical Inquiry, in «Hispanic Review», LXVIII ´ gloga II, in «Revista de Literatura», (2000), pp. 397-414; A. Garcı´a Galiano, Relectura de la E LXII (2000), pp. 19-40.

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PARTE TERZA

menti menzionati da Ferna´ndez Morera: dalle egloghe latine del Boiardo al Tirsi di Castiglione al pezzo di Pietro Corsi, valgano a dare conto totale della prima prova pastorale di Garcilaso32, la cui comprensione si avvantagerebbe – opino – da un raffronto con Sannazaro, in termini di concezione generale della bucolica. Torniamo, percio`, brevemente al napoletano. In piu` di un’occasione e con varieta` di forme, Sannazaro nell’Arcadia si preoccupo` di precisare i limiti del genere bucolico, e lo fece coerentemente con la sua idea di liricizzazione del genere. Cio` si verifica in almeno quattro occasioni nel corso dell’opera: sia per voce diretta dell’autore, nel prologo e nell’epilogo «A la sampogna»; sia per via indiretta, attraverso il personaggio di Carino, nel vaticinio che questi pronuncia nei confronti di Sincero, molto piu` estesamente, attraverso il «savio sacerdote» Enareto, il quale – nella decima prosa – traccia a grandi linee una storia della poesia pastorale, dalle mitiche origini del «selvatico idio» Pan sino al «mantuano Titiro» – Virgilio –, passando per il «pastore siracusano», ossia Teocrito. Lo spazio maggiore di tale storia e` dedicato, naturalmente, al poeta latino, a proposito del quale ho gia` accennato alla lettura tendenziosa che Sannazaro compie delle sue egloghe. Ma poiche´ non tutte le celebri composizioni del mantovano potevano essere lette in chiave liricoamorosa, Sannazaro fu costretto a far dire a Enareto che il mantovano non contentandosi di sı´ umile suono, vi cangio` quella canna che voi ora vi vedete piu` grossa e piu` che le altre nova, per poter meglio cantare le cose maggiori e fare le selve degne degli altissimi consuli di Roma33. 32 Ferna´ndez-Morera, The Lyre and the Oaten Flute, cit., pp. 63-64. Naturalmente non si mette in dubbio la diffusione nella letteratura neolatina come in quella in volgare dell’egloga di tema celebrativo e encomiastico, o di quella che combina, in varie forme e misure, il tema amoroso con quello encomiastico. Ma, una volta accettata la conclusione dello stesso Ferna´ndez-Morera, secondo la quale «we can accept the “hybridism” of Garcilaso’s work as intentional, justified by the tradition of the form» (p. 65), credo che gli autori menzionati dallo studioso non risultano granche´ utili a comprendere il senso di un componimento come l’egloga seconda, e neppure a precisare l’elaborazione concettuale relativa alla bucolica che guida il toledano nel suo primo esperimento del genere. Per un ampio panorama dell’egloga neolatina, celebrativa e panegirica, si vedano i capp. X e XI di W. L. Grant, Literature and the Pastoral, Chapel Hill, University of North Carolina Press, pp. 290-330 e 331-70, rispettivamente. Le egloghe latine di M. M. Boiardo possono ora leggersi in Pastoralia, a c. di S. Carrai, Padova, Antenore, 1996; mentre per l’opera bucolica di Castiglione e Gonzaga, si veda lo studio e l’edizione di C. Vela, Il Tirsi di Baltassar Castiglione e Cesare Gonzaga, in Carrai (a cura di), La poesia pastorale, cit., pp. 245-92. 33 Sannazaro, Arcadia, pr. X 19, ed. cit., p. 170.

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L’EGLOGA A NAPOLI TRA SANNAZARO E GARCILASO



Insomma, non contento dello stile umile della poesia pastorale, Virgilio aggiunse un’ottava canna – «piu` grossa e piu` che le altre nova» – alle sette di cui era gia` dotata la zampogna ereditata da Pan e da Teocrito. Grazie ad essa, il poeta latino fu in grado di elevare il genere pastorale alle «cose maggiori», a una poesia – cioe` – piu` nobile e dotta, che altra non era che il civile carmen34. Fu cosı` che l’umile bucolica ebbe accesso ai nobili palazzi, e le selve furono degne dei grandi, con ripresa letterale del celebre verso della quarta bucolica virgiliana: «si canimus silva, silvae sint consule dignae». Sull’argomento Sannazaro ritorna estesamente nell’epilogo del testo definitivo, quando il «peregrino d’amore», dando per terminata l’esperienza arcadica, e con lo sguardo rivolto alle «fatiche» passate, si dirigera` direttamente alla «rustica e boscareccia sampogna», prima di separarla per sempre dalle sue labbra. Ebbene, pur ribadendo che «in altri tempi sono gia` stati pastori sı´ audaci che insino a le orecchie de’ romani consuli han sospinto il loro stile»35, rimarchera` senza esitare che diversa e` la destinazione che egli reclama per la sua sampogna, esortandola a non seguire quell’esempio, perche´: «A te – dice – non ti appartiene andar cercando gli alti palagi de’ prencipi ne´ le superbe piazze de le populose citta`»36. Il suo luogo sara`, invece, quello appartato, lontano dagli aristocratici palazzi e dalla affollata citta`: «da 37 boschi e da luoghi a te convienti non ti diparte» . Si tratta di un punto estremamente delicato, in cui si riflette – a mio parere – un nodo non del tutto risolto della concezione della bucolica di Sannazaro, il quale – nell’Arcadia – approva e nega al tempo stesso il modello virgiliano. Da un lato, difatti, lo accoglie, fino a darne la lettura tendenziosa che sappiamo, e – d’altro lato – sembra rifiutarlo, denunziandone il fuorviamento dai connaturali monti e selve verso i meno propizi palazzi principeschi delle citta`38. 34

Per l’espressione di civile carmen, si vedano i versi di Giovanni del Virgilio: «... Si cantat oves et Tityrus hircos/aut armenta trahit, quianam civile canebas/urbe sedens carmen...» (Johannes de Virgilio Danti Alagherii Egloga responsiva, vv. 26-28, in Dante Alighieri, Opere minori, tomo II: De vulgari eloquentia, Monarchia, Epistole, Egloge, Questio de aqua et terre, a c. di P. V. Mengaldo et alii, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1979, pp. 674-76). 35 Sannazaro, Arcadia, «A la sampogna», ed. cit., p. 241. 36 Ivi, p. 239. 37 Ivi, p. 240. 38 Tateo ha messo in evidenza che «la soluzione del romanzo [l’Arcadia] [...] include anche un’intenzione di carattere “letterario” nel proposito di mutare “genere”» (La crisi culturale, cit., p. 58). In effetti, nella disgrazia della morte prematura della giovane amata, lo studioso ha visto «il simbolo narrativo della morte della poesia bucolica» (p. 37), il cui superamento risulta evidente nell’aggiunta delle due parti della redazione finale, dove Sannazaro «si cimento` col tema dei giochi funebri, un tema proveniente dall’Eneide, e con

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PARTE TERZA

Credo che, nel concepire l’egloga II, Garcilaso non rimase indifferente al nodo rimasto insoluto nell’opera, che senza dubbio dovette impressionarlo molto per la sua qualita` di libro strutturato non meno che per i concreti risultati delle singole composizioni. Si trattava, pertanto, di trovare una soluzione che, saldando i fili sciolti della bucolica classica e volgare, fosse capace di restituire l’integrale lezione virgiliana (paulo maiora canamus), e di garantire al tempo stesso la fedelta` al nuovo modello pastorale offerto dall’Arcadia. In altri termini, l’operazione difficile e rischiosa che Garcilaso mise in pratica nell’egloga II, consisteva nel tentativo d’integrare in un’unica composizione, organica – almeno nelle intenzioni –, la dolorosa materia amorosa, a cui Sannazaro aveva circoscritto il genere bucolico, e il canto delle «cose maggiori», a cui aveva dato voce Virgilio in alcune delle sue egloghe. Orbene, Garcilaso non si limito` ad accogliere la tematica amorosa dell’Arcadia, nella sua doppia articolazione di malattia d’amore e guarigione da essa, che – come tutti ricordano – si riflette nelle vicende di Albanio e Nemoroso, «tristes amadores» (v. 1091) entrambi: ma il primo e` ancora in preda alla follia d’amore, a causa della passione non corrisposta per Camila; mentre il secondo, gia` tornato «libre y sano» (v. 1097), deve all’«eficaz remedio» (v. 1090) praticato da Severo la guarigione dal mal d’amore. Nell’accogliere tale tematica, Garcilaso sviluppa una possibilita` che nell’Arcadia viene fatta balenare, ma che viene poi consapevolmente rifiutata dall’autore. Mi riferisco a una passo dell’Arcadia, dove l’eventualita` che la bucolica assuma il canto delle «cose maggiori» affiora nel testo, non piu` nella prospettiva passata di storia del genere – come avveniva nella prosa decima, a cui ho gia` accennato –, ma questa volta nella prospettiva futura, a cui e` legata la sorte di Sincero. Mi spiego. Alla fine della prosa settima, dopo aver ascoltato il racconto autobiografico di Sincero, Carino augura allo sventurato che «gli dii ne le braccia lo rechino de la desiata donna» (123), e lo prega di fargli riascoltare «quelle rime che, non molto tempo e`, ti udii cantare ne la pura notte»39. Se Sincero acconsentira`, Carino sapra` come premiarlo, perche´ (ecco il passo che c’interessa): quello del viaggio sotterraneo di Sincero, in cui rivive il mito conclusivo delle Georgiche» (p. 39). Il tema e` stato trattato fugacemente da W. J. Kennedy, Jacopo Sannazaro and the Uses of Pastoral, Hannover-London, University Press of New England, 1983, pp. 104-07 e 147-48. Per una diversa posizione sulla questione, si veda lo studio piu` volte citato di Saccone, in part. p. 63. 39 Sannazaro, Arcadia, pr. VII. 30, ed. cit., p. 123.

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L’EGLOGA A NAPOLI TRA SANNAZARO E GARCILASO

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in guiderdone ti donero` questa sampogna di sambuco [...]; con la quale spero che, se da li fati non ti e` tolto, con piu` alto stile canterai gli amori di fauni e ninfe nel futuro. E sı´ come insino qui i principıˆ de la tua adolescenzia hai tra semplici e boscarecci canti di pastori infruttuosamente dispesi, cosı´ per lo inanzi la felice giovenezza tra sonore trombe di poeti chiarissimi del tuo secolo, non senza speranza di eterna fama, trapasserai40.

Un doppio augurio, dunque, nel quale al superamento della malinconia amorosa va unita di pari passo col pronostico di una bucolica «di piu` alto stile», a cui affidare il canto dei felici amori di fauni e ninfe, fino ad auspicare il riscatto degli anni adolescenziali, mal consumati in «semplici e boscarecci canti», con una gioventu` dedita a una poesia piu` alta e dotta, degna – cioe` – delle «sonore trombe» dei piu` illustri poeti. Un augurio che – come ben sanno i lettori dell’Arcadia – risultera` doppiamente inadempiuto, dal momento che Sincero – Sannazaro, al suo ritorno a Napoli, sara` accolto non tra le braccia della «desiata donna», bensı` dalla tragica notizia della morte di lei; e, soprattutto, perche´ nell’epilogo «A la sampogna» – come abbiamo gia` visto – l’autore, lungi dal riservare alla bucolica il futuro «di piu` alto stile» preconizzato da Carino, si abbandona alla piu` profonda afflizione: «Le nostre Muse sono estinte, secchi sono i 41 nostri rami [...] Non si trovano piu` ninfe o satiri tra i boschi ...» e il passo continua con l’incalzante enumerazione delle condizioni di desolazione in cui e` precipitata la natura arcadica, e che investe la maniera e la funzione stesse della poesia bucolica. A essa, o meglio: allo strumento che la simboleggia, il poeta si rivolge a piu` riprese, per vincolare definitivamente il suo canto a una materia dolorosa: Dunque, sventurata, piagni; piagni, che ne hai ben ragione. [...] Ne´ restar mai di piagnere e di lagnarte de le tue crudelissime disventure

per circoscrivere, inoltre, il suo stile nei confronti dei generi alti: il tuo umile suono mal si sentirebbe tra quello de le spaventevoli buccine e de le reali trombe (239) 40

Ivi. p. 124. Sul passo citato si vedano le osservazioni di Tateo, La crisi culturale, cit., pp. 30-32, dove coerentemente con la sua interpretazione lo studioso sottolinea il «proposito del poeta di abbandonare l’esperienza bucolica dell’adolescenza per un’esperienza addirittura epica (le “trombe di poeti chiarissimi”)», p. 30. Per alcune precisazioni sulle relazione tra «sampogna» e «buccina» o «tromba», si veda Saccone, L’Arcadia: storia e delineamento, cit., p. 38 n. 37. 41 Sannazaro, Arcadia, «A la sampogna», ed. cit., p. 240.

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PARTE TERZA

per assegnarle, infine, il segregato luogo che le e` proprio, lontano dai fasti e dalla mondanita`:

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tra le selve, sı´ come io ti impongo, secretamente e senza pompe star ti vorrai42.

Mi si perdonera` se, giunti a questo punto, mi esprimo con estrema concisione affermando che l’augurio di Carino, rimasto incompiuto nell’Arcadia, trova la sua piena realizzazione nell’egloga seconda di Garcilaso, mediante il pastore Nemoroso. In un contesto naturale armonioso e rappacificato, descritto da Salicio con espressioni che sembrano ricavate ancora una volta da Sannazaro (vv. 43 1146-1153) , il pastore, dalla cui anima Severo ha desarraigado el mal restituye´ndola «a su natura» (vv. 1112 e 1094), puo` dirigere il suo canto verso quelle «cose maggiori», che il Sincero sannazariano volle precludersi: Escucha, pues, un rato, y dire´ cosas Estran˜as y espantosas poco a poco. Ninfas, a vos invoco; verdes faunos, sa´tiros y silvanos, solta´ todos mi lengua en dulces modos y sotiles, que ni los pastoriles ni el avena ni la zampon˜a suena como quiero (vv. 1154-1159).

Alle cose straordinarie che Nemoroso si accinge a cantare non risultano adeguati ne´ i modos pastoriles, ne´ gli strumenti che li producono: «avena» e «zampon˜a»; occorre uno stile piu` alto, che sia direttamente dettato dalle divinita` semidivine dei boschi44. L’Arcadia – e` stato detto – si chiude sotto il segno di un’unica «derelizione che sembra unire le due terre»45: le selve arcadiche e quelle napoletane. I 42

Ivi. pp. 239 e 241, rispettivamente. Mi riferisco ai vv. 1146-1153, a proposito dei quali E. Mele rimando` al passo di Arcadia, pr. X. 58-60 (In margine alle poesie di Garcilaso, in «Bulletin Hispanique», XXXII (1930), p. 225). Per una piu` ampia trattazione, si veda la ‘nota complementaria’ di Morros, ed. cit., pp. 500-01. 44 In effetti, come ha notato Ramajo Can˜o: «Parece como si Garcilaso quisiera tratar, en un poema buco´lico, de asuntos ma´s altos», specificando che «si Virgilio [egl. IV] va a contar la llegada de una nueva edad de oro ante el nacimiento de un sen˜alado nin˜o, Garcilaso tambie´n parece vaticinarnos una e´poca de gloria gracias al nuevo tiempo histo´rico marcado por la hazan˜as de un nuevo Ce´sar, el emperador Carlos, eficazmente asistido por el Duque de Alba» (La filiacio´n literaria, cit., pp. 33-34). 45 ` la conclusione di Saccone nel suo studio L’Arcadia: storia e delineamento, cit., p. 62. E 43

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L’EGLOGA A NAPOLI TRA SANNAZARO E GARCILASO

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fausti auguri non si compiono, l’amore si volge in lutto, la natura e` una sola terra desolata; e al canto bucolico, gia` confinato nel passato: «a me conviene [...] – scrive Sannazaro – per malvaggio accidente da le mie labbra disgiungerti», e` affidata la sola espressione di un dolore inconsolabile: «Non ti rimane altro ormai, sampogna mia, se non dolerti, e notte e giorno con obstinata perseveranza attristarti»46. A trent’anni esatti dalla sua pubblicazione, la risposta del toledano difficilmente poteva essere piu` perentoria: al male c’e` rimedio e il dolore puo` essere guarito; l’anima umana puo` essere strappata alla sofferenza che l’opprime ed essere restituita «a su natura», «de libertad y de reposo» (v. 1109); nei vaticinii propizi c’e` fede nel loro compimento; e il canto bucolico, facendosi portatore di un messaggio di «futura ’speranza» (v.1820), gode di una doppia apertura: predicendo, si schiude al tempo avvenire; aggiungendo una canna «piu` grossa e piu` che le altre nova», rivela il favore di un’epoca, da indurci a ardere insieme a Salicio ... con el deseo por contemplar presente aquel que, ’stando ausente, por tu divina relacio´n ya veo (vv. 1836-1839)47.

46

Sannazaro, Arcadia, «A la sampogna», ed. cit., pp. 238 e 240, rispettivamente. Su «la “visio´n” de una reconciliacio´n e´tica, intelectural, artı´stica de lo diverso» (p. 137), a proposito del canto di Nemoroso, conclude la sua monografia Azar, Discurso reto´rico, cit., la quale continua sottolineando la positiva prospettiva avvenire «El futuro significa ahora la cesacio´n de la desdicha y del conflicto, el desenlace de la historia, la certeza del orden y, tambie´n, el final del poema». 47

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LA «DOPPIA GLORIA» DI ALFONSO D’AVALOS E I POETI-SOLDATI SPAGNOLI ˜ A) (GARCILASO, CETINA, ACUN

1. Erano gia` passati piu` di dieci anni dalla gloriosa battaglia di Pavia (1525) e non piu` di tre dalla conquista di Tunisi (1535), quando il segretario del viceregno di Napoli, l’umanista Bernardino Martirano, decise di rievocare entrambe: la guerra franco-spagnola e la vittoriosa spedizione africana, in un poemetto in ottave, intitolato Il pianto d’Aretusa, dove non poteva, certo, mancare il consueto catalogo degli eroi in partenza per le coste dell’Africa. Impreziosita dai continui ed iperbolici riferimenti mitologici, la sfilata si apre inevitabilmente con la menzione dell’imperatore, e prosegue con ben tre ottave interamente dedicate ad Alfonso d’Avalos, nella prima delle quali si concentrano nei soli quattro versi iniziali fino a cinque identificazioni con eroi e miti classici: Ecco il cristato Achille, il grande Alfonso, per cui tanto e` famoso il vasto Aimone, che rappresenta in un Marte e lo intonso Apollo, 1 il forte Alcide e ’l bello Adone .

Prima individuato col nome dell’eroe guerriero per antonomasia, Achille, poi prontamente indicato col nome proprio, il marchese viene, infine, senz’altro uguagliato a un dio della guerra, che riunisce in se´ la forza di Eracle, la sapienza poetica di Apollo, la bellezza di Adone. Con le tre stanze dell’Aretusa, il segretario napoletano sommava

1 B. Martirano, Il pianto d’Aretusa, a c. di T. R. Toscano, Napoli, Loffredo, 1993, p. 87, ottave 117-9. Sulla data e le vicende di composizione del poemetto, si veda l’esauriente Introduzione del curatore, pp. 7-49, in part. le pp. 17-23.

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PARTE TERZA

la sua voce al vasto coro di letterati italiani che nelle loro opere celebrarono le virtu` del giovane marchese, il quale – com’e` noto – alla fama delle vittorie militari, per cui a soli 26 anni merito` la nomina a comandante generale delle truppe imperiali, unı` la rinomanza delle prove poetiche: prima a Napoli, sotto l’amorevole e severa guida di Vittoria Colonna, e poi a Milano, dove la responsabilita` del governo cittadino non gli impedı` di organizzare un importante cenacolo culturale ne´ di tessere una fitta rete di relazioni con numerosi intellettuali e artisti. Valore militare e abilita` poetiche: la «doppia gloria» a cui alluse il milanese Giovanni Vendramini in un sonetto dedicato al marchese2, ricorrono costantemente nelle apologie letterarie di Alfonso, nel quale finiva cosı` per contemplarsi «l’aulico modello del soldato-cortigiano», come ha osservato Gabriele Morelli nell’intelligente e documentato contributo rivolto a illustrare le «esperienze letterarie» del nostro marchese3. ` noto ai piu` che la gia` copiosa schiera di letterati da cui il E d’Avalos fu celebrato, in italiano e in latino, si accrebbe con l’apporto di tre importanti poeti spagnoli, il cui destino sia di novatori delle patrie lettere, sia di uomini d’armi impegnati nelle campagne imperiali, risulta indissolubilmente unito non solo alle sorti della nostra penisola, ma persino – in forme e misure distinte – alla stessa persona del marchese. Mi riferisco, naturalmente, a Garcilaso de la Vega, Gutierre de Cetina ed Hernando de Acun˜a, tre soldati-poeti, le cui vicende militari s’intrecciano non poco con quelle di Alfonso, e nelle cui opere poetiche rimane traccia significativa della presenza di lui, dal momento che – come si ricordera` – i primi due (Garcilaso e Cetina) gli dedicarono altrettanti sonetti, mentre al terzo (Acun˜a) appartengono ben sette sonetti, pressoche´ equamente distribuiti tra l’encomio in vita e l’elogio funebre4. Viene cosı` a costituirsi un 2

Sul sonetto del Vendramini, pubblicato nelle Rime di diversi e illustri signori napoletani, e d’altri nobiliss. ingegni. Nuovamente raccolto, et con nuova additione ristampate. Libro quinto, in Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari e fratelli, 1552 (gia` uscito come Terzo libro nello stesso anno, e ristampato come Libro quinto nel 1555, sempre con differenze), cfr. S. Albonico, Il ruginoso stile. Poeti e poesia in volgare a Milano nella prima meta` del Cinquecento, Milano, Franco Angeli, 1990, p. 251 n. 132. Sul Vendramini, ivi, pp. 310-21 e passim. 3 G. Morelli, Esperienze letterarie di Alfonso d’Avalos governatore di Milano, in G. Caravaggi (a cura di), «Cancioneros» spagnoli a Milano, Firenze, La Nuova Italia, 1989, pp. 233-59, dove l’autore – in Appendice – pubblica nove liriche inedite del D’Avalos, provenienti dal Ms. XIII. D.22 della Biblioteca Nazionale di Napoli. Sulla «vasta documentazione agiografica riunita nel manoscritto napoletano», cfr. p. 236 nota 8. La mia citazione nel testo si trova a p. 235. 4 Indico, di seguito, la serie dei nove sonetti, relegandone in appendice i testi, di cui il lettore potra` comodamente avvalersi nel corso dell’analisi contenuta nei successivi paragrafi,

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LA «DOPPIA GLORIA» DI ALFONSO D’AVALOS E I POETI-SOLDATI SPAGNOLI

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piccolo corpus di testi che, omogeneo per tema e metrica, copre le due principali fasi in cui fu scandita l’esistenza del marchese: quella napoletana, a cui puo` farsi risalire il sonetto unico di Garcilaso, e quella milanese, in cui senza dubbio s’iscrive la ben piu` folta serie dei sonetti di Cetina e Acun˜a5. Ma a rendere ancor piu` interessanti i nostri testi c’e` un ulteriore fattore che consiste in cio`: nel fatto che tutti e tre gli autori spagnoli, in quanto soldati-poeti, potevano a loro volta aspirare a quella «doppia gloria» (militare e poetica) per cui Alfonso fu celebrato in vita e magnificato in morte. Sto, difatto, suggerendo la possibilita` di leggere i nove sonetti come una sorta di specchio inverso a quello di Narciso: dove, cioe`, in luogo della propria immagine riflessa, percepita come estranea, si ostenta l’immagine altrui, poeticamente rappresentata, nella quale all’io poetico e` sottilmente concesso di riflettersi. In altre parole, volendo riprendere i termini-chiave di un celeberrimo sonetto di Garcilaso, si tratta di definire come si combinano, nei testi selezionati, le quattro costanti in gioco, ossia: la espada, la pluma, il poeta che celebra e la personalita` celebrata. Una semplice griglia teorica ci aiutera` a tracciare il percorso lungo il quale ci muoveremo. Stabiliamo, in primo luogo, che l’oggetto rappresentato, ossia Alfonso, puo` essere valorizzato nel testo nel solo ruolo di soldato, o solo in quello di poeta, o in entrambi i ruoli. D’altro lato, l’io poetico potrebbe decidere di non figurare affatto nel sonetto, lasciando che la persona del dedicatario occupi l’intero spazio testuale; o, al contrario, potrebbe non rinunciare a una qualche forma di presenza nel testo, decidendo cosı` di comparire – con diverso grado d’ingerenza – nella sola veste di poeta, in quella di soldato, o persino di entrambe le cose. Un rapidissimo calcolo che tenga conto di entrambi i fattori introdotti: assenza/presenza dell’io poetico e valorizzazione come soldato e/o come poeta, porta alla costituzione di una tipologia con non piu` di dodici possibili caselle; delle quali – anticipo – solo quattro risultano realmente riempite da almeno uno dei nostri nove sonetti. Poiche´ non c’e` da insistere oltre

nei quali i riferimenti testuali saranno limitati allo stretto necessario: Garcilaso de la Vega, Cları´simo marque´s, en quien derrata; Gutierre de Cetina, Aquella luz que de la gloria vuestra; Hernando de Acun˜a, Tan hijos naturales de Fortuna; Sen˜or, bien muestra no tener Fortuna; Sen˜or, en quien nos vive y ha quedado; So´lo aquı´ se mostro´ cua´nto podı´a; Aquella luz que a Italia esclarecı´a; ¡Cua´l doloroso estilo bastarı´a; Si, como de mi mal he mejorado. 5 Mi limito a ricordare che il marchese del Vasto fu nominato governatore di Milano nel 1538; per maggiori dettagli sulla cronologia dei sonetti, si veda la nota seguente.

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PARTE TERZA

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sulla griglia teorica, possiamo passare alla valutazione diretta dei nove sonetti che, in appendice, ho fornito non secondo la cronologia di composizione, ma tenendo conto dell’ordine di esposizione6. Nel presentare i testi, difatti, procedero` da un minimo a un massimo di presenza testuale dell’io poetico; e al tempo stesso, dalla massima valorizzazione di Alfonso come soldato a quella, ugualmente massima, di lui come poeta. Dico una volta per tutte che il tempo di cui dispongo, inducendomi alla massima sintesi, a mala pena mi consentira` un approccio globale al problema sollevato, per cui fin d’ora mi scuso del carattere inevitabilmente parziale di cui risentira` l’analisi dei singoli testi. 2. La maggior parte dei nostri sonetti: sei su nove, tutti di Acun˜a, rientra sostanzialmente nel tipo – forse – piu` prevedibile: quello che, con un io poetico assente nel testo, tende a esaltare la figura di Alfonso per 6 Prescindendo dalla questione dell’identita` del dedicatario (per cui cfr. infra, nota 10), il sonetto Cları´simo marque´s apparterrebbe – secondo Lapesa – «a los an˜os en que Garcilaso estuvo en Italia (desde septiembre de 1532)»; cfr. La trayectoria poe´tica de Garcilaso (1948), ora in Garcilaso: Estudios completos, Madrid, Istmo, 1985, p. 182. «A los an˜os napolitanos (1533-1536)», lo assegna anche E. L. Rivers (a c. di), G. de la Vega, Obras completas, Madrid, Castalia, 1981, p. 120. Lo anticipa di quattro anni, almeno, E. Mele, per il quale «si fue´ dedicado a e´ste [ad Alfonso], indudablemente fue´ escrito antes de la empresa de Tu´nez, cuando se le propuso para el mando de espan˜oles e italianos, todavı´a joven de 26 an˜os, que habı´a hecho concebir grandes esperanzas» (Las poesı´as latinas de Garcilaso de la Vega y su permanencia en Italia, in «Bulletin Hispanique», XXV (1923), p. 121). Agli anni quaranta, e piu` precisamente al biennio 1544-46, puo` essere datato il sonetto di Cetina, Aquella luz, composto probabilmente durante un soggiorno milanese del poeta, che seguı` alla sua partecipazione alla guerra franco-spagnola degli anni 1543-44; cfr. B. Lo´pez Bueno, Gutierre de Cetina, poeta del Renacimiento espan˜ol, Sevilla, Diputacio´n Provincial, 1978, pp. 64-65, e della stessa studiosa, Introduccio´n a G. de Cetina, Sonetos y madrigales completos, Madrid, Ca´tedra, 1981, pp. 26-28. Dei sette sonetti di Acun˜a, quattro (Sen˜or, en quien nos vive; So´lo aquı´ se mostro´; Aquella luz que a Italia; ¡Cua´l doloroso estilo!) furono composti in occasione della morte del marchese del Vasto, avvenuta il 31 marzo 1546. Dei restanti tre, due (Tan hijos naturales e – con minore evidenza – Sen˜or, bien muestra) sembrano vagamente alludere agli sfortunati eventi che segnarono la disgrazia del marchese, causandone l’abbandono della vita politica e il ritiro nel castello di Vigevano, e – pertanto – si collocano negli anni 1544-46; mentre il terzo (Si, como de mi mal), se – come sembra – accenna velatamente a una ferita ricevuta dal poeta in combattimento, daterebbe al tempo della campagna militare in Piemonte contro i francesi, nella sua fase piu` acuta degli anni 1536-37, ovvero – dopo la pace di Nizza del ’38 – nelle scaramucce che ancora si verificarono nei quattro anni successivi alla tregua. Sui sonetti in morte di Alfonso, cfr. G. Morelli, Hernando de Acun˜a. Un petrarchista dell’epoca imperiale, Parma, Studium Parmense Editrice, 1977, pp. 36-38. Su quelli in vita, si vedano le corrispondenti note ai testi di L. F. Dı´az Larios, nella sua ed. di H. de Acun˜a, Varias poesı´as, Madrid, Ca´tedra, 1982, pp. 257 e 258, dove e` – pero` – assente un’ipotesi di datazione a proposito di Sen˜or, bien muestra. Sulle vicende biografiche di Acun˜a, risulta ancora utile consultare N. Alonso Corte´s, Don Hernando de Acun˜a. Noticias biogra´ficas, Valladolid, Tipografia V.a Moreno, 1913.

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le virtu` militari. Eppure, rispetto a una tale tipizzazione, non mancano affatto sia le sfumature, sia – addirittura – le deroghe parziali. Per cominciare, l’io poetico si riserva un pur modesto spazio testuale in almeno due occasioni. Sorvolando sul v. 5 del sonetto (3), e` soprattutto nell’inizio del sonetto (6) dove incontriamo una ridotta, ma significativa, eccezione all’assenza dell’io poetico. Difatti, nel denunciare l’inadeguatezza di ogni doloroso estilo atto a esprimere l’universale e incomparabile accoramento per la morte di Alfonso, il poeta finisce per mettere in campo se stesso nell’atto di ricercare invano `, una cifra stilistica che risulti adeguata alla tragicita` dell’evento. E peraltro, indicativo che, nello stesso componimento, l’ultima terzina contenga un rapido cenno alla gloria poetica del defunto marchese, con l’effetto – implicito, ma inevitabile – di dar luogo a un confronto, sul terreno stesso della poesia, tra l’io poetico, che stenta a inventare il doloroso estilo necessario, e il defunto marchese, il cui nome «por las cumbres del Parnaso, / celebra´ndose ira´ de gente en gente». La breve allusione ad Alfonso-poeta introduce all’altro genere di deroga, quello relativo alla celebrazione del d’Avalos come soldato. Intanto, registriamo che la sola virtu` di Alfonso comune all’insieme di sonetti e` – non a caso – la virtu` militare per eccellenza: il valor, a cui – di volta in volta, nei singoli componimenti – possono accompagnarsi altri meriti che, ricadendo sempre nella sfera militare, si presentano sia come qualita`: i casi di fuerza di (2), (4) e (5), e di esfuerzo di (4) e (5); sia anche come effetti di tali qualita`: si tratta, allora, di hazan˜a/s di (2), (3), (5), e famosos hechos di (4). Tutto cio` conferma che per la celebrazione di Alfonso, in vita come in morte, Acun˜a si affida soprattutto all’esaltazione delle virtu` militari, che gli erano universalmente riconosciute. Leggermente meno scontato e` che i nemici contro i quali ad Alfonso e` dato di esercitare le sue prerogative marziali sono avversari che non vanno presi alla lettera; nei due sonetti in vita (1) e (2), difatti, il nemico da battere e` la Fortuna, contro la quale il valor del marchese non viene meno alla sua fama; mentre in altri due sonetti di elogio funebre, (4) e (6), l’avversario e` nientemeno che la Morte, la cui «fuerza» e il cui «valor» hanno di necessita` la meglio su colui che, finche´ visse almeno, dimostro` di essere «el ma´s fuerte» e «el que ma´s valio´». Bisogna, tuttavia, precisare che non tutto, nei sei sonetti finora considerati, si esaurisce nel decantato corredo delle virtu` militari. Difatti, nel sonetto (1), al v. 9, e nel sonetto (4), di nuovo al v. 9, spuntano due termini collettivi: virtudes principales e partes sobrenaturales, rispettiva-

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mente, che contengono un’implicita allusione a quei pregi del marchese che si estendono oltre la sfera militare. Qua e la`, nei sonetti, accanto alle ricorrenti doti di soldato d’eccezione, sono saltuariamente evocate qualita` come la constancia, il saber, o la gia` da me ricordata abilita` poetica, nell’ultimo sonetto del gruppo. Tuttavia, e` il sonetto (5), probabilmente il meno ‘bellico’ della serie, dove quei termini collettivi trovano, finalmente, il concreto riscontro in una ben organizzata teoria di virtu` che si vanno alternando nei versi dispari, e che, accanto ai familiari valor (v. 3) e sublime esfuerzo (v. 7), includono la luz, che il marchese irradiava sull’Italia intera, il saber, che lo guido` nel contrastare la sorte avversa, e, infine, il gran ser, che gli detto` sempre le soluzioni giuste, in tempo di guerra come anche in quello di pace7. 3. Se, come abbiamo appena visto, ben sei dei nostri nove sonetti convergono nella formazione dello stesso tipo, i restanti tre danno luogo – invece – a una maggiore varieta`, finendo coll’occupare altrettante caselle della classificazione iniziale. Li esaminero` proseguendo nell’ordine gia` adottato, e precedentemente esposto. Seguendo tale criterio, dunque, e` del sonetto di Cetina che tocca ora di occuparci, contrassegnato col numero (7) nella serie dei testi. Diro` subito che esso rappresenta il tipo che, con un io poetico assente nel testo, esalta la figura di Alfonso per le virtu` militari nonche´ per l’abilita` poetica. Intanto, notiamo di passaggio che l’inizio del sonetto: Aquella luz que de la gloria vuestra, e la successiva antitesi: resplandecer (con la variante esclarecer) vs. escurecer, saranno ripresi da Acun˜a nell’Epitafio da lui composto per la sepoltura del marchese – il nostro sonetto (5) – che e` – per ovvie ragioni – posteriore al testo di Cetina8.

7

Il sonetto e` menzionato da E. Camacho Guizado come esempio di «elogio deı´ctico», dove – cioe` – «por medio de un pronombre o adjetivo demostrativo, el personaje encomiado se coloca enfa´ticamente en primer plano» (La elegı´a funeral en la poesı´a espan˜ola, Madrid, Gredos, 1969, pp. 197-98). 8 Si veda la considerazione generale di Dı´az Larios: «Ciertas concordancias entre algunos poemas del sevillano [Cetina] con otros de Acun˜a sugieren un conocimiento mutuo, nacido quiza´ cuando ambos lucharon en la cuarta guerra entre Carlos V y Francı´sco I (1542-44), o bien ahora [1546], al paso de Cetina por Mila´n» (H. de Acun˜a, ed. cit., p. 20 nota 16). In effetti, come ha sostenuto la Lo´pez Bueno, «desde Vigevano, en 1545, es posible que Cetina pasara a la corte de Mila´n [...] De ser cierta su estancia en la corte de Mila´n, debio´ de ser muy corta pues en 1546 [...] realiza Cetina su primer viaje a Me´jico» (Gutierre de Cetina, cit., pp. 164-65). Sull’eventuale spostamento di Cetina da Vigevano alla corte milanese, si era gia` pronunciato M. Bataillon: «no es hipo´tesis de desechar sistema´ticamente» (Gutierre de Cetina en Italia, in Studia hispanica in honorem R. Lapesa, Madrid, Gredos, 1972, I, p. 165).

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LA «DOPPIA GLORIA» DI ALFONSO D’AVALOS E I POETI-SOLDATI SPAGNOLI

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Ma cio` che a noi piu` interessa notare e` come le due sfere dell’espada e della pluma, riferite entrambe al marchese, e i cui termini-chiave sono – questa volta – esplicitamente presenti nel testo nei vv. 12-13 in funzione di parole-rima; le menzionate sfere – dicevo – ritagliano lo spazio del sonetto in due meta`, lasciando cioe` che le quartine si occupino di esaltare il valor militare dell’invicto Alfonso, mentre alle terzine si consegna il compito di decantarne le capacita` letterarie. La misurata novita` consiste nel fatto che, nelle terzine, l’invito di Cetina e` rivolto ad Alfonso-poeta affinche´ celebri le imprese di cui egli stesso e` stato protagonista come soldato. A imitacio´n de Ce´sar, e finche´ alla espada e` consentito di riposare, Alfonso affidi, dunque, il suo genio alla pluma, e, per mezzo di questa, elevi ad eterna memoria la gloria che ha gia` conquistato sui campi di battaglia. Nel fondo, sollecitando Alfonso a seguire l’esempio cesariano, Cetina consegna ai lettori del suo sonetto una rappresentazione del marchese che risponde a un modello di circolare perfezione, chiuso e autosufficiente: la gloria o fama mondana, guadagnata a mezzo del valor con cui la mano del marchese impugna la spada, si eleva a memoria eterna, a cio` guidata dalla stessa mano che racchiude ora la penna9. Eppure, anche in un sonetto che non sembra concedere spazio alcuno a presenze diverse da quella di Alfonso, e` possibile imbattersi in un io poetico che per due volte affiora nel testo, anche a costo di negarsi, in entrambe le occasioni. Mi spiego. Nelle quartine, in coincidenza con l’esaltazione militare di Alfonso, confuso nel collettivo nos di v. 7, troviamo l’io del poeta, in veste di soldato: uno dei tanti guerrieri che, sotto la guida del marchese, ottennero a loro volta la gloria, ma che del proprio valor sono pronti a spossessarsi, modestamente ammettendo che esso fu hechura di chi li comando`, fu cioe` opera del marchese, esattamente come ogni creatura deve la propria esistenza al Dio creatore. Nelle terzine, poi, in concomitanza con la celebrazione delle virtu` letterarie di Alfonso, come non riconoscere nell’escritor di v. 11 un riflesso negativo dell’io poetico, disposto perfino a condannare come ‘usurpatore’ chi, solo scrivendone, fini9 Cfr. le brevi osservazioni di Lo´pez Bueno, Gutierre de Cetina, cit., pp. 167-68, dove si segnala che il «to´pico de armas y letras bajo la forma de exhortacio´n a los distintos personajes para que ellos sean sus propios cronistas» si trova ulteriormente attestato in due sonetti di Cetina: quelli dedicati Al duque de Alba (Sen˜or, mientras el valor que en vos contemplo) e Al conde de Feria (Mientras el franco furor fiero se muestra), per i quali si veda l’ed. cit., pp. 302 e 303, rispettivamente.

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rebbe per appropriarsi della gloria, della quale unicamente ad Alfonso spetta di rinnovare la memoria nella pagina, posto che lui esclusivamente la ottenne sul campo? Bell’esempio, insomma, di devota abnegazione, considerato che l’esaltazione del marchese e` pagata al caro prezzo di un doppio avvilimento dell’io che, come soldato, annega il proprio valore in quello del suo generale, e, come poeta, si degrada al ruolo di chi illecitamente si appropria di quanto appartiene ad altri. 4. Chi non sacrifica affatto le proprie prerogative di poeta e` Garcilaso che, nel sonetto Cları´simo marque´s, en quien derrama (l’ottavo della serie), si rivolge probabilmente al nostro marchese del Vasto, stando almeno ai piu` recenti studi che sembrano trascurare l’ipotesi finora maggiormente accreditata, secondo la quale nell’invocazione iniziale bisognerebbe identificare un altro marchese: il signore di Villafranca e vicere´ di Napoli, Pedro de Toledo10. Cominciamo col dire, allora, che nella nostra classificazione il sonetto di Garcilaso coincide col tipo che, con un io decisamente presente nel testo in veste di poeta, esalta la figura di Alfonso per le virtu` militari, ma anche – e ancor di piu` – per l’eccezionale insieme di qualita` che in lui s’incarnano. Al v. 3, immancabile, compare il termine valor, che sembra rimandare – ancora una volta – alla sfera militare, specie se nella llama di v. 4 ravvisiamo il simbolo dell’ardimento del soldato, piuttosto che una «meta´fora del alma», come e` stato generalmente inteso11. E, tuttavia, bisogna concedere che fin dai vv. 1-2, che anticipano in sintesi il contenuto delle terzine, ci viene offerta un’immagine del marchese che va ben oltre i limiti della milizia, quale 10 Dall’iniziale incertezza manifestata da Herrera tra Pedro de Toledo e Alfonso d’Avalos, si e` passati alla piu` marcata propensione, a favore del primo, dei moderni editori di Garcilaso (Keniston, Navarro Toma´s, Rivers, Labandeira); mentre la tendenza opposta, che in ultima istanza risale al commento di Tamayo, e` stata espressa da Navarrete e Mele. Sull’intera vicenda critica, puo` consultarsi l’esauriente nota di B. Morros, nella sua edizione di G. de la Vega, Obra poe´tica y textos en prosa, Barcelona, Crı´tica, 1995, p. 397, dove – pero` – manca il riferimento a D. L. Heiple, che alla questione ha dedicato alcune pagine del suo recente libro, risolvendola decisamente a favore dell’identificazione col marchese del Vasto (Garcilaso de la Vega and the Italian Renaissance, University Park-PA, The Pennysylvania State University Press, 1994, pp. 267 e ss.). Del resto, lo stesso Morros, parallelamente e con distinti argomenti, era giunto a un’analoga conclusione; cfr. ed. cit., pp. 39 e 397. 11 A tale interpretazione, pressoche´ unanime, dei commentatori, Heiple aggiunge un riferimento a Paolo Giovio che, «in his treatise on devices [Dia´logo de las empresas militares y amorosas] describes several designed for the Marque´s del Vasto, one of wich represented the eternal flame on the temple of Juno as a symbol of the marquis’s costancy in love» (Garcilaso de la Vega, cit., p. 268).

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ideale ricettacolo in cui si raccolgono, direttamente infuse dal cielo, tutte le qualita` positive al mondo note. In ogni caso, la solida presenza del marchese nelle quartine, con le sue virtu` militari e non, e` controbilanciata da una non meno consistente ingerenza testuale dell’io poetico, il quale e` a piu` riprese presente negli stessi otto versi iniziali. Al centro delle quartine, difatti, emerge la pluma del poeta, raffigurata nel duplice atto: di elevarsi, celebrandole, alle eccelse qualita` che il marchese ha ricevuto, a sua volta, dalle ragioni superiori; e di corrispondere alla voce che emana dal nome di Alfonso, nome che – esattamente come la persona – riunisce in se´ la superiorita` del cielo e la profondita` del mondo12. Alla pluma del poeta, insomma, incombe lo sforzo di avvicinarsi, innalzandosi, all’oggetto ideale13; sforzo che, se compiuto, si vedrebbe compensato da quell’«eternita`-immortalita`» che finirebbe per accomunare, in un’unica dimensione atemporale, il personaggio celebrato e il poeta che lo celebra, con quest’ultimo che, nell’assimilazione risolutiva, da soggetto poetante passa ad essere designato come soggetto d’amore: quien tanto os ama di v. 8. Rispetto ai primi otto versi, le terzine complicano considerevolmente la materia, poiche´ il proposito celebrativo, che in esse si protrae, si compie grazie a un’«acutezza paradossale» – per dirla con Gracia´n14 –, che solleva un problema teorico di non poco conto in ambito sia filosofico che estetico. Non disponendo del tempo necessario, potro` solo accennare brevissimamente alla questione, con un riprovevole tono apodittico di cui mi scuso in anticipo. Diro`, pertanto, che Garcilaso – nella seconda terzina, in particolare – rovescia i termini su cui si fonda il nucleo centrale della filosofia neoplatonica, la cosiddetta «dottrina delle Idee», fornendo una ‘paradossale’ 12

A tale proposito, si veda quanto propone Morros, seguendo un suggerimento di Alberto Blecua: «en la ponderacio´n del nombre podrı´a leerse el de Alfonso: “alto y profundo” (v. 6) equivale en catala´n a “Alt i fons” (‘Alfons’), segu´n un tipo de anagrama bastante frecuente a partir del nombre de Laura en Petrarca» (ed. cit., p. 39 e anche p. 397). Il ricorso anagrammatico risulta tanto piu` significativo, se si tien conto che l’antitesi tra regioni superiori e inferiori impregna di se´ l’intero sonetto, essendo due volte presente nel testo, come cielo / mundo (v. 2) e cielo / tierra (vv. 9-10). 13 Non puo` escludersi l’uso metaforico di pluma, proposto da Heiple: «The “pluma” in line 5 is not only a pen, but a feather, or by metonymy a bird, that will achieve poetic flight» (Garcilaso de la Vega, cit., p. 274). 14 Baltasar Gracia´n introduce e commenta il sonetto di Garcilaso nel Discurso XXIII. De la agudeza paradoja, in E. Correa Caldero´n (a cura di), Agudeza y arte de ingenio, Madrid, Castalia, 1969, I, in part. le pp. 229-30 (cfr. anche la tr. it. di G. Poggi, L’Acutezza e l’Arte dell’ingegno, Palermo, Aesthetica Edizioni, 1986, p. 175).

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interpretazione del concetto stesso di idea: e` partendo nientemeno dalla cosa terrena che la natura forma l’idea, capovolgendo in cio` l’ortodossia neoplatonica, secondo la quale – com’e` noto – gli oggetti naturali sono imagines o riflessi delle realta` metafisiche, vale a dire: delle idee immanenti allo spirito divino. Cio` e` quanto sostengono i vv. 12-13, con l’inevitabile corollario estetico contenuto nell’ultimo verso del sonetto. Difatti, se Alfonso, nella sua perfezione, e` l’idea, e la poesia – dal canto suo – consiste nello sforzo di elevazione per raggiungere quell’oggetto perfetto che e` Alfonso, ne consegue che pensamiento e arte finiscono per coincidere in virtu` della comune conformita` a una stessa realta` metafisica15. 5. L’ultimo dei nostri nove sonetti ci riporta al poeta con cui avevamo dato inizio alla rassegna. Ed e` curioso che sia proprio Acun˜a, l’autore cioe` dei sonetti dal tipo maggiormente prevedibile16, colui che – con quest’ultimo componimento – ci fornisce l’esempio – forse – piu` stravagante dell’intera serie. Si, como de mi mal he mejorado rappresenta, difatti, nella nostra classificazione, il tipo che, con un io poetico presente nel testo in veste di soldato, esalta la figura di Alfonso esclusivamente per le sue abilita` di poeta. Sembra quasi che, nell’omaggio reso al suo comandante e protettore, il poeta spagnolo abbia voluto giocare a invertire i ruoli piu` scontati, presentando se stesso come un guerriero offeso, nei confronti del quale la poesia di Alfonso funge da prodigioso strumento di salute. Ma rivolgiamoci direttamente al testo che non e` privo di qualche difficolta`, la prima delle quali consiste in quel generico vocativo dei vv. 15

Cfr. l’ampio commento di Herrera all’ultima terzina del sonetto, dove il poetacommentatore si dilunga sull’interpretazione del concetto platonico di idea (A. Gallego Morell (a cura di), Garcilaso de la Vega y sus comentaristas, Madrid, Gredos, 19722, p. 366, H-128). A proposito della stessa terzı´na, non e` fuori luogo la citazione di Morros di Petrarca, Canzoniere, CLIX, 1-4 (cfr. ed. cit., p. 397); e, del resto, l’intero componimento era stato definito da J. Alcina «un soneto panegı´rico siguiendo un esquema igual al de los sonetos de elogio de una dama como obra maestra de Dios o de la naturaleza» (nella sua edizione di G. de la Vega, Poesia completa, Madrid, Espasa-Calpe, 1989, p. 72). Sugli ultimi versi del sonetto, si vedano anche le osservazioni di Heiple, Garcilaso de la Vega, cit., pp. 274-75. Sul rapporto tra Idea, natura e arte, che e` la questione estetica al centro dell’intero sonetto, pagine ancora molto stimolanti possono leggersi in E. Panofsky, Idea. Contributo alla teoria dell’estetica (1924), Firenze, La Nuova Italia, 1975, in part. le pp. 33-52. 16 A proposito di alcuni di essi, lo stesso Morelli ha sottolineato che il gruppo «delle composizioni in morte dell’illustre personaggio [...] ripete stancamente i moduli stilistici, ricchi di enfasi e di oratoria letteraria, codificati dalla tradizione del genere elegiaco generosamente impegnato a celebrare fatti e avvenimenti relativi alla vita e alle imprese dei potenti additati quali modelli di virtu` e di valore» (Hernando de Acun˜a, cit., p. 37).

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

4 e 9: sen˜or, con cui c’e` da chiedersi se e` possibile o meno identificare il marchese del Vasto. Il piu` recente editore di Acun˜a, nell’unica nota di commento al testo del sonetto17, propende per tale soluzione, senza che cio` abbia sollevato – che io sappia, almeno – alcuna obiezione. Ammettiamo, percio`, che il destinatario del sonetto sia il d’Avalos, verso il quale – nelle terzine – il poeta professa la propria illimitata gratitudine, rivelando di rallegrarsi o dolersi piu` di tutti per la buona o cattiva sorte di lui. Cio`, del resto, concorda col rapporto di Acun˜a col marchese, a cui lo unı` una prolungata amicizia e un profondo sentimento di riconoscenza, che ebbe modo di esprimersi in piu` occasioni della sua vita, come – per esempio – la nomina a capitano di compagnia, il riscatto dalla prigionia presso i francesi, e – ancora – il governatorato dell’importante piazza militare di Cherasco18. Ma torniamo al sonetto e, piu` precisamente, ai versi delle quartine, dove ritroviamo la tematica piu` pertinente al nostro argomento. Con un incipit (vv. 1-2), che riprende il lessico di un noto sonetto amoroso di Garcilaso19, al quale imprime pero` una diversa direzione di sviluppo, l’io poetico si presenta nelle vesti di chi e` sul punto di guarire da un male, che non e` dello spirito, come suole accadere agli amanti, bensı` del corpo, come piu` sovente occorre ai soldati. Il mal del primo verso, allora, alluderebbe – come pure congettura il menzionato editore – alle ferite riportate in battaglia, con probabile riferimento alla guerra di Piemonte, durante la quale Acun˜a fu fatto prigioniero dai francesi. Per fortuna, la sua condizione di salute e` andata migliorando; ma anche se cio` non fosse stato – e, perfino, se il male si fosse nel frattempo aggravato – il dolore patito sarebbe stato ugualmente alleviato da quella potente medicina che e` la poesia del suo signore; la quale poesia, posto che lenisce le pene dello spirito, tanto piu` sara` in grado di mitigare il dolore corporale. Riprendendo per l’ultima volta la coppia dei nostri termini-chiave, potremmo affermare che alle ferite della espada il sonetto replica con la salute della pluma; nel senso che, questa volta, e` la pluma del soldato per eccellenza, Alfonso, a curare, almeno virtualmente, le ferite inferte dalla espada nel corpo del soldato Acun˜a. Eppure – ed e` l’osserva17

H. de Acun˜a, ed. cit., p. 257. Di tali episodi conserva traccia il Memorial de D. Hernando de Acun˜a a´ Felipe II, pubblicato in Alonso Corte´s, Don Hernando de Acun˜a, cit., pp. 111-23; e riprodotto in H. de Acun˜a, Varias poesı´as, a c. di A. Vilanova, Barcelona, Selecciones Biblio´filas, 1954. 19 Cfr. il sonetto di Garcilaso, Como la tierna madre que’l dolente, in Morros, ed. cit., p. 30, in part. il v. 8: «y aplaca el llanto y dobla el acidente». 18

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PARTE TERZA

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zione con cui mi affretto a concludere –, c’e` un punto in cui Acun˜a indirettamente contrappone la sua poesia a quella dal marchese. Se, difatti, avviciniamo l’ultimo sonetto al sesto della serie, ci accorgeremo che al dulce estilo delicado di Alfonso, ritenuto capace di guarire le ferite dell’anima e del corpo di Acun˜a, fa da ineguale pendant il doloroso estilo dello stesso Acun˜a, considerato inadatto a esprimere e placare l’immenso dolore per la morte di Alfonso. Ancora una volta l’implicito raffronto si risolve nel grato omaggio dello spagnolo alla superiorita` dell’amico e protettore italiano; anche se – e` bene dirlo – la differenza di efficacia poetica trova qui piu` di una giustificazione nel sostanziale divario di situazione, che – in un caso – pone la poesia ad affrontare la vulnerabilita` fisica, e – nell’altro – la porta a scontrarsi con l’irreparabilita` della morte.

Appendice Hernando de Acun˜a [1]

[2]

Tan hijos naturales de Fortuna son la desigualdad y el desconcierto, que jama´s permitio´ llegase a puerto virtud muy rara ni bondad ninguna; y si e´sta ha de temer en parte alguna 5 de mostrar disfavor tan descubierto, que en vos lo temera´ tengo por cierto, aunque siempre a lo bueno es importuna. Las virtudes en vos son principales y, a su despecho, vemos que han sacado 10 de su poder y mando vuestra suerte. Lo menos son los bienes temporales, pues la desigualdad de todo estado al fin viene a igualarse con la muerte.

Sen˜or, bien muestra no tener Fortuna empresa alguna por dificultosa, pues ha osado emprender tan alta cosa como a vuestro valor ser importuna; que ni pudo hallar hazan˜a alguna 5 que acometer pudiese tan famosa, ni menos a la fuerza poderosa de vuestro corazo´n igual ninguna. Ası´ todo su intento ha sido vano, y su poder, al mundo tan terrible, 10 ha sido para vos poco y liviano, que con saber, con a´nimo increı´ble, con gran constancia y valerosa mano vencistes la que llaman invencible.

[3]

[4]

Sen˜or en quien nos vive y ha quedado el gran nombre del Vasto y su memoria despue´s que de´sta breve y transitoria a la vida inmortal mudo´ su estado, donde desprecia nuestro bajo grado 5 y goza para siempre inmensa gloria, quedando en todo verso, en toda historia, del mundo eternamente celebrado; mirad cua´n ancha y espaciosa vı´a os muestran sus hazafias inmortales 10 de haceros inmortal entre la gente,

So´lo aquı´ se mostro´ cua´nto podı´a en dan˜o universal la cruda muerte, do su fuerza valio´ contra el ma´s fuerte, y su valor contra el que ma´s valı´a. Por donde a Italia, cuanto bien tenı´a 5 en eterno dolor se le convierte, y el gran Marque´s ha mejorado suerte, aunque aca´ la ma´s alta poseı´a. Sus muchas partes sobrenaturales, un esfuerzo, un saber nunca igualado, 10 un ser no concedido a mortal hombre,

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y seguid su valor, que con tal guı´a los ma´s famosos no os sera´n iguales del siglo ya pasado o del presente.

con mil famosos hechos inmortales, a la inmortalidad han consagrado este lugar y su tan alto nombre.

[5]

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[6]

Aquella luz que a Italia eselarecı´a y ahora con morir la ha escurecido, aquel alto valor que siempre ha sido coluna do virtud se sostenı´a,

¡Cua´l doloroso estilo bastarı´a, en el comu´n dolor que nos atierra, a mostrar parte, o lamentar la guerra que al mundo hizo muerte en so´lo un dı´a,

aquel saber de donde procedı´a 5 el remedio y restauro en lo perdido; aquel sublime esfuerzo, tan temido, del fuerte corazo´n que no temı´a; el que toda le amaba y le temı´a!

cuando dispuso de quien disponı´a 5 del mundo, con valor tal, que se encierra muerto, mas inmortal, en pocatierra el que toda le amaba y le temı´a!

aquel gran ser do junto se hallabam el consejo y efeto, en paz y en guerra, 10 para hazan˜as de inmortal memoria;

Y como otro dolor no se ha igualado al deste triste y lamentable caso, ası´ debe llorarse eternamente;

y, en fin, a quien el mundo no bastaba, aquı´ lo cubre muerte en poca tierra, y lo que merecio´ goza en la gloria.

y el nombre justamente tan nombrado del Vasto, por las cumbres del Parnaso, celebra´ndose ira´ de gente en gente.

Gutierre de Cetina

Garcilaso de la Vega

[7]

[8]

Aquella luz que de la gloria vuestra, invicto Alfonso, tanto resplandece, mientra de otros errores escurece fundo a fama, ma´s que el sol clara se muestra. Animoso valor la mano destra os rige (antes a ella se engrandece), y aquello que entre nos valor parece, es hechura de vos, no cosa nuestra.

10

Cları´simo marque´s, en quien derrama el cielo cuanto bien conoce el mundo. si al gran valor en qu’el sujeto fundo y al claro resplandor de vuestra llama 5

arribare mi pluma y do la llama 5 la voz de vuestro nombre alto y profundo, sere´is vos solo eterno y sin segundo, y por vos inmortal quien tanto os ama.

Si ası´, como es razo´n, escrita en suma vuestra tanta virtud ver os agrada. 10 y que escritor no usurpe vuestra gloria,

Cuanto del largo cielo se desea, cuanto sobre la tierra se procura, todo se halla en vos de parte a parte;

a imitacio´n de Ce´sar, con la pluma, mientras que reposar deja´is la espada, y hizo igual al pensamiento el arte.

y, en fin, de solo vos formo´ natura una estran˜a y no vista al mundo idea y hizo igual al pensamiento el arte.

10

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PARTE TERZA

Hernando de Acun˜a [9] Si, como de mi mal he mejorado, se me hubiera doblado el acidente, yo tengo por cierto que al presente me hallara, sen˜or, muy aliviado; que, si de sus congojas y cuidado se alivia todo espı´ritu doliente, aliviara´se un cuerpo mayormente al son de un dulce estilo delicado.

5

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Yo conozco, sen˜or, doliente o sano, deberos tanto, que no se´ en que´ suerte 10 os me pueda mostrar agradecido: so´lo tendre´is de mı´, como en la mano, que a nadie es vuestro mal tan grave y fuerte, ni vuestro bien de nadie es tan querido.

Per i testi riprodotti ho utilizzato le seguenti edizioni: H. de Acun˜a, Varias poesı´as, a c. di L. F. Dı´az Larios, Madrid, Ca´tedra, 1982; G. de Cetina, Sonetos y madrigales completos, a c. di B. Lo´pez Bueno, Madrid, Ca´tedra, 1981; G. de la Vega, Obra poe´tica y textos en prosa, a c. di B. Morros, Barcelona, Crı´tica, 1995.

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PARTE QUARTA

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LA POESIA NELL’EPOCA DI FILIPPO II: MODELLI ITALIANI (CARO, RAINERIO) E SOLUZIONI ISPANICHE (RAMIREZ PAGAN, LOMAS CANTORAL, DE LA TORRE, HERRERA)

1. La poesia spagnola alla meta` del secolo ` a tutti noto che il linguaggio della moderna lirica spagnola – come, E del resto, di quella europea – risulta largamente tributario del linguaggio lirico italiano, e che tale processo di formazione – considerato nella sua massima estensione – abbraccia un sessantennio circa, dalla meta` degli anni venti alla meta` degli anni ottanta, del XVI secolo naturalmente. Prima di quest’intervallo, possono essere rintracciati episodi piu` o meno significativi di approssimazione ai modelli poetici italiani, a quello petrarchesco in particolare, ma cio` tuttavia non autorizza a parlare di un nuovo linguaggio lirico rical1 cato su quello italiano . Per altro verso, al termine del sessantennio, tra la fine degli anni ottanta e l’inizio della decade successiva, la 1

Per gli episodi di petrarchismo pregarcilasiano, e` ormai un classico F. Rico, Variaciones sobre Garcilaso y la lengua del petrarquismo, nel collettivo Doce consideraciones sobre el mundo hispano-italiano en tiempos de Alfonso y Juan de Valde´s, Roma, Publicaciones del Instituto Espan˜ol de Lengua y Literatura, 1979, pp. 115-30, a cui si aggiunga, dello stesso autore, A fianco di Garcilaso: poesia italiana e poesia spagnola nel primo Cinquecento, «Studi Petrarcheschi», nuova serie, IV (1987), pp. 229-36. Piu` in generale, sono letture d’obbligo gli studi di J. M. Blecua, Corrientes poe´ticas en el siglo XVI (1952), in Sobre poesı´a de la Edad de Oro (ensayos y notas eruditas), Madrid, Gredos, 1970, pp. 11-24; di R. Lapesa, Poesı´a de cancionero y poesı´a italianizante (1962), in De la Edad Media a nuestros dı´as (estudios de historia literaria), Madrid, Gredos, 1971, pp. 145-71, e Los ge´neros lı´ricos del Renacimiento: la herencia cancioneresca, in Homenaje a Eugenio Asensio, Madrid, Gredos, 1988, pp. 259-75, recentemente raccolto in Id., De Berceo a Jorge Guille´n. Estudios literarios, Madrid, Gredos, 1997, pp. 122-45; di G. Caravaggi, Alle origini del petrarchismo in Spagna, «Miscellanea di Studi Ispanici», XXIV (1971-73), pp. 7-101. Di utile consultazione e` il volume di M. P. Manero Sorolla, Introduccio´n al estudio del petrarquismo en Espan˜a, Barcelona, PPU, 1987.

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PARTE QUARTA

poesia spagnola conobbe una nuova e radicale svolta, a partire dalla quale si svincolo` definitivamente dall’originaria impronta italiana, per intraprendere un cammino di totale autonomia. Non desta meraviglia che, in un processo di cosı` lunga durata, le modalita` con cui l’assimilazione si ando` sviluppando non furono sempre le stesse, ma variarono, non solo in rapporto ai suoi diversi luoghi e ai distinti protagonisti, ma anche – ed e` quanto ora piu` interessa – in relazione alle diverse tappe con cui quel processo di assimilazione si realizzo`. Per esempio, e` noto che a partire – grosso modo – dalla meta` del secolo, le forme e gli obiettivi che i poeti spagnoli elessero nei confronti dei modelli italiani subiscono un cambio sostanziale, rispetto alla precedente generazione di poeti, attiva fondamentalmente nel secondo quarto del secolo2. Un paio di episodi ci aiuteranno a fare il punto della situazione; si tratta, in entrambi i casi, di un avvenimento editoriale, che vede coincidere perfino la data: entrambi si collocano, difatti, nel 1554. In quest’anno, in effetti, Hernando de Hozes pubblica a Medina del Campo la traduzione de Los Triumphos de Francisco Petrarcha3. La grande novita`, rispetto a precedenti traduzioni, e in particolare rispetto a quella di Antonio de Obrego´n pubblicata nel 1512, consiste nel fatto che il piu` recente traduttore conserva il genere metrico dell’originale italiano: la terzina di endecasillabi4. Ma il motivo per

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Vd. L’ottimo panorama tracciato da A. Blecua, El entorno poe´tico de fray Luis, in Fray Luis de Leo´n, a c. di V. Garcı´a de la Concha, Salamanca, Ediciones Universidad de Salamanca, 1981, pp. 77-99, in part. le pp. 79-86. Dello stesso autore, vd. anche Fernando de Herrera y la poesı´a de su e´poca, in F. Rico (a cura di), Historia y crı´tica de la literatura espan˜ola, vol. II, Siglos de Oro: Renacimiento, a cura di F. Lo´pez Estrada, Barcelona, Editorial Crı´tica, 1980, pp. 426-39. 3 Los triumphos de Francisco Petrarcha, ahora nuevamente traduzidos en lengua Castellana, en la medida y numero de versos, que tiene en el Toscano, y con nueva glosa, Medina del Campo, Guillermo de Millis, 1554. 4 Sulle traduzioni cinquecentesche dei Trionfi del Petrarca, oltre ai contributi di G. C. Rossi, Una traduzione cinquecentesca spagnola del «Trionfo d’Amore», in «Convivium», XXVII (1959), pp. 40-50, di A. J. Cruz, The Trionfi in Spain: Petrarchist Poetics, Translation Theory, and the Castilian Vernacular in the Sixteenth Century, in K. Eisenbichler e A. A. Iannucci (a cura di), Petrarch’s Triumphs. Allegory and Spectacle, Toronto, Dovehouse, 1990, pp. 307-24, di A. Gargano, «Petrarca y el traduzidor». Note sulle traduzioni cinquecentesche dei Trionfi, in «Annali dell’Istituto Universitario Orientale», Sezione Romanza, XXXV(1993), pp. 485-98, di C. Alvar, Alvar Go´mez de Guadalajara y la traduccio´n del Triunfo d’Amore, in J. Paredes (a cura di) Medioevo y literatura. Actas del V Congreso de la Asociacio´n Hispa´nica de Literatura Medieval, vol. I, Granada, Universidad de Granada, 1995, pp. 261-67, si vedano gli studi di R. Recio, Petrarca y Alvar Go´mez: la traduccio´n del Triunfo de Amor, New York, Peter Lang, 1996, Petrarca en la penı´nsula ibe´rica, Alcala´ de Henares-Madrid, Universidad de Alcala´ de Henares, 1996, e la piu` recente edizione della traduzione di Alvar Go´mez de

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cui ho menzionato la traduzione di Hozes e` un altro, e riguarda un aspetto che Francisco Rico ha messo in luce in un illuminante studio di qualche anno fa5. Hozes, difatti, lavoro` a una prima redazione della traduzione tra il 1548 e il 1549, testo che sottopose a un’ulteriore revisione nel 1550. Eppure, nonostante gli sforzi compiuti, il testo rimase inedito, e ci e` conservato da un manoscritto depositato presso la Biblioteca Nacional de Madrid6. Nell’estate del 1552, Hozes ritorna sulla traduzione dei Trionfi, e la sottopone a un radicale rifacimento, che da` luogo a una seconda redazione, questa sı` pubblicata nella menzionata edizione di Medina del Campo del ’547. Cosa spinse il traduttore a sottoporsi alla non indifferente fatica del rifacimento? Il cambio piu` vistoso e significativo dalla prima alla seconda redazione consiste nell’eliminazione della rima tronca. Come rigorosamente documenta il citato studio di Rico, Hozes non lascia un solo caso di finale ossitona, con atteggiamento ancora piu` rigido degli stessi rimatori italiani, i quali – sia pur sporadicamente – ammettevano questo tipo di rima. Si tratta, pertanto, di un chiaro indizio del fatto che, dalla redazione manoscritta degli anni ’49-’50 alla revisione del ’52, il traduttore non solo si e` lasciato indietro l’ottonario, ma – nell’adottare l’endecasillabo – aderisce alle piu` rigorose leggi che ne regolavano l’uso: Entre 1550 y 1552, pues, los gustos se habı´an depurados a ojos vistas. Las vanguardias poe´ticas, no satisfechas con postergar el octosı´labo, imponı´an leyes ma´s rigurosas al hendecası´labo. Y eran los suyos unos imperativos tan apremiantes como para que Hozes se aviniera a acatar un precepto que se le antojaba excesivo y no bien autorizado: el destierro del verso agudo8.

Passiamo, ora, brevemente al secondo episodio. Nello stesso anno 1554, a Zaragoza, vide la luce il Cancionero general de obras nuevas, una raccolta poetica che sin dal titolo si ricollega all’illustre precedente del principio del secolo, quello – cioe` – costituito dal Cancionero general, raccolto da Hernando del Castillo e pubblicato a

Ciudad Real, El «Triumpho de Amor» de Petrarca traduzido por Alvar Go´mez, Barcelona, PPU, 1998. 5 F. Rico, El destierro del verso agudo (con una nota sobre rimas y razones en la poesı´a del Renacimiento), in Homenaje a Jose´ Manuel Blecua, Madrid, Gredos, 1983, pp. 525-51. 6 Si tratta del ms. 3687 della Biblioteca Nacional de Madrid. 7 Cfr. Rico, El destierro del verso agudo, cit., pp. 533-35. 8 Ivi, pp. 536-37.

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Valencia nel 1511. Ma a differenza di quest’ultimo, il Cancionero del ’54, a una prima sezione ancora contenente opere composte «por el arte espan˜ola», aggiungeva – molto significativamente – una seconda parte dedicata alle «obras que van por el arte toscana compuestas». Vi troviamo un’ottantina circa di componimenti, la meta` dei quali appartengono a due famosi poeti, Juan de Coloma e Diego Hurtado de Mendoza, mentre l’altra meta` e` costituita esclusivamente da sonetti anonimi. Tutti i componimenti sono, naturalmente, in rigoroso ‘metro italiano’, e – quanto ai generi metrici e poetici – alla massiccia presenza di sonetti si unisce una certa varieta` degli altri generi, in particolare: la canzone, la favola mitologica in ottave, l’egloga, l’elegia, il capitolo in terza rima9. Ebbene, cosa possiamo desumere dalla coincidenza cronologica dei due episodi ricordati? Che intorno alla meta` del secolo, con l’anno 1554 assunto come data fortemente simbolica, il processo di assimilazione della lingua poetica italiana da parte degli spagnoli, iniziatosi circa tre decenni prima, deve essere ormai considerato un fenomeno totalmente consumato10. Alla successiva generazione di poeti spagnoli, quella – cioe` – pienamente attiva nei decenni posteriori alla meta` del secolo, prima che – tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta – fosse imposta una nuova e decisiva svolta; a questa generazione di poeti filippini – dicevo – spetto` un compito di rinnovamento, che consistette nello sperimentare nuove vie, senza peraltro travalicare il solco del petrarchismo; ovvero, detto in altri termini: spetto` il compito di superare il modello fondato sul binomio Petrarca-Garcilaso, pur nella sostanziale fedelta` ad esso. In questo sforzo di rinnovamento, un contributo non trascurabile venne ancora una volta dall’Italia: non piu`, pero`, attraverso la voce straordinariamente unica di un solo poeta (Petrarca), ma mediante una pluralita` di toni, tutti veicolati da quel vasto fenomeno editoriale che caratterizzo` il panorama poetico della seconda meta` del Cinquecento. Mi riferisco, naturalmente, a quelle antologie poetiche che conobbero un’enorme fortuna e una larga diffusione, dentro e fuori 9 Il Cancionero general de obras nuevas, modernamente edito da A. Morel-Fatio, in L’Espagne au XVI et au XVII sie`cle, Heilbronn, 1878, pp. 489-602, e` stato recentemente riproposto in volume autonomo a cura di C. Claverı´a: [Esteban de Na´gera], Cancionero general de obras nuevas (Zaragoza, 1554), Barcelona, Edicions Delstre’s, 1993. 10 Cfr. A. Blecua, Gregorio Silvestre y la poesı´a italiana, in Doce consideraciones, cit., pp. 155-73, dove l’autore, dopo aver apportato un’abbondante serie di dati poetici intorno alla meta` del secolo, conclude che «A la vista de todas estas fechas y publicaciones se infiere que hacia 1554 la aceptacio´n del endecası´labo es un hecho manifiesto» (p. 162).

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della penisola italiana, a partire dalla prima raccolta giolitina del ’45, e poi via via – risalendo i cinquant’anni circa sino alla fine del secolo – con i restanti otto volumi giolitini e non, con le frequenti riedizioni di alcuni di essi, e – infine – con antologie tratte dalle stesse ` a antologie, conosciute con i titoli di Rime scelte e di Fiori. E quest’importante fenomeno editoriale, dunque, che dobbiamo ora rivolgere brevemente la nostra attenzione, se vogliamo comprendere la nuova modalita` con cui certi modelli poetici italiani continuarono ad esercitare la loro influenza sulle soluzioni ispaniche, nei primi tre decenni della seconda meta` del secolo che precedettero la nuova e decisiva svolta.

2. Il ‘libro di rime’ italiano Nel 1545, presso l’editore veneziano Giolito de’ Ferrari, uscı` il primo volume della fortunata serie antologica: quelle Rime diverse, con le quali sia il curatore, Lodovico Domenichi, sia lo stesso editore, e` stato detto che «stavano tentando un’impresa editoriale non preliminarmente garantita, e in gran parte inedita»11. Nel presentare il volume, peraltro dedicato al poeta e diplomatico spagnolo Diego Hurtado de Mendoza, il curatore «poneva l’accento quasi esclusivamente sulla “diversita` dei concetti” e la “varieta` degli stili”»; e, difatti, nelle 370 pagine antologiche, «si allineano 91 autori e 539 componimenti»12. Nasceva cosı´ un nuovo tipo di silloge poetica, a cui 11 R. Fedi, La memoria della poesia. Canzonieri, lirici e libri di rime nel Rinascimento, Roma, Salerno Editrice, 1990, p. 254. Il volume antologico apparve col titolo completo di Rime diverse di molti eccellentiss. auttori nuovamente raccolti. Libro primo. Nel 1990 ne e` stata annunziata la ristampa, non ancora avvenuta, a cura di R. Fedi e F. Erspamer. Per i Giolito e la loro attivita` tipografica, strumento insostituibile risultano gli Annali di G. Giolito de’ Ferrari di Trino di Monferrato stampatore in Venezia, descritti e illustrati da S. Bongi, 2 voll., Roma, Ministero Pubbl. Istruzione, Tip. Bencini, 1890-1895, da integrare con P. Camerini, Notizie sugli annali giolitini di S. Bongi, Padova, Panada, 1935, e Id., Aggiunta alla notizia sugli Annali giolitini di S. Bongi, «Memorie dell’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Padova», LIII (1936-37), pp. 160-85. Sulle antologie poetiche cinquecentesche, cfr. A. Quondam, Petrarchismo mediato. Per una critica della forma «antologia», Roma, Bulzoni, 1974 e, dello stesso autore, «Mercanzia d’onore»/«Mercanzia d’utile». Produzione libraria e lavoro intellettuale a Venezia nel Cinquecento, in A. Petrucci (a cura di), Libri, editori e pubblico nell’Europa moderna, Roma-Bari, Laterza, 1977, pp. 51-104. Utili anche alcuni saggi contenuti in M. Santagata e A. Quondam (a cura di), Il libro di poesia dal copista al tipografo, Modena, Panini, 1989. Presto gli studiosi potranno avvalersi del volume di M. L. Cerro´n Puga, Petrarchismo rimosso. Catalogo ragionato delle antologie cinquecentesche, Firenze, Leo S. Olschki (in corso di stampa). 12 Fedi, La memoria della poesia, cit., rispettivamente, p. 253 e p. 254.

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possiamo riferirci con le denominazioni di «forma-raccolta» o di «libro di rime», per distinguerla dall’altro tipo, il canzoniere vero e proprio, il cui modello per antonomasia era costituito – ovviamente – dal Canzoniere petrarchesco. Difatti, come ha avvertito sinteticamente Guglielmo Gorni, questi «volumi miscellanei [...] attuano un progetto opposto a quello a cui s’ispira un libro organico di poesia; [...] affermano le ragioni della crestomazia, del frammento, dell’esemplarita`, contro quelle della lettura continua, della coesione interna, della contestualita`»13. L’intuizione del curatore del primo di tali volumi, ossia il Domenichi, si rivelo` giusta. Tra il 1545 e il 1560, videro la luce, sia presso lo stesso Giolito sia presso altri editori che ne seguirono l’esempio, ben nove ‘libri di rime’14. Ognuno di essi conobbe a sua volta varie e – in qualche caso – numerose riedizioni, che comportavano spesso anche delle modifiche nella presenza dei poeti antologizzati. Inoltre, alcuni di quei nove libri si presentavano nella veste di veri e propri tentativi regionalistici, come accadde con le due raccolte dei poeti napoletani del ’52 e del ’56, o quella dei poeti bresciani del ’5315. Successe, allora, che l’affollarsi del panorama poetico contemporaneo, prodotto dal rapido succedersi delle antologie, ne produsse a sua volta delle altre, organizzate con diverso criterio selettivo. Difatti, ben presto l’originario tipo di «rime diverse» dette luogo per partenogenesi al nuovo tipo delle «rime scelte di diversi autori», ossia: a antologie tratte dalle stesse antologie, come accadde – per limitarci ai casi piu` fortunati – ai due volumi di Rime scelte, curati entrambi da 13 G. Gorni, Le forme primarie del testo poetico, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana, vol. III. Le forme del testo, I. Teoria e poesia, Torino, Einaudi, 1984, ora raccolto in Id., Metrica e analisi letteraria, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 113-34; la citazione e` da p. 114. 14 Dei nove libri, quattro sono giolitini: il primo, 1545; il secondo, 1547; il quinto, 1552; il settimo, 1556. Uno fu stampato sia dal veneziano Bartolomeo Cesano, nel 1550, sia dal Giolito, nel 1552. I restanti cinque furono impressi a Bologna da Anselmo Giaccarelli, nel 1551; a Venezia da Michele Bonelli, nel 1553; a Lucca da Vincenzo Busdrago, nel 1556; e, infine, a Cremona da Vincenzo Conti, nel 1560. Si veda ora il recente contributo di M. L. Cerro´n Puga, Materiales para la construccio´n del canon petrarquista: las antologı´as de Rimas (libri I-IX), in «Critica del testo», II (1999), pp. 249-90, dove la studiosa propone di considerare come libro VIII della serie I fiori delle rime de’ poeti illustri, raccolti e ordinati da G. Ruscelli, e pubblicati a Venezia dai fratelli Sessa, nel 1558 (cfr., in particolare, le pp. 275-83). Della stessa studiosa, si veda anche il precedente contributo: Las antologı´as de poesı´a italiana en la Biblioteca Nacional de Madrid (1532-1637), in «Edad de Oro», XII (1993), pp. 41-60. 15 Si tratta dei due volumi giolitini Rime di diversi illustri signori napoletani, entrambi raccolti da Lodovico Dolce, e delle Rime di diversi eccellenti autori bresciani, stampati a Venezia da Plinio Pietrasanta.

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Lodovico Dolce nel ’53 e nel ’63, oppure ai notissimi Fiori di Girolamo Ruscelli, la cui prima edizione e` del ’5816. La piu` immediata conseguenza di cio` e` di ordine quantitativo, confermando – anche su questo versante – quella «tendenza espansiva e associativa» che, secondo Dionisotti, caratterizzo` la societa` letteraria italiana in eta` controriformistica17. Dalla meta` del secolo in avanti, si verifico` che, grazie al successo delle antologie poetiche, la produzione lirica crebbe su se stessa. Basti pensare che tra il 1551 e il 1660, i ‘libri di rime’ rappresentarono circa il 24 per cento della produzione libraria generale18. E impressiona il dato che Marı´a Pilar Manero trae dalla rassegna delle 42 piu` importanti antologie poetiche italiane del periodo, consegnato nelle Appendici che accompagnano la sua tesi di dottorato; ebbene, da quella rassegna, si desumeva un catalogo di ben 500 autori diversi e, addirittura, di 25.000 componimenti19. Ma le conseguenze di ordine qualitativo sono anche piu` significative. Accennero`, brevemente, solo ad alcune di esse, perche´ mi preme di arrivare al piu` presto a un esempio concreto con cui illustrare la nuova tappa dei rapporti tra lirica italiana e spagnola, al giro di boa della meta` del secolo. Partiamo da un dato qualitativo, questa volta. Negli anni che immediatamente circondano la meta` del secolo XVI, s’impone la tendenza che fa «della raccolta la tipologia lirica [...] per eccellenza, quasi a costituirsi in vero e proprio “genere essa stessa”». Questo vuol dire che, nel giro d’anni indicato, «la forma-canzoniere si va mutando gradatamente nella forma-raccolta o libro di rime»20. Al16

Rime di diversi eccellenti autori raccolte dai libri da noi altre volte impressi [...], in Vinegia appresso Gabriel Giolito de Ferrari et fratelli, MDLIII; Il secondo volume delle rime scelte da diversi eccellenti autori [...], in Vinegia appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, MDLXIII; I fiori delle rime de’ poeti illustri [...], in Venetia per Gio. Battista e Melchior Sessa Fratelli, 1558, gia` menzionati nella precedente n. 14. 17 Cfr. C. Dionisotti, La letteratura italiana nell’eta` del concilio di Trento (1965), in Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1980, pp. 227-54; la citazione e` da p. 237. 18 Per il dato quantitativo, cfr. A. Quondam, La letteratura in tipografia, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana, vol. II. Produzione e consumo, Torino, Einaudi, 1983, pp. 555-686, in part. la p. 678. 19 La imagen poe´tica petrarquista en la lı´rica espan˜ola del Renacimiento, Tesis doctoral, Universidad de Barcelona, 1984-85. Una sintesi dei soli tomi II, III e IV e` stata pubblicata dall’autrice col titolo di Ima´genes petrarquistas en la lı´rica espan˜ola del Renacimiento. Repertorio, Barcelona, PPU, 1990. I dati numerici riportati nel testo sono ricavati da M. P. Manero Sorolla, Antologı´as poe´ticas italianas de la segunda mitad del siglo XVI (1545-1590), «Anuario de Filologı´a», Universidad de Barcelona, IX (1983), pp. 259-99, in part. la p. 259 n. 1. 20 Per le citazioni, cfr. Fedi, La memoria della poesia, cit., pp. 45-46 e p. 49, rispettivamente.

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PARTE QUARTA

cune conseguenze ci sono gia` state suggerite da Gorni, nel passo che ho precedentemente citato21: la disorganicita` della seconda ha la meglio sull’organicita` della prima, e con cio` crestomazia, frammento, esemplarita` prevalgono sulla lettura continua, sulla coesione interna, sulla contestualita`. Ce n’e` gia` abbastanza; e, tuttavia, le conseguenze, lungi dall’arrestarsi all’interno del libro, finiscono col coinvolgere lo stesso rapporto che il testo intrattiene con la dimensione storica. Roberto Fedi ha, difatti, giustamente sottolineato come il ‘libro di rime’, nell’assemblare uno di seguito all’altro sia gli autori che i testi, ottenga il doppio effetto – per un lato – di perdita di gerarchia, e – per altro lato – di perdita di profondita` storica. Insomma, la nuova «forma-raccolta» tende a disporre gli autori e i testi che seleziona sul piano unidimensionale della massima scambiabilita` e della pura contemporaneita`. La conclusione di Fedi e` che da un’operazione di imitazione si e` passati a un processo di citazione, ossia – con le stesse parole dello studioso: La sommatoria, di autori e testi, induce a ritenere il fenomeno lirico come la risultante di un processo di addizione e di citazione, piu` che di imitazione – che invece appartiene al passato militante della poesia intesa come ri-creazione e commento testuale realizzato attraverso la scrittura del testo, e non ancora parallelamente ad esso22.

Tutto cio` si ripercuote anche nell’ambito delle relazioni tra poesia spagnola e italiana, nella seconda meta` del secolo. Prepariamoci a prendere cognizione di un episodio che illustra come, dopo una prima fase in cui un Garcilaso aveva forgiato il moderno linguaggio lirico sul modello di Petrarca, alcuni poeti delle successive generazioni – tra i quali emerge Herrera – inaugurino una nuova fase, durante la quale il tentativo di rinnovamento da essi compiuto passa anche attraverso il confronto con rimatori italiani, quali Annibal Caro e Antonfrancesco Rainerio, ossia con poeti minori, se non del tutto marginali, resi – pero` – fruibili da quei ‘libri di rime’, che – come abbiamo brevemente visto – caratterizzarono il panorama della lirica italiana nei decenni posteriori alla meta` del secolo.

21 22

Cfr. supra, n.13. Fedi, La memoria della poesia, cit., p. 51.

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3. Due sonetti di Annibal Caro e Antonfrancesco Rainerio Annibal Caro e Antonfrancesco Rainerio, un marchigiano e un milanese, rispettivamente, ebbero in comune il servizio presso i Farnese di Parma. Entrambi stretti collaboratori di Pier Luigi Farnese, difatti, ebbero – pero` – un destino affatto distinto, dal momento che la carriera di cortigiano del Caro, brillante per riuscita mondana, contrasta nettamente con quella del Rainerio, segnata dalla sfortuna, e votata allo smacco mondano e al fallimento. Nulla, peraltro, esprime meglio la diversita` dei due destini della fine che tocco` loro in sorte: il Rainerio morı`, difatti, suicida, laddove il Caro, ritiratosi a vita privata, passo` gli ultimi anni nella sua sontuosa villa di Frascati, attendendo alla sua celebre traduzione in endecasillabi dell’Eneide, nonche´ alla revisione delle Lettere familiari e delle Rime. Ne´ le cose cambiano sostanzialmente se passiamo al piano propriamente letterario: mentre il Caro riuscı` a conquistarsi un posto anche letterariamente riverito, il Rainerio – in un suo sonetto –, e benche´ sia con topica professione di modestia, si abbassa al rango d’«augel palustre», a paragone di quel «Cigno maggiore», riferendosi proprio al Caro, a cui il sonetto e` dedicato. Quanto, poi, alla specifica attivita` di rimatori, le Rime del Caro furono pubblicate postume nel 1569, mentre sedici anni prima il Rainerio aveva raccolto e pubblicato a Milano, presso Gio. Antonio Borgia, la sua produzione sonettistica, col significativo titolo di Cento sonetti, una raccolta che l’anno successivo fu riproposta dal piu` autorevole editore veneziano Giolito23. Ma e` alla presenza dei due rimatori nelle antologie poetiche che conviene ora di rivolgere la nostra attenzione. Entrambi sono presenti, difatti, nelle varie antologie finora menzionate, ma in forme alquanto diverse. Il Caro lo e` pressoche´ in tutte, benche´ con scarso

23 Per le notizie biografiche sul Caro, vd. le «voci» di C. Mutini, in Dizionario biografico degli italiani, vol. XX, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1977, pp. 497-508, e di C. Cremante, in Dizionario critico della letteratura italiana, vol I, Torino, UTET, 1984, 2ª ed., pp. 533-37. Di grande utilita` risulta il sintetico e recente profilo critico di R. Bragantini, «Poligrafi» e umanisti volgari, in E. Malato (a cura di), Storia della letteratura italiana, vol. IV. Il primo Cinquecento, Roma, Salerno Editrice, 1996, pp. 681-754, in part. le pp. 732-36, con annessa bibliografia aggiornata, per cui vd. p. 754. Sulla vicenda biografica del Rainerio, vd. B. Croce, Anton Francesco Rainerio, in Poeti e scrittori del pieno e tardo Rinascimento, vol II, Bari, Laterza, 1958 (2ª ed.), pp. 376-89, e S. Albonico, Il ruginoso stile. Poeti e poesia in volgare a Milano nella prima meta` del Cinquecento, Milano, Franco Angeli, 1990, pp. 127-28 e n. 237. Sui Cento sonetti, vd. lo stesso Albonico, Il ruginoso stile, cit., pp. 255-57, e soprattutto G. Gorni, Un’ecatombe di Rime. I «Cento sonetti» di Antonfrancesco Rainerio, «Versants», XV (1989), nuova serie, pp. 135-52.

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PARTE QUARTA

numero di testi, specialmente nella serie dei nove libri cosiddetti giolitini. Il Rainerio, invece, risulta molto piu` raramente presente; tuttavia, quando lo e`, il numero di testi e` piuttosto ampio: per esempio, nel Secondo libro delle rime del ’47, i 45 componimenti del Rainerio sopravanzano di molto gli appena 4 del Caro. Forniro` un ultimo dato numerico, relativo a quella che e` stata definita «la prima antologia della poesia contemporanea», e che – secondo la Manero – «revela ya la disposicio´n antolo´gica por excelencia de cuantas produjo el petrarquismo quinientista»24. Mi riferisco ai Fiori delle rime de’ poeti illustri, libro allestito dal viterbese Gerolamo Ruscelli nel 1558: qui il Rainerio risulta rappresentato con 45 testi, occupando – fra i 39 autori antologizzati – la quinta posizione per quantita` di componimenti, mentre il Caro, con i suoi 23 testi, e` comunque tra quelli maggiormente rappresentati, in undicesima posizione. Questi dati non debbono sembrare stravaganti, perche´ – come ha giustamente avvertito Quondam – «come tutte le antologie, anche i Fiori delegano alle proporzioni di quantita` il compito di definire e proporre l’esemplarita` di ciascuno, secondo un equilibrato gioco delle parti che conviene direttamente recuperare»25. Nei Fiori troviamo antologizzati i due sonetti sui quali d’ora in poi concentreremo la nostra attenzione. Leggiamone i testi: ANNIBAL CARO Eran Teti e Giunon tranquille, e chiare, Sol spirava Favonio, e fuggia Clori, L’alma Ciprigna innanti i primi albori. Ridendo, empia d’amor la terra, e ’l mare. La rugiadosa Aurora in ciel piu` rare Facea le stelle, e di piu` bei colori Sparse le nubi, e de’ monti uscı´a fori Febo, qual piu` lucente in Delfo appare. Quand’altra Aurora in piu` vezzoso ostello Apparse, e rise, e giro` lieto e puro Il Sol, che sol m’abbaglia, e mi disface. Volsimi incontro allora, e vidi oscuro (Santi lumi del ciel, con vostra pace) L’oriente, che dianzi era sı` bello.

24

Cfr., rispettivamente, A. Quondam, Il libro tra «scriptorium» e tipografia, in Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del Classicismo, Modena, Panini, 1991, pp. 99-121, la citazione e` da p. 108; Manero Sorolla, Antologı´as poe´ticas italianas, cit., p. 273. 25 Quondam, Il libro di poesia, cit., pp. 108-09.

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ANTONFRANCESCO RAINERIO Era tranquillo il mar; le selve, e i prati scoprian le pompe sue, fior, frondi al cielo; e la notte sen gia squarciando il velo e spronando i cavai foschi et alati; scuotea l’aurora da’ capegli aurati perle d’un vivo trasparente gelo, e gia` ruotava il Dio che nacque in Delo raggi da i liti eoi ricchi odorati; quand’ecco d’occidente un piu` bel Sole spuntogli incontro, serenando il giorno, e impallidı` l’Orientale imago. Velocissime luci eterne e sole, con vostra pace, il mio bel viso adorno parve allor piu` di voi lucente e vago26.

Lo spuntare della splendente aurora, delle quartine, e` vinta, in luce e bellezza, dall’apparire della donna amata dal poeta, nelle terzine: questo, in sostanza, il nucleo tematico di entrambi i sonetti, che presentano tra di loro legami talmente stretti, sia sul piano tematico che su quello formale, da rendere praticamente certa la derivazione diretta di uno dall’altro. Stando ai soli testi, e` difficile stabilire a quale dei due spetti la priorita`; si tenga conto, comunque, che il rimatore milanese considero` se stesso un «oscuro seguace» del piu` brillante collega di origini marchigiane, il che indurrebbe ad assegnare la priorita` al sonetto del Caro rispetto a quello del Rainerio. Ora, del sonetto che cronologicamente precede e` stato detto di recente che esso e` un chiaro esempio di quella «commistione classico-petrarchesca», che e` poi una nota caratteristica della produzione lirica del Caro, e che fa sı´ che gli esiti della sua poesia siano «talvolta paragonabili a quelli degli altri rimatori tosco-romani» (Molza, Tolomei, il Coppetta)27. Del resto, e` nota la frequentazione 26

Cito dall’edizione de I fiori del 1558, rispettivamente, pp. 50 e 79, secondo l’esemplare conservato presso la Biblioteca Nacional de Madrid (3/34507). I due sonetti possono leggersi anche in A. Caro, Opere, a c. di S. Jacomuzzi, Torino, UTET, 1974, p. 331, che riproduce il testo della prima edizione delle Rime del Caro, stampata da Aldo Manuzio (Venezia, 1569), con numerose varianti rispetto al testo qui riprodotto; e, per il Rainerio, Lirici del Cinquecento, a c. di L. Baldacci, Milano, Longanesi, 1975, pp. 227-28. 27 Cfr. G. Masi, La lirica e i trattati d’amore, in Storia della letteratura italiana, vol. IV. Il primo Cinquecento, cit., pp. 595-679, la citazione e` da p. 627. Gia` Dionisotti, a proposito della celebre canzone in lode della Casa di Francia, «Venite all’ombra de’ gran gigli d’oro», aveva parlato di «via prebarocca della contaminazione di elementi classici e petrarcheschi»; cfr. Annibal Caro e il Rinascimento, «Cultura e Scuola», V (1966), pp. 26-35, la citazione e` da p. 33.

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PARTE QUARTA

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dei classici greci e latini da parte del Caro, il quale si accosto` ad essi fin dagli anni giovanili, grazie anche all’incontro con Pier Vettori, avvenuto a Firenze, dove il nostro rimatore si era trasferito diciottenne28. Comunque sia, all’origine dei due sonetti si colloca un epigramma latino di Quinto Lutazio Catulo, che ci e` stato conservato dal De natura deorum di Cicerone. Dice l’epigramma: Consisteram exorientem Auroram forte salutans, cum subito a laeva Roscius exoritur. Pace mihi liceat caelestes dicere vestra: mortalis visus pulchrior esse deo29. [Mi ero fermato per caso a salutare l’Aurora nascente, quando improvvisamente spunta Roscio alla mia sinistra. O celesti, mi sia concesso di dire con vostra pace: che un mortale e` piu` bello di un dio].

L’esile schema dell’epigramma latino risulta fondamentale per lo sviluppo del tema della simultanea apparizione dell’aurora e dell’oggetto amato, col conseguente raffronto tra la bellezza dell’uno e dell’altra, e l’assegnazione della palma della vittoria al secondo sulla prima. Tuttavia, quello schema sarebbe stato ben poca cosa, se su di esso non si fosse innestata una doppia tradizione, che naturalmente presenta al suo interno notevoli punti di contatto. Mi riferisco, da un lato, alla tradizione classica della descrizione dello spuntare del nuovo giorno, e – dall’altro lato – a quella petrarchesca. Quanto alla prima, in un saggio ancora oggi fondamentale, l’autrice, Marı´a Rosa Lida de Malkiel, traccia preliminarmente una rassegna di testi classici, nella quale il tema poetico viene rintracciato e seguito da Omero a Claudiano, fino ai poeti latinocristiani dell’Antichita`, Prudenzio e Giovenco30. Quanto alla seconda, e` noto che nel Canzoniere Petrarca usa il termine Aurora come senhal dell’amata, e ricorre in piu` d’una occasione al gioco paronomastico Laura-l’Aurora. Tuttavia, un nucleo tematico che risulti formalizzato alla stessa maniera dei nostri due sonetti e` assente nel Canzoniere, dove al piu` leggeremo le terzine del componimento 219, che maggiormente si avvicinano al tema, se non proprio allo schema formale dei sonetti: 28 Cfr. F. Tateo, Poesia epica e didascalica in volgare, in Storia della letteratura italiana, vol. IV. Il primo Cinquecento, cit., pp. 787-834, in part. la p. 795. 29 De natura deorum, 3.79. 30 M. R. Lida De Malkiel, El amanecer mito´logico en la poesı´a narrativa espan˜ola, «Revista de Filologı´a Hispa´nica», VIII (1946), ora raccolto in Ead., La tradicio´n cla´sica en Espan˜a, Barcelona, Ariel, 1975, pp. 121-64.

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Cosı` mi sveglio a salutar l’aurora, e ’l sol ch’e` seco, et piu` l’altro ond’io fui ne’ primi anni abagliato, et sono anchora. I’ gli o` veduti alcun giorno ambedui levarsi insieme, e ’n un punto e ’n un’hora quel far le stelle, et questo sparir lui31.

dove il v. 9, con l’espressione salutar l’aurora, sembra una ripresa di quella dell’epigramma latino: Auroram... salutans; mentre nella seconda terzina si concentra il tema del doppio ‘sole’: quello che suole accompagnare l’aurora, e quello a cui e` – per metafora – assimilata Laura, colti nel sorgere simultaneo (ambedui / levarsi insieme), e nel sovrastare della luce dell’uno (questo, Laura) a quella dell’altro (lui, aurora). Col sostegno dell’epigramma latino e le terzine petrarchesche, credo che quella definizione di «commistione classico-petrarchesca» acquisti una consistenza e un’evidenza maggiori. Del resto, la componente petrarchesca, oltre che dal contesto formato dalle due terzine citate e dal ricorrente paragone tra Laura e l’aurora, e` reso ancor piu` evidente dalla ripresa di singole unita` tematiche e stilistiche: dall’immagine solare dell’amata che percorre l’intero Canzoniere a espressioni isolate come ‘squarciare il velo’, che con diversi significati compare in 28, 62 e 362, 4, o dallo stesso verbo ‘abbagliare’, che con identico uso riappare in 107, 8.

4. Peripezie dei sonetti del Caro e del Rainerio in terre iberiche Possiamo passare senz’altro a considerare le peripezie spagnole dei nostri due sonetti, dal momento che essi, veicolati sicuramente dalla larga diffusione che ebbero in terra iberica i ‘libri di poesia’ che li raccoglievano, godettero di una singolare fortuna tra i poeti spagnoli della seconda meta` del secolo, come ci accingiamo a vedere. Preliminarmente, preciso soltanto che l’ordine con cui procederemo nella rassegna e` solo in parte cronologico; piuttosto, esso e` un ibrido di sequenzialita` cronologica e di resa poetica rispetto ai modelli. 31

F. Petrarca, Canzoniere, edizione commentata a c. di M. Santagata, Milano, Mondadori, 1996, pp. 921-23, dove nella nota al v. 9 e` riportato anche l’epigramma latino, da cui le due terzine petrarchesche prendono lo spunto. Per il paragone tra Laura e l’aurora, si vedano anche i sonetti 223, 12-14; 255; 291, 1-4.

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

PARTE QUARTA

4.1 Diego Ramı´rez Paga´n

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Il primo testo in cui c’imbattiamo e` quello del murciano Diego Ramı´rez Paga´n, che lo incluse nella sua raccolta Floresta de Varia Poesı´a, pubblicata a Valencia nel 1562. Nonostante il titolo decisamente religioso: Soneto a Nuestra Sen˜ora del Alva, quando leggiamo il sonetto – almeno fino al v. 11 –, ci accorgiamo di essere sostanzialmente di fronte a una traduzione del componimento del Rainerio, sottoposto quasi esclusivamente agli inevitabili adattamenti che impone il cambio linguistico, insieme allo schema metrico: Soneto a nuestra Sen˜ora del Alva Sossegado esta´ el mar, selva y prados la hoja y flor su pompa muestra al cielo, la noche vi rompiendo apriessa el velo sus cavallos herir negros y alados. Scyntia dexa los campos plateados de un transparente y christalino yelo, respandecı´an del sen˜or de Delo los orientales rayos colorados. Quando otro sol ma´s puro de occidente veys donde assoma serenando el dı´a, la ymagen oriental descolorando32.

Come si vede, il poeta murciano si e` limitato a ricalcare il testo del Rainerio con un risultato di resa poetica ancor piu` modesto del sonetto italiano, da cui si allontana – in modo piu` rilevante – in un paio di occasioni: quei «campos plateados», che hanno preso il posto dei «capegli aurati» con cui viene raffigurata l’aurora; e la presenza del poeta nel testo in veste di osservatore dello spettacolo aurorale, mediante l’introduzione del verbo «vi», a cui corrisponde la forma «veys» della prima terzina, con analoga funzione, riferita pero` ai destinatari del componimento. Solo con la seconda terzina arriva la fondamentale novita`: l’‘altro sole’, che spunta ad occidente rivaleggiando con quello che ad oriente accompagna l’aurora, e` nientemeno la Vergine, la quale comprensibilmente ha facile gioco nell’imporre la sua bellezza trascendentale su quella naturalissima dello spuntar del nuovo giorno:

32

Riproduco il testo di D. Ramı´rez Paga´n, Floresta de varia poesı´a, a c. di A. Pe´rez Go´mez, vol. I, Barcelona, Selecciones Biblio´folas, 1950, p. 216.

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Y dixo: Eterna luz sola y ardiente suffrid en paz la hermosura mı´a que ma´s clara que vos se ha mostrado.

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Il sonetto del Rainerio, dunque, sebbene non abbia tratto gran profitto dal rifacimento in spagnolo, si rivela comunque l’inconsapevole protagonista di un interessante e – in qualche modo – precoce adattamento «a lo divino» di un motivo marcatamente classico e profano, come aveva avvertito Fucilla, che – a proposito del sonetto di Ramı´rez Paga´n – aveva affermato che esso «representa uno de los primeros ejemplos de un poema a lo divino escrito durante el 33 renacimiento espan˜ol» .

4.2 Jero´nimo Lomas Cantoral Torniamo decisamente – e definitivamente – alla dimensione profana col seguente sonetto che Jero´nimo Lomas Cantoral pubblico´ nelle sue Obras, nel 1578. Al cambio di prospettiva, comunque, non corrisponde un analogo progresso estetico, dal momento che si ha l’impressione che il sonetto spagnolo resti al di sotto del modello italiano; anzi, dei modelli italiani: perche´ la novita` e l’interesse del componimento di Lomas Cantoral consiste nel contaminare entrambi i sonetti, del Rainerio e del Caro. Difatti, la seconda quartina di Lomas Cantoral risulta pressoche´ interamente ricalcata sulla strofa corrispettiva del sonetto del Rainerio: Arrojaba el Aurora de rosados dedos mil perlas de un luciente yelo, rodeaba el dios que nacio´ en Delo de rayos su sagrada faz dorados34

con la brina (perlas de un luciente yelo) che, in luogo dei «capegli 33 Cfr. J. G. Fucilla, Estudios sobre el petrarquismo espan˜ol, Madrid, Anejos de la «Revista de Filologı´a Espan˜ola», 1960, p. 62. Secondo Fucilla, i due poeti italiani si erano a loro volta rifatti a un terzo sonetto di L. Ariosto, «Chiuso era il sol da un tenebroso velo», che «fue´ uno de los ma´s copiados del renacimiento italiano» (p. 63). Quanto al testo di Ra´mirez Paga´n, esso e` uno dei «neuf sonnets spirituels» raccolti nel canzoniere lirico, per cui vd. M. Darbord, La poe´sie religieuse espagnole des Rois Catholiques a Philippe II, Paris, Centre de Recherches de l’Institut d’Edudes Hispaniques, 1965, pp. 427-29. 34 Cito da Las obras de Jero´nimo Lomas Cantoral, a c. di L. Rubio Gonza´lez, Valladolid, Institucio´n Cultural Simancas, 1980, pp. 179-80; e vd. anche Fucilla, Estudios sobre el petrarquismo, cit., pp. 131-32.

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PARTE QUARTA

aurati», procede dai «dedos rosados» della dea, in conformita` alla descrizione classica dell’aurora, che – in effetti – la rappresentava con braccia e mani rosee. Le due terzine, invece, riprendono sostanzialmente quelle del sonetto del Caro:

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cuando otra bella aurora de Occidente salio´ riendo y descubrio´ ma´s puro el sol que so´lo el sumo sol me adiestra. Quedo´ luego a su luz pobre y oscuro, divinas lumbres, con licencia vuestra, el claro amanecer de Orı¨ente

dove, al v.11, si percepisce il concentrato gioco paranomastico, che ripete – con rincaro – quello dello stesso verso del Caro: «il sol che sol m’abbaglia e mi disface». In effetti, nell’uso dell’iterazione paronomastica, Lomas Cantoral, attraverso la mediazione di Annibal Caro, si rifa` direttamente al modello petrarchesco. In piu` di un componimento del Canzoniere, difatti, Petrarca ricorre all’uso reiterato dei termini sol e sole, con i diversi significati: di astro, di amata, di Dio, oltre che di aggettivo e avverbio. In due casi, la canzone 135 «Qual piu` diversa e nova» e il sonetto 338 «Lasciato a`i, Morte, senza sole il mondo», la reiterazione e` triplice come in Lomas Cantoral, benche´ essa non si concentri nello stesso verso, ma ricorra in uno ` , tuttavia, con l’esordio del sonetto 306 spazio testuale piu` ampio35. E del Canzoniere petrarchesco, che il verso spagnolo mostra maggiori contatti: Quel sol che mi mostrava il camin destro di gir al ciel con glorı¨osi passi, 36 tornando al sommo Sole... (vv. 1-3) .

dove ritroviamo non solo l’iterazione sol (=amata) e sommo Sole (=Dio), ma anche l’aggettivo destro, che – nel testo spagnolo – e` ripreso dal verbo «adiestra», col significato di «guiar a alguno de la 35

Petrarca, Canzoniere, ed. cit., pp. 653-65 e 1303-305. La reiterazione e` presente nei vv. 6, 9 e 11 della canzone, e nei vv. 1 e 6 del sonetto. 36 Ivi, p. 1181. Il verbo del testo spagnolo (adiestra) conserva un’eco del motivo, a cui allude l’aggettivo del sonetto petrarchesco (destro), e sul quale abbondanti riferimenti si potranno trovare in F. Rico, Vida u obra del Petrarca, vol. I. Lectura del Secretum, Capell Hill, University of North Carolina, 1974, pp. 304-06. e F. Petrarca, Secretum, a c. di E. Fenzi, Milano, Mursia, 1992, pp. 369-70.

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

diestra, o porque es ciego, o porque camina por lugar obscuro» – specifica il Diccionario de Autoridades. Dal gioco delle riprese, abbiamo lasciato fuori la prima quartina del sonetto di Lomas Cantoral. Essa, difatti, fonde – nella stessa unita` strofica – i due modelli italiani, annunciando cosı` quella trama di accostamenti che le seguenti strofe provvederanno a realizzare e completare, separatamente:

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El mar y el aire estaban sosegados. So´lo Favonio aspira en vuelo su¨ave y manso, y de la noche el velo roto, mostraban su beldad los prados

dove il riferimento a Favonio e` ripreso dal sonetto del marchigiano, e quello allo ‘squarciarsi del velo notturno’ procede direttamente da quello del milanese. In conclusione, l’interesse del componimento di Lomas Cantoral direi che consiste esclusivamente nella tecnica combinatoria con la quale fonde i due modelli italiani, e nella realizzazione della quale trova lo spazio per immettere, con analogo procedimento, il richiamo al modello per antonomasia – quello direttamente petrarchesco – che presiede alle tre esecuzioni, le due italiane e la spagnola.

4.3 Francisco de la Torre Con i sonetti degli ultimi due poeti della nostra rassegna: probabilmente gia` quello del misterioso Francisco de la Torre37, e – senza alcun dubbio – con il sonetto del divino Herrera, siamo messi di fronte a un livello di maggiore resa poetica. E cio` benche´ – o, forse, proprio perche´ – la loro distanza dai modelli e` nel frattempo aumentata. Dei modelli italiani, difatti, il testo di Francisco de la Torre non conserva altro che il disegno di fondo: lo spuntare dell’aurora nelle quartine, l’apparizione dell’amata nelle terzine; ma – anche su questo piano – c’e` da dire che la fondamentale e costante correlazione temporale tra i due eventi, affidata alla congiunzione quando, all’ini37 Sull’identita` del poeta, vd. i recenti contributi di J. De Sena, Francisco de la Torre e D. Joao de Almeida, Paris, Fundac¸ao Calouste-Gulbenkian, 1972; di A. Blanco Sa´nchez, De Quevedo a Fray Luis. En busca de Francisco de la Torre, Salamanca, Atlas, 1982; di M. L. Cerro´n Puga, El poeta perdido: aproximacio´n a Francisco de la Torre, Pisa, Giardini Editore, 1984.

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PARTE QUARTA

zio del nono endecasillabo, cede il posto a un piu` neutro – e direi, anche piu` debole – correlativo tal. Solo nella seconda terzina, peraltro, viene ripreso il motivo della ‘superiorita`’ dell’amata sugli astri, mediante il verbo inclina, tre volte reiterato nello stesso verso. Ma, a parte il disegno di fondo, che indubbiamente riporta il componimento spagnolo ai due sonetti da cui siamo partiti, per il resto, ossia: a livello delle singole micro-unita` che danno corpo a quel disegno, e` difficile individuare precise e puntuali riprese di un testo rispetto agli altri due, se escludiamo – come e` necessario fare – tutti quegli elementi che si ritrovano in decine e decine di liriche descrizioni della nascita del nuovo giorno e dello spuntar dell’aurora; elementi che – evidentemente – non provano nulla circa l’effettivo rapporto tra i testi. Ma, forse e` il caso di ricorrere direttamente alla lettura del sonetto di Francisco de la Torre: Rompe la niebla de la noche frı´a, de nieve y ostro y de cristal ornada, de perlas orientales esmaltada, rosada Aurora, y aparece el dı´a. Descubre al campo la beldad que habı´a convertido en espanto la cerrada y escurı´sima noche; y de pasada, enriquece la tierra de alegrı´a. Tal a mis ojos la beldad divina, del ´ıdolo purı´simo que adoro, Aurora clara, con tu paz parece. Inclina el sol, inclina el cielo, inclina los elementos; y al Pierio Coro, gloria mayor que la que goza, ofrece38.

Piuttosto c’e` da notare il maggiore rilievo che acquista nel componimento di de la Torre il riferimento al singolo motivo della ‘notte’, che nei precedenti sonetti, sia italiani che spagnoli, pur comparendo come breve e costante allusione allo ‘squarciarsi del velo notturno’, tuttavia non prendeva il sopravvento sugli altri aspetti che contribuivano a descrivere la nascita dell’aurora. Posto ad esor38

F. de La Torre, Poesı´a completa, a c. di M. L. Cerro´n Puga, Madrid, Ca´tedra, 1984, p. 75. Vd. S. Pe´rez-Abadı´n, Los sonetos de Francisco de la Torre, Manchester, University of Manchester, 1997, pp. 177-78 e n. 26, dove la studiosa osserva che «Ni el poema italiano [del Rainerio] ni las otras imitaciones [di Lomas Cantoral e di Herrera] recurren a la estructura comparativa que articula el soneto I–2 de La Torre». Sulla funzione strutturale che il nostro sonetto svolge nella raccolta, e sulle relazioni di esso con gli altri componimenti, si veda lo schema riassuntivo della Pe´rez-Abadı´n, pp. 119-21.

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dio del componimento: «Rompe la niebla de la noche frı´a», esso riceve un ulteriore e piu` ampio sviluppo nella seconda quartina, dove – a me sembra – che esso riecheggi alcuni celebri versi della prima egloga di Garcilaso: Como al partir del sol la sombra crece, y en cayendo su rayo, se levanta la negra escuridad que ’l mundo cubre, de do viene el temor que nos espanta y la medrosa forma en que s’ofrece aquella que la noche nos encubre hasta que el sol descubre su luz pura y hermosa, tal es la tenebrosa noche de tu partir... (vv. 310-19)39.

A parte la correlativa introdotta da tal, a cui non darei eccessivo peso, se non fosse che i versi di de la Torre ripropongono, in forma concentrata, il tema della restituzione alla luminosa bellezza del giorno di tutto cio` che – qui circoscritto al «campo» – era avvolto nelle tenebre notturne e – pertanto – incuteva paura; il recupero del tema e`, del resto, confermato dalla ripresa di alcuni elementi lessicali, come escuridad con escurı´sima, la terna verbale: cubre, encubre, descubre col solo descubre, e – infine – il verbo espanta trasformato nel sostantivo espanto. Ma i richiami alla poesia di Garcilaso da parte di de la Torre non si esauriscono col tema della ‘notte’. Ho gia` fatto notare come la ‘superiorita`’ della bellezza dell’amata su quella dell’aurora sia affermata, nell’ultima terzina, mediante il ripetuto ricorso al verbo inclina: Inclina el Sol, inclina el cielo, inclina / los elementos. Ebbene, di nuovo in Garcilaso, nella seconda egloga – questa volta – leggiamo i seguenti tre versi:

39

G. de la Vega, Obra poe´tica y textos en prosa, a c. di B. Morros, Barcelona, Crı´tica, 1995, pp. 135 e 466. Sulla strofa dell’egloga segnalo un importante lavoro inedito di R. Pinto, Lo ‘extran˜o’ y la sombra, citato e utilizzato da G. Sere´s, La transformacio´n de los amantes. Imagenes el amor de la antigu¨edad al Siglo de Oro, Barcelona, Crı´tica, 1996, pp. 221-22. Sul motivo notturno nella poesia di F. de la Torre, vd. A. Zamora Vicente, Pro´logo a F. de la Torre, Poesı´as, Madrid, Espasa-Calpe, 1969, pp. XXXVII-XLII; G. Hughes, The Poetry of Francisco de la Torre, Toronto, University of Toronto Press, 1982, pp. 35-37; Cerro´n Puga, Introduccio´n all’ed. cit., pp. 32-33; Pe´rez-Abadı´n, Los sonetos, cit., pp. 73-74 e n. 76, 81, 159.

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PARTE QUARTA

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Denunciaba el aurora ya vecina la venida del sol resplandeciente, a quien la tierra, a quien la mar s’enclina (vv. 551-53)40.

In de la Torre, troviamo il motivo – per cosı` dire – rovesciato. Se in Garcilaso, difatti, il ‘mare’ e la ‘terra’ s’inchinano al sole dell’aurora, riconoscendone la superiorita`; in de la Torre, l’«ı´dolo purı´simo» piega alla sua superiore bellezza ‘sole’, ‘cielo’ ed ‘elementi’. Del sonetto di Lomas Cantoral avevamo concluso che il suo interesse consisteva nell’applicazione di una tecnica combinatoria, con la quale si fondevano i due modelli italiani, mentre su entrambi si innestava il richiamo diretto a Petrarca; del sonetto di de la Torre, si potrebbe concludere che il suo interesse consiste nello sforzo di prendere le distanze dai due modelli italiani, ai quali – comunque – si rifa` nel disegno di fondo, mentre esibisce il richiamo altrettanto diretto a Garcilaso, vale a dire all’altro termine del binomio di autorita` poetiche per questi poeti, tutti attivi nella seconda meta` del secolo.

4.4 Fernando de Herrera Giunti alla fine della nostra rassegna, troviamo il divino Herrera, con la doppia versione del sonetto, presente sia nella selezione di Algunas obras, l’unico libro di poesia pubblicato in vita del poeta nel 1582, sia nella piu` cospicua raccolta, pubblicata dall’amico Pacheco nel 1619, quando Herrera era morto da piu` di vent’anni (1597). Rispetto al sonetto di de la Torre, con quello di Herrera torniamo a una maggiore aderenza ai modelli italiani del Rainerio e del Caro, con prevalenza – direi – del milanese sul marchigiano. Ma leggiamo, prima, il componimento nella versione dell’82: Del fresco seno ya la blanca Aurora perlas de ielo puras esparzı´a y con serena frente alegre abrı´a el esplendor su¨ave, qu’atesora; El lu´cido confin d’Euro i de Flora con la rosada llama, qu’encendı´a Delio aun no roxo, al tierno i nuevo dı´a 40

G. de la Vega, ed. cit., p. 168. Sulla triplice iterazione e la spezzatura del v. 12 del sonetto di de la Torre, vd. Pe´rez-Abadı´n, Los sonetos, cit., pp. 141, 154, 159.

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LA POESIA NELL’EPOCA DI FILIPPO II: MODELLI ITALIANI

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esclarece i esmalta, orla i colora; Cuando sale mi Luz, i en Orı¨ente desmaya el vivo lustre; oˆ vos del cielo vagas lumbres, si tanto se consiente, Digo con vuestra paz, qu’en mortal velo parecio mas que vos bella i fulgente mi Luz, qu’onora el rico, Esperio suelo41.

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Come si vede, non solo e` conservato il disegno strutturale dei modelli, con il ripristino della correlazione temporale introdotta dalla consueta congiunzione cuando, all’inizio delle terzine, ma il poeta riprende anche, soprattutto dal componimento del Rainerio42 – come gia` dicevo –, singole micro-unita`. Limitando il confronto alla sola versione dell’82, notiamo per esempio che: — al v. 2, troviamo restaurate le abituali «perlas de ielo» per la brina aurorale; — ai vv. 9-10, torna l’immagine dell’offuscamento dell’astro solare in compresenza dell’amata: «en Orı¨ente / desmaya el vivo lustre» da confrontare con «impallidı´o l’orientale imago»; — ai vv. 10-12, l’invocazione dei lucenti astri, affinche´ consentano il paragone a loro svantaggio: «oˆ vos d’el cielo / vagas lumbres, si tanto se consiente, / Digo con vuestra paz» che riecheggia sia «Velocissime luci eterne e sole, / con vostra pace» del Rainerio, sia «santi lumi del ciel con vostra pace», con maggiore aderenza al primo, da cui e` ripreso anche 41 Riproduco il testo di F. de Herrera, Algunas obras, a c. di B. Lo´pez Bueno, Sevilla, Diputacio´n de Sevilla, 1998, p. 349. Vd. anche F. de Herrera, Obra poe´tica, a c. di J. M. Blecua, vol. I, Madrid, Anejos del «Boletı´n de la Real Academia Espan˜ola», 1975, pp. 416-17, che edita i testi di H (1582) e di P (1619); Id., Poesı´a castellana original completa, a c. di C. Cuevas, Madrid, Ca´tedra, 1985, pp. 457-58, per il testo di H (con riproduzione delle varianti di P, in apparato, p. 837); Id., Poesı´as, a c. di V. Roncero Lo´pez, Madrid, Castalia, 1992, pp. 481-82, che edita il solo testo di H. 42 Fucilla, Estudios sobre el petrarquismo, cit., p. 146. All’Aurora e` dedicata una delle numerose note metodologiche delle Anotaciones (cfr. Obras de Garci Lasso de la Vega con anotaciones de Fernando de Herrera, Sevilla, Alonso de la Barrera, 1580, ed. facsimile e studio bibliografico di J. Montero, Universidades de Co´rdoba-Sevilla-Huelva/Grupo P.A.S.O, 1998, p. 554), ripresa in parte da Lilio Gregorio Giraldo, De deis gentium, Basilea, 1548, come ha recentemente indicato B. Morros, Las pole´micas literarias en la Espan˜a del siglo XVI: a propo´sito de Fernando de Herrera y Garcilaso de la Vega, Barcelona, Quaderns Crema, 1998, pp. 42-43, dove possono anche leggersi le considerazioni circa «los escolios consagrados a cuestiones lingu¨´ısticas [que] tienen como punto de partida la Apologia degli Accademici di Banchi di Roma contra messer Lodovico Castelvetro (Parma, 1558)» di Annibal Caro (pp. 192-94).

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PARTE QUARTA

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l’aggettivo vago del vicino v. 14, con spostamento dal «bel viso» dell’amata alle «luci» perdenti nel confronto; — il v. 13, infine: «parecio mas que vos bella y fulgente» sembra ricalcato sull’ultimo verso del Rainerio: «parve allor piu` di voi lucente e vago». Eppure, nonostante la documentata fedelta` al modello – nel disegno di fondo come nelle singole riprese –, siamo lontani dal calco perseguito dai primi due sonetti spagnoli che abbiamo letto, quelli di Ramı´rez Paga´n e Lomas Cantoral. Con eccessiva semplicita`, forse, si potrebbe dire che Herrera, lavorando con gli stessi elementi, e` approdato a un risultato che – se non e` proprio inedito – presenta comunque un sensibile rinnovamento, con un effetto sconosciuto, almeno rispetto ai modelli di partenza. A me pare, peraltro, che tale effetto aumenti nel passaggio dalla versione contenuta nella selezione del 1582 a quella raccolta da Pacheco: D’el fresco seno lu´cido l’Aurora de tierno ielo perlas esparzı´a i con purpurea frente alegre abrı´a el esplendor suave, qu’atesora; El sereno confin d’Euro i de Flora con la rosada llama; qu’encendı´a Delio aun no roxo bien, al nuevo dı´a esclarece i esmalta, orla i colora. Cuando sale mi Luz, i en Orı¨ente desmaya el puro ardor, oˆ vos d’el cielo vagas Lumbres, si tanto se consiente, Digo con vuestra paz; qu’en mortal velo, mas que vos bella aparecio i fulgente mi Luz; qu’onora el rico Esperio suelo43.

Nello spazio di cui dispongo, sarebbe impossibile affrontare pienamente i problemi che pongono le due redazioni della poesia di Herrera, e che hanno dato luogo a numerosi studi, nonche´ alle costruttive polemiche tra rinomati studiosi e filologi44. Troppe sareb43

Ed. cit. di J. M. Blecua, pp. 416-17. La questione che – com’e` noto – ha le sue lontane origini in un’affermazione di Francisco de Quevedo contenuta nel prologo alla sua edizione di F. de la Torre del 1631, nonche´ nelle Apostillas alla copia dei Versos in suo possesso (cfr. l’ed. cit. di Cerro´n Puga, p. 70; ma vd. P. M. Komanecky, Quevedo’s notes on Herrera: The involvement of Francisco de la Torre in the controversy over Go´ngora, «Bulletin of Hispanic Studies», LII (1975), pp. 122-33), ha visto coinvolti, nel corso del nostro secolo, studiosi e filologi come A. Coster, J. M. Blecua, S. Battaglia, O. Macrı`, D. Kossoff; per i puntuali riferimenti bibliografici, rinvio 44

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LA POESIA NELL’EPOCA DI FILIPPO II: MODELLI ITALIANI

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bero, percio`, le premesse che dovrei fare, per entrare nel pieno della questione. Mi limitero`, pertanto, a qualche isolata osservazione relativa alla doppia versione del nostro sonetto, ricordando – in via preliminare – soltanto uno studio piuttosto recente. Qualche anno fa, Bienvenido Morros, studiando il sonetto di Herrera «Pense´, mas fue engan˜oso pensamiento», anch’esso in doppia versione, ne individuo` le fonti precise: due sonetti di Bernardo Tasso e Benedetto Varchi, entrambi presenti proprio nell’antologia italiana delle Rime scelte del ’63, e noto` come la versione del 1582 era molto piu` vicina alle fonti di quanto lo fosse quella della raccolta del ’19, che – difatti – mostrava una chiara tendenza ad allontanarsi dai modelli. Il caso presentato da Morros era incontrovertibile, per cui lo studioso potette ragionevolmente segnare un punto fermo: la versione raccolta nel ’19 e` redazionalmente posteriore a quella pubblicata nella selezione del 1582, contro l’ipotesi precedentemente formulata da qualche – pur autorevole – studioso della materia45. Le conclusioni di Morros possono applicarsi anche al nostro sonetto? Pur essendo la situazione di partenza molto simile, il caso del nostro sonetto non consente soluzioni cosı` limpide e sicure come quello preso in esame da Morros. Ma proviamo a generalizzare il procedimento da lui utilizzato. Proviamo, cioe`, a interpretare le varianti, invece che come una presa di maggiore distanza dalla singola fonte, piuttosto come tentativo di rinnovare dall’interno certe forme del linguaggio lirico petrarchesco, sentite ormai come troppo rigide e convenzionali. Faro` un solo esempio, per un’ipotesi tutta da alle recenti sintesi di Cuevas, La cuestio´n textual, in Herrera, ed. cit., pp. 87-99, e di Roncero, Drama textual, in Herrera, ed. cit., pp. 79-84. Ai lavori citati, bisogna aggiungere i numerosi e recenti contributi di I. Pepe Sarno, Bianco il ghiaccio, non il velo. Ritocchi e metamorfosi di un sonetto di Herrera, in Ecdotica e testi ispanici (Atti del Convegno Nazionale dell’Associazione Ispanisti Italiani. Verona, 18-19-20 giugno 1981), Verona, Universita` degli Studi di Verona, 1982, pp. 111-23 (pubblicato anche in «Strumenti Critici», XV (1981), pp. 458-71); Id., Se non Herrera, chi? Varianti e metamorfosi nei sonetti di Fernando de Herrera, «Studi Ispanici», 1982, pp. 33-69; 1983, pp. 103-27; 1984, pp. 43-76; e di J. Montero, Una versio´n ine´dita (con algunas variantes) de la cancio´n Al suen˜o de Fernando de Herrera, «Cuadernos de Investigacio´n Filolo´gica», XII-XIII (1986-87), pp. 117-32. Per i lavori di Senabre e di Morros, cfr. la nota seguente. 45 B. Morros, Algunas observaciones sobre la poesia y la prosa de Herrera, «El Crotalo´n. Anuario de Filologı´a Espan˜ola», II (1985), pp. 147-68, in part. le pp. 147-53, dove il filologo barcellonese discute e contesta l’ipotesi che «remonta P a los borradores de Herrera cuya lecciones y textos ma´s logrados configurarı´an H»; ipotesi che risale a Coster, difesa recentemente da R. Senabre, Los textos ‘emendados’ de Herrera, «Edad de Oro», IV (1985), pp. 179-93, e confermata in margine a un lavoro successivo, Sobre la lı´rica de Herrera: teorı´a y pra´ctica, in Homenaje al profesor Antonio Vilanova, Barcelona, Universidad de Barcelona, 1989, vol. I, pp. 655-67, in part. p. 658 n. 6.

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PARTE QUARTA

verificare. Premetto che la maggior parte delle varianti del nostro sonetto riguarda l’aggettivazione e piu` precisamente, lo spostamento di posizione di alcuni aggettivi: e` come se il poeta si fosse divertito – mi si passi il termine – a ridistribuire gli aggettivi46. L’unico esempio che faro` riguardera` proprio il primo verso, che nella versione del 1582 suona: «Del fresco seno ya la blanca Aurora», modificato in «D’el fresco seno lu´cido l’Aurora». Nella personificazione dell’aurora, i due emistichi che formano il primo verso dell’82 sono costituiti da altrettanti sintagmi che – sebbene con diversi gradi – risultano comunque attestati entrambi nella lirica petrarchesca del Cinquecento, con la forma «bianca Aurora» che risulta, com’e` ovvio, molto piu` largamente documentata dell’altra: «fresco seno», che – in ogni caso – e` usata proprio da Bernardo Tasso in un paio di occasioni almeno47. L’operazione che il poeta compie nella versione raccolta nel ’19 consiste nello spostamento dell’aggettivo «lu´cido», dal quinto verso dov’era riferito a «confin», al primo verso, col risultato di isolare il termine «Aurora», preceduto dal solo articolo, e formare un nuovo sintagma: «el fresco seno lu´cido», che non saprei assicurare se totalmente inedito, comunque certamente meno frequente degli altri due, isolatamente considerati. Aggiungo solo che nel solito Bernardo Tasso, oltre alle due occorrenze di «fresco seno», si trova anche un’unica occorrenza di «lucido seno»48, mai – pero` – il nuovo sin49 tagma herreriano «fresco seno lu´cido» . 46

Per un’analisi completa della doppia redazione del sonetto, vd. Pepe Sarno, Se non Herrera, chi?, cit., 1984 pp. 71-74. L’analisi, ampliata a quella delle varianti del sonetto «Cual rocı¨ada Aurora en blanco velo», che pure e` costruito sul «sı´mil entre la amada y la Aurora», e` stata ripresa dalla studiosa in La «Luz» de la «Aurora»: variantes en dos sonetos de Fernando de Herrera, in Actas del VIII Congreso de la Asociacio´n Internacional de Hispanistas (Brown University, 22-27 agosto 1983), vol. II, Madrid, Ediciones Istmo, 1986, pp. 409-18, dove – a proposito delle varianti del nostro sonetto – leggiamo: «la materia lingu¨´ıstica queda casi inalterada, limita´ndose las modificaciones, en la mayorı´a de los casos, a desplazamientos espaciales del mismo caudal le´xico. Parece un juego de combinaciones en el que cada pieza puede moverse solamente cuando otra haya sido trasladada a otro sitio» (p. 414). 47 B. Tasso, Rime, vol. I. I tre libri degli Amori, a c. di D. Chiodo, Torino, Edizioni RES, 1985: «Lieto deponi nel mio fresco seno» (III, 68, v. 404, p. 403); mentre di semplice contiguita` si tratta in «Non pero` ha piu` di me fresco e fiorito / Amarillide il viso, o ’l seno adorno» (II, 104, vv. 50-51, p. 267). 48 Ivi, «E prendi il don, che nel lucido seno / Ti serba l’onda chiara a maraviglia» (II, 107, vv. 43-44, p. 277). 49 Un diverso ordine di motivazioni, tutte interne al singolo testo, adduce l’analisi della Pepe Sarno per spiegare lo spostamento dell’aggettivo lu´cido al v. 1, che – nella sua tipologia – rientra tra le varianti il cui scopo consiste prevalentemente nell’«instaurar relaciones donde no las habı´a» (La «Luz» de la «Aurora», cit., p. 417). All’origine dello spostamento, difatti, possono distinguersi ben cinque cause e effetti: 1) creazione del parallelismo tra il v. 1 e il v. 3; 2) incremento dell’effetto di «luminosidad», che presiede all’intera prima quartina; 3)

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LA POESIA NELL’EPOCA DI FILIPPO II: MODELLI ITALIANI



L’allontanamento, il prendere le distanze, il tentativo di rinnovare dall’interno – insomma – sembra potersi documentare anche nel nostro sonetto; non, pero`, in rapporto alla singola fonte utilizzata, bensı´ rispetto alle piu` generali forme, fortemente codificate, da cui Herrera partiva50.

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5. Brevi conclusioni ` tempo di concludere. La rassegna che ho presentato, introducenE doci nell’officina di alcuni poeti italiani e spagnoli dei primi decenni della meta` del secolo, ci ha consentito di confermare e ulteriormente precisare due fenomeni gia` noti: 1) l’importanza che ebbe, anche fuori della penisola italiana, quel fenomeno editoriale costituito dalle antologie poetiche, che caratterizzo` il petrarchismo della seconda meta` del Cinquecento51; 2) lo sforzo di rinnovamento in cui furono impegnate le generazioni di poeti spagnoli successive ai grandi rinnovatori, che avevano assicurato la sperimentazione, prima, e l’assimilazione, poi, del lincoerenza col lessico herreriano, che riserva al ‘cielo’ l’aggettivo lu´cido (cfr. Anotaciones, H. 346); 4) anticipazione del nome dell’amata (Luz); 5) esigenza di differenziare l’incipit del sonetto da quello del parallelo «Cual rocı¨ada Aurora en blanco velo», le cui varianti sono studiate nello stesso lavoro (ivi, p. 417). 50 Sebbene, nel menzionato studio (Algunas observaciones), Morros ristabilisca il corretto ordine cronologico di H e di P, contro la tesi sostenuta da Senabre, con quest’ultimo coincide a proposito della «superioridad este´tica de H sobre P», discrepando – per quest’aspetto – dall’idea difesa nei contributi della Pepe Sarno, e trovando una «apoyatura ma´s objetiva» di tale giudizio di valore negli «ha´bitos poe´ticos que exibı´a nuestro autor» e nelle «preceptivas de la e´poca que se encargaron de difundirlos» (p. 153 n. 11). Di parere diverso la Pepe Sarno che – a proposito del nostro sonetto – afferma: «con P estamos en un sistema que somete a revisio´n todo el caudal lingu¨´ıstico, fo´nico, rı´tmico, sema´ntico y figural de H, para ajustarlo a ese ideal de perfeccio´n del soneto que esta´ expresado en las Anotaciones» (La «Luz» de la «Aurora», cit., pp. 417-18; per il passo delle Anotaciones, cfr. H. 1). Da parte mia, sulla base della considerazione di una sola variante, sarebbe troppo arrischiato prendere posizione; nella concezione del presente lavoro, che mira esclusivamente a chiarire il rapporto con i modelli italiani, mi premeva – foss’anche sulla scorta di un solo esempio – di indicare una linea d’indagine, che sposta l’analisi dai concreti oggetti poetici con funzione di ‘fonte’ all’intero codice poetico, all’interno del quale il testo herreriano e` concepito, e dal quale tuttavia – nelle sue trasformazioni – sembra voler prendere le distanze. 51 «Nunca se insistira´ lo suficiente en la importancia que tuvieron en la Espan˜a del siglo XVI las Fiori y las Rime scelte de los poetas italianos», afferma con ragione Morros (Algunas observaciones, cit., p. 149 e cfr. anche la n. 3), confermando la validita` di una direttrice d’indagine gia` tracciata e seguita da Fucilla, Estudios sobre el petrarquismo, cit., da Cerro´n Puga nell’introduzione e nelle ricche note della citata edizione della poesia di Francisco de la Torre, da Manero Sorolla, Ima´genes petrarquista, cit., per limitarmi ad alcuni tra i piu` significativi contributi.

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PARTE QUARTA

guaggio lirico italiano; uno sforzo che – peraltro – non smentı` ne´ il contributo ancora una volta italiano, ne´ la sostanziale fedelta` al binomio Petrarca-Garcilaso52. Quanto al primo fenomeno, diro` in conclusione che su entrambi i poeti italiani da me scelti pesano giudizi di merito poco lusinghieri. Del primo – Annibal Caro – gia` Leopardi, nello Zibaldone, aveva scritto: «Osservate [...] il Caro, le cui rime sono la sola cosa che di lui non si legga piu`»53; a proposito del secondo – Antonfrancesco Rainerio – un recente giudizio di Gorni risulta non meno perentorio: «il breve volo del Rainerio, nel cielo aperto e popolatissimo della lirica cinquecentesca, par proprio di scarsa tenuta e di debole slancio»54. Ma proprio perche´ tali giudizi sono difficilmente confutabili, mi e` parso che valesse la pena di sceglierli a campioni di una verifica, nel corso della quale e` risultato confermato che e` la formula del ‘libro di rime’ che impone i singoli autori che vi sono inclusi, e non viceversa. Quanto al secondo fenomeno, nel misurarsi coi modesti modelli italiani, i poeti spagnoli danno luogo a una notevole varieta` di atteggiamenti e di risultati: si va da chi ricalca la fonte, e – nel farlo – ricodifica «a lo divino» un motivo quanto mai classico e profano; a chi preferisce l’arte combinatoria di fonti diverse e – tuttavia – apparentate, senza rinunciare a un riuso – peraltro, con rincaro – del modello per antonomasia: Petrarca; a chi – ancora – batte la strada dello scarto dai modelli piu` immediati, per esibire – d’altronde – una fedelta` non pedissequa verso l’altro termine del binomio gia` classico: Garcilaso; a chi – infine – porta avanti piu` di ogni altro lo sforzo di rinnovamento, ma lo fa mediante un gioco di precisione tale da far scaturire il massimo di novita` dal minimo di deviazione. ` il mondo un po’ chiuso – in non pochi casi, perfino stantı´o – E del petrarchismo del secondo Cinquecento; ma e` anche il mondo in 52 Riferendosi soprattutto agli anni settanta del XVI secolo, Alberto Blecua ha sottolineato lo sforzo innovativo in cui furono impegnati alcuni poeti spagnoli, i quali «componen un tipo de poesı´a que tiene, sı´, como modelo principal a Garcilaso [a cui aggiungerei ancora il nome di Petrarca], pero tambie´n a los poetas que figuran en las rimas y flores de poetas ilustres italianos – Varchi, Tansillo, Tomitano, Rinieri, Molza –, iniciados por la de Giolito en 1546 [in effetti, 1545], que no por azar va dedicada a Don Diego Hurtado de Mendoza, y que tan profundas huellas dejara´n en la lı´rica espan˜ola» (El entorno poe´tico, cit., p. 85). Vd. anche I. Navarrete, Orphans of Petrarch. Poetry and Theory in the Spanish Renaissance, California, University of California Press, 1994, in part. il cap. IV, Herrera and the Return to Style, pp. 126-89 (tr. sp. di A. Cortijo Ocan˜a, Madrid, Gredos, 1997, pp. 166-243). 53 G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a c. di G. Pacella, vol. I, Milano, Garzanti, 1991, p. 1365 (p. 2534 dell’autografo leopardiano). 54 Gorni, Un’ecatombe di rime, cit., p. 135.

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LA POESIA NELL’EPOCA DI FILIPPO II: MODELLI ITALIANI

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cui – quasi sotterraneamente – si fanno i preparativi da cui – di lı` a poco – prendera` l’avvio la travolgente rivoluzione formale del linguaggio poetico barocco.

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QUEVEDO E IL CANONE BREVE

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Nella seconda delle tre canzoni sorelle, quella della felicita` amorosa, a Lavinello bastano due soli endecasillabi per imbastire una descrizione pressoche´ completa del bel viso di colei che ama: Gigli, calta, viole, acanto e rose e rubini e zafiri e perle et oro scopro, s’io miro nel bel vostro volto1.

Possiamo essere certi che ne´ la bella donna, a cui i versi sono in prima istanza rivolti, ne´ il contemporaneo lettore degli Asolani, dove la canzone e` allogata, ebbero difficolta` alcuna nel discernere nell’asindetica serie floreale un riferimento al colore pallido e purpureo, insieme, delle guance di lei, e in quella delle pietre preziose, coordinate per polisindeto, l’allusione, parimenti metaforica, al rossore delle sue labbra in contrasto coi bianchi denti, unitamente al biondo della chioma e allo splendore degli occhi. Si sa che, al tempo del dialogo sull’amore, l’uso metaforico per designare le parti del volto femminile era gia` un cliche´, che il Bembo aveva provveduto a ristrutturare, integrandolo in un piu` generale programma di riforma poetica. Di un uso inflazionistico vero e proprio ci tocchera`, invece, parlare, allorche´ varie generazioni di poeti, dentro e fuori della nostra penisola, decisero di ricorrere all’originario modello petrarchesco, anche in virtu` della restaurazione che ne aveva fornito il Bembo, fra il trattato menzionato e la pubblicazione delle Rime, in un periodo che – com’e` noto – abbraccia i primi tre decenni del secolo. Tant’e` che a un secolo esatto di

1 P. Bembo, Gli Asolani, in Id., Prose e rime, a c. di C. Dionisotti, Torino, UTET, 1966, 2ª ed., p. 475; i versi citati sono tratti dalla canzone «Se ne la prima voglia mi rinvesca», vv. 61-63.

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distanza dalla canzone di Lavinello, il topos poteva essere addirittura preso ad oggetto di scherno da un certo Toma´s Rodaja, meglio conosciuto con l’epiteto di licenciado Vidriera, perche´ vittima di una malattia mentale, «imagino´se el desdichado que era todo hecho de vidrio»; il pazzo – dicevo – divenne presto celebre per le argute risposte che dava alle mille domande che gli rivolgevano, come quando, trasferitosi alla corte di Valladolid: le preguntaron que´ era la causa de que los poetas por la mayor parte eran pobres. Respondio´ que porque ellos querı´an, pues estaba en su mano ser ricos si se sabı´an aprovechar de la ocasio´n, que por momentos traı´an entre las manos, que eran las de sus damas. Que todas eran riquı´simas en estremo, pues tenı´an los cabellos de oro, la frente de plata brun˜ida, los ojos de verdes esmeraldas, los dientes de marfil, los labios de coral, y la garganta de cristal transparente; y lo que lloraban eran lı´quidas perlas; y ma´s que lo que en sus plantas pisaban, por dura y este´ril tierra que fuese, al momento producı´a jazmines y rosas; y que su aliento era de puro a´mbar, almizcle y algalia; y que todas estas cosas 2 eran sen˜ales y muestra de mucha riqueza .

Prendere alla lettera una metafora – come fa Cervantes nella novella appena citata – e` tra le risorse piu` diffuse della parodia letteraria, tranne poi ritrovare l’abusato espediente, sempre al servizio del medesimo topos, in un contesto non piu` comico, ma di elevato contenuto serio, come, in effetti, avviene in un sonetto quevediano, dove il poeta invita l’intrepido e avido navigatore, che incrocia i lontani mari d’Oriente alla ricerca della ricchezza, a fermarsi presso la bella Lisi, nel cui volto e le sue parti, oltre ai fiori e alle stelle, piu` facilmente trovera` i beni desiderati: l’oro, le perle e la preziosa porpora di Tiro: Tu´, que la paz de el mar, ¡oh navegante! molestas, codicioso y diligente, por sangrarle las venas al Oriente de el ma´s rubio metal, rico y flamante, dete´nte aquı´: no pases adelante; ha´rtate de tesoros brevemente

2

M. de Cervantes, El licenciado Vidriera, in Id., Novelas ejemplares, a c. di J. Garcı´a Lo´pez, Barcelona, Crı´tica, 2001, pp. 284-85. Sugli «imposibles y quime´ricos atributos de belleza que los poetas dan a sus damas», si veda anche M. de Cervantes, Don Quijote de la Mancha (I. 13), ed. diretta da F. Rico, Instituto Cervantes, Barcelona, Crı´tica, 1998, pp. 141-42.

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QUEVEDO E IL CANONE BREVE

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en donde Lisi peine de su frente hebra sutil en ondas fulminante. Si buscas perlas, ma´s descubre ufana su risa que Colo´n en el mar de ellas; si grana, a Tiro dan sus labios grana. Si buscas flores, sus mejillas bellas vencen la primavera y la man˜ana; si cielo y luz, sus ojos son estrellas3.

Nei densi versi del Bembo, come nella comica risposta satirica che Cervantes mette in bocca al suo folle personaggio, e ancora nel sonetto di Quevedo rivolto al cupido navigatore; in ognuno dei testi evocati, insomma, riconosciamo senza difficolta`, e pur con alcune varianti, quel «canone breve», che il compianto padre Pozzi ha mirabilmente ricostruito in alcuni suoi scritti4, e in base al quale «alcune parti del volto della donna vengono associate tramite una figura di analogia a comparanti presi da un prezioso lapidario e da un finissimo erbario»5. Ricordero`, allora, assai rapidamente, che il ca3

Cito da F. de Quevedo, Un Hera´clito cristiano, Canta sola a Lisi y otros poemas, a c. di L. Schwartz e I. Arellano, Barcelona, Crı´tica, 1998, p. 173. Il sonetto, preceduto dall’epigrafe «Procura cebar la codicia en tesoros de Lisi», fa parte del breve canzoniere, Canta sola a Lisi y la amorosa pasio´n de su amante, pubblicato da J. A. Gonza´lez de Salas nel Parnaso espan˜ol con las nueve Musas castellanas (Madrid, 1648). Il sonetto e` contrassegnato col no 445 in F. de Quevedo, Obra poe´tica, a c. di J. M. Blecua, Madrid, Castalia, 1969, vol. I, pp. 641-42. Per la parodia del topos in Quevedo si veda ora Prema´ticas del Desengan˜o contra los poetas gu¨eros, e Discurso de todos los diablos in F. de Quevedo, Prosa, ed. diretta da A. Rey, Madrid, Castalia, 2003, vol. I, t. I, p. 13 e n. 13, t. II, p. 534, rispettivamente. 4 G. Pozzi, La rosa in mano al professore, Friburgo, Edizioni Universitarie di Friburgo Svizzera, 1974; Id., Il ritratto della donna nella poesia d’inizio cinquecento e la pittura di Giorgione, in R. Pallucchini (a cura di), Giorgione e l’Umanesimo veneziano, Firenze, Olschki, 1981, pp. 309-41, poi raccolto, insieme a una Nota additiva alla descriptio puellae, in Id., Sull’orlo del visibile parlare, Milano, Adelphi, 1993, pp. 145-71 e 173-84, rispettivamente; Id., Temi, topoi, stereotipi, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana, III, I, Le forme del testo. Teoria e poesia, Torino, Einaudi, 1984, pp. 391-436, poi raccolto col titolo Sul luogo comune in Id., Alternatim, Milano, Adelphi, 1996, pp. 449-526. Agli studi di padre Pozzi si aggiunga, almeno, A. Quondam, Il naso di Laura, in A. Gentile (a cura di), Il ritratto e la memoria. Materiali I, Roma, Bulzoni, 1989, pp. 9-44, poi raccolto come Congedo in Id., Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del Classicismo, Ferrara, Franco Cosimo Panini Editore, 1991, pp. 291-328. 5 Cosı` ha sintetizzato il canone breve A. Bagnolo nel lavoro che ha dedicato allo studio di esso nella raccolta di novelle cervantine; cfr. La rosa elusa. Il topos della descrizione femminile nelle Novelas ejemplares, in «Annali di Ca’ Foscari. Rivista della Facolta` di Lingue e letterature straniere dell’Universita` di Venezia», XXX, 1-2 (1992), pp. 391-99. Per la citazione, p. 392. Sui ritratti femminili nell’opera cervantina, si vedano i lavori di M. C. Ruta, Los retratos femeninos en la Segunda Parte del Quijote, in G. Grilli (a cura di), Actas del II Congreso Internacional de la Asociacio´n de Cervantistas (Na´poles 4-9 de abril de 1994), Napoli, Societa` Editrice Intercontinentale Gallo, 1995, pp. 481-95, e Estereotipos y originalidad de lo feo en la escritura cervantina, in M. C. Garcı´a de Enterrı´a e A. Cordo´n Mesa (a cura

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PARTE QUARTA

none breve, impostosi nell’ambito del discorso lirico, ha il suo modello originario nel Canzoniere petrarchesco, dove il canone della bellezza femminile risulta costituirsi attraverso un catalogo di referenti anatomici selezionati prevalentemente dal volto, di cui, in particolare, fanno parte capelli, occhi, guance e bocca, con l’esclusione di naso, orecchie e mento, ma a cui si aggiungono collo, seno e mano, elementi canonici fuori dalla zona del volto, ma regolarmente ricorrenti nell’uso del canone breve. Ancor piu` significativo, comunque, e` che si tratti di membri poeticamente predicati secondo la doppia motivazione dello splendore e del colore, «che rinvia alla qualita` primaria della luce in cui si credeva concentrarsi il concetto di bellezza»6. Tutto cio` si realizza, naturalmente, grazie al ricorso metaforico a un insieme di comparanti o figuranti, che la tradizione ha scelto, ancora una volta, in numero ristretto dal pur infinito numero di entita` naturali7. Un topos letterario come quello a cui ci stiamo riferendo, che risulta costretto sia a livello del catalogo dei referenti anatomici, sia, ancor di piu`, sul piano delle motivazioni, e perfino per quel che riguarda la selezione dei comparanti, e` comprensibile che presenti un carattere assai conservativo, il che, tuttavia, non comporta necessariamente un’assoluta staticita` nell’impiego. Al contrario, come ha mostrato il suo piu` attento e profondo indagatore, il topos e` dotato di una vitalita` che «e` soprattutto consegnata al fatto che certi figuranti vengano esclusivamente destinati a designare il tale membro e alcuni sian fatti servire a non importa quale; che certe costellazioni si fissino e altre non si formino mai; e cio` con preferenze che variano di eta` in eta`»8. Finche´, almeno, non si giunge a quell’eta` che lo stesso padre Pozzi fa coincidere col Tasso, quando cioe`, d’allora in avanti, «un intero codice coercitivo sara` rovesciato in nome di arditezze fondate sull’eccezionalita` del concetto»9. Una maniera di rovesciare il codice coercitivo e` sicuramente quella che abbiamo visto realizzarsi nel sonetto dell’avido navigatore di Quevedo, che ha peraltro un probabile precedente in un sonetto di), Actas del IV Congreso Internacional AISO, Alcala´ de Henares, Servicio de Publicaciones de la Universidad de Alcala´, 1998, vol. II, pp. 1143-54, ora rifusi e raccolti col titolo Il brutto delle donne in Ead., Il Chisciotte e i suoi dettagli, Palermo, Flaccovio, 2000, pp. 159-99, dove il lettore trovera` citata nelle note la bibliografia sull’argomento. 6 Pozzi, Alternatim, cit., p. 460. 7 Cfr. quanto scrive Pozzi, Alternatim, cit., p. 478. 8 Pozzi, Sull’orlo, cit., p. 180. 9 Ivi, p. 167.

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QUEVEDO E IL CANONE BREVE

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del segretario del conte di Lemos, e fondatore della napoletana accademia degli Oziosi, Lupercio Leonardo de Argensola10. Eppure, nel componimento di quest’ultimo, invano cercheremmo l’arditezza del concetto che, invece, sovrabbonda nei versi quevediani, come, ad esempio, nel verso 8:

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hebra sutil en ondas fulminante

dove la chioma de Lisi, gia` identificata per lo splendore col «rubio metal» orientale, di cui il navigatore e` alla ricerca, risulta ora assimilata per la fluidezza alle acque marine dell’oceano solcate dal navigatore medesimo. Oro e acqua, insieme, la bionda e fluente capigliatura di Lisi viene rappresentata, dunque, al tempo stesso, come l’oggetto della ricerca: i tesori, e il mezzo che bisogna attraversare per raggiungerli. Ne´ con cio` la densita` metaforica del verso puo` dirsi esaustivamente indagata, dal momento che l’aggettivo in rima «fulminante», da riferire per iperbato alla «hebra sutil», e` dettato di nuovo, e per altra via, dalla motivazione dello splendore, non piu` del metallo prezioso, ma dei fulmini che, lanciati sulle onde, finiscono per richiamare l’immagine del mare agitato dell’incipit del sonetto: Tu´, que la paz de mar, ¡oh navegante! molestas...

per cui la bella Lisi e il bramoso viaggiatore sono, a loro volta, messi sullo stesso piano dalle azioni che rispettivamente compiono, perche´ l’uno, navigando, agita le acque del mare, mentre l’altra, pettinandosi, solleva le onde della chioma resa pelago procelloso11. Come non ricordare, allora, la straordinaria prima quartina di un altro sonetto, che pure forma parte del breve canzoniere di Canta sola a Lisi: En crespa tempestad de oro undoso nada golfos de luz ardiente y pura

10

Si tratta del sonetto «¡Oh, tu´, que a los peligros e inconstancia», in L. L. de Argensola, Rimas, a c. di J. M. Blecua, Madrid, Espasa-Calpe, 1972, p. 57. Cfr. D. G. Walters, Francisco de Quevedo Love Poet, Washington-Cardiff, The Catholic University of America Press-University of Wales Press, 1985, pp. 91-92. 11 Sul sonetto, oltre a Walters, Francisco de Quevedo, cit., pp. 91-94, si veda I. Navarrete, Los hue´rfanos de Petrarca, Poesı´a y teorı´a en la Espan˜a renacentista, Madrid, Gredos, 1977, pp. 273-75.

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PARTE QUARTA

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mi corazo´n sediento de hermosura si el cabello deslazas generoso12

dove «la idea de que el amor es fuente de peligro para el amante»13 si concreta nell’immagine del cuore innamorato del poeta, che, bramoso non di tesori ma di bellezza, fluttua tra le onde dei biondi capelli di Lisi, la quale, nell’atto di scioglierli, ne provoca il turbolento disordine. Troppi, e troppo autorevoli, lettori si sono esercitati su questi versi perche´ valga la pena d’insistervi da parte mia14; cosı`, mi limitero` a segnalare, insieme al loro primo commentatore moderno, come l’abusato topos petrarchesco sia al servizio della nuova poetica dell’acutezza, la quale guadagna in potenza e complessita` grazie alla densa rete di concetti presenti nei versi citati. In essi, difatti, la bionda chioma di Lisi, e` assimilata, allo stesso tempo, al prezioso metallo dell’oro, al mare e alle agitate onde di esso, e – infine – alla luce del sole e agli ardenti raggi che emana, come appare evidente nella concentrata espressione del secondo endecasillabo: «golfos de luz ardiente», dove si condensano i tre campi semantici dettati dall’oro, dall’acqua e dal sole. Senza abbandonare il canzoniere dedicato a Lisi, possiamo renderci maggiormente conto dell’esito ingegnoso a cui perviene il canone breve nelle mani di un poeta come Quevedo, dal momento che esso vi compare in forma pressoche´ integrale in due descrizioni del volto dell’amata collocate in altrettanti sonetti che occupano, 12

Quevedo, Un Hera´clito cristiano, ed. cit., p. 180. Compare col n˚ 449 nella citata ed. di Blecua di Quevedo, Obra poe´tica, vol. I, pp. 644-45. 13 A. Terry, Quevedo and the Metaphysical Conceit, in «Bulletin of Hispanic Studies», XXXV (1958), pp. 211-22; tr. sp. in G. Sobejano (a cura di), Francisco de Quevedo, Madrid, Taurus, 1978, pp. 58-70, da cui si cita, p. 63. 14 Si vedano i lavori di A. A. Parker, La ‘agudeza’ en algunos sonetos de Quevedo, in Estudios dedicados a Mene´ndez Pidal, Madrid, CSIC, 1952, vol. III, pp. 345-60, poi raccolto in Sobejano (a cura di), Francisco de Quevedo, cit., pp. 44-57; A. Terry, Quevedo and the Metaphysical Conceit, cit.; M. Molho, Sur un sonnet de Quevedo: En crespa tempestad del oro undoso (Essai d’analyse intertextuelle), in Me´langes offerts a` Charles-Vincent Aubrun, Paris, Editions Hispaniques, 1975, vol. II, pp. 87-124, tr. sp. in Id. Sema´ntica y poe´tica (Go´ngora, Quevedo), Barcelona, Crı´tica, 1977, pp. 168-216 e in Sobejano (a cura di), Francisco de Quevedo, cit., pp. 343-77 (in tr. it. si puo` leggere in M. Molho, Semantica e poetica. Go´ngora, Quevedo, Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 187-232); J. M. Pozuelo Yvancos, El lenguaje lirico de Quevedo, Murcia, Universidad de Murcia, 1979, pp. 147-59; R. Ter Horst, Death and Resurrection in the Quevedo’s sonnet: ‘En crespa tempestad’, in «Journal of Hispanic Philology», V (1980-1981); P. J. Smith, Quevedo on Parnassus. Allusive Context and Literary Theory in the Love-Lyric, London, The Modern Humanities Research Association, 1987, pp. 778-84. Sul motivo della chioma in alcuni componimenti di Quevedo, si veda M. G. Profeti, Quevedo: la scrittura e il corpo, Roma, Bulzoni, 1984, pp. 65-102.

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QUEVEDO E IL CANONE BREVE

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rispettivamente, l’inizio e il centro della raccolta, con le epigrafi che ostentano la materia dei componimenti: Retrato no vulgar de Lisi, il primo; Retrato de Lisi que traı´a en una sortija, il secondo, che presenta un ritratto dell’amata in miniatura, perche´ incastonato in un anello15. Non potendo – per ragioni di tempo – prestare attenzione ad entrambi, ci occuperemo del secondo sonetto, dove leggiamo quella che – con qualche esagerazione, forse – e` stata definita «la descripcio´n ma´s refulgente de la amada que se conserva en la poesı´a lı´rica hispa´nica»16. En breve ca´rcel traigo aprisionado, con toda su familia de oro ardiente, el cerco de la luz resplandeciente y grande imperio de el Amor cerrado. Traigo el campo que pacen estrellado las fieras altas de la piel luciente, y a escondidas de el cielo y de el Oriente, dı´a de luz y parto mejorado. Traigo todas las Indias en mi mano, perlas que, en un diamante, por rubı´es pronuncian con desde´n sonoro hielo y razonan tal vez fuego tirano, rela´mpagos de risas carmesies, auroras, galas y presuncio´n de el cielo.

Il sonetto, come dichiara la menzionata epigrafe, descrive l’immaginario dipinto dalle ridotte dimensioni che, incastonato in un anello, raffigura il volto di Lisi, riproponendo in tal modo, seppur con distinta modalita`, la questione del rapporto tra ritratto poetico e ritratto figurativo, su cui Giovanni Pozzi si e` espresso in termini perentori, affermando che «appare con tutta evidenza che la poesia non soltanto non imita la natura, ma nemmeno la pittura, smen15

Sul canzoniere quevediano, Canta sola a Lisi, si veda il volume di S. Ferna´ndez Mosquera, La poesı´a amorosa de Quevedo. Disposicio´n y estilo desde Canta sola a Lisi, Madrid, Gredos, 1999. I problemi testuali che la raccolta pone sono ampiamente trattati nell’appendice, Los textos de la poesı´a amorosa de Quevedo, pp. 329-67. Sulla metaforica, in generale, di Canta sola a Lisi, che e` al centro delle presenti pagine, si sofferma il capitolo del libro di Ferna´ndez Mosquera, Los tropos y los to´picos. La meta´fora, pp. 57-165. Quanto all’ordine dei componimenti, a cui nel testo alludo, mi attengo alla princeps del Parnaso Espan˜ol (Madrid, 1648), pubblicata da Jose´ Antonio Gonza´lez de Salas, che, del resto, segue anche l’ed. di Schwartz e Arellano da cui cito (cfr. supra n. 3). 16 J. Olivares, The love poetry of Francisco de Quevedo, Cambridge, Cambridge University Press, 1983, p. 67; tr. sp. La poesı´a amorosa de Francisco de Quevedo, Madrid, Siglo Veintiuno, 1995, p. 86, da cui cito.

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PARTE QUARTA

tendo clamorosamente su un terreno apparentemente dei piu` praticabili l’effato: “ut pictura poiesis”. In questo senso fra pittura e poesia non ci sono rapporti»17. E, difatti, come in tanti altri esempi dello stesso genere, manca nel dettato del sonetto quevediano qualsiasi accenno ai mezzi rappresentativi della pittura, nel senso che il testo non contiene alcun riferimento diretto agli aspetti figurativi del ritratto, se ci eccettua il richiamo all’incastonatura dell’anello dove il ritratto e` contenuto e incorniciato. Per il resto, la descriptio si realizza col ricorso alla stereotipia del canone poetico delle bellezze femminili, rivisitato, naturalmente, in termini di poetica dell’acutezza col risultato di un prodotto poetico assolutamente inedito. Difatti, se prescindessimo dalla rivisitazione concettosa, il sonetto non avrebbe altro da offrire che le metafore assai convenzionali con le quali una tradizione lirica ormai bisecolare presentava il volto dell’amata e la sua bionda chioma come il sole e l’oro, come avviene nella prima quartina del nostro sonetto; gli occhi come stelle, nella seconda; e, nelle terzine, perle e rubini, in luogo dei denti e delle labbra. Solo che, ora, queste metafore tradizionali sono solo il punto di partenza 18 su cui opera l’ingegno del poeta . Ed ecco, allora, che nei primi versi Quevedo ricorre a una perifrasi: «cerchio di luce risplendente», per designare il sole19 a cui, per metafora, sappiamo essere assimilato il volto ritratto della donna, la cui chioma e` significata per mezzo di una metafora di secondo grado, dal momento che «famiglia d’oro ardente» indica i raggi solari, i quali, a loro volta, equivalgono ai capelli di Lisi, perche´ dello stesso colore dell’oro, e perche´ cingono il viso femminile come i raggi sembrano cerchiare la sfera luminosa del sole, da cui emanano20. C’e` il sospetto, pero`, che le cose possano 17

Pozzi, Sull’orlo, cit., pp. 162-63. Sul sonetto, oltre ai commenti in Quevedo, Un Hera´clito cristiano, ed. cit. di Arellano e Schwartz, pp. 213-14 (e pp. 802-05, per le note complementari) e J. O. Crosby in F. de Quevedo, Poesı´a varia, Madrid, Ca´tedra, 1981, pp. 251-52, si vedano le analisi di Smith, Quevedo on Parnassus, cit., pp. 84-89, e di Olivares, The love poetry, cit., pp. 67-74, corrispondenti alle pp. 86-94 della citata tr. sp., a cui si aggiungano le piu` brevi e puntuali osservazioni di Walters, Francisco de Quevedo Love Poet, cit., pp. 79-80, e di A. Terry, Francisco de Quevedo: the force of eloquence, in Seventeenthcentury Spanish poetry. The power of artifice, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, pp. 170-72. Di tali commenti, analisi e osservazioni, il mio discorso sul sonetto e`, a vario titolo, debitore. 19 Sul termine cerco per designare il globo solare, si vedano le pertinenti osservazioni di A. Martinengo, La Astrologı´a en la obra de Quevedo, Madrid, Alhambra, 1983, pp. 137 e ss. 20 La metafora «familia de oro ardiente» si riferisce alla sola bionda chioma della donna, e non all’amata nella sua integrita`, come sembrano suggerire, nel commento all’edizione citata (p. 214), Arellano e Schwartz, i quali, tuttavia, nella corrispondente nota complementaria (p. 803), accolgono l’ipotesi per cui il sintagma in questione «se puede referir tambie´n al cabello rubio de la amada». La voce «familia» con equivalente valore metaforico, in un 18

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QUEVEDO E IL CANONE BREVE

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essere ancora piu` complesse. Perche´ non supporre, difatti, che il sole, designato con la menzionata perifrasi, non dia luogo a una metafora, per cosı` dire, dilogica, che cioe` alluda non solo al volto dipinto di Lisi, ma anche alla gemma incastonata nel coperchio che chiude l’angusto compartimento dove si trova il ritratto? Di conseguenza, la metafora di v. 2 («la sua famiglia d’oro ardente»), con pari valore determinato dalla dilogia, si riferirebbe tanto alla bionda chioma dell’amata, quanto all’incastonatura dell’anello che racchiude la gemma. Insomma, la lettera del testo, con le sue perifrasi e metafore, rimanderebbe a una trama articolata in tre campi semantici: il sole cinto dai suoi raggi, la gemma incastonata nell’oro dell’anello, il volto di Lisi contornato dai biondi capelli. Piu` ardita risulta la serie metaforica con cui e` ordita la seconda quartina, dove il punto di partenza di Quevedo e` addirittura la metafora gongorina del celeberrimo esordio della prima Soledad: «en campos de zafiro pace estrellas»21, adottata, nei nostri vv. 5-6, a significare il firmamento («campo stellato)» a cui, per metafora di secondo grado, e` di nuovo assimilato il volto di Lisi, dal momento che «le fiere alte dalla pelle lucente» sono, in prima istanza, le costellazioni dello Zodiaco e, a secondo livello, gli occhi della donna. Nelle terzine, come ha notato Walters, «after the celestial association of the second quatrain, it is as though the poet’s gaze turned 22 downwards» [dopo l’associazione celestiale della seconda quartina, e` come se lo sguardo del poeta si rivolgesse di nuovo verso il basso], dando luogo a una densita` figurale che e` financo superiore a quella gia` assai elevata della prima meta` del sonetto. Indicati, metonimicamente, col luogo geografico che ne e` ricco per eccellenza, i tesori orientali elencati nel v. 10 rimandano con le metafore lessicalizzate, motivate dal colore, ai denti-perle e alle labbra-rubini, ma anche, con maggiore originalita`, alla bocca-diamante; metafora quest’ultima che, piu` che per il colore, si giustifica per la durezza o asprezza del comportamento di colei a cui l’entita` anatomica appartiene23. La contesto di poesia amorosa si ritrova nei sonetti «Non sino fuera yo quien solamente» e, in Canta sola a Lisi, «Tambie´n tiene el Amor su astrologı´a» (rispettivamente, i nn. 301 e 482 della citata edizione di Blecua: Quevedo, Obra poe´tica, vol. I, pp. 492 e 663. 21 Pozuelo Yvancos, El lenguaje poe´tico de la lı´rica amorosa de Quevedo, cit., p. 342. Per l’immagine gongorina, si veda la relativa nota di commento in L. de Go´ngora, Soledades, ed. di R. Jammes, Madrid, Castalia, 1994. 22 Walters, Francisco de Quevedo, cit., p. 80. 23 Sulla concentrazione delle metafore minerali, si veda anche Ferna´ndez Mosquera, La poesı´a amorosa, cit., pp. 103-06. Alla bocca, «nel quadro della tipologia amatoria petrarchista e degli scarti effettuati da Quevedo», M. G. Profeti ha dedicato il capitolo La bocca della

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PARTE QUARTA

terzina si chiude con una straordinaria sinestesia: «sonoro gelo», per designare le parole che, pronunciate da Lisi con disdegno, producono nell’amante di lei una reazione di gelida sensazione24. In tal modo, perfino la tanto abusata antitesi gelo/fuoco, su cui sono costruite le terzine, finisce, se non per acquistare un nuovo significato, per almeno vivificarsi grazie al piu` audace contesto figurale in cui risulta inserita. Cosı`, mentre le altere parole emesse dai bianchi denti di Lisi gelano l’amante-poeta, a rinnovarne la tiranna passione amorosa provvedono le labbra scarlatte, a cui il riso sembra donare l’improvviso e serpeggiante bagliore del lampo, grazie a una metafora, la cui origine risale almeno al Dante del Purgatorio25. Tornando, per concludere, al capostipite petrarchesco del ritratto poetico femminile, in uno dei menzionati lavori sull’argomento, Giovanni Pozzi assume come paradigmatica del canone breve la canzone 127 dei Rerum Vulgarium Fragmenta, dove i pochi referenti anatomici selezionati sono avvicinati a una piu` larga varieta` di figuranti, dal momento che Francesco, benche´ «miri mille cose diverse […] sol una donna vede». E, difatti, gli capita di scorgere il viso di Laura nella neve e nel sole, nelle rose bianche e rosse, e nei fiori bianchi; i capelli, nell’oro e nei fiori gialli; gli occhi, nelle stelle, oltre che nel sole medesimo; e, infine, il collo, sia nel latte che nel fuoco. Ma, nell’ultima stanza, si arrende e ammette: Ad una ad una annoverar le stelle, e ’n picciol vetro chiuder tutte l’acque, forse credea, quando in sı` poca carta novo penser di ricontar mi nacque in quante parti il fior de l’altre belle, stando in se stessa, a` la sua luce sparta.

dama: codice petrarchista o trasgressione barocca, in Quevedo: la scrittura e il corpo, cit., pp. 103-23. 24 Una sinestesia che presenta dei tratti comuni, sempre nella raccolta Canta sola a Lisi, e` «sonoro clavel», nel sonetto «Rizas en ondas ricas del rey Midas», v. 14. Sull’abusato valore metaforico di yelo, si possono leggere le osservazioni di Ferna´ndez Mosquera, La poesı´a amorosa de Quevedo, cit., pp. 119-26. 25 Sui numerosi precedenti della metafora quevediana, si vedano: A. Prieto, Sobre literatura comparada, in «Miscellanea di studi ispanici», 1966-1967, pp. 310-54, in part. le pp. 340-41; J. Arce, Tasso y la poesı´a espan˜ola, Barcelona, Planeta, 1973, pp. 78-79; M. del P. Manero Sorolla, «Rela´mpagos por risas»: nuevos precedentes en la lı´rica petrarquista italiana anterior a Quevedo, in «Anuario de Filologı´a», 8 (1982), pp. 297-309, ripreso parzialmente in Ead., Ima´genes petrarquistas en la lı´rica espan˜ola del Renacimiento. Repertorio, Barcelona, PPU, 1990, pp. 533-38.

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QUEVEDO E IL CANONE BREVE

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Versi che hanno ricevuto la seguente perifrasi nel commento di Santagata: «raccontare in una canzone tutti gli oggetti sui quali si diffonde la bellezza di Laura e` impresa impossibile, come e` impossibile contare […] tutte le stelle o raccogliere in un bicchiere […] o in una fiala le acque del mare»26. ` arcinoto che la letteratura barocca vede nell’audacia formale il E tratto che piu` e meglio ne definisce la novita`. Non meraviglia, pertanto, che mentre Petrarca affida l’effetto iperbolico della bellezza di Laura alla tardiva preterizione dell’ultima stanza della citata canzone, Quevedo ottiene un analogo risultato d’enfasi, mettendo mano a quella «mina de agudezas»27, grazie alla quale il volto di Lisi e` presentato come l’equivalente di un «cosmos miniaturizado», secondo la definizione di Martinengo28, che percio` l’amante puo` portare nel castone dell’anello, e il poeta e` riuscito a far entrare nella «breve ca´rcel» o in «sı` poca carta» di un sonetto.

26 F. Petrarca, Canzoniere, ed. di M. Santagata, Mondadori, Milano, 2004, da cui si cita anche il testo della canzone «In quella parte dove Amor mi sprona». 27 L’espressione, riferita al sonetto di cui stiamo trattando, si legge in Olivares, The love poetry, cit., p. 68; tr. sp., p. 84. 28 Martinengo, La Astrologı´a, cit., p. 138.

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LETTURA DEL SONETTO «LO QUE ME QUITA EN FUEGO ME DA EN NIEVE» DI QUEVEDO: FRA TRADIZIONE E CONTESTI

1. Testo, tradizione e convenzione ¡Que´ hastı´o de contrarios! Hay uno sobre todo que con mayor o menor reiteracio´n invade una gran parte de la poesı´a de Quevedo. Se 1 trata de la pareja fuego-nieve... .

Proprio uno di quei sonetti di Quevedo che all’abusata antitesi piu` si richiama, col biasimo appena rievocato del maestro Alonso, sono principalmente dedicate le note seguenti, a cui faranno da guida alcune brevi considerazioni sul rapporto tra convenzione (o tradizione) letteraria e significato del testo, che prendo a prestito dalle pagine di due ammirati studiosi. Con plausibile paradosso, qualche anno fa Francisco Rico affidava a un capitolo finale su «La tradicio´n y el poema» una dichiarazione di metodo, stando alla quale «la literatura se escribe menos en la pa´gina que en la tradicio´n y so´lo en los ma´rgenes de la tradicio´n adquiere sentido cabal»2. Piu` recentemente, nei preliminari che introducono alle sue otto sagaci e colte letture di altrettante poesie amorose di Quevedo, Mercedes Blanco fa posto, tra l’altro, a una considerazione sul sistema metaforico utilizzato e sull’erronea opinione che esso rischia di generare nel lector apresurado, al quale quel sistema «suele aparecer 1

D. Alonso, «Poesı´a espan˜ola» y otros estudios, in Obras completas, Madrid, Gredos, 1989, vol. IX, p. 422. 2 F. Rico, A falta de epı´logo, in Breve biblioteca de autores espan˜oles, Barcelona, Seix Barral, 1990, pp. 269-300; cito dalla p. 296.

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PARTE QUARTA

[…] ma´s uniforme y pa´lidamente convencional de lo que realmente es». Uno scoglio, quello del convenzionalismo, che, causa frequente del naufragio di molta poesia uscita dalla penna di «ciertos autores secundarios», e` tutte le volte evitato dai «mayores poetas barrocos», nei quali il sistema, pur senza disperdere il suo accentuato carattere convenzionale, «recobra […], gracias a la pra´ctica de su combinacio´n polifo´nica con otros sistemas simbo´licos, gran parte de su complejidad originaria». Ma poiche´ il concetto di convenzione e` del tutto inseparabile da quello di tradizione, non fa meraviglia che, nelle stesse pagine introduttive, all’anteriore rivendicazione di autenticita` si accompagni la dichiarazione seguente: «rastreando las ´ımplicitas referencias a otros textos, el denso pensamiento que [los poemas amorosos de Quevedo] ponen en juego se despliega, en su lo´gica, en su riqueza, y tambie´n en sus tensiones y ambigu¨edades». Un proponimento che, pur senza essere sconfessato, tuttavia non impedisce all’autrice di denunciare a chiare lettere i rischi di una «concepcio´n de la literatura» che, almeno quando si limita all’esasperata «bu´squeda de antecedentes y paralelos», finisce per scomporre «el texto en fragmentos y hace[r] de cada uno de estos fragmentos el eslabo´n de una cadena virtualmente infinita», con l’ulteriore effetto finale di rivelarsi «incompatible con la finalidad del comentario, que se propone entender el texto como un organismo unificado por la voluntad de significar algo»3. ` dunque, sulla base di tali osservazioni che ora mi chiedo quale E peso meriti di essere assegnato, rispettivamente, alla «bu´squeda de antecedentes y paralelos» e alla «voluntad de significar» nel commento a un sonetto di Quevedo come «Lo que me quita en fuego me da en nieve», dove l’esuberante convenzionalismo del dettato poetico sembra suggerire, a prima vista, che lo spazio da accordare all’interpretazione (il significato del testo) vada ridotto non poco, a vantaggio dell’altro reclamato dall’indagine delle fonti (le costanti intertestuali). Naturalmente, la risposta non puo` che essere consegnata alla verifica stessa del commento, a cui mi accingo facendo affidamento, piu` che mai, sul monito che a Rico, nel menzionato capitolo, fu suggerito dalla breve analisi di un sonetto quevediano, ben altrimenti celebre e denso di significato: «El sistema interno del texto se nos 4 escapa si no se ve dentro del sistema de la historia literaria» . 3 Tutte le citazioni sono tratte da M. Blanco, Introduccio´n al comentario de la poesı´a amorosa de Quevedo, Madrid, Arco Libros, 1998, pp. 16-17. 4 Rico, A falta de epı´logo, in Breve biblioteca, cit., p. 280. Il sonetto commentato da Rico,

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LETTURA DEL SONETTO

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2. Il motivo della mano che copre ` nella «serie de sonetos netamente epigrama´ticos», per i quali «es un E dato curioso que Quevedo recurra al mismo nombre convencional»5 di Aminta, che ritroviamo il nostro poema, il cui testo ricavo dall’editio maior di Jose´ Manuel Blecua:

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Lo que me quita en fuego, me da en nieve la mano que tus ojos me recata; y no es menos rigor con el que mata, ni menos llamas su blancura mueve. La vista frescos los incendios beve, y, volca´n, por las venas los dilata; con miedo atento a la blancura trata el pecho amante, que la siente aleve. Si de tus ojos el ardor tirano le pasas por tu mano por templarle, es gran piedad del corazo´n humano; mas no de ti, que puede al ocultarle, pues es de nieve, derretir tu mano, si ya tu mano no pretende helarle6.

Gli scarsi commenti che il sonetto ha ricevuto dalla critica, per lo piu` limitati – con la sola eccezione di Oliver – a brevi e isolate annotazioni7, sono soliti circoscrivere il tema al solo «contraste entre «una de las cumbres de la lı´rica quevedesca», e` Cerrar podra´ mis ojos. Un concetto analogo si legge all’inizio del libro di P. J. Smith, Quevedo on Parnassus. Allusive Context and Literary Theory in the Love-Lyric, London, The Modern Humanities Research Ass., 1987, p. 1: «In an age when poetry is erudition, to write is to inscribe oneself in a tradition of canonic texts». 5 Blanco, Introduccio´n al comentario de la poesı´a amorosa, cit., p. 41. 6 F. de Quevedo y Villegas, Obra poe´tica, a c. di J. M. Blecua, Madrid, Castalia, 1969, vol. I, p. 495. Ho anche tenuto presenti le seguenti edizioni con i rispettivi commenti: Poesı´a original completa, a c. di J. M. Blecua, Barcelona, Planeta, 1981, pp. 344-45; Poesı´a varia, a c. di J. O. Crosby, Madrid, Ca´tedra, 1981, pp. 221-22 e, soprattutto, Un Hera´clito cristiano, Canta sola a Lisi y otros poemas, a c. di I. Arellano e L. Schwartz, Barcelona, Crı´tica, 1998, p. 137. 7 Si vedano J. M. Oliver, Comentarios a la poesı´a de Quevedo, Madrid, Sena, 1984, pp. 185-207; M. G. Profeti, Quevedo: la scrittura e il corpo, Roma, Bulzoni, 1984, pp. 23-28; D. G. Walters, Francisco de Quevedo Love Poet, Cardiff, University of Wales Press, 1985, pp. 59-60; S. Ferna´ndez Mosquera, La poesı´a amorosa de Quevedo. Disposicio´n y estilo desde «Canta sola a Lisi», Madrid, Gredos, 1999, p. 118, dove la breve nota sul sonetto si colloca nella piu` ampia analisi dell’antitesi fuego/agua (pp. 109-26).

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PARTE QUARTA

el fuego y la nieve» – per dirla col Fucilla8 –, trascurando quasi completamente la narratio da cui nel genere epigrammatico ha origine l’argutia9. Nondimeno, e` alla scena aneddotica, puntualmente richiamata dall’epigrafe: «A Aminta que se cubrio´ los ojos con la mano», che bisogna far risalire la concentrata tradizione, in cui s’iscrive appieno il nostro sonetto. Del motivo della mano (e del velo) che copre, e` stato detto che «sembra trattarsi di invenzione del tutto petrarchesca»10; e, difatti, pur tralasciando l’altro agente dello schermo, e` in almeno tre occasioni che, lungo tutto il Canzoniere, Francesco si duole del gesto con cui l’amata interpone la mano a celare il viso e gli occhi, in tal guisa privandolo del «sommo dilecto». Cosı`, dopo avervi accennato nei versi finali di un sonetto indirizzato a Orso dell’Anguillara, e dopo averlo ripreso brevemente in alcuni versi di una delle tre canzoni, dette «degli occhi», Petrarca ritorna piu` estesamente sul motivo, dedicandogli un intero sonetto, dove – peraltro – il gesto altrove protettivo di Laura, oltre che ricevere una diversa giustificazione, vede tramutare l’effetto prodotto, dal «torto» di una volta all’attuale «novo dilecto»: In quel bel viso ch’i’ sospiro et bramo, fermi eran li occhi desiosi e ’ntensi, quando Amor porse, quasi a dir «che pensi?», quella onorata man che second’amo: Il cor, preso ivi come pesce a l’amo, onde a ben far per vivo esempio viensi, al ver non volse li occupati sensi, o come novo augello al visco in ramo. Ma la vista, privata del suo obiecto, quasi sognando si facea far via, senza la qual e` il suo bene imperfecto.

8

J. G. Fucilla, Estudios sobre el petrarquismo en Espan˜a, Madrid, Revista de Filologı´a Espan˜ola-Anejo LXXII, 1960, p. 202. 9 Sulla teoria dell’epigramma, nel contesto della poetica concettista, si veda M. Blanco, Les Rhe´toriques de la Pointe. Baltasar Gracia´n et le Conceptisme en Europe, Paris, Honore´ Champion, 1992, pp. 157-200; della stessa studiosa, si veda anche l’analisi del sonetto di Quevedo Basta´bale al clavel verse vencido, come sonetto epigrammatico, in Introduccio´n al comentario de la poesı´a amorosa, cit., pp. 39-48. 10 A. Balduino, La ballata XI, in «Atti e memorie dell’Accademia patavina di Scienze Lettere ed Arti», CVII (1994-1995), pp. 301-16; cito dalla p. 310.

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L’alma tra l’una e l’altra gloria mia qual celeste non so novo dilecto et quel strania dolcezza si sentia11.

Compiuto col proposito di distogliere Francesco dalle sue fantasticherie, interrompendone l’atteggiamento contemplativo, il gesto della mano, a cui forse non e` estranea un’intenzione di rimprovero, diviene tuttavia l’occasione per l’amante di una doppia e concomitante contemplazione, dove, grazie all’attivazione della facolta` immaginativa, al soggetto contemplante si rendono presenti entrambi gli oggetti amati, dei quali quello che cela e` immediatamente percepibile dal senso esterno della vista, mentre quello nascosto si manifesta nel senso interno come immagine. Ed e`, dunque, la compiuta possibilita` di contemplare entrambi, «l’una e l’altra gloria», a suscitare nell’anima di Francesco un piacere giammai provato prima e una sensazione di inusitata dolcezza. Ne´ e` un caso che all’aggettivo novo, riferito al dilecto, si accompagni una seconda qualita`: celeste, a significare il carattere soprannaturale di un piacere presentato come affatto difforme dalle ordinarie leggi di natura12, stando alle quali «e` possibile contemplare il fantasma nell’immaginazione (cogitare) o la forma dell’oggetto nel senso, ma mai entrambi nello stesso tempo»13. Di sicuro destinato a risultare meno pregnante, o addirittura incomprensibile, se lo si svincola dalla psicofisiologia fantasmatica che ne costituisce l’indispensabile sostrato teorico, il sonetto di Petrarca tocca e sovverte il nucleo dottrinale che domina l’intera concezione medievale dell’amore, dal momento che tra visio e cogitatio, tra la visione della creatura reale e la contemplazione spirituale dell’immagine, l’episodio brillantemente raccontato nel sonetto istituisce un rapporto di straordinaria coesistenza e simultaneita`, in luogo della piu` comune e sofferta discordanza14. Il motivo della mano che copre non riscosse, a quel che mi 11

F. Petrarca, Canzoniere, a c. di M. Santagata, Milano, Mondadori, 1996, pp. 1022-23. Gli altri due testi che presentano lo stesso motivo, sono il sonetto Orso, e’ non furon mai fiumi ne´ stagni, pp. 212-14, e la canzone Gentil mia donna, i’ veggio, pp. 370-79. 12 L’aggettivo celeste, che nel Canzoniere presenta 15 occorrenze, sembra riferirsi sempre all’ambito divino, come tale, o alla natura angelica di Laura, mai al soggetto del poeta, con l’unica eccezione del nostro sonetto. 13 G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino, Einaudi, 1977, p. 98. 14 Sulla tematica, qui appena sfiorata, oltre al volume citato nella nota precedente, e` imprescindibile – soprattutto per l’ambito spagnolo – il libro di G. Sere´s, La transformacio´n de los amantes. Ima´genes del amor de la Antigu¨edad al Siglo de Oro, Barcelona, Crı´tica, 1996.

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PARTE QUARTA

risulta, un’immediata fortuna presso i poeti che seguirono le orme del Petrarca, tant’e` che lo ritroviamo isolatamente, all’inizio del Quattrocento, in un sonetto del giurista pistoiese Buonaccorso da Montemagno il Giovane, dove peraltro occupa un paio di versi, gia` destituito di quel contenuto dottrinale di cui aveva saputo dotarlo l’inventore. Mi limito a riprodurre la quartina, nella quale compare il motivo di nostro interesse:

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Piangeva il partir mio, dolente invano, da’ be’ vostri occhi e da l’altera iddea, e’l viso el qual talor toˆr mi solea 15 la vostra bella e mia nimica mano .

Sorte migliore, senza alcun dubbio, arrise alla combinazione che, lasciando fuori il motivo dello schermo, congiunse il ricorso alle due parti del corpo femminile: il viso (o occhi) e mano, con una delle piu` diffuse antitesi del Canzoniere petrarchesco, quella di fuoco e neve con tutte le varianti isotopiche di essa; in particolare, con l’immagine del fuoco amoroso che nasce dal ghiaccio o dalla neve, come nell’esordio del sonetto petrarchesco: «D’un bel chiaro polito e vivo ghiaccio / move la fiamma che m’incede e strugge». In pratica, finirono per concentrarsi in un unico artificio tre figure, dal momento che la coppia di elementi fisici, per il tramite della doppia metafora da essi favorita, dette luogo all’antitesi nominata, e questa a sua volta risulto` impiegata al servizio dell’effetto iperbolico a cui mirano i testi che ci accingiamo a considerare. Nelle rime dedicate a A Safira del senese Filenio Gallo (nome d’arte di Filippo Galli), che risalgono probabilmente agli ultimi decenni del Quattrocento, si legge il sonetto «Quella distinta man candida e molle», nella cui ironica interrogazione finale si enfatizzano gli effetti che il «bel viso» dell’amata arriverebbe a produrre nel poeta, se solo gli si porgesse come nei versi precedenti e` detto della «man candida», della quale il v. 9 assicura – con la consueta, qui sottintesa, antitesi – che «non e` fuoco minor, benche´ non fumi». Anche in questo caso, mi limito a citare i soli versi dove la mano e il viso di lei sono messi a confronto per la fiamma d’amore che entrambi sono capaci di accendere:

15

B. Montemagno, Le Rime dei due Buonaccorso da Montemagno, a c. di R. Spongano, Bologna, Patron, 1970, pp. 36-47.

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LETTURA DEL SONETTO

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Tu che comprendi, ormai muta costumi, che´ se tempri con man l’acesa voglia, che farai se mi porgi il tuo bel viso?16

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Di nuovo un interrogativo con analogo effetto iperbolico a vantaggio del «celeste viso», questa volta apre un madrigale del maggiore realizzatore cinquecentesco del genere, il fiorentino Giovan Battista Strozzi il Vecchio, la cui vasta produzione madrigalesca si colloca nel periodo a cavallo della meta` del secolo, tra le date estreme del 1539 e del 1570: Hor, se tal m’arde, e ’nfiama La fresca neve della bianca mano, Che fara` poi la fiamma, E ’l foco del celeste viso umano?17

Mentre, in un altro madrigale dello stesso autore, l’iniziale dubbio circa la reale natura degli strali d’Amore, e` risolto nella seconda parte con la confessione dell’acquisita consapevolezza della virtu` della «candida mano», che sorprendentemente risulta essere non inferiore al «bel viso» nel suscitare un ardore amoroso parimenti inestinguibile: Neve o marmo, ch’io subito cascai, m’avvento` Amore? O folgorante face? Che l’anima si sface e arde sı` da non si spegner mai. Ben sapev’io de’ tuoi stellanti rai, bel viso, almo seren, ma non gia` della gentil candida mano: qual di lontano or tutto ardene anch’ella18.

` , tuttavia, a un epigono della lirica petrarchista di area veneta E che si deve, probabilmente, il recupero del motivo della mano che copre, e il suo innesto nella trama, insieme, metaforica e antitetica, a cui aveva dato origine la coppia delle parti femminili. Nelle Rime di

16

F. Gallo, Rime, a c. di M. A. Grignani, Firenze, Olschki, 1973, p. 324. G. B. Strozzi il Vecchio, Madrigali, a c. di L. Sorrento, Strasbourg, Heitz («Bibliotheca Romanica»), 1909, p. 72, che ristampa l’antica edizione del Sermartelli (Firenze 1593). 18 G. B. Strozzi, Madrigali inediti, a c. di M. Ariani, Urbino, Argalı`a, 1975, p. 84, dove il lettore trovera` l’ampio studio introduttivo Giovan Battista Strozzi, il Manierismo e il Madrigale del ’500: strutture ideologiche e strutture formali, pp. VII-CXLVIII. 17

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PARTE QUARTA

Luigi Groto, difatti, piu` volte ristampate a partire dal 1584, ma con dedica datata 1577, si trova anche il madrigale che Fucilla segnalo` come il piu` immediato precedente di Quevedo:

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Son i begli occhi tuoi Di duo soli lucenti sfere calde, Son le tue man dapoi D’una neve bianchissima due falde. E pero` ti consiglio Per far muro a’ tuoi occhi Accio` che io non t’adocchi, Non oppor piu` la man dinanzi al ciclio; Levala e credi a me se non la levi, Quei soli struggeran coteste nevi19

dove all’appello dei fattori presenti nei testi finora ricordati, manca il solo effetto iperbolico, il quale risulta assente, avendo fatto posto all’argutia finale della mano-neve disciolta dagli ardenti raggi degli occhi-sole, a cui invero prepara l’intero componimento. Qualcosa di simile, del resto, suggeriva un madrigale di Gutierre de Cetina, nel quale pero` il motivo della mano che copre risulta brillantemente sviluppato in assenza della consueta antitesi, dal momento che il poeta preferı` avvalersi solo di una delle due potenziali metafore, quella che assimila gli occhi al sole, del quale peraltro e` reso funzionale l’insostenibile resplandor piu` che l’ardore intenso messo a profitto dai testi italiani: Cubrir los bellos ojos, con la mano que ya me tiene muerto, cautela fue por cierto, que ansı´ doblar pensastes mis enojos. Pero de tal cautela harto mayor ha sido el bien que el dan˜o, que el resplandor extran˜o del sol se puede ver mientra se cela: Ası´ que aunque pensastes cubrir vuestra beldad, u´nica, inmensa,

19

L. Groto, Cieco d’Hadria, Rime, Venezia, Appresso Fabio e Agostino Zoppina, 1584, p. 82. Cfr. Fucilla, Estudios sobre el petrarquismo, cit., pp. 202-3. Interessanti considerazioni sulla presenza di Groto nella poesia di Quevedo possono leggersi in A. Martinengo, La astrologı´a en la obra de Quevedo, Madrid, Alhambra, 1983, pp. 130 e ss.

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LETTURA DEL SONETTO

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yo os perdono la ofensa, pues, cubiertos, mejor verlos dejastes20.

3. Dal «concettino» al concetto A conclusione della sua breve analisi del sonetto di Quevedo, riferendosi alla segnalazione di Fucilla, Maria Grazia Profeti osservava che

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certo in Groto manca il controllo di scrittura di Quevedo, e non solo perche´ il gioco ritmico del madrigale spiazza nell’alternativa del verso lungo/corto i possibili parallelismi, ma perche´ il concettino – con momento protasico esposto nei vv. 1-2 vs. 3-4 – si esaurisce nell’unica battuta fulminante del verso finale21.

Con l’impiego di un termine peculiare di un’estetica facilmente riconoscibile, e` indubbio che la studiosa intendesse alludere all’etichetta di gusto prebarocco con cui gia` l’antica critica – col Tiraboschi come antesignano – aveva contrassegnato la poesia dell’epigono tardo cinquecentesco del Petrarca; mentre alla forma del diminutivo risultava implicitamente affidata l’idea per la quale il madrigale lasciava solo debolmente intuire quell’estetica del concettismo, che nel sonetto avrebbe trovato, invece, la sua piena realizzazione. Insomma, dal modello italiano alla sua imitazione spagnola: dal concettino al concepto, sarebbe dato di misurare la non corta distanza che separa i prodromi di un’estetica ancora in nuce dai risultati piu` maturi di essa. In effetti, cio` che, gia` a una prima lettura, emerge dal sonetto di Quevedo, rispetto al suo piu` diretto modello – il madrigale di Groto –, e tanto piu` a confronto con tutta la ristretta tradizione testuale, qui provvisoriamente ricostruita, e` una piu` complessa ambiguita`, alla quale congiuntamente contribuiscono sia l’accresciuta intensita` con cui nel sonetto si dispiega l’antitesi originaria, sia la sostanziale identita` a cui i termini di quell’antitesi risultano ricondotti nel corso 20 G. de Cetina, Sonetos y madrigales completos, a c. di B. Lo´pez Bueno, Madrid, Ca´tedra, 1981, p. 134. Per una valutazione dei madrigali di Cetina, si veda B. Lo´pez Bueno, Gutierre de Cetina, poeta del Renacimiento espan˜ol, Sevilla, Diputacio´n Provincial de Sevilla, 1978, pp. 240-49. Sulle complesse relazioni del sonetto di Garcilaso, Con ansia estrema de mirar que´ tiene, con quello di Petrarca qui considerato, mi sia concesso di rimandare a A. Gargano, «Medusa e l’error mio…». La genealogia petrarchesca del sonetto XXII, in Id., Fonti, miti, topoi. Cinque studi su Garcilaso, Napoli, Liguori, 1988, pp. 27-54. 21 Profeti, Quevedo: la scrittura e il corpo, cit., p. 28.

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PARTE QUARTA

del componimento. Mi spieghero` meglio, ricorrendo alla massima autorita` teorica nel campo. Nel piu` celebre trattato spagnolo di quell’estetica del concetto, a cui mi sono appena richiamato, il suo autore riporta un breve testo poetico:

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Hipo´crita Mongibelo, Nieve ostentas, fuego escondes; ¿Que´ hara´n los humanos pechos, Pues saben fingir los montes?

Dove l’anonimo «ingenioso moderno» mette a confronto nel famoso vulcano il magma coperto dalle nevi e la simulazione negli uomini di atteggiamenti e sentimenti esemplari. Il testo poetico menzionato e` addotto tra gli esempi che arricchiscono il discurso VIII, a sua volta dedicato a las ponderaciones de contrariedad, a proposito delle quali, a principio del capitolo, Gracia´n dichiara che «unir a fuerza de discurso dos contradictorios extremos, estremo arguye de sutileza»22. Nell’esordio del sonetto quevediano, alla consueta antitesi conseguente alla doppia metafora: ojos=fuego e mano=nieve, si somma la nuova coppia dei termini verbali in contrasto: quita e da, la cui azione pero` – operando in totale simultaneita` – sembra risolversi nell’esito di un sostanziale pareggio. Ma sono i versi che subito seguono a trasformare un pareggio finora solo quantitativo in una parificazione essenzialmente qualitativa, posto che essi contengono la dichiarazione dell’identico effetto prodotto nell’amante dai «dos contradictorios extremos». E cosı`, le due litoti che introducono le rispettive comparazioni: no… menos, ni menos, piuttosto che attenuare, intendono accentuare iperbolicamente il contrario, suggerendo quindi di porre un segno d’uguaglianza tra gli elementi, che in principio si presentano come opposti. Difatti, nel v. 3, il ravvicinamento, che pure sembra circoscriversi – con maggiore aderenza alla logica dei contrari – al solo effetto distruttivo (mata), in realta` finisce per estendersi fino all’identita`, se consideriamo la modalita` con cui la morte simbolica dell’amante si determina. Il rigor che la causa va, senza alcun dubbio, inteso nel senso di ‘aspereza o crueldad’ della dama, come in tanti altri luoghi della poesia amorosa di Quevedo; ma, nel contesto della quartina e` improbabile che il termine non sia 22

B. Gracia´n, Agudeza y arte de ingenio, a c. di E. Correa Caldero´n, Madrid, Castalia, 1969, vol. I, pp. 107 e 105, rispettivamente.

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LETTURA DEL SONETTO

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anche assunto come latinismo, col significato di ‘freddo o ghiaccio’, accezione a sua volta attestata nella poesia amorosa, per esempio – proprio in coppia antitetica con llamas – nel primo degli Idilios con cui si chiude Canta solo a Lisi: «halagare´ sus llamas y rigores» (v. 20)23. Ma, in virtu` della comparazione in cui e` immesso, il rigor, ossia il ‘crudele gelo’ – con condensazione di entrambe le accezioni –, e` una qualita` che il testo finisce per ascrivere agli occhi, non meno che alla mano, a cui di solito appartiene nel codice petrarchista dell’epoca; come, del resto, nel verso seguente, le llamas, tramite l’altra parallela comparazione, diventano attributo della mano quanto degli occhi, di cui nello stesso codice sono un costituente ordinario. Prima di rivolgere l’attenzione alle altre parti del sonetto, provo a sintetizzare, precisando alcuni aspetti. Ho parlato, all’inizio, di so` ora il caso di precisare che l’aneddoto gia` netto epigrammatico. E puntualmente rivelato nel titolo, e` sviluppato nella prima quartina (e nella seconda, come vedremo), dove – pero` – piu` che nella veste della pura narrazione, e` nella forma del commento ingegnoso che esso viene presentato. Cosı`, una volta ripreso il caso esposto nel titolo, e avendolo nuovamente abbozzato con chiarezza nel v. 2: «la mano que tus ojos me recata», il resto della quartina s’impegna a rielaborarlo sutilmente, ricorrendo nel caso specifico a quella forma particolare di agudeza, che – come ho gia` indicato – il trattato di Gracia´n classifica con la denominazione di ponderacio´n de contrariedad, o anche reparo de contradiccio´n, e di cui fornisce la seguente definizione: «consiste […] en levantar oposicio´n entre los dos extremos, del concepto, entre el sujeto y sus adyacentes, causas, efectos, circunstancias, etc., que es rigurosamente dificultar»24. In effetti, come l’analisi ha mostrato finora, non uno ma ben tre sono i conceptos che la quartina pone in gioco, dal momento che un primo «reparo de contradiccio´n» – di natura antitetica – e` quello che, per il tramite della metafora convenzionale, associa due opposti predicati di Aminta di pari seduzione: il niveo candore della mano e l’ardente fuoco degli occhi; mentre i due restanti – di tipo ossimorico – si applicano a ognuno dei termini della precedente antitesi, singolarmente considerati, dando cioe` luogo a opposizioni, non piu` tra 23 Quevedo, Obra poe´tica, ed. cit., vol. I, pp. 554-55, dove, tuttavia, il componimento appare separato dagli altri tre idilli finali di Canta sola a Lisi. Sulla questione, qui marginale, si veda la nota complementare di Arellano e Schwartz, Un Hera´clito cristiano, ed. cit., pp. 857-58, dove si trovera` anche la bibliografia pertinente. 24 Gracia´n, Agudeza y arte de ingenio, ed. cit., vol. I, p. 106.

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PARTE QUARTA

soggetto e adyacentes o attributi descrittivi, bensı´ tra adyacentes dello stesso soggetto: uno tra la natura nivea della mano e le llamas che da essa muovono: l’altro, tra l’indole ardente dello sguardo e il rigor, con cui esso annienta. In conclusione, a partire dall’abusata antitesi ostentata in superficie, la quartina iniziale, col suo ordito stilistico e retorico («a fuerza de discurso», secondo l’espressione di Gracia´n), avanza una doppia ed estrema sutileza che, con l’artificio di «unir […] dos contradictorios extremos», finisce col porre il lettore nella condizione di esitare tra due immagini di Aminta, parimenti paradossali: quelle dei suoi infiammati occhi di ghiaccio, e della sua nivea mano di fuoco. L’esitazione, in realta`, ancor prima di potersi produrre nel lettore, compare come reazione nell’amante al gesto di Aminta nell’aneddoto narrato dal sonetto, la cui seconda quartina con rovesciamento di prospettiva, «pasa bruscamente – ha avvertito Oliver – de la proximidad de los rasgos fı´sicos de la joven a la interioridad psı´quica del poeta en que causan los efectos»25. In effetti, non alla sola «interioridad psı´quica» fanno riferimento questi versi, ma sia ai sensi esterni, rappresentati dalla vista, sia a quelli interni, designati – come di solito – con pecho o cuore, che e` «donde el mal se siente», nella perifrasi garcilasiana. Tra gli uni e gli altri, se non proprio un conflitto, il gesto di Aminta e` causa almeno di una dissonanza, dal momento che i primi si lasciano docilmente sedurre dall’incanto della mano, mentre i secondi – timorosi e, percio`, prudenti – ne sospettano il tradimento. Ma e` pur sempre il commento ingegnoso con cui si manifesta la circostanza aneddotica, cio` che riscatta il testo dal piu` trito convenzionalismo, e qui piu` che altrove nel sonetto. In tal senso, i vv. 5-6 sono davvero i piu` pregnanti del componimento, per la concentrazione dei diversi sistemi simbolici che vi e` implicata, e che pertanto li rende meritevoli di un ulteriore approfondimento, consegnato alle brevi considerazioni del paragrafo conclusivo. Per il momento, mi limito a osservare che l’insieme delle «contrariedades» avanzate nella prima quartina, sfocia nell’espressione ossimorica della seconda: frescos los incendios che, in quanto riferita all’ardore della neve a cui la mano e` assimilata, implica – sottintendendola – l’idea del passaggio dallo stato solido a quello liquido, e suggerisce di conseguenza l’immagine della neve disciolta per effetto del calore. Tale idea, o immagine, a sua volta, e` all’origine 25

Oliver, Comentarios a la poesı´a de Quevedo, cit., p. 192.

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LETTURA DEL SONETTO

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della sinestesia con cui la percezione visiva si tramuta in assorbimento orale. Di qui, ancora, l’attivazione di un nuovo e splendido concetto dove, col contributo della catacresi, gli occhi-bocca dell’amante sono uguagliati al cratere di un vulcano, il quale e` ineditamente raffigurato nell’atto di impregnarsi della neve che lo ricopre, per espanderla e trasformarla nel magma delle sue cavita` sotterranee; come l’amante, nelle cui venas l’immagine interiorizzata della manoneve genera il fuoco della passione ardente. D’altro canto, nella successiva coppia di versi, l’atteggiamento difensivo del pecho amante e` fonte di una doppia contrariedad, radicata nell’opposizione tra la blancura della mano e il sospetto che essa sia aleve. Per un lato, difatti, la blancura, essendo simbolo di purezza e innocenza, non puo` che contrastare con l’attributo di falsita`, insito nel sospetto di tradimento; d’altro lato, poi, poiche´ la blancura rimanda alla nivea natura della mano, quel tradimento non puo` che concretizzarsi che in un’esplosione del fuoco che la mano occulta, coprendolo. Monte aleve, del resto, e` l’espressione usata come apposizione dell’Etna, in una delle due uniche occorrenze dell’aggettivo nella poesia amorosa di Quevedo26; e la perifrasi serve a indicare, senza dubbio, il contrasto tra l’ingannevole vetta nevosa e la dirompente presenza del fuoco al suo interno. Finora mi sono sforzato di mostrare come, nelle quartine, la ponderacio´n de contrariedad presieda all’elaborazione ingegnosa della circostanza aneddotica, in se´ piuttosto convenzionale e insignificante, da cui il sonetto prende lo spunto. Orbene, nel proporre un’organizzazione sistematica dei quaranta e piu` concetti classificati da Gracia´n, Mercedes Blanco ha incluso la ponderacio´n de contrariedad tra i casi particolari del gruppo da lei riunito col titolo di «Ponde´ration. La pointe comme e´nigme resolue», il cui comun denominatore sarebbe costituito dal fatto che, in questo tipo di concetti: l’agudeza ope`re en deux e´tapes. D’abord elle e´nonce la relation entre x et l’un des termes associe´s y (ou bien entre termes associe´s y1 et y2) et, en l’e´nonc¸ant, elle affecte d’un indice e´nigmatique, d’un point d’interrogation27.

26 Utilizzo l’utile lavoro di S. Ferna´ndez Mosquera e A. Azaustre Galiana, I´ndices de la poesı´a de Quevedo, Barcelona, Universidad de Santiago de Compostela – PPU, 1993. Il sintagma «monte aleve» compare nel sonetto Ostentas de prodigios coronado, sul quale si veda l’ultimo paragrafo di queste note. 27 Blanco, Les Rhe´toriques de la Pointe, cit., pp. 258-59.

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PARTE QUARTA

Se le cose stanno cosı`, potremmo ipotizzare che la traccia enigmatica o interrogativa da cui, nel nostro sonetto, sarebbero interessate le agudezas per unione di «contradictorios extremos», trovi un concreto riscontro interno al testo, nell’atteggiamento esitante dell’amante; un’incertezza a cui di fatto corrisponde la discordanza tra il sedotto senso della vista e il sentimento del cuore impaurito. Insomma, e` come se, all’elaborazione ingegnosa delle quartine, fossero associate domande del tipo: cosa significa il gesto di Aminta? Con ` il caso di arrendersi al desiderio quale intenzione ella lo compie? E dei sensi, riacceso dalla presenza di una mano nel suo candore benevola e, percio`, tanto piu` seducente; o non piuttosto di ritrarsi, obbedendo alle ragioni di un cuore gia` provato dall’ardore della passione distruttiva? La definizione di ponderacio´n de contrariedad, che ho riportato poco sopra direttamente da Gracia´n, continua e termina con la seguente istruzione: «Ponde´rase la repugnancia, y luego pasa el discurso a darle una sutil y adecuada solucio´n»28. Una volta, dunque, «pondera[da] la repugnancia» nelle quartine, sulle quali non e` piu` il caso d’insistere, le terzine s’incaricano di esibire la «solucio´n», dove la sutileza del discorso consiste nella formulazione di una doppia ipotesi, su cui si articola l’unico periodo dei sei versi finali, scanditi da unita` sintattiche con valore progressivamente e reciprocamente denegante. Si susseguono, cosı`: il periodo ipotetico (vv. 9-11), dove il poeta congettura in Aminta un’intenzione benevola, che assicurerebbe al gesto un proponimento pietoso, con la neve della mano che mitiga, senza spegnerlo, l’ardore dello sguardo, altrimenti soverchiatore e distruttivo; l’avversativa (vv. 12-13) che, integrando l’apodosi precedente (v. 11), valuta il riflesso crudele per chi lo compie, del gesto caritatevole per chi lo riceve; la correctio ultima (v. 14) con la quale, denegando l’intera ipotesi anteriore (vv. 9-13), il poeta fa terminare il sonetto sotto il segno del disdegno di Aminta, materializzato nel suo paralizzante sguardo di ghiaccio.

4. «Las hazan˜as del fuego y de la nieve» ` sicuramente nelle terzine, che abbiamo appena commentato, dove E appaiono con maggiore evidenza i limiti del nostro sonetto, rispetto 28

Gracia´n, Agudeza y arte de ingenio, ed. cit., vol. I, p. 106.

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LETTURA DEL SONETTO



ad altri dello stesso genere di Quevedo. Limiti che – sia ben chiaro – non sono affatto da addebitare al carattere convenzionale dell’antitesi, da cui parte e di cui si nutre il sonetto, perche´ – se cosı` fosse – non ci spiegheremmo come da temi o motivi altrettanto convenzionali nascano, nella poesia di Quevedo, autentici gioielli del gusto ` che, una volta conclusa la trama ingegnosa nella sebarocco29. E conda quartina, il resto del componimento, nonostante il sottile gioco di ipotesi che si escludono mutuamente, e` ben lungi dall’esibire quella densita` concettosa che eccita la fantasia e l’intelligenza dei lettori, quando godono dei migliori prodotti della poesia quevediana. E, a ben vedere, perfino nelle quartine, dove pure la ponderacio´n de contrariedad e` in grado di generare la fitta rete di concetti, che ci siamo sforzati di ricostruire; questi – i concetti – solo in una misura moderata danno luogo alla complessa interazione di diversi sistemi simbolici, che e` all’origine della grande poesia barocca. Insomma, si vuol dire che, nel nostro sonetto, solo in parte vediamo realizzato quel principio estetico per il quale, a partire dal sistema metaforico convenzionale, il poeta procede «a la pra´ctica de su combinacio´n polifo´nica con otros sistemas simbo´licos», per riprendere l’affermazione della Blanco, a cui sono gia` ricorso all’inizio di queste pagine. E, tuttavia, cio` non sempre e` vero nel nostro sonetto, dal momento che vi fanno eccezione i versi della seconda quartina, specie i primi due, sui quali avevo detto di voler tornare, scegliendo di metterli in relazione con altri testi, non della tradizione – questa volta –, bensı` della poesia amorosa dello stesso Quevedo, dove l’autore, in un ristretto ma significativo numero di componimenti, ricorre alla metafora del vulcano. Diciamo subito, allora, che nei componimenti implicati la metafora e` per lo piu` assunta in virtu` dell’analogia che essa istituisce tra il fuoco che il vulcano racchiude nelle sue cavita` sotterranee, e l’ar-

29 Dei sette sonetti dedicati ad Aminta, con l’unica eccezione del n. 308, R. Moore ha scritto che essi «are trivial and commonplace» (Toward a Chronology of Quevedo’s Poetry, Fredericton, York Press, 1977, p. 9). Sulla «desigualdad efectiva» della poesia amorosa di Quevedo, si vedano le osservazioni, ultime nel tempo, di A. Carriera, Quevedo en fa´rfara: calas por la periferia de la poesı´a amorosa, in «Rivista di Filologia e Letterature Ispaniche», III (2000), pp. 175-95, dove l’analisi di una dozzina di componimenti erotici, tra i meno letti, permette allo studioso di «sorprender al poeta en plena gestacio´n, lucrando au´n con los to´picos petrarquistas cuya renovacio´n se le resiste» (pp. 181-82). Per una concisa e molto utile rassegna degli studi piu` significativi sulla poesia amorosa di Quevedo, si veda ora il Pro´logo di Arellano e Schwartz alla citata antologia della poesia di Quevedo, pp. LXILXVII.

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PARTE QUARTA

dente passione che l’amante suole occultare e reprimere dentro di se´, come avviene nell’identificazione finale col Vesuvio, nel sonetto «Salamandra frondosa y bien poblada»: … yo en el corazo´n, y tu´ en las cuevas callamos los volcanes florecidos

o anche nell’ottava dell’idilio «¡Oh, vos, troncos, anciana compan˜´ıa», dove la triplice invocazione dei vulcani (Vesuvio, Mimante, Etna) sfocia nell’invito che l’amante rivolge ad essi nel distico finale:

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todos con tantas llamas como penas mirad vuestros volcanes en mis venas30.

In entrambi, nel termine finale volcanes si realizza «l’inte´gration dans une seule figure des pre´dicats topiques de l’amant»31; mentre, nel primo testo citato, si raggiunge una piu` densa ambiguita`, grazie alla connessione tra il sostantivo e il participio con valore aggettivale, che «recoge la perspectiva doble de superlatividad en el fuego […] y delicadeza del sentimiento»32, ovvero – con piu` audace e stimolante spiegazione – rappresenta «la mise en sce`ne d’une ardeur destructive, e´ruptive qui lasse intacte la splendeur immacule´e, la fraıˆcheur florale de l’objet du de´sir»33. In ogni caso, e` sulla clausura interiore a cui e` costretto il violento e persistente desiderio che insistono i versi dei due componimenti; laddove quelli, a cui ora mi riferiro`, appartenenti a un’altra coppia di testi, pretendono di giustificare i diversi segni esterni con cui si manifesta la passione segreta, sempre associata metaforicamente al vulcano. (Cosı`, di nuovo in un’ultima terzina, quella con cui si chiude il sonetto «Arder sin voz de estre´pito doliente», l’amante insorge contro la severa pretesa di Floris che vorrebbe che il suo «corazo´n sensible y animado» bruci, dissolvendosi in «muda ceniza», quando persino i tronchi senza vita degli alberi gemono e si lamentano, emettendo uno «estre´pito doliente» dalle fiamme che le consuma: 30 I testi dei due componimenti in Quevedo, Obra poe´tica, ed. cit., vol. I, pp. 493 e 554-55, rispettivamente. 31 M. Blanco, Mythe et hyperbole dans la poe´sie amoureuse de Quevedo, in M. L. Ortega (a ´ ditions, 1997, pp. 113-29, in part. p. cura di), La poe´sie amoureuse de Quevedo, Paris, ENS E 127. 32 J. M. Pozuelo Yvancos, El lenguaje poe´tico de la lı´rica amorosa de Quevedo, Murcia, Universidad de Murcia, 1979, p. 171. 33 Blanco, Mythe et hyperbole, cit., p. 128.

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LETTURA DEL SONETTO

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Del volca´n que con mis venas se derrama, diga su ardor el llanto que fulmino34

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dove il fuoco racchiuso nelle vene si rivela all’esterno, traboccando nelle liquide gocce di pianto che, tuttavia, conservano, tramite il verbo impiegato (fulmino), l’impeto e la violenza dell’elemento da cui originano. Ancora da una protesta, nei confronti di Lisi questa volta, e dalla lagnanza contro la meraviglia che in lei suscita la irosa reazione di gelosia, proviene l’identificazione del poeta-amante col vulcano. Difatti, nella prima terzina del sonetto, dopo aver ricordato – riproducendolo in parole – lo spettacolo del cruento combattimento dei tori inferociti «que el amor violenta», le chiede tra il cruccio e lo stupore: Pues si lo ves, ¡oh Lisi!, ¿por que´ admiras que, cuando Amor enjuga mis entran˜as 35 y mis venas, volca´n, reviente en iras?

dove il fuoco dell’amore geloso, una volta prosciugati gli umori interni, prorompe con una manifestazione di collera, non meno furiosa di un’eruzione vulcanica. Eppure i risultati poetici piu` interessanti Quevedo li raggiunge quando, nel ricorrere alla metafora del vulcano, ne sfrutta il peculiare contrasto tra la vetta nevosa e il fuoco interno, come – del resto – accade nella quartina del nostro sonetto, ma anche in altri due componimenti dello stesso genere metrico, dove la metafora si adatta, in maniera che diremmo complementare: all’amata nel sonetto dedicato a Flora, «Hermosı´simo invierno de mi vida», e all’amante nel prezioso «Ostentas, de prodigios coronado», che e` anche l’unico della serie a sviluppare la metafora lungo l’intero testo, dal momento che – come recita l’epigrafe – il poeta «compara con el Etna las propiedades de su amor». Nel primo, la stessa terzina che riconosce in Flora il rigore dei perenni freddi della Scitia, propone anche la sua identificazione col vulcano siciliano:

34 35

Quevedo, Obra poe´tica, ed. cit., vol. I, p. 504. Ivi, pp. 672-73; si tratta del sonetto ¿Ves con el polvo de la lid sangrienta?.

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PARTE QUARTA

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Eres Scitia de l’alma que te adora, cuando la vista, que te mira, inflama; Etna que ardientes nieves atesora36

dove, l’espressione ossimorica dell’ultimo verso, innegabilmente «serves – come ha notato Gareth Walters – to incapsulate the dominant and contrasting images thus far in the sonnet (ice, snow) from the first quatrain and the sun from the second»37, ma, per quello che qui concerne, essa rimanda, per il tramite della contrastante composizione del vulcano, alla congiunzione del seducente biancore fisico di Flora – e del suo corrispettivo temperamentale: il freddo disdegno – con il fuoco stellare che emana dai suoi occhi e l’ardore che suscita in quelli dell’amante, in quanto «esfera de luz … / que tiene por estrella al dios de Delo» (vv. 7-8). Col verbo (atesora), che suggerisce l’idea di gemme preziose (gli occhi-fuoco) riposte e occultate, come nel vulcano la neve della vetta dissimula il fuoco delle caverne. Non c’e` dubbio, comunque, che il testo che piu` compiutamente sviluppa tale contrasto e` il sonetto che riserva la metafora del vulcano all’amante. All’identificazione che appare solo nel penultimo verso («soy Ence´lado vivo y Etna amante»), preparano le strofe anteriori con la descrizione dei prodigi che fanno del vulcano un «hermoso monstruo sin segundo» (v. 11). Di esse, mi limito a riprodurre i primi versi, che piu` ci riguardano, rimandando per il commento del componimento alle pagine che vi dedicano Pozuelo, Olivares e, soprattutto, la Blanco38; Ostentas de prodigios coronado, sepulcro fulminante, monte aleve, las hazan˜as del fuego y de la nieve, y el incendio en los yelos hospedado. Arde el hibierno en llamas erizado, y el fuego lluvia y granizo bebe39.

Orbene, oltre alla metafora centrale, che – com’e` ovvio – condi36

Ivi, vol. I, pp. 507-8. Walters, Francisco de Quevedo Love Poet, cit., p. 89. 38 Pozuelo Yvancos, El lenguaje poe´tico, cit., pp. 276-77; J. Olivares, La poesı´a amorosa de Francisco de Quevedo, Madrid, Siglo Veintiuno, 1995, pp. 25-28; Blanco, Introduccio´n al comentario de la poesı´a amorosa, cit., pp. 56-63 e Ead., La poe´sie amoureuse de Quevedo, cit., pp. 122-28. 39 Quevedo, Obra poe´tica, ed. cit., vol. I, pp. 487-88. 37

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LETTURA DEL SONETTO

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vide con l’intera serie di componimenti velocemente passati in rassegna, e` con i versi appena riportati che la seconda quartina del nostro sonetto sembra presentare i maggiori punti di contatto. Cosı`, nell’espressione ossimorica frescos los incendios risulta concentrarsi la piu` ampia sequela di associazioni di contrari che occupa ben quattro dei sei versi citati, e che contribuisce in maggior misura a raffigurare la natura mostruosa del vulcano, «qui exibe les pouvoirs hyperboliques du froid, les horreurs de l’hiver, et les pouvoirs hyperboliques du feu, les puissances infernales de la chaleur»40. Per altro canto, ritroviamo, con uso figurato analogo – anche se non identico – il verbo beber, riferito alla bocca di fuoco del vulcano, che assorbe le precipitazioni atmosferiche (lluvia e granizo), come – nel nostro sonetto – la vista-bocca dell’amante-vulcano lasciava penetrare l’immagine della bianca mano, a sua volta convertita in neve disciolta dal calore. Infine, ricompare l’aggettivo aleve che, in entrambi i testi, sembra alludere all’insidia di un candore di superficie, da cui sono pronte a dirompere le fiamme che incendiano. Ormai alla fine del percorso, ci resta solo da rimarcare brevemente le diverse sfumature con cui la metafora del vulcano risulta di nuovo impiegata nel sonetto che abbiamo scelto di commentare; un compito che l’inserimento del sonetto nel contesto dei componimenti amorosi quevediani con la stessa immagine, rende estremamente piu` agevole e rapido. Altrove presentate separatamente: come simbolo dell’amata, in «Hermosı´simo invierno», e dell’amante, in «Ostenta», le due possibili applicazioni a cui si presta la metafora del vulcano innevato, sembrano invece congiungersi nella quartina del nostro sonetto, dove i primi due versi la ripropongono esplicitamente, in rapporto al poeta-amante, mentre negli ultimi due – come si ricordera` – e` l’aggettivo aleve, riferito alla bianchezza della mano femminile, che ne suggerisce l’adattamento per la stessa Aminta. Due vulcani, dunque, simmetricamente rappresentati, se si tiene conto dell’altro scarto, che si produce nella prima coppia di versi. Qui, difatti, a differenza di quanto avviene negli altri componimenti della serie, dove il vulcano e` accolto in funzione soprattutto della sua violenta forza eruttiva, tanto piu` veemente se presentata nell’inconciliabile discrepanza col freddo biancore dell’esterno; qui – dicevo – e` il processo inverso che viene evocato, con la neve dell’esterno che una volta assorbita dal vulcano, si vede tramutata nella materia di 40

Blanco, La poe´sie amoureuse de Quevedo, cit., p. 125.

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PARTE QUARTA

fuoco che si espande nelle sue cavita` interne. In tutto cio`, non e` difficile riconoscere, tradotto nei termini di un’improbabile successione di fenomeni vulcanici, il processo amoroso che e` alla base di tanta letteratura dello stesso genere: la visione dell’oggetto amato e la conseguente formazione dell’immagine interiore che, attivando intorno a se´ l’immoderata cogitatio del soggetto, e` all’origine degli spirti infiammati dagli stilnovisti in avanti. La tradizione, convertita dall’abuso in mera convenzione, prova a rinascere dalle sue stesse ceneri, grazie al riscatto – non sempre risolutivo, in verita` – che le offre l’elaborazione ingegnosa, la quale – per la sua logica equivoca, e contro il positivismo scientifico contemporaneo – ripropone

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l’ancien cosmos analogique, celui-ci qui fondait logiquement la validite´ de l’esprit me´taphorique reposant sur les similitudes et les correspondances entre tous les ordres de la re´alite´, de la pierre a` l’homme et de l’homme aux astres41.

J. Rousset, L’inte´rieur et l’exte´rieur. Essais sur la poe´sie et sur le the´aˆtre au XVIIe sie`cle, Paris, Jose´ Corti, 1998, p. 67. 41

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QUEVEDO E LE «POESI´AS RELOJERAS»

Con l’espressione nient’affatto derisoria di «poesı´as relojeras», Eugenio Asensio si riferı` a un gruppo di componimenti che Quevedo aveva dedicato alla «material macchinetta misuratrice del tempo», secondo la definizione che Emanuele Tesauro dette dell’ordigno cronometrico1. Nel suo imprescindibile contributo a questo insieme di poesie, dove si occupa principalmente della selva in strofe di cinque ottonari, «Este polvo sin sosiego», Asensio individua con la sua abituale maestria la fonte umanistica di Quevedo in due epigrammi latini dell’Amalteo. In essi, difatti, troviamo fissato il tema della selva, ossia «la conexio´n entre dos motivos tan divergentes a primera vista como el amor infeliz y el reloj de arena»2, il cui passaggio o salto dalla letteratura epigrammatica neolatina alla poesia italiana documento` lo stesso Asensio in due raccolte di Rime dell’inizio del XVII secolo, appartenenti rispettivamente a Filippo Alberti e al piu` noto Tommaso Stigliani. Com’e` noto, questo gruppo di poesie non si limita alla sola selva che ebbe la fortuna di richiamare la dotta attenzione del maestro Asensio, ma si estende a un numero non esorbitante, ma significativo, di componimenti, di cui fanno parte, oltre alla citata selva in ottonari, altre tre selve metriche, a cui si aggiungono due sonetti. Un corpus, dunque, di sei componimenti, il cui «rasgo determinante es el motivo literario del reloj»3, mentre per il resto la varieta` predomina. Una varieta` metrica, innanzitutto, come abbiamo appena visto, ma anche quella relativa al genere poetico o tematico, dal momento che

1

E. Tesauro, Il cannocchiale aristotelico, Venezia, Baglioni, 1669 [1ª ed., 1654], p. 36. E. Asensio, Un Quevedo inco´gnito. Las «Silvas», in «Edad de Oro», II (1983), pp. 13-48. Cito da p. 21. 3 M. A. Candelas Colodro´n, Las silvas de Quevedo, Vigo, Universidad de Vigo, 1977. Cito da p. 167. 2

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PARTE QUARTA

due selve, «El metal animado» e «Ves, Floro, que, prestando la Arisme´tica», sono chiaramente morali, mentre altre due, «Este polvo sin sosiego» e «¿Que´ tienes que contar, reloj molesto», insieme al sonetto «Ostentas, ¡oh felice!, en tus cenizas», «presentan – afferma Candelas – rasgos nı´tidos de poesı´a amorosa, arropados por motivos morales»4. Infine, il secondo sonetto della serie, «A mocos de candil escoge, Fabio», e` classificato tra i componimenti satirici5. Di piu`, e, forse, cio` che piu` importa dalla presente prospettiva, anche i modelli di orologio variano da una poesia all’altra, facendo posto a un orologio d’arena, a uno da suono e a uno solare, i cui rispettivi componimenti – secondo Heiple – «treat the three types of clocks common in his time, and provide a kind of history of the development of the clock from the sundial to the mechanical clock»6. Nel sonetto satirico, infine, la «fragilidad de la vida» e` rappresentata – come recita la rubrica – «en el mı´sero donarie, y moralidad de un candil, i relox juntamente», dove si tratta sicuramente di un orologio meccanico incastonato in un candelabro. ´ ngel CandeRiferendosi alle quattro selve sull’orologio, Miguel A 4

Ibid. I sei componimenti menzionati, nella classica edizione di J. M. Blecua: F. de Quevedo, Obra poe´tica, 4 voll., Madrid, Castalia, 1969-1981, hanno la seguente numerazione: «¿Que´ tienes que contar, reloj molesto», n. 139, vol. I, pp. 270-72; «El metal animado», n. 140, vol. I, pp. 272-73; «¿Ves Floro, que, prestando la Arisme´tica», n. 141, vol. I, pp. 273-74; «Ostentas, ¡oh felice!, en tus cenizas», n. 380, vol. I, p. 536; «Este polvo sin sosiego», n. 420, vol. I, p. 599; «A moco de candil escoge, Fabio», n. 552, vol. II, p. 29. La selva «¿Que´ tienes que contar» e` raccolta anche in F. de Quevedo, Poesı´a varia, a c. di J. O. Crosby, Madrid, Ca´tedra, 1981, pp. 507-08, con un breve commento finale, mentre il sonetto «A moco de candil», oltre allo studio di R. M. Price, The lamp and the Clock: Quevedo’s Reaction to a Commonplace, in «Modern Language Notes», LXXXII (1967), pp. 198-209, ha ricevuto l’edizione con ricche note esplicative di I. Arellano, Poesı´a satı´rico-burlesca de Quevedo: estudio y anotacio´n filolo´gica de los sonetos, Pamplona, Ediciones Universidad de Navarra, 1984, pp. 430-31 e di L. Schwartz e I. Arellano, in Quevedo, Un Hera´clito cristiano, Canta sola a Lisi y otros poemas, Barcelona, Crı´tica, 1998, p. 342. Sul sonetto «Ostentas, ¡oh felice!, en tus cenizas», si vedano le brevi considerazioni di D. G. Walters, Francisco de Quevedo, Love Poet, Washington-Cardiff, The Catholic University of America Press-University of Wales Press, 1985, pp. 166-67. Sul genere della selva quevediana, oltre al gia` menzionato libro di Candelas Colodro´n, si veda Asensio, Un Quevedo inco´gnito, cit.; P. Jauralde Pou, Las silvas de Quevedo, in B. Lo´pez Bueno (a cura di), La silva, Grupo de Investigacio´n P.A.S.O., Universidad de Sevilla e Universidad de Co´rdoba, 1991, pp. 157-80. Sull’edizione aldina di Stazio (Sylvarum libri quinque, Thebaidos libri duodecim, Achilleidos duo, Venecia, 1502), che appartenne alla biblioteca di Quevedo e «which along with Quevedo’s signature also containes a significant number of annotations in his hand» (p. 132), si veda, H. e C. Kallendorf, Conversations with the Dead: Quevedo and Statius, Annotation and Imitation, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», LXIII (2000), pp. 131-68. 6 D. L. Heiple, Mechanical Imagery in Spanish Golden Age Poetry, Madrid, Jose´ Porru´a Turanzas («Studia humanitatis»), 1983. 5

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QUEVEDO E LE «POESI´AS RELOJERAS»

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las ha ricordato che «los orı´genes de tal motivo literario [quello dell’orologio] se hallan sin demasiada dificultad en la poesı´a epigrama´tica y en la literatura de emblemas, que gusta de compaginar e integrar ilustracio´n gra´fica y palabra»7. In effetti, a proposito di una tale integrazione di figura e testo nella letteratura emblematica tra Cinque e Seicento, uno studioso italiano, Vitaniello Bonito, che ha dedicato una monografia all’«orologio barocco fra scienza, letteratura ed emblematica», ha scritto che l’orologio «oggetto costruito per vedere il tempo, […] ben rappresentava la tendenza del “pensiero visivo” a coagulare in icone ogni esperienza umana»8. Ma l’orologio, forse proprio in virtu` di tali caratteristiche, era anche destinato a diventare uno dei luoghi privilegiati della poesia barocca, posto che «emblema meccanico – come si e` di nuovo espresso lo studioso appena menzionato – l’ordigno e` un Bild-Gedanke che si fa metafora visibile dell’invisibile»9. Ecco il punto: tra tanti oggetti che la poesia barocca prende a prestito dalla realta` materiale, la macchina cronometrica con la sua vasta gamma di modelli e` una di quelle immagini o figure che maggiormente si presta alla produzione di una densa rete di concetti, grazie ai quali si realizza quella combinazione polifonica di diversi sistemi simbolici, che e` alla base del pensiero analogico, il quale costituisce a sua volta l’irrinunciabile e regressiva premessa di ogni forma di cultura e poesia barocca. Ricorrero` a un’ultima citazione dal libro di Bonito, laddove sostiene che «l’orologio viene a rappresentare […] nel XVII secolo, un modo speculativo particolarmente complesso dal momento che mette in campo virtualita` intuitive e razionali tali da dislocare su piu` plateaux teorici la sua multiforme figura di macchina machinarum»10. Il compatto insieme di poesie sull’orologio di Quevedo rappresenta un esempio tra i piu` precoci e significativi di poesia barocca europea che, intorno all’ordigno cronometrico, ha costruito una fitta rette metaforica e simbolica, dando luogo in tal modo a un sentimento del tempo che si gioca interamente sul rapporto analogico tra vita umana e icona mobile dell’orologio, ovvero sul denso sistema di 7

Candelas Colodro´n, Las silvas de Quevedo, cit., p. 167. V. Bonito, L’occhio del tempo. L’orologio barocco fra scienza, letteratura ed emblematica, Bologna, CLUEB, 1995, pp. 71-72. Dello stesso autore puo` vedersi anche l’antologia di poesie barocche italiane dedicate all’orologio, Le parole e le ore. Gli orologi barocchi: antologia poetica del Seicento, Palermo, Sellerio, 1996. 9 Bonito, L’occhio del tempo, cit., p. 93. Si veda anche J. Gallego, Visio´n y sı´mbolos en la pintura espan˜ola del Siglo de Oro, Madrid, Ca´tedra, 1996, pp. 220-23. 10 Bonito, L’occhio del tempo, cit., p. 18. 8

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PARTE QUARTA

relazioni tra l’orologio e i molteplici significati cui l’oggetto viene destinato. Pochi e brevi esempi tratti da alcuni dei componimenti quevediani saranno sufficienti a illustrare quanto si e` finora affermato in termini piu` generali. Nella selva metrica diretta a Floro, la vita umana e` percepita nella sua dimensione temporale grazie all’orologio solare, a cui essa viene accostata nei ventisei endecasillabi e settenari del componimento. Com’e` ovvio, non e` l’indubitabile eco della riflessione stoica che si concretizza nell’idea della vita umana come transito fugace cio` che rende degna d’attenzione la poesia menzionata11, bensı` l’intreccio dei vari piani a cui da` luogo il rispecchiamento nell’orologio della vita umana. E cosı`, fin dai primissimi versi della selva, col loro richiamo esplicito alle due arti del quadrivium, sono – nientemeno – le grandi categorie dello spazio e del tempo a essere messe in correlazione grazie ai numeri, i quali sono in grado di tradurre la quantita` di spazio percorso dal sole nella quantita` di tempo trascorso, un tempo che, almeno in questa fase iniziale del testo, non e` ancora quello della nostra vita umana, bensı` quello piu` oggettivo e spersonalizzato che contrassegnano le cifre marcate nel quadrante dell’orologio: ¿Ves, Floro, que, prestando la Arisme´tica nu´meros a la docta Geometrı´a, los pasos de la luz le cuenta al dı´a?12

Nei versi immediatamente seguenti la correlazione di spazio e

11

Si legga, per esempio il seguente passo che pronuncia il Desengan˜o all’inizio del Mundo por de dentro, in F. de Quevedo, Los suen˜os, a c. di I. Arellano e M. C. Pinillos, Madrid, Espansa-Calpe, 1998, p. 182: «¿Entiendes de cua´nto precio es una hora? ¿Has examinado el valor del tiempo? Cierto es que no, pues ası´, alegre, le dejas pasar hurtado de la hora que fugitiva y secreta te lleva preciosı´simo robo. ¿Quie´n te ha dicho que lo que ya fue volvera´ cuando lo hayas menester si le llamares? Dime ¿has visto algunas pisadas de los dı´as? No por cierto, que ellos solo vuelven la cabeza a reı´rse y burlarse de los que ası´ los dejaron pasar. Sa´bete que la muerte y ellos esta´n eslabonados y en una cadena, y que cuando ma´s caminan los dı´as que van delante de ti, tiran hacia ti y te acercan a la muerte, que quiza´ la aguardas y es ya llegada, y segu´n vives, antes sera´ pasada que creı´da». Sulle fonti senechiane del passo, si vedano le osservazioni di J. O. Crosby, in F. de Quevedo, Suen˜os y discursos, 2 voll., Madrid, Castalia, 1993, vol. II, p. 1323 e, per un commento stilistico L. Schwartz Lerner, Meta´fora y sa´tira en la obra de Quevedo, Madrid, Taurus, 1983, pp. 114-16. Sul tema della morte e del passaggio del tempo nella poesia morale di Quevedo, si vedano le appropriate osservazioni di A. Rey, Quevedo y la poesı´a moral espan˜ola, Madrid, Castalia, 1995, pp. 88-90, nelle cui note il lettore trovera` ulteriore bibliografia in proposito. 12 Quevedo, Obra poe´tica, ed. cit., n. 141, vv. 1-3.

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

tempo torna a presentarsi nell’aggetivo velocı´sima, riferito alla bellezza del sole:

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¿Ves por aquella lı´nea, bien fijada a su meridiano y a su altura, del sol la velocı´sima hermosura con certeza espiada?

La lı´nea e` quella dello gnomone la cui posizione e dimensione, essendo determinate una volta per tutte dal meridiano e dall’altezza, rimangono immutabili e immobili13. Cosı`, in questa descrizione apparentemente oggettiva del funzionamento dell’orologio, sono almeno due i fenomeni che richiamano l’attenzione. In primo luogo, il contrasto tra la fissita` dello gnomone e il dinamismo della luce solare si rende responsabile di un effetto paradossale, dal momento che, spettando all’immobile asticciola di misurare la velocita` del sole, l’apparente fissita` del quadrante dell’orologio finisce per raffigurare esattamente il suo contrario, l’estrema instabilita` di spazio e tempo. In secondo luogo, grazie allo slittamento di un attributo, quello della ‘velocita`’, dal soggetto a cui legittimamente appartiene, il sole, a un altro attributo dello stesso soggetto, la bellezza, si ottiene l’effetto di introdurre nel testo un senso di provvisorieta` e di caducita`, poiche´ il v. 6: «del sol la velocı´sima hermosura», mentre si riferisce al rapido movimento dell’astro, o della sua luce, allude anche alla fugacita` della bellezza. E questa e` premessa, a sua volta, di quella transitorieta` della vita umana, sulla quale i versi seguenti della selva s’incaricano di ammaestrare Floro. Solo ora, difatti, la poesia fa finalmente spazio all’analogia tra l’orologio e la vita umana; un’analogia che, almeno in un primo momento, viene presentata a Floro in termini assolutamente euforici, grazie a un sistema di triplice equivalenza, in base al quale la luce e` indice delle ore, e queste della vita: ¿Agradeces curioso el saber cu´anto vives, y la luz y las horas que recibes?

13 Sulla selva si veda il commento di Heiple, Mechanical Imagery, cit., pp. 135-38, e, in particolare, sui versi citati, si leggano le seguenti osservazioni: «The more likely interpretation would be that the phrases “a su meridiano” and “a su altura” equivocally refer to both the “linea”, the shadow on the clock, and to the sun itself which is at full ascent at midday, suggesting the fullness of life, and a forthcoming descent and decline» (pp. 136-37), che, a mio parere, forzano abbastanza il significato dei versi in questione.

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PARTE QUARTA

D’ora in poi – siamo quasi alla meta` del testo –, non piu` domande con cui indirizzare lo sguardo di Floro sull’orologio e incoraggiare la sua riflessione sulla ricca e luminosa vita avvenire. A partire dal v. 11, col minaccioso empero iniziale, si sussegue fino alla fine del componimento una serie di ammonimenti, nei quali Floro vede rovesciarsi nel loro contrario tutti gli elementi che finora gli si erano presentati favorevolmente:

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Empero si olvidares, estudioso, con pensamiento ocioso, el saber cua´nto mueres, ingrato a tu vivir y morir eres.

In effetti, nel tempo della vita (cua´nto vives, v. 9) l’orologio misura simultaneamente quello della morte (cua´nto mueres, v. 13), mentre l’atteggiamento di Floro di fronte a questa doppia misurazione del tempo e` colto nel passaggio dalla grata curiositas per la vita che ancora lo attende all’ingratitudine aliena da ogni ricordo di quella che e` alle sue spalle. Insomma, nell’orologio di sole, luce e ombra, tempo futuro e passato, vita e morte sono l’uno lo specchio dell’altro («en e´l, recordada, / ves tu muerte en tu vida retratada», vv. 19-20); e la selva che finora non ha avuto parole che per la parte luminosa del quadrante, sposta finalmente tutta l’attenzione sulla sua parte oscura, e si chiude con una manciata di versi, dove le ombre spadroneggiano con l’effetto di decretare un’assimilazione totale di Floro all’orologio di sole: cuando tu´, que eres sombra, pues la santa Verdad ansı´ te nombra, como la sombra suya, peregrino, desde un nu´mero en otro tu ca´mino corres, y pasajero, te aguarda sombra el nu´mero postrero.

La vita umana, come peregrinatio, non si differenza dalla corsa dell’orologio. Del resto, questo concetto si trovava gia` esplicitamente espresso, in termini positivi, in due versi precedenti che non ho ancora citato: «pues tu vida […] / camina al paso que su luz camina» (vv. 15-16). Orbene, nei versi finali dalla selva, lo stesso concetto si sviluppa in termini meno propizi, dal momento che la vita materiale di Floro, come ombra alla quale e` assimilata per la similitudine biblica, risulta agguagliata all’ombra che lo gnomone proietta sul

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quadrante dell’orologio, con l’identico destino che attende entrambi – Floro e l’orologio –, allo scoccare dell’ultima ora («el nu´mero postrero»): nel buio della notte che copre per intero il quadrante dell’orologio e` raffigurato il regno delle tenebre, a cui e` destinata l’esistenza terrena di Floro. E, tuttavia, attraverso l’assimilazione dell’orologio alla vita umana, la selva finisce per alludere a un’altra grande analogia tra macrocosmo e microcosmo umano, questa volta, dal momento che l’arco temporale dell’esistenza terrena di Floro e` posto in diretto rapporto di conformita` con la traiettoria dell’astro solare, e col ciclo del giorno e della notte. Vorrei, tuttavia, aggiungere qualcosa di piu` sui versi finali della selva, col loro triplice riferimento all’«ombra», e, in particolare, vorrei soffermarmi sul richiamo esplicito al concetto biblico dell’uomo come ombra, che leggiamo nei vv. 21-22: «cuando tu´, que eres sombra, / pues la santa Verdad ansı´ te nombra». In effetti, la similitudine che assimila l’uomo all’ombra, in ragione del carattere estremamente passeggero e fuggevole di entrambi, si trova con una certa frequenza nelle Sacre Scritture; dai Salmi, dove c’imbattiamo in essa in piu` d’una occasione, come – per esempio – nel Salmo 38: «ut umbra tantum pertransit homo»14, al primo libro delle Cronache con formulazione analoga: «Dies nostri quasi umbra super terram, et nulla est mora»15, fino al libro di Giobbe, che per rappresentare la brevita` della vita umana ricorre a un doppio paragone, nel senso che aggiunge alla fugacita` dell’ombra la caducita` del fiore: Homo, natus de muliere, brevi vivens tempore Repletur multis miseriis. Qui quasi flos agreditur et conteritur, Et fugit velut umbra, et nunquam in eodem statu permanet16.

Ne´, in verita`, a questo punto saprei decidermi sulla casualita` o meno del nome scelto da Quevedo per il destinatario della selva: Floro, appunto, che gia` nel nome porta inciso il destino di ogni uomo, quello di veder recidere la propria vita con la rapidita` del fiore non meno che dell’ombra. Tuttavia, al di la` dei passi biblici finora citati, e di qualche altro ancora che tralascio, vorrei segnalare un ultimo passo, contenuto nel secondo libro dei Re – o quarto, secondo la Vulgata –, 14 15 16

Salmo, 38, 7. Paralipomenon, 29, 15. Iob, 14, 1-2.

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PARTE QUARTA

dove si racconta l’episodio della malattia e guarigione del pio Ezechia, dove ritroviamo la nostra similitudine, ma in diretta relazione questa volta col quadrante di una meridiana. Ebbene, al malato re Ezechia che gli chiede quale sara` il segno che il Signore avra` compiuto la sua parola di guarirlo, il profeta Isaia risponde:

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Hoc erit signum a Domino, quod facturus sit Dominus sermonem, quem locutus est: Vis ut ascendat umbra decem lineis, an ut revertatur totidem gradibus? Et ait Ezechias: Facile est umbram crescere decem lineis: nec hoc volo ut fiat, sed ut revertatur retrorsum decem gradibus. Invocavit itaque Isaias propheta Dominum, et reduxit umbram per lineas, quibus iam descenderat in horologio Achaz, retrorsum decem gradibus17.

Quello appena citato e` l’unico passo della Bibbia, dove l’approssimarsi della morte e` ragguagliato ai gradi che l’ombra compie sul quadrante di una meridiana. Non escludo affatto che Quevedo avesse presente questo passo biblico che, in ogni caso, costituisce l’archetipo a cui far risalire senza alcun dubbio il concetto che ritroviamo nei versi finali della selva quevediana18. Non potendo consacrare analoga attenzione a ognuno dei restanti componimenti che formano la serie delle «poesı´as relojeras», dedichero`, allora, le mie ultime riflessioni a una questione che attraversa un po’ tutti questi componimenti, con una presenza piu` o meno accentuata. Per indicare la questione con cui intendo concludere queste note, ricorrero` a una breve citazione di Lucien Febvre, il quale nel suo gran libro su Rabelais ha fatto riferimento al «grande duello da lunga data ingaggiato tra il tempo vissuto e il tempo-misura»19. E quale migliore occasione, dunque, per perpetuare quell’antico duello, se non le poesie barocche sulle macchine cronometriche, nelle quali il tempo misurato dagli orologi e` costantemente messo a confronto con quello vissuto dagli uomini? Gli unici due versi della selva a Floro che, nel corso del precedente commento, non ho avuto occasione di menzionare sono i seguenti: 17

IV Regum, 20, 9-11. Per la tradizione classica, in relazione a umbra, si vedano le note del commento di A. Rey ai versi 9-11 del sonetto «Ven ya, miedo de fuertes y de sabios», in F. de Quevedo, Poesia moral (Polimnia), 2ª ed. rivista e ampliata, London, Tamesis, 1999, pp. 214-16. 19 L. Febvre, Le proble`me de l’incroyance au XVIe sie`cle. La religion de Rabelais, Paris, Editions Albin Michel, 1968; tr. it., Torino, Einaudi, 1978, p. 378. 18

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QUEVEDO E LE «POESI´AS RELOJERAS»

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No cuentes por sus lı´neas solamente las horas, sino lo´gralas tu mente (vv. 17-18)

dove l’esortazione si fonda sull’opposizione contar / lograr. Ebbene, dopo i numerosi fattori di assimilazione che abbiamo visto tra l’orologio e Floro, ecco finalmente qualcosa che li separa radicalmente: il rapporto che l’orologio intrattiene col tempo, non puo` che limitarsi alla sua quantificazione o misurazione, mentre e` prerogativa solo umana quella di ‘lograr el tiempo’, ossia di trarre profitto dalle ore e, cio` facendo, di infondere un senso vitale a cio` che altrimenti sarebbe solo una categoria vuota, una serie di numeri senza alcun senso. Il contrasto tra il mero conteggio delle ore e la loro vitale utilizzazione ricorre piu` di una volta nell’altra selva morale, «El metal animado», dove a proposito delle «disimuladas / advertencias sonoras repetidas» (vv. 18-19) emesse dall’orologio da suono, leggiamo: «pocas veces creı´das / muchas veces contadas» (vv. 20-21), e alcuni versi dopo, con ripresa letterale dalla precedente selva: «la [hora] que cuentas, lo´grala bien» (vv. 27-28)20. Tuttavia, il componimento dove tale opposizione arriva a svolgere un ruolo centrale, fino a costituire il motivo che struttura l’intera opera, e` la selva dedicata all’orologio di arena, «¿Que´ tienes que contar, reloj molesto», che non senza ragione Asensio giudico` «la ma´s bella de sus poesı´as relojeras»21. Nella menzionata selva, la misurazione del tempo non e` solo in contrasto col tempo vissuto, ma essa risulta del tutto inidonea a dar conto dell’esistenza umana. Il conflitto tra l’ordigno cronometrico e l’uomo difficilmente potrebbe essere presentato come maggiormente insanabile; e l’assurdo e` che l’irriducibilita` dell’antagonismo non si verifica affatto sul terreno della qualita`, bensı` sul terreno stesso della quantita`, ossia della misurazione. Reso inutile dallo stesso scopo per cui e` stato concepito e costruito, l’orologio sembra uscirne completamente sconfitto; di una sconfitta che, peraltro, finisce per essere addirittura doppia, dal momento che – come subito vedremo – esso 20

Su questo componimento, si veda il commento di Heiple, Mechanical Imagery, cit., pp. 171-74. 21 E. Asensio, Reloj de arena y amor en una poesı´a de Quevedo (fuentes italianas y derivaciones espan˜olas), in «Dicenda», VII (1988), (Arcadia. Estudios y textos dedicados a Francisco Lo´pez Estrada, a c. di A. Go´mez Moreno, J. Huerta Calvo e V. Infantes), pp. 17-32; cito da p. 26. Alcuni anni prima il maestro aveva gia` scritto: «El Reloj de arena o clepsidra es para mı´ la mejor de las cuatro composiciones que dedico´ Quevedo a los relojes, tema obsesivo, ligado en su poesı´a no a la belleza o ingeniosidad del objeto, sino al paso del tiempo y a la fragilidad del vivir» (Asensio, Un Quevedo inco´gnito, cit., p. 26).

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PARTE QUARTA

risulta inefficace due volte, vuoi quando gli tocca di misurare una durata incommensurabilmente piccola, vuoi quando si tratta di conteggiare un numero eccessivamente grande di unita`. Nel primo caso, difatti, la brevita` della vita rende, se non impossibile, almeno superflua l’attivita` dell’orologio, come illustrano i versi iniziali della selva:

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¿Que´ tienes que contar, reloj molesto, en un soplo de vida desdichada que se pasa tan presto; en un camino que es una jornada, breve y estrecha, de este al otro polo, siendo jornada que es un paso solo?22 (vv. 1-6)

versi nei quali forse s’insinua l’idea di un’identita`, se diamo fede all’interpretazione di Heiple, quando scrive che «The journey of life is “breve y estrecha” like the neck of the glass, it goes from one pole to the other as the sands pass from one bulb to another, and it is a single “paso”, just as the sands fall in one continous movement»23. Nel secondo caso, invece, e` l’enormita` delle pene d’amore di cui soffre il poeta a rendere irrealizzabile il compito dell’orologio, se sono queste e non le ore che esso si sforza di calcolare: Que, si son mis trabajos y mis penas, no alcanzara´s alla´, si capaz vaso fueses de las arenas en donde el alto mar detiene el paso (vv. 7-10)

dove l’iperbolica ipotesi di una clessidra che, pur essendo piena della sabbia dell’oceano, nondimeno sarebbe inferiore al suo compito, e` al servizio dell’amplificazione di una passione amorosa che assume, a sua volta, i connotati dell’immensita` marina24. 22 ` noto che di questa selva si conservano due redazioni, quella pubblicata in Las tres E Musas (1670) e quella che Juan Antonio Caldero´n incluse in un manoscritto datato 1611 e che ha il titolo di Segunda parte de las Flores de poetas ilustres de Espan˜a. Per i testi delle due redazioni, si veda l’edizione di Blecua, in Quevedo, Obra poe´tica, ed. cit., vol. I, pp. 270-72. Qui si fa riferimento esclusivamente alla redazione del testo a stampa. 23 Heiple, Mechanical Imagery, cit., p. 144. 24 In un lavoro inedito di Mercedes Blanco su «El reloj de arena», la cui lettura debbo alla cortesia dell’autrice, a proposito dei versi appena commentati, si legge che «El concepto por correspondencia […] consiste en la doble motivacio´n del te´rmino las arenas, sı´mbolo del nu´mero incontable de los trabajos y las penas, y descripcio´n de un referente objetivo, el reloj de arena». Piu` in generale, il senso della selva, secondo la menzionata studiosa, consisterebbe in «una reflexio´n sobre el tiempo y la condicio´n humana que podrı´amos compendiar en un oxı´moron: la vida mortal se reduce a casi nada, y, sin embargo, es un

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QUEVEDO E LE «POESI´AS RELOJERAS»

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Se, dunque, nella selva a Floro, si trattava di contrapporre al mero conteggio un piu` vitale profitto del tempo, qui e` in ballo un rifiuto ancora piu` radicale, poiche´, nel respingere l’orologio e la sua funzione giudicata – peraltro – inefficace, e` alla dimensione temporale che ci si tenta di sottrarre:

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Deja pasar las horas sin sentirlas, que no quiero medirlas (vv. 11-12).

Eppure l’orologio d’arena, rifiutato nella sua peculiare funzione di macchina misuratrice del tempo, riacquista tutto il suo valore simbolico, in considerazione dei materiali di cui esso e` fatto: sabbia e vetro, ai quali il poeta identifica il destino mortale dell’uomo e l’estrema fragilita` della vita umana, negli splendidi quattro endecasillabi con cui la selva si conclude. Bien se´ que soy aliento fugitivo; ya se´, ya temo, ya tambie´n espero que he de ser polvo, como tu, si muero, y que soy vidrio, como tu´, si vivo (vv. 33-36).

Sono versi che mi permettono di concludere, tornando in Italia, perche´ – com’e` noto – essi risuonano quasi identici in italiano, nella terzina di un sonetto che Ciro di Pers dedico` all’Orologio da polvere: Io so ben che ’l mio spirto e` fuggitivo, che saro` come tu, polve, s’io moro e che son come tu, vetro, s’io vivo25.

Versi, a proposito dei quali e` stato scritto che «la tecnica gnomico-epigrammatica della chiusura del sonetto procede verso la condensazione del pensiero, nel giro corto e laconico della stessa terzina»26. Ma, al di la` delle diverse soluzioni tecniche dettate da generi abismo de miserias, vacila entre lo infinitamente pequen˜o de su duracio´n y lo infinitamente grande de las penas que causa». 25 Cito dall’edizione di Bonito, Le parole e le ore, ed. cit., p. 81. Si veda anche C. di Pers, Poesie, a c. di M. Rak, Torino, Einaudi, 1978. 26 Bonito, L’occhio del tempo, cit., p. 138. Sulle relazioni tra Quevedo e Ciro di Pers, si veda anche M. Pinna, Influenze della lirica di Quevedo nella tematica di Ciro di Pers, in Id., Studi di letteratura spagnola. Lope de Vega, Quevedo, Rosalı´a de Castro, A. Machado, Guille´n, Ravenna, Edizioni A. Longo, 1971, pp. 73-87, e lo stesso V. Bonito, Intertestualita` barocche: Quevedo e Ciro di Pers, in «Rivista di letterature moderne e comparate», III (1992), pp. 231-44.

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PARTE QUARTA

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metrici cosı` diversi come la selva e il sonetto, una questione nei cui meandri non e` ora il caso di addentrarsi, interessa sottolineare il fatto che le «poesı´as relojeras» di Quevedo non solo ebbero ampia eco nella poesia spagnola, come ha ben documentato Asensio nella seconda parte dello studio da me citato all’inizio di queste note, ma contribuirono in maniera significativa ad alimentare le trame simboliche di cui sono intessuti i sonetti di Ciro di Pers; cosicche´ il debito contratto dalla cultura letteraria spagnola nei confronti di quella italiana, attraverso Quevedo, fu una volta ancora restituito con gli interessi maturati nella poesia dello stesso Quevedo.

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INDICE DEI NOMI

Abarca de Bolea, Pedro Pablo, conte di Aranda, 31 Acun˜a, Hernando de, 17, 203-205 e n., 206 e n., 207, 208 e n., 212, 213 e n., 214 Agamben, G., 263n. Agostini, Niccolo` degli, 20 Alamanni, Luigi, 163 e n., 164-166, 194n. Alberti, Filippo, 279 Alberti, Leon Battista, 116 e n., 157, 168, 182n. Albonico, S., 204n., 227n. Alcala´ Galiano, Jose´, 35 Alcina, J. F., 111 e n., 112n., 130n., 212n. Alcocer, Hernando de, 20 Alema´n, Mateo, 28 Alfieri, Vittorio, 32, 33, 42 Alfonso II d’Aragona, duca di Calabria, 182 e n., 183 Alfonso V il Magnanimo, re d’Aragona, 80-84 e n., 87 e n., 91, 92, 94, 99, 103, 104, 109n., 110n. Alighieri, Dante, 4, 7, 10, 11, 34, 51, 75, 161 e n., 164, 171, 197n., 256 Alighieri, Pietro, 7 Allison Peers, E., 42 Almoga´var, Gero´nima Palova de, 18 Aloisio, Giovanni, 48, 55, 80, 101 Alonso, A., 62n. Alonso, Agustı´n, 20 Alonso, D., 25 e n., 26, 41, 42, 177 e n., 178, 259 e n. Alonso Corte´s, N., 206n., 213n. Altamura, A., 82n. Alvar, C., 142n., 220n. Alvar, E., 96n. Alvar, M., 85n., 95n., 100 e n.

´ lvarez de Toledo, Fernando, 9 A Amador de los Rı´os, J., 115n. Amalteo, Girolamo, 279 Amoro´s, C., 176 Anacreonte, 159 Angeriano, Girolamo, 193 Anghiera, Pietro Martire d’, 13 Angiolillo, G., 183n. Anguillara, Orso dell’, 262 Aquilecchia, G., 185n. Aramo´n i Serra, R., 96n. Arce, J., 11n., 33, 36n., 38, 39, 41, 42, 134n., 256n. Arce de Va´zquez, M., 195n. Arellano, I., 112n., 249n., 253n., 254n., 261n., 269n., 273n., 280n., 282n. Aretino, Pietro, 21 Argensola, Lupercio Leonardo de, 251 e n. Ariani, M., 124n., 125n., 134n., 265n. Aribau, Buenaventura Carlos, 33, 35 Ariosto, Ludovico, 4, 16, 20, 31, 233n. Aris, D., 69n. Aristotele, 30 Armise´n, A., 63n. Arnaldi, G., 53n. Arque´s, R., 42 Arriaza, Juan Bautista de, 30 Arro´niz, O., 40, 41 Arze So´lorzano, 27 Arzocchi, Francesco, 115, 116 e n.-119 e n., 182n., 183 e n., 184 e n., 189 Asenjo, A., 41 Asensio, E., 41, 279 e n., 280n., 287 e n., 290 Asor Rosa, A., 51n., 83n., 94n., 149n., 158n., 163n., 164n., 224n., 225n., 249n.

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

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Aubrun, Ch. V., 104n. Avalos, Alfonso d’, marchese del Vasto, 203-205 e n., 206 e n., 207-210 e n., 211 e n., 212-215 Aza´ceta, J. M., 127 e n., 131, 132n. Azar, I., 195n., 201n. Azaustre Galiana, A., 271n. Baeza, Ricardo, 38 Balart, Federico, 36 Balbuena, Bernardo de, 20, 27 Baldacci, L., 58, 59n., 229n. Balduino, A., 53n., 262n. Bandello, Matteo, 28, 29 Barahona de Soto, Luı´s, 20 Ba` rberi Squarotti, G., 83n., 110n., 157n. Barbiellini Amidei, B., 56n. Barnes, Barnaby, 72 Bartrina, Joaquim Maria, 36 Basile, B., 61n. Basile, T., 55n. Bataillon, M., 208n. Battaglia, S., 240n. Battera, F., 116n., 118n., 119n., 183n. Bayle, Elisabeth, 72 Beccaria, Cesare, 31, 42 Beccuti, Francesco, detto il Coppetta, 229 Bellini, Giuseppe, 34 Beltrami, P., 164 e n., 169n. Bembo, Pietro, 14, 16, 18, 19, 52, 54, 56-60, 69, 72, 149, 160 e n.-162 e n., 165, 168 e n., 247 e n., 249 Benivieni, Girolamo, 113n., 116, 183 e n., 184 Berger, Ph., 90n. Bernardo di Chiaravalle, 133 Berni, Francesco, 70 Bertolini, L., 158n. Betussi, Giuseppe, 24 Biancardi, G., 118n. Bianchi, E., 124n. Bianchi, P., 90n. Black, R. G., 79n., 93 e n., 96n. Blanco, M., 259, 260n., 262n., 271 e n., 273, 274n., 276 e n., 277n., 289n. Blanco Sa´nchez, A., 235n. Blecua, A., 22 e n., 41, 112n., 113n., 138 e n., 211n., 220n., 222n., 244n. Blecua, J. M., 65n., 219n., 239n., 240n., 249n., 251n., 255n., 261 e n., 280n., 288n.

Boccaccio, Giovanni, 8, 11, 12, 29, 39, 40, 57, 86, 112n., 114 Bognolo, A., 249n. Boiardo, Matteo Maria, 20, 54, 55 e n., 56, 82, 196 e n. Bologna, C., 51n. Bonaventura da Bagnoregio (Giovanni Fidanza), 133 Bonelli, Michele, 224n. Boninsegni, Iacopo Fiorino de’, 116, 119 e n., 182 e n., 183 e n. Bonito, V., 281 e n., 289n., 290n. Bonora, E., 124n. Borgia, Giovanni Antonio, 227 Borsetto, L., 59n. Boscaini, G., 40 Bosca´n Almoga´ver, Juan de, 10, 14-19, 25, 62, 63, 66, 128, 139n., 141, 142, 147, 159, 176 Botta, Carlo, 34 Botta, P., 113n. Bottarga, Stefanello, 22 Bourbon, Nicolas, 67 Bovio, Alessandro, 169 e n. Bozzuto, Cola Maria, 82 Bragantini, R., 227n. Brambilla Ageno, F., 118n., 182n., 184n. Brioschi, F., 160n. Brocar, Arnao Guillermo de, 127 e n. Brocense, vd. Sa´nchez de las Brozas Brodey, V., 112n., 115n. Bronzini, G. B., 82n., 105 e n., 106n., 109 e n. Broschi, Carlo, detto il Farinello, 30 Brugnolo, F., 76n. Bruguera, J., 90n. Bruni, F., 124n. Bruni, Leonardo, 12 Bruno, Giordano, 73 e n. Brusantino, Vincenzo, 20 Buffardi, G., 188n. Busdrago, Vincenzo, 224n. Cadalso, Jose´ de, 31, 32 Cairasco, Bartolome´, 26 Calabro`, G., 42 Calcaterra, C., 124n., 136 Caldero´n, Juan Antonio, 288n. Caliergi, editore, 162 Calmeta, vd. Colli Camacho Guizado, E., 208n. Camerini, P., 223n.

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INDICE DEI NOMI

Camo˜es, Luı´s Vaz de, 66 e n., 67 Canal Go´mez, M., 96n. Canavaggio, J., 113n. Candelas Colodro´n, M. A., 279n., 280 e n., 281n. Cane, A., 72n. Canher, M., 90n., 92n. Cantelmo, Giovanni, conte di Popoli, 82, 96 e n., 97 e n., 100, 109 Cantu` , Cesare, 34 Can˜edo, J., 112n. Capece, Scipione, 147 Caracciolo, Giovan Francesco, 48, 55, 89, 101 Caracciolo, Giulio Cesare, 123 Caravaggi, G., 7n., 16n., 21n., 26n., 39-41, 101n., 204n., 219n. Cardona, Maria di, marchesa di Padula, 143, 144, 147, 150, 194 Carducci, Giosue`, 36, 37, 43, 157n., 162n., 169n. Cariteo, vd. Gareth Carlo III, re di Spagna, Napoli e Sicilia, 31 Carlo V, imperatore, 5, 18, 63, 144, 150, 163, 164, 208n. Carlo VIII, re di Francia, 149 Caro, Annibal, 219, 226, 227 e n., 228, 229 e n., 230, 231, 233, 234, 238, 239n., 244 Carrai, S., 47n., 53n., 56n., 81n., 115n.-117n., 119n., 181n., 182n., 184n., 196n. Carrara, E., 117n., 182n., 184n., 186n., 192n., 194n. Carriera, A., 273n. Cartagena, Alonso de, 11, 12 Carvajal, 79, 80, 83, 84 e n., 85 e n., 86 e n., 87, 94, 95, 99-102 e n., 103 e n., 105 e n., 106 e n., 107, 108 e n., 109 Cascales, Francisco, 24, 26, 41 Castelvetro, Lodovico, 24 Castiglione, Baltassar, 5, 18 e n., 19, 41, 196 e n. Castillo, Hernando del, 14, 62, 91, 142, 145, 221 Ca´tedra, P. M., 90n., 95n. Catullo, Gaio Valerio, 70, 161 Catulo, Quinto Lutazio, 230 Cefala, Costantino, 159 Cerboni Baiardi, G., 170n.



Cerda, Juan de la, duca di Medinaceli, 128 Cerro´n Puga, M. L., 223n., 224n., 235n.-237n., 240n. Cervantes, Miguel de, 4, 27-29, 248 e n., 249 Cesano, Bartolomeo, 224n. Cetina, Gutierre de, 17, 203-205 e n., 206n., 208 e n., 209 e n., 266, 267n. Chevalier, M., 41 Chiabrera, Gabriello, 31, 157, 158 e n., 162, 164 Chiodo, D., 194n., 242n. Chirilli, E., 125n. Ciceri, M., 112n., 114, 115n. Cicerone, Marco Tullio, 230 ´ lvarez de, 30 Cienfuegos, Nicasio A Ciliberto, M., 73n. Ciminelli, Serafino de’, detto l’Aquilano, 25, 48, 54, 55, 67, 70, 71 Claudiano, Claudio, 230 Claverı´a, C., 142n., 222n. Coester, A., 42 Coletta, 101 Coll i Julia`, N., 100n. Colletta, Pietro, 34 Colli, Vincenzo, detto il Calmeta, 167 e n., 168 Coloma, Juan de, 222 Colombo, Ferdinando, 127n. Colonna, Vittoria, 66, 204 Coluccia, R., 81 e n., 82 e n., 90n. Comas, A., 63n. Compagna Perrone Capano, A. M., 93n. Constable, Henry, 72 Conti, Giambattista, 31 Conti, Giusto de’, 53, 54 e n., 55, 116 e n., 118, 182n. Conti, Vincenzo, 224n. Contini, G., 47 e n., 106n., 130 e n., 136 Cooper, H., 112n., 184n. Coppetta, vd. Beccuti Cordo´n Mesa, A., 249n. Correa Caldero´n, E., 211n., 268n. Corsi, Pietro, 196 Cortada, Joan, 33 Corti, M., 47 e n., 51, 56 e n., 82 e n., 83n., 89n., 94 e n., 98n., 101n. , 109 e n., 117n., 182n., 183n., 184 e n., 185n., 186n., 189, 191n., 192n.

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Cortijo Ocan˜a, A., 244n. Costa i Llobera, Miguel, 36 Costana, 10 Costanzo, Angelo di, 169 e n. Coster, A., 240n., 241n. Cremante, C., 227n. Criscuolo, U., 194n. Cristea, S. N., 185n. Croce, Benedetto, 25, 94 e n., 98n., 227n. Crosby, J. O., 254n., 261n., 280n., 282n. Cruz, A. J., 139n., 142n., 180n., 220n. Cruz, Ramo´n de la, 30, 32 Cueva, Juan de la, 27 Cuevas, C., 239n., 241n. D’Agostino, G., 188n. D’Annunzio, Gabriele, 36-38, 43 D’Azeglio, Massimo, 34 D’Ors, Eugeni, 38 Daniel, Samuel, 72 Dante, vd. Alighieri Darbord, B., 113n., 233n. Darı´o, Rube´n, 37 Dasenbrock, R.W., 71 e n., 73n. Dati, Leonardo, 157, 168 De Blasi, N., 83n., 86, 87n., 90n., 94 e n., 109 e n., 149n. De Caprio, V., 163n. De Jennaro, Pietro Jacopo, 48, 55, 80, 82n., 89, 94, 101, 102, 183, 185n., 193 De Robertis, D., 117n., 184n., 190n. De Sena, J., 235n. Decembrio, Pier Candido, 6, 12 Dedeyan, Ch., 67n. Della Casa, Giovanni, 59, 61, 167 Desportes, Philippe, 70, 72 Devereux, Penelope, 72 Deyermond, A., 39, 40, 79n., 89 e n. Di Camillo, O., 40 Di Girolamo, C., 160n. Di Stefano, G., 86 e n. Dias, A. F., 97n. Dı´az Larios, L. F., 206n. Dı´az Plaja, G., 41 Dı´az Rengifo, Juan, 23 Dionisotti, C., 45 e n., 56n., 58 e n., 117 e n., 160 e n., 161n., 165n., 167 e n., 171, 182n., 186n., 225 e n., 229n., 247n.

Dolce, Lodovico, 224n., 225 Domenichi, Ludovico, 17, 223, 224 Donati, L., 56 Doni, Anton Francesco, 21 Donizetti, Gaetano, 34 Donne, John, 74 Drayton, Michael, 72 Du Bellay, Joaquin, 67, 68, 69 e n. Dubrow, H., 73n. Duen˜as, Juan de, 103 Dunn, P. N., 178 e n. Dutton, B., 84n., 92 e n., 93, 96n., 97 e n., 104n. Egido, A., 113n. Eisenbichler, K., 139n., 142n., 220n. Elia, P., 112n. Elwert, W. Th., 169n. Emanuele Filiberto, duca di Savoia, 174 Encina, Juan del, 14, 23, 40, 103, 112 e n., 113n. Enciso Castrillo´n, Fe´lix, 35 Enrico VIII Tudor, re d’Inghilterra e Irlanda, 70 Enrı´quez de Cabrera, Fadrique, almirante di Castiglia, 99, 127 Ercilla, Alonso de, 21 Ersparmer, F., 160n., 185n., 223n. Escalante, Amo´s di, 35 Escobar, Baltasar de, 26 Eslava, Antonio, 28 Espinosa, Nicola´s, 20 Estie` nne, Henri, 159 Farinelli, A., 38, 92 e n. Farnese, Elisabetta, 29, 30 Farnese, Pier Luigi, 227 Febrer, Andreu, 63 Febvre, L., 286 e n. Federico III d’ Aragona, principe d’Altamura poi re, 92 Federzoni, G., 168n. Fedi, R., 56, 57n., 60n., 61 e n., 223n., 225n., 226 e n. Felici, Battista, 117 Fenarolo, Ludovico, 23 Fenzi, E., 234n. Fera, V., 119n., 183n. Ferna´ndez de Moratı´n, Leandro, 31, 32 Ferna´ndez de Moratı´n, Nicola´s, 31 Ferna´ndez Morera, D. 195n., 196 e n.

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INDICE DEI NOMI

Ferna´ndez Mosquera, S., 253n., 255n., 256n., 261n., 271n. Ferna´ndez Murga, F., 40, 42 Ferna´ndez Palazuelo, Antonio, 32 Ferna´ndez Shaw, Carlos, 36 Ferna´ndez, Alonso, 9 Fernando il Cattolico, re di Castiglia e Aragona, 92 Ferrante I d’Aragona, re di Sicilia e Napoli, 80-83, 90, 98, 99, 103, 182, 186n. Ferrari, Giolito de, 60, 223 e n., 224 e n., 227, 244n. Ferrau` , G., 119n., 183n. Ferreira, Antonio de, 66, 67 Ferroni, G. 60n., 165n., 166n. Figueroa, Cristo´bal de, 27 Filangieri, Gaetano, 31 Filicaja, Vincenzo, 31 Filippo II, re di Spagna, 219 Flamini, F., 53n., 97 e n., 194n. Flores, Juan de, 12 Folengo, Teofilo, 22 Foresta, G., 36, 42 Fornasiero, S., 116 e n., 117n., 119n., 182n.-184n. Forster, L. W., 49 e n. Fracastoro, Girolamo, 24, 156n. Francesco I di Valois, re di Francia, 163, 166, 208 Franco, Niccolo`, 70 Frenk Alatorre, M., 87n., 109n. Froissart, Jean 114 Froldi, R., 41 Frugoni, Carlo Innocenzo, 31 Fucilla, J. G., 25n., 38, 40, 42, 65n., 233 e n., 239n., 243n., 262 e n., 266 e n., 267 Fuster, J., 90 e n. Gac¸ull, Mose´n, 103 Galeota, Francesco, 48, 55, 80, 85, 97-99, 102-106 e n., 107, 108, 183n. Galeota, Mario, 153, 154, 178, 179 Galiani, Ferdinando, 31 Gallagher, P., 105 e n. Gallardo, B. J., 127n. Gallego, J., 281n. Gallego, Juan Nicasio, 33, 35 Gallego Morell, A., 123n., 195n., 212n. Galli, Fiorenzo, 33, 34 Gallo, Filenio (Filippo Galli), 183 e n., 264, 265n.



Ga´lvez de Montalvo, Luı´s, 21 Garcı´a Berrio, A., 24n., 25, 41 Garcı´a Calcedo, P., 85n. Garcı´a de Enterrı´a, M. C., 249n. Garcı´a de la Concha, V., 40, 41, 154n., 176n., 178n., 220n. Garcı´a Galiano, A., 195n. Garcı´a Lo´pez, J., 248n. Garcı´a Lorca, Federico, 38 Garcilaso, vd. Vega Gareth, Benedetto, detto il Cariteo, 48, 56, 81, 101 Gargano, A., 86n., 124n., 142n., 194n., 220n., 267n. Garrido de Villena, Francisco, 20 Gaudı´, Antoni, 34 Gaurico, Pomponio, 193 Genovesi, Antonio, 31 Gentil, Bertomeu, 14 Gentile, A., 249n. Geremia, 103 Gerli, E. M., 79 e n., 85n. Geymonat, M., 169 e n. Giaccarelli, Anselmo, 224n. Gil y Carrasco, Enrique, 35 Gil Polo, Gaspar, 21 Giobbe, 285 Giovanni del Virgilio, 197 e n. Giovanni II, re di Castiglia, 7, 104, 109n. Giovenco, Gaio Vezio Aquilino, 230 Giovio, Paolo, 210n. Giraldi Cinthio, Gianbattista, 28, 29 Giudici, E., 68n. Giustinian, Leonardo, 82 Goldoni, Carlo, 32, 33, 42 Go´mez de Ciudad Real o de Guadalajara, Alvar, 10, 126-128, 130-132, 134, 142n., 220n. Go´mez, J., 113n. Go´ mez Moreno, A., 6n., 39, 86n., 287n. Go´ngora, Luı´s de, 25, 26, 41, 74, 255n. Gonzaga, Cesare, 196n. Gonzaga, Federico, duca di Mantova, 176 Gonza´les Blanco, Andre´s, 38 Gonza´lez Martı´n, V., 36, 42 Gonza´lez Olle´, F., 41 Gorni, G., 61n., 164n., 165n., 167 e n., 224 e n., 226, 227n., 244 e n. Gozzano, Guido, 76

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INDICE DEI NOMI

Gracia´n, Baltasar, 24, 25, 41, 211 e n., 268 e n., 269 e n., 270-272 e n. Grant, W. L., 112n, 196n. Grasso, Lucio, 185 Gravina, Gian Vincenzo, 30 Grayson, C., 116n., 167n. Grignani, M. A., 183n., 265n. Grilli, G., 249n. Grossi, Tommaso, 33, 34 Groto, Luigi, 266 e n., 267 Gualterio, Pierpaolo, 169 e n. Guazzelli, F., 101n. Guerrazzi, Francesco Domenico, 34 Guevara, Antonio de, 21 Guglielminetti, M., 75 e n. Guido Guinizelli, 165 Guijarro Ceballos, J., 113n. Guille´n, C., 3 e n., 17n., 38, 40, 148 e n., 158 e n., 159 Guillet, Pernette de, 67 Guzma´n, Nun˜o de, 7, 12 Haro, conte di, 95 Harris, B., 73n. Hauvette, V. H., 164n. Heiple, D. L., 143n., 194n., 210n.212n., 280 e n., 283n., 287n., 288 e n. Hempfer, K. W., 49 e n., 50n. Henrı´quez-Cabrera, Anna, contessa di Modica, 99 Herrera, Fernando de, 19, 65 e n., 67, 195n., 210n., 212n., 219, 226, 235, 236n., 238, 239n., 240, 241 e n., 243 Howard, Henry, conte di Surrey, 71 e n. Hozes, Fernando de, 17, 123, 126-130, 136-139, 142, 146, 220, 221 Huerta Calvo, J., 287n. Hughes, G., 237n. Hurtado de Mendoza, Diego, 17, 222, 244n. Iannucci, A. A., 139n., 142n., 220n. Illicino, vd. Lapini Imola, Benvenuto da, 7 Imperial, Francisco, 6, 7, 39 Infantes, V., 287n. Innocenzo VIII, papa, 186n. Iriarte, Toma´s de, 31 Isabella d’Este, 14, 167 e n. Isabella la Cattolica, regina di Castiglia, 14

Isaia, 286 Jacomuzzi, S., 229n. Jammes, R., 255n. Jauralde Pou, P., 280n. Ja´uregui, Juan de, 28, 42 Jı´me´nez, Juan Ramo´n, 38 Jones, E., 71n. Jones, R.O., 195n. Jones, S.R., 59n. Joukovsky, F., 67n., 69n. Jovellanos, Melchor de, 30-32 Kallendorf, C., 280n. Kallendorf, H., 280n. Keniston, H., 210n. Kennedy, W. J., 198n. Kerkhof, M. P. A. M., 6n., 39 Komanecky, P. M., 195n., 240n. Kossoff, D., 240n. Labandeira, A., 210n. Labe´, Louise, 67 e 68n. Lapesa, R., 9 e n., 10n., 39, 42, 62n., 123 e n., 133n., 139n., 145n., 146 e n., 158 e n., 180n., 181 e n., 195 e n., 206n., 219n. Lapini, Bernardo, detto Illicino, 128 Larcaro, Megollo, 166 Larsen, A. K., 73n. Laspe´ras, J. M., 42 Laurenti, L., 39 Laurio, Vincenzo, 151, 175 e n. Lawrance, J. N. H., 41, 112n., 113n. La´zaro Carreter, F., 154 e n., 178 e n., 179 Le Gentil, P., 103, 104n. Lecoy, F., 104n. Lemos, Conte di, 251 Leone X, papa Leone Ebreo (Yehudah Abrabanel ben Isˇhaq), 18 Leopardi, Giacomo, 33, 35, 36, 42, 75 e n., 76, 244 e n. Lewis, A. R., 79n. Librandi, R., 90n. Liburnio, Niccolo` , 186n. Lida de Malkiel, M. R., 11 e n., 39, 103n., 230 e n. Llausa´s, Jose´, 34, 35 Llull, Romeu, 90, 99, 100 e n., 101 e n. Lomas Cantoral, Jero´nimo, 219, 233236n., 238, 240

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Lo´pez Bueno, B., 150n., 206n., 208n., 209n., 239n., 267n., 280n. Lo´pez de Aguirre, 26 Lo´pez de Ayala, Pero, 11 Lo´pez de Mendoza, I´n˜igo, marchese di Santillana, 6 e n., 7-9, 12, 15, 39, 86 Lo´pez Estrada, F., 220n. Lo´pez Pinciano, Alonso, 23, 24, 27 Lo´pez Soler, Ramo´n 33 Lucena, Juan de, 7, 12 Lumdsen, A., 195n. Luza´n, Ignacio de, 30, 42 Macdonald, I., 195n. Machado, Antonio, 38 Machado, Manuel, 37 Macrı`, O., 34 e n., 35, 42, 240n. Maddison, C., 157n., 170n. Madrid, Francisco de, 9, 39, 112, 113n. Maestre Maestre, J. M., 111n. Maio, Giuniano, 185 Ma´iquez, Isidoro, 33 Malatesta, Ginevra, 151, 170, 174 Malato, E., 83n., 227n. Mandalari, M., 82n., 96n. Manero Sorolla, M. del P., 40, 62n., 219n., 225 e n., 228 e n., 243n., 256n. Manetti, Giannozzo, 12 Manuel, Joa˜o, 97 e n. Manzoni, Alessandro, 34, 35, 42 Manuzio, Aldo, 57, 229n. Maramauro, Guglielmo, 82 March, Ausias, 16, 63 Marchand, J. J., 55n. Margherita di Navarra (M. D’Angouleˆme), 68, 166 Marineo Siculo, Lucio, 13 Marino, Giovan Battista, 5, 25, 26, 42, 74, 75 Marino, N. F., 85n. Mariutti de Sa´nchez Rivero, A., 42 Marnoto, R., 66n. Marot, Cle´ment, 67 e n., 68 Ma´rquez Villanueva, F., 104n. Martelli, M., 158 e n., 165, 166 e n., 172, 173 e n. Martellotti, G., 124n. Martinengo, A., 254n., 257 e n., 266n. Martirano, Bernardino, 203 e n. Masi, G., 229n.



Massot i Muntaner, J., 90n. Mauro, A., 56n., 187n. Mazzacurati, G., 57, 58n. Medici, Lorenzo de’, detto il Magnifico, 54, 56, 113n., 115 Medina, Francisco de, 19 Medrano, Francisco de, 25 Mele, E., 200n., 206n., 210n. Mele´ndez Valde´s, Juan, 30 Mena, Juan de, 8, 39, 91, 95n. Meneghini, M., 55n. Mene´ndez Pelayo, M., 18, 22 e n., 35, 112, 155 e n., 179 e n. Mene´ndez Pidal, R., 86n., 87n., 110n. Mengaldo, P. V., 55n., 56n., 161n., 197n. Meregalli, F., 37n., 38, 43 Mesa, Cristo´bal de, 26, 27 Metastasio, Pietro (Pietro Trapassi), 29, 30, 32, 33, 42 Mila` y Fontanals, M., 33-35 Milan, G., 165n. Millis, Guillermo de, 128 e n. Minturno, vd. Sebastiano Mion, B., 40 Molas, J., 63n. Molho, M., 252n. Molza, Francesco Maria, 229, 244n. Monforte, Cola di, 89 Monsignani, Fabbrizio Antonio conte di, 30 Monteggia, Luigi, 33, 34 Montemagno, Buonaccorso da, il Giovane 264 e n. Montemayor, Jorge de, 17, 21, 27, 28, 127n. Montero, J., 239n., 241n. Moore, R., 273n. Morales, Ambrosio de, 19 Moratı´n, vd. Ferna´ndez de Moratı´n Morel Fatio, A., 142n., 222n. Morelli, G., 204 e n., 206n., 212n. Morreale, M., 18, 19n., 41, 62n., 85 e n., 87n., 113n., 138 Morros, B., 64n., 143, 152, 194n., 195n., 200n., 210n.-213n., 237n., 239n., 241 e n., 243n. Mu¨ller-Bochat, E., 42 Muratori, Ludovico Antonio, 30, 31 Muret, Marc-Antoine, 69 Mutini, C., 227n.

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Na´jera, Esteban de, 142n., 222n. Napoli Signorelli, Pietro, 31 Naselli, Alberto, detto Ganassa, 22 Navagero, Andrea, 63, 152, 154 e n., 155, 156, 178 e n. Navarrete, I., 210n., 244n., 251n. Navarro Toma´s, T., 210n. Naylor, E. W., 40 Nebrija, Antonio de, 4, 13, 130n. Nepaulsingh, C. J., 39 Neri, F., 124n., 158n. Nevares, Marta de, 29 Nigris, C. de, 95n. Obrego´n, Antonio de, 126-128, 130, 134, 139, 220 Oleza Simo´, J., 41 Oliva, C., 41 Oliva, conte di, 91 Olivares, J., 253n., 254n., 257n., 276n. Oliver, J. M., 261 e n., 270 e n. Orazio Flacco, Quinto, 25, 64, 151, 154, 155, 161, 167, 168, 174, 175, 178, 179 Orsi, Gian Giuseppe Felice, 30 Ortega, M. L., 274n. Ortega y Gasset, Jose´, 38 Pacella, G., 244n. Pacheco, Francisco, 65, 238, 240 Palau y Dulcet, A., 127n. Palencia, Alonso de, 15, 40 Pallucchini, R., 249n. Palmario, Francesco, 118 Panofsky, E., 212n. Pantani, I., 54n., 116n., 118n. Parducci, A., 42 Paredes, J., 85n., 142n., 220n. Parenti, G., 82n., 96 e n., 97n., 117n., 183n. Parini, Giuseppe, 32, 33, 42 Parker, A. A., 252n. Parrilla, C., 113n. Pascual Barea, J., 111n. Pascual, J. A., 7n., 39, 40 Pasquini, E., 158n. Pastore Stocchi, M., 52n. Pedro, connestabile di Portogallo, 6, 39 Peletier du Mans, Jacques, 68 Pellegrini, Matteo, 24, 25 Pellico, Silvio, 34

Pepe Sarno, I., 65n., 241n.-243n. Pe` rcopo, E., 56n., 94 e n., 183n. Pe´rez-Abadı´n Barro, S., 150n., 180n., 236n.-238n. Pe´rez de Ayala, Ramo´n, 37, 38 Pe´rez de Oliva, Ferna´n, 23 Pe´rez Go´mez, A., 232n. Pe´rez Pascual, I., 113n. Pe´rez Priego, M. A., 112n. Perier Juan, 129, 137n. Perin˜a´n, B., 101n., 104n. Perito, E., 99n. Perleoni, Giuliano, detto Rustico Romano, 48, 102, 182n., 183, 185n. Pers, Ciro di, 289 e n., 290 e n. Petrarca, Francesco, 8-11, 14, 16, 17, 25, 31, 32, 39, 45-48, 50, 51 e n., 52-57, 60, 62, 65-76, 85, 86, 101, 105, 106 e n., 108, 112n., 114, 118, 123, 124 e n., 125, 128-130, 132-134, 138,146 e n., 160, 161, 164, 170, 171, 185-187, 190, 211n., 212n., 220n., 222, 226, 231n., 234 e n., 238n., 244 e n., 256, 257 e n., 262, 263 e n., 264, 267 e n. Petrucci, A., 223n. Petrucci, Giovanni Antonio, conte di Policastro, 99 Philieul, Vasquin, 68 Piccioni, L., 76n. Piccus, J., 40 Pico della Mirandola, Giovanni, 57 Picone, M., 7n., 39 Pietrasanta, Plinio, 224n. Pindaro, 151, 162, 175 Pinillos, M. C., 282n. Pinna, M., 290n. Pinto, R., 237n. Pintor, F., 152n., 171n., 173 e n., 175 e n., 180 e n. Poggi, G., 211n. Pontano, Giovanni, 149, 185 Ponte, G., 117n. Porqueras Mayo, A., 41 Pozuelo Yvancos, J. M., 252n., 255n., 274n., 276 e n. Pozza, N., 165n. Pozzi, G., 249 e n., 250 e n., 253, 254n., 256 Praz, M., 3, 72 e n. Price, R. M., 280n. Prieto, A., 20, 41, 256n.

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Prince, F. T., 73n. Profeti, M. G., 252n., 255n., 261 e n., 267 e n. Properzio, Sesto, 70, 161 Prudenzio, Aurelio Clemente, 230 Pulci, Bernardo, 113n., 116, 119 e n., 183 e n. Pulci, Luca, 119 e n., 184n. Pulci, Luigi, 119 e n. Pulgar, Fernando del, 114, 115n. Quadrado, Jose´, 34, 35 Quevedo, Francisco de, 74, 240n., 247, 249 e n., 250, 253 e n., 254 e n., 257, 259-261 e n., 266 e n., 267-269 e n., 271, 273 e n., 274n., 275 e n., 276n., 279, 280n., 281, 282n., 285, 286 e n., 287n., 290 e n. Quintana, Manuel Jose´, 32, 33, 42 Quondam, A., 59 e n., 60n., 163n., 165n., 166n., 194n., 223n., 225n., 228n., 249n. Rabelais, Franc¸ois, 286 Raffaelli, P., 163n., 194n. Raimondi, E., 60n. Rainerio, Antonfrancesco, 219, 226, 227 e n., 228, 229 e n., 231-233, 236n., 238, 239, 244 e n. Rak, M., 289n. Ralphs, S., 185n. Ramajo Can˜o, A., 195n., 200n. Rambaldo, A. M., 112n. Ramı´rez Paga´n, Diego, 219, 232 e n., 233 e n., 240 Rebholz, R. A., 71n. Recio, R., 142n., 220n. Redondo, A., 16n. Reichenberger, K., 180n. Renieri da Colle, Antonio, 169 e n. Resende, Garcı´a de, 66, 91, 92 Rey, A., 249n., 282n., 286n. Reyes, J. M., 65n. Reyes Cano, R., 41, 134n. Ribera, Suero de, 103 Riccucci, M., 186n., 188n. Rico, F., 5, 6 e n., 9n., 10 e n., 12n., 13 e n., 21n., 39-41, 62n., 87n., 91 e n., 92n., 99n., 105n., 108 e n., 129 e n., 132 e n., 133n., 137 e n., 139n., 156n., 180n., 219n., 221 e n., 259 e n., 260 e n.



Ridolfi, Nicolo` , cardinale, 163, 165, 166 Rigolot, Franc¸ois, 68 e n. Rinaldi, R., 110n., 157n. Ringler, W. A., 72n. Riquer, M. de, 15n., 41, 63n., 92n., 96n. Rivers, E. L., 16n., 40, 123n., 150n., 176 e n., 178n., 180n., 195n., 206n., 210n. Robortello, Francesco, 23, 24 Roche, T. P., 73n. Rodrigues Lapa, M., 66n. Rodrı´guez Cepeda, E., 92n. Rodrı´guez del Padro´n, Juan, 97, 103, 104 Rodrı´guez-Mon˜ino, A., 91n. Rodrı´guez Pue´rtolas, J., 115n. Rodrı´guez Rubı´, Toma´s, 35 Rogers, P. P., 42 Rojas, Fernando de, 15 Roncero Lo´pez, V., 239n., 241n. Ronsard, Pierre de, 67, 69 e n., 70, 72, 158 e n. Rossi, A., 55n. Rossi, G. C., 132 e n., 142n., 220n. Rosso Gallo, M., 123n. Rota, Bernardino, 194 en. Rotterdam, Erasmo da, 9 Rousset, J., 278n. Rovere, Girolamo della, 151, 171 e n., 173, 175 Rovira, J. C., 79n., 92, 103n., 104n. Rozas, J. M., 25, 26 e n., 42 Rubio Gonza´lez, L., 233n. Rueda, Lope de, 23, 41 Ruscelli, Girolamo, 224n., 225, 228 Russell Brown, J., 73n. Russell, P. E., 39, 79n., 92 e n. Ruta, M. C., 249n. Sa´ de Miranda, Francisco de, 66 e n. Saba, Umberto, 76 e n. Sabatini, F., 81 e n. Saccone, E., 183n., 185n., 187 e n., 188 e n., 191n., 192n., 198n., 199n., 200n. Saint Gelais, Mellin de, 68 Salcedo Coronel, Jose´ Garcı´a, 26 Salvador Miguel, N., 84n., 96n., 99n., 103n. Samona`, C., 11n., 40

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

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San Luca, 104 San Matteo, 104 San Pedro, Diego de, 103 Sa´nchez Barbero, Francisco, 30, 33 Sa´nchez de Badajoz, Garci, 103, 104 Sa´nchez de las Brozas, Francisco, detto El Brocense, 123, 178 Sa´nchez de Lima, Miguel, 23 Sa´nchez Romeralo, A., 87n. Sannazaro, Jacopo, 16, 21, 27, 28, 48, 54, 56 e n., 58, 81, 101, 134, 147-149, 181, 185 e n., 186, 187 e n., 188 e n., 189, 190, 192 e n., 193, 195, 196 e n., 197 e n., 198n., 199 e n., 200, 201 e n. Sanseverino, Ferrante, principe di Salerno, 170-172, 176 Sanseverino, Violante, 153, 154, 178, 179 Sant Jordi, Jordi de, 63 Santa Fe, Pedro de, 104 Santagata, M., 47n., 48 e n., 51, 52n.-56n., 60 e n., 80 e n., 81, 83n., 90n., 97 e n., 101n., 102 e n., 105, 117n.-119n., 146n., 183n., 184n., 188n., 223n., 231n., 257 e n., 263n. Santiago Lacuesta, R., 39 Santillana, vd. Lo´pez de Mendoza Sapegno, N., 124n. Saraiva, M. de L., 66n. Sarmiento de Mendoza, Antonio, 26 Sasso, Panfilo (Sasso de’ Sassi), 70 Savin˜o´n, Antonio, 33 Saviozzo, vd. Serdini Savj Lo´pez, P., 93, 94 e n., 97n., 109n. Scala, Bartolomeo, 113n. Scaligero, Giulio Cesare, 24 Sce` ve, Maurice, 67 e n., 68 Scherillo, M., 191n. Schiesani, J., 59n. Schiff, M., 39 Schioppi, Giovanni Aurelio, 23 Schwartz, L., 249n., 253n., 254n., 261n., 269n., 273n., 280n., 282n. Scoles, E., 84n.-86n., 102n., 105n., 106n. Scott, Walter, 34 Sebastiano, Antonio, detto il Minturno, 24, 143, 147, 163 e n., 164, 166 e n. Sebillet, Thomas, 67 Sebold, R. P., 31, 42 Seden˜o, Juan de, 26

Segre, C., 42 Sempere y Guarinos, Juan, 21 Senabre, R., 241n., 243n. Seneca, Lucio Anneo, 9 Serassi, P., 174n. Serdini, Simone, detto il Saviozzo, 102, 105 Sere´s, G., 237n., 263n. Serianni, L., 90n. Sessa, Giovan Battista, 224n., 225n. Sessa, Melchior, 224n., 225n. Sforza, Ippolita Maria, duchessa di Calabria, 186n. Shakespeare, William, 74 Sidney, Philip, 72 e n., 73 Silvestre, Gregorio, 17 Siracusa, J., 39 Smith, P. J., 252n., 254n., 261n. Sobejano, G., 252n. Sola´-Sole´, J., 39 Solı´s, Dionisio, 33 Soria, 104 Sorrento, L., 265n. Soto de Rojas, Pedro, 26 Spenser, Edmund, 72, 73 e n. Spiller, M. R. G., 73n. Spinello, Francesco, 98 Spongano, R., 169n., 264n. Stazio, Publio Papinio, 280n. Stegagno Picchio, L., 66n. Stern, Ch., 114 e n. Stigliani, Tommaso, 279 Stoudemire, A., 42 Straparola, Giovan Francesco, 28 Strozzi, Giovan Battista, il Vecchio, 265 e n. Stun˜iga, Lope de, 95n. Suardi, Giovan Francesco, 118, 184n. Summonte, Pietro, 185n. Surrey, vd. Howard, Talavera, Hernando de, arcivescovo di Granada 8, 9, 39 Tamariz, Cristo´bal de, 28 Tamayo de Vargas, Toma´s, 210n. Tamburini, Pietro, 31 Tansillo, Luigi, 17, 25, 143, 147, 194 e n., 244n Tanturli, G., 116n. Tapia, Juan de, 103 e n. Tassis, Juan de, conte di Villamediana, 26

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INDICE DEI NOMI

Tasso, Bernardo, 143, 147, 150-152, 154-156 e n., 158, 166, 167, 169, 170 e n., 171 e n., 172-174 e n., 175-180, 194 e n., 241, 242 e n. Tasso, Torquato, 24-26, 28, 31, 32, 41, 42, 59, 61, 72, 74, 250 Tateo, F., 83n., 192n., 194n., 197n., 199n., 230n. Tebaldeo, vd. Tebaldi, Tebaldi, Antonio, detto il Tebaldeo, 14, 25, 48, 54, 55n., 67, 70 Telesio, Antonio, 147 Tempo, Antonio da, 23, 161 Temprano, J. C., 113n. Teocrito, 197 Ter Horst, R., 252n. Terracini, L., 19n., 41 Terry, A., 252n., 254n. Tesauro, Emanuele, 279 e n. Tibullo, Albio, 70, 161 Timoneda, Juan de, 22, 23, 28 Tiraboschi, Girolamo, 267 Tissoni Benvenuti, A., 54n. Tissoni, R., 118n. Toffanin, G., 165n. Toledo, Bernardino di, 148 Toledo, Pedro de, duca d’Alba, vicere´ di Napoli, 143, 147, 156, 210 e n. Tolomei, Claudio, 160, 169, 171, 229 Tomitano, Bernardino, 244n. Torre, Francisco de la, 25, 219, 235237 e n., 238 e n., 240n., 243n. Torres Naharro, Bartolome´ de, 6, 14, 40, 62 Torres, Jaumot, 99 Toscano, T. R., 203n. Tottel, Richard, 71 Trifone, P., 90n. Trissino, Giangiorgio, 23, 161 e n.-163 e n., 165 e n., 166-168n., 193, 194n. Trovato, P., 85n., 100n. Tuin, D., 39 Turro´, J., 99, 100n. Unamuno, Miguel de, 36, 37, 42 Ungaretti, Giuseppe, 76 e n. Urrea, Gero´nimo de, 20 Valde´s, Juan de, 19 Valera de Salamanca, Juan, 127 Valera, Diego de, 103 Valera, Juan, 35 Valla, Lorenzo, 13



Valldaura, Crespı´ de, 14 Valle Incla´n, Ramo´n del, 38 Vallone, A., 50n. Valls Taberner, F., 96n. Vaquero, N., 79n. Varchi, Benedetto, 168n., 241, 244n. Vari, V. B., 36n., 43 Va` rvaro, A., 83n., 84 e n., 87n., 94n., 95n., 109n. Vaz Ferreira, Carlos, 37 Vecce, C., 181 e n., 193n. Vecchi Galli, P., 115 e n. Vega, Garcilaso de la, 10, 15-19, 21, 25, 62-64 e n., 65, 66, 123 e n., 124-126, 128, 138, 139 e n., 141-143 e n., 144, 145 e n., 146-150, 152-155, 156n., 158, 168, 170, 175-180 e n., 182, 188, 193, 194 e n., 195 e n., 196 e n., 198, 200 e n., 203, 204, 205 e n., 206n., 210 e n., 213 e n., 222, 226, 237 e n., 238 e n., 244 e n. Vega, Lope de, 5, 21, 26-29, 42, 74 Vela, C., 58n. Velli, G., 185n., 186n., 187n., 192n. Vellutello, Alessandro, 59, 128 Vendramini, Giovanni, 204 e n. Vendrell, F., 104n. Venturi, F., 42 Vettori, Pier, 230 Vianey, J., 70 Vida, Marco Girolamo, 24 Vilanova, A., 26, 41, 42, 213n. Villaespesa, Francisco, 37 Villalo´n, Cristobal de, 18 Villalpando, Francisco de, 103 Villalpando, Juan de, 101n. Villamediana, vd. Tassis, 26 Villani, G., 83n., 185n., 186n., 187n. Villaquira´n, Juan, 127 Villari, S., 119n., 183n. Villena, Enrique de, 7, 39 Virgilio Marone, Publio, 64, 146, 187, 188, 197, 198, 200n. Visagier, Jean, 67 Visconti, Galeazzo Maria, 183n. Viterbo, Egidio da, 193 Vitetti, L., 54n. Vozmediano, Luı´s Gayta´n de, 28 Vozzo Mendia, L., 40, 84n., 85n., 95n., 96n., 100 e n. Waley, P., 195n.

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

INDICE DEI NOMI

Wyszynski, M. A., 195n. Yanguas, Fernando de, 103 Yndura´in, D., 41 Zamora Vicente, A., 237n. Zanato, T., 55n., 56n. Zancan, M., 59n. Zecchi, C., 39 Zimic, S., 195n.

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Walters, D. G., 251n., 254n., 255 e n., 261n., 276 e n., 280n. Weber, H. E. C., 69n. Weinberg, B., 161n. Whitby, W. M., 180n. Whitman, Walt, 38 Wilkins, E. H., 46 e n. Williamson, E., 170n. Wilson, M., 180n. Wyatt, Thomas, 71 e n.

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Letterature

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Collana diretta da M. Palumbo e A. Saccone, fondata da G. Mazzacurati

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34. 35.

B. Anglani, Goldoni. Il mercato, la scena, l’utopia A. Mazzarella, Il piacere e la morte. Sul primo D’Annunzio P. Voza, Coscienza e crisi: il Novecento italiano tra le due guerre A. Gareffi, La Filosofia del Manierismo A.C. Bova, La letteratura dentro di sé N. Merola, La letteratura come artificio e altri saggi di letteratura contemporanea R. Esposito, Ordine e conflitto. Machiavelli e la letteratura politica del Rinascimento italiano A. Gagliardi, La scrittura e i fantasmi. Radici de «La Coscienza di Zeno» V. Masiello, Il Mito e la Storia. Saggi su Foscolo e Verga S. Battaglia, Mitografia del personaggio A. Palermo, Letteratura e Contemporaneità M.A. Rigoni, Saggi sul pensiero leopardiano N. Machiavelli, La vita di Castruccio Castracani, edizione critica a cura di R. Brakkee, con un saggio introduttivo di P. Trovato L. Lugnani, L’infanzia felice e altri saggi su Pirandello J. Culler, P. de Man, N. Rand, Allegorie della critica, a cura di M.A. Mancini e F. Bagatti A. Saccone, L’occhio narrante. Tre studi sul primo Palazzeschi P. Larivaille, Poesia e ideologia. Letture della «Gerusalemme Liberata» E. Saccone, Conclusioni anticipate su alcuni racconti e romanzi del Novecento. Svevo, Palazzeschi, Tozzi, Gadda, Fenoglio M. Baratto, Da Ruzante a Pirandello. Scritti sul teatro L. Bolzan, L’alchimia del terrore. La Rivoluzione francese e il romanzo M. Muscariello, Le passioni della scrittura. Studio sul primo Verga G. Maffei, Ippolito Nievo e il romanzo di transizione G. Scianatico, L’ultimo Verri. Dall’Antico Regime alla Rivoluzione D.S. Di Simplicio, La nascita di un poeta. Boris Pasternak M. Orcel, Il suono dell’Infinito. Saggi sulla politica del primo Romanticismo italiano da Alfieri a Leopardi A.C. Bova, Illaudabil maraviglia. La contraddizione della natura in Giacomo Leopardi S. Battaglia, Capitoli per una storia della novellistica italiana R. Scrivano, Il modello e l’esecuzione. Studi rinascimentali e manieristici M. Palumbo, Saggi sulla prosa di Ugo Foscolo F. Pappalardo (a cura di), Scritture di sé. Autobiografismi e autobiografie A. Palermo, Il vero, il reale e l’ideale. Indagini napoletane fra Otto e Novecento S. Jossa, La fantasia e la memoria. Intertestualità ariostesche A. Saccone, Carlo Dossi. La scrittura del margine F.P. Botti, Gadda o la filologia dell’apocalisse G. Patrizi, Prose contro il romanzo. Antiromanzi e metanarrativa nel Novecento italiano

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36. 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43. 44. 45.

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46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55. 56. 57. 58. 59. 60. 61. 62. 63. 64. 65. 66. 67. 68. 69. 70. 71. 72.

K.W. Hempfer, Testi e contesti. Saggi post-ermeneutici sul Cinquecento L. Lugnani, Ella giammai m’amò. Invenzione e tradizione di Don Carlos M. Santagata, Il tramonto della luna e altri studi su Foscolo e Leopardi R. Luperini, Controtempo. Critica e letteratura fra moderno e postmoderno: proposte, polemiche e bilanci di fine secolo A. Palermo, Ottocento italiano. L’idea civile della letteratura A. Saccone, «La trincea avanzata» e «la città dei conquistatori». Futurismo e modernità C.A. Madrignani, All’origine del romanzo in Italia. Il «celebre Abate Chiari» E. Saccone, Allegoria e sospetto. Come leggere Tozzi R. Bragantini, Vie del racconto. Dal «Decameron» al «Brancaleone» Z.G. Baranski, Dante e i segni. Saggi per una storia intellettuale di Dante Alighieri G. Guglielmi, L’invenzione della letteratura. Modernismo e avanguardia M. Schillirò, Narciso in Sicilia. Lo spazio autobiografico nell’opera di Vitaliano Brancati M. Riccucci, Il neghittoso e il fier connubbio. Storia e filologia nell’Arcadia di Jacopo Sannazaro M. Muscariello, Gli inganni della scienza. Percorsi verghiani F. Curi, La poesia italiana d’avanguardia. Modi e tecniche. Con un’appendice di documenti e di testi editi e inediti P. Boyde, ‘Lo color del core’. Visione, passione e ragione in Dante A. Mauriello, Dalla novella “spicciolata” al “romanzo”. I percorsi della novellistica fiorentina nel secolo XVI V. Russo, Il Romanzo teologico. Seconda serie A. Di Grado, La lotta con l’Angelo. Gli scrittori e le fedi P.V. Mengaldo, Studi su Salvatore Di Giacomo A. Matucci, Tempo e romanzo nell’Ottocento. Manzoni e Nievo E. Ghidetti, Il poeta, la morte e la fanciulla, e altri capitoli leopardiani E. Zinato, Il vero in maschera: dialogismi galileiani. Idee e forme nelle prose scientifiche del Seicento E. Scarano, La voce dello storico. A proposito di un genere letterario G. Bertoncini, “Una bella invenzione”: Giuseppe Montani e il romanzo storico A.R. Pupino, Notizie del Reame. Accetto, Capuana, Serao, d’Annunzio, Croce, Pirandello G. Baldi, Eroi intellettuali e classi popolari nella letteratura italiana del Novecento I. Pitti, Istoria fiorentina, a cura di A. Mauriello A. Gargano, Con accordato canto. Studi sulla poesia tra Italia e Spagna nei secoli XV-XVII R. Luperini, L’autocoscienza del moderno G. Mazzacurati, Il fantasma di Yorick. Laurence Sterne e il romanzo sentimentale A. Quondam, Tre inglesi, l’Italia, il Rinascimento. Sondaggi sulla tradizione di un rapporto culturale e affettivo S. Acocella, Controluce. Effetti dell’illuminazione artificiale in Pirandello P. De Ventura, Dramma e dialogo nella “Commedia di Dante”. Il linguaggio della mimesi per un resoconto dell’aldilà F. Ferrucci, Dante. Lo stupore e l’ordine M.A. Grignani, Novecento plurale. Scrittori e lingua P.M. Forni, Parole come fatti. La metafora realizzata e altre glosse al Decameron

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73. 74. 75. 76. 77. 78. 79. 80. 81. 82.

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83. 84. 85. 86.

A. Saccone, «Qui vive/sepolto/un poeta». Pirandello Palazzeschi Ungaretti Marinetti e altri T. Accetto, Rime, a cura di A. Mauriello e R. D’Agostino P. Guaragnella, Teatri di comportamento. La «regola» e il «difforme» da Torquato Tasso a Paolo Sarpi F.P. Botti, Alle origini della modernità. Studi su Petrarca e Boccaccio E. Saccone, Ritorni. La seconda lettura A. Carbone, «L’indomabile furore». Sondaggi su Domenico Rea P. Puppa, Racconti del palcoscenico: dal Rinascimento a Gadda A. Gargano (a cura di), “Però convien ch’io canti per disdegno”. La satira in versi tra Italia e Spagna dal Medioevo al Seicento G. Lo Castro, La verità difficile. Indagini su Verga V. di Martino, Sull’acqua. Viaggi diluvi palombari sirene e altro nella poesia italiana del primo Novecento R. Girardi, Raccontare l’Altro. L’Oriente islamico nella novella italiana da Boccaccio a Bandello R. Luperini, Montale e l’allegoria moderna A. Saccone, «Tutto è degno di riso». Declinazioni del tragico nella letteratura italiana tra Ottocento e Novecento S. Acocella, Effetto Nordau. Figure della degenerazione nella letteratura italiana tra Otto e Novecento

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