Comunicare le amministrazioni. Problemi e prospettive 9788843086504

Dalla tradizione burocratica alle sfide del digitale, dagli obiettivi di trasparenza alla cultura organizzativa: il test

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Comunicare le amministrazioni. Problemi e prospettive
 9788843086504

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STUDI SUPERIORI/ 1073 SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE

A chi mi ha donato il tempo. A chi ho sottratto tempo. A Paolo e Miriam

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Carocci editore Corso Vittorio Emanuele n, 229 001 86 Roma telefono o6 42 81 84 17 fax o6 42 74 79 31 Siamo su: www.carocci.it www.facebook.com/caroccieditore www.twitter.com/caroccieditore

Letizia Materassi

Comunicare le amministrazioni Problemi e prospettive

Carocci editore

I edizione, marzo 2017 © copyright 2017 by Carocci editore S.p.A., Roma a

Impaginazione e servizi editoriali: Pagina soc. coop., Bari Finito di stampare nel marzo 2017 da Grafiche VD srl, Città di Castello (PG)

ISBN 978-88-430-8650-4 Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione,

è vietato riprodurre questo volume

anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Introduzione

9

Contesti burocratici

15

I. I. Orizzonti di cambiamento

15 18

I.

1.2. Burocrazia 1.2.1. L'organizzazione l 1.2.2. Il comportamento l 1.2.3. Il burocrate

1.3. Amministrazioni italiane

34

1.3.1. Dell'amministrazione e della politica

1.4. Tra realtà e rappresentazione 1.5. Immaginare di cambiare

45 55

2.

Cambiamenti

61

2.1. 2.2. 2.3. 2.4.

Sfere pubbliche Arrivano i media Quale cittadinanza? Territori "ibridi"

61 68 77 82

2.4.1. Il New Public Management l 2. 4.2. Lagovernance e la sussidiarietà

2.5. Presenze ineludibili 2.6. Questione di fiducia 3·

93 99

Comunicazione pubblica

105

3.1. Punti fermi 3.2. Le rotte tracciate dal legislatore 3·3· Strutture dedicate, tenute delicate

105 110 125

3·3·1. Lavoro giornalistico e pubbliche relazioni

3·4· Si fa presto a dire comunicazione 3·5· Dai ruoli alle competenze 7

133 137

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI 3.6. L'essere competenti dei comunicatori 3.6.1. C'era una volta il comunicatore pubblico... Acque digitali 3·7· 3·7· 1. Open e smart 4·

Relazioni

I4I ISI

I 59

4·!. Istituzioni under construction 4. 2. Una questione culturale 4·3· La gestione delle pubbliche relazioni

I 59 164 17 0

4·3·1. Soddisfatti e ascoltati 4·4· Travolti dalla social wave

179

4·4·1. Versanti inesplorati 4·5· Corpi intermedi

188



Orizzonti

193

s.I. Comunicatori "su misurà' s. 2. I frame della comunicazione pubblica 5.2.1. Maratoneti e scattisti: i due "respiri" 5·3· Dalla "gabbia d'acciaio" alla "casa di vetro" 5·4· Livelli di guardia 5·5· L'oceano della conoscenza s.6. Al "timone" della comunicazione Bibliografia

193 200 207 210 221 224 227

8

Introduzione

La comunicazione è dappertutto. Ma la comunicazione pubblica sten­ ta ad esistere: riassumiamo così, con un linguaggio strumentalmente iperbolico, l'origine di questo lavoro, ossia la volontà di approfondire e chiarire quello che, a prima vista, appare un evidente controsenso. Un paradosso, una stravaganza tutta italiana, una sciagura. Da un lato, infatti, la comunicazione è una delle risorse più ambite e ricercate in ogni sfera di vita o settore produttivo: non c 'è azienda, associazione, raggruppamento - per non parlare del livello soggettivo e interpersonale - che non si ponga oggi la domanda di come comuni­ care la propria identità, i propri prodotti o servizi, le proprie finalità, le proprie relazioni. È un bisogno dilagante, imperante, per tal uni una ve­ ra e propria ossessione, come se di comunicazione non si fosse mai sazi. Anche sgombrando il campo da tutti i malintesi e le distorsioni che si sono accumulati nel tempo intorno al termine, andando oltre gli aspetti più effimeri, "pubblicitari" e persuasivi che nel senso comune la comunicazione ha assunto, sembra ovunque pressante l'esigenza di mettere in circolo informazioni, dati, condividere suggestioni, emozio­ ni, opinioni, immagini. Anche le istituzioni pubbliche non si sottraggono a tale richiamo, soprattutto da quando hanno intrapreso la via del cambiamento : da più di venticinque anni, di strada ne hanno percorsa, ma il tentativo tuttora perseguito e frequentemente richiamato è quello di diventare più "colloquiali", "partecipate", "accessibili': "trasparenti': "inclusive" e "condivise". E come non trovarsi d'accordo sul valore intrinseco di una termi­ nologia così promettente, che qualifica un'azione amministrativa invi­ tante e accattivante ? Come non applaudire una Pubblica Amministra­ zione (PA) nella quale il cittadino è coproduttore di servizi, portatore di bisogni, capacità e interessi intorno ai quali si muovono le scelte di governo ? 9

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI

Ma tutto questo comporta dei costi, perché la comunicazione è, sì, risorsa, ma anche dilemma. È opinione largamente condivisa che l' informazione, la conoscen­ za, la relazionalità siano dimensioni imprescindibili e da coltivare per: superare la "pigrizià' o il senso di distanza degli amministrati; gestire, non subire, i processi di innovazione anche tecnologica; adeguare gli assetti organizzativi della PA alle esigenze della modernità; costruire un sistema di governo maggiormente inclusivo e, soprattutto, meritevole di fiducia. Ed è partendo da questa centralità, oramai largamente riconosciu­ ta, che svilupperemo le nostre riflessioni, chiedendoci quali "investi­ menti" accorrano ad una PA in movimento, approdati oggi ad una fase in cui di comunicazione pubblica non si parla più tanto, mentre di "atti comunicativi" ve ne sono fin troppi. La comunicazione pubblica, nata come disciplina e ambito di at­ tività in anni in cui tutto era da costruire, in cui non vi erano prassi consolidate né di comunicazione nella PA, né di comunicazione della PA, si presentava come un viaggio avventuroso da intraprendere. Come si presenta oggi la situazione ? A che punto del percorso ci troviamo ? E che fine hanno fatto quei "comunicatori pubblici" che ra­ ramente si sente nominare, in amministrazioni nelle quali altre etichet­ te e definizioni si stanno rapidamente facendo largo ? Queste sono le domande da cui è nato il presente contributo, con l'obiettivo di fornire un inquadramento ampio e dinamico della comu­ nicazione pubblica, un ambito di attività che oggi a fatica si riconduce ad un insieme strutturato e armonico di attività, saperi, funzioni o ad una professionalità specifica; un ambito "spezzettato" (Rolando, 20I4), una "risorsa ubiquà' (Solito, 20I4), ma anche un "problema da gestire" (Solito, 20IO), che rischia, oggi più di ieri, di "rincorrere la vetrina" (Faccioli, 20I6), il palcoscenico, il maquillage (Bechelloni, 2002), e dunque di pervenire a rischiose e problematiche incomprensioni. Dunque, quello che ci apprestiamo a compiere è un viaggio in mare aperto: l' imbarcazione sulla quale stiamo per salire è proprio quella della comunicazione pubblica e istituzionale, che salperà dalle sponde più consolidate della tradizione burocratica italiana. Ne parleremo nel capitolo I, cercando di raccontare il porto dal quale prende avvio la nave della comunicazione pubblica. Fuor di meta­ fora, ci occuperemo del background burocratico e culturale, il contesto istituzionale e sociale che nutre il lavoro pubblico e l'organizzazione IO

INTRODUZIONE delle odierne amministrazioni. Una ricostruzione parziale, certo, ma funzionale ad un inquadramento necessario delle odierne trasforma­ zioni della comunicazione pubblica e del "comunicatore pubblico", legato ad un'appartenenza, non sempre gloriosa, alla categoria dei "bu­ rocrati" italiani. Sebbene ispirato da un'evoluzione storica, almeno nella mente di chi scrive, questo primo capitolo non seguirà un ordine rigorosamente cronologico degli eventi dall' Unità d' Italia fino ai giorni nostri, ma servirà a tratteggiare quei caratteri che permeano il fenomeno burocra­ tico e che, a nostro avviso, aiutano a comprendere le cifre distintive del contesto italiano, che spesso vengono date per scontate nella letteratu­ ra di riferimento, ma con le quali i professionisti della comunicazione pubblica si trovano a fare i conti nel quotidiano. Non è un caso, a no­ stro avviso e non soltanto ( La Spina, 2007 ) , che la materia sia spesso trattata senza uno sguardo comparativo con altri paesi; non che altrove non vi siano esperienze significative di comunicazione pubblica, anzi, ma è difficile poter realizzare parallelismi tra condizioni attuative del rapporto tra cittadini e istituzioni tanto diverse; il caso italiano sembra fortemente influenzato dagli assetti tradizionali, dalle logiche ammi­ nistrative che appaiono, oggi come ieri, tanto difficili da riformare. Si riscontra perfino una sintomatica problematicità di traduzione dell'e­ tichetta "comunicazione pubblicà: ad esempio, in lingua inglese, e c 'è da chiedersi se davvero esistano casi dove questa materia abbia il mede­ simo significato che le attribuiamo qui. Ma non tutto dipende da quanto, nel tempo, è avvenuto entro i perimetri delle amministrazioni, perché su queste insistono processi e forze di cambiamento che provengono da altri ambiti e contesti. Nel capitolo 2, quindi, guardiamo oltre i confini istituzionali, alle caratte­ ristiche della sfera pubblica - o delle sfere pubbliche, come spieghere­ mo -, ai cambiamenti nella cittadinanza, ali' interno di un rapporto complesso e spesso controverso tra pubblico e privato, ai "territori" maggiormente ibridi nei quali si svolge da qualche tempo l'azione amministrativa. L'ampliamento dei confini ci servirà a spiegare quegli "spazi di manovrà' che si aprono alla vista dei comunicatori, ma anche i venti e le maree che, se non compresi, potrebbero rovinosamente ab­ battersi sull' imbarcazione; al contrario, si tratta di orientare le vele per coglierne la spinta propulsiva, l'opportunità, l'incentivo. Entreremo nel vivo della materia nel capitolo 3, tutto dedicato alla comunicazione pubblica, ai suoi percorsi storici, normativi e ai suoi II

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI aspetti strutturali. In chi da anni si occupa di questo argomento, co­ me oggetto di studio, di ricerca o di lavoro che sia, è presente la vaga sensazione che la comunicazione pubblica dagli anni Novanta in poi non sia stata completamente compresa e metabolizzata e che in ogni contributo si avverta l'esigenza di fornirne una qualche definizione. Lo faremo anche qui, cercando di chiarire a quale tipo di comunicazione pubblica ci vogliamo riferire e di coniugare le specificità della disciplina con le competenze richieste ai comunicatori. La sensazione di indefinitezza è oltretutto amplificata dall'emerge­ re di forme e professionalità "appariscenti" in usanza oggi, che si pro­ muovono affermandosi come "il nuovo che avanzà', quando in realtà numerosi sono i contatti, le parentele e le sovrapposizioni con quel "vecchio" che stenta a decollare. Tra smart cities e cittadinanza digita­ le, tra social media manager e storyteller, tra branding pubblico e Italia 4.0, nuove sfide, nuovi modi di agire e di "fare" sembrano schiudersi davanti ad una PA in movimento. Tuttavia, né inclini ad innalzare muri o steccati, ma nemmeno propensi a considerare le varie proposte ed esigenze comunicative tra loro alternative e mutuamente esclusive, ci chiediamo se tutto questo proliferare di "comunicazioni" non possa, o non debba, trovare raccordo, coordinamento e convergenza in una strategia comunicativa più ampia, capace di conciliare e integrare le esperienze pregresse con le promettenti novità. Pertanto, dopo una prima parte del testo maggiormente analitica e descrittiva di quei processi che hanno condotto all'attuale stato del­ la comunicazione pubblica italiana, dedichiamo la seconda parte ad aspetti maggiormente interlocutori. Si tratta di nessi e considerazioni che avanziamo a seguito di un percorso di ricerca nelle amministra­ zioni locali, ancor più stimolato dalla conoscenza di comunicatori e comunicatrici che, nelle diverse realtà amministrative, continuano a porsi domande e a vivere la professione con un fruttuoso spirito cri­ tico. Affronteremo le acque "mosse" e "agitate" della modernità, nella certezza che questi anni non sono trascorsi invano e che molto, nel­ le strutture di comunicazione, è stato fatto per irrobustire il proprio "equipaggiamento". Ne parleremo più approfonditamente nel capitolo 4, dove al centro dell'analisi situiamo la "relazionalità" delle ammini­ strazioni. Qui tratteremo di alcuni aspetti della pratica professionale, degli strumenti necessari per la costruzione di una "buona relaziona­ lita: ma anche di alcuni comportamenti che si rintracciano a livello I2

INTRODUZIONE empirico che sembrano derivare da una lettura talvolta restrittiva della materia in oggetto. Incuriositi dagli scenari che potrebbero aprirsi, cercheremo di pre­ figurare gli orizzonti. Quella linea immaginaria (o delimitazione ap­ parente) - così è definito l'orizzonte - ci porterà a ipotizzare ciò che potrebbe profilarsi in un prossimo futuro. La comunicazione pubblica, si sa e lo ribadiamo, non ha una meta, nel senso che non ha "un" punto di arrivo, verso il quale stiamo andando. Ma non è nemmeno un agire istintivo che non produce risultato. Allora, cercheremo di individuare quali terre e quali altri approdi potremmo immaginare, grazie ad una comunicazione che sappia ac­ compagnare, con una certa elasticità, l'evolversi dei bisogni, interni ed esterni alla PA, e che continui a scoprire le proprie specificità e le po­ tenzialità inesplorate. Ci rivolgeremo, in modo particolare, alla forza trainante dei "timo­ nieri" di questa imbarcazione, perché non abdichino al ruolo di guida della comunicazione pubblica e sappiano affrontare, dotati dei mezzi appropriati, quei rischi che il mare può sempre riservare. Il volume è pensato per gli studenti universitari, per il personale amministrativo e le figure politiche che si trovano oggi immersi, come studiosi, professionisti, eletti o semplici cittadini che interloquiscono con la PA, in un contesto ad elevata frenesia comunicativa; il testo si rivolge a quanti, nei diversi anfratti istituzionali, hanno oggi a che fare con le attività di comunicazione pubblica, ma ai quali spesso manca il prezioso tempo del "pensamento". La velocizzazione, assunta a parametro di valutazione anche dei comunicatori e della comunicazione, schiaccia dannatamente sul pre­ sente e sull' immediatezza l'attività di chi lavora quotidianamente nelle strutture di comunicazione, negli uffici stampa o negli uffici relazioni con il pubblico o, ancora, nel variegato mondo dei front office dove spesso viene meno l'occasione di riflettere sul senso del proprio agire. Abbiamo anche per questo ritenuto opportuno e urgente fissare l'attenzione sulle questioni che riteniamo più importanti all' interno della comunicazione pubblica: il passato e il presente, e anche gli scena­ ri futuri. Ma non essendo dotati del dono della profezia, possiamo sola­ mente servirei degli studi effettuati, della letteratura sul tema e di alcuni dati di ricerca per provare a raccogliere indizi, tracce che ci rendano più chiari tali scenari. Così, tra problemi e prospettive, cercheremo di chiarire cosa possa significare oggi comunicare le amministrazioni. I3

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI C 'è poi un viaggio nel viaggio, ovvero quello personale di chi scrive, "figlia illegittima" della legge 7 giugno 2000, n. 150, Disciplina delle attivita di in­ formazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni, e da I7 anni salita a bordo della comunicazione pubblica, che ho cercato di esplorare con crescente interesse e curiosità. Ma un libro è un viaggio che non si compie mai da soli. Per cui ringrazio gli "armatori" di questa personale imbarcazione : Laura Solito e Carlo Sorren­ tino, senza i quali la nave non sarebbe stata varata, né il viaggio sarebbe par­ tito; Silvia Pezzoli, per i suoi suggerimenti, i consigli e i confronti stimolanti. Ringrazio poi i "comunicatori pubblici" che da anni incontro nei luoghi istituzionali e nelle aule di formazione : è pensando a tutti loro, alle obiezioni più frequenti, agli esempi raccontati, alle richieste rivolte o ai problemi con­ fidati, che ho sviluppato l'idea di questo libro ed è nella loro quotidianità che lo immagino inserito. Un grazie alla mia famiglia e agli amici più cari che, nelle acque tumul­ tuose degli ultimi tempi, hanno remato con me, amando, insieme a me, questa avventura.

14

I

Contesti burocratici

1. 1 Orizzonti di cambiamento

Ci sono parole che ricorrono nei dibattiti e nelle produzioni scientifi­ che relativi alla Pubblica Amministrazione (PA) che, negli ultimi anni, forse per una dilatazione semantica subita, per un uso frequente o un abuso improprio, sono state caricate di significati e referenti empirici largamente eterogenei, talvolta perfino contraddittori. Il fatto è che oggi, utilizzandole, quelle stesse parole danno l' im­ pressione di non avere più il potere evocativo che le caratterizzava e, svuotandosi di senso, hanno perso fascino e valore. Una di queste è "cambiamento". Auspicato e ricercato, invocato e perseguito, questo termine nel vasto campo delle Pubbliche Ammi­ nistrazioni (P PAA) è stato spesso accompagnato da rafforzativi che di volta in volta ne hanno esaltato alcuni aspetti definitori, sottolineando­ ne la promettente progettualità: ammodernamento, trasformazione, innovazione, riforma, mutamento, fino ad arrivare agli istituti di sem­ plificazione e velocizzazione che da tempo immemore sono visti come il motore di una PA che cambia. Una terminologia orientata al futuro, volta a sottolineare il carattere di novità, più atteso che fattivamente realizzato, del sistema istituzionale italiano, ora dei suoi apparati, ora dei suoi processi e delle sue attività. Una visione dinamica per designare tuttavia una natura organizzativa tendenzialmente statica e inerziale ( De Leonardis, 200 1 ) , un sistema pubblico tradizionalmente chiuso, autoreferenziale, finalizzato, più che alla ricerca di soluzioni per le sol­ lecitazioni interne ed esterne alle amministrazioni, al mantenimento di una rassicurante continuità rispetto al passato. Tuttavia, se questa è un' interpretazione di massima del frequente impiego del termine "cambiamento" nella descrizione dei tumultuosi IS

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI tentativi di riorganizzazione del sistema pubblico, che richiama una situazione nuova e desiderabile, occorre anche evidenziare che parlare di cambiamento della PA non è mai obsoleto e trova senso nel dover rispondere a interessi collettivi in costante ridefinizione, di cui l'azione amministrativa peraltro deve farsi interprete. Ma questo non significa riferirsi a qualcosa di intrinsecamente po­ sitivo o auspicabile. Cambiare non sempre è sinonimo di migliorare e quasi mai comporta l'abbandono delle strade già sperimentate o del­ le esperienze accumulate, ma porta a considerare il passato sotto una luce nuova. Cambiare come rivedere, rielaborare, ridefinire partendo da prassi consolidate, amalgamandosi ad esse nel modo più armonico possibile: la riforma deli' amministrazione non è un evento bensì un processo più o me­ no lento di cambiamento, durante il quale le novità introdotte dalle leggi di riforma devono integrarsi in un tessuto amministrativo già esistente, dando luogo ad una convivenza di vecchio e nuovo. E naturalmente questo complica la valutazione circa l' incidenza del cambiamento (Arena, 2006, p. 15).

Così considerato il concetto di riforma dell'amministrazione ha finito con sovrapporsi e confondersi con quello di PA, tant'è che la storia delle amministrazioni italiane può essere letta come un succedersi di tenta­ tivi di riforma, talvolta falliti, altre volte portatori effettivi di novità1 (Sepe, 1996). Occorre quindi affacciarsi con necessaria cautela ai processi di cam­ biamento della PA, considerando che questi abbracciano contempora­ neamente: una dimensione diacronica, per cui è necessaria la lettura degli eventi di riforma di oggi nel loro svolgersi, ispirati dalle eredità del passato e orientati al futuro, senza l'urgenza né la tentazione di vedere un termine o la realizzazione imminente di un fine; una dimensione spaziale, per cui su ciò che accade nel più piccolo ombelico delle am­ ministrazioni italiane insistono forze e sollecitazioni che trovano una spiegazione negli scenari europei e globali, che contribuiscono a ridefi­ nire i rapporti tra centri e periferie, tra nazionale e locale2; e, infine, una I. A tale proposito si ricorda e si rimanda alla legge 7 agosto 2015, n. I 24, Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazionipubbliche, meglio co­ nosciuta come "Legge Madia di riforma della PA'. 2. Cfr. a tale proposito la riflessione di Sepe: http:/ /www3 .unisi.it/ammin/att_ speciali/Sepe2.pdf (consultato il I o febbraio 20I7).

I. CONTESTI BUROCRATICI dimensione intersoggettiva, insita nella natura delle istituzioni quali « artefatti umani » (Bertolo, 2005, p. I 27 ), spazi di discorsività in cui le persone agiscono e interagiscono, dando vita e senso all'organizzazione ( Weick, I995). In quest'ultima dimensione di forte soggettività, nella quale le risorse umane - come avremo modo di illustrare abbondantemen­ te - rappresentano la risorsa chiave, il cambiamento è inevitabile e le­ gato alla mutevolezza delle biografie individuali, nel più remoto degli uffici pubblici, così come nei più alti ranghi dell'amministrazione e della politica. Perché la storia del cambiamento della PA, a I56 anni dalla sua nascita3, porta il nome di chi le leggi di riforma le ha volute e firmate - Giannini, Cassese, Bassanini, Brunetta, Madia -, come di chi, giorno dopo giorno, ne ridefinisce con la propria azione i confini e ne determina l'efficacia: dirigenti, funzionari, amministratori, così come i singoli operatori di sportello, coloro che fungono da raccordo tra amministrazione e utenza, rappresentando le istituzioni attraverso il delicato compito di "erogare le politiche" e fornire i servizi. Scriveva Crozier (I963, trad. it. p. 208) che « nessuna organizzazione moderna, qualunque sia la sua natura, può sfuggire alla necessità del mutamento; essa è costantemente costretta ad adattarsi alle trasformazioni dell' am­ biente circostante e alle trasformazioni meno visibili, ma egualmente profonde del suo personale » . Dunque quello che c i apprestiamo a compiere nel testo è un assem­ blaggio ragionato di quei "tasselli di cambiamento" che definiscono gli scenari della comunicazione pubblica in Italia: un lavoro di selezione, forse "disonesto" per il "saccheggio" compiuto da più discipline - so­ ciologia, scienza della politica, studi organizzativi, scienza dell'ammi­ nistrazione, sociologia dei processi culturali e comunicativi -, di quei contributi che ci occorrono per ricostruire un panorama complesso e sfaccettato della vita istituzionale del nostro paese, dei percorsi della comunicazione pubblica passati e presenti per poi giungere, in ultima analisi, ai territori che si possono schiudere al di là di questa linea im­ maginaria, come si è soliti definire l'orizzonte. Occorre dunque pre­ cisare che l' intento di questo primo capitolo non consiste nel fornire una definizione specifica dei contesti burocratici, quanto nel mostrare 3· L'amministrazione italiana venne costituita nel 1 861 a seguito dell'unificazio­ ne politica del paese e, anche se si attinse a risorse già esistenti nel periodo preunitario, si prende questa come data di costituzione (Melis, 1996).

I7

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI i tratti salienti di quell'humus istituzionale nel quale andrà a collocarsi lo sviluppo della comunicazione pubblica. Il contesto burocratico lo possiamo qui considerare, proseguendo la metafora introduttiva, come il porto dal quale salpa la nave della comunicazione, luogo rassicurante, di acque ferme, al quale si può avere la tentazione di tornare quando le correnti del mare aperto e i venti si fanno più forti e minacciosi; ma an­ che luogo nel quale si è attrezzata e preparata l' imbarcazione, così come sponda che ha suggerito di intraprendere il viaggio e ha fatto maturare il desiderio, o forse il bisogno, di partire. 1.2 Burocrazia

Molti sono gli approcci che in campo organizzativo possono essere im­ piegati per conoscere le amministrazioni moderne e la maggior parte di questi considera come punto centrale il concetto di "burocrazia". Non esiste una definizione chiara e unanime del termine, entrato in uso nel XVIII secolo, quando con questo si è iniziato ad indicare il corpo dei funzionari della PA (Mele 2009) . Letteralmente sta per "potere degli uffici" (dal francese bureau, "uffi­ cio': e dal greco kratos, "potere"), ma in letteratura si rintracciano diversi significati di "burocrazià'4, tra cui selezioniamo qui quelli che possono tornare utili ad un generico inquadramento del contesto istituzionale. Il primo di questi è strettamente legato alla sua origine semantica e ai suoi impieghi iniziali, per cui la burocrazia è un sistema di governo in cui predominano i funzionari, nominati, non eletti, come puntualizza Crozier (I963); in tale prospettiva si pone l'accento sul ruolo chiave ri­ vestito dagli impiegati pubblici, che da un lato determinano il buon an­ damento dell'organizzazione, dall'altro godono di una discrezionalità che potrebbe rivelarsi particolarmente rischiosa e "invadente': dunque da evitare. Si tratta così di arginarla imponendo ai funzionari il rispetto di norme giuridiche. Il termine "burocratico" è così impiegato per de­ lineare la supremazia della legge in un « governo senza partecipazione del cittadino» (ivi, trad. it. p. s). Dunque, chiarisce Page (I 9 8s) non ,

4· Cfr., ad esempio, i significati forniti da Page (1985) in sede introduttiva del te­ sto oppure la rassegna a cura di Ferraresi e Spreafìco (1975) che, seppur datata, fornisce un inquadramento del termine da più prospettive.

I8

I. CONTESTI BUROCRATICI dobbiamo intendere le burocrazie come forme di dominio in cui eser­ citano il potere i pubblici impiegati, bensì un sistema in cui il governo è esercitato "per mezzo di" uno staff amministrativo burocratico. Il secondo significato sottolinea la peculiare forma di conduzione di un procedimento, l' iter che la pratica segue, nel rispetto di regole generali. Questa è l'accezione che spesso prevale anche nel linguaggio comune, ad esempio quando ci si riferisce ad una richiesta che viene trattata in maniera burocratica, ossia nel rispetto di procedure stan­ dard, di rituali prestabiliti e definiti da norma, sui quali il richiedente non potrà in alcun modo intervenire. Ciò rimanda alla componente razionale del trattamento burocratico, che si impone al soggetto come un imperativo a cui egli si deve conformare, senza possibilità di sot­ trarsi, né di apportare cambiamento. E se da un lato ciò può limitare quella discrezionalità del singolo funzionario nel trattare una specifica richiesta, a cui abbiamo già accennato, e dare dunque la sensazione di minore libertà d'azione, dall'altro è fonte di certezza, tanto del per­ sonale addetto - che saprà in ogni circostanza "chi fa cosa': perché e nel rispetto di quale norma - quanto del richiedente, che non subirà trattamenti impari rispetto ad altri portatori di bisogni analoghi. Il terzo significato è quello che potremmo dire più ambiguo, in quanto richiama un'accezione idealizzata di organizzazione efficiente e auspicabile - la proverbiale efficienza burocratica che trova proprio nella razionalità dell'azione la sua forza legittimante -, oppure l'esat­ to suo contrario: burocrazia come sistema immobile, inefficiente, nel quale si osservano pedissequamente norme e procedure superflue che arriveranno ad inibire ogni tentativo di cambiamento. In quest'ottica, sebbene la burocrazia sia intrinsecamente legata alla società, è malvista da essa, per cui si cerca di farne a meno, « di aggirarla, di surrogarla, di sostituirla » ( Cassese, Franchini, I994, p. I9 ) . Deriva da quest'ultima interpretazione un'accezione maggiormen­ te negativa che negli ultimi decenni ha prevalso e che è stata a sua volta collegata a ulteriori inefficienze, più o meno direttamente riconduci­ bili al settore pubblico, quali la lentezza degli iter, la complicazione delle procedure, gli sprechi, la difesa dei privilegi acquisiti dal persona­ le dipendente, l'eccessiva intromissione dello Stato nelle sfere private dell' individuo, fino ad arrivare alle logiche clientelari e alla corruzione delle amministrazioni. Se i primi due usi del termine hanno contraddistinto nelle scienze sociali una prospettiva storica, sociologica e politologica, l'aspetto diI9

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI sfunzionale - direbbe Merton ( I949 ) - della burocrazia e i suoi tratti patologici hanno invece dettato un impiego maggiormente organizza­ tivista e consentito lo sviluppo di una teoria del fenomeno burocratico nella sociologia delle organizzazioni. È così che il problema della buro­ crazia ha trovato spazio nelle teorie sociali moderne e non è confinabile in una ristretta branca specialistica di una sola disciplina, ma appartiene agli scienziati sociali, così come ai funzionari statali, ai politici come alla gente comune (Albrow, I970 ) . In ogni caso il dibattito scientifico è stato prolifico, ma non privo di contraddizioni; la sfera burocratica appare come una zona di incer­ tezza davanti alla quale ogni autore che si trovi a confrontarsi con le istituzioni moderne ha cercato a suo modo di fare i conti. Ed appa­ re evidente come la mancanza di un approccio di studio e di ricerca transdisciplinare, capace cioè di alimentare una lettura poliprospettica del fenomeno burocratico, rappresenti un ulteriore elemento di inde­ finitezza e di fragilità. Per gli obiettivi che ci proponiamo di raggiungere, ovvero per orientarci nel complesso mondo delle istituzioni pubbliche così come oggi le vediamo e poter leggere quei percorsi di cambiamento dentro e fuori la PA, di cui anche la comunicazione pubblica è figlia, prenderemo le mosse da alcuni dei contributi chiave sulle "burocrazie" moderne, soffermando l'attenzione su alcuni tratti salienti. Definiremo rispettivamente l'organizzazione burocratica, il com­ portamento burocratico e l'attore burocratico ( burocrate ) quali di­ mensioni costitutive del fenomeno burocratico, cercando di ricondur­ re a questi tre ambiti le questioni che riteniamo centrali. Lo sguardo, sebbene supportato dal dibattito scientifico interna­ zionale, si focalizzerà sul contesto italiano e sulla particolare decli­ nazione che qui ha assunto questo modello di amministrazione. Un modello che, nonostante i numerosi cambiamenti intercorsi dalla sua prima formulazione, risulta tuttora presente nella cultura organizza­ tiva delle nostre amministrazioni e continua a persistere nelle rappre­ sentazioni ricorrenti del lavoro pubblico, con evidenti contraddizioni rispetto ai più recenti paradigmi organizzativi che sembrano assumere le moderne burocrazie. Per tale ragione risulta particolarmente interes­ sante leggere prima i pilastri fondanti dell'organizzazione burocratica alla luce dell'attualità e vedere quali e quanti elementi di continuità si possono rintracciare negli attuali assetti politico-istituzionali, seppur 20

I. CONTESTI BUROCRATICI in un contesto di profondo e costante mutamento che ne ridefinisce significati e prospettive. 1.2.1. L'ORGANIZZAZIONE

Non c 'è testo divulgativo, saggio o contributo scientifico che trattando di burocrazia non citi Max Weber, che ha largamente contribuito alla definizione di un modello organizzativo di tipo burocratico e alla pre­ figurazione di un' immagine di "burocrate puro". Già in passato il tema aveva interessato pensatori, politici e filosofi, ma dobbiamo a Weber una sua trattazione esaustiva e soprattutto la costruzione di un vero e proprio paradigma burocratico (Borgonovi, Fattore, Longo, 20I3 ) , ed è per questo che nelle prossime pagine ci rifaremo più volte al suo pensiero. Weber elabora la sua visione idealtipica nei primi anni del Nove­ cento: la burocrazia è per l'autore tedesco espressione di quel potere legales su cui si fonda lo Stato moderno. Il modello burocratico trae la sua validità dalla razionalità dell' azio­ ne, nello specifico contesto spazio-temporale ove maturano le riflessio­ ni del sociologo tedesco, un momento storico difficile nel quale il tema della razionalizzazione aveva lo scopo di circoscrivere l' incertezza del mondo, rendendolo dominabile: la razionalità forniva le regole per le complesse interazioni che avvenivano nei mercati economici (Albrow, I970 ) , nel progressivo affermarsi della società capitalista, ma allo stesso tempo poneva dei vincoli che potevano portare l' individuo a perdere il controllo sulla propria esistenza e a suscitare in lui la sensazione di essere in una "gabbia d'acciaio". Questa è una delle numerose metafore suscitate dalla razionalità e, in particolare, dalla burocrazia che, come vedremo, continua ancor oggi a reificare l' immagine organizzativa. Ol­ tre a tale rappresentazione si rintraccia in Weber ( I922 ) anche quella della "macchinà: soprattutto per spiegare il funzionamento di un'or­ ganizzazione burocratica: esso « deve essere calcolato razionalmente entro norme generali precise nello stesso modo in cui si calcola la pre­ stazione prevedibile di una macchina » (ivi, trad. it. p. 688). Analoga­ mente alle sensazioni generate dalla struttura della gabbia d'acciaio, an­ che in questa seconda immagine l'individuo può maturare sentimenti S· Weber (1922), nell'opera postuma Economia e societa, individua tre forme di potere : carismatico, tradizionale e, appunto, legale.

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COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI contrastanti: un certo senso di rassicurante senso di appartenenza, in quanto facente parte di un'enorme macchina, così come mancanza di una piena realizzazione, in quanto mero ingranaggio del sistema. Nella definizione weberiana di burocrazia si rintracciano alcuni pi­ lastri concettuali, che poi trovano riscontro nell'organizzazione pratica del lavoro pubblico e che possiamo sintetizzare come segue ( Blau, I956 ) : un sistema di norme universali, scritte, ispirate ai principi di diritto che disciplinano il funzionamento dell'organizzazione; la specializzazione funzionale, ovvero la chiara e stabile suddivi­ sione dei compiti e dei poteri di ufficio basata sul possesso di compe­ tenze specialistiche del personale dedicato, che garantirà prestazioni standardizzate. Ciò si ricollega ad un'altra caratteristica dei burocrati, la cosiddetta "competenza disciplinata': con la quale si intende l'affida­ mento di compiti e mansioni a ciascun ufficio e le attribuzioni formali spettanti a ciascun ruolo; il principio gerarchico, cioè l'organizzazione "piramidale" degli uffici, secondo una rigida strutturazione di sovra e subordinazione nella esecuzione dei compiti, con poteri di controllo e di direzione. La gerarchia attiene sia all'autorità dall'alto verso il basso della piramide, sia alla comunicazione dal basso verso l'alto. Da tale principio deriva la cosiddetta "fedeltà d'ufficio", ovvero il dovere di obbedienza a chi rive­ ste ruoli superiori al proprio, indipendentemente dalle caratteristiche personali di chi li ricopre; il principio di reclutamento, che consiste nell'accesso per il posses­ so di qualità e capacità - oggi diremmo di "competenze" - accertate in maniera oggettiva, mediante concorso pubblico. L' ingresso in una burocrazia prevede l' inquadramento del dipendente in un determinato "livello" organizzativo, in base al quale egli riceverà dali' amministrazio­ ne - non dagli utenti o clienti - un compenso economico; la separazione del soggetto dai mezzi materiali di cui dispone n eli' ambito del proprio lavoro. Ciò significa che i dipendenti hanno in dotazione determinati strumenti, dei quali devono avere cura, ma senza appropriarsene. È importante sottolineare che il dipendente, così come non è proprietario dei mezzi che gli occorrono, è "addetto" alle mansioni stabilite, cioè non è "proprietario" della postazione di lavo­ ro che occupa. La separazione tra vita privata e vita professionale del dipendente ricorre anche quando si parla di segreto d'ufficio : ciò che attiene alle pratiche di ufficio non può essere divulgato dal dipendente, né può essere da lui utilizzato per fini o interessi personali. 22

I. CONTESTI BUROCRATICI Ciò che contraddistingue un'organizzazione burocratica è la sua superiorità tecnica su ogni altra forma organizzativa: precisione, rapi­ dità, univocità, pubblicità degli atti, continuità, discrezione, coesione, rigida subordinazione, riduzione dei contrasti, spese oggettive e perso­ nali sono gli attributi evidenziati da Weber. Ovviamente il modello da lui descritto in Economia e societa (We­ ber, I922) è ben più ampio e articolato di quello che appare dal prece­ dente elenco e molti sono gli aspetti omessi. Tuttavia bisogna sottoli­ neare ancora due problematiche affrontate dall'autore che sono state lungamente dibattute da gran parte della letteratura postweberiana, i cui "frutti" giungono fino ai giorni nostri. Il primo interessa, indi­ rettamente, anche il nostro particolare oggetto di studio e riguarda il rapporto tra amministrazione e politica. Il potere burocratico ha la particolarità di essere "acefalo" (Bonazzi, 2002), ovvero non ha dentro di sé quelle direttive politiche che guida­ no le scelte dell'organizzazione, bensì esso dipende dal potere politico. Questo configura un'amministrazione al servizio del potere politico, dal quale riceve atti di indirizzo per la propria azione: l' interpretazione più frequente di tale dicotomia è quella che prevede una distinzione tra chi produce politica e chi la realizza, anche se tale rapporto non si deve considerare di subordinazione della prima rispetto al secondo, ma esclusivamente di separazione. Infatti, abbiamo rintracciato due mo­ tivazioni principali, secondo le quali la distanza delle sfere non deve essere letta come rapporto di sovra o subordinazione. La prima, che riprenderemo anche a proposito degli attuali scenari istituzionali, attiene ai "tempi" organizzativi: i funzionari - ovvero i massimi responsabili dell'organizzazione burocratica - restano nell'or­ ganizzazione anche quando i capi politici cambiano; per questo, po­ tremmo dire, rappresentano la memoria, la certezza dell'amministra­ zione, ne conoscono le logiche e gli aspetti culturali che muovono i comportamenti e le relazioni interne, perché da più tempo e per più tempo "abitano" quei luoghi. La seconda questione riguarda invece lo status assunto dai fun­ zionari: pensarli al servizio del potere politico non significa definirli come semplici esecutori delle decisioni prese altrove. Nel momento operativo, ossia nel "fare" dell'amministrazione, il funzionario può esercitare un enorme potere: egli filtra le informazioni, detta al poli­ tico le condizioni - tempi, costi, risorse ecc. - di fattibilità delle sue politiche, fino ad arrivare a degenerazioni burocratiche che lo stesso 23

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI Weber ( I 9 22, trad. i t. vol. n, p. 305) riteneva possibili: « un parlamento male informato e perciò impotente è naturalmente gradito alla buro­ crazia, nella misura in cui quella ignoranza sia compatibile con i suoi propri interessi » . Non mancano tuttavia le preoccupazioni circa la possibilità che la burocrazia diventi o "servà' o "padronà' della politica: « nel primo caso verrebbe meno il principio delle garanzie universalistiche verso i cittadini, mentre nel secondo, ad essere soffocata sarebbe la capacità dei leader politici di esercitare con l'auspicata autorevolezza e la necessaria innovatività il governo della nazione » (Segatori, 2007, p. 37 ) . Senza dubbio, il rapporto tra politico e burocrate risulta ancor oggi particolarmente complesso : ciascuno ha bisogno dell'altro, perché da un lato il burocrate necessita di indirizzo alle sue azioni, ma d'altronde anche il politico necessita di informazioni e di conoscenza dell' organiz­ zazione per attuare il suo programma. La questione è stata lungamente dibattuta e non è scevra di ambiguità, anche perché la distinzione delle due sfere - politica e amministrativa -, prevista dal modello idealti­ pico, difficilmente trova riscontro empirico ( Page, I 98s ) , soprattutto quando non si riconosce l'esercizio di un qualche potere, tanto negli atti di produzione che di esecuzione delle policies. Scrive Rolando ( 2ooi, p. sso ) al riguardo : nei Paesi anglosassoni i politologi e gli studiosi di public choice sono soliti dire che nessuno, più del burocrate, "fa politica senza dirlo, [ ... ] . Vige, infatti, l'opinione che gli apparati burocratici tengano in ostaggio l'uomo di governo, il quale per difendersi finisce per circondarsi di persone fidate, normalmente esterne alle amministrazioni, tentando nel contempo di creare con le dirigen­ ze amministrative un rapporto di "fidelizzazione, politica.

Nel prosieguo del testo vedremo come, nello specifico contesto buro­ cratico italiano, la complessità di tale rapporto abbia chiamato in causa più volte il legislatore, anche perché caratterizzato da un particolare rapporto di "scambio" messo in evidenza, in modo lucido e un po' bru­ tale, da Cassese ( I994, pp. I 6-7 ) : D a un lato, la burocrazia ha accettato un "basso profilo, ed una scarsa vi­ sibilità esterna. Vi è un tipo di burocrate "yes, minister, all'italiana. Ma, a differenza del modello inglese, l'amministrazione italiana ha anche accettato una diminuzione del proprio ruolo. Invece di amministrare il paese, ha finito per amministrare se stessa.

I. CONTESTI BUROCRATICI I governi, a loro volta, anche per la loro instabilità, hanno accettato di in­ terferire poco con la carriera dei burocrati, rinunciando ad una vera e propria direzione dell'amministrazione e ricorrendo, quando possibile, ad organismi parastatali. I partiti, a loro volta, si sono accontentati di una sorta di lealtà generale, non specifica, di alcune figure chiave della burocrazia, rinunciando ad inter­ ferire nella vita quotidiana dell'amministrazione. Questo "scambio" tra burocrazia, governi e partiti è reso possibile dalla collusione di fondo tra i tre protagonisti, tutti interessati a minimizzare i con­ flitti e a massimizzare i propri interessi. [ . . . ] Dallo "scambio" tutti guadagnano qualcosa, a danno del Tesoro.

Veniamo quindi all'altra questione affrontata da Weber così come da numerosi altri studiosi, che caratterizza ogni organizzazione e dunque anche quella di tipo burocratico, ossia il "processo decisionale". Ricorda a tale riguardo Simon (I947, trad. it. p. 44): « il processo del "decidere" permea l' intero fenomeno amministrativo altrettanto quanto il "fare': l'operare » , dal momento che decisioni corrette (poli­ tica) necessitano di un'azione efficiente (amministrazione ) . Non dobbiamo tuttavia immaginare la responsabilità del "decidere" affidata solamente a chi riveste un ruolo più alto nella piramide; come precisa Lipsky (I98o ) , ad esempio, anche coloro che ricoprono i ruoli più bassi della gerarchia amministrativa - che egli chiama « street level bureaucrats » - rivestono un ruolo chiave nelle burocrazie, in quanto anelli di congiunzione tra organizzazione e cittadinanza: attraverso l'e­ rogazione di servizi e di informazioni, essi decideranno le forme che as­ sume la politica esercitando così un potere dapolicy maker. Ma sul tema torneremo, anche perché la dinamica relazionale va ad intaccare l'intero sistema organizzativo delle PPAA; è, dunque, necessario che sia letta alla luce degli assetti normativa-istituzionali che si rintracciano nei differen­ ti paesi. Per questo ci soffermeremo sulla complessità di tale rapporto e sulle "soluzioni" introdotte nell'ordinamento italiano, soprattutto a partire dagli anni Novanta del Novecento, con una serie di provvedi­ menti normativi dedicati che sono andati ad influenzare ogni livello amministrativo, comprese le strutture di comunicazione e di relazione. 1.2.2. IL COMPORTAMENTO

Viste le caratteristiche di un modello burocratico, proviamo ora a in­ dividuare gli aspetti costitutivi del comportamento burocratico. Ci 25

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI rifacciamo a due distinte visioni che nella letteratura per lo più socio­ logica e organizzativa trovano ampia trattazione, ma che possiamo qui ricondurre sinteticamente ai due contributi fondamentali che le hanno ispirate. Da un lato, parliamo di "comportamento" nella sua visione idealtipica, come sinonimo di "azione sociale dotata di senso': come definita da Weber, l'autore che ne dà una prima sistematica definizione. Dali'altra ci rifacciamo all'evoluzione delle teorie comportamentiste e, in modo particolare, al ruolo chiave assegnato al "comportamento am­ ministrativo" (administrative behaviour) da Herbert Simon. Entrambi i punti di vista, sebbene rielaborati, rivisitati e arricchiti da numerosi studiosi negli anni successivi, saranno qui impiegati come premesse epistemologiche utili per comprendere le condizioni in cui nasce l'a­ zione e, quindi, i processi di decisione nelle PPAA . Come abbiamo già visto, il contributo di We ber alla comprensione delle burocrazie moderne, nonostante abbia perso parte della sua effi­ cacia descrittiva degli assetti attuali o attualmente auspicabili poiché le­ gato ad un contesto storico ben definito e perché proposto dall'autore come modello tipico-ideale ( Balducci, 2009 ) , risulta tuttavia permeare ancor oggi la cultura della PA. Se questo è vero per le caratteristiche or­ ganizzative sopra trattate, è vero anche per quelle diverse declinazioni che Weber dà ali'agire sociale. In particolare egli distingue - in maniera netta solo per scopi analitici - tra: un'azione razionale rispetto allo scopo: il soggetto agisce sulla base di ciò che egli ritiene funzionale al raggiungimento degli obiettivi pre­ fissati, dunque in maniera calcolata, ponderando costi e benefici della sua azione, senza farsi condizionare da quanto gli suggerirebbero even­ tuali impulsi affettivi o emotivi; un'azione razionale rispetto al valore: il soggetto si lascia in tal ca­ so guidare dalle proprie credenze valoriali - religiose, etiche, culturali ecc. - che riterrà razionali non tanto nella misura in cui gli consenti­ ranno di raggiungere determinati scopi, quanto per la stessa coerenza e il livello di attaccamento al valore perseguito e testimoniato mediante l'azione; un agire affettivo: il soggetto agisce per soddisfare un bisogno emotivo, per assecondare un impulso e dunque sarà guidato dal pro­ prio stato d'animo. Sebbene si configuri come un'azione irrazionale, il soggetto potrà comunque, in seguito, prevedere una giustificazione razionale della propria azione sociale; un agire sulla base della tradizione: potremmo dire che il soggetto

I. CONTESTI BUROCRATICI agisce per abitudine, per l'acquisizione di routine comportamentali, ossia azioni dettate da « un'oscura reazione a stimoli abitudinari » (Weber, I922, trad. it. vol. I, p. 22) . La burocratizzazione «è il mezzo specifico per trasformare un "agire di comunità'' in un "agire sociale" ordinato razionalmente » (ivi, trad. i t. vol. IV, p. 8 7) e ciò rende l'apparato infrangibile, uno strumen­ to, per dirla con le parole dell'autore, di potenza di primissimo ordine. La forza della burocrazia è l'agire assolutamente prevedibile, per­ ché, in linea di principio, tutti gli attori del sistema burocratico sanno come comportarsi e sanno prevedere come si comporteranno gli altri, dal momento che tutti rispondono allo stesso corpus normativa e sono orientati al raggiungimento di scopi condivisi. Anzi, quanto più cia­ scun dipendente svolgerà i compiti assegnati, nel modo stabilito, tanto più egli sarà in grado di combinarsi e coordinarsi con gli altri colleghi e renderà razionale, rispetto allo scopo, l'agire complessivo (Weber, I922) . È l' impersonalità insita nel modello weberiano ad assicurare l' im­ parzialità del comportamento amministrativo: lo svolgimento di atti­ vità normativamente disciplinate, secondo procedure prestabilite tali da garantire un trattamento uguale a tutti i soggetti che si trovano nella medesima situazione, ovvero quello di ricevere prestazioni calcolabili e prevedibili (Bifulco, 2002; Sennett, 200 6) . Dunque l'efficienza bu­ rocratica necessita di un comportamento routinario e lo svolgimento di funzioni fisse e statiche, non legate alle specificità individuali, né esposte al mutamento nel tempo. Ora, come abbiamo detto, quello di Weber è un modello ideale, per cui la sua efficacia non deriva tanto dalla riscontrabilità empiri­ ca, quanto dalla forza descrittiva di quelle "regolarità" strutturali che ricorrono nelle organizzazioni moderne, in base alle quali sarà possi­ bile attendersi comportamenti simili (Ferrante, Zan, I99 8 ) . I limiti del modello proposto - messi in luce dalle revisioni successive di autori quali Thomas Merton, Alvin Gouldner, Ph ilip Selznick per la prospet­ tiva funzionalista, Crozier e Simon per quella strategica - sembrano affiorare quando si sposta lo sguardo dall'analisi dell'organizzazione in sé agli attori che ne fanno parte; ci potremmo infatti chiedere cosa avvenga in coloro che eseguono pedissequamente le procedure e quali siano le caratteristiche professionali degli addetti in un contesto legale­ razionale. Allora ci verrebbe in aiuto la riflessione di Merton ( I949 ) , l'autore che per primo mette in risalto i "rischi" di un comportamen27

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI to eccessivamente "ritualistà', tipico di chi ricopre ruoli strettamente esecutivi: il conformarsi eccessivamente alla norma, la « devozione ai regolamenti » (ivi, trad. it. p. I82 ) , porta ad un impegno finalizzato alla espletazione pedante e puntigliosa delle procedure, al prevalere di tecnicismi e della pignoleria dei funzionari. Il rispetto dei regolamenti e delle norme tende a diventare un va­ lore in sé, anziché uno strumento per il raggiungimento di fini e mete flessibili: « la disciplina, intesa quale conformità ai regolamenti, indi­ pendentemente dal genere di situazioni concrete, non è più vista co­ me misura destinata a scopi specifici, ma diventa un valore di primaria importanza nel sistema di vita del burocrate. Questo rilievo eccessivo [ ... ] si sviluppa successivamente in rigidità e incapacità di rapido adat­ tamento» (ibid. ) . Potremmo dunque affermare che il comportamento burocratico diviene disfunzionale quando rimane insensibile alle trasformazioni, fuori e dentro le organizzazioni, per cui si arriva a premiare quei com­ portamenti adattivi, eccessivamente conservativi e ritualisti, refrattari al cambiamento. Merton, mutuando un concetto di Veblen ( I 924 ) , parla più speci­ ficamente di « incapacità addestrata » , intendendo l'inibizione delle capacità riflessive di valutare, modificare, progettare azioni che sap­ piano interpretare i mutamenti ambientali. Una mancata duttilità che trasforma un punto di forza del comportamento burocratico - ovvero le competenze professionali collaudate del funzionario - in una diffi­ coltà o addirittura un ostacolo alla efficienza burocratica. D'altronde al burocrate è chiesto di trattare in maniera impersonale i desideri dell'u­ tenza, evitando i rischi di favoritismi, servilismi, nepotismi, anche a costo di assumere un atteggiamento di arrogante superiorità (ibid. ) . Queste riflessioni, aperte da Merton e poi proseguite da autori qua­ li Reinhard Bendix, Selznick, Peter Blau, Gouldner e altri, ci suggeri­ scono una singolare visione di quell'apparato pubblico burocratizzato, nel quale i comportamenti tendono ad assumere un carattere difensivo e di chiusura verso l'ambiente esterno, dal quale invece provengono le maggiori sollecitazioni al cambiamento; così, anziché opportunità, tali sollecitazioni finiscono per rappresentare fattori di rischio e di perico­ losa instabilità. Ci sembra di poter dire che nel modello burocratico risulta ina­ deguato, rispetto alle esigenze delle modernità, lo sviluppo di quello che Giddens ( I990 ) definisce "riflessività''. Spieghiamo meglio. Nelle

I. CONTESTI BUROCRATICI organizzazioni tradizionali ci si rivolge al passato, alle routine consoli­ date, come fonti di integrazione e giustificazione delle proprie azioni, per cui la riflessività non è altro che l' interpretazione del presente alla luce delle esperienze già vissute. Adottando tale ottica ne deriva che i comportamenti organizzativi vengono legittimati dalla continuità con la tradizione, dalla conformità con il "già fatto': dalla rassicurante per­ sistenza di prassi consolidate. Se vige la regole che "si fa così, perché si è sempre fatto così': tutto quello che esula dalla consuetudine è ritenuto minaccioso e destabilizzante. Ma Giddens ricorda che nella modernità la riflessività consiste in tutte quelle pratiche sociali attraverso le quali il soggetto esamina, rielabora e riformula il passato alla luce del nuovo. Nessun sapere è acquisito una volta per tutte e le capacità sono oggetto di una costante revisione, così come di un costante lavoro riflessivo di attribuzione di significato. Tale dinamismo, imposto dalla modernità in quanto suo aspetto costitutivo, mal si concilia con comportamenti rigidi e con paradigmi orientati alla certezza, piuttosto che al dubbio; comportamenti mossi in difesa della tradizione, piuttosto che dalla tensione verso il nuovo. Le nostre considerazioni vanno riallacciate a quell'aspetto chiave del comportamento amministrativo che abbiamo già accennato sopra, ovvero il processo decisionale. Lo intendiamo qui non tanto come eser­ cizio di autorità o di potere, in virtù del ruolo rivestito dal decisore, ma come attività amministrativa, l'azione del decidere nel quotidiano per­ ché momento integrante del "fare" amministrativo da parte di coloro che operano ali' interno degli apparati burocratici. Infatti, nel momento in cui le decisioni non derivano esclusiva­ mente da un testo normativa, né dalla forza legittimante del passato, è necessario prendere in considerazione il comportamento dei soggetti che riproducono le burocrazie. Un invito a comprendere non solo gli aspetti formali e strutturali di un'organizzazione, ma anche le sogget­ tività coinvolte. L'eredità di Weber trova sviluppi successivi nei contributi di Che­ ster Barnard e poi di Herbert Simon, la cui indicazione condivisa è che per conoscere le organizzazioni burocratiche si debba partire proprio dalle persone che vi lavorano, anziché dalle strutture gerarchiche e for­ mali di cui si compongono. Siamo a cavallo tra gli anni Venti e Trenta e una serie di studi con­ dotti da psicologi e sociologi sul ruolo del fattore umano nelle orga­ nizzazioni statunitensi porterà alla nascita della scuola delle Relazioni

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI Umane. Si iniziano a vedere le istituzioni come sistemi cooperativi per il raggiungimento di obiettivi prestabiliti, nei quali intervengono le relazioni interpersonali, l'armonia e il morale del gruppo di lavoro, il dialogo e la comprensione reciproca (Bonazzi, 200 2) . Simon ( I 947 ) , i n particolare, prende come oggetto d i analisi i l processo decisiona­ le nelle organizzazioni e arriva ad affermare che ogni decisione viene presa in base a criteri di "razionalità limitata", essendo impossibile una razionalità assoluta, non tanto per una scarsa motivazione o capacità individuale, quanto per i limiti intrinseci all'azione umana e alla im­ prevedibilità delle conseguenze delle azioni svolte. Il contributo dello studioso tende così a sovvertire l'ordine di priorità con cui si guarda alle burocrazie, partendo più che dagli aspetti strutturali - ruoli, orga­ nigramma, mansioni ecc. - dai comportamenti reali ed effettivi degli individui che vi operano, che prendono continuamente decisioni, ma talvolta con criteri opposti rispetto a quelli suggeriti dalla pura razio­ nalità. L' invito, dunque, è di capire le burocrazie attraverso unità di ana­ lisi più piccole e sottili, attraverso i comportamenti dei soggetti che ne fanno parte, ovvero gli attori burocratici. 1.2.3. IL BUROCRATE

L'attore protagonista del sistema appena descritto è il "burocrate': ov­ vero il funzionario di professione, l' impiegato pubblico che lavora ai diversi livelli della PA. Nel prosieguo del discorso impiegheremo eti­ chette terminologiche diverse, ma con sinonimia: parleremo ora di bu­ rocrate o di "burocrate puro': alla stregua di Weber, di attore burocra­ tico, funzionario, amministrativo, impiegato pubblico o dipendente, convinti che nonostante le differenze etimologiche e semantiche tutti questi termini rimandino ad un medesimo status professionale ed evo­ chino nella mente dei lettori immagini e rappresentazioni più o meno simili, sulle quali torneremo in chiusura del capitolo. Il "burocrate puro" del modello weberiano si caratterizza innan­ zitutto per una preparazione specifica, tecnica, una conoscenza su­ periore: è principalmente questo aspetto che fa della burocrazia un potere basato sul sapere, che va a incidere nelle stesse modalità di accesso, non più basate sull'arbitrio, bensì su meccanismi oggettivi di "certificazione". Ciò sembra rispondere non solo a esigenze di in­ cremento della conoscenza, ma anche, molto più prosaicamente, di 30

I. CONTESTI BUROCRATICI affermazione del controllo degli stessi burocrati sui processi di sele­ zione professionale ali' interno della macchina burocratica ( Cavallo, 2.oo s ) .

Il burocrate è dunque depositario di un sapere specialistico già al momento di ingresso nell'amministrazione, che poi egli affina grazie ad una lunga e costante formazione sul campo, perché la conoscenza tecnica non gli garantisce di per sé il potere necessario. Per questo mo­ tivo la sua carriera è strettamente connessa alla esperienza maturata, alla "fedeltà" all'ufficio e si sviluppa lungo tutto l'arco della vita attiva; la progressione di carriera è per meriti e per anzianità di servizio. Il funzionario appartiene ad una categoria professionale, che potremmo considerare anche sociale, dal momento che riguarda non soltanto il suo modo di svolgere la professione, ma si estende ad uno specifico "stile di vita": comportamenti, aspettative, attitudini e abitudini che dali' ambito strettamente lavorativo si estendono ad altre sfere di vita quotidiana del burocrate. Per tale ragione si può parlare di un vero e proprio "ceto burocratico': una casta capace di autoalimentarsi, fino a diventare quasi impenetrabile dall'esterno, se non mediante quei per­ corsi di "accesso" al ruolo professionale stabiliti per legge. Vige infatti il segreto d'ufficio, la segretezza di tutto ciò che appartiene ali'esercizio del proprio ruolo che non deve essere reso di dominio pubblico, bensì protetto dalla conoscenza esterna. Come avremo modo di approfon­ dire, si rintraccia fin da qui uno dei tratti caratterizzanti più solidi del burocrate, che permeerà la storia del lavoro pubblico, fino ai giorni no­ stri: la logica del segreto, la chiusura autoreferenziale verso l'esterno, la non pubblicità dell'azione burocratica e il possesso di informazioni specifiche da parte dei funzionari come strumenti di potere verso chi non possiede tali informazioni e che mal si concilia con le esigenze di trasparenza, partecipazione, pubblicità dell'azione amministrativa nelle moderne democrazie. O!tre al senso di appartenenza al ceto burocratico, l' identificazione più forte del burocrate è senza dubbio con il ruolo ricoperto: non a caso si parlava in passato di "incarnare" il ruolo, per indicare una immede­ simazione totalizzante e personale con la professione svolta e con l' in­ carico affidato. Nell'esercizio dei propri compiti, il ruolo assegnato, lo spirito di corpo e il rispetto delle norme possono divenire una fonte di rassicurazione per il funzionario, ma anche un forte strumento difen­ sivo nei confronti del! ' ambiente esterno e delle sollecitazioni da esso provenienti che sembrano minare le certezze acquisite. « Nel feticistico 3I

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI rispetto della norma il burocrate trova un antidoto alla propria insicu­ rezza, alla costante paura di sbagliare » e « alle proteste dei cittadini la spontanea reazione del burocrate è quella del trinceramento dietro l'obbligo del rispetto delle leggi, è l'arroccamento difensivo » (Girotti, 2007, p. 48). Sempre riprendendo il modello weberiano, il burocrate ammini­ stra l'ufficio sine ira et studio, "senza collera e predilezione': cioè senza farsi guidare dalle passioni, né dalla parzialità, come invece avviene per l'uomo politico: egli antepone gli ordini impartiti dai superiori, anche contro le proprie convinzioni, stretto tra ciò che la legge impone e ciò che gli ordini gerarchici richiedono. Un' impostazione evidentemente basata sul modello militare, in particolare sull'esempio prussiano che Weber prende come ideale da raggiungere. Certo, è evidente, una simile organizzazione del lavoro amministrativo può portare ad una perdita di motivazione, quasi ad una disumanizzazione della professione, e lo stesso Weber ne era consapevole tanto che, come abbiamo detto, parla di un soggetto che si trova ad operare in una "gabbia d'acciaio". Ma ciò che limita la sua libertà d'azione è allo stesso tempo punto di forza di quello che, in ogni caso, rappresenta uno strumento di potere organiz­ zato razionalmente. Tra gli studiosi che osservano le organizzazioni pubbliche proprio a partire dagli attori che ne fanno parte citiamo Michel Crozier. Il suo contributo è per noi particolarmente importante nel momento in cui egli definisce il potere, che ciascun attore sarà portato personalmente a raggiungere, come la "posta in gioco" di ciascuna azione organizza­ tiva. Un potere che, tuttavia, non risiede tanto nella forza coercitiva dell'attore, bensì nelle informazioni che egli possiede in via esclusiva. Pertanto, ciò che ciascun burocrate sa può divenire fonte di insicurezza per gli altri, ma gli consente di accrescere il suo potere e di arroccarsi su questo. Questo aspetto, dicevamo, è particolarmente radicato nella cultura pubblica, ma il suo superamento, verso l'accessibilità e la frui­ bilità delle informazioni, costituisce uno dei punti nodali delle esigenze riformiste degli ultimi anni. Molto è stato scritto sulla evoluzione della figura del burocrate nel tempo, e inevitabilmente ci troveremmo a fare i conti con le specifiche vicende storiche e politiche dei paesi in cui ci imbattiamo, dunque con l'evoluzione nello spazio dell'attore burocratico. Per i nostri scopi di­ chiarati, guardiamo al caso italiano e qui vi rintracciamo una biografia, relativamente recente, segnata, più che da fasi di netto superamento dei 32

I. CONTESTI BUROCRATICI primi modelli tracciati, da una compresenza di fattori tradizionali e di accelerazioni in chiave moderna. D'altronde c 'è da chiedersi se il funzionario italiano abbia mai, nella realtà, assunto le vesti del "burocrate puro", non solo perché la distanza tra riscontro empirico e modello idealtipico è inevitabile, ma anche perché ben diverse sono state le condizioni contestuali dello Sta­ to italiano rispetto a quello tedesco. Certo, alcuni tratti condivisi sono possibili. Secondo Demarchi (I969, pp. 3 62-3), studioso che ha dedicato grande attenzione al tema soprattutto nel contesto italiano, sono rin­ tracciabili almeno sei elementi unificanti che tratteggiano non solo la personalità del burocrate, ma anche gli aspetti più viziati della sua ap­ partenenza al ceto burocratico: 1. la formazione giuridica di provenien­ za; 2. la critica verso il funzionamento dell'amministrazione, piuttosto che l'orgoglio di farne parte; 3 . la convinzione di avere contatti positivi con la cittadinanza; 4. l' idealizzazione dell'etica del ruolo ricoperto, ovvero la dirittura morale, l' indipendenza, la responsabilizzazione; s. la fiducia nella legge, anche se bilanciata dall'esigenza di una sua appli­ cazione flessibile; 6. l'esaltazione difensiva delle proprie abilità e atti­ tudini comunicative. Questi fattori sono la principale fonte del senso di appartenenza del singolo al ceto burocratico, fattori di coesione e autonomia, ma an­ che di possibile isolamento rispetto alle domande - o alle proteste - del cittadino o dell'opinione pubblica o alle forme di controllo degli orga­ ni superiori. In aggiunta alle considerazioni di Demarchi, possiamo dire che il senso di appartenenza non sempre ha coinciso con un orgoglio di farne parte: il burocrate in Italia non ha mai trovato posto in una élite ammi­ nistrativa: si tratta di un ceto medio, tradizionalmente sottopagato ri­ spetto, ad esempio, ai colleghi di altri paesi confinanti, scontento, criti­ co nei confronti tanto del potere politico quanto della società civile. Per questo l'amministrazione italiana è stata anche definita « senza testa » (Cassese, Franchini, I994, p. I4), ponendo l'accento sulla mancanza di una classe elitaria, una sorta di piramide senza vertice, nella quale i ten­ tativi per far sì che nascesse un'alta burocrazia dai primi del Novecento a oggi sono sempre stati minati dall' interno e falliti. Ne è derivata una categoria professionale o di scontenti - che tuttavia permangono legati al ruolo - o di coloro che si accontentano, ma che non ha mai giocato le più importanti partite di riforma della PA . 33

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI 1.3 Amministrazioni italiane

Fin qui abbiamo definito le organizzazioni burocratiche avvalendoci di descrizioni idealtipiche, dunque rintracciando quegli elementi di ricorrenza utili a definire un "modello" organizzativo, senza tuttavia considerare le specificità situazionali che il medesimo può riscontrare empiricamente. Ne emerge un quadro valido - seppur sintetico - dal punto di vista prettamente teorico, ma poco completo e funzionale ai nostri obiettivi di inquadramento degli attuali scenari della comunica­ zione pubblica e istituzionale. Come ricorda Page (I98 s ), è importante che il fenomeno burocratico venga inquadrato in un contesto compara­ tivo per non incorrere in eccessive generalizzazioni e che si tenga conto delle condizioni specifiche di un dato paese, come ad esempio la forma di Stato: «la forma di Stato non rappresenta solo il "contenitore" della burocrazia pubblica, ma anche il contesto di riferimento. [ ... ] Non è quindi indifferente il tipo di Stato "entro cui" e "per cui" la macchina amministrativa è chiamata ad operare » (Segatori, in Merloni, Pioggia, Segatori, 2007, p. 2 8) . Vediamo dunque, alla stregua di quanto abbiamo avviato al termi­ ne del paragrafo precedente, quali sono le tipicità italiane nell'approc­ cio alla gestione amministrativa delle cose comuni in un contesto in cui per molti anni il modello di stampo weberiano ha rappresentato la modalità prevalente di gestione, tanto a livello centrale quanto a livello periferico. Le basi dell'amministrazione italiana, secondo la ricostruzione operata da Melis (I996), vennero poste nel momento in cui si creò l' U­ nità; il sistema a cui si ispirò il nostro paese fu quello di una forte cen­ tralizzazione, derivante dal modello napoleonico francese. Così, nel I 8 6I, ereditando l'organizzazione ideata da Cavour nel I 853, l'ammi­ nistrazione italiana era composta da un numero ristretto di burocrati a ruolo - circa 3.ooo in tutto il paese, a fronte di una mole incalcolabile di volontari, precari, avventizi - che non presentavano particolari titoli di studio acquisiti, formati "sul campo", selezionati senza concorso e scarsamente retribuiti. Si sentivano legati al proprio lavoro da un for­ te senso di obbedienza e dallo spirito gerarchico, sentimenti che si­ curamente derivavano dall'apparato sabaudo. Un corpo professionale concentrato in pochi ministeri, con una composizione esclusivamente maschile e in genere piemontese. La giornata lavorativa era scandita 34

I.

CONTESTI BURO CRATICI

dali'organizzazione burocratica e dalla suddivisione gerarchica delle funzioni: il lavoro consisteva in una successione rigida di passaggi, secondo quanto previsto dai regolamenti interni, tra vari uffici divisi anche fisicamente che comunicavano secondo protocolli e linee ge­ rarchiche, mai informalmente. Il modello organizzativo prevalente era quello ministeriale: piramidale, operante su due livelli - centrale e periferico - il cui titolare era di estrazione politica - il ministro - e possedeva una generale competenza su un macrosettore, aspetto che ha contribuito nel tempo alla forte compartimentazione delle diverse aree funzionali. I burocrati erano affiancati dal personale tecnico che operava a livello ispettivo - prefetti, intendenti di finanza, ufficiali di carriera ecc. -, connotando il loro impiego, sul finire del XIX secolo, con una grande mobilità sul territorio nazionale, in un periodo storico in cui la popolazione era tendenzialmente immobile e chiusa nelle province di residenza ( Cassese, I 9 8 3 ) . Tali professionalità si distinguevano per una formazione non giu­ ridica, basata su saperi specialistici, che permetteva loro di occuparsi di agricoltura, commercio, industria, economia, infrastrutture in un' I­ talia, sì, unita, ma tutta da costruire. L'amministrazione si serviva in questa fase dei propri attori per intervenire su un tessuto sociale debole e frammentato: gli apparati amministrativi costituirono la "spina dorsale" del nascente stato unitario. Essi assicurarono la presenza delle amministrazioni statali negli an­ goli più remoti del Paese : le prefetture, innanzitutto, ma anche le stazioni dei Carabinieri, così come gli uffici postali costituirono il collante di una identità nazionale malferma, fondata come era, fino ad allora, quasi esclusivamente su valori di tipo letterario e ideale (Sepe et al., 2003, pp. 1 6-7 ).

Tra gli anni Ottanta e Novanta dell ' Ottocento la generazione di funzionari pubblici che aveva caratterizzato la primissima burocrazia italiana era alle soglie della pensione e ad essa iniziava a subentrare un personale più giovane, con un'esperienza professionale maturata già in fase postunitaria, con una provenienza geografica più assortita. Spiragli di cambiamento che anticiparono le grandi trasformazioni dei primi del Novecento che, sotto la guida di Giolitti tra il I 9 0 3 e il I9I4, incideranno drasticamente sulla natura del lavoro pubblico, così come oggi lo concepiamo, e condurranno al pieno sviluppo del 35

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fenomeno burocratico nel paese. Queste le caratteristiche principali di quel sistema amministrativo e del ceto burocratico dali'epoca gio­ littiana in poi: estrazione geografica dei funzionari: da una provenienza quasi esclusivamente piemontese si passò, con una certa rapidità, ad un'estra­ zione prevalentemente meridionale, divenendo una realtà consolidata già alla fine degli anni Trenta. Numerose possono essere le motivazioni addotte, molte delle quali ancora dibattute, che tuttavia concordano su due "acceleratori" principali della meridionalizzazione del ceto bu­ rocratico. L' impulso principale è considerato l'attuazione di politiche pubbliche volte a valorizzare il Sud Italia, per fronteggiare le tensio­ ni di un mercato del lavoro più debole rispetto al Settentrione. Ciò ha fatto sì che il pubblico impiego sia stato visto come la principale prospettiva occupazionale, resa ancora più appetibile dalla stabilità del posto (Cassese, Franchini, I994 ) . La seconda motivazione riguarda il conseguimento di un elevato titolo di studio - la laurea - da parte di coloro che iniziarono a presentarsi ai concorsi, formati nei grandi ate­ nei del Centro e Sud Italia con la prevalenza di percorsi umanistici: legge, scienze politiche, lettere. Inoltre, parallelamente al consolida­ mento del ceto meridionale, nel Nord Italia si stava avviando una fase di viva industrializzazione che ha poi portato alla definizione di due "culture" polarizzate, geograficamente contraddistinte: una tradizione amministrativa e giuridica al Sud e uno slancio industriale al Nord, una peculiarità che porterà a non pochi problemi di comunicazione e di riconoscimento ree iproco; progressiva crescita numerica del personale: nei dibattiti vivaci del tempo tale fenomeno assunse il nome di "dittatura burocraticà' di Gio­ litti, proprio per la tendenza di quest'ultimo ad incrementare dal pun­ to di vista quantitativo il personale degli apparati pubblici. La crescita proseguirà fino ai giorni nostri per poi subire una lenta ma costante de­ crescita negli ultimi dieci anni, come si può vedere dalla TAB. I. In una fase di crescita quantitativa si fece strada una forte sindacalizzazione dei rapporti che definiva un impiegato pubblico più consapevole della sua forza contrattuale e che i governi cercarono di contrastare, senza tuttavia riuscirei né dal punto di vista contrattuale, né da quello orga­ nizzativo ( Girotti, 2007) . Anzi, i tentativi di risposta successivi hanno confermato, di fatto, un'organizzazione rigidamente gerarchica che ha continuato a ereditare da un passato più o meno recente i suoi aspetti costitutivi;

I. CONTESTI BUROCRATICI TABELLA I Numerosità dei dipendenti pubblici italiani N. dipendenti pubblici i n Italia

Anno/i di riferimento

!882-83 I9I S 1921 1938 1943 1948 1963 1978 1983 1996 2001 2002 2003 2004 2oos 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 201 3 2014

98.354 339.203 S I9.440 787.862 1.390.904 1.0 83·934 1.417.s29 2.I S 7·7I7 2.274.602 2.809·973 3·504.164 3.520.398 3·478.371 3·4 SS ·II9 3·4 S 6·4 SS 3·470.633 3 · 429.266 3·436.809 3·376.211 3·3I S .697 3.283·787 3 · 238 · 9 SS 3·233·0 S O 3.222.000

(1998), Cerase (1998), Cammelli (2.004). Per il periodo 2.001-14 si sono invece ripresi i dati pubblicati dalla Ragioneria generale dello

Fonte: i dati qui riportati sono stati attinti da p i ù fonti: Melis Stato sul sito www.contoannuale.tesoro.it.

la scienza del diritto amministrativo: la conquista della centralità , della formazione giuridica avvenne sotto l influenza di prestigiosi ma­ estri del diritto pubblico - Vittorio Emanuele Orlando, Santi Romano, Federico Cammeo (Melis, I 9 9 6 ) - che nei primi anni del Novecen­ to rinnovarono la dottrina giurisprudenziale, potenziando gli aspetti giuridici ed emarginando le discipline storiche, filosofiche e sociali. I 37

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nuovi funzionari vennero così preparati non come "tecnici': bensì co­ me amministrativi e questa formazione garantì loro le più alte cariche istituzionali. Di pari passo vennero modificate le prove concorsuali, privilegiando le discipline giuridiche a discapito dei saperi specialistici e si affermò un "lessico" tipico dell'amministrazione. Sebbene questa caratteristica sia rimasta immutata per molto tem­ po - dobbiamo notare come solo recentemente si sia iniziato a parlare di prove selettive nella PA volte a verificare non solo la competenza giuridica e amministrativa, ma anche la competenza pratica -, ciò che è cambiato è sostanzialmente lo status dell' impiegato pubblico: diver­ samente da allora, egli non appartiene alla classe dirigente del paese e la burocrazia ha perduto quel valore "alto e nobile" che sembrava perme­ are le intenzioni dei riformatori. Un ruolo importante lo ha giocato in tal senso il processo di costante contenimento delle risorse, il progres­ sivo appiattimento delle retribuzioni e, ancor più, del ruolo sociale del funzionario, come si lamentava nel I 9 9 6 all' interno del Rapporto del comitato di studio sulla prevenzione della corruzione: la debolezza della classe burocratica che, contrariamente a quanto avviene in molti dei principali paesi europei, non gode di adeguato prestigio sociale, è priva di idonei riconoscimenti, anche di natura retributiva, ed è tuttora anco­ rata ad un sistema di progressione in carriera basato prevalentemente sull'an­ zianità, ciò che riduce fortemente l'emergere e la valorizzazione delle migliori professionalità » ( Cassese, in Melis, 1998, p. 94).

I fattori menzionati subiranno nel corso del Novecento alcune modi­ fiche, anche alla luce di quegli eventi internazionali che avranno un riflesso decisivo sulla storia delle PPAA: non si passa incolumi da due guerre mondiali, una dittatura, la Guerra fredda, il processo di euro­ peizzazione con l'adozione della moneta unica, i processi di globalizza­ zione, l'esplosione delle tecnologie digitali e molto altro ancora. Tuttavia resteranno, quale imprinting decisivo, quei tratti peculiari individuati nel momento di genesi delle burocrazie italiane con i quali tutt'oggi ci troviamo a fare i conti quali "peccati originari". Per questo accenniamo sinteticamente alle ulteriori fasi delicate di passaggio dell'amministrazione italiana, tra cui quella avvenuta tra la fine degli anni Venti e Trenta del Novecento; momenti di profonda transizione sia, ovviamente, per l'avvento del Partito nazionale fascista e il conseguente assoggettamento dell'apparato pubblico alle esigenze

I. CONTESTI BURO CRATICI del governo Mussolini, che meriterebbero una trattazione specifica, sia per un fenomeno di cambiamento economico e sociale che inci­ derà sulle fasi di riforma più recenti. Ci riferiamo all'allargamento dei compiti dello Stato e all' intervento più deciso in campo economico e sociale (Segatori, in Merloni, Pioggia, Segatori, 2007 ) . Si parla rispettivamente di "Stato imprenditore" (Borgonovi, I 9 9 6 ) e di "Stato sociale": il primo in risposta alla crisi americana del I9 29 che spinse, da un lato, la Banca centrale ad assumere un ruolo di controllo più rigido sul credito, dall'altro alla nascita di istituti che avevano il compito di affiancare e sostenere le imprese in crisi econo­ mica; il secondo - lo Stato sociale (we/fare state) -, invece, comincia ad affermarsi in Inghilterra intorno al I 9 4 0 per poi progressivamente estendersi in numerosi altri paesi, tra cui l' Italia, per porre rimedio ai rischi derivanti dall'aumento della complessità soprattutto sociale. Lo Stato sociale rappresenta una forma di assicurazione contro il problema della disoccupazione, delle malattie, dell'analfabetismo, della vecchiaia (Mancini, 2003) e si sostanzia nella trasformazione di istituti assisten­ ziali e previdenziali già esistenti in enti di diritto pubblico, come nel caso dell'INPS, e in un ruolo progressivamente sempre più attivo in molteplici sfere di vita dell' individuo, nella convinzione che la PA possa dare risposte ai bisogni individuali e collettivi: dal lavoro alla materni­ tà, dalla sanità alla pensione, dal settore dei trasporti all' app rovvigio­ namento energetico, dalle banche alle telecomunicazioni. E in questi settori che si registra un impegno crescente di risorse, economiche e umane: le amministrazioni iniziano a diversificarsi e, nel corso del No­ vecento, la loro gestione da centralizzata diviene periferica, creando così un apparato dall'architettura molto più complessa e articolata ri­ spetto al passato (Girotti, 2007 ) . In contemporanea nascono numerosi organismi intermedi, tra cui le organizzazioni non profit che, in vista di obiettivi specifici, supportano l'azione delle istituzioni, aumentando così la differenziazione sociale e funzionale. Spiega Mancini (2003, p. 6 s ) : « la nozione di we/fare state ha dunque una duplice anima: indica un ampliamento dei compiti dello stato, ma contemporaneamente an­ che l'avvio di iniziative volontarie, private o semiprivate, di assistenza e solidarietà, finalizzate al raggiungimento di obiettivi specifici e de­ terminati » . Incide inoltre il percorso di regionalizzazione maturato nel corso degli anni Settanta che segna il primo vero passo concreto verso il tanto auspicato decentramento amministrativo. Già nel momento in cui si 39

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redige il testo costituzionale, nel I948, si prevedono alcune importanti forze "centrifughe" che vogliono potenziare le periferie, contrastando le tendenze accentratrici di derivazione francese: il Titolo v della Parte II della Costituzione istituisce le regioni, attribuisce loro potestà legi­ slativa e riconosce l'autonomia dei comuni e delle province che porterà alla legittimazione delle autonomie locali. Il trasferimento di funzioni dallo Stato centrale alle regioni e agli enti locali è un passo importante per la ricerca di una maggiore efficienza delle PPAA , anche se gli effetti attesi saranno mitigati dalle profonde differenze all' interno delle regio­ ni italiane e dalle frequenti tentazioni del centro di riassumere periodi­ camente responsabilità e poteri, a discapito di un'autonomia regionale effettiva. Le stesse "leggi Bassanini" degli anni Novanta e il riconosci­ mento del criterio di sussidiarietà nei primi anni Duemila vogliono ri­ affermare tale tendenza riformatrice: anche per impulso europeo, si ha l'esigenza di dotarsi di un'amministrazione maggiormente competi tiva sulla scena internazionale per cui regioni ed enti locali vengono investi­ ti di una nuova centralità. Si attribuiscono loro nuove funzioni - com­ mercio, industria, agricoltura, turismo, urbanistica ecc. -, si riforma il governo locale mediante l'elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle province, si eliminano passaggi intermedi e forme di controllo sull'operato degli enti locali. Tuttavia, le importanti trasformazioni, qui solamente accennate, non portano a una revisione strutturata del modello burocratico, anche se diviene evidente come gli assetti tradizionali risultino sempre più inadeguati. Infatti, mentre i media, le imprese, l'associazionismo sta­ vano subendo grandi trasformazioni, « arrivando dunque all'agorà del dibattito pubblico interno con più metodo, più risorse, più efficienza, più management formato, l'apparato pubblico per decenni mantene­ va i suoi modelli gerarchici, lenti, strutturati assai più sulle culture del controllo che sulle culture dello sviluppo e della relazione e, come re­ gola aurea, costruiti con un principio di obbedienza che andava oltre il principio di lealtà » (Rolando, 20I4, p. 64) . Non è un caso che l' Italia sia stata definita il «paese dei paradossi» (Negri, Sciolla, I 9 9 6) proprio per le contraddizioni che si osservano nel rapporto tra società e istituzioni, soprattutto sul finire del Novecento: un'economia brillante e dinamica e istituzioni dall'agire lento e ineffi­ ciente; un sistema di tassazione tra i più esosi d' Europa e una evasione fiscale tra le meno perseguite ; un'abbondante produzione normativa che non si è in grado di far rispettare e via dicendo. 40

I. CONTESTI BURO CRATICI Pertanto, quella differenziazione funzionale nata intorno e a com­ plemento dell'azione pubblica centrale, nel momento in cui la socie­ tà si complessifica, non descrive più un sistema armonico e integrato di gestione - se mai lo è stato veramente - ma un sistema molto più competitivo e conflittuale. Un'azione congiunta, di collaborazione e integrazione nei migliori auspici, di supplenza e di sostituzione anche conflittuale nella realtà, soprattutto quando, tra gli anni Ottanta e No­ vanta del Novecento si registrano fenomeni di evidente crisi del sistema assistenziale in svariati paesi, tra i quali l' Italia. 1.3.1. DELL'AMMINISTRAZIONE E DELLA POLITICA

Il rapporto tra sfera politica e sfera amministrativa, che già nel mo­ dello weberiano suscitava qualche preoccupazione, trova nel contesto storico-istituzionale italiano una peculiare complessità. Proprio tra le maggiori critiche6 rivolte alla burocrazia italiana vi è la sua limitata ca­ pacità di agire autonomamente e quindi le continue ingerenze da parte della politica, sulle quali vale la pena soffermarsi. Potremmo parlare di invadenza della politica, attraverso varie forme, dalle più esplicite a quelle maggiormente tacite, in ogni caso riconducibili a più fattori, tra cui, non ultima, l'esigenza procedura­ le intrinseca al sistema istituzionale, così come è stato concepito. In estrema sintesi: se spetta ai politici prendere le decisioni, mentre a chi amministra spetta recepirle e darne attuazione, è evidente che questi due "momenti" non potranno risiedere in luoghi o sfere totalmente distinte (Cerase, I998 ) . Dunque « le due dimensioni benché nettamente distinte e distin­ guibili quanto a ruolo e funzioni, si integrano spesso perché coinvolte in un unico e collegato processo di scelte ed azioni destinate a consen­ tire il raggiungimento di prefissati obiettivi» (Mele, Calabrese, Troisi, 20I2, p. 9 I ) . Gran parte delle decisioni politiche rimandano alla fase attuativa, soprattutto perché sarà nella loro concretizzazione che si potranno os­ servare incertezze, ambiguità, problemi, sia nella definizione stessa del­ le procedure che nell' interpretazione del dettame normativa o, ancora, nella disponibilità di risorse e mezzi. Così, i diversi attori amministra6. Cfr. i numerosi contributi di autori quali Sabino Cassese, Bruno Dente, Dona­ tella Della Porta che in più riprese hanno affrontato la situazione italiana. 4I

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tivi, ben lontani dall'essere dei semplici esecutori, potrebbero modifi­ care, se non addirittura distorcere o vanificare, i contenuti stessi delle decisioni politiche. Ma anche il momento attuativo potrebbe diventare un'occasione chiave per la politica, la quale, servendosi dell'apparato amministrativo, potrebbe assoggettare a sé il personale, riducendone drasticamente l'autonomia. Come vedremo, il rapporto si fa ancora più complesso se lo osserviamo dalla lente della comunicazione e non mancheremo di tornarci sopra per evidenziare gli aspetti di indiscussa problematicità tra la comunicazione politica e quella istituzionale, tra le quali i rimandi sembrano da sempre inevitabili (cfr. PAR. 5 .2. I) . Continuando per il momento ad affrontare la situazione più ge­ nerale da un punto di vista diacronico, ciò che un'analisi più polito­ logica che sociologica ha messo in luce è che, all' interno di ciascuna organizzazione pubblica, il dirigente amministrativo non aveva fino agli anni Novanta del Novecento un particolare spirito di iniziativa, sia per il suo ruolo di servizio della dirigenza politica, sia per la man­ canza di una specializzazione, tanto formativa quanto professionale. A differenza di altri paesi europei, infatti, in Italia i funzionari hanno una formazione prevalentemente giuridica e dunque un' impostazione generalista, che non consente loro di esprimere una particolare forza negoziale, tutto ciò sommato ad una mancanza di una vera e propria élite amministrativa. Sintetizzava così Cassese ( I983, p. 69) il circolo vizioso della relazione: a ) la dirigenza, esclusa dal circuito di decisione, si mette in posizione difensi­ va, cercando unicamente di accrescere le sue prerogative di status; b) la classe politica, nel tentativo di porre rimedio alla situazione che si viene così a cre­ are, adotta rimedi inefficienti e controproducenti; c) la dirigenza, a sua volta, si rifugia nel legalismo, facendosene baluardo contro le "intromissioni" dei politici; d) la classe politica moltiplica le leggi per tentare di guidare l' ammini­ strazione [ . .. ] ; e) alla fine del circolo, il risultato è che aumentano la vischiosità dei procedimenti e l'inefficienza amministrativa.

Si sono create, in modo alterno, tre distinte situazioni relazionali: I. un'eccessiva distanza della dirigenza amministrativa dalla politica, nell' intento, vano, di preservare la propria autonomia; 2. una pato­ logica ricerca di prossimità che potremmo definire uno "spoils system all' italiana" che non ha portato frutti; 3 · un' indifferenza della dirigenza verso i contenuti e le finalità di quelle stesse politiche di cui avrebbe dovuto farsi interprete. In quest'ultimo caso, il più frequente per la

I. CONTESTI BURO CRATICI verità, la dirigenza amministrativa ha preso le distanze dalla politica, chiudendosi maggiormente in se stessa, a favore di minori responsabi­ lità, ma autoescludendosi dai circuiti nazionali delle élite (Melis, 20I4 ) . I tentativi di metter mano alle forme della dirigenza amministrativa e al rapporto di quest'ultima con la politica non sono mancati ( Cappel­ letti, I 9 6 8 ; Melis, 20I4 ) . Ma, come dicevamo, è soprattutto dagli anni Novanta che si pone l'accento sulla necessaria separazione tra attori politico-istituzionali e burocrati nella PA, in un momento storico nel quale emergono con preoccupante evidenza fenomeni di corruzione e di clientelismo; in quel rapporto di "scambio" descritto da Cassese si fa collusione ai danni degli interessi collettivi e, soprattutto, delle casse statali. Come spiega Della Porta ( I999 ) , sia il clientelismo che la corruzio­ ne si basano e traggono vantaggio da una "cultura dell'emergenzà' che sembra caratterizzare l'organizzazione del lavoro istituzionale. L' iner­ zia degli amministratori e la vischiosità dei procedimenti burocratici contribuiscono a creare una costante emergenza, prodotta più che rea­ le. Davanti ai problemi e ai bisogni sociali si potrà esclusivamente "met­ tere toppe", curare, risolvere, in perenne ritardo rispetto alle richieste e alle aspettative esterne. A sua volta « l'emergenza continua crea condi­ zioni particolarmente favorevoli agli scambi corrotti, poiché l'esigenza di abbreviare i tempi delle procedure legittima il ricorso a strumenti decisionali più vulnerabili a patteggiamenti illeciti » ( ivi, p. 290 ) . Dunque, nel momento in cui la corruzione diviene un meccanismo di funzionamento, non un episodio patologico, ma un modus operandi fisiologico ed "esplode" nel fenomeno di Tangentopoli, si ritiene ur­ gente intervenire nel rapporto tra politica e amministrazione. Il livello privilegiato di intervento è, ancora una volta, quello nor­ mativa. Come spiega Segatori ( in Merloni, Pioggia, Segatori, 2007 ) , le innovazioni relative agli attori politici soprattutto locali, quali sin­ daci, presidenti di provincia e di regione, sono contenute nella legge 8 giugno I99 0, n. I42, Ordinamento delle autonomie locali, nella legge 25 marzo I993, n. 8 I, Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale, e nel D.Lgs. I 8 agosto 2000, n. 267, Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, che attribuiscono loro un ruolo predominante, per certi versi "imprenditoriale': sia per l' impulso economico che per il più gene­ rale miglioramento della qualità della vita dei cittadini loro affidato. Il rapporto tra dipendenti pubblici e politica, invece, è oggetto delle 43

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cosiddette "leggi Bassanini': emanate tra il I997 e il I 9 9 8, nelle quali si prevede: una separazione netta tra ruolo di indirizzo politico degli amministratori e compiti gestionali dei dirigenti e degli amministra­ tivi; l' introduzione della figura del direttore generale; ampi spazi di autonomia alla dirigenza pubblica, alla quale spettano compiti di pia­ nificazione e direzione strategica per il raggiungimento degli obiettivi fissati dagli organi politici. La distinzione di tali rapporti viene poi ribadita con forza nei primi anni Duemila - D.Lgs. 30 marzo 200I, n. I 6S, Norme generali sul! 'ordinamento de/ lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pub­ bliche - affidando agli organi politici la « macra-organizzazione » , at­ traverso l' individuazione degli uffici di maggiore rilevanza e la deter­ minazione delle dotazioni organiche complessive, mentre ai dirigenti pubblici la cosiddetta « micro-organizzazione » , ovvero l'organizza­ zione delle strutture e la gestione del personale ( Carabelli, Carinci, 20IO, p. I I3 ) . Oltretutto il decreto in questione risulta per noi interessante an­ che per l ' introduzione del cosiddetto spoils system per le figure dirigen­ ziali apicali, definizione contestata dallo stesso Bassanini per la realtà italiana dove sono stati introdotti alcuni correttivi, ma che richiama immediatamente l'omonimo meccanismo statunitense: si tratta del conferimento di un incarico a tempo determinato da parte dell'organo politico ad una figura ritenuta particolarmente competente ad assu­ mere la responsabilità di un ufficio, finché, solitamente, non cambia la legislatura ( ivi, p. I 3 I ) . Le conseguenze di tale introduzione sembrano essenzialmente tre. Da un lato si è iniziato a parlare di « precarizzazione della dirigenza » ( Bassanini, 2oo8), fortemente assoggettata all'autorità politica, sia per quanto riguarda la "durata" in carica che per i contenuti: si accede al la­ voro pubblico non solo per concorso, ma mediante « titolarizzazioni » ( Cassese, in Cassese, Franchini, I994, p. I? ) , ovvero affidamenti che possono portare a favorire persone della propria cerchia, anche fami­ liare e amicale. In secondo luogo, a fronte di una crisi organizzativa dei partiti e delle carriere politiche, sono stati frequenti i trasferimenti "facili" ( Ro­ lando, 20I4) di moltissimi quadri della politica nei ranghi dell'ammi­ nistrazione, oltretutto con notevoli incrementi di stipendio; infine, risulta ancora più difficile l'affermazione di uno spirito di corpo entro l'amministrazione, una cultura unitaria che permei le professionalità 44

I. CONTESTI BURO CRATICI amministrative del paese, creando un'ulteriore situazione anomala ri­ spetto ad altri paesi europei. Auspicava Cassese ( I990 , p. 4 97) al riguardo: « Un paese deve po­ tersi rispecchiare nella dirigenza, deve riconoscere, nella dirigenza, qualcosa che appartiene al paese » , e tale scenario non sembra ancor oggi realizzato. !.4 Tra realtà e rappresentazione

La ricognizione fin qui compiuta dei tratti caratteristici della burocra­ zia ha portato a confrontarci con contributi vari, eterogenei, ma pur sempre provenienti dal dibattito scientifico nazionale e internazionale, che all' interno dell'ambito disciplinare in cui si collocano rivestono un ruolo centrale, quali pietre miliari imprescindibili. Ma durante la prepa­ razione di queste pagine ci siamo spesso imbattuti anche in piccoli saggi e singole ricerche che, ispirate dalle più vaste tendenze di cambiamento nella PA, hanno prestato attenzione alla quotidianità organizzativa e, in particolare, alla caratterizzazione del suo protagonista, ossia il dipen­ dente pubblico. Un attore chiave del sistema pubblico italiano, di cui si trova un suo ritratto macchiettistico perfino in un relativamente recente Rapporto annuale del Centro studi investimenti sociali ( CENSIS, 2002, p. 6 6), nel quale, a proposito delle riforme avviate nella PA, si legge: ancora oggi il dipendente pubblico è un lavoratore attaccato al suo posto ma orientato ali' autonomia n eli'organizzazione del proprio lavoro, interessato a tutelare ad ogni costo le garanzie di reddito ma poco identificato con l' orga­ nizzazione di appartenenza, arroccato sulla sicurezza del posto ma lavoratore in proprio oltre l'orario di ufficio ; disorientato di fronte a un sistema pen­ sionistico che sembra garantirgli soltanto incertezze e quindi ancorato alle sicurezze classiche ; posto fisso e retribuzione garantita.

L'approdo di una simile ardita caratterizzazione in un Rapporto nazio­ nale di ricerca legittima ulteriormente un approfondimento su questa figura, della quale tanto è stato scritto, in epoche più recenti così come in anni passati, non solo nei più autorevoli testi scientifici della sociologia, della politica, del diritto e dell'economia, ma anche in una vasta produ­ zione narrativa e letteraria, fino a diventare perfino un genere letterario e cinematografico: un topos della letteratura, particolarmente in voga 45

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dalla seconda metà dell' Ottocento alla prima del Novecento, così come della produzione cinematografica dalla seconda metà del Novecento fino ai giorni nostri. Certo, i tratti stereotipati del burocrate si prestano ai racconti più disparati, tra reale e immaginario, tra ironia, denuncia e disincanto, ed è per la misura in cui tutto questo confluisce anche nelle odierne rappresentazioni sociali del lavoro pubblico che lo riteniamo qui interessante. Ci riferiamo al concetto di "rappresentazione sociale" sulla scorta dei contributi di Moscovici ( I976 ) , ovvero intendendo quel sistema di valori, nozioni e pratiche che permettono agli individui di orientarsi nell'ambiente sociale e di dominarlo; ma una rappresenta­ zione è anche una elaborazione di un "oggetto sociale': dunque non solo un modo di "immaginare" mentalmente un dato fenomeno, ma un oggetto "quasi materiale" che orienterà i comportamenti, le interazioni e gli scambi comunicativi all' interno di una data società. Le rappresentazioni sociali sono delle entità pressoché tangibili. Nel corso della nostra vita quotidiana esse circolano, si intersecano e si cristallizzano in­ cessantemente attorno a una parola, un gesto, un incontro. La maggior parte delle relazioni sociali stabilite, degli oggetti prodotti e consumati, delle comu­ nicazioni scambiate ne sono impregnati (ivi, trad. it. p. 3 9 ).

Con un simile sguardo ci rivolgiamo qui al burocrate. Perché il dipen­ dente pubblico odierno, sebbene trasformato in numerosi aspetti del suo essere e del suo fare, sembra scontare quel ramo di parentela con i suoi predecessori, di cui ancor oggi si sente l'eco, nel dibattito pubblico, nel discorso dei media o anche solo nel senso comune, tra cittadini in coda allo sportello o tutte le volte che ci serviamo di una rappresenta­ zione del lavoro pubblico. Quando una persona giunge nell'età adulta, è costretta a prendere contatto con una cerchia sempre più larga di istituzioni burocratiche : lo stato, le im­ prese economiche private e persino le organizzazioni culturali. L'esperienza di base che è comune a tutti questi tipi di burocrazia si può descrivere come l'esperienza di essere sottoposti ad un procedimento [ ... ] l'individuo è trattato da funzionari in gran parte anonimi, secondo delle procedure estremamente impersonali e regolamentare. [ ... ] Ciascuna di queste organizzazioni buro­ cratiche [ ... ] sarà percepita dall' individuo come una sorta di mastodontico ufficio in cui vi sono enormi estensioni di schedari: in mezzo a tutte queste schede ci sarà da qualche parte una scheda che tratta il suo "caso" (Berger, Berger, 1977, trad. it. pp. 253-4).

I. CONTESTI BURO CRATICI Difatti, da che mondo è mondo, come scrive Cipolla ( I992 ) , i burocrati hanno dimostrato la capacità o, secondo il punto di vista, subìto l' in­ felice destino di farsi malvolere dall'opinione pubblica e da chi capita nel loro raggio d'azione. Una rappresentazione che, al di là dei luoghi comuni che la ispirano e della ineludibile sovrapposizione tra "reale" e "fantastico" ( Ortoleva, I 9 9 I ) , fornisce un panorama vasto e articolato di significati attribuiti al burocrate moderno - ora caricatura di un uomo dalla vita mediocre, limitata, monotona, le cui aspirazioni vengono tarpate e mortificate, ora « eroe » nella visione di un tenero « donchisciotte del tavolino» ( Zanni Rosiello, 20I4, p. 3 3 ) o furbesco conoscitore delle logiche bu­ rocratiche che usa a proprio vantaggio -, antenato di quel "dipendente pubblico" a cui anche riforme più recenti hanno pensato di rivolgersi?. Infatti, « la disomogeneità dei soggetti sociali che hanno costitui­ to, sin dall' Ottocento, il mondo impiegatizio rende impraticabile un approccio sociologico complessivo a situazioni estremamente diversi­ ficate per redditi, cultura, aspirazioni e comportamenti quotidiani » ( Soresina, I 99 8, p. 7 ) . Pertanto, facendo leva sulle immagini proposte da vari autori, ripercorriamo alcuni tratti che potremmo definire ancor oggi luoghi comuni, rappresentazioni mediali e sociali dei dipendenti pubblici. Attingeremo ad una caratterizzazione basata sulla fisiono­ mia e sulla personalità, sulle aspettative di carriera, sui luoghi di lavo­ ro e sui linguaggi utilizzati. Il quadro che presentiamo, di certo non esaustivo, né metodologicamente rigoroso, vuole fornire uno spaccato di vita amministrativa, ora bagaglio del passato, ora percezione tutta attuale ; ora suggestione dei contesti pubblici italiani, ora immagini macchiettistiche prese in prestito da altre letterature ed esperienze in­ ternazionali. Fisionomia e personalita Il primo tratto è forse quello che è più mutato nel corso del tempo e oggi fanno perfino sorridere - o irritare, dipen­ de - le rappresentazioni fornite sulla base di caratteristiche fisiche e di aspetto esteriore. Eppure è da queste che partiamo, perché l' immagine visiva del burocrate ha preso le mosse da fotografie dell'epoca postuni­ taria, che Melis ( I 9 9 8, pp. 30-I ) descrive così: 7· Ci riferiamo, in modo particolare, alla "lotta" ai dipendenti pubblici "fannul­ loni" invocata dal ministro Brunetta nei primi anni Duemila o ai "furbetti" richiamati più recentemente dall'allora presidente del Consiglio, Matteo Renzi.

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COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI Occhialini a pince-nez, un filo di baffi, giacca attillata sempre un po' lisa, pantaloni flosci un po' cascanti, cravattino e colletto duro, paglietta in testa, orologio d'oro o d'argento al panciotto, talvolta il bastone da passeggio con il manico d'osso. [ .. ] Un ceto intermedio sicuro della sua posizione sociale, insediato profondamente soprattutto nella capitale degli anni di fine secolo, dislocato in quartieri che cominciavano a dirsi e a voler essere "burocratici", caratterizzato da un insieme di gusti, di atteggiamenti, di ritualità quotidiane, di mentalità comuni. .

Da tale immagine si passa poi alla rappresentazione di quella "classe burocratica dei ragionieri" apparsi tra il I9 23 e il 1925 e l'uomo della burocrazia diviene il "tecnico puro': il ragioniere generale dello Stato, Vito de Bellis, che il ministro De Stefani tratteggia: Possedeva nell'adempimento dei propri compiti, l 'intransigenza di un dome­ nicano. Egli era il mio più strenuo collaboratore : il suo viso, pallido e smunto, assomigliava a quello di un asceta; la bocca sottile rivelava sofferenze dell'a­ nimo per essere odiato ( sì, odiato ) da tutti appunto per l'inflessibilità del proteggere il danaro del popolo dai mille avvoltoi che gli stanno intorno e da roditori e parassiti ( Melis, 2003, p. 42).

Se queste sono rappresentazioni dell'impiegato pubblico tra la fine dell' Ottocento e l' inizio del nuovo secolo che connota la nascente clas­ se impiegatizia pubblica, sorprende non poco la vicinanza con quanto osservato dopo quasi cinquant'anni. Sebbene, infatti, l' Italia avesse vissuto momenti storici di profonda trasformazione - le due guerre, la dittatura fascista, la ricostruzione e il boom economico degli anni Cinquanta-Sessanta sono alcuni degli eventi intercorsi -, l'apparato amministrativo non si era modificato più di tanto e l' immagine del burocrate, così come dei luoghi da lui abitati per professione, si erano andati sempre più connotando di ulteriori aspetti negativi: Come già era accaduto agli inizi del secolo, ancora una volta l 'amministra­ zione fungeva da camera di compensazione delle tensioni prodotte dallo sviluppo : al giovane operaio ex contadino immigrato dal Sud per lavorare nelle grandi fabbriche torinesi, al piccolo imprenditore piemontese o lom­ bardo fattosi da solo producendo ricambi Fiat o elettrodomestici faceva da pendant, e in qualche misura anche da contrappeso, la figura sociale del mi­ nisteriale romano, meridionale, laureato in legge, "graffia carte", routinier, per cultura e per idee politiche tendenzialmente uomo d 'ordine ( Melis, 1 998 , pp. 6 8-9 ).

I. CONTESTI BURO CRATICI La realtà ispira a sua volta la letteratura e anche nelle opere del tempo le personalità impiegatizie non sembrano godere di particolare slancio. Esemplificativa è la descrizione da parte di Gogol' del protagonista di un suo celebre racconto, Il cappotto, pubblicato nel I 842 e ambientato in un'amministrazione burocratica: Quando e in qual modo Akàkij Akakièvic fosse entrato al ministero e chi l'avesse messo, è una cosa che nessuno ricordava. Per quanti direttori e vari superiori cambiassero, videro sempre lui allo stesso posto, nella stessa posizio­ ne, con le stesse funzioni, sempre lo stesso impiegato copista, tanto che poi si persuasero che, evidentemente, doveva esser venuto al mondo così, già pronto con l'uniforme e la calvizie in testa (Gogol', 2009 ).

Anche la personalità del pubblico funzionario rimanda direttamente ai compiti che, come missione, gli vengono affidati, ma che lo coin­ volgono fin oltre il tempo lavorativo : «privi di una loro autonomia e completamente deresponsabilizzati, erano costretti in un rapporto di subordinazione che in certi casi sembra perpetuarsi, nella realtà o forse soltanto come sudditanza psicologica, anche fuori della sede di lavo­ ro» (Tosatti, in Varni, Melis, I997, p. 4 5 ). Un'occupazione che dunque sembra "ingrigire" ogni aspetto della vita del burocrate, da penetrare finanche nei tratti somatici e nelle sembianze. Nell'opera Gino Bianchi. Resultanze in merito alla vita e al carattere (2007) di Piero Jahier, il pro­ tagonista descrive così l'amico Gino Bianchi: « Gino Bianchi è nato il giorno in cui si è impiegato. Attualmente, infatti, dimostra 23 anni di servizio. E li porta bene » (cit. in Soresina, I998, p. 27) . Aspettative Seppur caratterizzato da una ridotta mobilità verticale, ana­ logamente a quanto rintracciato in altri paesi, il funzionario pubblico italiano sembra differenziarsi proprio su quelle aspettative riversate sul "posto pubblico". « L' impiego è il posto, non la funzione » , commenta Cassese (in Cassese, Franchini, 1994, p. 17) relativamente alla esperien­ za italiana e continua dicendo: « si tratta di un modello culturale tipi­ co del mondo contadino, possessivo, diretto a proteggere la proprietà, pronto al confronto con il vicino, al quale occorre, però, nascondere la propria ricchezza. Orientato a lasciar vivere, a rinviare a domani, ad aspettare che altri chieda, pronto a negoziare » (iv i, p. I 8). Un modello culturale, dunque, particolarmente distante, forse an­ titetico, rispetto a quello che invece ispirava e dava fertilità al modello 49

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legale-razionale di Weber, che distingue la situazione italiana da altri, seppur vicini, paesi europei. Basta a tale proposito confrontare quan­ to si rintraccia nella storia dell'amministrazione francese, prendendo come riferimento la descrizione del celebre Guy de Maupassant. Nei suoi scritti il burocrate è inizialmente mosso da "grandi speranze" e si rivolge alla carriera pubblica in giovane età, ambendo a rivestire un ruo­ lo di prestigio nelle file burocratiche. Se invece guardiamo ai racconti della situazione italiana, già nelle ricerche di Demarchi dei primi anni Sessanta è alta la quota di coloro che hanno tentato una vita profes­ sionale diversa prima dell' ingresso nella vita amministrativa. « In tutti prevale la ricerca di un posto stabile in mancanza di altre possibilità, con effetti non esaltanti sul piano della soddisfazione professionale, tanto più che la retribuzione è considerata inadeguata » ( Rovati 2009, p. 3 62) . Tuttavia, ciò che sembra comune ai due paesi è l'esito di tale in­ serimento professionale. Infatti, tra le rappresentazioni emblematiche della letteratura che possiamo qui precipuamente citare, Maupassant, ad esempio, a proposito della sua esperienza di impiegato ministeriale a Parigi, descrive l'amministrazione come una galera nella quale i col­ leghi sono « compagni di catene » e, a proposito dello stile di vita che lo attende, scrive: « si entra là verso i ventidue anni. Ci si rimane fino a sessanta. E durante questo lungo periodo, non succede nulla. L' intera esistenza scorre nel piccolo ufficio, scuro, sempre uguale, tappezzato di cartoni verdi. Ci si entra giovani, nell'epoca delle grandi speranze. Se ne esce vecchi, vicini alla morte » (ci t. in Pianori, I 9 6 9, pp. IS- 6 ; ripreso da Vandelli, 20I3, p. 3 6) . A metà degli anni Cinquanta, nel romanzo Incendio al catasto, Carlo Montella raccontava così il mondo impiegatizio italiano: « forse ogni impiegato, quando era stato assunto, nei primi giorni di servizio, s'era domandato che senso avesse quel lavoro che gli veniva dato e che pareva talvolta addirittura incredibile e assurdo» (cit. in Salvati, 2004, p. 52 ) . I luoghi e i linguaggi Il dipendente pubblico lo abbiamo descritto attra­ verso alcuni tratti caratteriali e comportamentali, ma spesso lo imma­ giniamo e lo incontriamo in ambienti lavorativi che tradizionalmente tendono a rifletterne le logiche autoreferenziali, tra rappresentazione del reale e costruzione del racconto narrativo. Ci serviamo rispettiva­ mente di alcune descrizioni indicative. La prima, a carattere storico­ documentale, è la ricostruzione della vita istituzionale nel decennio so

I. CONTESTI BURO CRATICI I9 S0- 6 o effettuata da Melis ( I 9 9 8, p. 6 8 ) : « Dominava, nei ministeri e anche nei grandi colossi burocratici del parastato, un'aria immobile di routine: ripetitività, scrupolosa applicazione delle procedure, culto del precedente » . Un clima che si rintraccia tanto nei comportamenti e nelle dinamiche relazionali, quanto negli ambienti, nell' architettu­ ra degli edifici, negli arredi, nella disposizione di tutti quegli elementi che accomunano la maggior parte delle PPAA. La "fisicità" dei luoghi istituzionali, ben consolidata nelle immagini mentali e nelle rappresen­ tazioni ricorrenti, è un aspetto che contribuisce ad enfatizzare il senso di estraneità e di lontananza di chi, dall'esterno, vi si affaccia, ma che diviene ben presto familiare e scontato in chi vi lavora. Come fa notare De Leonardis ( 2ooi, pp. I02-3 ) , ad esempio, i luoghi di cura o di acco­ glienza delle marginalità sociali tendono a riflettere, anche ai giorni nostri, tale marginalità nel modo in cui sono concepiti e mantenuti tali spazi: Entrando in questo servizio l'impressione più immediata e più forte è quella della bruttezza del luogo. Una bruttezza tuttavia sottile : per esempio, tutto sembra in ordine e relativamente pulito. Ma è un luogo povero, austero e ano­ nimo. Le luci sono al neon, pallide; muri bianchi e spogli, salvo bacheche e avvisi, e naturalmente qualche poster che pubblicizza un farmaco o una comu­ nità terapeutica; l 'arredo è di tipo ospedaliero, al tatto tutti gli oggetti sono freddi. Una fila di sedie metalliche, una sorta di sala d'aspetto ambulatoriale. Al di là un corridoio con una serie di porte chiuse.

È un ambiente funzionale quello appena descritto, ovvero un ambiente costruito per lo svolgimento di una serie di compiti, ruoli e attività; non è certo un luogo che chi vi risiede per svariate ore ogni giorno ha avvertito il bisogno di personalizzare, di rendere più accogliente, più "caldo". Spazi "centrifughi': che inducono le persone a sostarvi per il minor tempo possibile, « ambienti asettici, sciatti, disadorni, brutti, o addirittura degradati, dove è sgradevole fermarsi e ancor più sgradevole lavorare » ( Priulla, 200 8, p. 59 ) . Lo stesso Montella, nel suo romanzo Incendio al catasto, scriveva con una certa analogia, seppur calcando l'aspetto quasi morboso dei comportamenti: « E il pensiero di chi vive in questo ambiente lo si vuole ferocemente attaccato a tutte queste carte polverose, limitato al regolamento, al paragrafo, al capoverso, sempre lento e pedissequo, appoggiato a tutto quello che è un "caso precedente", incapace di un geniale arbitrio, o umano nella risoluzione di qualsivoglia problema » . SI

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Inoltre, i luoghi istituzionali sono un interessante oggetto di osser­ vazione anche per la folta simbologia che racchiudono: le relazioni che identificano, le gerarchie che sottolineano, le aspettative che contribui­ scono a definire e ridefinire in un processo costante di negoziazione tra strutture e persone, tra anime amministrative e politiche, tra generazio­ ni passate e presenti della burocrazia italiana. Curioso, da questo punto di vista, il racconto di Jahier in Morte burocratica, nella seconda parte dell'opera Gino Bianchi. Resultanze in merito alla vita e al carattere, nel quale si rintracciano quegli aspetti che contribuiscono ad affermare, spesso con estrema rigidità, le gerarchie istituzionali: È superiore chi ha la luce a sinistra, in modo da non farsi ombra col braccio,

scrivendo ; è superiore che ha l'autorità di aprire e chiudere la finestra, chi ha almeno due étagères e qualche volta un armadio; chi ha una sputacchiera, ma soprattutto una scrivania orientata bene, il cui seggiolone a braccioli abbia fi­ gliato lateralmente una sedia di Vienna per far accomodare i visitatori (Jahier, in Zanni Rosiello, 20I4, p. I03).

Ma il vissuto organizzativo ne potrebbe suggerire a centinaia di simboli analoghi8 e con una elevata variabilità di significati attribuiti da un luo­ go ad un altro: è superiore chi può parcheggiare l'auto sotto la tettoia, anziché allo scoperto; chi può mettersi le scarpe con i tacchi; chi può entrare senza bussare; chi può tenere la porta dell'ufficio chiusa; chi prende il caffè al bar, anziché alla macchinetta; chi ha il telefono abili­ tato alle chiamate internazionali e molto altro ancora. Significati impliciti di una cultura organizzativa nella quale i sim­ boli della burocrazia si affermano anche attraverso artefatti e com­ plementi di arredo, forse sommersi e dunque difficili da rintracciare, soprattutto quando di quella cultura si fa parte, ma altrettanto impor­ tanti e probabilmente più difficili ancora da superare o modificare. In aggiunta ai tratti finora menzionati non possiamo dimenticare il linguaggio del burocrate, che tanta attenzione ha assunto negli ultimi anni, anche a fronte delle esigenze di semplificazione e di trasparenza dell'agire pubblico, che non mancheremo di affrontare nel prosieguo del testo9• Ormai anche su questo argomento la letteratura è vasta, come 8. Gli esempi che seguono sono stati personalmente raccolti durante esperienze formative per il personale di enti locali, per lo più toscani, e quali testimonianze rese nel corso di esercitazioni di gruppo sui vissuti organizzativi. 9· Cfr. Guida alla redazione degli atti amministrativi. Regole e suggerimenti, a

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I. CONTESTI BUROCRATICI scrive Rolando (20 I4) , tanto sui mali che sui rimedi al "burocratese': fi­ glio della convergenza di tre distinti specialismi: burocratico-giuridico, economico-finanziario e politico-partitico (Scandaletti, 20 03). Il burocrate si esprime tradizionalmente attraverso termini di legge, incomprensibili al profano, attraverso i quali segna la distanza con i suoi interlocutori e dietro ai quali nasconde le sue insicurezze e, talvol­ ta, le sue ambizioni di status. Una lingua proverbialmente oscura, poco accessibile al comune cittadino, che il funzionario impiega quasi istinti­ vamente, acriticamente, come una sorta di "antilingua inesistente", co­ me la definì Italo Calvino, che rende ostica la comprensione e inibisce la partecipazione del cittadino alla vita pubblica. Le caratteristiche del linguaggio burocratico possono essere così sintetizzate ( Lubello, 20I4) : ambiguità delle forme contorte, passive, impersonali, del "si fa pre­ sente che .. :' o "a far luogo da ..."; oscurità, ossia opacità nell'uso di termini arcaici o fuori uso, nella tendenza alla frase negativa che mitiga il divieto - "il ricorso non viene accettato" per non dire che viene respinto; vaghezza, nelle sigle e nella abbreviazioni, nell' impiego di forestie­ rismi - latinismi o, più recentemente, anglicismi -, nell'uso dell'astrat­ to al posto del concreto; artificiosità di una lingua non immediata e non di uso comune per il cittadino. E tutti questi aspetti sono rintracciabili nella terminologia buro­ cratica, nella forma e nella sintassi di un testo scritto, così come nel­ la comunicazione verbale. Come vedremo, a differenza degli aspetti precedentemente menzionati, il linguaggio burocratico è stato oggetto di svariati tentativi di semplificazione, soprattutto a partire dagli an­ ni Novanta, con lo scopo di renderlo più comprensibile e "accessibile" all'utenza. I tratti fin qui passati in rassegna ci consegnano l' immagine di un burocrate certo riduttiva nelle sue eccessive semplificazioni e negli ste­ reotipi richiamati; una figura professionale che, tuttavia, non ha rive­ stito in passato e stenta tutt 'oggi a rivestire un ruolo importante nel cambiamento auspicato. Il funzionario pubblico: un' icona nella quale il cittadino ha difficoltà ad identificarsi, anche quando si cercano di cura del gruppo di lavoro promosso da Istituto di teoria e tecniche dell' informazione giuridica e Accademia della Crusca ; http :/ /www.ittig.cnr.it/Ricerca/Testi/GuidaAt­ tiAmministrativi.pdf (consultato il 10 febbraio 2017).

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COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI superare le difficoltà relazionali. Ecco perché è stato necessario riper­ correre alcune rappresentazioni dei dipendenti pubblici, in quanto, come spiegano Tivelli e Masini (200 2, pp. 30-I), « la "piemontesizza­ zione" dell' Italia pose tutti sotto l'ombrello di un sistema burocratico tradizionalista, abbastanza ottuso e militaresco, dove il funzionario pubblico non era il fiero Beamte prussiano, o il sussiegoso civil servant inglese, e nemmeno ilfonctionnairepublic francese carico di suggestioni imperiali. Il nostro modello è stato il povero monsù Travet, l'i mpiega­ tuccio privo di potere e di iniziativa, sottomesso alla gerarchia, vittima di prepotenze e favoritismi di ogni genere » , nel quale il cittadino me­ dia faticava a riconoscere un punto di riferimento. Ora, questi ultimi racconti avranno procurato nei lettori alcuni ef­ fetti collaterali. A fronte di taluni che potrebbero aver rintracciato an­ che nell'attualità numerosi tratti di verosimiglianza tra descrizione ed esperienza soggettiva dei burocrati e dei luoghi burocratici, vi saranno sicuramente persone alle quali tutto ciò avrà suscitato un effetto urti­ cante. "Non è proprio così" oppure "non è più così': avranno pensato. Ci riferiamo soprattutto a studenti, giovani cittadini, ma anche agli stessi operatori e dipendenti, che prendono spesso le distanze - alme­ no in contesti formativi - da immagini così fortemente stereotipate dell'ambiente pubblico. Non solo per il fatto che è difficile riconoscere l' appropriatezza delle etichette che vengono attribuite ad un determi­ nato gruppo quando se ne fa parte. È vero. Molto anche nel nostro paese è stato fatto, almeno su alcune delle dimensioni citate. Da anni esistono importanti progetti di semplificazione del linguaggio ammi­ nistrativo sul territorio nazionale; ben difficile è caratterizzare il look e gli stili di vita del personale dipendente, sicuramente molto meno "gri­ gio" e omogeneo rispetto al passato; numerosi enti - scuole, ospedali, comuni ecc. -, ormai da vent'anni e più, hanno dedicato risorse alla ri­ strutturazione degli edifici e ali' adeguamento degli spazi e degli arredi, e l' immagine delle scartoffie e dei fascicoli ammassati sulle scrivanie fa i conti oggi con le postazioni ad alto tasso di tecnologia: PC, stampanti, touch screen, dispositivi USB o smart card. Le immagini di cui ciascuno di noi è depositario e portatore possono davvero essere molteplici e superare quella rigidità degli stereotipi poco sopra rintracciati. Ci sono e ci sono stati importanti "venti" di cambiamento che han­ no portato via un bel po' di polvere. Ci troviamo oggi davanti ad una nuova "fisicità" burocratica, più moderna, consolidata attraverso numerose "buone pratiche" sul ter54

I. CONTESTI BUROCRATICI ritorio nazionale, davanti alle quali anche lo sguardo del cittadino più scettico e pessimista deve ricredersi. Dagli anni Novanta, come avremo modo di approfondire, non sono mancati i tentativi di revisione an­ che strutturale dei luoghi in cui si svolge la vita amministrativa, tanto ai livelli centrali, ma soprattutto ai livelli periferici. Ciò che sembra marcare maggiormente la differenza rispetto ai racconti ispirati alla tradizione burocratica è la presenza visibile e fisica del cittadino che ha comportato tutta una serie di trasformazioni dell'agire amministrati­ vo: una vera e propria rivoluzione che porta con sé una ridefinizione non solo dei comportamenti e delle procedure, ma anche dei linguaggi, degli spazi, dell' immagine con cui una certa istituzione si presenta ali' e­ sterno. Quanto e come questo cambiamento abbia inciso sulla carriera burocratica - su aspettative, stili di vita, atteggiamenti dei dipendenti pubblici - non è facile a dirsi e richiederebbe un percorso di ricerca specifico. Così come occorrerebbe andare più a fondo per osservare se i tradizionali stereotipi legati alla burocrazia, ai suoi attori e ai suoi contesti sono stati soppiantati da nuove visioni. Come, ad esempio, quelle riportate da Tivelli e Masini ( 2002 ) che parlano di "infoburocra­ ti': ossia di burocrati informatizzati che negli ultimi vent 'anni hanno ulteriormente evoluto comportamenti e attitudini specifiche sul web, non meno macchiettistiche rispetto alla tradizione. In ogni caso, appare a nostro avviso significativo che continuino a perpetuarsi discorsi e conversazioni coerenti con le immagini tradi­ zionali, con la storia del nostro passato amministrativo e istituziona­ le ; rappresentazioni dei dipendenti pubblici che, dalle retoriche del discorso politico alle fiction o ai film d'animazione, non sembrano particolarmente sensibili ai cambiamenti intervenuti e mostrano dif­ ficoltà nel produrre un senso comune alternativo agli stereotipi più abusati. I .S Immaginare di cambiare

« Incapacità di adeguarsi ai nuovi scenari, paura del nuovo, piccoli o grandi privilegi da mantenere, funzioni di ammortizzatore sociale, sono tutti elementi che hanno a lungo impedito di realizzare effettivi processi di cambiamento nell'ambito della pur criticatissima ammini­ strazione pubblica » (AA .VV., 2002, p. I? ) . 55

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI

Il cambiamento delle organizzazioni pubbliche e l'aumento della flessibilità delle amministrazioni sono stati oggetto, si sa, di innumere­ voli studi teorici e di vari tentativi concreti di riforma. Da più parti ci si è chiesti se il modello burocratico, che per anni ha ispirato le burocra­ zie pubbliche, non necessitasse di una ridefinizione perché "struttural­ mente inadatto" a rispondere alle esigenze e ai mutamenti tanto delle istituzioni quanto degli ambienti sociali ed economici a cui si riferisce (D 'Albergo, Vaselli, I997 ) . Scrive efficacemente Dente (I999, p. 49) : «la "storia lunga" della pubblica amministrazione italiana dal punto di vista dei modelli orga­ nizzativi utilizzati è facile da descrivere: all' inizio [ .. ] viene imposto un modello uniforme e tutta la storia successiva è una fuga dal modello medesimo» . Dunque, il percorso o, meglio, i percorsi per riformare gli assetti amministrativi si sono frequentemente concretizzati in tentativi di al­ lontanamento dal modello di ispirazione weberiana, con evidenti diffi­ coltà anche solo per il fatto di immaginare una PA diversa, riformata. Si parla dunque di tentativi che, in una visione evoluzionistica - eccessiva­ mente lineare e sequenziale per alcuni autori (Giretti, 2007) - dagli an­ ni Ottanta del secolo scorso ad oggi, possono essere considerati o espe­ rienze di « resistenza burocratica » (ivi, p. 98), oppure di trasferimento di modelli e tecniche dal privato al pubblico, con la consapevolezza che una migliore gestione delle risorse pubbliche e un assetto organiz­ zativo più efficiente costituiscono la base per una maggiore competiti­ vità dell' intero paese. Questa seconda "filosofia" ha progressivamente soppiantato i canoni tradizionali di organizzazione burocratica ed ha portato alla sperimentazione di nuovi percorsi e modelli pragmatici. Tuttavia, all' interno di un acceso dibattito scientifico sulla storia del riformismo amministrativo in Italia e sui fattori di insuccesso, ri­ corre uno scetticismo di fondo, un pessimismo che pervade tanto la valutazione delle storie vissute, quanto i tentativi dell' immediato futu­ ro per cambiare la burocrazia italiana. Scrive Melis (I998, p. I03) a con­ clusione di un suo contributo sul tema: « questa storia è stata, infatti, essenzialmente, una storia di vinti, di volta in volta sconfitti proprio dalle logiche inesorabili della continuità degli apparati e dalle resisten­ ze insormontabili delle varie burocrazie » . Mentre Dente (I999) aggiunge che in verità è il modello di Stato che abbiamo ereditato dalla tradizione napoleonica che non funziona più e non solo in Italia. Le istituzioni pubbliche, nate come strumento .

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I. CONTESTI BUROCRATICI per la soluzione dei problemi collettivi, sono divenute un problema esse stesse. E sul medesimo punto, sostiene Butera (2007 ) , il mancato cam­ biamento della PA dall' Unità ad oggi, più che da riforme inadeguate, è dipeso da quei problemi strutturali che nel tempo non sono stati effica­ cemente affrontati. Primo fra tutti un passaggio importante, delicato, da burocrazie che "amministrano" a organizzazioni che "forniscono servizi": «la Pubblica Amministrazione, infatti, è principalmente cen­ trata sui diritti e assai meno sui servizi che da questi diritti devono esse­ re effettivamente erogati » ( ivi, p. 4) . Un passaggio importante quanto difficile che comporta l'adozione di una visione dell'amministrazione completamente diversa, nella quale il cambiamento deriva solo in parte dalla bontà delle "norme" emanate. Infatti, come rileva Catino (20 0 2) , nelle riforme delle burocrazie è prevalso un paradigma di tipo giuridico-formale, per il quale le or­ ganizzazioni sono degli ordinamenti giuridici che funzionano come delle macchine, determinate nel loro funzionamento dalle norme. Ma la norma, sebbene possa fare molto, soprattutto grazie alla sua forza legittimante, non è sufficiente a portare a compimento obiettivi di ri­ forma. Ci sostiene in questa riflessione il contributo di Rolando (20I4, p. 2 ) che, sebbene non possa essere certo annoverato nella schiera dei delusi o dei pessimisti, guardando alla storia italiana, dice: « quando si credeva che la riforma dello Stato fosse in cima all'agenda pubblica, si poteva anche pensare che bastasse una legge per "riformare" anche il vizio del "silenzio e del segreto" adottato dall'amministrazione italiana in risposta alla roboanza della propaganda fascista » . Eppure la concezione secondo la quale "basta l a legge" è riscon­ trabile ancor oggi in certi modi di intendere la PA, quando si tende a privilegiare lo strumento legislativo per apportare cambiamento, senza investire adeguatamente su opportune leve, quali la formazione, la par­ tecipazione, gli incentivi economici, la revisione degli assetti ecc. ( Pa­ nozzo, 2ooo ) . D'altronde, per quanto efficace, la legge può consentire di modificare soltanto uno dei tre livelli del fenomeno organizzativo, quello istituzionale, mentre non riesce a incidere né sul livello organiz­ zativo, sui processi e sui meccanismi di costruzione dei servizi, né su quello cognitivo, ossia sulla consapevolezza che sorregge il comporta­ mento organizzativo e la pratica. Inoltre, la gestione del cambiamento dipende a sua volta dalla logi­ ca prevalente che viene adottata, per lo più in continuità con la propria storia organizzativa. 57

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI Tradizionalmente, per la natura delle amministrazioni italiane, ha prevalso l'adozione di un modello ordinamentale (Butera, 2007 ) , nel quale è la "legge" fonte di cambiamento. Tutto il lavoro amministrativo è considerato o propedeutico alla elaborazione del disegno - antece­ dente al testo normativo - o attuativo della legge stessa. In altre circostanze10 ha prevalso, invece, un modello osmotico, per cui il cambiamento è continuo e reattivo: l'organizzazione è in balìa dei mutamenti del contesto circostante e delle forze che dall' interno spingono verso continui adattamenti e piccole revisioni. Tutto questo apparente dinamismo rischia di non incidere sulla dimensione struttu­ rale dell'organizzazione e rende ben difficile la gestione delle relazioni organizzative e la continuità nel tempo degli assetti. Facciamo poi riferimento ad un terzo modello, particolarmente auspicato e in voga negli ultimi anni anche nel contesto italiano, anche se di matrice anglosassone, ed è quello definito processuale, di change management: il cambiamento avviene per progetti in singole aree o am­ ministrazioni e, mosso da uno specifico spirito di riforma, comporta l ' intervento in ogni aspetto e dimensione dell'organizzazione: dagli assetti alle tecnologie, dalla riprogettazione dei servizi alle competenze, fino agli aspetti simbolici e culturali dei comportamenti individuali. Un approccio, dunque, che si fa carico della complessità organizzativa, tanto degli aspetti formali quanto di quelli informali, ma che necessita di una adeguata gestione e capacità di coordinamento da parte degli attori del cambiamento, così come di una certa gradualità. Quest'ultimo modello rintraccia nel bene-servizio, ovvero in quel­ lo che viene considerato l' output dell'agire amministrativo, la bussola del cambiamento. Molto è stato scritto al riguardo, soprattutto quan­ do dalla metà degli anni Novanta si è iniziato a ripensare il sistema di offerta dei servizi, partendo dai bisogni del cittadino, anziché dalle esigenze della PA, e si sono iniziate ad adottare logiche ispirate al marke­ tingprivato in ambito pubblico, seguendo un parallelismo, non sempre azzeccato, tra utenti di servizi e clienti/ consumatori di beni, su cui tor­ neremo. Le sollecitazioni al cambiamento che continueranno a carat­ terizzare il nuovo millennio arrivano, a nostro avviso, da tre direzioni: I. dalla inadeguatezza del modello tradizionale di amministrazione, che non riesce più a rispondere ai bisogni provenienti dalla società civile e 10. Butera (2007, p. 1 5 ) al riguardo cita l'esempio della scuola e delle metodologie didattiche.

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I. CONTESTI BUROCRATICI dal mercato in termini di una maggiore funzionalità burocratica, non­ ché da sollecitazioni esterne, tra cui, in modo evidente, 2. l' integra­ zione comunitaria, dalla quale iniziano ad arrivare importanti vincoli e prescrizioni obbligatorie da mettere in relazione con l'ordinamento italiano, e l'abitudine ad un confronto più ampio, ben oltre i perimetri della singola amministrazione; 3 . il ruolo dell' innovazione tecnologica che si scontra con la cultura organizzativa per lungo tempo dominante e impone una revisione totale di assetti, relazioni, competenze, moda­ lità produttive e, non ultime, comunicative. Su questi temi torneremo nel prossimo capitolo, dedicato ai "cam­ biamenti", con la consapevolezza che alcune "zavorre" del passato con­ tinuano a rendere tutt'oggi difficile la navigazione e che talvolta le spinte riformiste celano più le ambizioni di innovazione che gli effet­ tivi esiti. Per di più, osservando le PPAA non è facile percepire i cambiamenti avviati, né per chi le osserva dall'esterno, né, frequentemente, per chi opera al loro interno. La PA è così paragonabile ad un ghiacciaio : « si sa che si muove, perché a medio e lungo termine si possono verificare gli effetti dello spostamento della massa di ghiaccio, ma è un movimento lentissimo, non percepibile a occhio nudo né da chi si trova sul ghiac­ ciaio, né da chi li osserva dall'alto » (Arena, 20 o 6, p. I 4) . Un'evoluzione quasi impercettibile nel breve periodo, della quale, prima ancora di mi­ surarne gli effetti, dobbiamo conoscerne le potenzialità. Distinguendo, innanzi tutto, il movimento inerziale dal cambiamento ( De Leonardis, 200I ) e quest'ultimo dalla trasformazione. Infatti, da un lato l' inerzia può dare l' impressione di essere in movimento, ma senza possedere quella forza generativa, capace di provocare una discontinuità rispetto al passato o di ridefinire il nocciolo del rapporto tra amministrazioni e amministrati; dall'altro la trasformazione di rado si riscontra nelle am­ ministrazioni pubbliche, sottoposte più frequentemente a movimenti lenti e a fasi evolutive e di adattamento progressivo, che nel tempo chie­ de di essere compreso e metabolizzato.

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Cambiamenti

2. 1 Sfere pubbliche

L'attenzione finora dedicata ai percorsi intrapresi dalle burocrazie e dai loro principali attori ha più volte rimandato al concetto di "pubblico': intendendo, in linea di massima, quello spazio istituzionalizzato nelle mani dello Stato nel quale si perseguono di obiettivi e interessi gene­ rali. Dunque contrapposto - meglio, complementare - ad un'altra di­ mensione, quella "privatà' dell' individuo, costituita dagli affetti, dalle credenze, dalla famiglia, dalle relazioni di prossimità, ambiti sui quali il potere statale esercita comunque una certa influenza, come abbiamo visto, a partire dalla nascita di forme assistenziali e di welfare. Una dicotomia - pubblico/privato - che nel tempo ha rimandato alla distinzione tra Stato e cittadinanza, tra amministrazione e società civile, tra sfera della decisione e sfera dell'opinione e ha interessato il dibattito filosofico e politico fin dagli albori della democrazia liberale. Distinzione che prende corpo già nel pensiero di John Locke, quando si inizia a parlare di un primo processo di differenziazione: al potere assoluto del monarca si contrappone un "corpo collettivo di cittadini': per la difesa dei propri interessi, luogo dunque della ragione che separa progressivamente l'uomo dallo stato di natura e che porterà alla nascita della moderna società civile. Molti sono gli autori che nel tempo hanno cercato di mettere ordi­ ne nel sempre più complesso e sofisticato rapporto tra pubblico e pri­ vato, fornendo definizioni che potessero essere utili al dibattito e che si mostrassero capaci di seguire l'andamento dei tempi e la variabilità dei contesti. Concentrandosi sullo sviluppo delle società occidentali, Thompson (1995) ricorda due tipi di interpretazioni diverse della dicotomia pubbli-

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI co/privato. La prima risale al XVI secolo e corrisponde alla distinzione tra potere pubblico istituzionalizzato e le attività economiche e le re­ lazioni personali intrattenute dagli attori sociali, che successivamente porterà alla distinzione, in ambito giuridico e politologico, tra Stato e società civile. Seguendo tale accezione, i due ambiti non sono poi così nettamente separati e sempre più numerosi sono quei soggetti che si situano a metà strada; si tratta di organizzazioni intermedie, tra cui i partiti politici, l'associazionismo o le imprese sociali e cooperative, così come quei soggetti privati, ma di emanazione o a partecipazione di ca­ pitali pubblici, che in chiusura di capitolo avremo modo di menzionare. La seconda, più prossima al senso comune, attribuisce a ciò che è "pubblico" il significato di aperto e accessibile a tutti, osservabile da una pluralità di spettatori, mentre viceversa "privato" è ciò che è fatto con riserbo e segretezza, raggiungibile da un numero circoscritto di persone e di osservatori (ivi, pp. I70-4 ) . Questa seconda linea interpretativa sembra sovvertire l'ordine del­ la precedente, soprattutto se applicata a quelle istituzioni statali nelle quali i processi decisionali hanno a lungo mantenuto una rigorosa se­ gretezza e invisibilità esterna proprio per tutelare il potere di organismi distanti dalla comunità. Infatti l'esercizio del potere razionale delle burocrazie, che abbia­ mo introdotto nel capitolo precedente, ha riconosciuto un ruolo asim­ metrico e di superiorità allo Stato - o comunque al potere - rispetto alla società civile, di predominio del pubblico verso il privato, mediante forme sia di regolazione che di organizzazione, in ogni caso mediante una distanza, anche basata sulla conoscenza, tra governanti e governa­ ti. Un ruolo, tuttavia, che nel tempo si fa più pervasivo, soprattutto quando il processo deliberativo acquista una insolita visibilità (Cavallo, 20I2 ) e l'azione dello Stato riesce a sconfinare e ad entrare in contatto con gli ambiti più privati dell' individuo, fino a toccare il benessere e la salute, le aspettative future e la dimensione etica individuale. Così, da un lato si allarga la forbice tra amministrazioni e amministrati e l' asim­ metria diviene maggiore, ma dall'altro i cittadini non sono più quei "sudditi" da rabbonire e accontentare e si riconoscono sempre meno in un ruolo di passività loro attribuito. Per cui, di fronte all'azione mag­ giormente pervasiva del soggetto pubblico negli ambiti di vita privata, la cittadinanza esprime r esigenza di nuove forme di riconoscimento delle proprie differenze e di una relazionalità maggiormente negoziale (Sorrentino, 2oo8a) .

2.

CAMBIAMENTI

Oltretutto il potere centrale dello Stato non basta più a se stesso: necessita di una legittimazione da parte della società (Parsons, I 95I) e l' ottenimento di quello che denomineremo "consenso"; una risorsa preziosa dalla quale deriva la legittimazione all'azione. Arena (I99 5 , p. I5) scrive al riguardo: «per le amministrazioni pubbliche contem­ poranee lo strumento migliore per realizzare l' interesse generale è la convinzione, non il potere » . Infatti le amministrazioni possono usare sempre meno la costrizione ed il controllo e devono invece sempre più spesso cercare il consenso, individuando nella comunicazione la risorsa necessaria. Le spinte alla creazione di una vita pubblica al di fuori dello Stato, la « creazione di una nuova zona, incuneatasi tra pubblico e privato, capace di rendere molto più sfumati e indistinti i contorni di quelle due sfere di attività » (Cavallo, 20I2, p. I 23), arrivano proprio dalla società civile. Quest'ultima viene rappresentata come il terreno dei conflitti economici, ideologici, sociali e religiosi che lo stato ha il compito di risolvere o mediandoli o sopprimendo­ li; come la base da cui partono le domande cui il sistema politico è chiamato a dare risposta; come il campo delle varie forme di mobilitazione, di associa­ zione, di organizzazione delle forze sociali che muovono verso la conquista del potere politico (N. Bobbio, I990, p. xo6s).

Un ambito dapprima riservato alla critica verso il potere stabilito, poi al confronto e all'organizzazione della mobilitazione per la tutela di interessi collettivi, per giungere alla nascita di un'arena maggiormente negoziale, un terreno di competizione e di conquista da parte di una pluralità di attori (Grossi, 20 04) . A seguito di tali istanze, prende vita una vivace sfera intermedia, un public spirit (Mancini, 2003) depositario di un sentire comune che chiamiamo "sfera pubblicà' e che deve una prima organica definizione a Habermas ( I 9 6 2). Non è certo questo il luogo per ricostruire il contributo vasto e prolifico dell'opera habermasiana, anche se non ci si può esimere dal dare almeno una sintetica definizione della sfera pubblica da lui ana­ lizzata, ossia la sfera pubblica borghese. Habermas (ivi, trad. it. p. 4I) la concepisce « come la sfera dei privati riuniti come pubblico ; costoro rivendicano subito contro lo stesso potere pubblico la regolamentazio­ ne della sfera pubblica da parte dell'autorità per concordare con que-

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI

sta le regole del commercio nella sfera fondamentale privatizzata, ma pubblicamente rilevante, dello scambio di merci e del lavoro sociale » . È così che la sfera pubblica inizia ad avere una sua identità spe­ cifica, in virtù soprattutto di uno spirito critico che trova supporto e argomentazione negli strumenti di comunicazione disponibili: prima nella diffusione della stampa, grazie alla quale iniziano a circolare opi­ nioni, idee, visioni anche alternative rispetto a quelle diffuse dal potere statale, successivamente nella nascita dei media elettronici e più recen­ temente digitali. « La creazione di una sfera pubblica aperta, dialogica, in cui diven­ tano possibili reciprocità e interazione, determina il formarsi dell'o­ pinione pubblica » ( Cavallo, 20I 2, p. I?I), ossia quel senso comune e condiviso che si rintraccia all' interno della società ( Grossi, 2004) . Dobbiamo tuttavia precisare che quando si parla di "sfera" pubblica non ci si riferisce oggi necessariamente ad un luogo fisico. Ma non è sempre stato così. In passato, fin dall'antica Grecia, gli intellettuali, i notabili e, più tardi, la società borghese, gli attivisti politici o la gente comune discutevano dei problemi della collettività in luoghi che po­ tevano essere definiti mediante la loro "fisicità": le piazze, i circoli, i caffè, l'Accademia, le sezioni di partito avevano un indirizzo, una sede. Dunque era più immediata l' identificazione del dibattito pubblico con un luogo deputato e una struttura materiale che veniva "abitatà' fisi­ camente dagli attori. Scriveva Tonnies ( I922 , trad. it. p. 24) : «la sfera pubblica [ .. ] ha il suo luogo naturale, come lo scambio di merci e dena­ ro, per strada ( "in publico" ) , in particolare nella piazza del mercato, sia essa a cielo aperto o in spazi al coperto accessibili a chiunque ( portici, mercati coperti, bazar) » . Anzi, l a polis greca o romana, spazio pubblico di incontro, è pro­ prio quel luogo di emancipazione dai bisogni e dagli ambienti di vita privata, ovvero dalla sfera domestica e famigliare (Arendt, I9 5 8 ) , così come le piazze medievali, il salotto borghese o i caffè letterari del Sei e Settecento, a cui si riferiva Habermas ( I9 6 2) , erano i luoghi della socia­ lità e del dibattito pubblico delle élite borghesi, quel ristretto gruppo di cittadini che possedevano risorse cognitive e strumentali per poterne prendere parte. Ad un siffatto spazio pubblico si sostituisce nel tempo un ambito di incontro simbolico, un'entità collettiva immateriale in cui prende forma la democrazia, ovvero « la forma di governo che si basa sul con­ senso e sulla legittimazione del popolo stesso, sul diritto di ognuno di .

2.

CAMBIAMENTI

esprimere le proprie opinioni in relazione alla res publica e all' interesse collettivo » ( Grossi, 2004, p. 2I) . Ciò non significa che non esistano più "luoghi" fisici del confronto\ anzi, come ha illustrato Oldenburg (I989 ) , ancora oggi abbiamo bisogno di luoghi nei quali germina il confronto di idee e la socievolezza; ciò che muta è il perimetro degli stessi, non fissato tanto dalle mura o dai cancelli di ingresso, ma dai "codici di accesso" ( Meyrowitz, I98 s ) a questo spazio simbolico, che rendono l'elenco di questi "luoghi" molto più indeterminato. Infatti, in epoca moderna, l'accresciuta mobilità individuale, l'alfa­ betizzazione diffusa, la perdita di rilevanza delle tradizionali agenzie di socializzazione - famiglia, scuola, religione, partito politico -, alle qua­ li gran parte di quei luoghi fisici facevano capo, e, soprattutto, la nascita di un sistema mediale e l'avvento dei media digitali hanno portato ad un allargamento dell'arena del dibattito. Un processo di "astrazione" della sfera pubblica dalle situazioni assembleari del passato ( Privite­ ra, 2ooi, p. 42), nelle quali il confronto sulle cose comuni è iniziato a passare attraverso canali che non trovano più unicità nelle coordinate spazio-temporali, nel "qui e ora': nella compresenza fisica dei dialogan­ ti. Si parla infatti di « sganciamento spazio-temporale » ( Thompson, I995, trad. it. p. SI), perché la condivisione di contenuti non necessita di compresenza fisica e temporale, e di « simultaneità despazializzata » (ibid. ) , perché si può essere compresenti ad un evento senza abitare il medesimo ambiente. Invece di confrontare l'arena mediata con un'epoca ormai lontana, dovremmo riflettere su ciò che per "sfera pubblica" si può intendere oggi - in un mondo permeato da nuove forme di comunicazione e di diffusione delle informazio­ ni e in cui gli individui possono interagire con altri lontani e osservare persone ed eventi senza mai incentrarle o vederli nello stesso luogo spazio-temporale ( ivi, trad. it. pp. 112-3).

A questa rivoluzione se ne sono sommate altre che hanno immesso nell'opinione pubblica nuovi temi, sensibilità e problematiche, nonché hanno cambiato il volto della sfera pubblica dapprima teorizzata: le lot­ te per l' inclusione portate avanti dalle masse dei lavoratori, la nascita di 1. Sul tema è interessante la lettura del numero monografìco della rivista "Ras­ segna Italiana di Sociologia" del 2011 dedicato ai nuovi "luoghi terzi", ovvero quegli spazi interstiziali tra famiglia e professione in cui prende forma la sfera pubblica, come ad esempio i giardini pubblici, i bar, le librerie ecc.

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COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI economie e mercati globali, la comparsa delle donne sulla scena pubbli­ ca, il cui ruolo era in passato circoscritto alla sfera domestica e privata. Si sarà notato, già dal titolo del paragrafo, che parliamo infatti di "sfere" pubbliche, al plurale, sia per rimandare alla elevata interconnes­ sione dei nuovi spazi pubblici (Boccia Artieri, 20I2), sia per evidenziare la natura estemporanea, concomitante e occasionale, fluttuante, mute­ vole e informale di quegli ambienti in cui si sviluppa il confronto pub­ blico (Thompson, I 99 S ) e nei quali oggi gli attori sociali si muovono con una notevole elasticità. Anche il confine tra pubblico e privato si fa più sfumato, si rompe la corrispondenza tra posizione fisica e posizione sociale (Meyrowitz, I 9 8 s ) e cessa quella separazione netta, quella cop­ pia di "contrari" che aveva caratterizzato l'età moderna2• Come fa notare Cavallo (2o i 2, p. I75 ) , cominciano a esistere i pub­ blici, non più il pubblico: pubblici votanti, attenti, critici, monotemati­ ci oppure organizzati, ideologici, mobilitabili. Si allarga così il numero di persone che possono prendere parte allo spazio discorsivo, nonché la mobilità delle stesse, che possono modificare il proprio ruolo - di produttore di idee, tematiche, contenuti o ascoltatore degli stessi - così come passare da una sfera ad un'altra. Quella odierna è pertanto una sfera che la modernità ci consegna come più inclusiva e plurale, nella quale si muovono associazioni, chie­ se, fondazioni, circoli, movimenti non strutturati, iniziative civiche, singoli cittadini, sempre più approssimabile all' intera società civile, proprio perché il suo carattere « sta proprio nel fatto di mettere tra parentesi le differenze di censo, cultura, ecc., lasciando spazio soltanto ai contenuti da mettere in circolazione » (Privitera, 2001, p. 87). La nuova "pubblicità" porta ad un progressivo disembedding, "sradicamen­ to': della sfera pubblica dalla compresenza spaziale e temporale (Grossi, 2oo 6) , e si ridefiniscono non soltanto le logiche produttive di issues a rilevanza pubblica e i processi di opinion building, ma anche quelle di ricezione e di consumo. 2. Si rintracciano in letteratura numerose definizioni delle società contempora­ nee in contrapposizione a quelle tradizionali preindustriali; il successivo superamento dell'età moderna viene denominato, secondo la prospettiva teorica adottata, come tarda modernità, seconda modernità, postmodernità o, ancora, modernità radicale o modernità riflessiva. Non essendo questo il nostro specifico obiettivo, né potendoci soffermare sui distinguo necessari, basterà qui esplicitare l'uso, consapevole, ma non particolarmente critico verso le altre "etichette", di una accezione "tardo-moderna" o, semplificando, "moderna" delle società contemporanee.

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2. CAMBIAMENTI

Anche se gli "esclusi" dal dibattito pubblico continuano ancor oggi ad esserci. Come vedremo, nonostante la moltiplicazione degli stru­ menti disponibili e la vasta diffusione dei media digitali, non tutti i cittadini intervengono o hanno gli strumenti per farlo. Infatti, se nella teoria habermasiana l'accesso alla sfera pubblica era dettato da dinamiche di appartenenza e dal possesso di risorse anche materiali, oggi i criteri sembrano risiedere nella "quantità" di informa­ zioni di cui ciascun individuo dispone e nella sua "capacità'' di gestire la conoscenza in suo possesso. Per di più, se da un lato ottenere le "chiavi di accesso" può sembrare più semplice e immediato rispetto all'acquisizione di un determinato status come nelle società borghesi - è senza dubbio più facile per la maggior parte delle persone oggi informarsi, ad esempio, sui contenuti di una legge o di una decisione del governo e partecipare ad un dibattito sul tema o far valere le proprie idee, piuttosto che per un contadino, che nel Settecento risiedeva in campagna, entrare a far parte di un circolo o di un caffè letterario -, dall'altro lato permangono delle fratture, dei gap sociali, non tanto in termini di "possibilità': quanto di consapevo­ lezza. Ai tradizionali fattori che possono generare esclusione, e cioè il genere, l'età, la razza, la religione e la posizione di classe, se ne aggiungono altri, che riguar­ dano, ad esempio, le capacità personali per comprendere ed utilizzare le nuove tecnologie presenti in molti aspetti della vita quotidiana, per selezionare e usare le informazioni, per individuare le risorse e le opportunità e, infine, per partecipare come cittadini alla vita sociale ( Messeri, Ruggeri, 2000, p. 23).

La questione degli "esclusi" dalla sfera pubblica attraversa gran parte dei contributi sul tema e corrisponde, in larga misura, alla individua­ zione di "categorie storiche", diverse, ma riconducibili ai "non aventi voce". Prima, schiavi, donne, operai salariati; oggi, immigrati, profughi, poveri sono tra gli "esclusi': per questioni politiche o simboliche. In ogni caso, alienati dai flussi informativi, dalla vita economica attiva, dalla scelta delle proprio biografie (Balibar, 20I 2 ) . Aggiungiamo poi che l'acquisizione di informazioni - risorsa che consente di partecipare al dibattito pubblico - non va sempre di pari passo né con il processo di appropriazione né con quello interpretativo circa il valore della conoscenza posseduta, così come non sono sempre evidenti e chiare le finalità concrete e le conseguenze, anche simboli-

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che, della propria azione. Perciò, a fronte di un ruolo attivo dell' indivi­ duo che interviene e prende parte alla sfera pubblica, non sono sempre chiari i vantaggi che egli sa di poter ottenere, né il valore complessivo del suo partecipare. E tutto questo è quanto mai reso evidente nel mo­ mento in cui agli strumenti tradizionali si vanno ad affiancare i media digitali e, ancor più, i social network. Quella tecnologica è infatti la svolta più evidente, perché va ad intaccare le "regole del gioco" del nuovo spazio pubblico (Innerarity, 2.oo6) e del dibattito pubblico, uno spazio che, secondo il tipo di co­ municazione che viene adottato dai suoi attori, può espandersi o atro­ fizzarsi, ma che si presenta inevitabilmente al plurale (Privitera, 2.ooi, p. I 0 3 ) : « la trasformazione più importante indotta dai media sta nel fatto che il pubblico, da entità fisica potenzialmente sempre in grado di costituirsi in forma assembleare, diventa un'entità delocalizzata e non più circoscrivibile, né nello spazio, né nel tempo» . Per questo, qui di seguito ne approfondiamo il ruolo. 2.2 Arrivano i media

Sostenere che i media hanno un ruolo importante nella definizione della sfera pubblica, come abbiamo fatto finora, è una ovvietà. Il loro protagonismo è talmente sotto gli occhi di tutti che appare quasi scon­ tato riferirsi al sistema mediale come ad un attore chiave del nuovo spa­ zio pubblico. Anzi, il rischio odierno è proprio quello di banalizzare la sua presenza. Capita che, tra le generazioni più giovani socializzatesi in un'epoca ad alta intensità digitale, risulti perfino difficile immaginare un tempo in cui tutta questa "interconnessione" non esisteva o non era pensabile. Ma dall' invenzione della stampa a caratteri mobili al web 2..0 il passaggio è stato relativamente repentino e le trasformazioni registrate hanno impattato tanto nei livelli macro che in quelli micro delle società contemporanee, tanto nella vita pubblica, quanto in quella quotidiana (Eisenstein, I 9 7 9 ; Dijk, I 9 9 9 ) . Da una sfera pubblica basata sulla compresenza e sulla dialogicità si passa progressivamente ad una "sfera pubblica mediata" nella quale Thompson ( I 9 9 5 , trad. it. p. 3 4 I ) individua tre sostanziali caratteristi­ che: uno « spazio non localizzato, non dialogico e aperto nel quale cir68

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colano forme simboliche accessibili a una pluralità di altri non presen­ ti » . Vediamo cosa intende. Per prima cosa, quella creata dalla stampa e dai primi media elettronici, quali radio e televisione, è una sfera "non localizzatà' perché, come abbiamo detto, non è un posto, un ambiente specifico; ciò che è pubblico si estende con questi mezzi oltre il tempo presente e lo spazio di produzione per raggiungere dimensioni presso­ ché globali. Questa peculiarità fa sì che il contenuto, sganciato dai suoi alvei di produzione, possa ottenere un' incontrollabile visibilità presso pubblici inimmaginabili, ma debba entrare di volta in volta in possesso dei riceventi mediante un processo riflessivo di significazione, ed es­ sere ricontestualizzato nei luoghi di ricezione per poterlo considerare valido. In secondo luogo, quella mediata è una sfera "non dialogica" perché tra creatori del messaggio e riceventi non sussiste un rapporto simmetrico di uguale possibilità di produzione di contenuti; tra loro non c 'è un dialogo, anche se «progressivamente si instaura un dialogo indiretto, attribuibile alla percezione che gli uni si fanno degli altri » (Sorrentino, 2oo 8a, p. 43) . Infine, la sfera descritta da Thompson è "apertà', nel senso di creativa e imprevedibile, perché i contenuti dei media non possono essere interamente definiti in anticipo. Tendono a sfuggire alla stessa organizzazione delle istituzioni mediali e sono sog­ getti a continue ridefinizioni, rimaneggiamenti che il pubblico potrà operare nel tempo e in luoghi dissimili. Ora, la riflessione di Thompson avviene in un momento in cui è la televisione il medium principale, perciò la partecipazione del pubblico al dibattito è in gran parte legata alle forme stabilite dalle istituzioni mediali: gli spazi nei talk show, gli interventi telefonici ai programmi radiofonici, la produzione di filmati amatoriali che attrae l'attenzione del sistema mediale e, al contempo, lo preoccupa. Senza dubbio le po­ tenzialità di intervento si sono ulteriormente ampliate e diversificate con la nascita di Internet e di particolari strumenti di comunicazione digitale e, se l'apertura e la delocalizzazione continuano a rappresentare dei tratti sempre più consolidati della sfera pubblica, la mancanza di dialogo tra gli attori si è fortemente ridefinita. Certo, non tutto quello che passa sul web è conversazione; in ogni caso il potenziale dialettico è sicuramente incrementato, così come sembra molto più simmetrico e negoziale il rapporto tra fonti, pubblici e istituzioni mediali. Decade ad ogni modo il carattere elitario di tale sfera, nonché la partecipazione di un ristretto numero di individui; si parla infatti dell'accesso di persone comuni - « ordinary people » (McKee, 2005,

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p. 8) - che portano alla formazione dei nuovi spazi di confronto e dunque ad un numero potenziale di impulsi generativi elevatissimo. Soggetti sempre più differenziati, sia secondo il grado di coinvolgi­ mento, il livello culturale, che il ruolo assunto (Grossi, 20 04) . Un' i­ niziativa o, più precisamente, una « costruzione sociale » ( Bagnasco, 2007, p. 99) che non necessita di particolari prerequisiti e che soprat­ tutto vede una distinzione molto più fluida tra oratori e ascoltatori ( Privitera, 2ooi). Infatti, se con il mezzo televisivo era avvenuto un ampliamento del conoscibile e la disponibilità di un numero incalcolabile di forme sim­ boliche e di significati, con l'avvento dei personal computer si sostan­ zia la capacità generativa di contenuti da parte delle audience, per poi riuscire loro stesse, autonomamente e senza l'ausilio di intermediari, ad immettere i propri contenuti nel flusso della Rete, con la nascita del World Wide Web. Anche le forme del dibattito mutano e si scelgono non più tanto sulla base di appartenenze ascritte - il luogo in cui si è nati, la famiglia d'origine, il lavoro svolto, il livello di studio conseguito ecc. - quan­ to, invece, sulla base della propria identità, mutevole e "presentificatà', esposta ad una socializzazione sempre più complessa e articolata. Un "Io" che si arricchisce dalla tensione costante con il "Me", dunque nella dimensione relazionale e collettiva dell'attore sociale. Un' identità sog­ getta a processi di continua rielaborazione, che trova negli strumenti o nelle occasioni di volta in volta disponibili forme e modalità di espres­ sione e di intervento: ci si confronta tra amici nelle case, spettatori in­ sieme di programmi televisivi, si interviene con una telefonata ad una emittente radiofonica per commentare l'intervento di un' opinionista, si partecipa con un SMS inviato ad una trasmissione televisiva in rispo­ sta ad un sondaggio, si esprime il proprio punto di vista in un forum on line o si commenta un articolo di giornale in un post su Facebook o mediante la condivisione di un tweet ricevuto. Ci si comincia quindi a riferire al concetto di "sfera" come spazio metaforico, dove le persone possono interagire, confrontarsi, scambiar­ si idee e discutere di temi di interesse comune e trovare un accordo sul­ le medesime issues, pur senza necessariamente incontrarsi fisicamente (McKee, 2005) . Spazi di confronto funzionali, talvolta complementari ai luoghi della decisione, ovvero quei contesti politico-amministrativi che abbiamo raccontato nel C A P. I e che oggi più di ieri non possono esimersi dal confrontarsi con l'opinione pubblica. 70

2.

CAMBIAMENTI

Dunque, se c 'è un modo efficace per descrivere cosa caratterizzi la sfera pubblica moderna è il venire meno di quello che Parsons (I95 I) chiamava "ordine sociale", ovvero la fine della coincidenza tra espe­ rienze soggettive e organizzazione istituzionale (Giaccardi, Magatti, 2ooi ) che si riflette prima di tutto sui processi di costruzione delle identità individuali e, parallelamente, sullo status di cittadinanza. Nelle società tradizionali, infatti, l' imprevedibilità della propria bio­ grafia era in parte mitigata dalle poche, ma indissolubili, certezze che l' individuo trovava esternamente : la famiglia, la religione, il partito, la scuola, la scienza, ovvero quelle agenzie di socializzazione che ac­ compagnavano la crescita e l'affermazione dell' individuo, per il quale rappresentavano importanti fonti di sicurezza e di moralità (Bauman, I999 ). Nella modernità si assiste invece ad una erosione dei sistemi di potere un tempo dominanti. Si frammentano i quadri di riferimento tradizionali, perdono l'unicità che avevano nell'esperienza soggettiva: sono sempre meno in grado di fornire valori o riferimenti simbolici unificanti e le certezze di cui le agenzie sopracitate si facevano por­ tatrici non rispondono efficacemente alla complessità delle domande e alla loro mutevolezza nel presente. Scriveva Bauman (ivi, trad. it. p. 85): « la voce del Papa si sovrappone a quella della rockstar; i mes­ saggi del Presidente della Repubblica si confondono con il gossip dei rotocalchi, la babele culturale che si viene così a determinare produce quella cultura del frammento, del patchwork, del quotidiano, celebrata dal postmodernismo, che fa della mancanza di ordine e coerenza la propria bandiera » . I punti di riferimento non spariscono, anzi, si moltiplicano, e ciascun individuo avverte quella che Arendt (I9 58) ha efficacemente definito "tirannia delle possibilità": in mancanza di un ordine sociale esterno a cui conformarsi o di ideali superiori ai quali rispondere con il mantenimento di una determinata condotta di vita (Leccardi, I999 ) , ognuno diviene agente morale d i s e stesso (Bauman, I999 ) ; a i singo­ li attori spetta il compito di scegliere per agire, selezionare, valutare e fronteggiare così l' incertezza della propria biografia, cercando un or­ dine nel caos di esperienze frammentate e, spesso, incoerenti. La prima conseguenza è dunque di tipo individuale e soggettivo. Come scriveva Gergen (I99I), il senso del sé, che potevamo considerare relativamente coerente e unificato nelle culture tradizionali, lascia il posto a sé multi­ pli e competitivi e ciascuno si muove oggi attraverso forme del proprio essere mobili e diversificate. 7I

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Inoltre, se in passato la disorganizzazione dell'esperienza soggetti­ va, al di là delle frustrazioni e delle incongruenze individuali, trovava un limite nell'organizzazione istituzionale e quindi una risposta nella dimensione collettiva, oggi l'alterità stessa è moltiplicazione del pos­ sibile, repertorio vasto a cui accedere, ma anche fonte di dubbi e in­ certezze. Ciò si riflette anche sull'esperienza istituzionale di ciascuno, dove gli spazi, un tempo sorgenti della certezza e delle risposte, diven­ gono aperti alla negoziazione, luoghi di proliferazione delle domande. Evidente l'ambivalenza che ne consegue: l' indebolimento delle forme di dominio politico-burocratiche da un lato aumenta la condizione di incertezza e rimanda al mittente gran parte delle questioni aper­ te, dall'altro consente l'emergere di un confronto più allargato, di un ambito pubblico discorsivo, di forme di democrazie deliberative, più rispondenti alle esigenze della tarda modernità. Sollecitati dai cambiamenti descritti, tre sembrano gli elementi chiave di quest'ultima che tendono a riproporsi costantemente, come risulterà più chiaro, anche nel rapporto tra cittadini e istituzioni: una maggiore differenziazione, una maggiore interdipendenza, una mag­ giore necessità di informazioni. I . Maggiore differenziazione. La complessità sociale è stata collegata, a partire dal funzionalismo di Parsons ( I 9 7 8 ) , proprio alla differenzia­ zione funzionale della società: più i sottoinsiemi crescono, più si tende a specializzarsi e a differenziarsi. Ciò si traduce, a livello individuale, in un ampliamento delle esperienze soggettive che, sommato alla perce­ zione dell'allargamento del "possibile': porta gli individui a scoprirsi diversi rispetto a ieri e rispetto agli altri. All' interno della cittadinanza i bisogni e, dunque, le domande che si rivolgono alle istituzioni non sono più riconducibili a ruoli sociali ascritti o a categorie classiche, quali l'età, il genere, il livello di studio ecc., né possono essere cristallizzati in appartenenze che avevano avu­ to, sì, una parte importante nelle società tradizionali, ma che oggi non sono più sufficienti per descrivere la dimensione sociale di alcun sog­ getto. Il cittadino, dunque, appare oggi un attore dalla forte capacità trasformativa, sia nei confronti della propria biografia, sia delle sfere in cui si trova ad agire. Così, da un lato la differenziazione porta ad un ampliamento e una progressiva specializzazione dei compiti dello Stato ( Mancini, 20 03), dall'altro matura nella cittadinanza la consape­ volezza dei propri diritti, nonché del modo in cui si possono esercitare (Ardigò, I 9 8 9 ) . 72

2.

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2. Maggiore interdipendenza. Da un lato, la progressiva divisione del lavoro e la parcellizzazione delle attività produttive portano l'attore sociale a specializzare le proprie competenze e ad una maggiore indi­ vidualizzazione, dali 'altro lo sottopongono ad un crescente bisogno di legami per il raggiungimento di finalità personali e collettive. Acquista dunque rilevanza la dimensione relazionale, una vera e propria risorsa a disposizione del soggetto agente, un "capitale sociale"3, da più stu­ diosi teorizzato - spesso incontrando non poche divergenze e ambi­ guità - come quella risorsa immateriale caratteristica delle rete sociale postmoderna ( Bourdieu, I 9 8 o ; Coleman, I990; Putnam, I993; Grano­ vetter, I973; Mutti, I998; Cartocci, 200 2; 2007 ) : « Il capitale sociale è l' insieme delle risorse attuali o potenziali che sono legate al possesso di una rete durevole di relazioni più o meno istituzionalizzate d' intercono­ scenza e d' inter-riconoscimento o, in altri termini, all'appartenenza a un gruppo, inteso come insieme di agenti che non sono soltanto dotati di proprietà comuni [ ] ma sono anche uniti da legami permanenti e utili » ( Bourdieu, I98o, p. 2) . La metafora della rete è di frequente impiegata per descrivere le nuove forme assunte dalla cittadinanza: sistemi di interconnessione dinamici, mutevoli, in cui ciascuna parte è unita alle altre, ma in modo meno sistematico e duraturo rispetto a quanto svolto dai ruoli ( Bagnasco, 2007) . Reti che « combinando l'azione autonoma di una pluralità di soggetti in grado di valutare al meglio le possibilità concretamente presenti in una data situazio­ ne, riescono a ottenere prestazioni più elevate. In particolare, oggi si è convinti che le reti siano più capaci di adattarsi e di riconfigurarsi rispetto alla variabilità dell'ambiente » ( Sennett, I 9 98, trad. it. p. 22) . L' interdipendenza allora è quella condizione nella quale l' individuo è meno "autosufficiente" - perché gran parte del soddisfacimento dei suoi bisogni dipende da altri - ma più "ricco" se riesce a "capitalizzare" la rete relazionale a cui appartiene. Pertanto, se nei sistemi burocratici il modello organizzativo domi­ nante era quello della piramide, nella quale tanto le relazioni quanto gli scambi comunicativi seguivano le stesse logiche gerarchiche - chi stava alla base non aveva scambi con il vertice, che decideva, in maniera discrezionale, quali informazioni dare di sé, mantenendo un controllo ...

3· Sarà possibile avere una panoramica sul tema del capitale sociale dalla lettura dei seguenti testi: Bagnasco et al (2002); Golinelli, La Rosa, Scidà (2oo6); Cartocci (2007 ) .

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autoritario sulla conoscenza degli altri soggetti -, in sistemi intercon­ nessi e interdipendenti la rete si configura come policentrica e a geo­ metria variabile. La rappresentazione concettuale, che può esprimere meglio una tale società, è quella che rende conto della compresenza di più "centri" e di più soggetti diversi che interagiscono mantenendo la loro diversità, e non quella tendente a esprimere una collettività omogenea, i cui appartenenti sono definiti vinco­ lati da ciò che hanno in comune. Per questo motivo, la società contemporanea dovrebbe essere definita come decentralizzata e inclusiva (Messeri, Ruggeri, 2000, p. 33).

Un sistema reticolare che consente sia il confronto tra le varie unità che lo compongono (Morin, I 977) , sia l'apertura ad altri sistemi re­ ticolari. Infatti, la rete - con la "r" minuscola - incontrerà la Rete, il web e il web 2.0, la metafora troverà nuovi impulsi legittimanti e l'approdo ad una vera e proprio teoria della network society ( Castells, I 9 9 6 ; 2009) . 3 · Maggiore necessità di informazioni. Veniamo, infine, alla terza

caratteristica anticipata. Innanzi tutto, « una partecipazione signifi­ cativa al processo democratico richiede partecipanti informati. La segretezza riduce le informazioni disponibili ai cittadini, inibendo le loro capacità di partecipare significativamente » (Stiglitz, 2003, trad. it. P· I S 7) . Se il potere assoluto reclamava il diritto al segreto e alla insinda­ cabilità delle scelte, il potere moderno si basa invece sulle regole della pubblicità, della trasparenza (Cavallo, 20I2) e del render conto. Ormai dovrebbe essere chiaro come la sovrabbondanza di relazioni e interconnessioni in cui l'uomo moderno è inserito possa portare ad una situazione di eccesso di possibilità e, conseguentemente, ad una continua fonte di incertezze. I valori si differenziano, le esperienze si moltiplicano e il quadro valoriale di riferimento si compone di tanti frammenti, non sempre coerenti tra loro. Si impone dunque una scelta. Dice Giddens (I990) che non si ha altra scelta che scegliere ed è per questo che divengono centrali risorse quali la conoscenza, l' informa­ zione. Troviamo ben spiegati questi processi in Luhmann ( I 9 84) che sottolinea come l'aumento dei sottosistemi nei quali si articolano le società contemporanee vadano di pari passo ali' infittirsi delle relazioni e delle interconnessioni; ciò crea, da un lato, un bisogno continuo di comunicazione tra sottosistemi e tra cittadini e istituzioni, dall'altro 74

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una situazione di ricchezza di flussi comunicativi, diretti e mediati, che accelerano l' immaginazione individuale. È quanto mai evidente che « se il tessuto sociale è fatto di una rete di relazioni differenziate e di una pluralità di interessi, il raggiungimento dell'unità può essere soltanto il risultato di scambi, di comunicazione, di mediazioni » (Melucci, I9 99, p. I 3 2 ) . La disponibilità di informa­ zioni e il loro reperimento divengono quindi condizioni necessarie per l' individuo moderno : per muoversi, agire, scegliere, relazionarsi con gli altri, difendere i propri diritti. Reti informative che lo mettano in condizione di conoscere le nuove funzioni, settoriali, frammentate, di­ slocate, dei vari sottosistemi che compongono l'azione statale. Come affermava Schutz ( I972 ) , la complessità sociale necessita di cittadini ben informati, la cui conoscenza non sia soltanto frutto dell'e­ sperienza diretta - o mediata, frutto di appartenenze a gruppi, comu­ nità o culture specifiche - ma anche di sistemi complessi, per quanto molto distanti e più difficili da controllare. Le interconnessioni saran­ no possibili nella misura in cui i singoli individui che partecipano alla condivisione informativa raggiungono un accordo, ovvero sono dispo­ sti a negoziare i significati che loro stessi apprendono e reintroducono nel sistema informativo. « I legami sociali sono dunque sempre più il ri­ sultato di patti che siamo in grado di stipulare » (Mancini, I 9 9 6, p. I 3 3 ) . Un costante processo di negoziazione, dunque, e di revisione continua del proprio bagaglio informativo, grazie ali' acquisizione di significati sempre nuovi, in base ai quali l'attore sociale orienterà il proprio agire e svii upperà riflessivi tà ( G iddens, I 9 9 I ) . Quindi, riprendendo le tre caratteristiche menzionate, sussiste evidentemente una stretta correlazione tra la differenziazione sociale e funzionale della tarda modernità, l' interdipendenza, individuale e si­ stemica, e il crescente bisogno di informazioni. Un bisogno, quest'ul­ timo, che assume quasi un significato paradossale, in un contesto di sovrabbondanza e di sovraccarico informativo; infatti, più che di ul­ teriori "quantità'' di informazioni, nella sfera pubblica mediatizzata si necessita di "qualità'' informativa e di criteri che guidino la ricerca di materiale informativo attendibile e utile. In passato, nelle società tradizionali, l'esistenza di criteri universa­ lizzanti, quali la fede religiosa, la politica, le condizioni di vita stesse, dettava agli individui principi e parametri di scelta. Nel momento in cui i legami sociali si allentano e i centri di riferimento si pluralizzano, cresce l' individualizzazione, quel processo che Bauman ( 2ooo ) ritiene 75

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI essere l'emblema della modernità liquida. Individualizzazione non si­ gnifica atomizzazione (Giaccardi, Magatti, 2ooi), ma rimanda a quel fenomeno di costruzione identitaria, nel quale il soggetto si apre al con­ fronto con gli altri e al mondo esterno. Come fa notare Sorrentino (2oo 8a) , ben diverso è questo processo da quello più frequentemente evocato nel linguaggio comune, ovvero l' individualismo. Quest 'ultimo, « specialmente nella cultura italiana, è connotato da una visione negativa, perché sottolinea la chiusura dell' individuo dai propri interessi (egoismo), sulla centralità del proprio io (narci­ sismo) , che favorisce l'adesione ad un sistema di riferimento molto ristretto ( familismo) » (ivi, p. I 9) . L' individualizzazione è pratica­ mente, secondo tale concezione, il percorso inverso che un soggetto può compiere: anziché chiudersi in se stesso e nelle poche indissolu­ bili certezze che gli restano, ancorato alle memorie del passato, egli può aprirsi ali 'Altro, negoziare i propri punti di vista, socializzarsi in più ambienti contemporaneamente, cogliere nella varietà dei mondi con cui entra in contatto materiali identitari e di costruzione del Sé (Melucci, 2oooa) . Si esprime così « l'esigenza di superare la logica che coniuga altrui­ smiprivati ed egoismi pubblici » (Morcellini, Mazza, 2008, p. I 2) , favo­ rendo l'affermazione di una cultura civile e relazionale, per introdurre nel quotidiano pratiche cooperative capaci di traghettare l' individuo « oltre l' individualismo » (ibid.) . D 'altronde, la stessa nozione di capitale sociale, che abbiamo ricor­ dato poco sopra, non immagina l' individuo chiuso nella morsa delle relazioni esclusivamente personali (Putnam, I 99 3), bensì in un « reti­ colo di relazioni cooperative (ascritte e acquisite, formali e informali, inclusive ed esclusive), retto da fiducia e norme di reciprocità » (Mutti, 2003, P· S I S ) . Così, la nuova agora, popolata da un numero crescente di attori, richiama l'esigenza da parte di ciascun soggetto di stabilire relazioni, saper interagire con altri individui e muoversi con maggiore com­ petenza e consapevolezza nei vari sistemi che compongono la sfera pubblica. Alle amministrazioni spetta ora un duplice lavoro: da un lato, co­ me vedremo, ripensare le proprie logiche relazionali e comunicative, dali' altro i mparare a dialogare e gestire una cittadinanza profondamen­ te mutata.

2.

CAMBIAMENTI

2 .3 Quale cittadinanza ?

La cittadinanza è una categoria concettuale che ha una natura al con­ tempo giuridico-normativa, amministrativa, sociale, culturale, politica e identitaria. Dunque risente dei cambiamenti che avvengono a ciascu­ no di questi livelli che andranno ad influenzarne ora gli aspetti defi­ nitori più profondi - si pensi ad esempio a tutto il dibattito tutt'oggi ben presente nella discussione pubblica tra ius solis e ius sanguinis -, ora le modalità di esercizio; un concetto che perciò va messo in relazione con il tempo presente e con la storia passata del paese e del suo modo di intendere il binomio Stato/ società civile. Solitamente la categoria della cittadinanza viene ricondotta al contributo di Marshall (I950 ; I 9 6 s ), sociologo inglese che tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento elabora un modello articolato su tre tipi di diritti che rappresentano il presupposto affinché si affermi la cittadinanza: diritti civili, politici e sociali. Tra i primi rientrano quei diritti necessari alla libertà individuale, ovvero la libertà personale, di pensiero e di parola, di fede ecc.; i diritti politici, invece, si riconducono alla possibilità di partecipare all'esercizio del potere politico, sia come elettore, scegliendo chi dovrà esercitare tale potere, sia come sogget­ to dotato di autorità politica. Infine i diritti sociali, che introducono le dimensioni del benessere e della qualità della vita del cittadino, la "pienezza" di una vita sociale, la sicurezza economica. Tra questi ul­ timi diritti, è stato a posteriori collocato il riconoscimento del diritto alla informazione (Ardigò, I 9 9 0 ) , nella triplice accezione di diritto di informare - ovvero di diffondere informazioni -, di informarsi - dun­ que di cercare informazioni - e di essere informato - che si traduce nel dovere di soggetti altri, tra cui le PPAA, di informare ( Grandi, 2007) . Da questi pilastri concettuali sono derivati numerosi studi e con­ tributi, che hanno tendenzialmente letto tanto il lavoro di Marshall quanto l'evoluzione del concetto alla luce della sfera giuridica. In realtà, abbandonando una chiave di lettura eminentemente normativa, approcci più recenti hanno avvertito l'esigenza di trattare altre dimensioni della cittadinanza, soprattutto in risposta a due grandi fattori di cambiamento : il primo riguarda la natura cosmopolita delle odierne società, anche a seguito dei grandi flussi migratori che portano ad interrogarsi sia su chi, e secondo quali criteri, possa essere considera­ to "cittadino" o "non cittadino" - dunque cercando di nuovo risposte 77

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI in una lettura giuridica della questione -, sia su quali sono le chance di partecipazione attiva alla vita collettiva. Il secondo fattore possiamo ricondurlo all'avvento delle nuove tecnologie e, soprattutto, di Inter­ net, un nuovo ambiente che sta contribuendo alla ridefinizione delle modalità di esercizio della cittadinanza, ponendo la questione delle forme partecipative e le potenzialità di contribuire significativamente al dibattito pubblico e al perseguimento di interessi collettivi. In tal senso, emerge la dimensione culturale della cittadinanza ( Ceccarini, 20 IS ) , come complemento della tripartizione di Marshall, che mette in primo piano l'aspetto di condivisione, comunicazione e interven­ to. « La cittadinanza, quindi, non è riassunta esclusivamente dalla dimensione formale dei diritti. Ma diventa in questa prospettiva una questione di comunicazione e di partecipazione: sentirsi parte di una comunità politica » 4 ( ivi, p. 64) . Si parla da qualche tempo di una af Jective citizenship, che viene ricondotta a quelle forme di mobilitazione mosse da sentimenti di appartenenza civica e di solidarietà ( Coleman, Blumler, 2009) . Si tratta di un' interpretazione che amplia - e per certi versi capo­ volge - la visione tradizionale. Infatti, guardando brevemente al pas­ sato, potremmo dire che tradizionalmente la cittadinanza ha avuto un carattere contrappositivo nei confronti del potere, come sintetizza Arena (2o o 6, p. 3 ) : « quando è nata, l'amministrazione era al servizio del re, non dei sudditi. Non bisogna quindi stupirsi se fin dalle origini il rapporto fra amministrazioni pubbliche e cittadini è stato fondato sulla separazione e sulla contrapposizione » . È così che il paradigma dominante ha visto amministrazioni e cittadini come due poli separati e contrapposti e anche quando l' immagine di sudditi, asserviti al pote­ re, è stata scalzata da quella di cittadini, consapevoli dei propri diritti, ha prevalso una concezione "passiva" del cittadino - utente, ammini­ strato, assistito, cliente o paziente. Infatti, a rafforzare tale paradigma è emersa la convinzione che l'allentamento dei legami ideologici e di appartenenza, che sostenevano la democrazia dei partiti, abbia portato ad un declino della vita civile e ad un impoverimento della categoria della cittadinanza stessa. In realtà, come spiega Ceccarini (20I5) , con le 4· Riprenderemo il discorso sulle tecnologie digitali e sulle forme di parteci­ pazione, così come di esclusione dei cittadini dal dibattito pubblico. Infatti, è bene premettere che l'avvento dei nuovi media non porta al superamento di ogni limite oggettivo alla partecipazione, ma, superando i limiti tradizionali, ne crea di nuovi.

2. CAMBIAMENTI trasformazioni portate dalla new politic, dal declino dei partiti politici tradizionali e dalla nascita di partiti single issues, la cittadinanza, più che indebolita, ne è uscita ridefinita e i soggetti, svincolati dai legami tradizionali, trovano forme più individualizzate di partecipazione e probabilmente più "creative". Così, al termine "cittadino" sono stati aggiunti nel tempo svariati attributi ma lo scopo è sempre quello di rispondere alla domanda, an­ nosa e ricorrente: quando si è cittadini ? Ovvero, quali sono le condi­ zioni che dettano tale status ? Sembra fornire una risposta con una certa radicalità De Leonardis ( I998 ) : la cittadinanza è tale quando e nella misura in cui viene eserci­ tata. Non una condizione "naturale" dunque, bensì una partecipazione effettiva che può assumere varie forme: dalla partecipazione elettorale, che coinvolge periodicamente il cittadino-elettore, al farsi quotidia­ no della politica, passando per vari gradi e livelli di "attivismo". Come suggerisce Dahlgren ( 2009 ) , la cittadinanza può essere vista, più che in termini di status acquisitivo (received citizenship ) , come un agire sociale in quanto cittadino che si attiva per essere tale (achieved citizenship ) . Pertanto, le caratteristiche che occorrono agli individui per svolge­ re il ruolo di cittadini non si riconducono esclusivamente alla sfera dei diritti e dei doveri, bensì all'uso discorsivo della ragione per definire e costruire, in ciascuna diversa situazione sociale, cittadinanza (Messeri, in Messeri, Ruggeri, 2000 ) Acquista importanza la dimensione cogni­ tiva della cittadinanza che stacca il cittadino dai luoghi e dalle forme di impegno tradizionali: un attivismo più episodico, disintermediato, basato su singole tematiche o singoli eventi, che trova nella Rete forme di partecipazione non convenzionali ( Ceccarini, 20 I s ). Sebbene torneremo più avanti sul tema, ci sollecita una riflessione meritevole di essere qui anticipata. Se uno dei criteri adottati per essere considerati cittadini è l'esercizio "attivo" della propria condizione, si potrebbe supporre l'esistenza di una cittadinanza "passivà', inerme e inerte, disinteressata o rinunciataria. Oppure una condizione di pas­ sività che derivi dalla incapacità di formarsi autonomamente un'opi­ nione e di esprimerla pubblicamente, come potremmo dedurre dalla definizione di "cittadino educato" di Sciolla ( 200 4 ) : non soltanto un .

s. Con l'espressione "partito single issue" si intende quella formazione politica nata intorno ad un tema centrale, dominante. L'esempio più evidente è quello dei partiti di matrice ecologista e ambientale.

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COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI cittadino civico, che conosce le regole di buona educazione, del vivere pubblico e della convivenza, bensì un cittadino disposto a cooperare, con forme e gradi diversi, e che per farlo si tiene bene informato. La questione, tuttavia, non è tanto - o non solo - di chi « sta den­ tro » o di chi « sta fuori » , « dell'essere o non essere detentori di diritti di cittadinanza, ma della quantità, della qualità, della specificità di que­ sti diritti » ( Zincone, I 9 9 2, p. 9 ) . Dunque, delle opportunità concrete di partecipare, di interagire e soddisfare così dei bisogni fondamentali dell' individuo; lavoro che lega imprescindibilmente l'attivismo della cittadinanza alla qualità e al proattivismo delle istituzioni. Ma perché il cittadino dovrebbe poi partecipare ? Cosa lo spinge ? L' intervento nella sfera pubblica, se in passato era dettato dali'esi­ genza di tutelare i propri interessi, oggi non sempre, o non solo, trova risposta nella necessità di acquisire dei vantaggi concreti. Come scrive­ va Putnam ( I 9 9 3, trad. it. p. I 0 3 ) , « i cittadini di una comunità civica, sebbene non siano la quintessenza dell'altruismo, vedono la realtà co­ mune come qualcosa di più di un campo di battaglia dove si lotti solo per ottenere vantaggi personali » . Innanzi tutto perché l'atto partecipative può condurre a benefici, individuali o collettivi, che non riguardano esclusivamente la sfera etica e razionale del soggetto agente - quella che Pizzorno (2ooi) chiama della ratio e della veritas - bensì vantaggi emotivi e irrazionali. La sfera pubblica diviene in quest'ottica il terreno del confronto identitarie, della negoziazione e le dinamiche di opinione acquisiscono una natura emotiva e simbolica, in passato sacrificata o, comunque, scarsamente riconosciuta. E ritorna l' idea della « affective citizenship» ( Ceccarini, 20IS, p. 30 ) , nella quale sono i meccanismi di identificazione ad attivare processi di integrazione, a rafforzare le dinamiche della solidarietà, ad intraprendere azioni sociali. Tra questi "nuovi" bisogni - che poi, in questa lettura, tanto nuovi non sono - dobbiamo aggiungere la soddisfazione del senso di appartenenza alla collettività che, come sottolinea Noelle-Neumann ( I 9 84 ) , consente a ciascun individuo di superare la paura dell' isola­ mento. Infatti, a cambiare è la stessa idea di "comunità'', nella quale gli individui sentono il bisogno di integrarsi e di creare, intorno a loro stessi, consenso e legittimazione : uno spazio "mobile" « nel qua­ le la partecipazione vuole dire "prender parte ma anche far parte", cioè riconoscere di appartenere ad un sistema ed identificarsi con gli interessi generali della comunità » ( Bertelo, 20 05, p. 3 3 ) . Molti po8o

2. CAMBIAMENTI trebbero essere gli esempi da citare ed è sotto gli occhi di tutti quanto i media sociali abbiano reso disponibili e possibili forme di apparte­ nenza più fragili, ma anche "brevi" e mutevoli rispetto al passato: se prima i gruppi sociali che consentivano all' individuo di provare la piacevole sensazione dell'appartenenza erano fortemente struttura­ ti, spesso chiusi e accompagnavano l' individuo lungo gran parte del suo percorso di vita, oggi è più giusto pensare a quelle che Bauman (20 0 3 , p. 33) ha definito "comunità guardaroba": « quelle comunità che prendono corpo, anche solo in apparenza, quando si appendono in guardaroba i problemi individuali, come i cappotti o i giacconi quando si va a teatro » . L'occasione può essere fornita da eventi di vario genere: un fatto di cronaca, una scelta politica, un commento ad una dichiarazione di un personaggio noto. E la life-politic ( Gid­ dens, I 9 9 0) sperimenta modalità e linguaggi diversi proprio grazie alle opportunità offerte dalla Rete e dal web 2.0. Vengono in mente i ripetuti fenomeni di esplicitazione del proprio senso di vicinanza e di identificazione tradotti nell'efficace formula del "Je suis", avviata dopo l'attacco terroristico alla redazione della rivista satirica "Char­ lie Hebdo" con la pubblicazione su milioni di bacheche Facebook dell'etichetta «]e suis Charlie » e riprodotta, in serie, per i numerosi attentati successivi e per altri fatti di cronaca. In conseguenza di eventi simili ci si sente accomunati ad altri, per un arco di tempo più o meno prolungato, con maggiore o minore spi­ rito di vicinanza e di condivisione. E con la stessa facilità con cui que­ ste forme partecipative e di appartenenza prendono sostanza, anche dopo un tempo relativamente breve, sono capaci di dissolversi. È stata sufficiente la pubblicazione di vignette, dal coerente quanto grottesco e cinico sapore, sulle conseguenze del sisma in Italia da parte della me­ desima rivista, per far venire meno tante di quelle appartenenze poco prima dichiarate mediante la formula «]e suis Charlie » . Ciò che sembra premiare la partecipazione della società civile non è la robustezza di quel legame o la sua durevolezza; è quel senso di "in­ clusione" che da un lato significa accettazione - e vale soprattutto per i nuovi membri che chiedono di far parte di una comunità esistente -, dall'altro indica il riconoscimento, ossia l'accettazione dei fattori di somiglianza e di differenza di ciascun componente della società civile (Messeri, in Messeri, Ruggeri, 2000 ) . Non dobbiamo difatti dimen­ ticare che il cittadino del XXI secolo sarà forse molto meno « santo» rispetto ali' idealtipo di Habermas, meno informato e partecipe, ma per 8I

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI questo non meno attento o "monitorante" ( Schudson, I999 ) , anche grazie alla sua esposizione ai media nuovi e digitali che gli consentono di esprimere il proprio consenso o dissenso sulle questioni che lo inte­ ressano ( Bechelloni, 2004) . Molto su questo terreno possono e debbono fare le P PA A per intra­ prendere azioni positive e di sostegno alla inclusione della cittadinanza, in un'ottica che tuttavia non definisca la relazione entro i perimetri di una politica assistenziale, bensì in un riconoscimento mirato all' intesa e alla "scoperta" di quelle potenzialità provenienti dalla società civi­ le. Una visione programmatica, che comporta impegno e una visione maggiormente intraprendente delle P PAA, soprattutto nella dimensio­ ne culturale. È quindi rilevante riflettere su un insieme di possibili azioni istituzionali

riguardanti la formazione culturale degli individui. Questo, infatti, appare l'aspetto più denso di implicazioni per quanto riguarda sia i rapporti fra am­ ministrazioni pubbliche e società che le condizioni dello sviluppo della comu­ nicazione mirata all' intesa (ivi, p. 59).

2.4 Territori "ibridi"

In un saggio di qualche anno fa, Arena (2o o 6) indicava una via per la gestione della complessità e della differenziazione a cui stiamo assisten­ do e intitolava uno dei suoi paragrafi « la soluzione sta nell'allearsi » ( ivi, p. 8I). Egli intendeva sostenere che nei sistemi reticolari - come li abbiamo già in precedenza definiti -, dove ogni snodo, ogni soggetto è portatore di interessi specifici e può attivare relazioni pressoché infi­ nite, è necessario riconoscere il valore di una "autonomia relazionale". Un'autonomia grazie alla quale il singolo soggetto non perde identità ma, anzi, si arricchisce e a sua volta rende ricca la rete in cui egli è in­ serito e proficui gli scambi che intrattiene. Ma nello stesso tempo egli ha bisogno della rete per il raggiungimento degli interessi che lo acco­ munano agli altri e soltanto grazie ad alleanze vantaggiose l' interesse generale potrà essere perseguito. Lo stesso Bourdieu ( I 9 8 o) definiva la rete come un prodotto di strategie d' investimento sociale, finalizzate alla creazione di relazioni direttamente utilizzabili per ottenere vantag­ gi a breve o a lungo termine.

2. CAMBIAMENTI Infatti è proprio grazie ali' autonomia relazionale che ogni soggetto contem­ poraneamente riceve e dà qualcosa agli altri, in uno scambio che consente di soddisfare le proprie esigenze mediante l'apertura verso gli altri (ivi, p. 84).

Ora, ci piace l' idea di impiegare la definizione appena data di autono­ mia relazionale non solo per spiegare il rapporto tra cittadini e istitu­ zioni all' interno di un'amministrazione condivisa, secondo l'uso che ne fa lo stesso Arena, ma estenderla a quella fitta rete di rapporti che nasce e si evolve intorno all'azione dello Stato. Ciò va incontro a quella "cultura del cambiamento" (Solito, 20IO) capace di approdare a quella che Rolando (20I4) chiama « terza am­ ministrazione » , « fatta di segmenti minori, nuovi, magari appiccicati, spesso anche precari. Ma alla fine tutti orientati a suturare l' ineludibile bisogno di relazione, di contatto, di scambio, di condivisione, tra isti­ tuzione e società » ( ivi, p. 7 5 ) . L'autonomia relazionale trova quindi un nesso nella dimensione pubblica che non si esaurisce nell'azione statale, ma che si avvale della partecipazione di un ampio spettro di soggetti, pubblici, semipubblici e privati. Difatti « il terreno concettuale del "dibattito pubblico" che ci sta attorno fa agire e interagire molti soggetti, promuove cambiamen­ ti percettivi e di comportamento, connette politica, amministrazioni, imprese, soggetti sociali e culturali, scorrendo non solo sui media ma sempre più anche in un territorio di diretta interazione con i cittadi­ ni » ( Rolando, 20iob, p. xxn) . Si concretizza quella che Latour (I99I) definiva "proliferazione degli ibridi": le imprese interferiscono con la politica, mentre la PA entra nel mercato; il globale controlla il locale e quest'ultimo cerca di sovvertire il globale; i cittadini si fanno clienti, gli impiegati diventano cittadini economici, le persone si scambiano informazioni private in luoghi pubblici, con un privato che si pubbli­ cizza e un pubblico che si privatizza. Germinano, quindi, esperienze maggiormente ibride di cura della cosa pubblica e si fanno strada tendenze alla ibridazione del manage­ ment pubblico. Il concetto di hybridization, nonostante sia utilizzato a proposito di svariati fenomeni sociali, applicato al campo delle organizzazioni pubbliche trova spazio oramai in una folta produzione scientifica, so­ prattutto internazionale e ancor più nordeuropea - Svezia, Norvegia, Finlandia -, in quei contributi che si situano al crocevia di tre distinti ambiti di cambiamento: il settore pubblico e le amministrazioni cen-

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI trali e locali in chiave relazionale ( Kickert, 200I; Gittel, Douglass, 20I2; Skelcher, 20I2; Emery, Giauque, 20I4; Denis, Ferlie, Van Gestel, 20IS; Fossest0l et al. , 20IS ) ; l'associazionismo non profit e il terzo set­ tore dove è largamente impiegato ( Billis, 20IO; Smith, 20IO ) ; il mondo d' impresa, il management e, in particolare, la grande distribuzione, da dove probabilmente ha tratto origine verso la fine degli anni Ottanta ( Powell, I 9 87; Mitronen, 2002; Mitronen, Moller, 2003 ) . In Italia tro­ va spazio in una letteratura per lo più economico-aziendale o manage­ riale d' impresa, mentre ben più ridotti sono i casi in cui si osserva la questione dal punto di vista delle PPAA. Tuttavia, poiché anche il sistema pubblico italiano non è rimasto completamente esente da processi di ibridazione e poiché questi met­ tono in campo aspetti importanti sotto il punto di vista comunicati­ vo e relazionale, è bene soffermarsi su questo aspetto e comprenderlo meglio. Letteralmente, con "ibrido" intendiamo riferirei alla qualità di un fenomeno, risultante dalla commistione di elementi diversi, provenien­ ti da ambiti e logiche dissimili: un'associazione di due o più elementi, talvolta discordanti, in ogni caso caratterizzati dalla natura differente. Nel nostro campo ci riferiamo a quelle organizzazioni che nascono dal­ la intersezione di due sfere distinte, quella pubblica e quella privata, come se la nostra imbarcazione potesse avanzare ora grazie alle vele spinte del vento, ora grazie ai motori. La connotazione ibridata delle amministrazioni può riguardare ora una dimensione p rettamente giuridica, per cui possiamo parlare di enti pubblici ibridi, perché hanno privatizzato alcune funzioni, o di sogget­ ti privati ibridi, che hanno intrapreso azioni in campi eminentemente pubblici. Ma può riguardare anche il grado di "aziendalizzazione" del settore pubblico, rintracciabile nelle modalità di gestione dei beni col­ lettivi o nel modo di concepire i propri output o, ancora, le modalità di organizzazione delle risorse umane ecc. In tali circostanze ad essere ibridate, più che la natura e la forma giuridica istituzionale, sono le logiche organizzative e produttive, le culture di appartenenza e le di­ mensioni relazionali, interne ed esterne alla PA. Le motivazioni che portano alla costruzione di una partnership tra pubblico e privato ci sembrano riconducibili, anche sulla scia delle ri­ flessioni di Borgonovi ( I996 ) , a tre ordini diversi: I. l'erogazione di servizi: si tratta di un'azione collaborativa che con­ siste nella messa in comune di risorse - cioè finanze e beni strumentali,

2. CAMBIAMENTI ma anche risorse umane, infrastrutture, reti di relazione con il territorio ecc. - per la produzione ed erogazione di servizi pubblici. Negli ultimi anni questa motivazione ha per lo più sollecitato reti di collaborazione pubblico/pubblico, come nel caso delle Unioni di comuni, o pubblico/ privato, nel caso degli sportelli unici e polifunzionali; 2. l'accesso a risorse esterne: in larga misura sollecitato da soggetti pri­ vati, questo tipo di collaborazione vede il costituirsi di una rete per un fine specifico, ossia l' ottenimento di risorse soprattutto economiche e per lo più pubbliche, al termine del quale il partenariato può anche dissolversi. Una collaborazione che può essere una condizione detta­ ta dal soggetto terzo, erogatore delle risorse - ad esempio l' Unione Europea -, che quindi va difficilmente a intaccare le logiche organiz­ zative dei partecipanti, nata dunque da un opportunismo condiviso. In questo caso i soggetti pubblici e privati che vi partecipano sono in competizione con altrettanti partner ibridi e figureranno come privi­ legiate quelle reti nelle quali non ci si limita ad un accordo formale, tra persone giuridiche diverse, ma si coinvolgono i diversi know-how di cui ciascuno è titolare; 3 · le attività di policy making: ovvero quei casi in cui l'attuazione di politiche comporta l' ingresso in aree di competenza o territori di "pro­ prietà" di altri soggetti. L' ibridazione è qui una condizione necessaria per il superamento di ostacoli oggettivi e si sostanzia nella messa in comune delle rispettive autorità politiche. Sono un esempio i casi di partenariati per la realizzazione di grandi opere, che impattano sulle diverse autorità territoriali o giurisdizioni. Ciascuna delle precedenti occasioni, tuttavia, non realizza inevi­ tabilmente una ibridazione organizzativa: dobbiamo a nostro avviso distinguere tra una m era associazione di scopi, che porta, sì, alla valoriz­ zazione delle reciproche identità - pubbliche e private - ma che non ri­ chiede un particolare coinvolgimento o revisione delle proprie logiche fondanti, e l'avvio di processi di vera e propria ibridazione, che implica­ no compromessi e negoziazioni molto più profondi. Questi vanno ad intaccare tanto gli aspetti strutturali - « structural hybridity » (Denis, Ferlie, Van Gestel, 20I5, p. 275) - quanto i valori, le norme, le culture sia del pubblico che del privato e presuppongono un percorso di progressi­ va comprensione reciproca e integrazione. Gli studi che si soffermano su questi secondi aspetti, più che affrontare le risultanti del fenomeno di ibridazione - dunque gli aspetti strutturali caratteristici, quali le gerarchie, le reti di relazione, i rapporti con il mercato ecc. (ibid.) -, 85

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI guardano al processo di costruzione, ovvero alle dinamiche "ibridanti". In ogni caso, il principio che sembra soggiacere ai tentativi di riforma sviluppati è quello sintetizzato lucidamente da Cerase (2002, p. 3 82 ) : « alla burocrazia è stato chiesto di intromettersi di meno, di fare meno incursioni nella vita civile, di "remare" di meno e di fornire invece una gestione efficace del quadro regolativo entro il quale i singoli attori pos­ sano liberamente perseguire i propri interessi » . Per obiettivi di sintesi, c i limitiamo ad accennare a tre modalità di ibridazione del settore pubblico, selezionando quelli che a nostro avvi­ so hanno avuto, e continuano ad avere, un ruolo guida nei cambiamenti della PA. Ciò ha uno scopo prettamente funzionale al prosieguo del testo, affinché la premessa di questi ulteriori fattori dinamici ci aiuti a collocare la materia di cui ci occuperemo nei prossimi capitoli - la co­ municazione pubblica - in uno scenario "denso" (Sorrentino, 2oo8a) , ossia caratterizzato da una fitta trama di relazioni, ed eterogeneo, in cui le PPAA siano uno degli attori in campo, nonché il nostro cannocchiale da cui osservare i cambiamenti in corso. 2.4.1. IL NEW PUBLIC MANAGEMENT

Con New Public Management (NPM ) , etichetta coniata da Hood (I 9 9 I ) , si vuole indicare l'apertura delle burocrazie di gran parte dei paesi occidentali a un modello di organizzazione aziendale che « trova i suoi cardini fondamentali nella cosiddetta "mercatizzazione" [ ... ] e "managerializzazione" » (Ce rase, 2002, p. 379 ) . Secondo Hood, il prin­ cipio si afferma in conseguenza di alcune trasformazioni importanti che hanno investito le democrazie occidentali e quindi come risposta a differenti esigenze, tra cui, in modo particolare, ridurre l' intervento del settore pubblico dopo anni di crescente pervasività e presenza nelle vite private dei cittadini; rispondere alla crisi del welfare state e alla tendenza a privatizzare società pubbliche; far tesoro dei progressi compiuti dallo sviluppo delle nuove tecnologie dell' informazione (Gualmini, 2ooi ) . Tre le caratteristiche che vengono solitamente menzionate per indicare un modello di NPM: I. l' introduzione in ambito pubblico di tecniche gestionali di impresa; 2. l'orientamento al cliente; 3· il ricorso a logiche competitive simili a quelle vigenti nel mercato (competitive market-like mechanism; Kickert, 2ooi ) . Il modello, tratto dalla busi­ ness administration statunitense, si presenta come l'antidoto rispetto ai punti di maggiore fragilità del modello burocratico weberiano, la 86

2. CAMBIAMENTI medicina per guarire le "patologie" di un'eccessiva burocratizzazione ( Kettl, I997 ) che dà vita a quello che è considerato un vero e proprio "contro modello organizzativo" ( D 'Albergo, Vaselli, I997 ) . Tra le carat­ teristiche salienti di quest'ultimo possiamo ricordarne due, che invoca­ no passaggi rivoluzionari nel sistema pubblico, non soltanto italiano. Il primo passaggio si sostanzia nel superamento del principio di autosufficienza; secondo tale principio ogni ente pubblico gestisce in proprio tutte le funzioni assegnate, raggiungendo così dimensioni este­ se, ma facendosi completamente carico di mansioni e doveri stabiliti. L'adesione ad un modello "imprenditoriale" prevede, al contrario, il ricorso ad agenzie e fornitori esterni, con i quali le amministrazioni stipulano dei contratti di servizio, definendo specifiche condizioni di fornitura, e creando, di conseguenza, un mercato di potenziale concor­ renza tra fornitori. Una situazione, questa indicata, che non è scevra di problemi, aporie e contraddizioni tutt'altro che risolte nel contesto italiano. Il secondo passaggio, non meno delicato del primo, procede dal principio di responsabilità verso la politica al principio di responsabili­ tà verso il cittadino (ibid. ) . Si ribadisce in questa seconda impostazione la separazione tra le due sfere - politica e amministrativa - e si definisce il ruolo del cittadino quale controllore dell'operato pubblico, a fronte di un ruolo maggiormente manageriale del dirigente pubblico ( Piog­ gia, in Merloni, Pioggia, Segatori, 2007 ) . Si inizia così a parlare anche nel settore pubblico di efficienza, qua­ lità dei servizi, apertura, flessibilità e velocità delle performance quali metriche di valutazione dell'operato pubblico e, come sottolineano al­ cuni autori, come criteri di legittimazione ( Emery, Giauque, 20I4 ) . La "produttività amministrativa" ( Sepe, Crobe, 2oo 8 ) diviene un criterio per misurare l'azione amministrativa, dunque uno standard economi­ co, anziché eminentemente giuridico come in passato. La necessità di riformare lo stile manageriale pubblico viene avver­ tita prima nel mondo anglosassone, con l'esperienza pilota della Nuova Zelanda, ma tra il I 9 8 o e il 2ooo tocca gran parte dei paesi occidentali, dove assume caratteri differenti, sia per le condizioni diverse che il NPM incontra nelle varie realtà nazionali, sia nello specifico contesto euro­ peo per i processi di cambiamento già attivati dall' Unione Europea. In Italia la filosofia del NPM si è tradotta, dagli anni Novanta del Novecento, in una serie di misure molto eterogenee che vanno dalle privatizzazioni alle esternalizzazioni di servizi e attività di gestione di

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI beni pubblici (acqua, ambiente, luce, trasporti ecc. ) , fino alla introdu­ zione di logiche aziendali nell'organizzazione della PA, tra cui l'enfasi posta sulla flessibilità dei saperi e di gestione manageriale delle risorse umane, la riduzione dei livelli gerarchici formali, la permeabilità dei confini organizzativi. "Ricette" che talvolta hanno finito per «coprire le reali dinamiche dei processi in atto, sottovalutando sia gli arrangia­ menti istituzionali, sia le implicazioni sociali dei processi in atto» ( Fa­ rinella, 20I3, p. I43 ) . Tuttavia, l'affermazione del NPM è dipesa in gran parte da feno­ meni di tipo extra-organizzativo, come spiega Segatori ( in Merlon i, Pioggia, Segatori, 2007, p. 40 ) : da un lato, cioè, per la necessità di fronteggiare meglio la forbice apertasi tra le risorse pubbliche (sempre più difficili da reperire) e le domande sociali (in crescita inflazionistica) ; dall'altro, sotto la spinta dell'assunto in parte neo­ liberista che considera il modello organizzativo dell'impresa privata decisa­ mente più funzionante di quello pubblico tradizionale.

Pertanto l'adozione di sistemi di amministrazione ibrida è avvenuta in un momento in cui si registra un elevato senso di sfiducia e di distanza dei cittadini verso le istituzioni e di forte critica, anche palese e mediati­ camente rappresentata, verso le modalità di gestione dei beni pubblici. Non è questa la sede, né nostra la competenza per trarre un bilancio dalla adesione delle amministrazioni, italiane e non solo, al NPM 6 . Possiamo tuttavia sottolineare il fatto che non è sufficiente un'a­ desione formale ai principi e alle logiche della managerialità impren­ ditoriale per ottenere dei risultati efficaci, né si tratta di travasare in un contesto pubblico modalità organizzative del settore privato. Oltre­ tutto nel contesto amministrativo italiano, nel quale il cambiamento è andato a scontrarsi con le tradizionali debolezze e inefficienze burocra­ tiche, connotandosi come soluzione dal carattere oppositivo rispetto allo stato esistente delle cose, imposto come unica strada percorribile. Inoltre, le nuove logiche di mercato non hanno sostituito quelle tradizionali, ma si sono sommate a queste, senza tuttavia affrontare la questione della loro articolazione e combinazione, rimandando la previsione di leve di raccordo e di armonizzazione ai singoli contesti istituzionali. D 'altro canto, 6. Per un approfondimento del tema, cfr. Cerase (2oo6).

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2. CAMBIAMENTI se l'eccessiva fiducia nella privatizzazione formale da un lato rischia di far perdere di vista i possibili costi indiretti di quest 'ultima, dali' altro attendersi che siffatta trasformazione cambi di per sé il funzionamento della ammini­ strazione può tradursi anche in delusione e nella conseguente sfiducia nelle possibilità di incidere positivamente sull'organizzazione attraverso questo strumento » ( Pioggia, in Merloni, Pioggia, Segatori, 2007, p. I23).

Un ulteriore aspetto da considerare è l' impatto che il NPM sta aven­ do - e ha avuto - sui comportamenti individuali dei funzionari, sui loro processi di identificazione nella propria organizzazione e nelle mansioni loro affidate ; un impatto che alcuni autori hanno definito come "destabilizzante" in virtù delle problematiche a cui si riconnet­ te. Infatti, non sorprende che in un simile contesto di cambiamento e di commistione tra vecchio e nuovo, nel quale oggi sembrano scric­ chiolare perfino quelle certezze su cui si basava il lavoro pubblico, i dipendenti, alla ricerca di nuovi mezzi di ancoraggio delle loro mo­ tivazioni soggettive e delle identità professionali, oscillino tra forme di motivazione di tipo "tradizionale", che traggono origine dal loro ruolo di pubblico ufficiale al servizio della legge e del bene pubbli­ co, e forme basate, invece, sulle performance e sullo spirito impren­ ditoriale dettate da una lettura stereotipata del NPM. Se nel primo caso si tende a premiare quei comportamenti di adesione alla norma e un certo spirito di adattamento, nel secondo è richiesta flessibilità e spirito di iniziativa ( Rondeaux, Pichault, 2007; Emery, Giauque, 2.0I4 ) . Ciò contribuisce alla costruzione di nuove forme di ancorag­ gio professionale, dove il singolo funzionario da un lato prende le distanze dai comportamenti più tipici del burocrate "puro" e dall'al­ tro rimarca con orgoglio la propria appartenenza al settore pubblico. Una condizione professionale che gli stessi autori non mancano di definire "paradossale", ma che ben si spiega se ricollegata all'ambien­ te amministrativo "ibrido" che abbiamo introdotto e, soprattutto, a quel processo di ibridazione che è ben lontano dall'approdare ad una sostanziale integrazione. 2.4.2. LA GOVERNANCE E LA SUSSIDIARIETÀ

Veniamo ad altre due strade intraprese verso l' ibridazione, ossia la co­ siddetta governance e il principio di sussidiarieta che portano le am­ ministrazioni, seppur con strumenti diversi, a intessere relazioni con soggetti altri da sé. Iniziamo dalla prima.

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI Insoddisfatti dall'eccessiva rigidità della distinzione pubblico/ privato che sembra essere riaffermata dal NPM, in un secondo mo­ mento - ma che in certi contesti può essere risultato concomitante all'adozione di logiche di NPM - si è iniziato a parlare di governance, intendendo il coinvolgimento nella gestione della cosa pubblica di una pluralità di attori-portatori d' interesse (stakeholders) . Una modalità di gestione allargata di governo con l'obiettivo di creare consenso intorno alle politiche pubbliche, ma anche un'azione amministrativa che risulti vantaggiosa tanto per l' istituzione quanto per i rapporti con gli attori esterni. Sono rintracciabili in letteratura varie definizioni digovernance (Messina, 20I 2) ; quella prevalente, secondo Mayntz ( I999 ) , è quella a cui si ricorre per indicare uno stile di governo diverso dal modello di controllo gerarchico-burocratico e caratterizzato dalla inclusione di soggetti privati nei processi decisionali. Ma anche un processo di elaborazione, determinazione e attuazione di policies, condotto secondo criteri di concertazione e partenariato tra soggetti pubblici e soggetti privati o del terzo settore, in cui tutti i soggetti partecipano al processo confe­ rendo risorse, assumendo responsabilità, esercitando poteri e, di conseguenza, usufruendo di parte dei benefici attesi dall'esito delle stesse policies ( Segatori, in Merloni, Pioggia, Segatori, 2007, p. 35).

È questo uno dei tentativi intrapresi per ridurre r autoreferenzialità delle strutture e al tempo stesso per contrastare l' infiltrazione di in­ teressi particolaristici nella gestione della cosa pubblica; per favorire l' impiego di forme di governo cooperativo e la sperimentazione di nuove modalità di partecipazione della cittadinanza ( Girotti, 2007 ) che comportino sempre meno l'utilizzo digovernment e sempre più di governance. Questa ambivalenza è stata introdotta per la prima volta da Rhodes ( I997 ) ; egli si riferisce al superamento dei modelli dirigisti­ ci e verticistici nei quali lo Stato o, meglio, i vertici politici assumono un ruolo dominante (government) , a favore di modelli maggiormente paritari, caratterizzati da relazioni orizzontali e cooperative tra Stato e società (governance) . Il riferimento e l'uso dellagovernance incontra, tuttavia, significa­ ti e intenti diversi (Palumbo, Vaccaro, 2oo6): taluni restano ancorati ad un approccio "statocentrico': nel quale lo Stato resta il soggetto più influente all' interno del processo di attuazione delle politiche; anzi, se­ condo tale prospettiva, proprio nel momento in cui i processi di globa-

2. CAMBIAMENTI lizzazione si fanno più incalzanti, risulta necessario rafforzare l'azione statale. Altri approcci, invece, ritengono il ruolo dello Stato secondario, perché la società civile è capace di organizzarsi autonomamente, dando vita a network autogestiti. Tra questi due poli opposti, troviamo nume­ rose interpretazioni intermedie, definite "moderate", che attribuiscono allo Stato un ruolo propulsore o, comunque, una parte attiva, seppure all' interno di reti di negoziazione e di coinvolgimento più ampie, nelle quali i soggetti della società civile intrattengono relazioni cooperative, finalizzate al compromesso. Rispetto al NPM, il modello della governance introduce ulteriori elementi di "controllo" dell'azione pubblica, non solo relativi al rispet­ to di obiettivi di efficienza e di efficacia, ma anche di eticità e respon­ sabilità dei dirigenti, di coinvolgimento della cittadinanza e di equità delle prestazioni pubbliche (Gualmini, 2ooi ) . A maggior ragione quando la governance incontra i processi di innovazione tecnologica e dunque sposa le ulteriori opportunità offerte dall'allargamento del campo di interazione. Per questo, più di dieci anni fa, taluni autori decretarono la "morte" del NPM, a favore di una fase di "governance digitale" (Dunleavy et al. , 2oo6): « New Public Management is De­ ad - Long Live Digitai-Era Governance » , scrivevano in maniera, sì, provocatoria, ma supportata dalla evidenza di una nuova "era" basa­ ta sulla centralità dei bisogni e sulla digitalizzazione degli scambi tra cittadini e amministrazioni, in un'ottica maggiormente simmetrica e collaborativa. La partecipazione dei cittadini viene dunque vista come un fattore positivo, non solo nel momento elettorale, bensì nei processi di policy making e, in particolare, nella loro implementazione. Questo è ancor più perseguito alla apertura del nuovo secolo, a seguito della revisio­ ne costituzionale realizzata nel nostro paese, con l' introduzione di un nuovo principio che cambia radicalmente il modo consueto di guarda­ re al rapporto tra amministrazioni e cittadini (Paquet, 2o oi). È il prin­ cipio di sussidiarieta, introdotto dapprima a livello europeo (Trattato sull'Unione Europea, art. s , comma 2 °) , per far sì che le decisioni fossero prese al livello amministrativo più prossimo al cittadino, poi nel nostro ordinamento con la revisione del Titolo v della Costituzione e appro­ vato con la legge costituzionale I 8 ottobre 200I, n. 3 , Modifiche al titolo v della parte seconda della Costituzione, che all'art. 1 1 8, ultimo comma, formula: « Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per 9I

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà » . Il principio, dalla sua prima affermazione ad oggi, è stato oggetto di diverse interpretazioni e ha dato vita a non poche considerazioni critiche. C 'è, ad esempio, chi ritiene che sia necessaria una lettura "al negativo" del principio, il quale sarebbe stato introdotto per limitare il potere dell'autorità superiore e lasciare maggiore spazio di auto­ nomia ai livelli inferiori; oppure chi difende una interpretazione in chiave assistenzialista, per cui l'autorità superiore interviene quan­ do quella inferiore non riesce a svolgere i compiti in modo adeguato (Viola, 2009 ) . Oppure, il principio di sussidiarietà viene visto come un principio di cooperazione tra autorità distinte e questa visione, che supera l' idea di un reciproco scavalcamento, è anche la più disat­ tesa nei fatti. Infatti, questi nuovi strumenti di governo, nonostante le poten­ zialità da essi dispiegate, non hanno finora dato vita a una pratica di gestione dei territori, né hanno trovato una chiara e consistente concretizzazione, anche perché sono stati spesso confusi con le di­ verse formule di partenariato pubblico/privato che definiscono un modus operandi diverso rispetto al passato senza però apportare un significativo cambiamento organizzativo, né culturale. Quindi, « no­ nostante le innovazioni organizzative e legislative si siano succedute, è mancata la volontà di inserire la "questione amministrativa" dentro un piano progettuale unitario, organico e duraturo nel tempo, dota­ to di una dimensione politica e di spessore istituzionale » (Farinella, 2oi 3 , p. I44 ) . Né completamente appartenenti all'una, né all'altra sfera, go­ vernance e sussidiarietà sembrano avere a che fare con una "terra di mezzo", nata proprio dalla "desertificazione" operata dalla modernità della sfera sociale intermedia fra pubblico e privato, che taluni auto­ ri definiscono "bene relazionale" (Donati, I 9 9 3 ; Donati, Solci, 20I I ) . Sono i beni che nascono dalla socievolezza, dalla condivisione d i un valore che non è oggetto di "proprietà privatà', né accessibile a tutti indistintamente. Dunque, una convergenza che acquista senso solo nella dimensione intersoggettiva, perché ciascun individuo non può utilizzare tali beni a proprio piacimento, bensì solo in un'ottica di re­ lazione. Gli esempi potrebbero essere numerosi e già Donati (in Do­ nati, Solci, 20I I ) ne fornisce alcuni dai quali prendiamo ispirazione: se, ad esempio, un gruppo di famiglie con figli disabili in carrozzina 92

2. CAMBIAMENTI si organizzasse per chiedere al Comune l'adeguamento dei giardini pubblici, si tratterebbe di un'azione privata; se il Comune, autonoma­ mente, decidesse di rifare parte dei giardini per adeguarli al passaggio di carrozzine, sarebbe un'azione pubblica. Ma se quel gruppo di geni­ tori mettesse al servizio del Comune le proprie sensibilità, esperienze, conoscenze e il Comune organizzasse un tavolo di lavoro, al quale far sedere anche quei genitori, in modo da pensare, insieme, a quali mi­ gliorie occorrano ai giardini per far star bene tutti i bambini, disabili e non, che tipo di azione sarebbe ? Ecco, più che il "bene-servizio" in sé, ad essere "relazionale" sarà proprio la modalità di svolgimento di questa scambievolezza tra istituzioni e cittadini, tra due soggetti che, per quella data circostanza, si riconoscono reciprocamente attrattivi ( Nussbaum, I 9 86). Non sfuggirà come, anche nell'esempio raccontato, i beni rela­ zionali siano spesso generati grazie a soggetti di privato sociale e del mondo associativo. Per Colozzi (2005), ma non solo per lui, le orga­ nizzazioni non profit sono le prime generatrici di beni-relazioni, delle vere "miniere" proprio per il modo in cui si configurano gli assetti e avvengono le loro modalità di intervento. Tuttavia, ci sono buone ragioni per ritenere che la produzione di tali beni non si esaurisca all'a­ zione associativa, ma possa riguardare anche istituzioni diverse, come la famiglia, le reti di vicinato, la spontanea associazione di cittadini e molto altro ancora. In sintesi i territori ibridi su cui ci siamo finora mossi si servono di beni relazionali e, in qualche modo, li riproducono, facendo sì che la cooperazione non sia un solo scambio utilitaristico, ma abbia un alto valore di integrazione simbolica e di collante sociale. 2 .5 Presenze ineludibili

Le strade appena ricordate sembrano condurre verso una organizzazio­ ne pubblica che è stata definita "postburocratica" ( Heydebrand, I9 89) proprio perché finalizzata al superamento del modello burocratico che configura un cambiamento rivoluzionario non solo nel modo in cui le P PAA pensano a se stesse, ma anche nel modo di guardare al cittadino e alla società civile e nelle opportunità offerte, talvolta temute, da un rapporto maggiormente paritario tra amministratori e amministrati. 93

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI La visione di una "collettività" che può intervenire e partecipare, sia perché oggi possiede svariati strumenti e risorse per farlo, sia perché legittimata e stimolata dal sistema normativa-costituzionale, rende la società civile un interlocutore ineludibile della PA , una presenza con la quale non si può non fare i conti. Infatti, « tra inerzie burocratiche e velleità mercatiste, [ ... ] v 'è allora da interrogarsi se resti un reale spazio operativo per amministrazioni capaci di farsi carico, nella quotidianità, di un principio di responsabilità [ ... ] a fronte delle domande dei citta­ dini » (Giretti, 2007, p. I8o). D 'altronde, tra i fattori di cambiamento più volte citati, dobbiamo aggiungere la "crisi di governabilità': registrata non solo nel nostro pa­ ese, che muta le condizioni di successo/insuccesso dell'azione pubbli­ ca. Specifichiamo meglio. Se la "governabilità" della politica - ovvero la capacità di quest'ultima di "far funzionare le istituzioni" - poteva in passato affidarsi al momento elettorale quale momento di legitti­ mazione di un rappresentante scelto democraticamente, oggi questo paradigma non soddisfa più. La crisi delle rappresentanze - politiche, sindacali, professionali ecc. - porta dunque a un' immagine ben diversa del rapporto tra cittadini e istituzioni ed è così descritta da Moro ( I 99 8, p. 34): « le forme tradizionali di rappresentanza hanno sempre meno efficacia perché i rappresentati sono sempre più complessi e difficili da rappresentare e perché essi non conferiscono più ai propri delegati una pienezza di poteri » . Al consenso politico, ottenuto per via elettorale, prosegue l'autore, si affianca un "consenso attivo" che si costruisce in molti modi, ma che necessita di un accompagnamento più quotidiano della cittadinanza alla politica. Si tratta dunque di allenare la capacità dei governi di responsabilizzare le comunità, anziché assisterle (ibid.) . Questo nuovo ruolo detta l'esigenza di rivedere le modalità relaziona­ li delle P PAA, sperimentando e allenando l'occhio a riconoscere nella cittadinanza condizioni diverse derivanti dalla sua complessità. Non necessariamente alternative l'un l'altra, bensì che possono convivere e caratterizzare ambiti relazionali differenti, a patto che trovino una coesistenza armonica e integrata e, soprattutto, una medesima capacità di risposta nella PA . La prima di queste "condizioni" si affaccia sulla scena istituziona­ le a partire dalla fine degli anni Ottanta, quando si inizia a parlare di cittadino-utente, un binomio che « costituisce una coppia concettuale tra le più usate in questa fase di cambiamento delle Amministrazioni pubbliche » (Mignella Calvosa, in Rolando, 20iob, p. 28). 94

2. CAMBIAMENTI Un'accezione di interlocutore della PA che vede la relazione imper­ niata sul ruolo del "servizio': così definito dalla norma: sono considerati servizi pubblici, anche se svolti in regime di concessione o mediante convenzione, quelli volti a garantire il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla salute, ali' assistenza e previdenza so­ ciale, alla istruzione e alla libertà di comunicazione, alla libertà e alla sicurezza della persona, alla libertà di circolazione, [ . . . ] e quelli di erogazione di energia elettrica, acqua e gas (direttiva del presidente del Consiglio dei ministri 27 gennaio 1994, Principi sull'erogazione dei servizi pubblici).

"Utente" - dal participio presente del verbo uti, "che usa, che si ser­ ve" - sta per chi fa uso di un servizio a lui indirizzato (Franceschetti, 2.007 ) , in ciascuno dei settori sopra elencati. Si inizia così a valutare il risultato dell'azione pubblica mediante la metrica della soddisfazione dei bisogni: quanto più il servizio erogato rispetta le attese e va incontro ai bisogni della cittadinanza, tanto più quel bene-servizio è considerato di "qualità" (Invernizzi, 2.000 ) . Esiste perciò uno stretto legame tra la "qualità" di un bene-servizio e la soddisfazione dell'utente - una vera e propria relazione matematica ( Tanese, Negro, Gramigna, 2.003) - che porta l'amministrazione ad orientarsi e sintonizzarsi costantemente sui bisogni della cittadinanza. A questa immagine se ne affianca - talvolta sostituisce - un'altra, nata dall'adozione delle logiche manageriali che abbiamo già descritto e che vede nel cittadino un cliente della PA. Un appellativo - quello di cliente - da molti rifiutato, per il richiamo ad un processo di "commer­ cializzazione della cittadinanza", che, secondo Crouch (2.003), porta alla diffusione di una cultura dell'acquisto, indirizzata dal marketing e dal valore della marca; un evidente rimando agli atti di acquisto e di consumo, più propri del rapporto commerciale e quindi appartenenti alle specifiche logiche di impresa (Battistelli, I992.) . D a altri, invece, accettato come una caratterizzazione, non un so­ stituto, che potrebbe portare con sé una visione evoluta dello stesso rapporto. Il cittadino-cliente non è un semplice fruitore di servizi, ma riveste un ruolo maggiormente attivo: egli decide, in un ambiente di fornitura più competitivo rispetto al passato, e sceglie sulla base delle caratteristiche e delle qualità dei servizi ( La Rosa, Grandi, I994) . In­ fatti, mentre l'utente non ha un vero e proprio potere di scelta, anzi si trova per lo più in una condizione di bisogno e di subordinazione, il 95

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI cliente si muove su un terreno di maggiore contrattazione e di scambio (Franceschetti, 2007 ). D'altronde, continuare a rimarcare la differenza tra ruoli di cittadinanza - orientati alla sfera pubblica - e ruoli di consu­ matori - orientati alla sfera privata - non aiuta a comprendere la natura molto più dinamica e fluida del vivere moderno, né l' interdipendenza tra questi ruoli nell'esperienza soggettiva (Bechelloni, 2004) . Il cliente della PA si configura così come un soggetto che possiede le risorse sufficienti per stabilire una contrattualità verso l'amministra­ zione (D 'Albergo, Vaselli, I997) e deve essere informato dei "prezzi" da pagare per l'efficienza e l'efficacia dei servizi. Un simile inquadramento della relazione sposta il baricentro della valutazione dalla qualità del servizio in sé alla valutazione dell'intera performance pubblica; dalla soddisfazione dell'utente nel servizio fruito alla "fedeltà" di consumo e alla fiducia nella istituzione erogatrice. Una visione, certo, mutuata dal rapporto d' impresa con il quale ci sono numerosi punti di divergenza (Franceschetti, 2007), ma che tuttavia sollecita l'adozione di una logica produttiva più integrata e meno parcellizzata dei vari ambiti coinvolti dai servizi; una visione di "filierà', come si sentirà dire spesso dagli anni Novanta in poi, che detterà una revisione, come vedremo, degli assetti organizzativi della PA. Accostiamo alle precedenti due "etichette': una terza, quella di cit­ tadino attivo, che abbiamo già accennato, ma che riprendiamo per met­ tere in risalto un particolare tipo di interlocutore delle PPAA, artefice, insieme a queste ultime, della cura dei beni pubblici. Egli non riveste un ruolo subordinato gerarchicamente nella produzione dei servizi, bensì quello di coproduttore: « i cittadini attivi (così come i dipendenti pub­ blici) sono al servizio della collettività nel senso più nobile del termine, in quanto le loro attività sono utili alla collettività » (Arena, 200 6, p. I I I ) e per lo più svolte senza un diretto e concreto tornaconto. Così, la cittadinanza attiva viene a configurarsi come la « capacità dei cittadini di organizzarsi in modo multiforme, di mobilitare risorse umane, tec­ niche e finanziarie, e di agire con modalità e strategie differenziate per tutelare diritti esercitando poteri e responsabilità volti alla cura e allo sviluppo dei beni comuni» (Moro, I 9 9 8, p. 48) . Ne consegue che quel­ lo "attivo" è un cittadino alleato della PA, anche se talvolta le modalità di esplicitazione del proprio attivismo potrebbero assumere la forma del conflitto, della protesta, del discorso contrappositivo che non è un'azione di ostilità fine a se stessa, bensì è diretta alla cura e alla tutela di quei beni comuni verso cui si muove la stessa PA. Tuttavia, non basta

2. CAMBIAMENTI il semplice affiancamento dell'attivismo dei cittadini all'azione ammi­ nistrativa: quest'ultima deve fare spazio e mostrarsi capace di incanala­ re e valorizzare questo attivismo. C 'è bisogno di "governi catalizzatori" (Osborne, Gaebler, I993), capaci cioè di rintracciare e attivare risorse per svolgere compiti che, da soli, non riuscirebbero più ad assicurare, governi capaci di creare un ambiente favorevole alla inclusione del cit­ tadino (Moro, I998). Ed è su questa capacità di inclusione, su questo esercizio dialettico e relazionale costante, che si valuterà l'efficacia dell'azione pubblica. In­ fatti da questa dipende in gran parte la possibilità concreta di esercitare quella civic agency richiamata da Dahlgren (2.009; 2.0I 3) , una parteci­ pazione fortemente condizionata dalle circostanze in cui il cittadino si trova ad agire e dalle "porosità" delle PPAA. Concludendo, cittadino-utente, cittadino-cliente e cittadino atti­ vo sono tre qualificazioni che possono essere ricondotte ad uno stesso individuo in situazioni relazionali diverse oppure riguardare individui diversi che tuttavia assumono tali ruoli nei confronti del medesimo servizio. Un esempio può aiutarci a spiegare meglio questo aspetto. Se prendiamo la relazione tra un comune cittadino - ad esempio, un genitore - e il servizio scolastico - ad esempio, la scuola media in cui è iscritto suo figlio -, si potranno sperimentare tutti e tre gli "stili": il genitore sarà utente nel momento in cui usufruisce delle prestazioni degli insegnanti, dei locali scolastici o del servizio mensa; sarà clien­ te quando potrà scegliere tra più istituti quello che desidererebbe per suo figlio, piuttosto che in base all'articolazione dell'orario scolastico settimanale, o quando deciderà se avvalersi dei campi estivi organizzati dalla scuola o da altri soggetti; infine, potrà essere un genitore attivo se deciderà di intraprendere un' iniziativa per il miglioramento degli spazi verdi della scuola, se metterà a disposizione la sua professionali­ tà o il suo tempo per ridipingere le aule o se organizzerà una raccolta fondi per l'acquisto di una nuova fotocopiatrice. Ovviamente, restan­ do nell'esempio, l'ente pubblico erogatore del servizio scolastico in ciascuna delle precedenti situazioni avrà davanti lo stesso genitore o penserà di avere a che fare con lo stesso tipo di interlocutore - con un genitore, non con un insegnante, né con un addetto alle pulizie ecc. -, ma vi saranno enormi differenze tra le modalità relazionali attese da quest'ultimo nelle diverse circostanze, così come tra le dimensioni che compongono il servizio che, di volta in volta, dovranno essere curate dall'amministrazione. Diversi, infine, i beni relazionali che si generano. 97

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI Quindi, come abbiamo detto, ma ci preme sottolinearlo nuo­ vamente, i differenti tipi di interlocutori, sebbene nati in tempi e da sensibilità diverse, non si escludono a vicenda, bensì convivono e si ar­ ticolano in varie forme di domande sociali che chiedono di essere rico­ nosciute. Anche perché, a ben vedere, se la categoria della cittadinanza trova concretezza soltanto nel momento in cui la si esercita, il cittadino in quanto tale, come interlocutore della PA, non esiste: egli esiste nel momento in cui è il suo comportamento attivo a connotarne l' esisten­ za, ora come utente, ora come cliente, ora come soggetto compartecipe dell'azione pubblica. Occorre poi precisare che, sebbene fin qui abbiamo parlato di cit­ tadino come persona fisica, come soggetto singolo, quando parliamo di "presenze ineludibili" ci riferiamo alle varie forme che può assumere la cittadinanza, ovvero alle forme associate, alle persone giuridiche che portano le loro specifiche istanze di coinvolgimento: associazionismo e terzo settore, movimenti professionali e associazioni datoriali, sinda­ cati, imprese ecc. Ma a chi spetta dare risposte a tutte queste istanze di riconosci­ mento ? La responsabilità, soprattutto a livello locale, attiene tanto all'a­ nima politica delle istituzioni quanto a quella amministrativa, come spiega Arena (2o o 6, p. Io6): Sono i politici che dovrebbero avere d a u n lato l a sensibilità politica neces­ saria ad individuare le risorse che la propria comunità può mettere a disposi­ zione dell'interesse generale, dall'altro la capacità quasi "imprenditoriale" di far fruttare nell' interesse di tutti quelle stesse risorse, inventandosi modalità nuove di soddisfazione delle esigenze di quei medesimi cittadini che nella prospettiva della sussidiarietà sono alleati, non solo utenti.

Un compito che, tuttavia, riguarda anche i pubblici funzionari, perché spetta all'amministrazione sostenere le attività dei cittadini gestendo i rapporti con loro, individuan­ do insieme gli strumenti di sostegno più adatti, coordinando fra loro le varie iniziative ecc. Soprattutto, all'amministrazione spetta stabilizzare il rappor­ to nel tempo, creando quel clima di reciproca fiducia, rispetto, correttezza e trasparenza che è indispensabile affinché l'alleanza fra soggetti pubblici e cittadini nell'interesse generale possa svilupparsi nel tempo dando frutti non estemporanei (ibid. ) .

2. CAMBIAMENTI È evidente, ma lo sarà ancor più nel prosieguo del testo, che queste condizioni in cui il cittadino si può trovare non esauriscono la realtà dei fatti, molto più complessa e articolata. Allo stesso tempo, sono suf­ ficienti questi differenti status per aver chiaro quali e quante domande essi pongono alle organizzazioni. Quello che abbiamo chiamato "pre­ senza ineludibile" è un interlocutore inevitabile, sia perché rappresenta una risorsa imprescindibile per la costruzione e l'attuazione delle po­ litiche pubbliche, sia perché è un soggetto che pone domande, porta bisogni, una presenza che non si può far finta che non esista, anche quando le sue domande sono scomode e i suoi bisogni complessi. È una presenza che impatta sulle logiche produttive dei servizi, sugli assetti organizzativi, sulle basi relazionali che sorreggono le amministrazioni (e la politica). Un interlocutore - utente, cliente o cittadino attivo - che pertanto, di volta in volta, dovrà essere informato, affascinato, coinvolto e ciò presuppone un costante e delicato lavoro di comunicazione. 2 .6 Questione d i fiducia

La lettura delle sfere pubbliche e delle istituzioni in chiave relazionale comporta la ridefinizione degli equilibri del passato: ai diritti di cit­ tadinanza fanno eco i doveri del cittadino nella stessa misura in cui diritti e doveri sono ripartiti entro le PPAA. Il legame deve basarsi su un rapporto di « reciprocità fondato sul riconoscimento di diritti e doveri da entrambe le parti » (Ducci, 2007, p. 28 ) . Lo stesso vale nel rapporto tra istituzioni e imprese, tra queste e le associazioni non profit ecc. L'alleanza e la collaborazione non sono esclusivamente basate sulla esistenza di interessi comuni o di obiettivi condivisi da raggiungere: ne­ cessitano di risorse che stanno alla base della relazione, di un "accordo portante" (Gadamer, I973 ) , di un' intesa e di un consenso (Habermas, I979 ), di un elemento poco visibile, sommerso, ovvero di fiducia. Infatti, che soggetti di natura diversa cooperino non è cosa nuova. Come abbiamo visto, già da tempo le amministrazioni si avvalgono di soggetti altri da loro, già da tempo i cittadini hanno abbandonato la veste di sudditi per assumere un ruolo di maggiore vicinanza e condi­ visione rispetto all'agire pubblico. I territori ibridi verso cui ci stiamo muovendo impongono un "passo" in più: necessitano di relazioni fi99

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI nalizzate al raggiungimento dell' interesse generale mediante l' assun­ zione di responsabilità reciproche (Arena, 2oo6 ) , dunque mediante lo stabilire e il mantenere relazioni di fiducia, nel senso di "confidare" che ciascun soggetto faccia la sua parte (Luhmann, I 9 84 ) . Come fa nota­ re Mutti ( I987 ) la fiducia appartiene a quel contesto di aspettative di buon funzionamento, di mantenimento degli impegni presi, di non essere traditi o ingannati. Ancora una volta la questione non riguarda solo un versante di in­ tervento. La relazione è una medaglia a due facce: da una parte necessi­ ta di soggetti disposti a concedere fiducia, a fidarsi degli altri; dall'altra parte si ha bisogno di soggetti credibili, ossia meritevoli e degni di fi­ ducia7. Tra istituzioni e cittadini, dunque, la proficuità delle relazioni costruite dipenderà tanto dagli sforzi delle prime - per costruirsi una (buona) reputazione e saperla mantenere nel tempo - che dalla dispo­ nibilità dei secondi - di "affidarsi" alle prime, il tutto inserito in un clima sociale e culturale in cui il con-fidare sembra costantemente in bilico e messo a repentaglio. Nelle burocrazie tradizionali, dove do­ minava il potere legale-razionale, prevaleva il senso di obbedienza e di rispetto da parte degli amministrati e nel quotidiano ai funzionari si riconosceva quella competenza che il cittadino comune non possedeva (Gili, 2005 ) , perciò si concedeva fiducia in modo non problematico. D 'altronde, fintanto che le comunità ( Gemeinschaft), relativamente circoscritte, erano caratterizzate da legami corti e la maggior parte delle relazioni avveniva in compresenza, mediante contatto diretto, la fiducia era legata alla familiarità e alla conoscenza. Nelle società tardo­ moderne e nella sfera pubblica mediatizzata, così come è stata descritta, mutano le condizioni in cui ciascun soggetto concede fiducia all'Altro: crescono le relazioni basate sull'anonimato, sulla distanza anche fisica dei soggetti interagenti, si moltiplicano le situazioni di destabilizzante incertezza e si ha bisogno di ancorare la fiducia su radici diverse rispetto al passato. Oltre che a livello interpersonale, questi cambiamenti inter­ vengono anche nel rapporto tra cittadini e amministrazioni. Come sin­ tetizza efficacemente Solito ( 2004, p. 7 ): « nella nuova arena pubblica il rapporto con i cittadini può sempre meno contare su appartenenze e 7· Questa affermazione è una perifrasi del discorso di Gili (2oos). Egli scrive: «Credibilità dell'emittente (per il destinatario) e fiducia del destinatario (nell'emit­ tente) sono due facce della stessa medaglia, due dimensioni della stessa relazione co­ municativa e due concetti complementari » (ivi, p. 49).

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2. CAMBIAMENTI fedeltà ma deve, al contrario, costruire e costruirsi su relazioni basate su nuovi sistemi di fiducia, di credibilità, di legittimazione » . Sono due le forme di fiducia che prescindono - o che semplicemen­ te si differenziano - dagli aspetti di relazione interpersonale: la fiducia "istituzionale-sistemicà' e quella "istituzionale-specificà' ( Gili, 2005) . Nel primo caso, partiamo dall'evidenza che ciascun individuo è quo­ tidianamente coinvolto in una varietà di incontri "istituzionali": con il sistema dei trasporti, quello scolastico, quello sanitario, il mercato, la giustizia ecc. Ogni gesto quotidiano, anche il più banale, si sorregge sulla convinzione che "tutto funzioni come dovrebbe": che l'edificio in cui mi trovo sia stato costruito secondo gli opportuni criteri, che il livello di pulizia o la qualità degli ingredienti del bar dove ho fatto co­ lazione siano accettabili e monitorati, che il bancomat mi abbia erogato banconote non falsificate, che il medico mi prescriva un farmaco con cognizione, che la segnaletica stradale dica il vero, che il sacerdote a cui confido le mancanze non vada a raccontarle in giro e via dicendo. Ci fi­ diamo, per dirla con Giddens (I990 ), dei "sistemi esperti" che circonda­ no la nostra esperienza in maniera continuativa, ovvero di quei sistemi «di realizzazione tecnica o di competenza professionale che organizza­ no ampie aree negli ambienti materiali e sociali nei quali viviamo oggi » ( ivi, trad. i t. p. 3 7 ) . Sebbene la fiducia in quanto "virtù" ( Fukuyama, I99S) sia presente in misura maggiore o minore nei vari soggetti, non sarebbe possibile pensare di condurre un'esistenza "normale" - non patologica - senza avvalersi di una fiducia sistemica. Ma è anche vero che aspettarsi che tutto funzioni come dovrebbe non significa averne la garanzia: se avessimo la certezza, ricorda Sciolla (20I3), non ci sa­ rebbe bisogno di fiducia. È invece l' incertezza assieme all'accresciuta consapevolezza a dettare l'esigenza di fidarsi. La fiducia, sostiene Mutti (I990 ), si colloca a metà strada fra l' ignoranza e la conoscenza. Se non sappiamo come il sistema esperto "funzioni': ci fidiamo; ma se abbiamo la possibilità di entrare dentro le procedure e i meccanismi di funzio­ namento, se ne possono scorgere i limiti e si può apprenderne, con un certo disincanto, la fallibilità (Sorrentino, Bianda, 20I3). Ed è per questo che quando i sistemi esperti tradiscono la fiducia in loro riposta - quando gli edifici crollano improvvisamente, quando si apprende che i proprietari del bar si sono sottratti ai controlli sanitari o si verifica che il medicinale era stato contraffatto ecc. -, si genera "in­ sicurezza antologica': ansia esistenziale, angoscia che porteranno a una reazione di sospetto e di ostilità ( G iddens, I 9 9 o ) . Potremmo dire che, IOI

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI come nel caso delle relazioni interpersonali tradite, si genera sfiducia, anche se quando si parla della "sfiducia sistemica" gli effetti sono ben più dannosi. Possiamo rintracciare tre differenze sostanziali tra gli ef­ fetti della sfiducia nell'ambito interpersonale e in quello istituzionale­ sistemico (Sciolla, 20I3): I. la minore libertà di scelta tra alternative: fidarsi o non fidarsi di un individuo implica una strategia più o meno consapevole e quindi l'assumersi il rischio, col senno di poi, d'essersi sbagliati. La fiducia riposta nei "sistemi esperti" che ci circondano non è invece frutto di una scelta deliberata: proprio perché non conoscia­ mo i criteri e le modalità con cui l'edificio in cui abitiamo è risultato "sicuro", non possiamo che fidarci di chi ha concesso i permessi, di chi lo ha progettato e costruito, di chi lo sta mantenendo in piedi attraverso opere di adeguamento ecc. Pertanto la fiducia potrà essere incrementata dalle informazioni che le istituzioni condividono con i cittadini, ma ali' interno di un rapporto nel quale il cittadino non ha tutto sommato un gran margine di scelta, né di valutazione consapevole dei rischi; 2. la differente natura delle aspettative: quando ci fidiamo di una persona stabiliamo dei criteri in base ai quali la riteniamo credibile, una sorta di valutazione dell'efficacia del rapporto in base agli scopi che ci siamo prefissati. A livello sistemico, invece, ci fidiamo non tanto perché ci aspettiamo che un nostro specifico interesse venga soddisfatto, ma per­ ché ci aspettiamo che i nostri diritti fondamentali vengano garantiti. A noi, come agli altri cittadini che vivono quei luoghi e di quelle stesse aspettative. Ne consegue che la delusione provocherà una delegittima­ zione in quei sistemi, ai quali tuttavia, salvo scelte estreme, non potrem­ mo evitare di affidarci in futuro: dovremmo continuare a vivere all'in­ terno di altri edifici, a consumare pasti preparati da altri sconosciuti, ad assumere altri medicinali ecc. E questo si ricollega al terzo elemen­ to di differenza richiamato da Sciolla (ibid.), ossia: 3· le conseguenze della delusione delle aspettative. Una relazione la si può interrompere, un'amicizia chiudere, perfino una parentela la si può, in un certo senso, recidere: ma si potrebbe allo stesso modo - ovvero con una certa "faci­ lità'' e "immediatezzà' - "uscire" da una relazione di fiducia sistemica? Davanti al tradimento di questa fiducia, una vera e propria "uscità' è davvero molto costosa e potrebbe portare a varie forme di isolamento sociale o istituzionale, mentre più attuabile è il "farsi sentire': protestare, inveire, in modo più o meno organizzato e fruttuoso. Nel secondo caso ( fiducia "istituzionale-specifica" ) , invece, la fidu­ cia è specificamente riposta in una istituzione e l' individuo compie la I02

2. CAMBIAMENTI scelta di fidarsi o meno, secondo criteri diversi di credibilità. Non è questa la sede per approfondire tali criteri, ma è importante precisare che il concedere fiducia ad una istituzione non dipende esclusivamente da un calcolo razionale come poteva essere nel rapporto tra cittadini e amministrazione burocratica; la fiducia istituzionale può derivare an­ che dalla percezione che si ha di quella data organizzazione e coinvol­ gere, quindi, anche la sfera affettiva e valoriale. Infatti, si può mantenere un atteggiamento critico e di ostilità verso il funzionamento generale dell' istituzione e intrattenere un positivo rapporto di fiducia con una particolare sua manifestazione: « la mia banca è differente » - recitava uno spot di qualche tempo fa - ma anche il mio comune, la mia scuola ecc. Nel nostro paese questo tipo di fiducia non gode di particolare vigore: come abbiamo raccontato, si è consapevoli - e lo si è da tem­ po - di un clima e di un atteggiamento abbastanza consolidato di diffi­ denza e di insoddisfazione verso le istituzioni di casa nostra. E i segnali di disaffezione si registrano tanto nelle sfere della politica quanto nelle interazioni quotidiane tra amministrazioni e cittadini, che trovano nel contesto italiano storie e tradizioni peculiari ( Putnam, I993 ) . Tra l'altro, ci stiamo riferendo ad un rapporto nel quale la fiducia dei cittadini verso le istituzioni è costantemente messa alla prova e sono purtroppo frequenti i casi di corruzione e immoralità nella condotta delle PPAA. Pertanto, a maggior ragione il discorso sulla fiducia interessa quest'ultime, che si trovano a dover ricostruire fiducia dopo ripetuti episodi di "discredito': « condizione che subentra alla revoca della cre­ dibilità e della reputazione » ( Gili, 2005, p. 40 ) . Il lavoro che dunque spetta alle istituzioni pubbliche è la considera­ zione di strategie riparatorie e di ricostruzione di un legame fiduciario, sia sul versante dell'attendibilità (o credibilità) della propria azione, sia su quello dell' accountability. Con quest'ultimo termine si definisce l'esigenza di rendere conto da parte di coloro che hanno ruoli di responsabilità nei confronti della società o delle parti interessate al loro operato ed alle loro azioni; questa esigenza nasce dal fatto che amministrare è un compito prima di tutto fiduciario basato su un contratto vincolante in termini economico-finanziari ed in termini morali» (Pezzani, 2003, p. 9 ) .

Come vedremo, la sfida per le amministrazioni coinvolge più dimen­ sioni del problema: da quella di rendersi conoscibili dall'esterno, peI03

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI netrabili, attraverso una strategia che avvicini amministrazioni, ammi­ nistratori e amministrati - che si è finora tradotta nella "strategia della trasparenza" -, a quella di rendersi "misurabili" - che invece ha portato a varie forme di controllo e di valutazione delle performance pubbliche; dalla costruzione (e il mantenimento) di un ruolo credibile nei servizi erogati alla valorizzazione dei « nodi di accesso» (Giddens, I990, trad. i t. p. 89 ), ossia di quelle occasioni in cui i cittadini entrano in contatto con le istituzioni attraverso specifiche competenze e responsabilità. Obiettivi che, a fronte dei cambiamenti narrati, sembrano inelu­ dibili e nei quali la comunicazione rappresenta un' importante risorsa e leva strategica, dal momento che è necessario lavorare per costruire relazioni di fiducia: «le relazioni sono legami basati sulla fiducia nei quali la fiducia non viene concessa a priori ma costituisce qualcosa su cui si lavora e in cui questo lavoro equivale a un processo reciproco di apertura » (ivi, pp. 122-3 ) .

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Comunicazione pubblica

3·1 Punti fermi

Le dimensioni del cambiamento che abbiamo illustrato fin qui hanno lo scopo di raccontare una realtà amministrativa mutevole e articolata, che si muove in scenari densi di relazioni e non privi di ambiguità. Si è per questo attinto a sollecitazioni e tradizioni teoriche diverse, che non trovano rispondenza né organicità di trattazione entro un unico settore disciplinare e ciò può aver reso il percorso di lettura un po' in­ garbugliato. Fissiamo allora alcune consapevolezze che dalle pagine precedenti abbiamo maturato e che, con parole diverse, possiamo così riassumere: le amministrazioni hanno una storia e fanno la storia di un paese; le amministrazioni italiane hanno una storia abbastanza recente, com­ plicata, caratterizzata da un moto per lo più inerziale e da alcune acce­ lerazioni riformiste, ma non fanno la storia, nel senso che la burocrazia né gode di quel particolare status che le consentirebbe di incidere, né finora ha avuto la forza in sé per avviare un profondo cambiamento; le amministrazioni non amministrano da sole; hanno bisogno, e in misura crescente, di "alleati" che vedano nella sfera pubblica media­ rizzata una crescente proliferazione di potenzialità. Sono cittadini, im­ prese, associazioni, sistema mediale, mercati globali ecc.; sono i soggetti che potrebbero far parte di una amministrazione maggiormente "con­ divisà: che potrebbero sprigionare un potenziale creativo, che tuttavia deve essere incanalato, sistematizzato, gestito; c'è bisogno di diffondere relazionalità, ovvero di costruire relazioni "di sostanza" che permeino l'agire pubblico, così come di una "rela­ zionalità consapevole" ( Ducci, 2007 ) , capace di integrare nel discorso amministrativo il discorso pubblico; 105

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI c'è bisogno di coltivare fiducia, una risorsa che cresce quanto più la si concede, che appartiene alla relazione tra soggetti agenti e che porta le amministrazioni a lavorare, piuttosto che sulle forme di convinci­ mento della cittadinanza, su quelle della propria credibilità e del coin­ volgimento. La comunicazione pubblica nasce e si evolve in tale contesto. A questo punto del discorso, molti autori avvertono il bisogno di fornirne una definizione, perché il campo, si sa, non è scevro di am­ biguità o di contraddizioni, ben messe in luce nel nostro paese da studiosi, accademici, professionisti ed esperti. E nonostante ci si stia riferendo ad una materia che già da svariati anni è entrata a far parte del lessico comune, non c 'è occasione - convegni, corsi di formazione, articoli, libri, tesi ecc. - in cui non si avverta il bisogno di definirne i confini. Questo, a nostro avviso, denota sia una buona dose di indefi­ nitezza e di polisemia legata ai due termini - "comunicazione" e "pub­ blicà' - che compongono la disciplina e che trovano rispettivamente spazio in storie e professionismi molto diversi tra loro, sia una evidente debolezza definitoria che si accompagna alla sensazione che al di fuori della cerchia degli "esperti" l'espressione "comunicazione pubblica" dia frequentemente adito a malintesi e crei tutt'oggi non poca confusione. Più concretamente, ci sembra che si siano fatte strada due tenden­ ze contrapposte, due concezioni antitetiche della medesima sostanza. La prima tendenza è quella di considerare tutto ciò che si "produce" in ambito istituzionale "comunicazione": dalla norma allo scambio di e-mail, dai regolamenti alle sedute consiliari, dall'affissione nel corri­ doio al video caricato su YouTube, tutto quello di cui si compone la diffusione dell'azione amministrativa e politica è ricondotta al conte­ nitore "comunicazione". Certo, l' inevitabilità dell'atto comunicativo connaturato alla vita sociale dell' individuo fa sì che in questi ragiona­ menti vi sia del vero. Ancor più se la lente da cui osserviamo le organiz­ zazioni è quella prettamente narrativa del discorso pubblico, per cui anche quando le istituzioni non producono in modo intenzionale discorsi, la loro semplice esistenza, così come le attività che realizzano e i servizi che ero­ gano, trasmettono comunque un articolato insieme di informazioni [ ... ] . Le istituzioni sono costantemente attraversate da discorsi senzaparole, che spesso diffondono contenuti e significati anche al di fuori del loro stesso controllo, in forme non sempre congruenti con il flusso di narrazioni intenzionali e dei loro contenuti (Bosco, 20I2, p. 66).

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3· COMUNICAZIONE PUBBLICA Ma quale indicazione possiamo trarre da questa prima tendenza? Che una siffatta "comunicazione" appartenga a qualsiasi soggetto dell'orga­ nizzazione, senza particolare discernimento tra ruoli, funzioni, compe­ tenze. Ci saranno persone che "comunicano di più" o "meglio" di altre, ma sarà difficile che venga loro riconosciuta una particolare professio­ nalità, rinsaldando l'abusata affermazione "comunicatori si nasce". La seconda tendenza, opposta alla prima, è quella che riconduce la comunicazione pubblica a una competenza tecnica; dominio esclu­ sivo di chi ha pratica degli strumenti per comunicare efficacemente e possiede un'opportuna "cassetta degli attrezzi". Una visione che rende sicuramente più orgogliosi i comunicatori, rispetto alla precedente, ma che non li rende particolarmente utili alla vita amministrativa, se non per un apporto puramente tecnicistico, che li arrocca su se stessi e rinchiude la materia in "contenitori" fin troppo stretti. Rende vane, oltretutto, le promesse insite nel termine "comunicazione" (dal latino cum munis, "mettere in comune") , finalizzate a stabilire nessi, gettare ponti, creare condivisione, perché il sapere tecnico rischia al contrario di innalzare barriere, compartimentare. Se già c 'è opacità sui significati attribuiti al sostantivo - "comunica­ zione" -, anche sull'aggettivo non vi è univocità. Al termine "pubblico': infatti, viene attribuito frequentemente un duplice significato: "visibile a tutti" o, viceversa, "appartenente alle PPAA: "del settore pubblico e dello Stato". Entrambe le accezioni non ci soddisfano, poiché tendono a ridurre eccessivamente il campo visivo della comunicazione: d' altron­ de, la visibilità è soltanto una delle facce del prisma, uno dei territori su cui va ad intervenire, così come quello amministrativo-istituzionale è uno, tra molti, dei soggetti emittenti. Così, grazie ai contributi raccolti in letteratura, cerchiamo di razio­ nalizzare e proviamo a chiarire il significato di comunicazione pubblica che in questo testo prevarrà. Il suggerimento proviene da Facciali ( 2ooo, pp. 43-4) che, all' i­ nizio del nuovo millennio, scriveva: « la comunicazione pubblica è il contesto e lo strumento che permette ai diversi attori che intervengono nella sfera pubblica di entrare in relazione tra loro, di confrontare punti di vista e valori per concorrere al comune obiettivo di realizzare l' inte­ resse della collettività » . La felice definizione dà un respiro molto ampio alla materia e fa della mutevolezza una caratteristica intrinseca. Strettamente legata ai contesti, agli attori, alla relazione e al confronto, la comunicazione è I07

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI risorsa in divenire e trova uno spazio adeguato soltanto nelle situazioni aperte ad accogliere questo destabilizzante e continuo cambiamento. Un compito difficile, dunque, che immagina il percorso della materia tutt'altro che scontato o lineare. La comunicazione pubblica è « con­ testo» e « strumento» , dice Facciali, perciò ambito di per sé, con una dignità che le appartiene, che le è propria e non riflessa dalla sfera pubblico-istituzionale in cui viene talvolta confinata. Da qui, a nostro parere, deriva uno dei motivi del difficile inquadramento, semantico e disciplinare : non essendo delimitata dai confini e dai perimetri orga­ nizzativi dell'una o dell'altra istituzione, la comunicazione pubblica si situa in un campo intermedio tra istituzioni e società civile, un "luogo" interstiziale che non appartiene in modo esclusivo né alle une né all'al­ tra, ma che scaturisce dal loro rapporto dialettico e di scambio. Dunque, è "pubblica" questa comunicazione perché pubblico è l' interesse che persegue e sul punto in questione c 'è unanimità di pa­ reri ( Grandi, 2007 ) . In tale direzione va la definizione a suo tempo avanzata da Mancini (I996, p. 87 ) : « attività simbolica di una società in cui, a seguito dei processi di differenziazione sociale, sistemi diversi interagiscono e competono per assicurarsi visibilità e per sostenere il proprio punto di vista su argomenti di interesse collettivo » . «Una comunicazione che non si conclude, né s i racchiude nella "comunicazione governativà'» ( Rolando, 20iob, p. 24 ) , perché se così fosse non sarebbe interessata da tutte quelle istanze sociali che nasco­ no in conseguenza dell'attuazione di provvedimenti normativi, dalle questioni etiche che portano soggetti pubblici e privati a lavorare su un terreno comune, dalle dinamiche di contrattazione tra Stato e parti sociali (ibid. ) . Tuttavia, l e specificità rintracciate non c i devono far pensare ad una disciplina che basta a se stessa. Non è una monade separata dal resto del sistema ( Rolando, 20I4 ) e non dobbiamo dimenticare le articolazioni interne che portano a declinare l' interesse collettivo in più dimensio­ ni comunicative, dunque a fare i conti con una pluralità di soggetti e problematiche. Nella grande famiglia della "comunicazione pubblica" si è soliti far rientrare, a pieno titolo, la comunicazione istituzionale, realizzata pre­ valentemente dalle P PAA, con molteplici scopi per i quali sono state ela­ borate negli anni svariate tassonomie; studiosi e professionisti si sono trovati a fare i conti con le distinzioni entro una materia magmatica e in costante evoluzione. Rintracciamo perciò classificazioni diverse nei I08

3· COMUNICAZIONE PUBBLICA testi rispettivamente di Rovinetti (I994), Mancini (I996), Rolando (I998), Arena (I999), Facciali (2ooo), Solito (2004), Grandi (2007) e altri ancora che hanno dato una formalizzazione e classificazione ad assetti, obiettivi, strumenti e competenze che, nella realtà degli enti, si presentano necessariamente più sovrapposti e con-fusi (Priulla, 2oo8). Possiamo sostenere che ci sia pressoché unanimità di visione sul fatto che la comunicazione pubblica si componga di tre grandi dimen­ sioni. La prima consiste nella comunicazione: di norme e leggi (giuridi­ co-formale) ; generalista delle attività istituzionali; di servizio e pubbli­ ca utilità e per la promozione dell' immagine istituzionale. Rovinetti (I994) ritiene questa dimensione la funzione strategica dell'attività co­ municativa, perché capace di veicolare e consolidare l' identità dell'ente più di altri progetti o iniziative ad hoc. Una seconda dimensione è quella della comunicazione sociale o, altrimenti detta, della solidarietà sociale che può provenire da enti pubblici, semipubblici o privati; tanto da amministrazioni, centrali e periferiche, quanto da enti non profit, da imprese private o dalla part­ nership tra più di questi soggetti, come una realtà dinamica e in crescita sembra evidenziare (Solito, Materassi, 20I3). Infine, la terza dimensione è quella forse più dibattuta per quan­ to riguarda la sua collocazione entro i perimetri della "comunicazione pubblica" ed è la comunicazione politica. L'aspetto posto in discus­ sione non è tanto l'obiettivo perseguito - che anche nel caso della co­ municazione politica è l' interesse generale - quanto le issues trattate, che generalmente hanno carattere controverso e provengono dai partiti politici, con lo scopo di rivolgersi più che al cittadino, quale generico interlocutore della PA, all'elettore (Mancini, 2003; Grandi, 2007) . Le tre dimensioni qui definite forniscono una rappresentazione sintetica di una pluralità di funzioni e attività che connotano come vasta e articolata la rete in cui si inserisce la comunicazione pubblica. Quest'ultima, in ciascun ambito di impegno, sposerà finalità, strumen­ ti, pubblici, linguaggi diversi, anche molto distanti tra loro: si pensi, ad esempio, alla differenza tra realizzare un'informativa per il rilascio del permesso di accesso dei veicoli privati ad una ZTL (Zona a traffico limitato) cittadina - comunicazione di pubblica utilità - e una cam­ pagna per la sicurezza stradale - comunicazione sociale - oppure un evento per spiegare i motivi della costruzione su un dato territorio di un termovalorizzatore voluto dalla maggioranza - comunicazione poI09

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI litica. Anche le professionalità chiamate in causa, sebbene afferenti alla stessa grande famiglia, saranno sicuramente diverse, ma accomunate dal sottile, e fondamentale,fil rouge dell' interesse generale. 3·2 Le rotte tracciate dal legislatore

Il viaggio intrapreso, a dire la verità, non è mai stato completamente privo di riferimenti. Anche quando in "mare aperto" sono sembrati scarseggiare i punti di ancoraggio, si è potuti tornare sulle carte nau­ tiche e rintracciarvi le rotte, le vie maestre che è opportuno seguire. Questo non significa che siano le rotte migliori in assoluto - secondo quale criterio, poi ? - ma sono le traiettorie certe, quelle che non i marinai né tantomeno i passeggeri hanno stabilito, ma esperti cono­ scitori del mare e delle sue complessità. Di coloro che, seppur con non poca fatica e ripensamento, hanno di volta in volta "immaginato" una meta. C 'è dunque una rotta - più appropriato forse dire, più rotte - che la comunicazione pubblica ha seguito in questi anni, tracciate dal legi­ slatore, segnate da punti di riferimento importanti - le singole dispo­ sizioni normative - di cui non si discute qui della giustezza o appro­ priatezza, ma delle quali si prende atto e si prova a offrire una sintesi. Già nelle origini burocratiche del sistema amministrativo possiamo rintracciare il valore rassicurante e quasi terapeutico della norma, lo abbiamo più volte ripetuto: la legge, certo, vincola, prescrive, limita, ma in ogni caso è quell'approdo sicuro a cui tornare, fonte di certezza e criterio d'ordine a cui i pubblici funzionari - dunque, i cittadini - si affidano e del quale si attende la legittimazione di cambiamenti già av­ venuti a livello sociale o l' impulso a cambiare. Sulla legge, per quanto soggetta essa stessa a interpretazione, ci si può accordare, perché capace di reificare, di oggettivare un' idea, una soluzione che non appartiene più all'uno o all'altro interlocutore, ma alla legge stessa. Per questo, nella vaghezza della disciplina che abbiamo descritto e negli scenari incerti verso i quali ci stiamo dirigendo, il percorso norma­ tiva della comunicazione pubblica è un solido ancoraggio a cui tutti gli autori si rifanno. Ed è un percorso per lo più raccontato nei testi e nei manuali seguendo una scansio ne temporale, perché affianca le - o si fa interprete delle - vicende di un paese. IlO

3· COMUNICAZIONE PUBBLICA Non a caso l'excursus normativa della comunicazione pubblica è introdotto da Razzante ( 2003, p. 3 89) così: « il ritardo culturale che l' Italia sta scontando sul versante della comunicazione istituzionale è in gran parte imputabile alla prolungata sopravvivenza di contenuti, atteggiamenti e modi di pensare ereditati dalla propaganda politica at­ tuata dal regime fascista » , ai quali non si è posto rimedio nemmeno dopo la caduta del regime. È un percorso, quindi, che "parte da lonta­ no", con molti aspetti di continuità rispetto a quella storia delle ammi­ nistrazioni raccontata parzialmente nei precedenti capitoli, ma che per i nostri scopi prende avvio nel I990, in quello che è stato efficacemente definito «l'anno del "big bang" della riforma amministrativa » (Sepe, 20IO, p. 20) per i motivi che ora vediamo. Innanzitutto, fino agli anni Novanta, non si scorgono provvedi­ menti volti a individuare canali e strumenti di relazione tra cittadini e istituzioni e la logica persuasoria della comunicazione, a mostrare il lato bello e buono dell'azione pubblica, ha prevalso a discapito della dimensione informativa (Mancini, I996) . Ben lontane dal promuovere un rapporto più simmetrico con il cittadino e dal concepire la comu­ nicazione come strumento di servizio, le istituzioni miravano a dare una migliore immagine di sé verso l'esterno, informazioni interessate, guidate da interessi politici. Così, almeno fino agli anni Novanta, la comunicazione istituzionale è stata solo comunicazione politica, non amministrativa, al punto che le due cose sono state considerate identiche, come se la comunicazione con i cittadini potesse risolversi nella promozione dell' immagine e della visibilità politica del vertice di un ente pubblico, chiamato prima o poi, attraverso elezioni o altre forme di designazione, a ricercare il consenso popolare o di altri organi per ottenere la riconferma ( Razzante, 2003, pp. 390-1).

Lontane perciò potrebbero essere le origini dell'attuale assetto, anche normativa, e frequenti i rimandi alle eredità passate delle disposizioni più recenti, ma non è questa la sede, né nostra la competenza per entra­ re nello specifico discorso normativa-giurisprudenziale. Tuttavia, per l' importanza che riveste, è necessario proporre quantomeno un elenco dei riferimenti più importanti a partire da quel simbolico "spartiacque" segnato dal I 9 9 o, quale linea di frattura tra un sistema amministrativo tradizionale, chiuso, autoreferenziale, che si serviva per lo più di stru­ menti propagandistici per il convincimento della pubblica opinione, e un sistema più aperto e sensibile al coinvolgimento del cittadino, in III

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI un'ottica di progressivo avvicinamento. Nel I990 il passaggio è segnato da due principali interventi normativi: legge 8 giugno I990, n. I42, Ordinamento delle autonomie locali, in cui si cominciano a prevedere istituti di partecipazione popolare e si definiscono, dal punto di vista strategico e operativo, i rapporti tra regioni ed enti locali; legge 7 agosto I 99 o, n. 24I, Nuove norme in materia diprocedimen­ to amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi, meglio conosciuta come "legge sulla trasparenza" per il principio di pubblicità degli atti emessi dallo Stato nelle differenti funzioni pub­ bliche. Il concetto di "trasparenza" verrà richiamato più e più volte nel testo, sia in riferimento a questa prima introduzione normativa, che rappresenta un punto fermo importante ripreso da altre disposizioni più recenti, sia intendendo l'aspetto simbolico e valoriale del termi­ ne "trasparenza". Un' impostazione nuova, quella adottata dalla PA, un punto di vista dirompente rispetto alle logiche propagandistiche, alla cultura del segreto che aveva prevalso fino ad allora. Dobbiamo infatti ricordare che queste due norme nascono in un particolare clima sociale e istituzionale. Le sollecitazioni provengono innanzi tutto da una "emancipazione" del cittadino più consapevole dei propri diritti (Mancini, 2003), anche di informazione. Già tra gli anni Settanta-Ottanta aveva trovato progressivamente spazio il riconoscimento del concetto di informazione come diritto del cittadino, a cui corrispondeva il diritto/ dovere delle istituzioni alla esternazione (Rolando, I9 9 8) : gli uffici stampa iniziano ad assumere un ruolo meno legato al condizionamento politico e più finalizzato alla diffusione di informazioni locali, di servizio. Questo grazie anche ali' affermazione di un regime di libera iniziativa dell'attività radiotele­ visiva, alla nascita di un sistema dei media più articolato rispetto ad un passato di monopolio informativo e al riconoscimento del diritto alla informazione negli statuti regionali (Grandi, 2007 ) . Di fronte al pro­ liferare di emittenti private locali, alla maggiore autonomia del sistema mediale rispetto agli apparati istituzionali e politici e all'allargamento del panorama giornalistico italiano, la PA avverte la necessità di "far­ si sentire". Si tratta di dare visibilità al proprio operato con iniziative informative "autoprodotte': distinguendosi dalle numerose "voci" che raggiungono il cittadino attraverso soggetti esterni alla PA, dunque in II2

3· COMUNICAZIONE PUBBLICA

un clima informativo "eteroprodotto"1 maggiormente concorrenziale e popolato. E la comunicazione pubblica, intesa in senso prevalentemente in­ formativo, è portata avanti soprattutto da giornalisti che collaborano con le istituzioni, in modo più o meno continuativo, oppure dal perso­ nale amministrativo, maggiormente sensibile agli aspetti di diffusione delle informazioni verso l'esterno, senza tuttavia una particolare com­ petenza professionale. Negli anni Ottanta, inoltre, in un clima di mercato particolarmente fiorente, con una straordinaria centralità delle marche e l'esplosione dei consumi a cui si accompagna un incremento degli investimenti pubbli­ citari (ibid.), anche le istituzioni iniziano a promuovere campagne di pubblica utilità, con riferimento all'obbligo della RAI di trasmettere gratuitamente messaggi di interesse delle amministrazioni dello Stato. Inoltre, è bene ricordarlo, si inizia a parlare di una amministrazio­ ne trasparente proprio negli anni di Mani Pulite, ovvero della lotta al triste fenomeno di corruzione e clientelismo noto come Tangentopoli, nel quale l'uso improprio di denaro pubblico, l'abuso di ufficio e molti altri reati commessi da politici e funzionari incrinano il rapporto di fi­ ducia, già precario, tra amministrazioni e cittadini. Per cui la pubblicità degli atti e la "nitidezza" del sistema sono viste come « uno strumento sicuramente efficace anche sul versante della lotta alla corruzione e alla maladministration » (Merloni, 2013, p. I? ) . In un momento di particolare ampliamento del sistema mediale e della professione giornalistica, non più assoggettata esclusivamente al potere, gli aspetti patologici e devianti nella cura dei "beni comu­ ni" - sempre esistiti - assumono una visibilità pubblica mai sperimen­ tata prima. Torniamo, dunque, alle "carte nautiche': e presentiamo una suc­ cessione, non esaustiva e aggiornata al 20I5, di quegli atti normativi che riguardano, più o meno direttamente, le attività di informazione e comunicazione pubblical.: D.Lgs. 3 febbraio I993, n. 29, Razionalizzazione dell'organizzazione 1. La distinzione tra comunicazione autoprodotta ed eteroprodotta è ripresa da Mancini (2003). 2. È possibile accedere ad un elenco ragionato dei riferimenti normativi vigenti sul sito dell'Associazione italiana della comunicazione pubblica e istituzionale (www. compubblica.it), nella sezione "Documentazione".

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COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, che è molto importante, sia perché fa riferimento a strumenti di direzione e di valutazione, come il controllo di gestione, che vanno a introdurre nella cultura amministrativa un orientamento al risultato, piuttosto che al mero adempimento ( Gherardi, Lippi, in Cerase, I999 ) ; sia perché fa spazio all' ingresso nella burocrazia ammini­ strativa di competenze specialistiche, funzionali, i cosiddetti "specialisti di staff': tra i quali possiamo far rientrare anche i professionisti della comunicazione, dell'informatica, della pianificazione organizzativa ecc. (ibid.) ; sia, infine, per un motivo molto importante per la disciplina, perché è il medesimo decreto che sancisce la nascita, obbligatoria, degli Uffici relazioni con il pubblico ( URP ) e la loro istituzionalizzazione; il funzionamento, invece, verrà dettagliato nella direttiva del presidente del Consiglio dei ministri n ottobre I994, Direttiva sui principi per l'i­ stituzione ed ilfunzionamento degli uffici per le relazioni con ilpubblico; D.Lgs. I2 febbraio I993, n. 3 9, Norme in materia di sistemi informa­ tivi automatizzati delle amministrazionipubbliche, che avvia il processo di informatizzazione della PA, istituendo l'autorità (AIPA - Autorità per l' informatica nella Pubblica Amministrazione) che dovrà curare l' interconnessione dei sistemi informativi pubblici. Qualche anno do­ po si parlerà poi della RUPA (Rete unitaria per la Pubblica Ammini­ strazione) per far sì che amministrazioni diverse "dialoghino" tra loro per via telematica, scambiandosi i dati informativi rispettivamente in possesso; direttiva del presidente del Consiglio dei ministri 27 gennaio I 994, Principi sull'erogazione dei servizi pubblici, con la quale si definisce il rapporto tra amministrazione e cittadino-utente e si affermano im­ portanti principi, quali l'uguaglianza degli utenti, la continuità nella erogazione, le modalità di relazione e di gestione del reclamo ecc. Si inizia così a dettagliare la modalità organizzativa delle relazioni con il pubblico, mettendo l'accento non solo sulla informazione dagli enti verso l'esterno, ma anche sulla rilevazione dei bisogni e della soddisfa­ zione dell'utente, "portando dentro" le amministrazioni un materiale nuovo. Si prevede inoltre la Carta dei servizi, un "patto" scritto - come si dirà in quegli anni - tra enti e cittadini con la esplicitazione, tra le altre cose, degli standard qualitativi dei servizi erogati. L' idea di "patto" viene proprio dallo stabilire dei criteri di valutazione della qualità del servizio e dali' attribuire un valore centrale agli aspetti informativi di ciascun servizio erogato; II4



COMUNICAZIONE PUBBLICA

circolare del ministro per la Funzione pubblica 24 aprile I995, n. I4, Direttiva alle amministrazioni pubbliche in materia diformazione delpersonale, che introduce un altro elemento importante, di cui si era iniziato ad avvertire pesantemente l'esigenza: la formazione del per­ sonale degli URP, con un'attenzione specifica ad ambiti tematici quali l' informatica, l'analisi organizzativa, le lingue straniere ecc.; dal I995 al I999 si rintracciano leggi per la semplificazione e lo snel­ limento dell'azione amministrativa, importanti sul piano operativo della PA e dal profondo valore simbolico, che portano aria di novità in tutti gli ambiti. Possiamo qui menzionare: legge 273/1995, per la sem­ plificazione e il miglioramento dell'efficienza delle prestazioni ammi­ nistrative, seguita dalle quattro "leggi Bassanini" dal nome dell'allora ministro per la Funzione pubblica3• Tali norme, a cui faremo più volte riferimento nel testo, hanno messo ordine nel rapporto tra ammini­ strazioni centrali ed enti locali, hanno dettato l'esigenza di procedure più snelle e veloci, istituito la figura del direttore generale e ampliato le funzioni dei segretari comunali, distinto tra un livello politico e uno amministrativo delle organizzazioni, introdotto l'autocertificazione e altri provvedimenti che contribuiscono a definire uno « stato più leg­ gero» (Grandi, 2007, p. I 3 6 ) . Il nuovo millennio segna un ulteriore passaggio importante. Dopo un decennio di novità, con il graduale passaggio da attività informative a carattere divulgativo ad attività bidirezionali, con il riconoscimento nel cittadino di un interlocutore maggiormente consapevole e attivo, gli anni Duemila si aprono con ulteriori domande, problematiche ed esigenze. I primi tentativi di dare struttura e continuità al rapporto con il cittadino non sempre erano andati a buon fine e la realtà istituzionale si presentava diversa: frammentata, disomogenea, "a macchia di leo­ pardo" (Solito, 2004), con l'alternanza sul territorio nazionale di en3· Legge 15 marzo 1997, n. 59, Delega al Governo per il conferimento difunzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa; legge 15 maggio 1 997, n. 1 27, Misure urgenti per lo snellimento dell'attivita amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo; legge 16 giugno 1998, n. 191, Modifiche ed integrazioni alle leggi I5 marzo I997, n. 59, e I5 maggio I997, n. I2J, nonché norme in materia diformazione delpersonale dipendente e di lavoro a distanza nelle pubbliche amministrazioni. Disposizioni in materia di edilizia scolastica; legge 8 marzo 1 999, n. s o, Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi - Legge di semplificazione I998.

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COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI ti particolarmente attivi e propositivi e altri sonnecchianti e chiusi o, peggio, cristallizzati in forme di relazione tradizionali. D 'altronde il percorso intrapreso lasciava emergere una dimensione importante che diventerà presto centrale, ovvero la professionalizzazione di quei saperi informativi e comunicativi che stavano assumendo un ruolo sempre più decisivo nella relazionalità amministrativa. Le pressioni verso una legge sulla comunicazione pubblica si fanno sempre più insistenti e proven­ gono ora da associazioni di categoria, sindacati, ora da esperti influenti del mondo politico e accademico. Ed è così che dopo un' intensa con­ trattazione soprattutto tra Associazione italiana della comunicazione pubblica e istituzionale e Federazione nazionale della stampa italiana (FNS I ) si approda ad una disposizione normativa tanto attesa, quanto fondamentale: legge 7 giugno 2ooo, n. ISO, Disciplina delle attivita di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni, che rappresenta la pietra miliare del percorso della comunicazione istituzionale, la chiave di volta dalla quale derivano gli attuali assetti e le articolazioni interne delle attività. Molti gli aspetti di questa legge meritevoli di un'adeguata trattazione e ai quali torneremo più volte nelle nostre prossime consi­ derazioni. Una norma dall'elevato carattere ordinatore e chiarificatore circa le strutture, i compiti e le professioni chiamati a gestire la nuova relazionalità. In estrema sintesi\ nel testo di legge si individua la nota tripartizione delle attività: la comunicazione verso il cittadino - affi­ data agli URP -, l' informazione verso il sistema dei media - affidata agli uffici stampa -, la comunicazione politica - affidata al portavoce. A ciascuna struttura si affidano specifiche attività, ma sono soprattutto gli URP che assumono una veste particolarmente importante. A queste strutture, fino ad allora dedicate ali ' accoglienza del cittadino, alla ero­ gazione di servizi di prima informazione e di accesso agli atti, si affida un ruolo chiave nella gestione delle attività di comunicazione interna. Insomma, alla medesima struttura a cui spetta la cura del versante ester­ no il legislatore riconosce un ruolo di "cernierà' e di facilitazione delle relazioni interne agli enti; D.P.R. 2I settembre 200I, n. 422, Regolamento recante norme per l'individuazione dei titoli professionali delpersonale da utilizzare presso le pubbliche amministrazioni per le attivita di informazione e di comu4· Un approfondimento sulle disposizioni della legge si può trovare in Razzante (2003); Grandi (2007); Rolando (2014).

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3· COMUNICAZIONE PUBBLICA nicazione e disciplina degli interventi formativi, attuativo della legge ISO/ 2000, che affronta in modo particolare le professioni nella riparti­ zione di competenze tra responsabili e addetti alle relazioni con il pub­ blico ( uRP ) , capi e addetti uffici stampa (ufficio stampa) e portavoce (ufficio del portavoce) . Per ciascuno di questi, oltre a prevedere criteri e condizioni dei nuovi accessi professionali, vengono individuati criteri per "sanare" situazioni specifiche di non piena conformità ai requisiti di legge, mediante percorsi formativi ad hoc. Fa eco, e dettaglia ulterior­ mente i contenuti del decreto, la direttiva del ministro per la Funzione pubblica 7 febbraio 2002, meglio conosciuta come "direttiva Frattini': Attivita di comunicazione delle pubbliche amministrazioni, nella quale si specifica che la comunicazione « cessa di essere un segmento aggiun­ tivo o residuale delle pubbliche amministrazioni, e ne diviene parte integrante » . Tra le altre cose si prevede una soglia di spesa minima per tali attività e si detta l'esigenza che ciascun ente si doti di due tra gli strumenti operativi più importanti, ma anche disattesi: il piano di comunicazione, ossia un documento strategico di previsione annuale degli obiettivi e dei servizi di comunicazione che l'ente intende attuare nell'anno successivo, e il coordinamento tra le strutture di comunica­ zione attivate, che definiamo "cabina di regià'. Infatti, la distinzione delle attività in tre strutture, così differenti per storia, operatività e vocazione, avrebbe dovuto trovare un momento di raccordo, un'uni­ ca "regia" entro ciascuna amministrazione. Ma, come abbiamo detto, sono ancor oggi ben pochi gli enti che hanno dato concretezza e con­ tinuità a tale previsione e il condizionale è il tempo verbale che siamo costretti ad utilizzare; D .Lgs. I 8 agosto 20 o o, n. 2 67, Testo unico delle leggi sul! 'ordinamen­ to degli enti locali, nel quale si introduce il principio di sussidiarietà, già trattato, che porterà alla revisione del Titolo v della Costituzione nell'anno successivo, con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, Modifiche al titolo v della parte seconda della Costituzione; D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 1 65, Norme generali sull'o rdinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazionipubbliche, nel quale si met­ te l'accento sulla necessità di contenimento della spesa per il personale, sull' impiego più efficiente delle risorse umane, sui percorsi formativi, sulla necessità di collegamenti tra uffici, sull'armonizzazione degli ora­ ri di servizio e di apertura degli uffici con le esigenze dell' utenza; D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, Testo unico delle disposizioni le­ gislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, 117

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI che introduce le reti civiche e le città digitali, i sistemi di gestione infor­ matica e i flussi documentali e dettaglia i contenuti dell' e-government, il "governo elettronico" dei rapporti e delle transazioni tra cittadini e PA mediante le tecnologie informatiche. Negli anni successivi, dal 200I al 2005 circa, vi sono state alcune direttive che hanno sottolineato la valorizzazione e la formazione del personale dipendente per poi passare al benessere fisico, sociale e psi­ cologico di tutti i lavoratori con la direttiva del ministro per la Funzio­ ne pubblica 24 marzo 2004, Misure finalizzate al miglioramento del benessere organizzativo nelle pubbliche amministrazioni, e approdare, con il ministro Renato Brunetta e la riforma da lui promossa che ha suscitato grande scalpore nell'opinione pubblica e dentro le ammini­ strazioni, alla legge 4 marzo 2009, n. I5, Delega al Governofinalizzata all'ottimizzazione della produttivita de/ lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonché disposizioni inte­ grative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell'economia e de/ lavoro e alla Corte dei conti, per il rendimento nel lavoro pubblico e i criteri di trasparenza ed efficienza della PA (e decreti correlati ) . Il motivo per cui richiamiamo questi aspetti nel percorso normativa della comunicazione dovrebbe essere ormai chiaro: non solo i comunicatori ne sono coinvolti in quanto dipendenti pubblici, ma gli stessi principi di produttività e di efficienza, così come la dimensione del benessere organizzativo, chiamano in causa la "qualità'' delle relazioni interne, la fluidità dei processi di scambio e di condivisione entro l'amministra­ zione, il miglioramento dell' immagine e la diffusione di una cultura della partecipazione. Tutti temi che, come sappiamo, sono oggetto e obiettivo della comunicazione pubblica. Proseguendo, dunque, lungo le tappe normative, sempre in ordine cronologico, troviamo: D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, Codice dell'amministrazione digitale, contenente le norme relative agli strumenti e alle strategie per la digita­ lizzazione della PA. Un testo ampio, denso, che fissa obiettivi ambiziosi per sollecitare l' innovazione della PA tramite l'adozione nella prati­ ca quotidiana di strumenti informatici e per realizzare la progressiva "dematerializzazione": dalla carta al bit per la cosiddetta "paperless administration". Alcuni degli strumenti individuati sono: la Posta elet­ tronica certificata, la firma digitale, il documento digitale, i servizi on line, la carta d' identità elettronica ecc. Oltretutto la norma riconosce ai cittadini e alle imprese il diritto di richiedere l'uso delle tecnologie u8

3· COMUNICAZIONE PUBBLICA digitali nelle interazioni con la PA . Un passaggio complicato, dunque, tutt'oggi in corso. Fanno seguito al Codice altre norme, volte a stabi­ lire: i requisiti tecnici per l'accessibilità agli strumenti informatici, i criteri di qualità dei servizi o n line e la misurazione della soddisfazione degli utenti, le linee guida per la costruzione dei siti web della PA che riprendiamo poco sotto; direttiva del ministro per la Funzione pubblica 24 ottobre 2005, sulla semplificazione de/linguaggio dellepubbliche amministrazioni, che è un ulteriore tentativo, a distanza di dodici anni dal primo Codice di stile delle comunicazioni scritte elaborato sotto la guida di Cassese e di otto anni dal Manuale di stile curato da Fioritto, di intervenire sulla oscurità della lingua burocratica. Nella direttiva si fa particolare rife­ rimento alle esigenze, dettate dalle nuove tecnologie, di un linguaggio più vicino al cittadino, più snello, ipertestuale, capace di curare sia la parola scritta, che l' impaginazione e la veste grafica; legge IS/ 2009, nota come "riforma Brunetta': attuata dal D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. ISO, Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. IJ, in materia di ottimizzazione della produttivita de/ lavoro pubblico e di effi­ cienza e trasparenza dellepubbliche amministrazioni. Tra le altre cose, la norma prevede la pubblicazione sui si ti istituzionali di un "Programma triennale per la trasparenza e l' integrità''. Sempre nel 2009-I0 altre norme riportano l'attenzione sulle nuove tecnologie, in un'ottica di miglioramento delle qualità dei servizi on line al cittadino, soprattutto dal punto di vista dell' interattività e della velocizzazione dei processi e di riduzione dei siti web della PA. Al mol­ tiplicarsi di iniziative che portano all'apertura smodata di nuovi si ti tematici entro le stesse amministrazioni, il legislatore detta l'esigenza di razionalizzare gli spazi dedicati alla comunicazione via web con il cittadino; D.Lgs. 30 dicembre 20IO, n. 235, Modifiche ed integrazioni al decre­ to legislativo 7 marzo 20 05, n. S2, recante Codice dell'amministrazione digitale, a norma dell'articolo 33 della legge IS giugno 2009, n. 09, che introduce alcune novità verso l'attuazione di una PA digitale. Le modi­ fiche più importanti sono relative alla copia di documenti analogici in formato digitale; la necessità di impiegare le tecnologie informatiche per scambiarsi informazioni entro la PA ; le "qualità'' del documento informatico; le modalità di archiviazione dei documenti digitali; - Linee guida di design per i siti web della PA , nel luglio 20IO e nel 2011, per l'organizzazione dei contenuti dei si ti, la loro gestione e l' ag119

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI giornamento, nonché un'ulteriore razionalizzazione degli spazi web istituzionali; D.L. 9 febbraio 20I 2, n. s , Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo, cosiddetto "Semplifica ltalià'. Il clima politico è cambiato rispetto alla fase precedente, perché da novembre 20I I entra in carica il governo "tecnico" con Mario Monti, presidente del Consi­ glio. Tra gli obiettivi quello di contenere la spesa pubblica (spending review) anche attraverso una maggiore efficienza degli apparati. Viene quindi attribuito - confermando il trend precedente - un ruolo chiave all' innovazione tecnologica, introducendo misure di semplificazione per il rapporto con i cittadini e con le imprese ; legge I4 gennaio 20I3, n. 4, Disposizioni in materia di professioni non organizzate, ovvero quelle professioni "senza albo o ordine pro­ fessionale". Tra queste anche la professione del comunicatore pubblico può essere riconosciuta mediante l' iscrizione all'Associazione italiana della comunicazione pubblica e istituzionale, ammessa negli elenchi degli enti abilitati a rilasciare l'attestazione dal I0 agosto 20I4. Per con­ tro l'associazione deve garantire il rispetto di principi deontologici, nonché la formazione degli iscritti; D.Lgs. I4 marzo 20 1 3 , n. 3 3 , Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicita, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, poi aggiornato dal cosiddetto "decreto Renzi" ( D.L. 24 giugno 20I4, n. 9 0, Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l 'efficienza degli uffici giudiziari) in materia di trasparenza, intesa come "accessibilità totale"; nel 20I4 si definisce la strategia per la crescita digitale 20I4-2o. Già nel maggio 20IO la Commissione europea aveva presentato l'Agenda digitale e, in linea con la Strategia EU202o, i paesi membri si erano impegnati per recepirla. Nel 20I2 l'Agenda digitale viene istituita in Italia e vengono fissati alcuni ambiti di intervento, ripresi e ampliati dalla Strategia nel 20I4: la banda "ultralargà' per l'accesso alla Rete e il superamento di quei limiti infrastrutturali alla navigazione; gli open data con la pubblicazione e condivisione dei dati in possesso della PA di utilità dei cittadini; le smart communities, ossia le città e comunità intelligenti, così "spiegate" dall'Agenzia per l' Italia digitale ( istituita con il D.L. 22 giugno 20I2, n. 83,Misure urgentiper la crescita delPaese) : « infrastrutture tecnologiche e immateriali che mettano in comunica­ zione persone e oggetti, integrando informazioni e generando intelliI20



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genza, producendo inclusione e migliorando la vita del cittadino ed il business per le imprese, anche attraverso azioni di promozione della soci al innovatio n » s ; legge 7 agosto 20IS, n. I24, Deleghe al Governo in materia di ri­ organizzazione delle amministrazioni pubbliche, cosiddetta "legge Ma­ dià' - dal nome del ministro per la Semplificazione e la Pubblica Am­ ministrazione -, che getta le basi per una riforma più completa della PA . La legge interviene su numerosi aspetti, tra cui ricordiamo: introduzio­ ne della "Carta della cittadinanza digitale" per poter accedere a tutti i documenti e servizi di interesse del cittadino in modalità digitale; erogazione dei servizi on line come livello essenziale delle prestazioni della PA e la previsione di strumenti sanzionatori per gli enti inadem­ pienti; previsione di una figura di responsabile alle dirette dipendenze dell'organo politico di vertice con competenze digitali e manageriali per traghettare l'ente verso una completa digitalizzazione; semplifica­ zione delle disposizioni in materia di pubblicità e trasparenza; istitu­ zione del "Sistema della dirigenza pubblicà' con l' individuazione di criteri di accesso, valutazione, aggiornamento e formazione continua di ciascun dirigente, e molto altro ancora. Certo, la lettura di un elenco chiuso di norme non è agevole e ol­ tretutto manca della reciproca contaminazione e progressiva sedimen­ tazione che arricchiscono il vissuto normativa entro le amministrazio­ ni. Allora, per un migliore inquadramento funzionale ai nostri scopi narrativi e descrittivi, possiamo azzardare l' individuazione di quattro aree di interesse del legislatore che sembrano emergere dall'excursus tracciato e che spiegano il nesso con le nostre discipline: 1. area del contesto amministrativo: la prima area non è propriamen­ te attinente alle attività di comunicazione in senso stretto, ma è carat­ terizzata da importanti disposizioni che definiscono il "clima" generale entro cui si sviluppa la comunicazione pubblica e le condizioni per cui si instauri relazionalità tra cittadini e istituzioni. Parlare di "trasparen­ za': "accesso': "valutazione" ecc. significa parlare anche di "comunica­ zione': nel momento in cui questi termini rimandano ad uno specifico modo di pensare il lavoro pubblico - basato sullo scambio e sulla con­ divisione -, e ancor più immaginare forme diverse per rapportarsi al cittadino; S· Cfr. http:/ /www.agid.gov.it/agenda-digitale/citta-comunita-intelligenti (con­ sultato il 2s gennaio 2017 ) .

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COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI 2. area dei processi e degli assetti: rientrano in questa seconda area quei provvedimenti volti a definire il modus operandi delle ammini­ strazioni e gli assetti in base ai quali viene strutturata la comunicazione pubblica. In questo caso, nelle norme si fa esplicito riferimento alle strutture di comunicazione e informazione, per cui viene in mente senz'altro la legge I50/2ooo e le disposizioni ad essa correlate; 3 · area delle competenze e delle professioni: è quella dedicata ai rap­ porti di pubblico impiego e alla definizione degli aspetti professionali, tra cui i criteri di selezione e di valutazione delle performance. Qui le disposizioni, come si potrà notare dalla data di emanazione, si infitti­ scono negli ultimi 6-7 anni quando la managerialità pubblica è stata complessivamente revisionata e sono stati messi al centro criteri di effi­ cacia e di efficienza raggiungibili anche mediante una maggiore fluidità dei processi comunicativi; 4· area dell' innovazione tecnologica: l'ultima area è dedicata alla in­ novazione tecnologica, soprattutto scaturita dalla progressiva afferma­ zione di Internet, e cerca di risolvere le principali questioni problemati­ che che possono nascere dali ' impiego delle nuove tecnologie in ambito pubblico e nelle relazioni esterne. Pertanto, il processo di riforma avviato dagli anni Novanta sembra articolarsi su alcuni "campi di modernizzazione': che possiamo così sin­ tetizzare (Promberger, Friih, Bernhart, 20IO ) : I. decentramento ammi­ nistrativo; 2. orientamento al cittadino e management della qualità; 3 · modernizzazione del sistema di pubblico impiego; 4 · Electronic Gov­ ernment e sviluppo delle ICTs (Information and Communication Tech­ nologies) ; 5· snellimento burocratico e semplificazione amministrativa; 6. partecipazione e accessibilità totale. Ora, non è nostra intenzione approfondire gli eventi e i passaggi chiave avvenuti intorno alla comunicazione pubblica in Italia dagli an­ ni Novanta; ben altri autorevoli contributi hanno soddisfatto questo interesse conoscitivo e con elevata competenza al riguardo, ai quali ci stiamo costantemente riferendo6• Possiamo però prendere da queste "rotte" del legislatore alcuni spunti, anche solo derivanti dalla sommaria e tutt'altro che esaustiva elencazione7, per darne una chiave di lettura 6. Possiamo rintracciare un excursus storico-normativo in Mancini (1996); Grandi (2007) ; Rolando (2o1ob; 2014). 7· Per una migliore e più approfondita trattazione dei temi qui tracciati si invita alla lettura dei testi normativi citati, anche da parte di chi non possiede particola-

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che, neli'economia del testo, potrà esserci utile. Innanzitutto, balza agli occhi la varietà di tematiche che si integrano nel percorso comunicati­ vo: quantitativamente parlando, esse sottolineano, a nostro avviso, la necessità che negli anni si è avvertita di modificare, limare, armonizzare aspetti diversi, ma pur sempre correlati, della vita istituzionale. Lontana dali'essere un blocco monolitico di attività, la comunicazione pubblica ha più una forma "tentacolare" e si dirama in numerosi aspetti di vita organizzativa e sociale. Dal punto di vista, invece, contenutistico, dobbiamo ammettere che le dimensioni chiamate in causa sono davvero molteplici e la pro­ duzione normativa degli ultimi venticinque anni non trova uguali, né precedenti per l'attenzione prestata alle dinamiche comunicative. Certo, nel nostro paese si trattava di colmare un ritardo singolare e, se mettessimo a confronto, ipoteticamente, la timeline normativa e quella dei cambiamenti a livello globale, si vedrebbe probabilmente che il legislatore si è mosso più per recuperare terreno che per anticipare l'innovazione8• Su quest'ultimo tema avanziamo una seconda conside­ razione: delle quattro aree individuate, l'ultima - quella appunto rela­ tiva ali' ammodernamento tecnologico della PA - è senz 'altro la prota­ gonista degli ultimi dieci anni, un'attenzione che potremmo definire "cannibalizzante" rispetto ad altri temi, pur importanti, della comuni­ cazione interna ed esterna alle amministrazioni. Per contro notiamo invece che c 'è un'area, quella degli assetti, più o meno ferma alla legge ISO/ 2000, come se i cambiamenti, seppur avvenuti e di grandi dimen­ sioni, non avessero intaccato l'organizzazione del lavoro, le attribuzioni degli uffici, le professionalità convocate. L'osservazione empirica e le ricerche sul tema, come vedremo, ci consegnano una realtà differente che non vuole inficiare i contenuti della legge ISO/ 2000, ma ne richiede con urgenza un aggiornamento. Più che di una vera e propria carenza o di uno iato normativa, ci sembra di rilevare dietro a questo aspetto un fraintendimento che si ripercuote anche sulle singole amministrazio­ ni. Ovvero che le nuove tecnologie siano la spinta propulsiva necessa­ ria - non c 'è dubbio - e sufficiente - e su questo avanziamo perplessi­ tà - per la qualità del sistema comunicativo-relazionale della PA e per re dimestichezza con il settore, perché risulterà comunque interessante vedere quali e quanti aspetti contribuiscono alla complessiva organizzazione amministrativa in chiave comunicativo-relazionale. 8. Un confronto simile lo propone Lovari (2013, pp. 44-s).

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COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI un suo ammodernamento. Metter mano alle dotazioni tecnologiche è sicuramente utile, ma ciò non prescinde da una riflessione e una mi­ gliore contestualizzazione dei processi di digitalizzazione nei perimetri organizzativi della PA e delle competenze comunicative convocate. Un'ultima considerazione riguarda la previsione di norme che dettano assetti, competenze, attribuzioni, strumenti che impongono scadenze e obiettivi di performance senza particolare discernimento tra la natura diversa delle amministrazioni - comuni, regioni, ministe­ ri, aziende sanitarie, Unioni di comuni ecc. sono tutti sotto lo stesso "ombrello" normativa - e, soprattutto, tra le diverse dimensioni e ri­ sorse disponibili. Se, come abbiamo anticipato, non vogliamo con ciò esprimere una critica nei confronti di una scelta del legislatore - non essendo esperti di materia giuridica e non conoscendo le premesse di tale scelta -, vogliamo però evidenziare due aspetti correlati. Il primo è l'imprescindibilità dei cambiamenti e della centralità della comuni­ cazione pubblica: nel più complesso dei ministeri, così come nel più piccolo comune italiano, non ci si può sottrarre dal ripensamento del rapporto con i cittadini e dall'adozione di specifici obiettivi (anche) comunicativi, informativi e, oggi, di digitalizzazione. Una centralità a suo tempo già esplicitata dall' Unione Europea nel Libro Verde sulla co­ municazionepubblica in Europa ( I 9 9 8 ) nel quale si leggeva: « La comu­ nicazione della PA non è solo un'attività importante, ma è essenziale; non consentire l'accesso alle informazioni pubbliche rappresenta una minaccia per i cittadini dei Paesi dell' Unione europea » . Dunque la normativa sembra indicare "un viaggio" uguale per tutti, un'esigenza a cui nessuna "particolarità'' può sottrarsi. Da qui il secon­ do aspetto: è innegabile il senso di affaticamento che potranno avver­ tire le realtà istituzionali più piccole. Non ci interessa tanto sollevare il problema per una questione di "inadempienzà: ovvero per i "costi" di una non completa aderenza al dettame normativa: d'altronde in questo ventennale percorso non si è quasi mai realizzato un effettivo monitoraggio e relativo sanzionamento di quelle realtà non "confor­ mi". Si tratta tuttavia di prendere atto di una profonda disomogeneità all' interno delle amministrazioni italiane, nel momento in cui si fa leva esclusivamente sulla capacità del singolo ente di realizzare quanto pre­ visto, di contare sulle risorse proprie, di prevedere il costante aggiorna­ mento dei profili professionali ecc. Perciò, al di là dell'aderenza alla norma, ci saranno enti che, non potendo seguire appieno le indicazioni legiferate, saranno costretti ad I24



COMUNICAZIONE PUBBLICA

assumere soluzioni adattive, ad accontentarsi, ad arrangiarsi come me­ glio possono, tagliando, limando, stemperando le previsioni, ma non secondo un criterio condiviso e disciplinato, bensì ciascuno secondo le proprie sensibilità, opportunità, convenienze. E non sempre questo aggiustamento viene operato mettendo al primo posto la "cultura co­ municativa". Ma su questo torneremo a breve. 3·3 Strutture dedicate, tenute delicate

Ad oggi l'assetto della comunicazione pubblica previsto dalle narmati­ ve è il seguente: una ripartizione di competenze fra tre strutture, dove gli URP mantengono i rapporti con la cittadinanza, gli uffici stampa costruiscono i contenuti e li diffondono attraverso il sistema mediale, il portavoce cura la comunicazione del vertice politico dell'ente. I pri­ mi - gli URP - sono obbligatori; i secondi eventuali, nel senso che le amministrazioni se ne possono dotare anche in forma associata; i terzi sono opzionali e tendono ad essere presenti, in questa specifica forma, in quelle realtà organizzative dove ve ne sia l'opportunità. Questa è la previsione di legge. Poi c 'è la realtà. Ormai è risaputo, infatti, che le situazioni rintracciabili empirica­ mente sono altamente eterogenee e mutevoli e gli organigramma istitu­ zionali, invece di somigliarsi in virtù di un medesimo corpus normativa di riferimento, tendono a differenziarsi sempre più. Tra ente ed ente, per quanto riguarda la comunicazione pubblica e istituzionale, si pre­ vedono spazi, collocazioni, assetti, compiti e margini di manovra molto diversi. Grandi ( 2007, p. 23 I ) parla a tale riguardo di uno "iato': più o meno consistente, tra le indicazioni della norma e le decisioni delle amministrazioni: « tale iato non è riferito solo all'aspetto quantitativo (quante amministrazioni hanno assunto il dettato di legge e quante no) ma anche a livello qualitativo, ovvero quali soluzioni "personalizzate" sono state adottate dalle amministrazioni rispetto all'uniformità del modello di relazioni con il pubblico e comunicazione istituzionale in­ dicato nella legge I50/2ooo » . Insomma, l' imbarcazione sulla quale c i potremmo ritrovare da cit­ tadini è ora un vascello, ora un moderno yacht, ora una carretta del mare. In ogni caso si muoverà verso gli stessi orizzonti, saremmo ac­ compagnati da un personale di bordo e da un equipaggio più nutrito I2S

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI o più ridotto all'osso, ora godendoci il panorama, ora dandoci da fare perché chiamati a dare il nostro contributo e a remare9. Per cui le differenti realizzazioni delle previsioni normative raccon­ tano una realtà molto più "irregolare" rispetto alle geometrie previste dal legislatore, come quei "poligoni" a cui faceva riferimento una pub­ blicazione del 2004 edita dal Dipartimento della Funzione pubblica; una situazione in fieri, un « work in progress» ( Solito, 2004, p. 70 ) non sempre verso una progressiva crescita o maturazione. Anzi, talvolta capace di retrocedere rispetto a una "età dell'oro" che ciascun ente può aver esperito in passato. Così, « mentre sul versante giuridico molte leggi hanno tentato di modificare i comportamenti amministrativi adeguandoli a mutate condizioni culturali e sociali, sul piano organizzativo i processi sono stati più lenti e faticosi » ( Cavallo, 2005, p. I 6 I ) e quella odierna è una situazione tutt'altro che stabile e conclusa. A dircelo sono innanzi tutto i dati di ricerca. Pochi, in realtà, quelli disponibili e ancor meno quelli aggiornati relativi agli scenari naziona­ li. Infatti, oltre a quello che possiamo aver appreso, in maniera infor­ male, da letture di vario genere o in occasioni di convegni e seminari, le ricerche volte a "fotografare" lo stato dell'arte delle strutture di comu­ nicazione e di informazione nelle PPAA sono davvero poche. Il rapporto di ricerca più recente realizzato dal Dipartimento della Funzione pubblica sullo stato di attuazione delle legge I50/2ooo risale al 200 3 . ln quegli anni, su un campione composto da comuni, aziende sanitarie, camere di commercio, province, regioni e università, emerge­ va che il 3 s,s% aveva recepito appieno la legge; i1 47,7% l'aveva recepi­ ta in parte; il I4,7% era totalmente inadempiente. Tra le motivazioni addotte alla totale o parziale attivazione delle strutture previste vi era la convinzione che i parametri posti dalla legge fossero sovradimensio­ nati rispetto alle reali possibilità degli enti di più piccole dimensioni e con risorse, umane ed economiche, ridotte. Per questo motivo, gli enti costretti a scegliere avevano dato prioritariamente avvio agli URP ( presenti nell' 87,I% dei casi ) o agli sportelli al cittadino e alle imprese; 9· Il riferimento a cui allude la metafora di un cittadino chiamato a remare non riguarda la partecipazione "dal basso", questa voluta e perseguita, bensì quelle situa­ zioni in cui la cittadinanza svolge compiti di supplenza rispetto all'azione istituzio­ nale e, a fronte di una scarsità di comunicazione pubblica, è costretta ad organizzarsi autonomamente.

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3· COMUNICAZIONE PUBBLICA gli uffici stampa erano presenti nel 39% dei casi, mentre il portavoce era stato istituito soltanto nel I 9,8% dei casi. Da un'altra ricerca, condotta dalla Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano e dal Dipartimento della Funzione pubblica nel periodo 2000-0410, si evince che il 72,4% degli enti in­ tervistati è provvisto di un URP, mentre il 48,I% di un ufficio stampa. Ma un dato ancor più interessante che si apprende dal Rapporto è che il 68,9% delle amministrazioni non prevedeva ai tempi strutture ad hoc per le attività di comunicazione, che risultavano pertanto disseminate tra i vari uffici. Non essendoci indagini più recenti a carattere nazio­ nale, non possiamo sapere ad oggi quali siano i livelli di attivazione delle strutture previste; non si può certo immaginare una situazione di congelamento, visto che sono trascorsi dodici anni da allora, ma non si può nemmeno pronosticare una situazione particolarmente più flo­ rida, considerate le vicissitudini degli ultimi anni che hanno visto più una contrazione, soprattutto a livello locale, che un ampliamento delle risorse disponibili. C 'è poi un piccolo contributo che sembra confermare la supposi­ zione iniziale e che proviene da una ricerca condotta a livello regionale, che ha interessato la (quasi ) ll totalità dei comuni toscani ed è aggiorna­ ta al 20I4 ( Materassi, Solito, 20I5 ) . Di per sé questi dati non possono essere considerati estendibili ad una situazione nazionale, né ad un pa­ norama più articolato di enti amministrativi; stiamo tuttavia parlando di una regione nella quale la comunicazione pubblica ha goduto fin dagli albori di un discreto riconoscimento, di una certa qualità e di un livello amministrativo, quale quello comunale, che fin dai primi anni Novanta ha ricoperto un ruolo dapivot rispetto al cambiamento, anche per la conformazione più agile rispetto alla pesantezza e complessità ministeriale o di altre amministrazioni centrali. Per cui sorprende non poco che dalla rilevazione menzionata si apprenda che soltanto il 55% dei comuni toscani abbia attivo un URP 1 2 , mentre nel 4I,3% dei casi vi 10. La ricerca Situazione e tendenze della comunicazione istituzionale in Italia (2ooo-2004) è stata realizzata dall' Università IULM di Milano con la collaborazione

del Dipartimento della Funzione pubblica e il coordinamento di Stefano Rolando. 11. La ricerca, alla quale ha partecipato l'autrice, ha rilevato gli assetti della co­ municazione pubblica e istituzionale in 269 comuni toscani (su 282 al momento della rilevazione ) . 12. Da una rilevazione più parziale perché relativa a soli 100 comuni toscani, svolta nel 2oo6, risultava che l' 8o,6% degli enti avesse un URP (Bucci, Tusini, 2007 ) .

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COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI siano persone che si occupano delle attività di relazione, ma senza un inquadramento nella struttura deputata. Ancor più "fluida" la situazio­ ne degli uffici stampa, presenti nel I9% dei casi, a fronte di un 6s,8% che svolge informalmente attività di informazione istituzionale. Oltre alla maggiore o minore strutturazione delle attività, la situa­ zione esistente mette in luce anche altri aspetti, meritevoli, a nostro avviso, di attenzione. È interessante, infatti, che accanto ai "saperi tradizionali': altri pro­ fessionismi sembrano oggi ricollegarsi alle attività di comunicazione in ambito istituzionale e attingono a "famiglie" disciplinari diverse ( Masi­ ni, Lovari, Benenati, 20I3). Si rintracciano saperi informatici, grafici, editoriali; competenze di content management, marketing, project management, corporate identi­ ty, marketing territoriale; community manager, esperti di governance e partecipazione, comunicatori sociali, digita! strategist, richiamando una nomenclatura vasta, articolata e altamente differenziata tra ente ed ente, che il larga misura non trova una traduzione efficace nella lingua italiana. Infatti, come mette in luce Pezzoli (2oi6) , ai comunicatori serve oggi un kit più ampio di strumenti, non solo riconducibile alla "scrit­ tura" di testi, ma al loro adeguamento ai formati - eppure quanti post si leggono sulle pagine Facebook dei comuni che "incollano" il comu­ nicato ! -, all'uso di altri linguaggi come la fotografia, la grafica, le pro­ duzioni video e l' ipertestualità. L'affacciarsi di nuovi professionismi sulla scena pubblica e, ancor prima e non sempre in maniera connessa, l' impiego di media digitali pongono domande che cercano risposte organizzative, più che operati­ ve. Infatti quella distinzione tra le strutture della legge Iso l 20 o o appare fin troppo rigida rispetto alla maggiore "elasticità'' richiesta dalla social media logic, e così, anche a fronte di un mantenimento della struttura­ zione "tradizionale" delle competenze, si rilevano non poche variazioni sul tema a livello di gestione e di modalità operative. Come afferma Solito ( in Materassi, Solito, 20IS, p. 3 3 I ) , a corredo di una ricerca con­ dotta sul territorio toscano, « ciò che quindici anni fa la legge ha voluto definire e in qualche modo "separare': i processi di cambiamento inter­ venuti - soprattutto quello tecnologico - sembrano ricomporre, attra­ verso ibridazioni che richiedono maggiori intersezioni e interazioni » . Cambiamenti che dunque mettono alla prova la tenuta e la ca­ pacità contenitiva delle strutture o, secondo il punto di vista, le renI 28

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dono obsolete e de facto superate. Siamo di fronte a una situazione contraddittoria: da un lato aumentano le richieste di una costante vitalità delle attività comunicative degli enti e di una maggiore visi­ bilità che accompagni tanto le azioni amministrative, quanto quelle di governo; dall'altro non si riconosce il valore di strutture specifiche che "contengano" e coordinino i differenti centri di produzione di at­ ti a rilevanza comunicativa. Ed è così che la comunicazione pubblica diviene una presenza "ubiquitarià' nell'organizzazione ed esonda dai tradizionali e competenti alvei dove il legislatore l'aveva immaginata ( Solito, 20I4 ) . 3·3·1. LAVORO GIORNALISTICO E PUBBLICHE RELAZIONI

Il ragionamento finora sviluppato ci porta a spostare lo sguardo dall' im­ portanza delle strutture alla rilevanza delle soggettività e, in particolar modo, delle professionalità. Trascurando in questo testo le specificità dei portavoce - più as­ similabili al profilo dei comunicatori politici - che non sono oggetto dei nostri studi, nonostante servirebbero a nostro avviso ricerche che mettano in relazione i due versanti, ci dedichiamo agli altri due profili: agli addettP3 stampa e agli addetti alle relazioni con il pubblico. Sebbene entrambe attinenti alle competenze comunicative sopra esposte, queste due professionalità presentano storie, identità e prati­ che di lavoro molto diverse tra loro. Gli addetti stampa svolgono un lavoro prettamente giornalistico e di cura delle media relations; da norma, devono possedere un ricono­ scimento professionale, l' iscrizione all'albo dei giornalisti o dei pub­ blicisti e non devono ricoprire, per il periodo in cui operano all' in­ terno di un ente pubblico, ruoli giornalistici presso redazioni esterne o nel sistema dei media, per un evidente conflitto di interessi. Senza entrare nelle specificità di inquadramento professionale che ancor og­ gi animano il dibattito intorno alla professione, entro l'Ordine e le associazioni di rappresentanza, possiamo dire che il giornalista di un ufficio stampa di un'amministrazione ha un ruolo diverso rispetto a 13. Il termine "addetto" non vuole qui riferirsi ad un livello strettamente organiz­ zativo che lo distingua da un funzionario responsabile; lo impieghiamo per semplicità con il significato di figura preposta, assegnata allo svolgimento ora di mansioni di relazioni con i media, ora di relazioni con il pubblico e di front office.

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COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI quello che può avere un collega impegnato in altro contesto lavorativo. Egli ha spesso a che fare con "non notizie", perché gran parte delle in­ formazioni che l'amministrazione chiede di diffondere esternamente e ritiene meritevole di visibilità non è granché spendibile sul mercato della notiziabilità e ha poche chance di superare il livello di copertura locale: l' inversione di senso di una rotatoria, l' inaugurazione di una nuova aula scolastica, la visita di un esponente di un paese gemellato o la pubblicazione di un bando per il rilancio delle imprese artigiane sono tutte informazioni che hanno una qualche utilità per il cittadino, una grande centralità per la vita di chi ha prodotto quelle iniziative, uno scarsissimo appeal per il sistema mediale. Il lavoro dell'addetto stampa sarà dunque quello di una costante negoziazione tra gli interessi propri dell'ente - che, secondo logiche spesso autoreferenziali, chiederebbe di organizzare una conferenza stampa per qualsiasi accadimento - e le logiche medi ali; si tratterà di scegliere, in un panorama mediale vasto e articolato, addensato di media autoprodotti dali' amministrazione (si ti, newsletter, totem, pagine social, manifesti, spazi TV e radio ecc.) ed eteroprodotti (stampa quotidiana e periodica, testate online, TV, social network ecc.), quelli più appropriati per il tipo di notizie da veicolare. Altrimenti, per competere sulla scena dei media mainstream o assicurare ai "propri" contenuti una maggiore visibilità, l'addetto stampa potrà servirsi di varie "tecniche", strettamente basate sulle cir­ costanze e sulla sua capacità di conciliare l'attenzione ai contenuti con la cura delle relazioni, servendosi delle innumerevoli e non sempre lar­ gamente conosciute potenzialità offerte dagli strumenti informatici: infografiche, cloud computing, app, messaggistica istantanea, dirette in streaming ecc. Questo processo trasformativo della professione, un tempo finaliz­ zata a scrivere un "buon" comunicato e a curare strumenti di informa­ zione di elevata qualità (ad esempio monografie, brochure ed opuscoli, pubblicazioni periodiche cartacee ecc.), meno dettati dali' immediatez­ za e dalla concitazione dei tempi di lavoro, è stato definito "negozia­ zione 2..o" che « scaturisce dalla convergenza temporale dell'azione di fonti, giornalisti e pubblico » (Sorrentino, 2.oo 8b, p. I2.6). Agli addetti stampa, quali fonti, spetta un ruolo di spin doctor, di colui che "mas­ saggia il messaggio': poiché, conscio del lavoro selettivo delle redazioni giornalistiche e della produzione di contenuti da parte dei cittadini stessi ( uGc - User Generated Content) , dovrà lavorare sulle logiche di posizionamento delle proprie notizie nel nuovo ecosistema informa130

3· COMUNICAZIONE PUBBLICA

tivo (ibid. ) e all' interno dell'agenda setting game ( Marini, 2oo6). Ma non parliamo esclusivamente di quei contenuti voluti e proposti delle amministrazioni: gli addetti stampa che si muovono in ambienti digi­ tali incontrano la cittadinanza, composta da singoli utenti, così come da organizzazioni, che producono contenuti e che avranno un qualche interesse o chiederanno esplicitamente di essere considerati dalle am­ ministrazioni; le quali avranno il compito di selezionare, filtrare, ma anche di far accedere e portare dentro. A questo punto del discorso passare a parlare di personale addetto alle relazioni con il pubblico non sembra un salto così grande come si pensava all' inizio o, almeno, ai tempi della legge I50/2ooo. O meglio. Parlare di URP non significa spostarsi dal versante dei contenuti a quello delle relazioni perché, come abbiamo visto, gli stessi uffici stampa si trovano oggi a gestire una relazionalità esterna, impor­ tante e non confinabile al sistema mediale. Ci sembra d'altronde di notare come alcuni enti, anche per fron­ teggiare situazioni di ristrettezza e di scarsità di risorse, abbiano avviato una fruttuosa sinergia e convergenza tra le strutture, valorizzando gli aspetti comuni che trovano proprio nel management relazionale un punto chiave. E non possiamo nemmeno distinguere le due funzioni sulla base dei canali impiegati: addetti stampa e addetti URP alternano le relazio­ ni dirette, faccia a faccia, a quelle mediate, utilizzano le nuove tecno­ logie informatiche, spesso spartendo gli spazi di rispettiva competenza sui siti istituzionali. È necessario tuttavia non trascurare quelle irrinunciabili specificità degli URP: svolgono un importante ruolo di raccordo tra amministrazione e cittadinanza mediante le funzioni di sportello, fisico o virtuale che sia. Una funzione di accompagnamento alla fruizione di atti, norme e ser­ vizi per l'utente; tutelano, regolano e curano la dimensione dell'accesso ali 'ente: dal­ la prima accoglienza alla "comunicazione anagrafica" dell'ente ( Rolan­ do, 20I4, p. I72), finalizzata a chiarire l' identità istituzionale, ma anche il riconoscimento del diritto di accesso agli atti amministrativi; hanno il compito di trainare la comunicazione interna all'ente, stimolando e coordinando gli atti comunicativi diffusi, conciliando processi interni ed esterni di comunicazione; I3I

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI svolgono (o dovrebbero svolgere) attività di ascolto dell'utenza, sia mediante le relazioni di front office, sia attraverso azioni specifiche di ascolto attivo e di monitoraggio (citizen satisjàction ) ; hanno il compito di promuovere una cultura della pianificazione delle attività comunicative dell'ente; assicurano, mediante la multicanalità, il raggiungimento di tutti i pubblici, cercando di superare il digitai divide entro la popolazione, mantenendo ampi spazi di relazionalità diretta e in compresenza. Infatti, una funzione che questi uffici si trovano sempre più a ri­ vestire, e che a nostro avviso meriterebbe una particolare attenzione e una specifica esplorazione, è la cura delle relazioni con un'utenza "re­ siduale" rispetto a quella che opta per altre modalità di relazione e di fruizione dei servizi. Un'utenza spesso "fragile" composta da anziani, immigrati, diversamente abili, dalle cosiddette "fasce deboli" e dalle nuove povertà che, prima ancora di una soddisfazione razionale di un bisogno specifico, cercano ascolto, accoglienza, orientamento. Un'u­ tenza dunque che si rivolge all' URP con domande di tipo assistenziale che non sempre possono trovare risposta nelle professionalità di pub­ bliche relazioni e che richiederebbero una maggiore sinergia con altri saperi e funzioni sociali. Concludendo, questa distinzione tra le due colonne portanti dell'organizzazione della comunicazione pubblica, che riteniamo ri­ levante e funzionale alla prassi quotidiana e al riconoscimento delle specificità anche professionali, verrà data per scontata nel prosieguo del testo, così come è stato dapprima. Tale scelta, da un lato, vuole sempli­ ficare l'esposizione dei concetti che seguiranno, rendendo più fluido il racconto, ma, dall'altro, vuole ribadire l' importanza di considerare la comunicazione pubblica non tanto come una "riservà' degli uni o degli altri "specialismi': bensì come una famiglia allargata, che si trova ad affrontare il medesimo viaggio e, soprattutto, sulla stessa imbarcazione. Per questo ci riferiremo ad una generica figura del "comunicatore pub­ blico': anche per auspicare una crescente vicinanza (ma non reciproca "invasione") tra sistema dell' informazione e relazioni pubbliche14, tra uffici stampa e URP.

14. Sulla complementarietà e sui tratti di vicinanza tra questi due ambiti pro­ fessionali, anche se non specificamente ispirato dal contesto amministrativo, cfr. il contributo di Mazzoni (2011).

3· COMUNICAZIONE PUBBLICA

3·4 Si fa p resto a dire comunicazione

Siamo consapevoli di avere a che fare in questo testo con uno dei sostantivi più abusati degli ultimi decenni: "comunicazione". Croce e delizia della modernità, principio attivo del vivere moderno, la comu­ nicazione è ora risorsa ambita e desiderata, talvolta considerata "pa­ nacea" di tutti i mali che un individuo, un' impresa o un' istituzione possono incontrare; ora imputata nei processi al cambiamento, rea di non opporsi ad usi impropri e a intenti manipolatori, ma anche com­ ponente problematica dello stare insieme in società più complesse e rischiose. Qualche anno fa, Volli (2007) scriveva di quanto si parli in maniera così diffusa, convinta, ma anche dissonante e incoerente, di comunicazione, tanto che il dibattito sembra aver assunto un ca­ rattere quasi "teologico": se ne parla come un tempo, forse, si parlava di Dio e della sua immaterialità, nella quale si può credere o meno. Così come oggi si invoca o si inveisce contro la comunicazione e i suoi effetti. È evidente che nuove esigenze e nuove domande sociali possono trovare nella comunicazione una alleata fondamentale: leva e risorsa per agire e interagire, muoversi e scegliere, decidere e partecipare, en­ trare in relazione con gli altri e con il mondo circostante (Solito, 20IO ) . M a anche un problema da gestire e dunque, come tale, u n ambito da esplorare con la dovuta cautela, da presidiare affinché da opportunità non diventi un pericoloso boomerang che si ritorce contro chi vi si è rivolto con eccessiva spontaneità, banalizzandone il ruolo o travisan­ done il senso (ibid.) . Perciò, si fa presto, è vero, a fare appello al "potere" - creativo o distruttivo, secondo i punti di vista - della comunicazione, ma ci vuole molta più attenzione a comprenderne il significato assumendo oggi, in ogni caso, una indiscussa centralità che la pone al centro dei processi di cambiamento della tarda modernità. Per districare i nodi più evidenti, è bene innanzitutto far luce sul paradigma che adottiamo quando parliamo dei vantaggi della comuni­ cazione e del suo impiego in ambito pubblico. In letteratura si rintrac­ ciano tre principali visioni della relazione comunicativa che possono essere considerate fasi evolutive diverse di un percorso di mutamento culturale, prima ancora che organizzativo; difatti esse si ricollegano a quegli studi sugli effetti della comunicazione che le hanno accampaI33

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI gnate ( Gili, Colombo, 20I2) e dei momenti storici che le hanno ispira­ te. Tre modelli che possiamo così sintetizzare ( Rolando, I9 87; Manci­ ni, 200 3 ; Solito, 20 04) : I. paradigma propagandistico o del convincimento: il ritorno della democrazia dopo la dittatura fascista non ha portato con sé un im­ mediato uso virtuoso della comunicazione e dell' informazione, viste, queste ultime, in continuità con il buio passato. Risorse, sì, funzionali, ma alla promozione di un' immagine positiva, bella ed edificante del­ le istituzioni e dell'agire pubblico, il loro "profilo migliore". Si celano pertanto gli aspetti "scomodi" e si riduce l'attività comunicativa ad un'azione di maquillage esteriore (Mancini, 2003), di una visibilità, per lo più politica, fine a se stessa. Una visione riduttiva e semplicisti­ ca che tende alla spettacolarizzazione dei contenuti e ad una funzione eminentemente estetica del messaggio comunicato ( Solito, 2004) . Vo­ lendo datare il periodo in cui questo modello è prevalso, gli autori lo ritengono valido fino ai primi anni Settanta; 2. paradigma trasmissivo o informativo a senso unico: la costruzione dei primi servizi al cittadino, una coscienza più accentuata dei diritti e dei doveri di cittadinanza, insieme ad un ruolo più autonomo dei mass media, inducono le amministrazioni a veicolare verso l'esterno alcune informazioni "utili" allo svolgimento delle attività quotidiane dei cit­ tadini. Si tratta di un paradigma a senso unico, perché l'utente è visto come un soggetto passivo, un ricettore inerte, un "contenitore vuoto" da riempire di nozioni e informazioni "pronte all'uso': destinatario di un'azione che si rivolge a lui, senza comprenderlo. Un modello che per­ sisterà fino ai primi anni Novanta; 3 · paradigma rituale o bidirezionale: a seguito delle trasformazioni che abbiamo già visto in apertura di capitolo, dagli anni Novanta ci si comincia ad ispirare ad un nuovo modo di intendere e gestire la co­ municazione: non più trasmissione di informazioni, ma condivisione di contenuti ( Carey, I987 ) . Un processo, dunque, non un evento, che mette in relazione istituzioni e cittadini, quest'ultimi compartecipi dell'efficacia stessa dell'azione comunicativa o, sarebbe più appropriato dire, del comunicare. Si tratta di un cambiamento epocale che, come vedremo, ha conseguenze importanti sul piano strettamente operativo delle amministrazioni, ma ancor più su quello simbolico e valoriale, nel momento in cui si sottolinea l'essenza dinamica e negoziale del processo comunicativo, la sua natura aperta, anche ali' incertezza e al cambiamento. Dalla informazione come passaggio di dati, trasferimenI34

3· COMUNICAZIONE PUBBLICA to di "sostanza" tra amministrazioni e cittadini ad una comunicazione basata sullo scambio, sul reciproco ascolto, sulla capacità di costruire insieme significati, con l'obiettivo di includere e mettere insieme, pur lasciando i cittadini liberi di scegliere e di coltivare, in proprio, valori, convinzioni e verità (Bechelloni, 200 2) . Non sono poche l e difficoltà che s i incontrano nell'adozione di quest'ultimo paradigma, in qualsiasi contesto ci si trovi, perché richie­ de un costante lavoro dialogico e negoziale che non sempre si riesce, o si è disposti, a realizzare. Non si tratta tanto di un lavoro astratto quale premessa concettuale all'azione, bensì di una specifica modalità di azione, mediante la scelta costante della direzione verso cui tendere. Affinché si concretizzi, il modello necessita di una ritualità che si tradu­ ca in metodo di lavoro, in una intenzionalità perseguita e pianificata e ciò significa per la PA un cambiamento culturale profondo, un percorso di maturazione e di consapevolezza (Ducci, 2007 ) . Appare quanto mai importante tornare a quei pilastri s u cui s i reg­ ge la relazione comunicativa e alla responsabilità dei comunicatori che costituisce un condizione imprescindibile di questa specifica compe­ tenza professionale. Intendiamo la responsabilità come dimensione co­ stitutiva dell'agire comunicativo, che si articola in quattro dimensioni ( Gili, 2009 ), ossia nella capacità di rispondere: 1. dei propri intenti e della propria identità di comunicatore; 2. del contenuto comunicato; 3 · della relazione che si instaura mediante la comunicazione; 4· del­ le conseguenze e degli effetti della propria azione comunicativa. Una responsabilità che dunque si costruisce anche mediante i processi di lavoro, i sistemi organizzativi, i contesti disposti e orientati alla gestio­ ne delle differenze e delle conflittualità che abitano gli spazi pubblici per la presenza di interessi, opzioni e motivazioni spesso contrastanti (Bertolo, 2005) . Allora i comunicatori pubblici saranno chiamati a ri­ spondere della capacità di presidiare specifici campi, che Solito (2oio) articola in quattro dimensioni: 1. responsabilità verso se stessi, ovve­ ro delle funzioni e degli scopi, della consapevolezza del proprio ruolo e delle aspettative che lo riguardano; 2. responsabilità dei contenuti, della coerenza tra dire e fare, delle modalità e dei linguaggi impiegati; 3. responsabilità verso gli interlocutori, dunque verso la qualità delle relazioni costruite e le finalità che le orientano, dettate dall' inclusione e dalla compartecipazione più che dal convincimento o dal controllo; 4· responsabilità verso le conseguenze e gli effetti della propria azione, il che significa essere consapevoli di ciò che potrà scaturire dal proprio I35

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI impegno, ma anche della natura incerta e negoziaie di gran parte delle azioni intraprese verso l'Altro. Osservata dalla lente della responsabilità, allora la comunicazio­ ne pubblica assume un valore e un fondamento etico, nella « capaci­ tà di generare, attivare e fluidificare i sistemi di interazione sociale e le diverse identità individuali e collettive che ne costituiscono i nodi relazionali dinamici » (ivi, p. I 9 ) . Una responsabilità che, pur appartenendo in maniera particolare ai comunicatori pubblici, non è da essi posseduta in forma esclusiva ed escludente, ma anzi viene condivisa con l' insieme delle soggettività che compongono la realtà istituzionale. Per questo solitamente si fa riferimento alla necessità di coltivare una dimensione "culturale" della comunicazione pubblica, un sapere diffuso che appartenga all'ente e che detti l' impostazione delle relazioni; il che non significa che chiunque possa improvvisar­ si comunicatore. Al contrario, vuoi dire che a quest'ultimo saranno riconosciute delle specificità professionali che gli consentiranno di avere un ruolo di regia e di coordinamento dell'agire comunicativo dell'amministrazione, ma che la cultura comunicativa, intesa come sensibilità e attitudine, disponibilità e orientamento alla collabora­ zione, sarà una componente diffusa (Solito, 2004) ed estesa in tutta l'organizzazione. Questa consapevolezza diviene ancora più impor­ tante nel momento in cui si affermano le nuove tecnologie del web e dei media sociali, che tendono a moltiplicare e a irradiare in tutta la realtà organizzativa i centri propulsori di atti a rilevanza comu­ nicativa, on e ojf fine. Ogni funzionario, in ogni ufficio, ha infatti in un certo senso un'attività comunicativa quotidiana da compiere: scrive e-mail, intrattiene conversazioni telefoniche, aggiorna spazi di informazione che gli sono propri, in molti enti realizza prodotti quali volantini e manifesti, o gestisce una pagina social tematica sui servizi erogati dalla propria area. Egli, con un attivismo giornaliero, spesso istintivo, non riflessivo o, comunque, non problematico, decide le sorti della comunicazione: può diventare, potenzialmente, il primo alleato o il più grande limite alla cultura comunicativa dell'ente. Per questo, come vedremo, è importante che ai comunicatori pubblici venga riconosciuto un ruolo registico, quale punto di riferimento ; un ruolo quasi consulenziale per la propria organizzazione, che accom­ pagni, stimoli, solleciti e tiri le fila degli atti comunicativi sparsi. Ma al contempo è necessario che sia coltivata la cultura comunicativa, intesa, alla stregua di Schein ( I999 ) , come il frutto di un processo di 136

3· COMUNICAZIONE PUBBLICA interazione sociale il cui sostrato è la condivisione di un insieme di valori, credenze, attitudini, parte integrante dell' identità organizza­ tiva stessa. Una cultura che permei l'agire, quanto l'essere e il fare (Solito, 20IO ) , e che si insinui nei vari livelli della realtà organizzativa: al livello degli artefatti - la disposizione degli uffici, le modalità relazionali in­ terne, "l'aria che si respirà' al primo ingresso nell'ente, il clima che si percepisce entro gli uffici, come nei corridoi; al livello dei valori dichia­ rati, gli obiettivi stabiliti, le regole che disciplinano i comportamenti; e al livello più nascosto, ovvero quello degli assunti taciti condivisi, le conoscenze sull'ambiente circostante, le norme interio rizzate, le logi­ che relazionali. Sebbene tutto questo si formi nel tempo e sia frutto di una pro­ gressiva maturazione organizzativa alla quale compartecipano tutte le risorse umane, necessita di un lavoro e di sforzi costanti, dunque di una figura professionale specifica che funga da collante della quotidianità istituzionale e promuova costantemente la pratica comunicativa. 3·5 Dai ruoli alle competenze

I mutamenti descritti ci spingono a guardare alle PPAA come spazi or­ ganizzativi che si avvalgono sempre meno di soggetti con titoli rispon­ denti a norme e sempre più di risorse umane con caratteristiche sogget­ tive specifiche. L' impiego di modelli organizzativi diversi rispetto al passato conduce a considerare con maggiore distacco due aspetti che, fin dalle origini burocratiche, stavano alla base del lavoro pubblico: il ruolo e le strutture organizzative. Il primo di questi, legato alla defini­ zione di ciascun dipendente nel contesto lavorativo, sembra oggi per­ dere gran parte della sua efficacia esplicativa. L' idea di "ruolo" richiama quella di vicinanza o, meglio, di sovrapposizione e di identificazione tra un attore sociale e una determinata situazione: anche nel linguaggio comune un ruolo lo si "assume", "incarna", "riveste", "ricopre", ovvero si adatta se stessi a ciò che la situazione detta e richiede. Tale visione, seppur resa in maniera fin troppo semplicistica, corrisponde ad un con­ testo d'azione che Lipari (2002) definisce "deterministico': "meccani­ cistico"; una concezione che lascia presupporre l'esistenza aprioristica del ruolo, quasi fosse un concetto astratto che richiede all'attività inI37

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI dividuale di adattarvisi e adeguarsi. Come ricordava Habermas (I979 ) , infatti, l'etimologia della parola "ruolo" l o lega a termini quali "rotolo': "pergamena': "copione", sul quale l'attore leggeva la parte da recitare, dunque un testo già scritto. In ambito sociologico si è soliti intendere il "ruolo" come quell' in­ sieme di comportamenti tipici di una data posizione sociale e, anche in campo professionale, è l' insieme di norme e aspettative che un soggetto deve rispettare al fine di ricoprire una specifica posizione lavorativa. Sono le attese che si riversano sul ruolo a indirizzare il processo di socia­ lizzazione al ruolo, dunque a renderlo un fattore quasi scontato nella vita sociale e, ancor più, entro la struttura organizzativa (ibid.) . Il collegamento al ruolo del funzionario pubblico previsto da We­ ber (I9 22) è diretto: un elemento di continuità e fonte di rassicurazione per la burocrazia. Tramite la socializzazione professionale, l'individuo può interiorizzare le aspettative di ruolo e rendere il proprio compor­ tamento prevedibile, "regolare". Ma nelle società tardo-moderne i modelli di comportamento - pur alla base anche degli attuali processi di socializzazione - non sembrano sufficienti a spiegare la realtà dei fatti. Non sembra poi né così funzio­ nale all'organizzazione una totale adesione ad una posizione descritta a priori, né sembra possibile una uguale "lettura" e "rappresentazione" dello stesso copione da parte di attori differenti. Pertanto, accostato al processo di "identificazione" nel ruolo, sembra oggi necessario un pro­ cesso di "interpretazione" dello stesso. Ci viene a tale proposito in aiuto la riflessione di Goffman (I959), secondo cui il ruolo professionale è uno spazio di "mediazione sociale': di negoziazione, allo stesso modo in cui una rappresentazione teatrale è uno spazio di "creazione": da un lato l'attore adatta se stesso ad un copione già scritto da altri, ma dall'altro lo interpreta arricchendolo con la propria soggettività. L' invito che possiamo trarre è dunque quello di guardare alle or­ ganizzazioni in modo diverso: da strutture sociali cristallizzate, basate sul legame funzionale tra ruoli prescritti, e da individui aderenti alle attese di ruolo a spazi sociali maggiormente aperti e negoziali, in cui le attese di ruolo entrano in relazione con le specificità individuali. Da organizzazioni in cui si opera per "attribuzioni formali" a spazi di di­ scorsività che si reggono sulle esperienze e sulle abilità dei propri mem­ bri: « matura l' idea di organizzazione intesa come costruzione sociale, esito di pratiche relazionali e sociali, di elaborazione, di contrasto e condivisione di significati che si riferiscono anche a elementi esterni 138

3· COMUNICAZIONE PUBBLICA all'organizzazione, provenienti dalla vita sociale e dai cambiamenti in seno a questa » (Viteritti, 2005, p. 74) . Una nuova "etichettà' rende evidente questo passaggio, u n nuovo concetto si afferma nel linguaggio organizzativo ed è quello di "com­ petenza,. Il termine proviene dal verbo latino competere che significa essere idonei o avere autorità a trattare determinate questioni. Esso po­ ne in maggiore evidenza la dimensione dell' individualità, runicità del soggetto agente e, allo stesso tempo, lo lega alle dinamiche relazionali, alla rete in cui egli è inserito e al contesto di lavoro. La competenza è al­ lora uno "spazio di interpretazione,, in cui il singolo esercita esperienza, cognizione e volontà (Sandberg, 2000 ) . Numerose e talvolta contraddittorie le definizioni, che s i rintrac­ ciano in letteratura, del concetto di "competenza': anche per il fatto che spesso si rischia di metterne in risalto gli aspetti di continuità con il passato, per cui un individuo è competente nella misura in cui e capace difare, ovvero quando vi è una stretta corrispondenza tra compiti attesi e capacità dell' individuo di assolverli ( Civelli, Piccinni, 20 o 2). In realtà si inizia a parlare di competenza proprio per spiegare le trasformazioni - per qualcuno, la crisi - che avvengono nei tradizio­ nali "ruoli professionali,. Alle origini di un approccio per competenze vi sono gli studi e le ricerche condotte a partire dagli anni Sessanta­ Settanta negli Stati Uniti, grazie ai lavori di Richard Boyatzis e altri, dettati da esigenze analoghe a quelle che, a qualche decennio di di­ stanza, verranno avvertite anche in Europa e poi in Italia: flessibilità, rapidità, qualità, innovazione e orientamento all'utente portano a ripensare i tradizionali sistemi di gestione del personale e le diverse posizioni organizzative. La mutevolezza dei contesti in cui organiz­ zazioni pubbliche e private si trovano a operare spinge a guardare alle risorse umane con un maggiore e insolito dinamismo. La misurazione dell'efficacia del lavoro individuale, più che dalla logica dell'adem­ pimento formale, sarà così guidata dal raggiungimento di obiettivi e risultati prestabiliti, nel senso di pianificati, voluti e perseguiti (Testa, Terranova, 2oo 6 ) . L e scienze sociali mostrano particolare interesse verso il tema sol­ tanto in tempi recenti, soprattutto nel momento in cui si osserva che i percorsi biografici individuali e professionali non sono più caratteriz­ zati dalla linearità e consequenzialità di un tempo: ciò che si apprende in maniera formale - mediante percorsi scolastici e formativi specifi­ ci - rappresenta soltanto uno dei modi in cui gli individui costruiscono I39

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI ed elaborano costantemente il proprio bagaglio di conoscenze; ciò che ciascuno "sa fare" è il prodotto, mai finito, di molteplici esperienze, de­ rivanti da più ambiti, appartenenze, vissuti maturati nel tempo. "Espe­ rienzà' che, come illustraJedlowski ( I994 ) rifacendosi a Benjamin, è da intendere sia come erfahrung, ossia come una progressiva acquisizione di capacità e di consapevolezza, mediante un percorso biografico di riflessione, significazione e comprensione di ciò che l' individuo com­ pie e realizza; ma anche nel senso di erlebnis, termine con il quale si indica quel tipo di esperienza vissuta nel presente, nell' immediatezza del quotidiano, nel quale le sollecitazioni possono frammentare il sen­ so dell' io, creare un effetto dissonante e generare dubbi. Pertanto le competenze di cui stiamo parlando sono quel mix composto da saperi appresi formalmente, informalmente e dalle specificità individuali sia sedimentate nel tempo che accelerate nel presente. Infatti, come soste­ neva McClelland ( I973 ) , la competenza è una caratteristica intrinseca ed individuale. Come ben sappiamo grazie a una letteratura sconfinata sul tema, le competenze non sono un "pacchetto" chiuso di saperi e capacità. Esse sono sottoposte alla mutevolezza dei tempi - se molti dei professionisti fossero rimasti a ciò che sapevano all'inizio della loro carriera, avreb­ bero avuto ben poche chance di competere sul mercato -, dei luoghi e dei contesti lavorativi, degli strumenti di lavoro disponibili, delle espe­ rienze accumulate, delle circostanze soggettive, relazionali, ambientali. Dunque possiamo senza ombra di dubbio assumere che ogni profes­ sionista, per ritenersi competente, deve pensare a se stesso in costante divenire. Ora, per quanto ciò attenga ad un qualsiasi lavoro, ci sono professioni meno sottoposte a tale variabilità, perciò le competenze ri­ chieste sono abbastanza stabili nel tempo: è indubbio che, ad esempio, un pizzaiolo sia più o meno caratterizzato dalle stesse capacità di un tempo. Tuttavia - e qui veniamo ad un'altra peculiarità della compe­ tenza - anche il pizzaiolo oggi, se vorrà fare il suo lavoro con profitto ed essere competitivo sul mercato di riferimento, si dovrà porre domande più complesse rispetto al passato che non riguardano tanto il suo "sa­ per fare': quanto la corrispondenza tra questo e i desideri - bisogni e aspettative - dei suoi clienti, reali o potenziali. Egli troverà spazio in un mercato più competitivo rispetto al passato, se saprà leggere la sua competenza in chiave relazionale. La domanda, quindi, da cui dovrà partire non è tanto "sono capace di fare il pizzaiolo ?", bensì "quale tipo di pizza è disposto ad acquistare il mio cliente ?".

3· COMUNICAZIONE PUBBLICA Inoltre, ci preme ricordare che ben poca cosa è il fatto che ciascuno consideri se stesso competente: potrà essere fonte di orgoglio, sicurezza personale e di autoconsiderazione, ma per avere una sua spendibilità sul mercato del lavoro dovrà sottoporsi al banco di prova del giudizio ester­ no. Una cosa è "sentirsi competenti': altra cosa "essere riconosciuti" tali. Questo perché la natura della competenza è intrinsecamente re­ lazionale, come spiegano alcuni autori; Le Boterf (I994) , ad esem­ pio, affermava che qualunque competenza, per esistere, necessita del giudizio altrui e che la valutazione dell'attività svolta risiede in una dimensione esterna all' individuo stesso. Pertanto è nell'esercizio del­ la propria competenza, nella dinamica interazione e interpretazio­ ne tra ciò che si sa fare e ciò che gli altri si aspettano che scaturirà l' appropriatezza professionale di ciascuno. Le considerazioni appena avanzate devono quindi, per i nostri scopi, essere messe in relazione con le specificità dei comunicatori pubblici, ai quali ancora per un poco ci riferiamo senza distinzione tra le singole declinazioni opera­ tive - di front office, di addetti stampa, di relazioni interne ecc. - che comunque esistono e rendono ulteriormente variabile e magmatica la materia professionale. 3· 6 L'essere competenti dei comunicatori

Nei complessi scenari che abbiamo cercato fin qui di descrivere, con i quali chi si occupa a vari livelli e secondo varie responsabilità di co­ municazione pubblica si trova a confrontarsi, risulta difficile, oltreché sostanzialmente inutile, pensare di definire i "comunicatori" secondo i compiti che sono loro affidati o, ancor più vagamente, che svolgono nella pratica. Questo, come abbiamo visto, può essere ricondotto al fatto che il concetto stesso di competenza rende vano ogni tentativo di circoscrivere, inquadrare, racchiudere ciò che un professionista de­ ve essere capace di fare; va poi aggiunta la difficoltà nel considerare la comunicazione come un elenco chiuso di attività, ben più propensa ad essere vista come una componente strategica. « La visione a regime di una competenza ripensata come strategi­ ca nella relazione tra istituzioni e società tende ormai ad articolare le funzioni attorno, almeno, a una decina di funzioni » (Rolando, 20I4, p. I7I) che Rolando affida a "piani" diversi di uno stesso palazzo: dalla

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI prima accoglienza al diritto di accesso agli atti amministrativi, dalle informazioni sui servizi ai rapporti con i media, dalla comunicazione per l' identità competitiva a quella in situazioni di crisi e di emergenza, dal presidio del web alla pianificazione strategica, e molto altro ancora ( ivi, pp. I72 8). Per cui, nel campo eterogeneo dei saperi qui richiamati, la que­ stione della competenza dei comunicatori diviene complessa. lnnan­ zitutto, è un campo nel quale è difficile pensare ad un'assenza di com­ petenza, o, per lo meno, l'essere incompetente non rende il soggetto incapace di comunicare tout court, bensì di farlo in maniera efficace. Inoltre, il valore del comunicare, inteso come capacità di « creare cor­ nici interpretative che servano agli individui per riconoscere, decidere, agire nelle diverse e plurime situazioni sociali in cui vivono » ( Solito, 2004, p. 88), conduce la riflessione su un terreno più vasto, più denso, ma anche estremamente più affascinante, nel quale « appare evidente che non basta più soltanto un sapere pratico, operativo, estetico. Biso­ gna innanzitutto comprendere il mondo» (ibid.) A rigor di logica, il discorso ci porterebbe a parlare di saperi acquisibili mediante percorsi "non standard': informali, vicini all'esperienza "personale': e, solo ap­ parentemente, a concordare con quanti sostengono che la comunica­ zione sia una capacità innata, una dote naturale, una propensione che, certo, si può affinare col tempo, ma soltanto se già presente nel proprio DNA. Ciò non si discosta di molto da altrettante visioni semplicistiche: all'avvocato deve appartenere un'elevata spigliatezza, all'archi tetto una propensione al disegno e al gusto estetico, al vigile urbano un innato senso civico, all' infermiera uno spirito altruistico e filantropico e così via. Tutte doti, senza dubbio, necessarie almeno quanto riduttive nel tentativo di descrivere una competenza professionale; possono essere quel punto di partenza, quello "spirito" che anima un' inclinazione e un'attitudine professionale, ma non possono certo rappresentare il nu­ cleo fondante la professione. Eppure per molti anni, ma non saremmo così sicuri di escludere il fenomeno nell'attualità, ai "comunicatori': ossia a coloro che sono stati chiamati a svolgere tale ruolo, è "bastatà' l'affinità con quelli che sono considerati gli strumenti essenziali della professione: la parola e la relazione. Per cui le caratteristiche che hanno valso uno status professionale sono state l'estroversione, la capacità di intrattenere "buoni" rapporti interpersonali, la pazienza, il senso di accoglienza dell'altro ecc. Doti importanti, ma alle quali non ci possiamo fermare. -

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3· COMUNICAZIONE PUBBLICA

Il comunicatore pubblico, sostiene Bertolo (2005), dovrebbe essere un professionista della conoscenza. Egli può assolvere al suo compito « con l'umiltà e il coraggio del lavoro di conoscenza che rivela i rapporti sociali dentro ai fatti, il senso dentro i comportamenti, il potere e la disuguaglianza dentro le strutture e le tecniche » (Melucci, 2ooob, p. 22) . Questo respiro più ampio ci induce a considerare tutta una serie di caratteristiche professionali che, come abbiamo anticipato, solo appa­ rentemente risiedono negli istinti, nella natura di un individuo, ma che in realtà sono « situate ai vari punti di interconnessione tra contenuti, linguaggi, formati, tecnologie, contesti e situazioni» (Bechelloni, 2002, p. I 3 9) . Dunque, rimanendo certi che un elenco esaustivo sia impos­ sibile da realizzare, possiamo tuttavia individuare le articolazioni più importanti della "competenza comunicativà'1s, valevole tanto per chi opera nelle strutture di relazione con il pubblico, quanto per chi in­ trattiene relazioni con i media. Dobbiamo tuttavia precisare che, entro la "famiglia allargatà' dei comunicatori pubblici, la norma prevede dei distinguo nei titoli che consentono l'accesso alla professione: per gli addetti e i capi dell'ufficio stampa è richiesta l' iscrizione all' Ordine dei giornalisti - e qui si aprirebbe l'annosa questione della mancanza, nel nostro paese, di un percorso formativo per questa categoria pro­ fessionale, tutta formata "sul campo': senza particolari differenze tra giornalisti che operano nel sistema mediale e addetti stampa -, mentre per i responsabili agli URP è richiesta la laurea in Scienze della comu­ nicazione o in percorsi di studio ad essa assimilabili. Sebbene da dopo la legge I50/2ooo queste fossero le strade indicate, si è perpetuata per anni l'abitudine ad attribuire funzioni e responsabilità delle strutture a un personale sprovvisto dei titoli necessari, con percorsi formativi anche molto distanti, o aggirando l'ostacolo, incluso quello del blocco delle assunzioni, prevedendo forme di incarico diverse e di collabora­ zione esterna. Ad ogni modo, per tornare alle competenze dei comunicatori, pos­ siamo articolarle come segue: competenze interpretative: per comprendere il mondo è necessario saper attribuire significato agli eventi e mettere ordine tra le informa­ zioni di cui si dispone. Il comunicatore è qui un "mediatore': ossia un 15. La classificazione è frutto di una rielaborazione personale sulla base di speci­ fiche fonti bibliografiche, tra cui: Bechelloni (2002), Civelli, Manara (2002), Solito (2004).

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COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI professionista in grado di farsi interprete dei cambiamenti, di capire le situazioni, di leggere i dati, di operare connessioni e quindi valu­ tare criticamente ciò che accade nella vita istituzionale e sociale. Per contro, il rischio di non possedere queste competenze può a nostro avviso portare ad un'organizzazione del lavoro dettata dall'emergenza, dall'affanno e dalla reazione alle costanti sollecitazioni che colgono il comunicatore, spesso spiazzandolo. Un'attività che diviene schiacciata sul presente e non lascia spazio alla pianificazione, con il rischio di es­ sere assoggettata a chiunque ne abbia interesse; competenze di realizzazione: in generale indicano le capacità che servono per perseguire l'obiettivo di orientarsi al risultato. Nello spe­ cifico può tradursi come la capacità di realizzare gli obiettivi strategici prestabiliti, soddisfare l' utenza, curare l' immagine dell'ente, mostrarsi responsive, ossia capaci di fornire risposte in maniera accurata e tempe­ stiva. Allo stesso tempo, occorre essere flessibili, capaci di comprendere la mutevolezza dei contesti e dunque adattare la propria strategia ai nuovi scenari. I comunicatori privi o poveri di questa dimensione han­ no una visione inerziale del proprio lavoro e rischiano di essere incon­ cludenti, di perdersi tra le priorità, di non essere efficaci ed esaurienti, né verso l'interno e i propri colleghi, né verso i cittadini o il sistema mediale, con il pericolo di essere bypassati; competenze organizzative: così come ogni altro dipendente, il comunicatore deve conoscere l' istituzione nella quale lavora, nel sen­ so che fin dalla sua presa di servizio dovrà avere cognizione di dove si trova. Può farlo conoscendo la storia dell'ente, le attività e i servizi svolti, le ultime vicende storiche che l'hanno interessato; e nel tem­ po il dipendente maturerà una maggiore consapevolezza e riuscirà a leggere in maniera "critica e ragionata" l'organigramma, le dinamiche relazionali tra uffici, sedi, figure chiave dell'organizzazione, la "cultura aziendale". Ma al comunicatore, forse più che ad altri componenti del­ la PA, spetta il compito di saper individuare i cosiddetti "indicatori di comportamento" ( Civelli, Manara, 200 2) , ossia l' insieme delle relazio­ ni, delle strutture informali, delle opportunità sommerse e dei fattori d' influenza, interni ed esterni, che potrebbero incidere sull' andamen­ to e sull'organizzazione nel complesso. Ben difficile è immaginare una condizione di assoluta carenza di questa dimensione; tuttavia, non di rado, si possono riscontrare comunicatori che non ne riconoscono il valore sostanziale e banalizzano gli aspetti menzionati; oppure addetti che, pur avvertendo l' importanza di questi aspetti, non riescono ad I44

3· COMUNICAZIONE PUBBLICA aggettivarli e, restando ancorati al proprio soggettivo punto di vista, non sono capaci di rendere questa dimensione uno strumento concreto di gestione organizzativa. Inoltre, come specifica Solito (2004, p. 90 ) , il comunicatore deve saper collocare la sua amministrazione « nei più complessivi sottosistemi politici, economici e culturali » : si tratta per­ tanto di conoscere l'organizzazione in relazione a ciò che sta "oltre" le mura dell'ente e della città, e all'organizzare, ovvero il farsi, il divenire costante dell'istituzione; competenze relazionali e comportamentali: di sicuro le più scon­ tate, come abbiamo detto, quando si parla di competenza comunicati­ va. « Le reti di contatti e le relazioni dirette sono il capitale personale più importante del professionista di relazioni pubbliche » ( Vecchiato, 2003, p. 46) . Tuttavia qui non si richiamano soltanto gli atteggiamenti che il comunicatore, come soggetto singolo, deve assumere, bensì il suo ruolo di « instancabile tessitore di relazioni » (ibid. ) , un professionista che "con-divide" la sua propensione a creare nessi con gli obiettivi più macra che l'ente si pone e a facilitare la fluidità degli scambi informativi entro l'ente. Occorreranno empatia verso i bisogni, interni ed esterni, e le situazioni; capacità negoziale e di problem solving; capacità di gestire lo stress organizzativo e di superare le resistenze interne; disponibilità a concedere e a ricevere fiducia, sia verso l'organizzazione interna e le altre amministrazioni, sia verso il sistema delle "fonti" di informazione, sia verso la collettività. Da un recente lavoro di ricerca sui comuni to­ scani, Pezzoli (2oi6) racconta come questa dimensione sia spesso letta dai comunicatori stessi come la necessità di essere brillanti, flessibili, avere passione per il proprio lavoro; requisiti importanti, soprattutto nelle relazioni di front office, quando il cittadino, come vedremo, non si aspetta esclusivamente una soddisfazione di tipo cognitivo, ma anche un'accoglienza e una capacità empatica da parte degli operatori; competenze di direzione : un comunicatore pubblico dovrebbe rivestire nell'ente un ruolo di "leader", nel senso etimologico del ter­ mine - dall' inglese to lead che significa "condurre, guidare" -, non soltanto sulla base di un potere dirigenziale che gli può provenire da un'attribuzione formale, bensì derivante dalla sua collocazione cen­ trale nei processi organizzativi e produttivi dell'amministrazione. La conoscenza dell'ente e una visione d' insieme sono la fonte della sua capacità di leadership, grazie alla quale potrà: sviluppare senso di ap­ partenenza e di condivisione interna degli obiettivi e degli impegni da realizzare; fornire, in un'ottica consulenziale interna, consigli e I 4S

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI suggerimenti sulle modalità di azione e, più specificamente, sulle scel­ te comunicative dei vari uffici; individuare cosiddetto « gruppo dei champions» ( Civelli, Piccinni, 20 0 2, p. 86), ovvero saper contare su figure chiave dentro l'organizzazione ; allenare lo sguardo comparati­ vo verso altri enti e amministrazioni, italiane e non, capaci di stimola­ re soluzioni e visioni alternative ai problemi in questione; supportare i gruppi di lavoro nella pianificazione dei propri obiettivi strategici. In più, nei rapporti di diretto contatto con l'utenza, ai comunicatori è chiesto di "prendersi carico" dei bisogni dell'utente ( Franceschetti, 2007) : in questo caso la leadership non deve essere letta come posi­ zione di dominanza, bensì come accompagnamento responsabile e consapevole dell 'utente verso la soddisfazione dei suoi bisogni. Un ruolo, in sintesi, maggiormente "manageriale" sul quale torneremo in chiusura del testo; competenze tecniche: una PA in grado di interpretare i cambia­ menti sociali deve possedere una dotazione tecnica e tecnologica ali ' a­ vanguardia, nonché la capacità di saperla impiegare. Anche a fronte di strumenti tecnici meno efficienti, i comunicatori devono avere co­ gnizione delle dinamiche di innovazione che si muovono al di fuori dei perimetri della propria organizzazione ; dunque, essere aggiornati e consapevoli di quali potrebbero essere le tendenze, le novità, non per una bieca integrazione nel proprio communication mix, quanto per la preparazione di quelle condizioni interne per una valutazione critica dei nuovi strumenti e dispositivi. Più genericamente, le competenze "tecniche" dei comunicatori riguardano sia le conoscenze informati­ che e digitali, sia la capacità di muoversi agilmente entro i linguaggi e i saperi giuridici, politici, statistici, economici, grafici ecc.; competenze mediali: potrebbero rappresentare un sottoinsieme della precedente dimensione se non fosse per il carattere assolutamente centrale che occupano nella professione, per cui meritano una distinta trattazione. Il sistema dei media, lo abbiamo visto, assume oggi un ruo­ lo tanto pervasivo nella vita quotidiana, quanto dinamico e mutevole. Per gestire la comunicazione entro un simile habitat non occorrono esclusivamente "capacità tecniche" - peraltro importanti quando ci si rapporta ad un sistema complesso e molto meno intuitivo rispetto al passato -, serve la padronanza dei meccanismi di relazione verso il sistema mediale, la comprensione delle logiche e dei tempi di produ­ zione, dei linguaggi e dei criteri di notiziabilità, delle opportunità e dei costi relativi. Le competenze mediali sono allora la capacità di "dialo-

3· COMUNICAZIONE PUBBLICA gare" con il sistema dei media, di operare scelte entro un sistema vasto e ricco di opportunità, di gestire i processi culturali che circondano l'ente e il territorio di riferimento. Sebbene le competenze tracciate, come abbiamo premesso, abbia­ no una validità per un generico inquadramento dei comunicatori in ambito pubblico, esistono delle differenze importanti tra professioni­ sti della comunicazione - addetti e responsabili URP, ad esempio - e professionisti dell'informazione, quest'ultimi maggiormente orientati ai saperi giornalistici e con un'accentuata competenza mediale; così come altre specificità emergeranno nel momento in cui ai tre capisaldi del sistema comunicativo tradizionale si affiancheranno professionisti destinati alla gestione del web e dei canali di social networking, del mar­ keting e dell' immagine istituzionale, dell'organizzazione degli eventi e delle campagne di comunicazione sociale. Pertanto, quelle passate in rassegna sono a nostro avviso le competenze "nucleari': il cuore iden­ titaria della professione che poi si articolerà in ulteriori conoscenze e abilità specialistiche e di settore. Inoltre, si potrebbe obiettare che le dimensioni appena passate in rassegna riguardino in generale tutti quei professionisti che svolgono un ruolo di comunicatori, indipendentemente dagli ambiti: dal settore di impresa a quello del non profit, senza particolari specificità per il set­ tore pubblico. In parte è vero e non è certo nostra intenzione effettuare dei rigidi distinguo tra professioni così affini o innalzare steccati; ma è anche vero, come scriveva Rolando (2003) nella "Rivista italiana di comunicazione pubblica", che la domanda di una più chiara definizione della cultura di appartenenza, ispirata ad un «principio di radicamento nelle specificità, aiuta a consolidare uno spirito di servizio e di originale adempimento civile, altrimenti poco e mal percepibile » ( ivi, p. 9). E se non lo percepisce l'operatore, proseguiva Rolando, a maggior ragione sarà difficile che lo percepisca l'utente. 3.6.1. c 'ERA UNA VOLTA IL COMUNICATORE PUBBLICO...

Rassicuriamo da subito il lettore : questa storia ha un lieto fine. Le tra­ vagliate vicissitudini e peripezie professionali dei comunicatori che stiamo per raccontare hanno oggi trovato una qualche pacificazione. Il traguardo potrà essere visto come un rassegnato appagamento di chi dopo anni si accontenta oppure una meritevole vittoria faticosamente conquistata e degna di essere festeggiata; fatto è che ad oggi il comuniI47

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI catore pubblico esiste. Ci spieghiamo meglio. La figura professionale del comunicatore pubblico è stata per molto tempo una figura "mi­ tologica": invocata o temuta, dunque capace di produrre conseguenze concrete dentro la PA, ma sulla carta inesistente6. Da qui deriva quel "c 'era una volta ...", come l' incipit di una storia che proietta in una di­ mensione ideale che non trova riscontro nella realtà. Infatti, sebbene fin dagli anni Novanta nelle norme siano stati spesso invocati saperi e competenze comunicative e nella realtà organizzativa siano presenti effettivamente ruoli e funzioni analoghe, la qualifica di "comunicatore pubblico" in Italia non è esistita fino al 20I3. Fino a quando, cioè, una legge - la legge 4/ 20I3, in materia di professioni non organizzate - ha consentito ad alcuni soggetti, tra cui l'Associazione italiana della co­ municazione pubblica e istituzionale, di rilasciare una certificazione di quei professionismi non riconosciuti da albi o ordini, come abbiamo già rammentato nell'excursus normativa. Magra soddisfazione, si penserà, ma non così esigua se si considera questo momento alla luce del passato. Infatti, l'annosa questione delle specificità professionali dei comu­ nicatori pubblici nel nostro paese ha una storia lunga, almeno quanto la legge ISO/ 2000 e forse anche di più, e i professionisti attivi nei vari enti hanno avvertito costantemente l'esigenza di negoziare, pattuire con i "colleghi" spazi di autonomia e di legittimazione. In particolare le richieste si fanno più pressanti dopo il D.P.R. 422/2ooi che isti­ tuisce le "nuove" professioni e individua nella formazione la leva di principale professionalizzazione, sia per quanti operano già da tempo nelle strutture di comunicazione - con l'obiettivo di "sanare" delle situazioni non conformi alla norma -, sia come percorsi di accesso per gli aspiranti comunicatori - fioriscono, dentro e fuori la PA, iniziati­ ve, occasioni di approfondimento e aggiornamento, corsi di studio, master ecc. Tuttavia la domanda di riconoscimento degli addetti non viene soddisfatta e occupa due versanti principali: quello della rego­ lamentazione dei profili professionali e quello della legittimazione interna agli enti. 16. L'unico atto nel quale si fa esplicito riferimento alla qualifica del comunica­ tore pubblico è il Codice deontologico e di buona condotta dei comunicatori pubblici, redatto peraltro da un'associazione professionale (Associazione italiana della comu­ nicazione pubblica e istituzionale), non da un organo di Stato, nel 2003 (cfr. http:/ l www. compubblica.it/index.html?pg=s).

3· COMUNICAZIONE PUBBLICA Così, per i primi anni Duemila, la questione dell'accreditamento dei comunicatori pubblici è al centro del dibattito, ma di un dibatti­ to tutto interno, che non interessa né al cittadino - che non sa, non comprende o lo vede come una lotta per la costruzione di una lobby professionale che non lo riguarda e per di più da parte di chi, quale dipendente pubblico, ne avrebbe di ragioni per accontentarsi - né agli altri dipendenti o alla classe politica, nel momento in cui assume i to­ ni di una rivendicazione professionale che concretamente non porta alcun frutto. Oltretutto, stiamo parlando di un riconoscimento da molti osteg­ giato : « i comunicatori pubblici hanno un solo nemico: tutti coloro che, dentro e fuori la Pubblica Amministrazione, temono l'affermarsi di veri professionisti con la conseguente perdita dei loro piccoli o gran­ di privilegi » (Rovinetti, in Civelli, Piccinni, 200 2, p. 49 ) . Per questo, nel dibattito - e negli scontri - tra professionisti c i si arrocca su alcune questioni che rendono ancora più opaco l'obiettivo da raggiungere. In uno studio effettuato da chi scrive17 sui contenuti di una mailing list tra "comunicatori" di quegli anni, gli alterchi assume­ vano la forma di una "guerra tra poveri": tra "titolari" ed "esperenziati': ovvero tra coloro che rivestono il ruolo in virtù di un percorso formati­ vo o, al contrario, di un vissuto lavorativo e di un'esperienza maturata; tra strutturati e precari; tra entusiasti "cultori" della materia e tecnici; tra i comunicatori per scelta - "missione': "vocazione" si dirà spesso in quegli anni - e comunicatori loro malgrado, perché collocati in un ruolo non desiderato, né ambìto, come funzione residuale rispetto a ciò che invece avrebbero voluto. Eppure la necessità di uscire da una fase "artigianale': "spontanei­ sticà' (Civelli, Piccinni, 2002; Rolando, 20iob ; Solito, 20I4) del co­ municatore dilettante, pieno di buona volontà, per approdare ad un professionista della comunicazione pubblica, con un' identità chiara e riconoscibile, è avvertita soprattutto nel momento in cui a una simi­ le figura si affida la responsabilità di qualificare la relazionalità delle istituzioni. Una realtà comunicativamente diversa da quella d' impresa, seppur per molti versi convergente. Ma la convergenza presuppone di­ stinzioni, non matrioske (Rolando, 2003). 17. La ricerca è stata oggetto, presso l' Università degli studi di Siena, della tesi di dottorato (xx ciclo - "Comunicazione, media e sfera pubblica") dal titolo: C 'era una

volta... il Comunicatore Pubblico. Una professione tra stereotipi e quotidianitd.

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COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI Dunque, ciò che contraddistingue maggiormente il lavoro dei co­ municatori pubblici è quello sguardo strabico dell'ambiente di lavoro e degli interessi che lo ispirano. Se in altri campi gli interessi da tutelare sono soprattutto quelli dell'azienda (o, genericamente, organizzazio­ ne) per conto della quale si comunica e dalla quale derivano le risor­ se, nel settore pubblico esistono due interessi da mettere in relazione: quelli propri dell'organizzazione - decisi anche e soprattutto da atti di indirizzo politico - e quelli della cittadinanza. Entrambi a tutela e nel perseguimento del bene pubblico e dell' interesse generale, ma che nel quotidiano devono trovare raccordo nei servizi erogati, nelle informazioni diffuse, nei comportamenti adottati. Perciò il comunica­ tore, all'interno di una PA, svolge ancor più un ruolo di fondamentale mediazione e ri-costruzione di spazi discorsivi, ossia « spazi dove si formano e metabolizzano i presupposti culturali che presiedono alla produzione di relazioni, procedimenti, atti e azioni, per l'attuazione di quei processi di innovazione orientati dalla cultura del servizio [ ... ] per un rinnovato patto di cittadinanza » (Bertolo, 2005, p. I 3 I ) . C 'è poi, a nostro avviso, un'altra importante differenza che riguar­ da per lo più i criteri di valutazione delle competenze menzionate. Se in molti settori d' impiego le dimensioni classificate segnano quella con­ dizione di accesso alla professione e al ruolo, nel settore pubblico sono soltanto in parte - e da poco tempo - valutate ex ante. Il più delle volte sono ambiti di competenza che il singolo comunicatore deve negoziare con il contesto organizzativo, terreni da conquistare giorno dopo gior­ no entro i singoli luoghi di lavoro. Perché se la certificazione, oggi possibile, reifica - nel senso che og­ gettiva e rende visibile - una specificità professionale, non è sufficiente a garantire un'uguale autorevolezza dei comunicatori in quanto tali, a prescindere dai contesti di lavoro. Infatti, la "salute" della comunicazione pubblica a livello nazionale è altamente eterogenea: a realtà maggiormente dinamiche, virtuose, aggiornate si alternano ancor oggi, anche sul medesimo livello or­ ganizzativo o a distanza di pochi chilometri, situazioni di maggiore chiusura, refrattarietà al cambiamento, minore sviluppo della cultura comunicativa nell'ente. È evidente che ciò non può dipendere esclusi­ vamente dal grado di applicazione della normativa, ovvero da quanto la realtà dei fatti è aderente alle intenzioni del legislatore; nemmeno le differenti "competenze di soglia" dei singoli comunicatori sono suffi­ cienti a spiegare una distanza, talvolta davvero profonda, tra le une e le ISO

3· COMUNICAZIONE PUBBLICA altre amministrazioni. Il fattore che a nostro avviso sembra fungere da discrimine è duplice: da un lato sono le chance che, in ciascun ente, ven­ gono date alla comunicazione di crescere, svilupparsi e accompagnare il cambiamento dell'organizzazione. In questo caso, la comunicazione è figlia dei vissuti, del riconoscimento e della legittimazione che le viene accordata, soprattutto dall'anima politica, ma non solo. Dall'altro lato la "complicità" tra competenze del comunicatore (o dei comunicatori) e la cultura organizzativa, quindi la "qualità'' delle risorse umane e delle soggettività coinvolte: in ciascun momento il comunicatore saprà di poter contare sulla cultura integrativa dell'ente, dunque sulla disponi­ bilità alla collaborazione dei colleghi, sull'apertura al cambiamento e alla condivisione delle informazioni, su un clima supportivo; viceversa, saprà di poter essere osteggiato dalla cultura segmentata dei colleghi, chiusi nella propria autoreferenzialità e compartimentazione organiz­ zativa, refrattari alle novità, orientati alla difesa dei propri, piccoli o grandi, ambiti di autorità derivanti dal possesso esclusivo di informa­ zioni (Kanter, I 9 8 9 ) . 3 ·7 Acque digitali

Le acque in cui ci troviamo a navigare sono agitate dai moti di innova­ zione e digitalizzazione, è evidente e già lo abbiamo accennato. Un' innovazione tecnologica che nel nostro paese ha accompagna­ to e si è sovrapposta all'affermarsi della comunicazione pubblica con curiosi, talvolta problematici, parallelismi, come abbiamo avuto occa­ sione di mettere in luce recentemente (Solito, Splendore, 20 I 6 ) . Una svolta digitale che giorno dopo giorno si fa più vistosa, ingom­ brante (Solito, Sorrentino, 20 0 9 ) , complessa e che rende ogni tentativo di puntualizzare, circoscrivere, definire, immediatamente obsoleto ed evanescente. Abbiamo già parlato dei numerosi interventi del legislatore sul tema dell'innovazione negli ultimi vent'anni, così come numerosi potrebbero essere gli aspetti di assoluta pertinenza con la comunica­ zione pubblica che potremmo trattare e come altri, prima di noi e con un ampio respiro, hanno già fatto18• Tuttavia non è questo il "fuoco" 18. A tale proposito rimandiamo a una trattazione approfondita della comunica-

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COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI del nostro contributo, anche se parlando di orizzonti della comuni­ cazione pubblica riteniamo i new media, più che un aspetto centrale, un elemento costitutivo delle acque in cui ci muoviamo. I processi di trasformazione che prefigurano un habitat digitale pervasivo ridefini­ scono la totalità degli ambienti di produzione e di consumo, di vita e di relazione, la percezione del tempo e dello spazio, le conoscenze e il conoscibile, l'esperienza e l'esperibile. Così, da tempo e da più parti, si sente dire che il web e i media digitali hanno cambiato tutto, che niente è più come prima, che a questa innovazione non ci si può sottrarre. Per certi versi, non si può che concordare con tali affermazioni "tra­ sformiste" (Mele, 2ooi) e anche guardando alle PPAA i processi avviati sono impossibili da resettare, qualora se ne dovesse avvertire il bisogno. Ma, come suggerisce Grunig (2009 ) , per valutare la portata del cambia­ mento e soppesare gli effetti realmente trasformativi dei nuovi media, dobbiamo spostare lo sguardo dalle potenzialità offerte dagli strumenti in sé agli usi che se ne fanno nei differenti ambiti e contesti. Vediamo innanzitutto in cosa si è concretizzato l' impatto dei new media sulla PA. Il disegno di innovazione tracciato dal legislatore individua quelle tappe imprescindibili che abbiamo menzionato e che riconduciamo a due fenomeni noti, non solo nel contesto italiano: lo sviluppo della cosiddetta democrazia elettronica (e-democracy) e del governo elettro­ nico (e-government) . I due concetti non sono affatto sinonimi, anche se nella loro applicazione empirica sono stati spesso sovrapposti e confusi, non tanto per una scarsa chiarezza definitoria che, a dir la verità, non c 'è stata, quanto per una difficoltà evidente di tradurre i due ambiziosi concetti in strumenti operativi di governo e di gestione delle relazioni mediante l' implementazione tecnologica. Per e-democracy si intende l' impiego di strumenti e modelli det­ tati dalle ICTs per accrescere la partecipazione attiva del cittadino ai momenti decisionali dell'azione pubblica e rivitalizzare il confronto nella sfera pubblica ( D 'Avanzo, 200 9 ) . Nata in un clima di disaffe­ zione politica e di allontanamento degli amministrati dagli ammini­ stratori, l' e-democracy è stata vista come uno strumento per accorciare le distanze e per recuperare un dialogo, un confronto. Tuttavia, tra le ragioni dei fallimenti della maggior parte degli esperimenti tentati zione pubblica digitale nel contesto italiano nei testi curati da Masini, Lovari, Bene­ nati (2009; 2010; 201 3 ) ; Lovari (2013).

3· COMUNICAZIONE PUBBLICA vi è quella di sottovalutare il contesto sociale ( Miani, 2004; Grandi, 2007) : si è creduto che la sola creazione e disponibilità di nuovi spazi on line di interazione avrebbe di per sé creato la partecipazione. Una visione semplicistica che da un lato è sintomo di una fiducia eccessiva nello strumento tecnologico, visto più come fine che come mezzo, e dall'altro banalizza il valore della partecipazione dei cittadini ai processi decisionali. Per quanto riguarda il nostro campo di indagi­ ne, riteniamo che l' e-democracy non sia approdata sulle scrivanie dei comunicatori, anche se le dimensioni dell 'accesso e della disponibilità di informazioni avrebbero potuto svolgere un ruolo importante per la creazione di un dialogo e di un confronto aperto, al di fuori delle arene politiche. Altra sorte è invece capitata all' e-government. Intendiamo con que­ sto termine l'utilizzo delle nuove tecnologie nelle transazioni tra PA e cittadinanza ( Grandi, 2007), al fine di velocizzarle e renderle più effi­ cienti. Le finalità sono dunque lo snellimento dell'azione burocratica, l'efficienza e la produttività delle amministrazioni che hanno chiesto di intervenire a più livelli contemporaneamente: una maggiore efficienza organizzativa interna - ad esempio, documento informatico, archivi, digitalizzazione del flusso documentale, banche dati condivise ecc. -, l'erogazione di servizi online - con un progressivo sviluppo dei livelli di interattività, da si ti web "vetrina" fino ad arrivare ad una personaliz­ zazione del servizio e ad un "proattivismo" informativo verso il cittadi­ no -, l'accesso ai dati e alle informazioni della PA, e altro ancora (Miani, 2005; Priulla, 2oo 8 ; Lovari, 2013). Con tali processi i comunicatori pubblici hanno assunto un ulterio­ re ruolo: quello di innovatori, per tradurre in operatività le opportunità tecnologiche; e hanno fatto sì che i new media da optional del sistema di governo e di amministrazione della cosa pubblica diventassero parte integrante, strumenti di lavoro costanti, non occasionali. Gli sforzi compiuti - e gli investimenti continui - non hanno tut­ tavia prodotto, ad oggi, una piena modernizzazione della nostra PA, per cui consistenti e innegabili sono tutt 'oggi i fattori di ritardo del paese ( Lovari, 20I3). « L'errore principale è stato quello di pensare che il cambiamento della PA potesse realizzarsi con l'adozione delle ultime tecnologie disponibili sul mercato » ( ivi, p. SI), senza metter mano alle prassi e alle condizioni di utilizzo, nonché ai processi interni di lavoro. Potremmo allora scoprire che, sì, la digitalizzazione ha cambiato di molto le nostre società, ma che se si continuano a utilizzare i nuovi I 53

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI media con logiche e modalità vecchie, senza una particolare consape­ volezza e strategicità, la portata trasformativa viene davvero ridimen­ sionata. Quando parliamo di "vecchie" modalità non abbiamo soltanto in mente la contrapposizione, anch'essa un po' datata, tra old media e new media, ovvero tra produzioni cartacee e produzioni che si servono dei saperi e degli strumenti informatici: per molti operatori, alfabetizza­ ti e maturati in un tempo di "diete analogiche': la scrittura cartacea rappresenta il punto di riferimento anche quando si producono testi "informatici". Ci riferiamo però anche al passaggio, più recente e re­ pentino, da un web 1.0 ad uno 2.0, in un momento in cui già si stanno schiudendo concrete possibilità di strumenti 3.0 (Susio, Cavina, Bar­ bagallo, 20I3; Ducci, in Solito, Splendore, 20I 6 ) , ovvero strumenti "in­ telligenti': smart, come a breve li definiremo. Se nella fase 1.0 le amministrazioni hanno dato vita a forme di rappresentazione della propria identità, di presentazione dei servizi offerti, informando e talvolta dialogando19 con il cittadino mediante i siti istituzionali, la posta elettronica, le bacheche elettroniche, i totem informativi ecc., nell'ambiente 2.0 esplode il potenziale partecipativo della cittadinanza e la proliferazione del cosiddetto UGC (User Gene­ rated Content), di quei contenuti generati in autonomia dagli utenti. Frequentemente il web 2.0 è considerato sinonimo di "web sociale" o di "web partecipativo" (Stella et al. , 20I4 ) e fa riferimento a quelle piattaforme di social networking che consentono ai soggetti interagenti di scambiarsi con immediatezza messaggi - testi, video, immagini, re­ gistrazioni audio ecc. - e di socializzare utilizzando tecnologie, quali il computer, il tablet, lo smartphone ecc., ovviamente connesse alla rete. In tal caso, le modalità "vecchie': ossia legate alle logiche tradizionali di produzione dei contenuti e di gestione delle relazioni, fanno riferimen­ to alla permanenza di "monologhi': ossia stili e modalità informative di tipo trasmissivo, unidirezionale, finalizzate al "dire" anche quando si impiegano strumenti orientati alla socievolezza e allo scambio, alla interazione e alla conversazione. Tra i rischi di un impiego unidirezio1 9 . Il dialogo potrebbe sembrare una modalità interattiva più vicina al web 2.0; in realtà, anche nei siti Internet istituzionali vi era spazio per raccogliere commenti, opinioni, domande dei cittadini, ma si trattava di un dialogo asincrono, non "imme­ diato", diversamente dal web 2.0 e da quanto avviene nelle piattaforme social, dove oltretutto risulta più intenso e costante.

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3· COMUNICAZIONE PUBBLICA naie del web 2.0 vi sono quelli messi in evidenza da Bryer e Zavattaro (2on): un uso strumentale da parte di chi cerca esclusivamente il con­ senso (politico) e la proliferazione di forme di dissenso (del cittadino) . Entrambi poco utili - o addirittura nocivi - per la "salute" del rapporto tra cittadini e istituzioni. Come gli studi in proposito mostrano, la PA è oggi sempre più pre­ sente sul web e sui social network, presentando tuttavia due distinte problematiche: da un lato la presenza è prettamente informativa e ben pochi sono i casi in cui si sperimentano modalità diverse, soprattutto, come vedremo nel prossimo capitolo, sui Social Network Sites; dall'al­ tro si tratta di una presenza che non ha portato ad una maturazione del rapporto con la cittadinanza, almeno a vedere i dati sull'effettivo uso del canale digitale per relazionarsi con l'amministrazione. In più, secondo Lovari (20I3, p. SI), il rischio - una delle "retoriche" dell' in­ novazione tradita - è che le amministrazioni maturino l' illusione di innovare soltanto perché presenti sulle piattaforme sociali (Grunig, 2009 ): la dotazione tecnologica è una circostanza favorevole - oggi fondamentale - ma da non confondere con il risultato di un'azione di riforma (Cogo, 20io) . Non dobbiamo infine valutare l'innovazione della PA a prescindere dai dati di ricerca, soprattutto quelli relativi al reale utilizzo da parte della cittadinanza degli strumenti messi da essa a disposizione. Dal 49 o Rapporto sulla situazione sociale del Paese 20I5 del CENSIS 20 , nella sezio­ ne "Comunicazione e medià: si apprende che: il 3 6% degli internauti italiani ha avuto nell'ultimo anno contatti con la PA, ma soltanto il I 8% ha interagito per restituire moduli com­ pilati; il 6,5% ha richiesto certificati; il I0,2% ha richiesto documenti di identità (carta d' identità, passaporto ecc.) ; le operazioni più frequenti sono: il pagamento delle tasse (26,3%), l' iscrizione scolastica superiore e universitaria (2I,4%), l'accesso alle biblioteche (I6,9%); il cittadino è mobile e connesso. È sempre più dotato di smartpho­ ne (52,8% della cittadinanza) e accede a Internet ( 70,9%). Questo ha importanti ricadute anche per la PA ; come sostiene Forghieri (in Masi­ ni, Lovari, Benenati, 20IO, p. 95), è importante che la PA prenda consa­ pevolezza del fatto che questi apparecchi: 1. accompagnano il cittadino 20. Cfr. http:/ /www.censis.it/s ?shadow_evento=I2I098 (consultato il 10 feb­ braio 2017 ) .

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COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI ovunque si trovi e consentono di accedere a informazioni e servizi; 2. conoscono l'esatta posizione del cittadino; 3· sono in grado di mettere in rete il cittadino e di inviare "autonomamente, informazioni. Si tratta dunque di comprendere sia le potenzialità inesplorate dalla PA nelle "nuove, acque (e sempre fresche) digitali - questo al momento sta riguardando, ad esempio, i sistemi di messaggistica istantanea, la definizione di nuove app ecc. -, sia gli usi diversi - nel senso di "strate­ gici, - che si possono fare dei media digitali già disponibili. 3·7·I· OPEN E SMART I più recenti fenomeni di riforma della PA sono stati fatti conoscere at­ traverso parole d'ordine che, pur avendo il pregio di rappresentare im­ portanti prospettive di cambiamento, rischiano di sembrare etichette che, concretamente, nulla di più aggiungono agli scenari organizzativi e relazionali della PA. Si tratta di una terminologia che non deve essere evocata, bensì compresa e attualizzata perché possa esprimere la sua potenzialità. Al contrario, abbiamo la sensazione che il clamore suscitato dalle promettenti novità terminologiche non sia di fatto accompagnato da una analoga sperimentazione empirica e che la strada verso gli obiettivi posti sia ancora lunga e difficoltosa. Il riferimento, di ispirazione europea, è a quella « amministrazione aperta » che « cerca di rendere procedimenti e decisioni più trasparenti e aperti alla partecipazione dei cittadini » 2.1 e che si dettaglia in: trasparenza delle informazioni, una openness dei processi decisiona­ li, politici e amministrativi; partecipazione dei cittadini, mediante la creazione di spazi aperti al confronto e al coinvolgimento su specifiche issues; accountability, il che significa promuovere una cultura del "render conto, delle proprie scelte, del proprio operato. Un'amministrazione è open in un duplice senso: non solo è "sbot­ tonata': "schiusà: "apertà' alla vista del cittadino, ma invita anche ad entrare e permette l'accesso a chi dall'esterno voglia farlo. , Una siffatta amministrazione presuppone, in concreto, l accesso diretto della collettività alle informazioni disponibili, secondo il para21. Cfr. http: l l open.gov.it/amministrazione-aperta/ definizione-amministra­ zione-aperta/ (consultato il 10 febbraio 2017 ) .

3· COMUNICAZIONE PUBBLICA digma della libertà di informazione, degli open data, dell'accessibilità totale (Ducci, 20I3) . Ma non dobbiamo confondere il dato con l'informazione. Il fatto che l' informazione si componga di "dati" non deve far cadere nell'er­ rore di pensare che il dato informi da sé, perché da solo non veicola nessun significato (Masucci, 2004) . È l'elemento di partenza, la ma­ teria grezza, come la fibra lo è per un tessuto, con il quale poi si confe­ zionerà l'abito. Allo stesso modo, la liberazione dei dati pubblici non rende di per sé più trasparente un'amministrazione: è soltanto la sua, fondamentale, premessa. Così, il dato, da molti considerato "linfa vi­ tale': "valutà' e "merce di scambio" della società della conoscenza, deve passare da un irrinunciabile lavoro di "significazione" da parte di chi ne ha la proprietà. Questo comporta un'opera di "traduzione" per la cittadinanza, al fine di colmare un divario, quel buco nero tra i dati e la conoscenza che produce ansia informativa (Wurman, I 9 8 9 ), e di prevenire un "sovrac­ carico cognitivo" (Information Overload), che per l'utente - ma anche per l'operatore - può significare (Masini, in Masini, Lovari, Benenati, 20I3) avere più informazioni di quelle che si riesca ad assimilare, essere invasi da un'ingente massa di informazioni non richieste oppure non riuscire a raggiungere l' informazione che occorre perché immersa in una miriade di altre informazioni. Dunque, ancor prima di "spalancare le porte" alla cittadinanza, l' openness della PA richiede un importante lavoro di back office e di comunicazione interna. Si tratta di metter mano agli archivi, alle banche dati, di discernere tra dati buoni e validi da quelli meno buoni, superati o parziali, di "trattare" la materia prima affinché si produca conoscenza, non rumore o opacità. D'altronde la "nuova" PA che stiamo definendo non si propone sol­ tanto di essere open, ma anche smart, "intelligente': altra parola d'ordine dei cambiamenti attesi da un impiego corretto e avveduto delle nuove tecnologie. Così, negli ultimi anni, si parla sempre più spesso di smart governance e di smart cities - ma anche di smart economy, people, buil­ ding, living ecc. (Ratti, 20I 3 ; Dall' Ò , 20I4) - per indicare un modello di sviluppo intelligente, nel quale le nuove tecnologie sono strumentali al miglioramento della qualità della vita dei cittadini, ma in maniera integrata e coerente con la sostenibilità energetica e ambientale - e con lagreen economy -, con la sicurezza e con le varie aree che compongono la smartness sociale. Al di là delle componenti utopiche di un simile modello di sviluppo, ciò che ci interessa è che impatti fortemente sulI 57

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI le modalità produttive anche della PA e sia portatore di una superiore qualità relazionale tra cittadini e istituzioni. Infatti, oltre ad una fiducia nelle potenzialità dispiegate ed estese dai nuovi strumenti tecnologici e dai network digitali, un sistema intelligente esige un'elevata capacità di inclusione e di collaborazione sinergica tra amministrazioni, politica e comunità locali, come gli indicatori di ranking mostrano22• Per questo ci chiediamo, in quanto non esplicitato tra gli indicato­ ri, se una smart city non debba forse sorreggersi su una PA smart, nella quale non c 'è soltanto attenzione al "prodotto finale", ovvero ad un effettivo impiego efficiente e sostenibile delle nuove tecnologie nelle interazioni con la cittadinanza, ma anche a modalità di lavoro "intelli­ genti" e a modalità relazionali interne più smart, per le quali la qualità della comunicazione non può che essere una tappa ineludibile. Ci pia­ cerebbe che queste supposizioni trovassero spazio in azioni di ricerca specifica, partendo da quei contesti organizzativi più "intelligenti': in quanto al top dei ranking internazionali e italiani: Amsterdam, Santan­ der, Tampere, Salisburgo e poi Torino, Trieste, Bologna, Bolzano e via dicendo scorrendo le classifiche. In contesti internazionali di ricerca, studi simili sono già iniziati ad apparire: Meijer e Bolivar (2o i 6), ad esempio, grazie ad una ricognizione della letteratura sul tema, hanno messo in luce la necessaria connessione tra sistemi digovernance e livelli di smartness delle città. Gli autori parlano di una « socio-techno syner­ gy » che non richiami tanto una ipersemplificazione del "matrimonio" tra tecnologie e sistemi sociali, ma che porti allo sviluppo di processi di cambiamento istituzionali. La multidimensionalità del fenomeno sembra infatti la sua prin­ cipale caratteristica, che tuttavia pone la questione di quali siano gli attori deputati a lavorare per l' intelligenza urbana e a chi spetti il ruolo, anche istituzionale, di coordinamento e di regia di azioni dislocate sui territori (Caporale, 20IS) . Dimensioni problematiche, da tempo note già ai comunicatori pubblici e che una PA open e smart ripresenta pre­ potentemente in agenda.

22. Una classifica delle "città intelligenti" in Italia

è

stata promossa da Forum

PA e ANCI (Associazione nazionale comuni italiani) nel 2013 (cfr. WWW'.forumpa.it). Troviamo, tra gli indicatori, la smart governance, misurata anche sulla base del livello di trasparenza dei siti web comunali e sulle iniziative di e-government, di accesso e fruibilità dei dati.

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Relazioni

4·1 Istituzioni under construction

La previsione di un "modello" organizzativo della comunicazione pub­ blica, riconosciuto e legittimato da specifici interventi normativi, ha rappresentato un passaggio cruciale nella storia della PA, la quale ha do­ vuto rivedere non soltanto i propri assetti - strutture, organigramma, articolazioni interne ecc. - e i propri "equipaggiamenti" - professiona­ lità, strumenti, risorse economiche ecc. - ma anche le basi della pro­ pria relazionalità. Non sempre e non ovunque quello stesso modello ha prodotto uguali risultati e, soprattutto, ha reso evidente la necessità di un costante lavoro di revisione e adeguamento. Per questo motivo, con l'espressione "under construction" si vuole sottolineare lo stato di "lavori in corso" in cui sembrano versare numerosi enti: una situazione di instabilità, tra esperienze pregresse e scenari attesi, che porta ad as­ sumere modelli di azione reattivi (Cavalloni, Colleoni, 1999 ) , ovvero basati su risposte cogenti a sollecitazioni emergenziali. In contesti simili, in realtà organizzative in cui la commistione tra zavorre del passato e continui venti di novità rende provvisorio ogni tentativo di sistematizzazione, è importante, a nostro avviso, distingue­ re il dinamismo dal caos organizzativo. Nel primo caso, infatti, il cambiamento è governato, gestito e così tende a dar vita ad un processo inventivo continuo; nel secondo, al contrario, il cambiamento costante è basato sull'emergenza, sulla rispo­ sta discontinua delle strutture che, nel migliore dei casi, riusciranno a "mettere pezze" in corso d'opera, sempre con la sensazione di ritardo e di incompletezza. Due situazioni opposte, dalle quali deriveranno frutti ben diversi: nel primo caso il cambiamento maturerà la pratica e genererà conoscenza, dalla quale, a sua volta, potrà scaturire una nuova 159

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI progettualità; nel secondo caso, invece, si produrrà ulteriore confusio­ ne organizzativa, dunque incertezza e instabilità che nel tempo saranno sempre più difficili da governare. Proponiamo così un lavoro interpretativo delle tendenze che osser­ viamo nelle realtà istituzionali, affinché il caos lasci posto al cambia­ mento consapevole e governato. Infatti, scrive Rolando ( 20I4, p. us), « è vero che abbiamo a disposizione i mezzi per indirizzare la società verso una maggiore democratizzazione, ma il percorso non è compiuta­ mente fissato » . Ciò richiede che nel presente testo siano fatte delle scelte, volte a circoscrivere i differenti ambiti di cui ci occupiamo, nonostante la co­ municazione pubblica ne abbracci e ne interessi molti di più. La prima scelta che fissiamo è relativa al contesto amministrativo che abbiamo in mente nelle parti che seguiranno, ovvero gli enti locali e, in particolare, i comuni. I governi locali sono un importante punto di osservazione del cam­ biamento. Da un lato sono riconosciuti come "banchi di provà' per misurare la validità dei tentativi di riforma amministrativa ( Girotti, 2007 ) ; dall'altro, per il ruolo che rivestono e per il tipo di rapporti che intrattengono con i territori, sono il livello amministrativo più prossi­ mo ai cambiamenti sociali e della cittadinanza. L'elezione diretta dei sindaci, che possono nominare e revocare di­ screzionalmente gli assessori, legati ai primi cittadini da un rapporto fiduciario, la responsabilizzazione dei dirigenti e il ruolo manageriale ad essi attribuito, i nuovi regolamenti contabili con l' introduzione del controllo di gestione, i crescenti compiti e funzioni assegnati a livello locale, anche a fronte di una maggiore "autonomia" organizzativa e a seguito della dismissione delle province, il recepimento della riforma del Titolo v della Costituzione sono tra i principali meccanismi di ri­ forma degli ultimi vent'anni che incrementano il ruolo chiave delle amministrazioni locali, regionali e comunali 1 • Qualche anno fa Barber ( 20I3 ) si chiedeva cosa sarebbe accaduto « if mayors ruled the world» , un interrogativo che voleva sottolineare, in un mondo globale e dif­ ferenziato, la centralità dei primi cittadini, dei governi locali e della dimensione municipale. 1. La nostra attenzione nasce poi da una conoscenza specifica, già esplicitata in sede introduttiva, derivante da attività di ricerca e di formazione che ci porta a voler restituire quanto appreso o suggerito dai contesti esplorati.

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RELAZIONI

Inoltre, dai primi anni Duemila, si è inserito il fenomeno delle or­ ganizzazioni intercomunali che, nel caso italiano, ha assunto prevalen­ temente la forma delle Unioni di comuni, delle fusioni e delle gestioni associate. Si tratta di forme di cooperazione strutturata e formale che danno vita a soggetti dotati di personalità giuridica, con proprie com­ petenze e responsabilità, che hanno origine nel passato - addirittura per taluni paesi nel XIX secolo - ma che hanno riscosso particolare successo e attuazione dagli anni Ottanta-Novanta in Germania (Inter­ kommunale Zusammenarbeit) e Spagna (mancomunidades), e succes­ sivamente in Italia. Qui l'esigenza di riorganizzare l'amministrazione locale mediante questo nuovo "livello intermedio" è stata spesso dettata dalla ricerca di una migliore - nel senso di efficiente - gestione dei ser­ vizi ai cittadini, ma ancor più dalla necessità di ridurre i costi. In più, i cambiamenti recenti della disciplina in merito hanno por­ tato all'attuazione di forme intermunicipali a seguito della trasforma­ zione di altri enti - come le Comunità montane - o dell'associazione obbligatoria per quei comuni sotto i s.ooo abitanti. Ad oggi, risultano complessivamente compiute 465 Unioni nelle diverse regioni italiane, per un totale di 2.469 comuni coinvoltP· (a fronte dei 7·998 comuni italiani); una realtà consistente nel panorama amministrativo italiano che, a nostro avviso, meriterebbe un' attenzio­ ne maggiore da parte degli studi e delle ricerche anche della comuni­ cazione pubblica, nel momento in cui, associandosi e unendosi, realtà amministrative diverse ridefiniscono i perimetri e, per quanto ci com­ pete, le identità organizzative da comunicare. Pertanto, un'attenzione alla comunicazione pubblica nei contesti periferici consentirà di riferirei con maggiore puntualità a circostanze nuove. Se questi sono i motivi in base ai quali la nostra analisi ha scel­ to di ispirarsi prioritariamente alle amministrazioni locali, dobbiamo ammettere, allo stesso tempo, che quello che viene definito il livello amministrativo più prossimo al cittadino, che meglio può conoscere e interpretare i suoi bisogni, in realtà non è percepito così vicino ed empatico dalla cittadinanza stessa. A guardare, ad esempio, il Rapporto Demos 20I 63 sulla fiducia de2. Cfr. http: / /www. anci.it/Contenuti/Allegati/QUADRO_UNIONI_mar­ zo_2oi6.pdf (consultato il IO febbraio 2017 ) . 3 · Cfr. http :/ /www. demos.it/rapporto.php (consultato i l IO febbraio 20I7).

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI gli italiani nelle istituzioni, emergono dati abbastanza preoccupanti: se il 22% degli intervistati ripone fiducia nello Stato, nel suo comples­ so, l'esigua percentuale non è compensata dal 23% dei cittadini che si fidano delle sue articolazioni regionali, né da quel 3 2% che si fida del Comune. Non raggiungono la sufficienza nemmeno i livelli di fiducia nei confronti delle istituzioni locali rilevati dall'ISTAT4: in una scala da o a IO, queste ultime hanno un punteggio medio al di sotto del 4, senza particolari variazioni sul territorio nazionale. Nella parte che segue è nostro obiettivo affrontare dove e quanto la comunicazione pubblica e istituzionale possa contribuire al recupero di una relazione maggiormente fiduciaria, nella duplice consapevolez­ za che non tutto attiene alla qualità delle attività di comunicazione e che la qualità di un'amministrazione dipende anche da altri attori, tra cui la qualità del dibattito politico, della proposta politica e degli attori politici. Potrà essere un'affermazione scontata e banale, ma, come scrive al riguardo uno dei più noti consulenti al mondo per la costruzione dei brand nazionali, Anholt (2oo6, trad. it. p. 45) : la maggior parte delle persone crede che il modo di cambiare l' immagine di un paese sia parlare di se stesso. Di fatto questo è di solito il metodo meno efficace e più costoso. [ . . . ] Cantare inni a se stessi non è di solito il miglior modo per far sì che gli altri ti ammirino : è meglio se qualcun altro lo fa per te [ .. . ] o più efficacemente, se si riesce a dimostrare il proprio valore.

E prosegue liberando il campo da ogni dubbio circa le responsabilità: « la reputazione di una nazione non si è costruita nel tempo attraverso la comunicazione, e perciò non può essere cambiata attraverso la comu­ nicazione » (ibid. ) . Sul versante politico e , nel nostro caso, tra chi è ai vertici dei governi locali, non sempre vi è una simile consapevolezza, anche per i processi di mutamento interni alla politica degli ultimi anni, per cui, ad esem­ pio, « cantare inni a se stessi» pare la chiave interpretativa ricorrente di quel concetto, molto più profondo e sfaccettato, del render conto. Oltretutto, la crisi dei partiti e dei modelli tradizionali di rappre­ sentanza non costituisce oramai una novità; le grandi famiglie poli4· Cfr. http:/ /www.istat.it/it/fìles/20IS/1 2/o6-Politica-istituzioni-Bes20IS .pdf (consultato il 10 febbraio 2017 ).



RELAZIONI

tiche che hanno caratterizzato e fatto la storia istituzionale per larga parte del Novecento hanno lasciato progressivamente il posto a forme più frammentate, mutevoli, discontinue di identificazione politica. Per contro si è progressivamente passati da legami forti elettore-partito a rapporti maggiormente individuali e personalizzati di fiducia riposta nel singolo politico ( Rosanvallon, 200 6 ; Segatori, 20I2) . « Serve rinnovare e ampliare le doti organizzative degli ammini­ stratori, la loro cultura di governo, le loro capacità di programmare politiche pubbliche adeguate, recuperando un legame forte tra am­ ministratori locali e rispettive compagini partitiche » ( Verzichelli, 20I 6). Molti sono i fattori e le variabili intervenienti, che occupano un ruolo di centralità e di attuale discussione all ' interno degli studi della scienza politica, della sociologia politica e della comunicazione politica. Ma i mutamenti accennati e, in particolare, la tendenza alla perso­ nalizzazione della politica e allo stile manageriale di governo hanno evi­ denti conseguenze anche nel rapporto tra cittadini e amministrazioni, mediato da attività di informazione e comunicazione. Dice Ceccarini (20I5, p. 22) : La personalizzazione della politica non solo spinge in primo piano la persona. L'ideologia e l' identità collettiva sono "sostituite" dalla fiducia nel leader, il quale garantisce, con la sua persona, la bontà del progetto e dell'azione poli­ tica ed, eventualmente, di governo.

In particolare, le amministrazioni locali si trovano « nella posizione di dover giocare, al contempo, due ruoli: quello di ente controparte, cui spetta il compito di intervenire sui temi della vivibilità della città, e quello di mediatore e moderatore sociale » ( Risso, 2002, p. I 9 ) . Da qui l e difficoltà di differenziare un'azione informativa e comu­ nicativa al servizio della cittadinanza e un'azione di moderazione e di intermediazione, un tempo appannaggio delle forze politiche in cam­ po, tra le istituzioni e le molteplici istanze poste dai cittadini, ora come singoli, ora come miriade di comitati, gruppi d' interesse, single issue movements che raccolgono istanze parziali e circoscritte. A loro volta, le domande che gli organi politici rivolgono alle strut­ ture di comunicazione negli enti si traducono spesso in una maggiore visibilità del proprio operato, nell'essere presenti - e se possibili cen­ trali - sui media.

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI D'altronde non si può nemmeno dare per scontato che tutti sappia­ no: ci stiamo riferendo ad una classe politica tendenzialmente giovane, che non ha assistito al passaggio da un sistema in cui la comunicazione era attività accessoria o strumento di propaganda ad uno in cui è stata scoperta quale risorsa strategica. Per cui, nonostante sia ritenuta una ri­ sorsa appetibile e largamente sfruttata, non si ha piena consapevolezza che debba essere anche gestita (Solito, 20I4). E veniamo quindi ad una seconda scelta che restringerà ulterior­ mente l'area di osservazione, ma ne darà anche una particolare con­ notazione. Nelle parti che seguono terremo indistinte, ma sempre ben presenti, due particolari sfere di relazionalità e di discorsività: quella tra cittadini e istituzioni e quella tra i comunicatori pubblici e il re­ sto dell'organizzazione. Solitamente vengono trattati dagli autori co­ me due versanti complementari, quello della comunicazione esterna e quello della comunicazione interna. Qui preferiamo non scinderli perché i fenomeni e i concetti che impiegheremo hanno una validità sia sul versante relazionale interno che esterno, pur tuttavia incontrando esemplificazioni e rappresentazioni diverse. Inoltre ci riferiremo a due distinti ambiti di incontro che di solito vengono ricondotti alle rela­ zioni o n line e offline. Ciascuno di noi sperimenta quotidianamente la fluidità di questi due versanti, sia perché compie contemporaneamente gesti relazionali in entrambe le situazioni, sia perché i significati appre­ si dall'uno influenzeranno quelli dell'altro, in un costante esercizio di rimandi, connessioni e sovrapposizioni (Sorrentino, 2oo8a) . Questo avviene anche nella pratica lavorativa, dove tra comporta­ menti on line e offline non c 'è una cesura, ma pratiche e conseguenze diverse di cui parleremo. Per cui laddove ci si riferisca a strumenti di relazione, potremmo tenere indistinti i due principali tipi, on e offline. 4·2 Una questione culturale

La sociologia, quando tratta la comunicazione, adotta una particolare prospettiva conoscitiva che la distingue dalle altre scienze e discipline - come filosofia, psicologia, antropologia, semiotica ecc. Un punto di vista che mette al centro del campo d' indagine più che l'atto comu­ nicativo in sé, ossia i contenuti che due o più soggetti si trasmettono, la "relazione comunicativà' (Donati, 2oo6; Gili, Colombo, 20I 2) che



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sorge quando i soggetti agenti interagiscono, ovvero si riferiscono l'uno all'altro. Tale orientamento guarda alla comunicazione come processo, più che come prodotto, e ne dà una lettura dinamica, basata sul para­ digma dialogico e rituale della comunicazione (Carey, I987; Sorrenti­ no, 2oo8a) che comporta da un lato un maggiore attivismo, sia dell'e­ mittente che dei destinatari, dali' altro la creazione di una relazione, di un rapporto di scambio e di reciprocità tra i soggetti interessati. Essa prevede sempre un lavoro interpretativo dell'emittente e del ricevente all' interno di un contesto dato ; ciascun attore interverrà, soggettiva­ mente e con il proprio bagaglio di capitale sociale, nella definizione della situazione e del messaggio. Considerare la comunicazione pubblica secondo questo "nuovo" paradigma significa, nel campo istituzionale italiano, operare una tra­ sformazione degli stessi modelli organizzativi di riferimento, che potrà approdare ora al dinamismo organizzativo, ora al caos. Il ragionamen­ to che proponiamo comporta un certo livello di astrazione, ma non mancherà occasione di dichiarare i nessi più specifici con il livello più concreto di lettura. Sosteneva Parsons ( I97I ) che ogni organizzazione trova la sua "ra­ gione d'esistere" nel tentativo di perseguire fini prestabiliti, per cui è logico pensare che modificando tali obiettivi anche la struttura orga­ nizzativa si dovrà adattare. Come abbiamo visto, i processi di cambiamento in corso portano le PPAA ad attribuire sempre più importanza agli interlocutori esterni: cittadini, singoli e associati, sistemi produttivi, media, altre ammini­ strazioni. Quello "esterno" - per così dire, pur non volendo enfatiz­ zare una netta distinzione tra i due versanti - è un terreno rischioso, imprevedibile, esposto ai continui cambiamenti. Ma è anche il terreno sul quale si giocano le sfide più importanti per le istituzioni. Allora potremmo dire che queste ultime si trovano davanti ad una duplice possibilità: rimanere ancorate agli assetti organizzativi tradizionali, adottando uno stile "difensivo" soprattutto quando il terreno di gioco si fa più instabile, minaccioso, insidioso. Oppure tentare la strada in­ terpretativa dei cambiamenti in corso, adottando soluzioni di varia ma­ trice, aprendo e presidiando canali di scambio e di dialogo e dotandosi di assetti più agili, nella convinzione che le istituzioni siano prima di tutto « artefatti sociali » (Bifulco, 2002, p. 8 ) ; con ciò intendiamo dire che esse sono il campo e il prodotto del nostro agire e che pertanto è insita nella loro "naturà' la variazione, nel tempo, della loro fisionomia.

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI Il cambiamento organizzativo è ormai un oggetto di studio con­ solidato nelle discipline sociali ed economiche, soprattutto da quando nella società postindustriale si è fatta strada una visione incentrata più sul dinamismo dei processi che sulla stabilità organizzativa, alimentan­ do la convinzione che quanto accadeva dentro e fuori le istituzioni ri­ mandasse, inevitabilmente, a strutture più flessibili, a modelli dinamici, anziché statici ( Cozza, 20I 2). Da una visione che privilegiava in maggior misura le strutture sono evidenti gli slittamenti verso i processi dell'organizzare, e in questi irrompono indivi­ dualità capaci di riorientare il corso, gli esiti e i significati dell'azione organiz­ zativa (Viteritti, 2oos).

Possiamo ora ritenere, sulla base di quelle premesse che ci hanno portati fin qui, che anche nel mondo amministrativo pubblico italiano sia sal­ tato quel tradizionale sistema di coerenza interna che lo caratterizzava e che gli enti abbiano avvertito l'esigenza, talvolta l'obbligo, di andare alla ricerca di nuove combinazioni: tra comunicazione pubblica e po­ litica, tra comunicazione interna ed esterna, tra saperi acquisiti e nuovi linguaggi, tra potere politico e diritti di cittadinanza, tra risorse nuove e nuove "scarsità''. E quella paradossale "trasformazione stabile" (March, Olsen, I989 ), per cambiare affinché nulla cambi, sembra di fatto cedere il passo a trasformazioni effettive, dagli esiti ben più incerti, ma anche potenzialmente più fertili. Pertanto emergono altri paradigmi volti ad assecondare un' idea organizzativa ( Normann, I977 ) della processualità, del cosiddetto or­ ganizing, orientato ad immaginare le istituzioni come flussi di proces­ si. Un fenomeno attivo e sempre aperto, lo definisce Bertolo (2oo s); « una forma organizzativa imperniata sul carattere generativo dell'a­ gire - sulla capacità dell'agire di generare, di dar forma alle relazioni, legami sociali, contesti e mondi di significato condivisi » , prosegue De Leonardis (I998, p. u s). Il vantaggio risiede per lo più nel superamento di alcuni dei mag­ giori limiti degli assetti burocratici, ovvero la frammentazione prodot­ ta dalla suddivisione del lavoro, il senso di distanza e di indifferenza di taluni membri dagli obiettivi generali e dal lavoro dei colleghi (Bi­ fulco, 2002). Al posto di una visione di elevata separazione e, quasi, di distacco, l'accento posto sui processi organizzativi vuole ricomporre le singole parti per lavorare al raggiungimento di obiettivi comuni e I66



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prestabiliti. È questo il significato, per lnvernizzi (2ooo ), di "processo": orientare l'ente al raggiungimento non di un qualsiasi obiettivo, ma di quello o di quelli che l'ente stesso, in maniera corale, si è pre fissato di raggi ungere. Alla "meta" o ci si arriva tutti o non ci arriva nessuno. Questo paradigm shift, nel quale ben si inscrive quel concetto di competenza già menzionato, consolida la centralità dei soggetti agenti, perché ciascun dipendente, in ogni momento, può contribuire a rende­ re un processo più fluido o, al contrario, inceppato. Dunque, affinché nelle organizzazioni vi sia una certa maturità co­ municativa e una predisposizione alla relazione, risulterà necessario - e prioritario rispetto agli atti comunicativi a rilevanza esterna - analizzare la componente culturale. Con questa intendiamo l' insieme di compor­ tamenti, orientamenti e propensioni di ciascun membro di un'organiz­ zazione, non soltanto dei comunicatori; la presenza di una « cultura della comunicazione » (Bechelloni, 2002; Solito, 2004) impone la condivi­ sione interna degli obiettivi e delle responsabilità, una predisposizione intenzionale verso l'altro, una reciprocità di azioni finalizzata alla com­ prensione e all'efficacia degli scambi comunicativi. Per questo motivo nessun dipendente di un'amministrazione è esentato da un lavoro rifles­ sivo e partecipativo alla questione culturale: «perché i processi comuni­ cativi tendono sempre più a investire trasversalmente e diffusamente le organizzazioni» (Solito, 2004, p. 52) e rendono più evidente «la neces­ sità di "socializzare': condividere, diffondere e sfruttare il patrimonio di conoscenza che deriva da una comunicazione finalizzata alla costruzione e al mantenimento della relazione con i cittadini» (ibid. ) . La cultura comunicativa richiede così un'attenzione alla dimensione relazionale e organizzativa del proprio lavoro, il che a sua volta comporta una revisione delle prassi, delle procedure interne e delle proprie modalità produttive. Difatti, c 'è un modo di strutturare il lavoro per processi che po­ tremmo definire di tipo top-down, calato dall'alto, oppure di tipo bot­ tom-up, improntato ad una modalità maggiormente partecipativa, che richiede un certo investimento relazionale. Ora, avvertiamo una comune tendenza a ritenere il primo modo ormai superato, ipergerarchico, dirigista, mentre il secondo virtuoso e auspicato. E se la prima modalità non è oggi più perseguita per la sua impopolarità, la seconda rischia di non trovare granché risposta concreta, per poi lamentare che un'organizzazione per processi non funziona.

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI Il fatto è, come una letteratura aziendale sul tema suggerisce, che prima di optare per un certo modello di cambiamento organizzati­ ve - sia questo « processuale » , « sistemico » o « socio-tecnico» ( Car­ retta, Piccinni in Civelli, Piccinni, 2.002., p. 72.) - è necessario "prepa­ rare" il terreno al cambiamento stesso. Anche sulla progettazione del cambiamento si possono adottare più strategie. Ferrante e Zan ( I998, pp. 2.42. ss.) parlano, ad esempio, di un approccio mezzi-fini, che consiste nel fissare uno stato atteso e allocare le risorse disponibili in base ad uno schema razionale, di uso ottimale delle stesse. Come dicono gli autori, è l'approccio preferito da ingegneri, economisti, legislatori perché punta alla ricerca continua dell'efficienza. Tuttavia, in ambito pubblico, ciò che spesso manca per poter adottare un simile modello è la presenza di un agire razionale da par­ te di tutti i soggetti e di una elevata stabilità nel tempo del contesto d'azione. L'approccio che invece sembra più adatto è quello che gli studiosi chiamano dell'apprendimento, secondo cui l'organizzazione non si muove verso un fine specifico, ma verso una "visione", uno stato futuro atteso che noi abbiamo definito, fin dal titolo del paragrafo, "orizzonte". Questa linea immaginaria può essere descritta sommaria­ mente, lasciando tuttavia un certo margine di manovra e di libertà in corso d'opera, dettagliando via via il percorso in più tappe. È chiama­ to anche percorso incrementa/e, particolarmente adatto a condizioni organizzative di incertezza e di una proiezione temporale di lungo periodo (ibid. ) ; necessita tuttavia di una predisposizione organizza­ tiva, che consiste, come dice il termine stesso, nell'attrezzarsi per ap­ prendere. Si parla infatti di "learning organization" quando il cambia­ mento, tutt'altro che lineare, richiede comportamenti, motivazioni, meccanismi di coinvolgimento e di relazionalità diversi che devono essere appresi, tanto a livello individuale, quanto collettivo (Argyris, Schon, I978 ) . Il tipo di struttura influenza in gran parte la possibilità di un'or­ ganizzazione di "apprendere" (Ferrante, Zan, I998 ) . La rigida struttu­ razione gerarchica, almeno secondo l' idea weberiana, non favorisce l'apprendimento e nemmeno lo privilegia una cultura organizzativa orientata alla certezza, al mantenimento inflessibile dei ruoli e quan­ to attiene ad un modello burocratico. Diceva Crozier ( I963 ) , difatti, che le burocrazie si caratterizzavano proprio per la loro incapacità di apprendere dai propri errori. Ma, come detto, egli si rifaceva ad una I68



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visione idealtipica, nella quale molte cose, oggi e nel contesto italiano, sono cambiate. Riteniamo allora che quel "saper apprendere': attitudine necessaria per preparare il terreno al cambiamento, possa essere uno degli orizzon­ ti verso i quali muovere la nostra imbarcazione, con una pianificazione, sì, flessibile e permeabile, ma chiara nei suoi aspetti cardine. Non vi sono "ricette" per farlo, né soluzioni elargibili per la totalità degli enti: ciascuna organizzazione potrà trovare in sé, attraverso una ricostruzio­ ne anche diacronica dei cambiamenti avvenuti, le leve per portare in superficie, per rendere oggetto di lavoro consapevole il proprio organi­ zing e individuare degli agenti portatori di cambiamento. Per le responsabilità affidate dalla norma - anche noi stiamo ca­ dendo nella trappola della legittimazione di quanto stiamo per dire ancorandoci alla legge - e per il particolare punto di osservazione da cui guarda la vita organizzativa, molti autori ( Civelli Piccinni, 2002; Solito, 2004; Rolando, 20ioa) concordano nel ritenere il comunica­ tore pubblico il soggetto agente del cambiamento organizzativo. La principale fonte di legittimazione è il suo impegno nella costruzione di relazioni e di un ambiente favorevole alla creazione di rapporti di scambio e di fiducia. Pettigrew e Whipp (I99I) individuano alcuni fattori dai quali di­ pendono le condizioni attuative del cambiamento che, per quanto ci sembra, possono essere un punto di riferimento importante anche per i comunicatori pubblici, per i quali adattiamo il modello proposto dagli autori: definizione di una policy coerente: la raccolta di dati conoscitivi entro l'organizzazione è il primo punto di partenza per elaborare una strategia coerente, che si faccia carico anche degli aspetti identitari dell'ente; ricostruire le tappe passate, sapere quali sono i punti di forza e di debolezza del sistema organizzativo, facendo partecipare i colle­ ghi assunti da più tempo, che possono sentirsi coinvolti e valorizzati. Questo momento, ricordano Civelli, Piccinni (200 2, p. 70 ), non deve correre il rischio di «paralysis by analysis » , per cui è bene che sia cir­ coscritto nel tempo e non scoraggi il comunicatore a proseguire; individuazione di figure chiave: il comunicatore necessita di "al­ leati': non perché i restanti saranno necessariamente e volutamente "nemici': ma perché egli deve poter contare sul sopporto e la collabo­ razione di alcuni colleghi. Può partire, se esiste e funziona, proprio da una rete di "referenti" interna, che già saranno sensibili agli aspetti

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI comunicativo-relazionali dell'ente oppure trovarne di nuovi che go­ dano di una certa legittimazione e stima interna al gruppo di lavoro. Il comunicatore, sia ben inteso, non è infallibile né deve sentirsi tale, per cui, nonostante egli dia impulso e prepari le sorti del cambiamento, il perimetro dell'efficacia o del fallimento non potrà restringersi a lui; relazioni efficaci con la politica: questo, è ormai chiaro, è un aspet­ to spinoso della questione, non perché il comunicatore di per sé atti­ ri le "antipatie" o l'ostruzionismo dei politici, anzi, ma perché se non gode di una particolare legittimazione ad operare, difficilmente potrà ottenere quella collaborazione e fiducia necessaria a proseguire i suoi intenti. Ciò che egli deve aver chiaro è che non può agire né senza un rapporto con l'anima politica, né con un rapporto troppo stretto con la stessa. Preparare il campo significa in questo caso negoziare spazi di "autonomia': ma anche di responsabilità e assumere un ruolo proattivo nei confronti dell'organizzazione; coltivare la cultura interna: ci siamo già riferiti a questo termine, non privo di emblematicità, che racchiude quel complesso sistema di valori, significati, appartenenze e aspettative che possono essere ora ostacolo, ora elemento di facilitazione. Il comunicatore ben poco può fare circa gli aspetti "ereditari" della cultura organizzativa, ma può for­ nire le basi perché alcuni valori permangano, se funzionali alla coesione interna, ad esempio, o, altrimenti, cercare di fornire sistemi di ricom­ pense e occasioni allargate di confronto. Si tratta di passi importanti, non di immediata attuazione, ma che consentono di accompagnare l'ente verso una pianificazione più chiara degli obiettivi. Su questi, va da sé, non è necessaria condivisione, nel senso di trovare un comune accordo e parere positivo; ma è anche vero che il comunicatore non potrà ignorare quelle sacche di ostilità che potrebbero inficiare gli sforzi compiuti. 4·3 La gestione delle p ubbliche relazioni

Nei fenomeni di riforma amministrativa risultano spesso trascurati gli aspetti gestionali del processo di riforma stesso e, in modo particola­ re, i sistemi relazionali tra PA e cittadinanza. Eppure il cambiamento della PA, ossia il tentativo di rendere il sistema amministrativo di uno Stato più efficiente, pare essere strettamente connesso alla capacità di I70



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un sistema di pensarsi in - e conseguentemente adottare - un'ottica maggiormente relazionale. È la sfida dellagovernance, lo abbiamo visto, che consiste nel far sì che la società civile sia stimolata ad autogovernar­ si, piuttosto che a dipendere dalla guida del governo ( Peters, in Pierre, 2000 ), e per far questo dovrà aver aperto e consolidato una elevata re­ lazionalità con le amministrazioni di riferimento, a partire proprio da quei livelli organizzativi più prossimi. Specularmente, come sostiene Facciali ( in Bartoletti, Faccio li, 20I3), un'amministrazione aperta e accessibile deve fondare le pro­ prie relazioni con la cittadinanza sulla conoscenza reciproca. Eppure dal punto di vista delle amministrazioni, ben poche « sono le inda­ gini che studiano l'opinione dei cittadini nei confronti dei servizi e delle attività di comunicazione istituzionale » ( ivi, p. I 8 8) e ancor più scarsi sembrano gli sforzi compiuti per una profilazione dell'utenza, per una conoscenza degli interlocutori meno suggestiva - basata sulla sensazione o la presunzione di conoscere - e più oggettiva - basata su specifici strumenti di indagine e rilevazione. E ciò rappresenta un elemento di debolezza e di fragilità, non inusuale nel nostro paese, come scrive Rolando (20I4, p. 66): « il deficit culturale più evidente in quel sistema oggetto di ritocchi, qualche volta di scossoni, raramente di vere e proprie complesse riforme, era ( ed è in buona parte rimasto ) quello relativo a un robusto padroneggiamento di un moderno capi­ tale relazionale » . Guardando il fenomeno da lontano, vediamo che le pubbliche re­ lazioni soffrono, in generale e nel mondo, di un passato non partico­ larmente glorioso, segnato dalla scarsa percezione del loro valore e da una rappresentazione alquanto superficiale dei suoi principali esperti: una « gin and tonic brigade » , come si diceva negli USA per disprezzare la categoria professionale, vista come una manica di ragazzotti auto­ didatti, capaci di aprire porte grazie alle relazioni "giuste': a sedere ai tavoli con le "persone che contano" ( Lancaster, Reynolds, I99s). Una rappresentazione "fiorita" di un fenomeno che schiacciava la relaziona­ lità sull' istintività e l'estroversione, sulla spigliatezza e la disinvoltura. Immagine che tende a conservare ancora oggi una certa popolarità: ad esempio, una ricerca statunitense del 2009 ( Bowen, 2009 ) , dura­ ta due anni, tra studenti iscritti all'università, ha messo in luce come nell' immaginario giovanile le funzioni di pubbliche relazioni vengano spesso confuse con azioni di marketing pubblicitario : « ali glamour, no substance » è la sensazione ricorrente. I7I

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI Pur prendendo le distanze da tali visioni stereotipate, dobbiamo ammettere che talvolta la sensazione che "pubbliche relazioni" sia un'espressione tabù si continua a percepire; così, soprattutto in campo aziendale e impiegando un lessico tratto dall'esperienza anglosassone, si sono impiegate etichette definitorie differenti, come alcuni autori illustrano (Zerfass et al. , 20II ) : communication management o strategie management sono quelle più ricorrenti, per superare o rendere più effi­ cace da un punto di vista semantico quelle che di fatto sono le relazioni pubbliche di un'organizzazione. Di tali rappresentazioni non troviamo particolare traccia in campo amministrativo, soprattutto locale, dove il personale addetto difficil­ mente è stato visto come un brillante PR che tesse relazioni virtuose; anzi, al contrario, è stato considerato più come un impiegato di sportel­ lo sullo stile "capro espiatorio" malaussenianos collocato, per analogia, nell ' uRP, un ufficio-sfogatoio, il "muro del pianto" dell'amministra­ zione, come è stato definito da Solito (2004) . Non c 'è dunque una rappresentazione come quella di matrice sta­ tunitense, ma, a pensarci bene, nelle prime concretizzazioni di "pub­ bliche relazioni" con cui hanno visto la comparsa gli sportelli di prima informazione, vigeva l' idea di luoghi accoglienti e disponibili, con un personale che non trovava altra migliore collocazione nell'ente, con il compito di indirizzare l' interlocutore nei meandri organizzativi, ma senza l'obiettivo di soddisfare la richiesta, né di entrare nel merito delle domande. Uffici - ma meglio sarebbe conservare il termine "sportel­ li" o "desk" per descrivere le situazioni più ricorrenti negli anni No­ vanta - nei quali operava un personale accogliente, ma che non aveva svolto specifici corsi di formazione, né aveva alle spalle una particolare cultura del dialogo e della collaborazione (Pizzanelli, 2004) . Dunque, le pubbliche relazioni erano circoscritte ad una relazione di primo con­ tatto e ad una funzione di orientamento e prima informazione. Come abbiamo visto, questa funzione ha cambiato nel tempo la sua fisionomia e, da sportello informativo, le pubbliche relazioni svolgono oggi una funzione di accesso e di informazione, con l'affidamento del­ le mansioni tipiche di sportello, e sono diventate un luogo strategico, snodo per il monitoraggio, il coordinamento e la progettazione strates. Ci riferiamo al noto protagonista di alcuni romanzi di Daniel Pennac, il signor Benjamin Malaussène, che di lavoro fa il "capro espiatorio" al quale i clienti del Gran­ de Magazzino possono rivolgersi per qualsiasi insoddisfazione o lamentela.

I72



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gica della comunicazione dell'ente (Priulla, 2oo8). Pertanto, in ciascun ente potremmo trovare una gestione diffusa della relazionalità esterna, mediante sportelli di front office, centrali o disseminati sui territori (ad esempio, nei quartieri o nei vari distaccamenti nelle frazioni ecc.), attività di portineria e di call center, sportelli unici o polifunzionali ecc. Questi luoghi possono essere caratterizzati da una maggiore o minore struttu­ razione dei servizi offerti, ma la loro cifra distintiva sarà proprio la rela­ zionalità esterna. Secondo le attese del legislatore, agli URP spetta anche sia il compito di gestire l'aspetto informativo e di accesso agli atti, sia la pianificazione strategica del servizio e la comunicazione interna all'ente. Nonostante tutti questi ruoli, congiuntamente, compongano il si­ stema di relazioni pubbliche di un'amministrazione, quando si parla di management relazionale ci riferiamo in modo particolare a quelle strutture o a quelle figure professionali che hanno una specifica respon­ sabilità di relazione verso il pubblico interno e fungono da snodo con il pubblico esterno e il territorio. Scriveva Rovinetti ( I 997, p. 3 95), alla fine degli anni Novanta, a proposito degli URP: una sorta di spartiacque tra chi parla di cambiamento e chi comincia a cambiare, ma anche tra chi assegna alla comunicazione delle istituzioni una funzione stra­ tegica e innovativa e chi pensa ad essa come a un inevitabile adempimento buro­ cratico e legislativo. Perciò questi nuovi uffici rappresentano le più efficaci spie del cambiamento : laddove sono più deboli, più debole è la volontà di cambiare.

Per questo definiamo questa funzione "strategica': perché è associata alla possibilità di esercitare un qualche potere trasformativo verso la propria amministrazione, soprattutto di tipo decisionale, ma anche conoscitivo. Poiché quando il pubblico non è formato che da un insieme casuale di interlocutori, la comunicazione finisce per diventare un esercizio perfettamente inutile. E non perché la parole e l' immagine scadano nel chiacchiericcio, ma perché i partecipanti scoprono che qualunque cosa dicano, il messaggio non avrà mai una destinazione certa ( Greppi, 20IS, p. 334).

4.3. 1.

S O D D I S FATTI E A S C O LTATI

La relazionalità quotidiana cittadino-PA è caratterizzata da un'elevata discontinuità ed eterogeneità: difficile poter individuare, tra le varie I73

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI tipologie di amministrazioni, quelle nelle quali l'aspetto relazionale è una garanzia di qualità, nonostante vi sia stato nel tempo un' indub­ bia crescita dell'attenzione. Tuttavia, nella sanità, sebbene pioniera in queste dimensioni avendo a che fare con un'utenza particolarmente sensibile, nella scuola, nelle regioni, nei comuni o negli enti previden­ ziali, la soddisfazione degli utenti sul territorio nazionale è altamente variabile e soggettiva. Ai comunicatori pubblici, quali responsabili del fatto che nella cittadinanza non maturino sensazioni di inutilità e di passività e in quanto coordinatori dei servizi relazionali che debbono dare risposta alle esigenze di "qualità'', a ragione spetta la predisposizione di impor­ tanti strumenti: di customer satisfaction, di ascolto - nella triplice ar­ ticolazione dell'ascolto di se stessi, del contesto e dell'utenza ( Solito, 2004) - e di marketing dei servizi. Come è noto, stiamo parlando di metodologie di approccio prese in prestito dal settore d' impresa, dove la soddisfazione del cliente è la regola aurea, nonché garanzia di soprav­ vivenza. Ma se per un periodo di sperimentazione iniziale (Metallo, Cuomo, 2000) si è pensato di poter trapiantare gli strumenti utilizzati dall' impresa nel settore pubblico, si è ben presto visto che l'adozione di strumenti di valutazione aveva qui implicazioni del tutto diverse. Si sa, il principale rischio dei trapianti è il rigetto e nella PA, nella quale l' intervento sulle dimensioni di qualità dei servizi tocca corde di eleva­ ta sensibilità e può portare ad inasprimenti relazionali interni, il rigetto si è presto concretizzato. L'attribuzione di responsabilità gestionali ai comunicatori pubbli­ ci impone il raggiungimento di due distinti ordini di obiettivi: la sod­ disfazione di bisogni e la generazione di fiducia. Entrambe meritano un chiarimento. lnnanzitutto, quando si parla di soddisfazione dei bisogni ci rife­ riamo sia ai bisogni dell'utente, in virtù del quale andranno pensate le modalità erogative del servizio ( strumenti, tempi ecc. ) , sia ai bisogni dell'operatore e questi sono solitamente trascurati o dati per scontati. Dobbiamo invece pensare che un operatore di front office insoddi­ sfatto, frustrato, demotivato o arrabbiato, per quanto capace di "tene­ re sotto controllo" le proprie reazioni emotive, potrà "sopportare" la relazione, ma difficilmente potrà farsi promotore del cambiamento o manager della relazione. Inoltre, i bisogni debbono essere considera­ ti nella loro nota tripartizione, questo spesso sfugge nell' interazione quotidiana tra cittadino e PA . Ci riferiamo ai "bisogni espliciti': ossia I 74



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quelli di cui il soggetto ha piena consapevolezza e che costituiscono il motore che spinge gli interlocutori ad entrare in relazione, esprimendo una domanda o ponendo una questione. Se, ad esempio, prendiamo il caso di un cittadino utente del servizio di trasporto pubblico, il bisogno esplicito sarà ciò che lo conduce alla fermata dell'autobus e ciò che gli fa scegliere quel determinato mezzo che lo porterà nel luogo deside­ rato. Gran parte delle interazioni mediate dal servizio è finalizzata al soddisfacimento di questo tipo di bisogni che, oltre ad essere fonda­ mentali per l'esistenza del servizio stesso, sono anche quelli che ciascun utente dà per scontati. Infatti, quando si verifica una situazione per cui il bisogno esplicito non viene soddisfatto, si genera nel soggetto una enorme insoddisfazione, che va ad incrinare la fiducia nell' istituzione/ ente erogatore. Ma esistono altri due tipi di bisogni verso i quali indi­ rizzare il comportamento della PA . Ci sono i "bisogni impliciti", ossia quei bisogni di cui il soggetto non ha piena consapevolezza perché li ritiene parte integrante della qualità del servizio, globalmente inteso, ma che in realtà ne rappresentano una specifica modalità di esecuzione o un aspetto particolare che, se trascurato, non mette in discussione il soddisfacimento del primo tipo di bisogni - quelli espliciti - ma non appaga pienamente l'utente. Proseguendo l'esempio iniziale, potrem­ mo dire che un autobus puntuale e, magari, pulito ha maggiori proba­ bilità di generare soddisfazione. Certo, anche uno ritardatario o sporco porterà il cittadino comunque alla meta di viaggio, ma si sentirà meno soddisfatto della qualità del trasporto. Ancor più decisivo è il caso in cui tali aspetti, sì secondari ma importanti, saranno trascurati più volte nell'esperienza del medesimo cittadino che potrà sviluppare reazioni di critica, lamentela verso il servizio di trasporto o addirittura decidere di utilizzare mezzi alternativi. C 'è poi un terzo tipo di bisogni: quelli "latenti" che, come dice la parola, si situano ad un livello sommerso di consapevolezza; anzi, il cittadino ne ignora proprio l'esistenza, dun­ que rappresentano un ambito di preziosa indagine ed esplorazione per quell'amministrazione che voglia migliorare ulteriormente la qualità dei propri servizi. Nella comunicazione d' impresa, è proprio questo il terreno su cui si gioca la competizione: arrivare prima del desiderio consapevole. A livello dei servizi pubblici potremmo dire che è sufficiente tendere verso un atteggiamento proattivo nei confronti dei bisogni inespres­ si della cittadinanza, senza tuttavia dimenticare che i primi due tipi di bisogni devono rimanere, nell'ordine con cui li abbiamo trattati, la I7S

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI priorità. Così, potrebbe generare ulteriore soddisfazione vedere che su quell'autobus - puntuale e pulito - ci sono dei video con le notizie dell'ultima ora, un distributore automatico di bevande nei mesi più caldi o informazioni sui luoghi di interesse turistico o sugli eventi in corso nelle varie zone attraversate durante il tragitto. Insomma, biso­ gni, sì, secondari, forse addirittura futili rispetto alla funzionalità di raggiungere un luogo, ma che contribuiscono a rafforzare il senso di fiducia dell'utente nel servizio erogato - la rinomata "fidelizzazione" del cliente - e nell' istituzione erogatrice. Abbiamo infatti parlato di un altro obiettivo del management relazionale che consiste nella genera­ zione di fiducia. Non potendo più di tanto intervenire sui meccanismi di fiducia della cittadinanza, i comunicatori potranno invece lavorare sulla loro credibilità. Come abbiamo già detto, la credibilità è la con­ dizione che consente alla comunicazione di essere efficace. Distinguia­ mo, sulla scorta di Gili (2005, p. 6o ) , tra una « credibilità del ruolo» professionale e una «credibilità nel ruolo » . Nel primo caso, facciamo riferimento a quei professionismi che godono di uno status particolar­ mente riconosciuto e legittimato dall'opinione pubblica. Una fiducia riposta in specifiche istituzioni o professionalità, legata alle percezioni, alla storia, alle immagini che nel tempo si sono cristallizzate e hanno fatto sì che quella data funzione fosse ritenuta largamente credibile. Pensando ai comunicatori pubblici, non ci sembra che questa possa essere la leva per la costruzione di relazioni efficaci, per tutti i motivi che abbiamo visto fin qui, comprese le eredità del passato, tanto della comunicazione che dei funzionari pubblici. Tuttavia, ciascun cittadino avrà trovato nella propria esperienza occasioni di incontri positivi, che gli hanno consentito di maturare un sentimento di fiducia verso quel­ lo specifico operatore di sportello o comunicatore. Questo, come ben spiega Guido Gili, è il caso in cui parliamo di una « credibilità nel ruo­ lo » , che attiene al modo in cui una persona concreta assolve ai compiti affidati. Rintracciamo questo duplice livello di credibilità in qualsiasi professione, ma è abbastanza frequente l'esperienza di entrare in un ufficio e cercare, in virtù di un'esperienza precedente, quella specifica persona alla quale preferiamo affidare la richiesta. Ecco, se la cura del modo in cui ciascun comunicatore interpreterà la propria funzione ha una validità e concretezza nelle relazioni esterne, lo stesso vale nel management relazionale interno. Qui, il sistema di fiducia che sorregge la relazione è frutto di una costante negoziazione e di un faticoso lavoro di mantenimento.



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Sono passati gli anni in cui tutto questo discorso sui bisogni e sulla loro rilevazione aveva un'elevata centralità, sia nei dibattiti tra profes­ sionisti, sia nei testi che ne invocavano l'uso per realizzare quel costante orientamento al cliente stimolato anche dalla normativa. Non sappiamo dire quanto ciò sia stato o sia tuttora praticato. Da alcune ricerche6 (Priulla, 2oo8) si apprende comunque che molti enti si limitano a strumenti per la raccolta e l'analisi dei reclami, ovvero alla "punta dell' iceberg" (ibid. ) dell'ascolto, che oltretutto focalizza l'attenzione sui malfunzionamenti e le critiche, fisiologia del sistema relazionale, è certo, ma che poi le strutture hanno difficoltà a "portare dentro" l'organizzazione, a dare risposta e seguito in una nuova proget­ tualità del servizio. Eppure, numerosi sono i benefici diretti specifici sui servizi e più genericamente sulla qualità delle relazioni tra cittadino e PA che potrebbero essere raggiunti mediante un'azione di ascolto me­ no episodica e più strutturata. La dimensione dell 'ascolto dovrebbe impostare il rapporto tra operatore e utente al di fuori del conflitto tra nemici e dentro una dimensione di con­ fronto e di scambio. La creazione di flussi di comunicazione ridefinisce il rapporto tra operatori e utenti nella dimensione della relazione piutto­ sto che dello scontro per difendere posizioni precostituite ( Facciali, 2000, p. 109 ) .

In un testo efficace ed operativo, a cura del Dipartimento della Funzio­ ne pubblica (Tanese, Negro, Gramigna, 2003, pp. 26-8), si sintetizza­ vano così le dimensioni di impatto e le ricadute interne dell'attività di citizen satisfaction: favorisce il superamento dell' autoreferenzialità degli enti; favorisce il passaggio dalle sensazioni alla misura; orienta la cultura interna al servizio del cittadino; motiva le persone (intese come personale, ma anche come utenza) ; favorisce l'affermazione di una logica dei processi; favorisce l'arricchimento delle mansioni di base; rafforza la trasparenza e l'accessibilità. 6. La constatazione che su questi temi anche le ricerche negli ultimi dieci anni si siano evidentemente diradate e, per quanto riguarda la nostra esperienza, che la domanda di corsi di formazione in proposito sia diminuita funge, comunque, da in­ dicatore indiretto di una minore attenzione agli strumenti di citizen satisfoction e di marketing dei servizi.

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COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI Strumenti di ascolto, dunque, che assecondano l'esplorazione di quei livelli della comunicazione organizzativa che, già oltre quindici anni fa, lnvernizzi (2ooo, p. I97 ) proponeva di considerare: livello funzionale: riguarda le modalità informative quotidiane che sottendono i processi produttivi e decisionali dell'organizzazione tutta; livello strategico: l' insieme delle attività volte a far conoscere l'i­ dentità istituzionale e a facilitare il raggiungimento di obiettivi presta­ biliti; livello formativo: l'attività formativa specialistica per chi si occupa di comunicazione, ma anche l'attività formativa volta a far conoscere e a diffondere nell'ente la cultura comunicativa; livello creativo: riguarda quelle iniziative di creazione, scambio e circolazione di nuove idee, soluzioni, conoscenze entro le amministra­ zioni. La previsione di azioni mirate al soddisfacimento di tutte e quat­ tro le dimensioni organizzative porta, secondo gli studiosi ( Invernizzi, 2ooo; Mazzei, 20 09; Maimone, 20IO ) , ad un management organiz­ zativo, nel quale le varie "voci" dell'organizzazione non producono un effetto "torre di Babele", ma si armonizzano e convergono verso un' identità istituzionale condivisa. Infatti, è importante ricordare co­ me gli strumenti esplorativi dei bisogni, relativi alla totalità dei servizi erogati e anche alle modalità organizzative interne, non debbano por­ tare ad una misura delle "abilità" dei singoli. Per cui, qualora il risultato delle indagini sia positivo, si divulga esternamente e se ne fa oggetto di "vanto"; ma se, al contrario, emergono criticità o problemi di gestione, i risultati restano nascosti in una cartella remota del PC del dirigente. Ecco, un ascolto siffatto non produce certo quei benefici sopra indi­ cati e inoltre diviene uno strumento dispendioso che si elimina alla prima occasione. Ciò di cui le strutture di relazione hanno ancor oggi bisogno è costruire, e diffondere internamente agli enti, una cultura della valutazione, evitando semplicistiche formule di mero adempi­ mento. In conclusione, riprendendo quanto detto nel paragrafo preceden­ te, il passaggio da pubbliche relazioni intese come erogazione di infor­ mazioni a funzione strategica comporta, nel personale addetto, quello che chiamiamo " empowerment dell'urpistà'. Intendiamo con tale espressione una potenzialità di chi riveste un ruolo chiave nell' URP, ma anche un obiettivo programmatico per chi

4· RELAZIONI svolge un ruolo dirigenziale. Possiamo definire l' empowerment come la consapevolezza di un individuo di poter risolvere un problema che gli si pone davanti, assumendosi responsabilità, operando delle scelte e fina­ lizzando il suo lavoro alla definizione della propria credibilità nel ruolo svolto. Una costruzione, dunque, che, dalla competenza del professio­ nista in sé, lo porta a farsi carico della capacità di risposta dell'organiz­ zazione a cui appartiene, verso la quale avrà un ruolo di impulso, traino o, come diremo al termine del testo, di "timoniere" dell'imbarcazione. 4·4 Travolti dalla social wave

Più volte, nel testo, si è fatto riferimento alla "svolta" digitale che ha interessato anche le amministrazioni, che hanno risposto con interesse alla chiamata social. Non sappiamo dire se in termini assoluti si possa riferire tale interesse ai livelli di attivismo delle amministrazioni: secon­ do i dati resi disponibili da Arata nel "lontano" 20I3, soltanto il I7,6% dei comuni aveva, ad esempio, una pagina Facebook attiva. Fatto è che del rapporto tra SNS (Social Network Sites ) e PA se ne parla, non sol­ tanto nel contesto italiano, e la proliferazione di testi e saggi sul tema mette in risalto un'attenzione e un'esigenza di esplorazione. D'altronde, le acque dell' innovazione, lo abbiamo visto, sono ben scandagliate da tempo, grazie a tutta una serie di provvedimenti volti a digitalizzare la PA. Eppure, sebbene già da diversi anni dal web 1.0 - tendenzialmente statico, informativo, basato sulla ricerca e con­ sultazione di contenuti da parte degli utenti - si sia passati ( almeno) al web 2.0 - caratterizzato da dinamismo e interattività, dalla generazione e condivisione di contenuti da parte dell'utenza -, i riferimenti nor­ mativi relativi ai social network scarseggiano. Come abbiamo detto, tranne qualche accenno nelle linee guida per la redazione dei contenuti sul web e il vademecum Pubblica Amministrazione e social media del 20I27 - che peraltro forniscono indicazioni soprattutto operative su aspetti strettamente tecnici -, non ci sono riferimenti sugli aspetti stra­ tegici, né sulle modalità gestionali per integrare questi nuovi strumenti nei communication mixes istituzionali. 7· Il vademecum Pubblica Amministrazione e social media (dicembre 2 0 1 1 ) è stato curato da Formez PA.

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COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI Così, come spesso accade in una situazione di "silenzio" normativa, davanti alla dilagante e pervasiva affermazione di canali di social net­ working nella società, i singoli enti si sono organizzati in autonomia. Secondo le sensibilità, la fiducia, le opportunità che in ciascun contesto la social wave ha incontrato. Ma anche secondo l'esperienza che singo­ larmente, e per motivi che prescindono il ruolo professionale, ammi­ nistratori e amministrativi possono aver maturato (Materassi, 20I6) . Insomma, s i è fatto tesoro di quell' "arte dell'arrangiarsi" che è , sì, un'arte perché, come ricorda livo Diamanti nel Rapporto Demos del 20I58, non è da tutti sapere reagire alle emergenze, saper trovare solu­ zioni in condizioni di instabilità, scarsità e incertezza, ma che trova non poche difficoltà nella pianificazione strategica, nella sistematicità delle azioni, nel presidio consapevole del nuovo ambiente digitale. Come scrive Facciali (in Bartoletti, Facciali, 2013, p. 26), « non si può non sottolineare come in Italia, i due percorsi, modernizzazione e digita­ lizzazione non sempre si incontrino in una prospettiva di integrazione costruttiva; al contrario, [ ... ] sembra che i due momenti a volte vadano avanti parallelamente senza interazioni significative » . L'esigenza di stare su piattaforme soci al ha quindi portato a cre­ are in un numero esiguo di realtà un social media team9, mentre nei numerosi casi restanti le strade intraprese sono state molteplici, come descrive Lovari (2o i 6) : le pagine istituzionali sono gestite da politici o dallo staff del sindaco, dalle strutture di comunicazione, da organismi esterni (singoli collaboratori, agenzie, imprese ecc.) o da volontari e stagisti. Altre ricerche sul tema riguardano singole situazioni territoriali o a livello nazionale, ma un numero circoscritto di casi: una prima inda­ gine10 del 2oi i, effettuata dall' Università degli studi di Modena e Reg­ gio Emilia relativa a 20 6 comuni italiani di medie e grandi dimensioni (sopra i Is.ooo abitanti) , ha rilevato che negli ultimi tre anni il 45% dei comuni censiti ha effettuato investimenti sui social network, apren­ do uno o più profili su differenti social (Facebook, YouTube, Google Maps, Twitter, Flickr ecc.) . 8. Cfr. http :/ /www. demos.it/ao1211.php (consultato il IO febbraio 20I7). considerazioni si riferiscono alla ricerca di Arata (20I3). IO. Cfr. Comuni 2.0. Utilizzo dei social network nei comuni italiani di medie egran­ di dimensioni, http:/ /qualitapa.gov.it/fìleadmin/dam/customer_online/report% 20 comuni%202.o.pdf (consultato il IO febbraio 20I7). 9· Tali

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L' investimento è stato dettato dall'impulso politico di sindaci e assessori con lo scopo prevalente, defacto, di fornire informazioni al­ la cittadinanza. Tra i vari punti di forza e le carenze individuate dagli intervistati, si apprende che il presidio di tali spazi ha comportato si­ gnificativi cambiamenti interni, soprattutto perché alle stesse persone è stato chiesto di fare di più, senza tuttavia prevedere interventi forma­ tivi, né l'affiancamento di personale maggiormente esperto. Sulla stes­ sa frequenza viaggiano i comuni toscani, secondo la ricerca, più volte menzionata, svolta nel 20I4 dal Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell' Università di Firenze su 269 enti (Materassi, Solito, 20I5). Più di un comune su due (53,2% del totale) ha scelto di essere pre­ sente su almeno una piattaforma. Prevalgono Facebook (ss%) e Twitter (28%), ai quali le amministrazioni si sono rivolte già prima del 20I2. Anche qui l' impulso iniziale è di origine politica (nel 62,I% dei casi) e l' imprinting resta anche nella gestione dei contenuti (nel 43% dei casi, a fronte del 22% che gestisce i contenuti in autonomia) e nelle fasi di istituzionalizzazione dei canali. La rilevazione condotta a due riprese nel 20I4 e nel 20I5 da Lovari (2o i 6) su 377 comuni della Sardegna mostra una progressiva crescita di enti attivi: Io o comuni hanno aperto un presidio ufficiale su Facebook e la matrice iniziale è, anche qui, di origine politica. Sindaci, assessori, consiglieri e staff del sindaco stimolano l' aper­ tura social e restano presenti nelle successive fasi di implementazione, gestendo direttamente la pagina o mantenendo un rapporto serrato con le strutture amministrative. Al di là delle ulteriori connotazioni che tutte le ricerche menziona­ te hanno incluso e che non abbiamo qui lo spazio di affrontare specifi­ camente, possiamo ritenere la social wave un fenomeno di una portata più vasta di quanto, all'apparenza, possa sembrare. Un'onda che smuo­ ve, trascina, certe volte travolge. Partiamo dagli effetti positivi che, a parer nostro e non solo (Lova­ ri, 20I3), sta avendo questa onda sui sistemi istituzionali. Non di rado, l'espansione verso i soci al network ha attivato, soprattutto negli enti locali, una revisione dei propri assetti e delle risorse dedicate; è poi pos­ sibile che taluni abbiano operato un ripensamento delle logiche interne di relazione, una riflessione sui contenuti prodotti e sull'articolazione dell'offerta comunale. Processi, questi, che non sono sempre andati a buon fine anche solo per il fatto che si parla di modelli « non sempre praticabili con la stessa "innocenza" con cui avviene la pratica di chat-

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI tare nel territorio della cosiddetta "amicizia"» (Rolando, 20I4, p. 86). Infatti, quel processo di sviluppo tecnologico che impatta sulla conce­ zione del sé individuale comporta secondo noi un medesimo passaggio logico a livello istituzionale: ci troviamo di fronte allo sviluppo di tecnologie di comunicazione e pratiche correlate che modificano la nostra idea di amicizia e di cerchia sociale, che mu­ tano il nostro percepirei come oggetto passivo delle comunicazioni di massa [ ... ] . Il paradigma comunicativo è cambiato : non siamo più solo "oggetto" di comunicazione, ma soggetto di questa (Boccia Artieri, 2009, p. 22).

Da qui deriva il riferimento ad una vera e propria social wave, che im­ patta sulle sponde della PA. Riteniamo che questo urto sia stato più "violento" laddove ha trovato situazioni organizzative più vulnerabili, in quegli enti dove non si era creata una strutturazione delle attività di comunicazione, dove la regia era assente o particolarmente esposta alle ingerenze politiche (Materassi, Solito, 20I5 ) , dove già vi era un defi­ cit di legittimazione delle professionalità destinate alla pianificazione strategica. Su altre sponde, invece, dove gli argini hanno tenuto, l'onda ha provocato, sì, cambiamento, ma è stato gestito, canalizzato, messo a sistema. Per questo, davanti alla tendenza, spesso istintiva, ad assicurare agli enti una presenza social, rispondiamo con il suggerimento di adottare un "cauto entusiasmo". Un ossimoro che non cela gli aspetti di positiva fiducia e funzionalità nei media digitali, ma che propone un atteggia­ mento di cautela. Non si tratta, certamente, di inibire o, peggio, arrestare le spinte propulsive e le accelerazioni entusiastiche. Di queste ce ne vuole nella PA e, ancor più, per condurre efficacemente la relazione con il cittadi­ no. Si tratta, tuttavia, di canalizzare gli impulsi, darsi un metodo, elabo­ rare una strategia e soprattutto prefigurare un raccordo tra gli obiettivi perseguiti dai singoli progetti di innovazione e i principi, i valori che definiscono la relazione tra istituzioni e cittadini, negli specifici am­ bienti organizzativi. Senza questi riferimenti si alimenta l'illusione, piuttosto menzognera, che sia sufficiente affidarsi alla potenzialità delle tecnologie ed alle capacità tecniche per produrre innovazione o miglioramento nelle relazioni sociali e istituzio­ nali. Il pericolo è di operare in una logica di determinismo tecnologico che potrebbe essere nuovo alimento di "stupidità" dell'istituzione [ ... ] allorché le



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tecniche non siano collocate all' interno della teoria dell'azione comunicativa che ne assegna valore e scopo (Bertolo, 2005, p. 1 68).

Da un lato, dunque, come dice Lovari (20I3), più che discutere se le PPAA debbano o non debbano presidiare gli spazi social, è opportuno chiedersi come stare su questi, con quali stili, obiettivi, regole. Certo, scegliere di non essere presenti come istituzione può voler dire creare un "vuoto" che altri soggetti, meno accreditati dell'ente stesso, riempi­ ranno con contenuti, non sempre così attendibili. Si veda ad esempio il fenomeno dei profilifake ( ''falsi" ) a nome di enti o dei loro vertici politici, usati talvolta in maniera scherzosa, ma anche capaci di pro­ durre un rumore assordante alla comunicazione istituzionale; oppure, e la tendenza ci appare più preoccupante, quando i singoli dipendenti utilizzano i loro profili personali per diffondere informazioni per con­ to dell'ente. Dall'altro lato, si tratta di vedere, a nostro avviso, se e in che misura questa presenza possa essere resa coerente con gli obiettivi delle singole organizzazioni e con le esigenze della cittadinanza, non sempre così networked e digitalizzata. L'apparente "gratuità'' dello strumento ha fatto talvolta saltare quella fase di valutazione "criticà' che problematizza l'apertura di un nuovo canale entro un'amministrazione, come invece sarebbe avvenu­ to a fronte di oneri più evidenti da sostenere. Il fatto è che i SNS ( Social Network Sites) comportano costi spesso "invisibili", attinenti all' im­ magine diffusa, alla credibilità nel gestire gli spazi, alla capacità di non deludere l'utenza e di tenere il passo del cambiamento. Perciò, se l'entusiasmo dice di "essere presenti", la cautela stimo­ la una riflessione sugli usi e le opportunità strategiche della presenza stessa. 4·4·1. VERSANTI I N E S P L O RATI

Abbiamo appena visto come i social network abbiano avuto riscontri diversi negli enti pubblici. Non si tratta qui soltanto di distinguere tra scettici ed entusiasti, tra « techno-entusiasmo » e « net-delusion » ( Colombo, 2013); si tratta di fornire ai primi dei parametri di valuta­ zione delle opportunità offerte da una presenza social della propria amministrazione; ai secondi di tradurre l'entusiasmo in metodo di lavoro.

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI Pertanto, in un ambito organizzativo in cui le strade solcate di si­ curo successo sono ben poche, anche per una evidente giovinezza dei processi sociali attivati, dove elevato è il tasso di "improvvisazione" e l' incedere dei comunicatori incerto, è necessario che anche la "speri­ mentazione" e l'intraprendenza di dipendenti « maverick » (Mergel, Bretschneider, 20I3 ) - ovvero quei dipendenti che, non adeguandosi completamente alle decisioni prese dall'ente, decidono di imboccare autonomamente strade diverse, non convenzionali - perseguano speci­ fici obiettivi strategici. Come ben mostra Lovari ( 20I3; 20I 6 ) , gli usi dei social network nella PA potrebbero intraprendere strade meno sconta­ te, dalle quali le amministrazioni potrebbero trarre vantaggi concreti. Così come in compresenza, anche nella fluidità del web non deve venire meno il rispetto e la considerazione del proprio interlocutore, meritare la sua attenzione a fronte di qualcosa di "interessante" da dire. È nostra sensazione - e in tal caso la carenza di ricerche al riguardo nel contesto istituzionale italiano non ci aiuta, ma gli esigui riferimenti sostengono la nostra ipotesi ( Lovari, Parisi, 20IS ) - che l'attivismo del cittadino, declinato nella generazione di contenuti da parte sua, non sia né particolarmente presente11, né particolarmente auspicato negli spazi social. La motivazione che lo porta a diventare fan di un comune - non necessariamente il proprio di residenza - spesso riguarda un bisogno meramente informativo che, associato all' immediatezza del canale, fa sì che riesca a soddisfar!o senza dover entrare in relazione con strutture fisiche o rivolgersi ad altri canali. Seguono motivazioni più vicine alla "integrazione simbolica': al senso di attaccamento e di appartenenza al territorio che al bisogno di partecipare, discutere, confrontarsi. Eppure la storia dei social network trova una sua legittimazione proprio nella possibilità, allargata e costante, di inserire contenuti au­ toprodotti nel flusso della Rete, superando la distinzione tra atto di consumo informativo e atto produttivo. La sottovalutazione di questa potenzialità, sia da parte degli enti che della cittadinanza, o, peggio, il timore di interloquire con un cittadino prosumer -producer e consumer al contempo - possono portare ad un crollo dei contributi "dal basso': di una partecipazione sostanziale, riducendo le piattaforma social a 1 1 . Presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell' Università di Firenze è per questo attivo il progetto di ricerca dal titolo Toscana , che vuole appunto indagare sulle motivazioni d'uso, bisogni soddisfatti e non, dei cittadinifon ofollower di un comune dell'area metropolitana fiorentina.



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mere bacheche elettroniche, che non aggiungono granché alla quali­ tà della comunicazione. C 'è da chiedersi pertanto se la "calma piatta" delle acque digitali sia riconducibile ad una generica disaffezione alla partecipazione, non ricercata dalle amministrazioni, ma nemmeno am­ bita dalla cittadinanza, oppure se, mancando le proposte innovative e sperimentali o limitandosi a quelle arene nelle quali già c 'è una tradi­ zione partecipativa più ampia - come ad esempio in alcuni comuni dell' Emilia-Romagna -, non vi sia interattività perché non vi è con­ sapevolezza. Ci sembrano particolarmente evocativi quei "campanelli d'allarme" individuati come condizioni che possono portare ad una interruzione del « circolo virtuoso della contribuzione » che Proserpio (20 1 1, p. 3 0 ) individua in maniera generica, senza un particolare focus sulle PPAA, ossia: la mancanza di appeal dei social network, per cui le reti sociali iniziano ad essere meno attrattive e non si fa affidamento alla colla­ borazione degli utenti per generare "atmosfera" e stimolare senso di appartenenza. Il rischio è dunque quello di un uso eccessivamente ri­ petitivo e routinario del canale, che annoia l'utente e lo disaffeziona sia alla partecipazione, sia alla consultazione. « Non sappiamo cosa scriverei, se non le stesse news che mettiamo sul sito » , « abbiamo un palinsesto di massima, rispettiamo quello» , « non tutti i giorni accade qualcosa che meriti un post » , « non abbiamo il tempo di fare anche le foto, ci limitiamo ai testi scritti » sono tra le frasi che raccogliamo in occasioni formative e di ricerca che sottolineano un appiattimento contenutistico, una mancanza di "riflessione" strategica sui contenuti, uno scarso "slancio", dettato anche dalla mancanza in molti enti di per­ sonale dedicato, che si possono poi tradurre in uno scarso appeal delle pagine; la scarsa valorizzazione dei contenuti generati dall'utenza. Se la contribuzione non trova riscontro, risposta, se non si prevedono forme di un qualche riconoscimento, l'utente può maturare un sentimento di frustrazione, dice Proserpio (ibid. ) . Questo anche nel caso in cui le amministrazioni "ingabbino" eccessivamente il cittadino, mediante policies particolarmente rigorose e restrittive, pensando che altrimenti i cittadini potrebbero assumere comportamenti negativi, ipercritici o, addirittura, poco etici. Scorrendo le pagine social di vari enti locali, si avverte la sensazione che alcune amministrazioni adottino comporta­ menti particolarmente "difensivi". Non ci riferiamo tanto alla regola­ mentazione interna alle pagine, che riteniamo necessaria per discipli-

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI nare lo spazio, ma ad usi e consuetudini che tendono a rendere evidente una frattura tra "noi" e "loro": impossibilità di condividere contenuti, commenti e consigli dei "fan" lasciati cadere nel silenzio, critiche che non trovano risposta, continui rimandi ad altri canali per soddisfare le domande espresse sui social, contenuti che sembrano ordinanze. Al contrario, una relazione maggiormente inclusiva, aperta e ac­ cogliente verso i prosumers non professionisti può rappresentare un vantaggio per l'amministrazione stessa e per la "qualità" delle infor­ mazioni prodotte. Si tratta, talvolta, di tentare strade "nuove", di speri­ mentare modalità di impiego dei canali a cui prima non si era pensato, allenando, ad esempio, lo sguardo comparativo con altre realtà, non soltanto italiane. Troppo spesso, infatti, si ritiene che alle proprie dif­ ficoltà non vi siano risposte suggerite dall'esterno. Questa concezione incrementa l'autoreferenzialità, il ripiegamento sui propri ombelichi che diventeranno gli ombelichi del piccolo mondo in cui ciascuno si sentirà "ingabbiato". Certo, capiamo quanto la sperimentazione possa essere rischiosa, ma non poi così tanto se inserita all' interno di una attività di pianificazione e di progressiva costruzione di un rapporto di fiducia con la cittadinanza. Azioni di storytelling del territorio o di social listening, progetti di branding istituzionale, rilancio delle attività produttive e marketing territoriale, azioni di integrazione e di interculturalità sono soltanto alcune delle sperimentazioni che stiamo iniziando ad osservare in al­ cuni, pochissimi in verità, enti pilota. Proserpio (2on) fa riferimento a molteplici vantaggi degli UGC (User Generated Content) ; riprendia­ mo questi aspetti e li adattiamo allo specifico caso del rapporto PA­ cittadinanza: creano atmosfera: i contenuti arricchiti di commenti e contributi sono molto più interessanti e coinvolgenti. Contribuiscono a diffon­ dere una cultura del dibattito e del confronto (ibid.) , a creare un po­ sitivo senso di condivisione, soprattutto quando la contribuzione na­ sce all' interno di uno stesso territorio. Per contro, l'alternanza di post provenienti esclusivamente dall'amministrazione, senza sollecitare una compartecipazione, rischia di assolvere ad uno scopo p rettamente pub­ blicitario, trasmissivo; coprono "nicchie" e integrano le "conoscenze" istituzionali: il cit­ tadino "mobile': dinamico, che vive, lavora, consuma ecc. è un prezioso portatore di esperienze e conoscenze. La contribuzione dettata dal pro­ prio stile di vita sprigiona una potenzialità gratificante per il cittadino I86



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stesso, supporta l'amministrazione e ne integra le conoscenze, dà vita ad una "comunità" basata sulla pratica e sul mutuo aiuto ; tendono a confliggere: il web non è un luogo di incontro pacifico. È risaputo che le modalità conversazionali non si prestano alla conver­ genza di pareri, ma più frequentemente alla contrapposizione e giu­ stapposizione di più punti di vista. Da un lato ciò rende il dibattito potenzialmente più litigioso ed esposto alla intolleranza, ma dall'altro, se proficuamente gestito e canalizzato, può portare alla emersione di punti di vista alternativi sulla stessa problematica. Pertanto, gli scambi conversazionali tra cittadini e l' introduzione da parte loro di nuove conoscenze e informazioni possono aiutare i decisori ad ampliare le questioni affrontate e generare un'abitudine al confronto civico. A seguito di tali vantaggi, la PA può riconoscere al cittadino o n line un ruolo di maggiore o minore attivismo (Gramigna, in Masini, Lovari, Benenati, 2009, pp. 211-2): un ruolo passivo, come soggetto analizzato e studiato all' interno di analisi aggregate e di scenario; un ruolo meno passivo, ma sempre "controllato" dalla PA che si rivolge a lui per ascol­ tarne i comportamenti, i bisogni, le lamentele, i giudizi ecc.; infine un ruolo attivo, come coproduttore dei servizi erogati. Come precisato in un recente articolo (De Rosa, Castigliani, 20I6) pubblicato su "Problemi dell' informazione': i comunicatori pubblici si trovano a sciogliere due ordini di problemi: in primo luogo, supe­ rare gli ostacoli per entrare a pieno titolo nella community, come voce legittima al pari di altri membri, come soggetto ritenuto credibile dal­ la community stessa; in secondo luogo, veicolare la propria posizione, affermare il proprio punto di vista, lottare e competere per far sì che la propria voce sia riconosciuta, rintracciata, in una parola, "visibile" agli occhi della Rete. Si tratta tuttavia di articolare meglio e con maggiore attenzione l' intera modalità gestionale delle relazioni comunicative dell'ente, cer­ cando di dotare i social network, ancor prima o assieme alle compe­ tenze adeguate, di una strategia. A detta di Rolando (20I4, p. I 83 ) , « la concentrazione dei politici sui media impedisce spesso che vi sia una vera ed equilibrata regia professionale complessiva di tutto il quadro co­ municativo e relazionale, generando così poca programmazione e poca valutazione delle attività » . Perciò, l' indicazione è quella di distinguere opportunamente le "voci" che provengono dall 'ente e di valutare bene l' intero commu­ nicaton mix comunale, attraverso la lente degli obiettivi che i singoli

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI strumenti riescono a soddisfare, e la « comunicazione totale » ( Gran­ di, 2007 ) che, complessivamente, ne sortirà. 4·5 Corpi intermedi

Le relazioni di cui abbiamo finora parlato possono essere lette come il risultato, più o meno lineare, di un processo di cambiamento, prima sociale poi organizzativo, della PA, che sta portando ad una revisione delle logiche di interazione e di comunicazione. Dai primi anni Novanta, quando si sono iniziate a prevedere speci­ fiche strutture di relazioni con il pubblico e con il sistema dei media, il loro ruolo è stato quello di "mediare" tra i luoghi della decisione e della produzione di servizi e i luoghi del loro consumo e della vita civile. Ai tempi il termine "mediare" era sinonimo di facilitare, favorire, agevola­ re, per cui URP e uffici stampa servivano ad « accorciare la distanza tra istituzioni e cittadini » ( Rolando, 20iob ) . Le strutture di accesso veni­ vano definite il "biglietto da visità' dell'ente, primo interfaccia con cui il cittadino si confrontava quando chiedeva di accedere all' istituzione; "strutture cernierà: ponti - queste le metafore impiegate in quegli an­ ni - tra apparati amministrativi e cittadinanza. A cavallo del nuovo millennio, la comunicazione pubblica era il "fuoco" delle riflessioni organizzative nella - e intorno alla - PA; l' im­ pulso normativo tanto atteso dagli addetti ai lavori era arrivato ( legge I50/2ooo e disposizione correlate ) : « dunque la legge c 'è » , era il grido di esultanza di De Rita ( 2ooo ) in una nota editoriale della "Rivista ita­ liana di comunicazione pubblica': che ben esprime, come ricorda Solito ( 20I4, p. I03 ) , la chiusura di un decennale periodo di attesa e « l'alba di una nuova fioritura » per le attività di informazione e comunicazione, « un'esigenza non più rinviabile » , come dirà Guazzaloca12 nello stesso numero dedicato alla legge. Anni in cui la nascita e la proliferazione di offerte formative, ob­ bligatorie e mal digerite da taluni dipendenti, stavano mettendo in fiducioso movimento i più volenterosi e intraprendenti comunica­ tori o aspiranti tali; molti enti, da quelli di più piccole dimensioni ai grandi ministeri, avevano dato una nuova strutturazione alle attività, 12. Giorgio Guazzaloca era in quel periodo sindaco del comune di Bologna. I88



RELAZIONI

avviando un dibattuto - talvolta conflittuale - ripensamento degli assetti organizzativi. In una parola, erano anni di « fermento» (Solito 20I4, p. I03) che portavano con sé incertezza, soprattutto perché molto era il lavoro da intraprendere e tante le resistenze da superare, ancor più che nel rapporto con il cittadino, internamente agli enti; ma erano tempi in cui prolifera­ vano le iniziative, le sperimentazioni, gli slanci, in cui gli sforzi congiunti erano finalizzati alla "messa a fuoco" di un rapporto più paritario con il cittadino, un dialogo con i territori amministrati, un patto di alleanza. Dopo anni di « cambiamenti visibili e immobilismi opachi» (ibid. ) , ci troviamo oggi in una condizione ben diversa. Non si può certo parlare di stallo della disciplina, perché, anzi, i richiami ad un ruolo della comunicazione da protagonista sono costanti e da più parti, fuori e dentro agli enti, ci si appella alla necessità di incrementarne il volume. Ma non sfuggirà il riferimento alla "quantità" piuttosto che alla "qualità": l'appello è spesso rivolto all'aumento esponenziale, sì, mul­ ticanale, di una comunicazione finalizzata ad atti di visibilità esterna, ma che "risparmia'' sui tempi di produzione, sulla azione riflessiva, sul tempo del pensamento. Non vogliamo dire che questo impegno non generi vantaggi o che non sia funzionale in qualche modo al cittadino; vogliamo dire che rappresenta una parte del lavoro necessario, che tuttavia sposta il bari­ centro della relazione. Da un lato, quindi, si continua a "mantenere in piedi" spazi di re­ lazione diretta con il cittadino e gli sportelli di front office, ma, per gli obiettivi di diffusione virale e di pubblicità, si prediligono i social network, che sembrano rispondere bene a tali tendenze, tanto che la PA, come abbiamo visto, sta assecondando con un certo entusiasmo ed istintività il loro ingresso nelle diete comunicative dei singoli enti. Ma si tratta di strumenti che tendono a trarre vantaggio dalla rapidità, dalla presenza costante, dalla maneggevolezza dei contenuti di cui si dispone; pertanto quelle strutture di mediazione, nate e affermate in altro clima, che potremmo definire "corpi intermedi': rischiano di rappresentare dei passaggi superflui, improduttivi per chi può creare e gestire quelle stesse relazioni in completa autonomia, senza l'esigenza di duplicare le azioni di diffusione e mantenendo appieno il controllo di ciò che si im­ mette nel circuito, già di per sé insidioso e paludoso, dell' informazione. Ciò che consentono i canali social, potremmo dire, è limitare l'attrito nella diffusione delle informazioni, tanto che entro le amministrazioni

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI serpeggia la convinzione che "Facebook sia il nuovo URP" (Materassi, 20I 6) e, per analogia, Twitter sia il nuovo ufficio stampa. Spesso ci si riferisce a pubblici "impazienti': intendendo innanzi­ tutto quei politici, desiderosi di recuperare un dialogo diretto con l'e­ lettore, i quali vedono nei nuovi strumenti disponibili un mezzo capace di metterli in contatto con una nuova piazza, dal momento che quella vecchia nessuno la frequenta più (Couldry et al. , 20I4; Greppi, 20I5). Il termine "disintermediazione" fa parte oggi del linguaggio co­ mune ed è stato via via liberato da quell' inquadramento strettamente economico che aveva avuto dagli anni Ottanta in poi, per rientrare fre­ quentemente nel dibattito politico13. « Spontaneità, trasparenza, rapi­ dità e contrazione dei tempi, prossimità e riduzione degli spazi fanno della promessa di disintermediazione del mercato e dalla rete un argo­ mento di successo nell'ambito politico» (Cuono, 20I5, p. 3 Io ) . Ma la questione non affascina soltanto la politica. Nel Rapporto CENSIS-UCSI 20I5 sulla comunicazione in Italia, a proposito dell'uso dei media digitali da parte delle istituzioni, si legge che le motivazioni d'uso degli intervistati hanno spesso a che fare con significati simbolici e di e-government: recupero di un dialogo diretto con il cittadino, velo­ cizzazione e snellimento degli iter per il superamento dei limiti insiti nei procedimenti burocratici, personalizzazione del dialogo tra istituzione e cittadinanza che si declina nel mantenimento di un rapporto stretto tra sindaco - o il suo staff - e singolo cittadino. Per cui la disinterme­ diazione, questa tendenza a gestire senza intermediari la presenza sui media digitali, è una pratica ambita dai politici, ma anche dagli uffici amministrativi, che dietro alla pratica scorgono una certa convenienza. Infatti, anche i vari comparti organizzativi di ciascun ente, le singo­ le direzioni, i singoli uffici della PA 2.0 possono dare informazioni sul proprio servizio direttamente al cittadino, senza la "faticà' di condivi­ dere internamente i dati o di passare, loro stessi, dalle strutture deputate alla mediazione. Insomma, si ha la sensazione che, da "struttura ponte': quella di rela­ zione esterna sia oggi vista come ostacolo, pietra d' inciampo, da saltare in nome di una immediatezza della propria azione, tanto per l'ammi13. Ad esempio, in occasione della convention alla Stazione Leopolda di Firenze del 2014, lo stesso Matteo Renzi ha dichiarato : «Non voglio prendermela con i cor­ pi intermedi, ma la disintermediazione dei corpi intermedi avviene dai fenomeni di cambiamento che la realtà sta producendo» .

4· RELAZIONI nistratore quanto per il collega amministrativo che lavora presso altri uffici. "Dossi artificiali" che rallentano l'andatura, perciò da aggirare. Ma per il cittadino ? Ricordiamo, difatti, che il percorso logico che ha condotto verso la legge I50/2ooo non immaginava certo le strutture di comunicazione come un imbuto dal collo stretto per sottrarre autonomia o potere alle diverse anime organizzative: il ruolo di URP e uffici stampa era quello di ribaltare la prospettiva, partendo dall' interesse del cittadino piut­ tosto che da quello autoreferenziale delle amministrazioni. È dunque nell' interesse del cittadino, il quale può trovare le informazioni che gli occorrono interfacciandosi con un'unica struttura e può ricondurre ad un'unica voce le informazioni che lo raggiungono, che URP e uffici stampa trovano la principale ragione d'esistere. Pertanto ci chiediamo: l' impulso a "disintermediare': ovvero ad informare e comunicare direttamente con i destinatari, bypassando le "strutture filtro': ha come obiettivo la maggiore soddisfazione del cit­ tadino o quella delle amministrazioni ? La domanda, lo ammettiamo, è sibillina e provocatoria e, come tut­ te le provocazioni, tende ad estremizzare i fenomeni considerati. Tuttavia, il nostro ragionamento ci porta nella direzione opposta rispetto a quella registrata in numerosi comuni, nei quali, come abbiamo visto, si tendono a dismettere le strutture tradizionali, a fare a meno di un comunicatore pubblico, ad affidare la comunicazione ad altri profes­ sionismi, sotto la stretta "sorveglianzà' politica. Ci porta ad affermare, al contrario, che di corpi intermedi ce ne sia oggi un gran bisogno, forse ancora maggiore rispetto a quando nel 2000 la legge ne definì le man­ sioni. Proprio in conseguenza di quel "sovraccarico" di informazione (Masini, in Masini, Lovari, Benenati, 20 I 3), l' intermediazione è quello snodo che consente all'utente finale di comprendere, di non lasciarsi sopraffare dalla quantità, dal caos informativo. Questo, ad esempio, è il ruolo svolto dal sistema giornalistico che gioca sempre meno la sua au­ torevolezza sulla velocità nel fornire l' informazione - è ormai datato il concetto di "scoop" giornalistico - e sposta la sua fonte di legittimazione proprio nella capacità di filtrare, selezionare e gerarchizzare gli eventi, così come di fornirne una rappresentazione coerente e comprensibile. Allo stesso modo sottolineiamo il ruolo di linkage dei comuni­ catori, che nei compiti di mediazione creano nessi e arricchiscono di significati le informazioni. Ciò non vuoi dire che "ricamano soprà' i dati e le notizie, nel senso fraudolento e manipolatorio del processo

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI di significazione. Essi possono rendere comprensibile ciò che è ostico. Il richiamo è dunque al recupero di un ruolo di « vero facilitatore di processi » (Sepe, Sirgiovanni, 20I 6, p. 224) , che operi negli spazi inter­ stiziali dell'amministrazione e ne favorisca il raccordo e l' interazione. Sostiene Baharier (2oo8, p. I 8 2) : c 'è una distinzione netta fra quanto chiamiamo intermediazione e ciò che de­ finiamo mediazione. La prima fa riferimento all'occupazione relativamente forzata di uno spazio all ' interno della catena14, senza alcun apporto di valore dinamico. È possibile che in un dato momento l' intermediazione faciliti il flusso del valore lungo la catena, ma la natura statica del fenomeno la rende presto obsoleta. [ ... ] Una dato nodo può assumere temporaneamente impor­ tanza, ma è destinato prima o poi a cederla a favore di configurazioni reticolari nuove ed emergenti.

È possibile quindi che, così interpretate, le strutture di mediazione ab­ biano concluso la loro efficacia e che dunque gli orizzonti potrebbero riguardare assetti in cui, ad esempio, ciascun servizio cura in proprio le relazioni esterne, oppure una situazione futura di massima digitalizza­ zione dell'utenza, nella quale i cittadini si rivolgono a sportelli virtuali, una sorta di "bancomat': per ottenere informazioni e servizi caricati dagli uffici su un'unica piattaforma. Oppure i corpi intermedi potreb­ bero continuare ad avere futuro, seguendo l'accezione data da Bahrier (ibid. ) alla "mediazione": La mediazione corre invece lungo la rete. [ ... ] Essa non ostacola, ma favorisce la formazione dinamica di nuove combinazioni emergenti. Non è statica, non è definita, ma muta in virtù delle necessità della rete. Di fatto essa permette ai nodi di entrare in contatto e favorisce lo scambio e la crescita. Non si tratta, quindi, di un patrimonio individuale, essa appartiene al collettivo. È proprio la mediazione a essere condivisa e in virtù di questa condivisione, impresa [per noi istituzione] e individuo possono crescere.

Una relazione virtuosa, dunque, secondo la quale non c'è produzione di servizi se non attraverso una costante mediazione interna, non sta­ tica, uguale a se stessa, ma comprensiva dei cambiamenti e talmente duttile da risultare garanzia di qualità, non corpo obsoleto.

14. L'autore si riferisce alla catena produttiva dei beni; per i nostri scopi appli­ chiamo la sua riflessione al contesto produttivo di servizi.

5

Orizzonti

s.I Comunicatori "su misura"

Ciascun titolo della nostra paragrafazione potrebbe concludersi con un punto interrogativo. Infatti, le questioni di cui tratteremo sugge­ riscono "nuovi orizzonti" proprio in virtù della loro irrisolutezza. E i contenuti del presente capitolo vogliono offrire argomenti, spunti di riflessione che, da un lato, interroghino le singole realtà istituzionali, dall'altro, proprio in virtù delle problematizzazioni fin qui compiute, consentano di ipotizzare nuove partenze o futuri approdi della comu­ nicazione pubblica. La premessa non deve tuttavia suggerire l' imma­ gine di un "navigare a vista": la sistematizzazione operata fin qui ha voluto far convergere e dare alloggio a processi di cambiamento, fun­ zioni, attività, professioni ecc. concettualmente distanti, ma ricondu­ cibili ad uno stesso obiettivo, ossia comunicare le amministrazioni. Tra il mantenimento delle rotte tracciate e uno sguardo immaginifico verso le prospettive future. Nel precedente capitolo abbiamo parlato di "relazioni" che si sor­ reggono su un dato di fatto, ben noto in campo organizzativo, ovvero che tra identità dei soggetti ed enti di appartenenza vi sia un rapporto cruciale ( Scaratti, 2012) . L'esperienza soggettiva d i ciascun attore è inserita i n un tempo, in uno spazio, ali ' interno di un reticolo di relazioni e si tradurrà in una storia, con una memoria e delle aspettative, in una crescita personale e un vissuto condiviso con altri. Nel progressivo ruolo "autoriale" del soggetto, che la modernità tende ad accentuare, egli imparerà ad attri­ buire senso agli eventi, alle situazioni, ai processi e collocherà se stesso in una dimensione organizzativa già di per sé densa di significati e di reticoli relazionali. 193

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI L'effetto dinamico e la continua negoziazione dentro l'organizza­ zione potrebbero spiegarsi così: quando si tratta di istituzioni entra in gioco anche il cambiamento degli atto­ ri, vi è cioè un nesso imprescindibile tra ciò che accade a livello oggettivo delle istituzioni, esteriorizzato in strutture, luoghi, dispositivi, norme, sistemi di azione istituiti, e ciò che accade al livello soggettivo, delle culture degli attori, dei frame, dei discorsi e delle pratiche con cui essi costruiscono significati ( De Leonardis, 2001, p. 111 ) .

Pertanto, trattandosi di spazi affollati di "soggettività", ci sono a nostro avviso due modi per guardare agli sviluppi della comunicazione pubbli­ ca in ciascuna realtà amministrativa: o adottando una prospettiva "oli­ sticà', privilegiando lo sguardo verso il fenomeno organizzativo - as­ setti, strutture, funzioni ecc. -, oppure mediante una prospettiva "in­ dividualista': che ha per oggetto prioritario l'azione del comunicatore pubblico e le relazioni che, direttamente o indirettamente, lo investono ( Czarniawska, I997 ) . È ovvia la complementarietà dei due sguardi nella realtà dei fatti, ma sono diverse le direzioni esplorative : nel primo caso si parte degli organigramma, dai processi organizzativi per arrivare alle specificità individuali; nel secondo, al contrario, saranno proprio le soggettività e la polifonia dentro l'organizzazione le chiavi interpretative dei percorsi della comunicazione pubblica che potrebbero poi portare a considera­ re assetti e formule organizzative più eterogenee e ibride di quanto un organigramma tenda a cristallizzare. Se guardiamo agli esiti organizzativi degli enti locali italiani, ve­ diamo che la comunicazione pubblica ha una collocazione eterogenea nelle ossature, ma che, in fin dei conti, le articolazioni, di stajfo di line, ovvero più concentrate sugli aspetti di management interno e di ascolto dell'utenza oppure sulle relazioni esterne con il cittadino, non decido­ no o non incidono più di tanto sugli esiti e sulla fecondità dell'azione svolta. Se invece adottiamo le storie organizzative in tessute dai protagoni­ sti, probabilmente l'approdo sarà più incerto e posticipato, ma miglio dopo miglio ci saremmo arricchiti di quel vissuto organizzativo e di quei percorsi professionali che, giornalmente, decidono le sorti della comunicazione pubblica. E in effetti sono molti i contesti in cui sono le specificità dei comunicatori a fare - nel bene o nel male - la differenza. I94

5· ORIZZONTI Il primo dei due percorsi indicati, ossia quello che privilegia il fe­ nomeno organizzativo in sé, è anche l'approccio più frequentemente impiegato in ambito pubblico (Borgonovi, Fattore, Longa, 20I3). Le maggiori novità registrate negli ultimi anni riguardano soprattutto gli schemi organizzativi adottati dalle amministrazioni: da modelli di tipo funzionale si è progressivamente passati a modelli di tipo divisiona­ le, ossia a « strutture articolate in un numero limitato di macra-unità organizzative di primo livello, che rispondono a linee di prodotto/ servizio, target di clienti, ambiti geografici di riferimento o tecnologie specifiche utilizzate » (Lega et al. , in Borgonovi, Fattore, Longa, 20I3, p. 203). Un modello in base al quale il lavoro si riorganizza in relazione al prodotto/ servizio offerto agli utenti e non alla funzione svolta, per­ ciò maggiormente flessibile e adattabile ai differenti contesti (Priulla, 2008). Ne consegue l' individuazione di "aree" o "direzioni" - queste ad esempio le etichette che si rintracciano negli enti locali - ritenute stra­ tegiche da ciascuna amministrazione e che racchiudono più unità orga­ nizzative e responsabilità. L'adozione di un siffatto impianto organiz­ zativo da un lato rompe la rigida corrispondenza tra assessorato e unità organizzativa e investe il dirigente di una maggiore autonomia rispetto alla politica; dall'altro richiede una visione maggiormente integrata dei vari servizi offerti e dei processi produttivi e sposta il fulcro del!' azione dirigenziale da una competenza giuridico-amministrativa ad una mana­ geriale e relazionale (ibid. ) All' interno di tali processi di cambiamen­ to che hanno ridefinito interi organigrammi pubblici - non soltanto degli enti locali, ma anche degli ospedali, delle aziende sanitarie, delle università ecc. -, la comunicazione pubblica ha una collocazione alta­ mente eterogenea nelle differenti realtà che possiamo rintracciare sul territorio nazionale: dagli affari generali all'amministrazione, dall'area coordinamento e innovazione all'area città e territorio, dall'area risorse economiche ai servizi informatici. Le denominazioni delle macra-aree o direzioni alle quali afferi­ scono di frequente i saperi comunicativi mettono in luce due aspetti sostanziali: la varietà delle soluzioni adottate da ciascun ente non è approssimabile a modelli di riferimento condivisi entro le amministra­ zioni e la nomenclatura dei nuovi assetti organizzativi, più che dare risalto alla strategia di comunicazione adottata, rispecchia un esito alquanto inefficace di contrattazioni interne, negoziazioni. Storie di vita amministrativa travagliata, dalle quali derivano "etichette" ambi.

I9 S

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI gue oppure onnicomprensive che sommano e affiancano più funzioni e ambiti, senza decidere: "Area comunicazione, informatica, istruzio­ ne, eventi e turismo" oppure "Servizio unico stampa, relazioni, inno­ vazione, partecipazione e trasparenza" o, ancora, "Direzione ambien­ te, cultura, sport, politiche sociali e comunicazione" e via dicendo. Denominazioni che rimandano a significati diversi attribuiti alla co­ municazione e che, ancora una volta, celano bisogni autoreferenziali della singola organizzazione, a discapito della chiarezza e dell'efficacia comunicativa. Come dicevamo, c 'è poi una seconda prospettiva mediante la quale si possono comprendere le PPAA, vicina a quel filone di indagine e di studi che guarda alle organizzazioni come "testi" da decostruire, scom­ porre, decifrare, per raggiungere livelli profondi e spesso impliciti di significazione. L'approccio si serve frequentemente di uno specifico strumento di ricerca che è il metodo narrativo o la raccolta di racconti organizzativP, nei quali gli individui, mediante la forma della narrazio­ ne e della conversazione, parlano della propria identità e della storia dell'ente. L'obiettivo è quello di « far emergere le letture soggettive e le rappresentazioni che gli autori hanno delle organizzazioni in cui ope­ rano, così come i modi in cui essi producono una conoscenza condivisa e intersoggettiva della realtà » (Poggio, 2004, p. 9I ) . D'altronde, tutte le realtà organizzative sono attraversate da pic­ cole storie individuali (Lyotard, I979 ) che ne decidono le sorti, dal momento in cui dalle burocrazie tradizionali, nelle quali dominavano le "grandi narrazioni" e le linearità dei percorsi organizzativi, si è pro­ gressivamente passati ad amministrazioni attraversate da una miriade di « storie individuali, locali, frammentate, fluenti, interrotte, silenzia­ te, cosicché ogni tentativo di attribuire senso e dare coerenza risulta fittizio» (Boje, in Poggio, 2004, p. Ios ) . Tuttavia, prendere atto che in ciascun ente non esista un unico rac­ conto possibile, bensì una pluralità di punti di vista, porta da un lato a valorizzare le persone chefanno le organizzazioni, non tanto per i ruoli che esse rivestono, bensì per il modo in cui esse si collocano ali' interno della narrazione stessa; dall'altro a limitare l'effetto uniformante della norma, che ha comunque una grande e imprescindibile forza ordinaI . A sua volta l'approccio narrativo si può servire di specifiche metodologie di indagine. Per una puntuale trattazione, cfr. Czarniawska ( I 997) ; Poggio ( 20 04); Mar­ radi (2oos).

5· ORIZZONTI trice, ma trova compimento e realizzazione in spazi discorsivi e di sog­ gettività che ne variano il percorso attuativo. Si dirà che fuori da leggi e procedure non c 'è amministrazione. Cosa vera in astratto, ma regolarmente derogata sul campo. Perché un buon insegnante, un buon medico, un buon servitore dell 'ordine pubblico, un buon magistra­ to e così via, certamente non devono tradire la legge e neppure ignorarla; ma il loro percorso applicativo passa attraverso molte complessità istruttorie, molte casistiche innovative, molte realtà emergenti, molte evidenti cadute di beneficio di normative obsolete che solo un prudente, ma al tempo stesso coraggioso potere cognitivo sperimentale può affrontare (Rolando, 2014, p. 1os).

Utilizziamo queste intuizioni per chiederci se i comunicatori pubblici non stiano forse vivendo pienamente questo paradosso. Le tre figure professionali - addetti stampa, addetti URP e portavoce -, distinte dal­ la legge I50/2ooo sulla base di quelle che sembravano le più stringenti esigenze professionali e operative, si trovano oggi ad affrontare il banco di prova della modernità. Modernità nella quale, a ben vedere, si sono sviluppate condizioni diverse, o quantomeno non prevedibili, rispetto a quelle che a suo tempo ispirarono il legislatore e che stanno portan­ do in superficie nuovi bisogni professionali e condizioni organizzative molto diverse tra loro, sulle quali è opportuno riflettere. Ciò non significa inficiare le strade intraprese, ma se ai tempi in cui la legge I50/2ooo è stata elaborata vi era l'esigenza di definire le "riserve di caccia" dei comunicatori e i confini tra i differenti professio­ nismi, ancorandoli, in maniera chiara, a saperi collaudati e facilmente identificabili, oggi sembra indispensabile pensare ai comunicatori in maniera più fluida, dinamica e duttile. Da una visione che tendeva a privilegiare la strutturazione della comunicazione in modo più o me­ no univoco - in un momento storico, lo ribadiamo, in cui prioritaria era la necessità di mettere ordine e razionalizzare ( Solito, 20I4) - si tende progressivamente a slittare verso una maggiore centralità dei processi del comunicare, che trovano specificità sia nei singoli conte­ sti organizzativi che nelle storie individuali in gioco, popolate da ben distinte "generazioni" di comunicatori. Il panorama che oggi ci tro­ viamo ad osservare è difatti composto non solo dalla "generazione o " dei comunicatori pubblici, da quelli che potremmo chiamare i "padri fondatori" nelle amministrazioni delle attività di comunicazione pub­ blica, che quindi hanno assistito e hanno partecipato attivamente al 197

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI suo evolversi fin dai primi anni Novanta; ma, progressivamente, sta operando nelle strutture anche un personale più giovane, spesso anche anagraficamente, che potrebbe essersi formato proprio durante le pri­ me strutturazioni a cavallo tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila e aver indirettamente conosciuto i trascorsi della disciplina, così come, al contrario, potrebbe aver maturato la propria esperienza in tutt'altri ambiti organizzativi ed essere approdato nelle strutture di comunicazione quasi "per caso". Prescindendo da qualsiasi giudizio di valore, intendiamo con questo dire che l'azione dei vari comunicatori potrà essere in maggiore o minore continuità con il passato, ora godere di un bagaglio di strumenti e di legittimazione da mantenere, ora in una situazione di deficit o di impasse. Ciò che appare necessario, a più di sedici anni dalla legge I50/2ooo, è considerare la situazione in cui ver­ sa ciascun ente alla luce della propria storia e delle professionalità che nell'ente e, in particolare, nelle strutture di comunicazione pubblica e istituzionale si sono avvicendate. Pertanto, secondo tale impostazione, invece che sottolineare la ca­ pacità di "tenutà' dei contenitori previsti, ovvero di URP, uffici stampa, portavoce, rispetto ad un impianto normativa uniformante, risultereb­ be probabilmente più utile valutarne l'elasticità. Sappiamo bene che questa indicazione può correre il rischio di es­ sere fraintesa: c 'è uno sguardo viziato che pensa alla elasticità come flessibilità, nel senso di duttilità, mollezza, pieghevolezza al volere al­ trui; ne deriva una visione della comunicazione come "banderuolà', che vira, ora a seguito dei venti della cittadinanza e del clima d'opinione, ora della voce forte e prescrittiva dei dirigenti, ora degli interessi della politica. Non è questo, ovviamente, che intendiamo. La proposta è quella di guardare in maniera diversa alle identità pro­ fessionali dei comunicatori, secondo i suggerimenti di Dubar (2004), per il quale l' identità non è ciò che resta necessariamente "identico" ma è il risultato di una "identificazione" contingente, nata propria da quel­ la appropriazione soggettiva dei significati organizzativi che abbiamo visto poco fa. Un lavoro quasi "artigianale" sulle competenze professionali dei co­ municatori pubblici, sulle identità e sulle architetture organizzative di cui fanno parte, attraverso la formulazione di domande diverse rispetto al passato che abbiano una più stretta correlazione con i racconti di quella specifica organizzazione, con quelle trame che legano passato e presente, tradizione e novità, carenze e opportunità. Un percorso che

5· ORIZZONTI scaturisce dalle domande diverse di ciascun responsabile alla comuni­ cazione o dirigente o vertice politico, ciascuno dei quali, piuttosto che chiedersi quanto la propria realtà comunale sia aderente ai modelli di comunicazione proposti, potrebbe provare a chiedersi di quale comu­ nicazione abbisogna il comune in cui lavora. Il riferimento, anticipa­ to nel titolo, a "comunicatori on demand", ovvero a professionisti che sappiano lavorare sulle proprie competenze con apertura e maggiore aderenza ai bisogni del proprio ente, non vuoi dire che simili compe­ tenze debbano essere cercate al di fuori degli enti. Certo, questa è una soluzione percorribile, soprattutto per quelle "nicchie" di saperi più mutevoli, e già percorsa da molti: "pescare" nel mercato i profili miglio­ ri può sicuramente avere le sue ripercussioni positive sulla operatività degli uffici e, ancor più, sul superamento di quelle vischiosità, fardelli del passato e dell' autoreferenzialità, che talvolta affliggono le realtà isti­ tuzionali. Anche se, a nostro avviso, nel momento in cui questa "pesca miracolosa" riguarda le figure chiave del sistema comunicativo dell'or­ ganizzazione, vi sono due aspetti che risultano particolarmente rischio­ si e che ci farebbero propendere verso un maggiore allenamento alla "elasticità" dei comunicatori già inseriti nel corpo amministrativo degli enti. Il primo di questi lo chiamiamo "socializzazione alla strutturà': il comunicatore pubblico, così come lo abbiamo raccontato e definito in queste pagine, ha uno stretto legame con l'ambiente istituzionale che rappresenta e con il territorio sul quale insiste l'azione amministrativa. La sua socializzazione professionale necessita di tempo, di sedimen­ tazione e soprattutto di continuità di rapporti che un collaboratore esterno o a tempo determinato non è detto possa garantire. Il secondo aspetto riguarda invece il comunicatore pubblico il quale, per i motivi che a breve saranno più chiari, deve costantemente sottrarsi all'effetto domino della politica, anche in virtù di quella maggiore personalizza­ zione e "leaderizzazione" (Mazzoleni, I998) che porta il vertice poli­ tico a far convergere i contenuti della sua proposta verso la visibilità e l' immagine della sua persona. Dunque, il "comunicatore on demand" rischierebbe, in un simile contesto, che quella demand fosse di tipo po­ litico e, in rapporto di stretta e "confidenziale" gratitudine, troverebbe ben difficile svincolarsi da un'ingerenza politica sulle sue strategie di comunicazione pubblica. Ciò che dunque vogliamo intendere con una "comunicazione su misura" è l'articolazione di una professionalità che, da un lato, sia con­ sapevole della - e per certi versi distaccata dalla - complessità dell'enI99

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI te di appartenenza e della sua identità più profonda e, dall'altro lato, sappia farsi interprete dei cambiamenti e delle sensibilità a livello di cittadinanza e di ambiente circostante. 5·2 I frame della comunicazione pubblica

Tra le rotte preferite dalla comunicazione pubblica, ve n'è una che potremmo definire "tappa obbligatà' del viaggio che abbiamo fin qui condotto. È l'approdo più atteso e auspicato, ovvero il passaggio dall' i­ sola della comunicazione competente. Con tale dicitura non ci riferia­ mo esclusivamente ai saperi specifici e ad un'alta professionalità dei comunicatori, di cui abbiamo già parlato e che tenderemmo a dare per acquisito. Non prendiamo proprio in considerazione difatti quei feno­ meni, già dichiarati esistenti, di affidamento della responsabilità della comunicazione per convenienze interne o per affinità caratteriali ad un personale brillante, ma che poco ne sa di comunicazione pubblica. Ci riferiamo invece alla realizzazione di quelle condizioni, cono­ scenze, regole che consentono di comunicare ( Gili, Colombo, 20I 2 ) , cercando di contrastare quel fastidioso "rumore" che fa perdere di vista obiettivi e funzioni dell'attività comunicativa. In particolare, se passassimo dall' isola della comunicazione com­ petente, ci accorgeremmo che ciò che spesso manca, a nostro avviso, è un'efficace azione di framing. Goffman ( I974) definisce i "frame" come cornici interpretative e come strutture di significato. Nel primo caso, tali cornici svolgono un ruolo "ordinatore': per cui anche la più "minuta" attività quotidiana, la più ordinaria delle azioni, è in realtà organizzata secondo "premesse" che occorrono per dare un senso agli eventi e al mondo ed esprimerne una definizione condivisa: agli occhi del personale le attività in cui si estrinseca la propria giornata lavorativa sono in gran parte "perdite di tempo" rispetto a quello che avrebbe voluto/dovuto fare. Non si mette così attenzione in quella "gestualità" routinaria che contribuisce alla competenza comunicativa, se sufficien­ temente valorizzata: il saluto, la risposta telefonica, la pausa caffè, la scrittura di una e-mail, la lettura di una nuova circolare, una riunione di direzione, il ricevimento di alcuni cittadini e molto altro ancora. Non vogliamo dire che questi aspetti debbano essere il cuore della co­ municazione competente: ma non di solo "cuore" siamo costituiti e per 200

5· ORIZZONTI essere in salute anche altre parti devono essere costantemente curate e mantenute. Sono allora quei "nei" che sappiamo esistere, ma che non "vediamo" più e che, se trascurati, possono portarci a brutte sorprese. Proprio come, in campo organizzativo, quel continuare a non rivolge­ re il saluto al collega della stanza accanto, rispondere istintivamente ad una e-mail, perpetuare gli stessi comportamenti in virtù del "si è sempre fatto così...", o parlare al telefono e riservare dieci minuti ad una lamentela del cittadino, senza prestare attenzione a ciò che ci dice, ma solamente orientati a "sfornare" risposte ecc. Goffman parla anche di un altro significato di frame, come struttu­ re di significato che consentono ai soggetti interagenti di dare senso alle situazioni, di orientare la loro conoscenza e la loro percezione ( Barisio­ ne, 2009). Alla stregua di Entman (I993), allora i frame consentiranno di diagnosticare, valutare e dare coerenza ai contesti di lavoro. I comunicatori ben sanno come questo livello operi nelle attività di sportello, quando ogni domanda posta da un interlocutore debba essere letta all' interno di una significazione ampia, complessa e artico­ lata. Anche la questione più banale deve essere inserita dagli operatori in cornici di senso coerenti per far sì che non prevalga, nell' interazione, una immagine precostituita della risposta o dell' interlocutore, senza presa in carico dello specifico bisogno che viene esplicitato. E grazie a questo impegno l'operatore stabilisce relazioni di scambio tra attività amministrativa e bisogni della cittadinanza, tra ciò che può "dare" all'u­ tente e ciò che può da questi "ricevere". Karl E. Weick è tra i massimi esperti di un approccio alla vita or­ ganizzativa basato sui processi di significazione che ci consentono di guardare alle amministrazioni come sistemi aperti che stabiliscono re­ lazioni di scambio con differenti interlocutori, in molteplici ambienti. Egli parla appunto di sensemaking per sottolineare l' importanza dei processi, più che dei risultati, per il funzionamento delle organizza­ zioni e stabilisce un nesso dinamico, una tensione costante tra identità organizzativa e comunità. Il contributo di Weick ci sembra partico­ larmente adatto ad inserire la comunicazione e i comunicatori in una cornice di senso che non sia confinata nella visione autoreferenziale di una singola professionalità: sono proprio questi problemi a costituire il fuoco del sensemaking, e cioè: che cosa c 'è "là fuori", che cosa c 'è "qui dentro", e chi dobbiamo essere noi per far fronte a entrambe le domande ? È proprio l'apertura associata a questa pro-

20I

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI spettiva che opera distinzioni tra le invenzioni là fuori e qui dentro piuttosto che tra le scoperte, che porta le persone a creare i loro stessi vincoli e che innesca la strana sequenza in cui gli effetti diventano l'occasione per definire retrospettivamente cause e percorsi plausibili (Weick, I995, trad. it. p. 75).

Un'efficace azione diframing della comunicazione pubblica detta così la necessità di passare da un frame della salienza, basato sul comunicare tutto ciò che merita di essere comunicato, ad un frame della connetti­ vità, ovvero di comunicare tutto ciò che tiene insieme e dà coerenza all'organizzazione (Gamson, I996) . Per questo riteniamo importante che vi sia un' idea organizzativa centrale o, altrimenti detto, una stra­ tegia condivisa. Perché in quella oscillazione descritta da Weick, tra il senso soggettivo, per intendersi, quello che appartiene e muove l' iden­ tità personale di ciascun comunicatore, basato su un'esperienza reale, concreta, vissuta direttamente, e il senso "organizzativo': che invece è incerto e mutevole, si trovi un certo grado di coerenza e un punto di equilibrio. Alla radice del problema c 'è, secondo il nostro parere, una scarsa progettualità e pianificazione della comunicazione nelle amministra­ zioni, per cui ogni controversia, interna o esterna che sia, riporta in causa circostanze, relazioni, vissuti irrisolti; questioni che hanno pro­ dotto e stanno continuando a produrre significati, ma che non trovano spazio nelle pratiche discorsive e non vengono integrate in quella idea organizzativa centrale. Aspetti tabù che nessuno dentro l' organizzazio­ ne risolve, ma che verranno periodicamente alla luce attraverso le do­ mande (scomode) di un cittadino allo sportello o di un collega appena arrivato, rimettendo in discussione i significati del proprio agire. La pianificazione - alla quale ci riferiamo in senso lato, ma che poi deve trovare concretizzazione in strumenti specifici di dettaglio, come anche in un piano di comunicazione periodico dell'ente o dipolicy - è in quest 'ottica importante, sia come processo in sé, perché consente di portare in superficie e mettere in relazione significati nuovi e defi­ nizioni diverse degli obiettivi organizzativi, sia come risultato finale, che consisterà nella scelta e gerarchizzazione delle questioni ritenute centrali e prioritarie, collocandole entro una specifica delimitazione del problema. I frame svolgeranno così la funzione di definire le aspettative dei pubblici, ma quali dimensioni, a quel punto, fungeranno da indicatori di qualità del lavoro svolto ? 202

5· ORIZZONTI Adottando come principio guida un'azione diframing impronta­ ta alla connettività, piuttosto che considerare il livello di gradimento e di accordo dell' interlocutore nei confronti delle soluzioni prospet­ tate, dovremmo guardare al grado di partecipazione e di integrazione dello stesso nella costruzione dei significati comunicati, stimolando il suo parere sui livelli di coerenza organizzativa. La comunicazione sarà efficace, allora, quanto più riesce a connettere parti organizzative diverse, riconoscendo e, se necessario, esaltando le specificità di cia­ scun settore, ma prestando attenzione sia alla comunicazione integra­ ta, che a quella "totale, (Grandi, 2007, pp. 294-5) . Nel primo caso si tratta di essere consapevoli, come comunicatori, ma in generale come personale di un'organizzazione complessa, che ciascuna decisione che viene presa entro un'amministrazione tende a rispettare un criterio di efficacia che le è proprio; ma allo stesso tempo, ciascuna decisione avrà una rilevanza anche per la comunicazione dell' istituzione stessa, perché andrà ad incidere su ciò che l'ente è e su come questo viene comunicato all 'esterno. Con questa consapevolezza appare non più sufficiente affidare a competenze comunicative l' integrazione e veicolazione di testi che comunichino quanto deciso dai responsabili dell' istituzione pubblica secondo logiche specifiche, ma diventa necessario che ad ogni livello decisionale dell'amministrazione pubblica sia presente ed operante una sensibilità nuova sugli effetti comuni­ cativi di ogni decisione presa (ivi, p. 296).

Per questo l'autore parla di una "comunicazione totale,, perché in ogni momento, in ogni anfratto organizzativo, ogni membro produrrà azio­ ni che avranno, inevitabilmente, una ricaduta sulla costruzione della comunicazione, dell' immagine e dell' identità istituzionale. 5.2.1. MARATONETI E

S C ATTI ST I : I DUE

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RES P IRI

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Parlando di coerenza e integrazione, non possiamo evitare di affrontare un aspetto dal quale, al contrario, provengono segnali di ambiguità, distacco e perfino di contraddizione. Più volte nel testo abbiamo fatto riferimento alle esigenze e alle richieste pressanti, interne agli enti, di visibilità e di immagine, a cui le attività di informazione e di comunicazione sono costantemente chia­ mate a dare seguito e organizzazione. Termini ai quali, tuttavia, non abbiamo ricondotto uno specifico significato. Ci rifacciamo a Solito 203

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI ( 2oio ) , quando individua due distinte accezioni. Da un lato, la visibili­ tà si rifa al concetto di pubblicità dell'azione pubblica, volta a garantire obiettivi di riconoscimento, trasparenza, correttezza e il confronto di più punti di vista ( Facci oli, in Faccioli, Bartoletti, 20 I 3). Dali' altro, in­ vece, si ha una visibilità come rincorsa all' immagine, intesa come una superficiale azione di restyling esteriore, una « competizione grotte­ sca » (Solito, 20IO, p. 23) per acquisire status e fama, prendendo dal si­ stema mediale soltanto quel che occorre per costruire apparenza. Nella visibilità richiesta alla comunicazione pubblica risiedono e convivono entrambe le sponde, oltretutto ben "con-fuse" da una normativa che orienta al raggiungimento di obiettivi di performance, di produttività, del merito che possono richiamarsi all'una o all'altra accezione. L'esigenza di ottenere mediante la comunicazione, interna ed esterna, risultati immediatamente visibili, quantificabili, appetibili e rispondenti alla media logic accorcia il fiato delle soluzioni proponi­ bili. Orienta al risultato, è vero, contribuisce a non disperdere energie e a focalizzare l'azione, ma costringe le organizzazioni a frammentare gli orizzonti più generali di maturazione organizzativa in mete di bre­ ve periodo, in traguardi parziali; si corre così il rischio di perdere di vista la coerenza, appunto, la lungimiranza, la continuità nel tempo, l'integrazione del presente con il passato, la programmazione, nonché di alimentare l'attitudine degli uffici a lavorare in un costante clima emergenziale e di dover periodicamente - o al cambio della legislatu­ ra - cominciare tutto daccapo. Troppo spesso, per quel che vediamo, la validità di un progetto o di un'azione comunicativa ha i propri confini nel risalto che un sistema mediale ipertrofico ha destinato a ciò che è stato fatto o detto al riguar­ do. È sempre più frequentemente il "fiato corto" della politica a dettare il ritmo di vogata anche della comunicazione pubblica, a schiacciare sul presente la costruzione di relazioni efficaci, perché direttamente spendibili, volte a rafforzare un legame con il territorio autodiretto. Si insinua nelle logiche produttive dei servizi il criterio della notiziabilità e si rischia di confondere la soddisfazione del cittadino per il servizio erogato con il numero dei "like" ricevuti, con la consistenza della ras­ segna stampa guadagnata, con l'assenza dei commenti negativi sulle pagine social. Anche il tempo di lavoro - così come il ricorso eccessivo ad incari­ chi fiduciari - ricalca le esigenze di presidiare arene comunicative più competitive, come quelle del dibattito politico, e di veicolare un' identi-

204

5· ORIZZONTI tà comunicata sempre meno riferita al valore dei territori amministrati, ma strumentale e orientata a "cifrare" il passaggio di una legislatura. Gambe e polmoni da scattisti - funzionali alla costruzione di una visibilità politica - vengono dunque richiesti a coloro che, invece, do­ vrebbero prepararsi per una maratona, per tenere il passo e assicurare continuità anche quando la legislatura cambierà e un'altra amministra­ zione si insedierà. Non si può confondere la preparazione atletica di un maratoneta con quella di uno scattista, dunque si dovrà chiarire fin dall'inizio cosa ci aspettiamo dalla comunicazione; anche perché, in corso d'opera, non possiamo attenderci che sia lo stesso podista a ride­ finire la situazione nella quale si trova a gareggiare e sarà ben difficile che si ottengano i risultati sperati da chi è improvvisamente costretto a correre i Io o metri, invece di coprire una distanza di 42,I95 chilometri. Ma, mettendoci nei panni di chi questo problema lo vive e perce­ pisce chiaramente ogni giorno, ci potremmo chiedere se e quanto il maratoneta - comunicatore pubblico - possa sottrarsi. Dalla nostra esperienza abbiamo maturato la sensazione che sia ben difficile schivare il ruolo attribuito, soprattutto negli enti più piccoli, dove il rapporto professionale è mediato da una conoscenza interpersonale specifica, tra politico e amministrativo. Tuttavia non crediamo che la risoluzione di tale problema debba essere affidata ali' "abilità" negoziale del singolo professionista, bensì alla capacità del!'ente nel suo complesso di costru­ ire spazi di legittimazione e di autorevolezza che siano strumentali, ma non subalterni alla politica. Si tratta, cioè, di allenare costantemente l'ente alla maratona, riu­ scendo a individuare quei vantaggi che, ne siamo certi, si riverbereran­ no anche sulla qualità della politica e, ancor prima, sulla qualità dei rapporti con la cittadinanza. Anche per questo abbiamo poco sopra parlato della centralità della pianificazione degli obiettivi comunicati­ vi dell'ente. Pianificare le proprie attività non significa mortificare gli impulsi, inibire gli slanci creativi o spegnere gli entusiasmi: vuoi dire "procedere con metodo", scandire il passo del proprio incedere orga­ nizzativo, dare strutturazione, comprendendo, non subendo, la fluidità dei bisogni, anche interni, con cui ci si relaziona. Non basta un piano di comunicazione una tantum: quello è uno strumento importante, ma viene spesso interpretato come i "compiti a casa" di un alunno disciplinato e con la testa altrove. Così visto, il piano resta un adempimento formale che non valorizza il percorso di costruzione, né riveste alcuna importanza nello svolgersi delle attività. 205

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI Serve, a nostro parere, una "cultura della pianificazione': vera pale­ stra per abili "maratoneti': mediante la quale le amministrazioni pos­ sano dare respiro e solidità organizzativa alle proprie azioni, ispirate, sì, dai vertici politici che mantengono quella preziosa titolarità degli atti di indirizzo, ma capaci di rispondere alla cittadinanza e garantire continuità. Un cultura, pertanto, che alimenti la fiducia perché basata su un rapporto di conoscenza reciproca tra istituzioni e cittadinanza, che non tema ma, anzi, dia impulso alla compartecipazione e allagover­ nance per la cura, sempre più necessariamente collettiva e cooperativa, dei beni pubblici. Come scrive Faccioli ( in Facciali, Bartoletti, 20I3, p. I 8 I ) , « la visi­ bilità in questo contesto parte dal basso, dal passaparola che usa anche il web per diventare voce e farsi sentire » , da forme di civie engagement che chiedono di essere messe in relazione e di dialogare con gli obiettivi strategici delle amministrazioni. Ci stiamo quindi riferendo ad un'altra risorsa che i "maratoneti" possono coltivare, e che abbiamo già menzionato più volte nel testo, ovvero la costruzione di capitale sociale. Gli enti devono essere inse­ riti in un reticolo di relazioni che li riguardi e che non sia ad esclusivo appannaggio dei leader politici che si susseguono ; un capitale che appartenga all'ente, che resti e che, come una solida massa ereditaria, passi di legislatura in legislatura, affiancando e amplificando, non sostituendosi, né lasciandosi sostituire, al capitale sociale delle forze politiche in campo o dei vertici al comando. Dice difatti Cartocci (2oo7, p. I 2 6 ) : i n generale costruire capitale sociale non è facile; è comunque un processo di lungo respiro e poco appariscente. Di solito tali processi di costruzione sono incorporati in banali pratiche di buona amministrazione e di responsabilità verso i cittadini, che abbiano una continuità tale da maturare l'attivazione di processi di identificazione nelle istituzioni come simboli comunitari. Dun­ que è difficile che l'aumento dello stock di capitale sociale possa diventare un obiettivo perseguito da una classe politica che si pone orizzonti temporali limitati e obiettivi ben visibili, da raggiungere prima della scadenza del man­ dato.

Sia ben chiaro: la distinzione tra i due tipi di "atleti", tra maratoneti e scattisti non vuole creare cesure tra due anime strettamente correlate, né vuole inferire una "sudditanza" della politica nei confronti dell'am­ ministrazione. Come sintetizza Rovinetti (200 2, p. 27I ) : 206

5· ORIZZONTI un conto [ ... ] è definire e separare, a livello teorico, l'area della comunica­ zione politica da quella istituzionale, altro è fingere di ignorare che nella pubblica amministrazione la comunicazione politica non può rimanere circoscritta in un ambito definito ma tende ad essere una costante nelle strategie degli amministratori » . Pertanto, continua l'autore, « non è mi­ metizzando ciò che è politico attraverso una funzione amministrativa che si risolve il problema. Questo problema lo si affronta solo definendo ruoli, competenze, funzioni.

Pertanto, ciò che spesso si invoca come "separazione" tra le due sfere è spesso confuso con un incremento della distanza tra i differenti attori; il che, essendo impraticabile e peraltro illogico, non porta ai risultati sperati. Dobbiamo invece pensare ad una distinzione che porti ad una costante interlocuzione, « un permanente scambio di informazioni e l'esplorazione sistematica delle opportunità di cooperazione ritenute più utili per il perseguimento dei risultati attesi [ ... ] , un faticoso per­ corso di apprendimento, destinato ad affinarsi quotidianamente nell'e­ sercizio di nuove capacità di soluzione dei problemi» (Girotti, 2007, p. I 64), dunque una nuova partnership tra decisori politici e vertici amministrativi orientata al riconoscimento reciproco per una serrata cooperazione progettuale e per una dialettica comunicativa costante, nel rispetto delle reciproche differenze. 5 ·3 Dalla "gabbia d 'acciaio" alla "casa di vetro"

Nell ' incipit del lavoro ci siamo rifatti più volte al pensiero di Weber e, tra i concetti e le riflessioni da lui proposti, abbiamo fatto riferimento a quella "gabbia d'acciaio", che egli all' interno dell'opera L'etica pro­ testante e lo spirito del capitalismo (I9 04-05) attribuiva alla moderni­ tà, nella quale il sistema burocratico costringe e contiene l' individuo. Ciascuno, secondo la visione dell'autore, è intrappolato nelle spire della burocrazia, la quale si mostra fredda e indifferente alle passio­ ni, ai desideri e ai sentimenti individuali e obbliga l' individuo in una situazione di passiva obbedienza e di limitata libertà. Da qui l' idea della gabbia, fatta di un materiale rigido, massiccio, freddo, di acciaio, appunto. Sempre più frequentemente, ad una burocrazia siffatta alcuni au­ tori contrappongono un' immagine ben diversa: quella della "casa di 207

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI vetro': ritenendola una metafora più adatta a spiegare le burocrazie moderne ( Gabriel, 2.005) . La "gabbia d'acciaio" di cui scriveva Weber rischia infatti di diven­ tare oggi un' insidiosa « gabbia elettronica » ( Cavallo, 2.005, p. n8), ali' interno della quale gli individui sono costantemente "sorvegliati" ( Lyon, 2.ooi), come in una sorta di "panopticon" foucaultiano. La dif­ ferenza, fondamentale, è rappresentata dal materiale di costruzione, il vetro, che consente alla vista di penetrare e di aprire spazi di visibilità, ma che non di meno "intrappolà' chi vi è chiuso dentro. Si tratta così di un passaggio di metafora, che suggerisce una lettura maggiormente "trasparente" dell'azione pubblica e delle burocrazie della tarda moder­ nità, all' interno di una struttura ugualmente rigida. O, come dicono Clegg e Baumeler (2.oio ) , di un materiale che nasce liquido, e dunque capace di assecondare e catturare la liquidità dei tempi moderni ( Bau­ man, 2.000 ) , ma che poi diviene rigido. Scrive Gabriel (2.oo8, p. 3 I4, trad. mia) : a differenza di una gabbia d'acciaio, che vanifica qualsiasi tentativo di fu­ ga con la sua forza brutale e inflessibile, una gabbia di vetro è discreta, non invadente, talvolta perfino invisibile. [ ... ] L' immagine di una gabbia siffatta suggerisce che potrebbe non essere una gabbia, ma un involucro avvolgente, un palazzo di vetro, un contenitore volto ad evidenziare l'unicità del suo con­ tenuto, anziché imprigionarlo o opprimerlo. Il vetro è dunque il mezzo più adatto a una società dello spettacolo, così come l'acciaio era perfetto per una società meccanica.

Dobbiamo precisare che gli usi e i significati attribuiti a questo pas­ saggio di stato - dall'acciaio al vetro e, per quest'ultima materia, dalla liquidità alla rigidità - negli specifici studi organizzativi delle burocra­ zie sono numerosi. Ci sembra, tuttavia, di rintracciare alcuni aspetti salienti che possono tornare utili alla nostra analisi, soprattutto nella consapevolezza di quei territori dai quali è scaturita e che abbiamo af­ frontato nel CAP. I. Il primo aspetto suggerisce più chiavi di lettura della liquidità della materia prima di cui si compone anche l'organizzazione burocratica moderna: se Bauman vede in questa caratteristica il fluire incessante e repentino dei fenomeni sociali, per cui alle istituzioni è richiesto di mutare rapidamente e di seguire il fluire degli eventi e dei consumi, altri autori mettono l'accento sulla maggiore "fragilità'' degli assetti 2.08

5· ORIZZONTI istituzionali che ne derivano (Gabriel, 2005). In quest'ultima visione, il "palazzo di vetro" sembra rappresentare quel tipo di società nella qua­ le la preoccupazione maggiore è rendere tutto spettacolare, splendido, glittering, come se fosse sufficiente a garantirne l' infrangibilità. Non si tratta di due visioni opposte, anzi trovano numerosi punti di contatto e sembrano porre la questione, per noi centrale, di come la co­ municazione delle amministrazioni debba interpretare questi passaggi. Da un lato, infatti, la casa di vetro si pone come quell'artefatto che asseconda le esigenze di visibilità, trasparenza, accessibilità; dall 'altro tuttavia è strumentale a quel processo che recentemente Graeber (20I5) ha definito di "burocratizzazione totale", dal momento che l' individuo postmoderno è sempre più soggetto a procedure, regolamentazioni, forme di controllo e di surveillance (Colombo, 20I3). Un recupero, quindi, di quella razionalità che si autoalimenta e che diviene un fine in sé, anziché una precondizione per la generazione di un valore diffuso. Ne consegue che la ricchezza di dati che si produce in una condizione di sovraccarico simbolico, « che i mpone all' indivi­ duo contemporaneo di districarsi nella pluralità di situazioni e nella descritta abbondanza di senso e di significati codificabili» (Sorrentino, 2oo8a, p. IO) , detta la necessità di filtrare, selezionare, facilitare. Atti­ vità, queste ultime, che certo hanno a che fare con la finalità ultima, la ragione d'esistere delle strutture di comunicazione e dei comunicatori. Il secondo aspetto che possiamo trarre dai saggi sul tema ha un ca­ rattere maggiormente interlocutorio e riguarda il modo in cui le strut­ ture meno rigide, ma più fragili, si relazionano alla ulteriore fluidità del "silicon web" (Muellerleile, Robertson, 20I5) . Ci domandiamo, quindi, in sistemi istituzionali nei quali ci sono, comunque, alcune caratteristiche definitorie imprescindibili, come De Leonardis (2ooi) ricorda, che attengono al loro perdurare nel tempo grazie a una qualche forma di stabilità, regolarità e "forza normativà: come si inserisce la ulteriore liquidità del web che, come silicone, entra e si inserisce nei vuoti e negli anfratti dell'organizzazione ? Si tratta ancora di una suggestione, un orizzonte molto sfuocato, che potrebbe a sua volta aprire ulteriori scenari di indagine e di ricerca scientifica, proprio in risposta a quei dubbi di adeguatezza del web e, ancor più, dei social network alle PPAA. Se infatti "contenere" la fluidi­ tà del web - per quanto sia possibile - significa non comprenderne la natura o !imitarne le potenzialità, rendere fluidi sistemi organizzativi tendenzialmente rigidi e dal movimento per lo più inerziale può com209

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI portare rischi e conflittualità di non poco conto. Il discorso sarebbe ampio e certo non esclusivamente circoscrivibile alla comunicazione pubblica, perché, alzando lo sguardo, vediamo che sono le stesse do­ mande che anche altri ambiti istituzionali stanno affrontando, non senza criticità: dalla famiglia alla scuola, dal sistema giornalistico a quello culturale. 5·4 Livelli di guardia

Avevamo premesso che nel testo non ci saremmo sottratti dal fornire alcune sollecitazioni sugli orizzonti percepiti dal "contatto" con svaria­ te realtà organizzative locali. Così come parleremo delle opportunità che i comunicatori non possono lasciarsi sfuggire, è necessario anche affrontare i rischi che riteniamo imminenti e che il confronto con au­ tori che sul tema si sono esposti sapientemente e prima di noi ha in un certo senso rafforzato. Parliamo quindi di alcuni "livelli di guardia': di quei segnali d'allarme che a nostro parere le amministrazioni non do­ vrebbero ignorare e che potrebbero comportare per i comunicatori dei cambi di rotta, anche a costo di brusche virate. Ambiti che richiedereb­ bero un approfondimento empirico mediante ricerche specifiche, ma anche uno spirito sperimentale nelle differenti amministrazioni. Primo livello: diventare trasparenti, ma non invisibili « L'asserzione "c 'è trasparenza perché tutto è comunicato" rischia di essere una cre­ denza che contribuisce a creare [ ... ] la falsa idea di una società possibile senza distanze simboliche, come se non vi fossero livelli diversi di com­ prensione dei problemi» (Bertolo, 2005, p. 48) . Bussola del cambiamento, parola d'ordine di una PA riformata, la "trasparenza" è da più parti invocata, perseguita, inneggiata. Un concet­ to polisemico che definisce un modo di essere di un'amministrazione, un obiettivo o un parametro con cui commisurare l'azione amministra­ tiva (Villata, I987 ) . Allo stesso tempo ci sembra che sia un concetto fre­ quentemente banalizzato ed equivocato. Come scrive Facciali (in Ma­ sini, Lovari, Benenati, 201 3 , p. 33), la PA si trova ad affrontare un'altra sfida, « ma anche l'ennesimo rischio di appiattire i processi innovativi in una dimensione di vetrina, più legata alla creazione di un' immagine rassicurante delle amministrazioni che mettono a disposizione dati e 2IO

5· ORIZZONTI informazioni non sempre facili da utilizzare, e che si rivolgono ai propri utenti per suggerimenti, denunce e proposte che, tuttavia, non sempre ricevono un ascolto adeguato» . Esplorando i significati, apprendiamo che per "trasparenza" si in­ tende la proprietà di un oggetto di fungere da filtro e che permette di lasciar vedere non soltanto dentro, ma anche attraverso; una proprietà, cioè, che consente di far entrare la luce e di agevolare l'occhio a guarda­ re al di là dello spessore dell'oggetto stesso. Ci è sembrata proprio una bella metafora per l'amministrazione. Una PA trasparente è quella che fornisce al cittadino la possibilità di vedere oltre, di guardare attraverso i servizi, le funzioni, le attività svolte, ma anche i sistemi di tassazione, le rinunce, le scelte effettua­ te ecc., per vederne le finalità, gli obiettivi verso cui si vuole tendere. Un'amministrazione che filtra, non nel senso di ostacolare, bensì di facilitare la vista dell'osservatore. Allo stesso tempo, la trasparenza impone e richiede una specifica capacità dell'occhio dell'osservatore, perché non tutti riescono a vede­ re attraverso gli oggetti: taluni si fermano alla loro superficie. Anche questa è un' immagine per noi appropriata, perché nei confronti della PA non tutti gli "sguardi" di cittadinanza saranno capaci e dotati di una vista simile; si tratterà in tal caso di "allenare" la vista dei cittadini meno dotati, meno capaci o dall'occhio più "pigro". Possiamo così dire, in sintesi, che per essere trasparenti non è suf­ ficiente "mostrare': si tratta di "rendere visibile". E ciò comporta un intenso lavoro di significazione ave c 'è "rumore", "caos': "esuberanza informativa" ( Chadwick, 2009). Un esempio potrà aiutare la comprensione di quanto stiamo so­ stenendo. Ipotizziamo che un semplice cittadino, grazie ad un' ammi­ nistrazione trasparente, apprenda dal rendiconto pubblicato sul sito istituzionale che il proprio comune ha destinato 25.000 euro per le illuminazioni natalizie nel centro storico2• Egli potrà servirsi di più parametri per dare un significato a questa informazione e "guardarvi attraverso": potrà confrontare questa cifra con altri capitoli di spesa e magari vederne la coerenza con un bilancio 2. L'esempio è stato raccolto durante un'occasione formativa da un partecipan­ te, residente in un comune del Centro Italia, che raccontava l'episodio da lui vissuto, che ha avuto anche un certo risalto mediati co e che abbiamo leggermente modificato, senza travisare gli aspetti salienti della vicenda.

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COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI comunque florido; oppure potrà lamentarsi della spesa eccessiva se, a suo parere, sono stati spesi più soldi per gli addobbi natalizi che per opere di manutenzione o per il miglioramento di servizi per lui fonda­ mentali e prioritari. Tuttavia, per maturare questo genere di convinzioni, il cittadino avrà comunque bisogno di una, seppur minima, capacità di lettura di un bilancio, avere tempo a disposizione per confrontare le cifre, soppesare criticamente costi e benefici del servizio reso dali' ammini­ strazione nell'ultimo Natale, e via dicendo. Altrimenti, confronterà la cifra con la sua esperienza personale o con il suo personale giudizio di quanto belle/brutte, adeguate/insufficienti/inutili fossero le illu­ minazioni oppure, ancora, di quello che lui riterrebbe giusto fare per il "bene" della città con quei 25 .000 euro in cassa, della superficialità di una giunta che guarda al futile e non al necessario ecc}, maturando un senso di critica e di sfiducia verso l'operato e le scelte dell'ammi­ nistrazione. Tutta colpa della trasparenza? Più che della trasparenza in sé, potremmo dire dell'opacità generata dalla diffusione di un dato - in questo caso una cifra - senza un necessario accompagnamento volto a chiarire, contestualizzare, precisare, aiutare la comprensione e costruire una narrazione. Non si tratta di "raccontare storie" nel senso di "inventare" una trama fittizia e artificiosa, bella ma ingannevole, come la mela di Bian­ caneve, generosamente donata nelle mani del cittadino; al contrario, si può partire dal dato per sviluppare un racconto (storytelling), una visione, parlare della ratio che ha ispirato la scelta politica; restituire alla cittadinanza uno scenario davanti al quale chiunque può, in ogni caso, continuare a ritenere che quei 25.000 euro siano stati mal spesi, ma che fornisce una chiave di lettura credibile. Un dato, sì, reso disponibile, ma non lasciato fluttuare in solitudine, bensì accompagnato e reso traspa­ rente. Concordiamo con Ducci ( 20I3, p. 4 6 6) quando scrive: molte istituzioni pubbliche sembrano essere concentrate soprattutto sulla resa del conto al cittadino nella forma della mera pubblicizzazione sui siti

3· La realtà, potremmo dire, supera in questo esempio citato la fantasia, dal mo­ mento che lo stesso partecipante ha raccontato che nella cittadinanza sono emersi non pochi dubbi e si sono avanzate ipotesi circa gli interessi truffaldini dell' ammini­ strazione nel favorire quello specifico addobbo natalizio.

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5· ORIZZONTI dei dati economici riguardanti la gestione dei conti pubblici e soprattutto il trattamento economico-finanziario di ciascun dipendente. [ ... ] Tale rincorsa alla pubblicizzazione online di dati, se svolta in maniera asettica, può portare con sé un problema di produzione e attribuzione di senso e di distorsione dell'informazione.

Da qui il primo limite di guardia, derivante dalla sensazione che la tra­ sparenza abbia per il momento portato a immettere nel flusso infor­ mativo una mole eccessiva di dati, ma che di narrazioni ve ne siano ben poche in circolazione. Può sembrare un paradosso ma, come taluni av­ vertono ( Carlon i, 2009 ) , la trasparenza può perfino produrre opacità, quando ad esempio le amministrazioni curano soltanto la quantità di dati diffusi oppure quando sviano lo sguardo del cittadino, abbaglian­ dolo con informazioni che offuscano la comprensione dei processi e delle notizie significative. Secondo livello: attenzione a non superare i limiti di velocita Le nuo­ ve tecnologie e, in particolare, il web sociale cambiano i tempi della conversazione e ristrutturano le aspettative con cui ciascun utente si relaziona all'altro: se vediamo che il nostro interlocutore è connesso, ci aspettiamo che risponda ad una nostra domanda; la doppia spunta blu dei messaggi di WhatsApp crea in noi l'attesa di un imminente feedback e se postiamo una richiesta di aiuto su TripAdvisor per de­ cidere dove pranzare, attendiamo che qualche altro utente immedia­ tamente ci dia un suggerimento. Insomma, tra i risultati dei media di­ gitali vi è una velocizzazione dei tempi di interazione e, in particolare, delle aspettative di risposta. D'altro canto, il "mito della rapidità'' ha radici lontane ( Cuono, 20I 6) e già Weber (I 922, trad. i t. vol. I, p. 89) ne metteva in rilievo la necessità quando scriveva: « l'esigenza di un disbrigo degli affari am­ ministrativi all'occorrenza più rapido, e quindi più preciso, univoco, continuativo, viene posta oggi ali' amministrazione in primo luogo da parte del moderno traffico economico capitalistico » . E poco dopo specificava: « la straordinaria accelerazione nella trasmissione di avvisi pubblici, fatti economici o anche puramente politici esercita da sé già come tale una forte e costante spinta nella direzione dell'accelerazione del tempo di reazione dell'amministrazione rispetto a situazioni date di volta in volta, e l' optimum di norma in questi casi si dà solo attraverso un'organizzazione rigidamente burocratica » (ibid. ). 2I3

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI Un modello d'azione, quindi, che richiede da un lato di sincro­ nizzarsi sui "tempi di navigazione" dei sistemi produttivi, per i quali l'assunto è che "il tempo è denaro"; dall'altro di routinizzare il lavoro amministrativo per consentire l'accelerazione dei tempi dei decisori e dell'attuazione delle decisioni politiche. Come illustra in un recente saggio Cuono (2oi 6, p. I 3 8) , non solo i tempi della politica si sono particolarmente contratti e dai vari leader la rapidità del decidere è con­ siderata una caratteristica fondamentale del "buon governante"; anche i tempi del dibattito e della partecipazione si ispirano al medesimo principio. « In questo quadro, la tecnologia, e soprattutto la comuni­ cazione tramite social network, serve per mostrare che la politica è fatta di problemi semplici, riassumibili in poco spazio e risolvibili in breve tempo » (ivi, p. IS I). E il successo della partecipazione politica si misura nella viralità dei messaggi prodotti, riprodotti e diffusi al tempo dei "like': nell'uso di strumenti rapidi, « in cui iflash mob appaiono spesso più efficaci rispetto alle vecchie "liturgie" fatte di "bandiere, canzoni, manifestazioni, pugni chiusi, pacche sulle spalle"4, che sembrano or­ mai meri retaggi del passato» (ibid. ) . Dunque, anacronistici. Ma come si concilia tutto questo con il modus operandi attuale del­ la PA ? Abbiamo visto che, per tenere il passo, molti enti si dotano di competenze specifiche, cioè di risorse umane che siano consapevoli del sistema di aspettative - dei tempi, dei linguaggi ecc. - che sorregge le conversazioni digitali. In alcuni casi, grazie a rapporti di lavoro più "fluidi" - contratti di collaborazione esterna, rapporti fiduciari ecc. - e a tempi di lavoro meno rigidi, si arriva a presidiare gli spazi di dialogo con l'utente per un orario ben più ampio di quello che le strutture di relazione prevedono. È un vantaggio, certo, per il cittadino e un va­ lore competitivo per quell'amministrazione che ha aperto un canale di dialogo potenzialmente costante con i propri interlocutori. I quali, è evidente, chiederanno per ottenere risposte. E in molti casi quelle risposte non tarderanno ad arrivare, nel rispetto delle logiche e delle "regole" proprie dello strumento. Niente di male, tranne il rischio di "superare" la velocità. Con tale espressione ci riferiamo ai tempi necessari, a quel limite fisiologico (non quello patologico delle burocrazie) che consente di produrre in­ formazioni di "qualità", di mettere in circolazione "dati" buoni, perché 4· In questo inciso l'autore si rif'a ad un articolo di Barbera, apparso su "il mani­ festo" il 9 maggio 2 0 1 5 , dal titolo Ilpremier padrone del tempo.

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5· ORIZZONTI autorevoli, provenienti da fonti certe, da processi produttivi collau­ dati. Gli stessi processi che nel medesimo ente gli URP ed altri front office sono obbligati a rispettare e che li portano a curare la qualità delle informazioni rese allo sportello, perché provenienti da quei luo­ ghi dove quelle informazioni sono state prodotte; uffici con orari, sì, fin troppo rigidi che talvolta non si conciliano con i tempi di vita e di consumo della cittadinanza, ma che lavoreranno internamente per avere delle informazioni buone, complete e aggiornate. Non voglia­ mo certo sostenere che sui media sociali le informazioni pecchino di qualità, ma è anche vero che il rischio di bypassare alcuni passaggi, in nome dell' immediatezza e della velocità di risposta, talvolta si corre. Così come quello di pensare che le due modalità di relazione - on line e in compresenza -, comportando stili e saperi diversi, possano essere organizzate separatamente le une dalle altre. Ciò che manca, sintetizza Rolando (20I4, p. 8 6) , è lo stimolo « a concepire il presidio della rete come un vero e nuovo habitat dell' insieme delle funzioni e delle competenze » . Ecco dunque in cosa consiste questo secondo livello di guardia: che la velocità di risposta non diventi un valore in sé e che, soprattutto, non vada a delegittimare entro la stessa amministrazione il lavoro di chi sta allo sportello, e non si crei una frattura ancora più ampia tra chi nella cittadinanza quella velocità è in grado di utilizzarla e chi, invece, resta ad un livello di interazione "analogico". D'altronde la "velocità" non è facile da conciliare con i tempi dell'ascolto, per cui ci chiediamo: in "acque digitali" la PA si sincronizza alla rapidità con cui mutano le domande del cittadino, ma quanto riesce a sintonizzarsi sulle frequenze della loro complessità ? Per chiarire ci serviamo di un esempio. Facciamo conto che, in virtù di un rapporto personale di amicizia, un cittadino abbia tra i propri amici di Facebook un addetto stampa di un comune vicino al proprio, con il quale ha tuttavia una conoscenza superficiale ( non possiede il suo telefono personale, per intendersi ) . In un pomeriggio d' inverno, que­ sto cittadino, che per tornare a casa da lavoro deve percorrere una strada di campagna, vede che il suo amico ha scritto sulla sua bacheca perso­ nale che proprio quella strada è interrotta a seguito di un importante smottamento. Il cittadino, dovendo dopo poco rincasare, guarda sul sito del suo comune se ci sono indicazioni, ma niente è stato scritto al riguardo; telefona allora all' uRP, ma quel pomeriggio l'ufficio è chiuso al pubblico. Cosa fare ? È possibile che quel cittadino chieda all'amico 2IS

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI addetto stampa una soluzione al suo problema ed è altrettanto possibile che questi riesca nel giro di pochi istanti a fornirgli una risposta. Magari , perché già sa o perché ha contattato il collega dell altro comune che gliel'ha fornita. Così, il nostro protagonista sarà soddisfatto e saprà quale altra strada percorrere. Lui sì. E gli altri cittadini che potrebbero trovarsi in una situazione analoga, ma che non hanno l'addetto stampa , tra gli "amici"? In più, quale idea maturerà il nostro cittadino circa l ef­ fettiva utilità delle strutture comunali ? E cosa gli impedirà, in futuro, di utilizzare il medesimo canale preferenziale, senza "perder tempo, a cercare altrove una risposta ? Con tutti i limiti, i "se, e i "mà' che potrebbero scaturire dallo spe­ cifico esempio fornito, ciò che vogliamo ribadire è che le potenzialità , offerte dall innovazione tecnologica non devono servire per generare sfiducia negli strumenti tradizionali o per delegittimare altri saperi affi­ ni; riteniamo, infatti, che un'armoniosità e una maggiore concertazio­ ne delle modalità relazionali, on e ojJline, possano essere concretizza­ bili, come numerose esperienze virtuose ci insegnano, e che la velocità o è bussola per un cambiamento complessivo dell'agire comunicativo , dell ente o deve talvolta scendere a patti con i contesti di produzione tradizionali. Terzo livello: il posto pubblico come proprieta privata Quest'ultimo li­ vello di guardia fa tesoro delle occasioni di ricerca e formazione grazie alle quali ci siamo arricchiti di materiali preziosi. Visitando quei luo­ ghi istituzionali, soprattutto, lo ripetiamo, amministrazioni comunali e, in particolare, uffici di relazione con il pubblico e di comunicazione, siamo stati colti dalla sensazione di trovarci "a casa di qualcuno,. Con tale espressione vogliamo restituire una duplice sensazione. Per prima cosa, ci siamo sorpresi della "iperpersonalizzazione delle postazioni': , che potremmo forse definire come l interpretazione antinomica del non possesso degli strumenti di lavoro da parte dei pubblici funzionari del modello weberiano, ma anche della netta separazione richiesta tra vita pubblica e privata del funzionario. Visitando gli uffici pubblici, si ha spesso la sensazione di trovar­ si davanti a luoghi allestiti dal singolo operatore per il suo personale comfort; talvolta delle vere e proprie estensioni delle abitazioni. Cer­ to, negli ultimi vent 'anni la costruzione della comunicazione pubbli­ , ca nelle amministrazioni ha fatto sì che anche l organizzazione degli spazi e gli allestimenti dei contesti di incontro di relazione fossero 2I6

5· ORIZZONTI preziosamente curati e coordinati: non ovunque, non sempre con una logica chiara e comprensibile, ma si sa ormai da tempo che anche gli aspetti situazionali e contestuali compartecipano alla qualità della co­ municazione e agli esiti della relazione. Ma da luoghi freddi e imper­ sonali gli uffici si sono frequentemente trasformati in contenitori di gadget e suppellettili individuali: le foto dei propri figli, degli animali domestici, degli ultimi viaggi fatti dal dipendente, le cartoline dei col­ leghi, le bomboniere trasformate in portapenne o fermacarte, oltre alle modalità di impiego degli strumenti più strettamente operativi che dovrebbero avere un carattere funzionale allo svolgimento del lavoro e che invece riflettono aspetti di vita privata, come le password di fun­ zione ispirate al nome del proprio pesciolino rosso o alla data di nasci­ ta del nipotino, o le cassettiere e gli scaffali occupati dagli oggetti di vita personale o generi di conforto a uso esclusivo del personale: tazze e tisaniere, termos, snack, bottiglie ecc. Alle pareti, gli squallidi poster di un tempo o le foto del presidente sono stati affiancati o coperti - ra­ ramente sostituiti in toto - dalle vignette satiriche sul lavoro pubblico o sulla situazione del paese, sfottò sugli utenti indesiderati e aneddoti organizzativi, tutti fatti per confortare o rallegrare il dipendente, ben poco accoglienti o significativi per un qualsiasi utente. Oltretutto la digitalizzazione, come vedremo, non ha per adesso portato ad un ab­ battimento sostanzioso della documentazione cartacea che continua ad abbondare sulle scrivanie degli enti, lasciando ben poco spazio ad un qualsiasi interlocutore desideroso di prendere un appunto o com­ pilare un modulo. Potremmo riderei sopra, come spesso anche noi abbiamo fatto soprattutto quando, facendo questi esempi in una situazione d'aula, ciascun partecipante vi ha visto del vero nelle esemplificazioni - spes­ so fotografiche - fornite. Ma oltre a questo, un ulteriore pensiero ci stimola e riguarda il rapporto che il singolo funzionario instaura con la propria postazione di lavoro. Ci sembra infatti che sia anco­ ra coerente con quel "mito" del posto fisso che continua a persistere in ambito pubblico, nonostante si stiano rilevando, anche nella PA, modalità di impiego più fluide e mutevoli rispetto al passato. E quel non possesso degli strumenti del proprio lavoro del "burocrate puro" è stato nel tempo profondamente modificato, tanto che l' attaccamen­ to del dipendente che spesso si nota è anche per quegli elementi di identificazione con le postazioni occupate: il "mio" computer, la "mia" scrivania, la "mia" sedia. 2I7

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI Il secondo aspetto è quello che chiamiamo la "idealizzazione dell'utente". Il cittadino allo sportello non è mai come l'operatore vorrebbe che fosse. Troppo solerte o troppo lento ; troppo rumoroso e spavaldo o troppo silenzioso e inerme; troppo polemico o troppo ingenuo e via dicendo. Così, nelle relazioni di front office l'opera­ tore si sentirà presto insoddisfatto - o stanco, frustrato, arrabbiato ecc. - perché mai ha a che fare con persone che rientrano nella sua desiderabilità; nel back office si continueranno a realizzare azioni, progetti e servizi rivolti al cittadino, ma nella sua veste più ideale e idealizzata. Per poi accorgersi, con non poco scoraggiamento o ran­ core, che gli atti comunicativi pensati per lui non sono andati a buon fine. L'utente non è né più, né meno quello che è o che dovrebbe essere. E, soprattutto, ha una vita che precede e che segue il suo ingres­ so nell'amministrazione - come d'altronde vogliamo sperare l'abbia l'operatore - di cui spesso ignoriamo l'esistenza. Si tratta dunque di attrezzarsi per conoscerlo nei suoi stili e nelle sue abitudini, così come nei suoi limiti e nei vizi. La sottovalutazione che spesso viene attribuita all'ascolto, come abbiamo già visto, è un ulteriore campanello d'allarme di un' ammini­ strazione che "presume" di sapere. Per "presumere" si intende credere senza fondamento e trarre da un dato noto argomenti in base ai quali si induce l'esistenza di un dato ignoto. Spieghiamo il nesso. Per un ente locale i cittadini sono quel dato noto da cui si parte, nel senso che ciascun comune possiede non poche informazioni sulla propria cittadinanza, alcune direttamente disponibili, altre disponibili con un po' di lavoro, altre ancora, le co­ siddette "fonti secondarie': sono le conoscenze reperibili da altri enti o istituti di ricerca e specifico oggetto di rilevazione statistica. È pro­ prio a seguito della crescente consapevolezza di quanti "dati" fossero in possesso della PA che si è iniziato a parlare della loro "aperturà: perché possono rappresentare una fonte informativa importante per numero­ si soggetti esterni, nonché un notevole valore economico. Ma quanti di questi dati vengono realmente impiegati per costruire la strategia comunicativa dell'ente ? Secondo un recente studio ( De Rosa, Casti­ gliani, 20I 6 ) sono pochissime le strutture pubbliche che riescono a fornire ai comunicatori i dati per una attenta profilazione delle attività di comunicazione. Mancando spesso competenze specifiche di ricerca sociale, i dati ci sarebbero, ma non sono utilizzati, né sistematizzati. Dunque, pressoché inutili. Ai cittadini troppo spesso ci si riferisce per 2I8

5· ORIZZONTI conoscenze approssimative, parziali, basate più sulla sensazione che sul­ la valutazione effettiva: perciò o, idealizzandolo, si proietta su ciascun utente l' immagine attesa e desiderata dali'operatore, senza riuscirlo a "vedere" veramente per quello che è e per il bisogno che esprime; oppu­ re l' interlocutore di ciascun front office diventa quello sconosciuto che si presume di conoscere, e nell' incontro l'operatore cercherà conferme alle supposizioni maturate. Quarto livello: c 'e un mondofuori dalla propria scrivania L'abitudine al confronto è uno degli aspetti critici di molte realtà organizzative: chiusi in se stessi, i membri credono che le risposte più efficaci e le so­ luzioni alle proprie problematiche debbano essere rintracciate entro i perimetri del singolo ente. È quella che ironicamente chiamiamo la "sindrome dello scolaro", come se il confronto volesse dire "copiare" da altri. Anche nella comunicazione pubblica ci sembra che questo sia un vizio ricorrente, tanto che nelle occasioni formative, quando i parteci­ panti hanno l'opportunità di incontrare altri "colleghi" che operano in altri enti, i relatori devono spesso mettere un freno, per ovvi motivi, allo scambio continuo e spontaneo delle esperienze tra partecipanti, alla "fame" di conoscenza e al passaggio di pratiche e informazioni. Un tempo, tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, questo scambio aveva un "luogo" deputato, vi erano cioè delle occasioni in cui i comunicatori impiegati nei diversi comparti della PA si incon­ travano e si scambiavano domande, esperienze, consigli, suggerimenti; diffondevano "buone pratiche", così come chiedevano aiuto nella ri­ soluzione dei problemi avvertiti nella quotidianità degli uffici. Oltre alle occasioni convegnistiche annuali - come ad esempio il Com-PA, il Salone della comunicazione pubblica, o altri eventi simili - vi era una mailing list, "uRP News': nata nel I999 su iniziativa del Dipartimento della Funzione pubblica, in collaborazione con la regione Emilia-Ro­ magna, alla quale erano iscritti numerosi professionisti, di enti di vari livelli e dimensioni. Potremmo immaginarci questa mailing list come uno spazio di discussione e di dialogo, a metà strada tra una piatta­ forma di social networking - ai tempi strumenti non diffusi - e una intranet tra professionisti. Non vogliamo soffermarci a rievocare uno strumento che, nel tempo, è venuto meno e che forse oggi non avreb­ be, in questa veste, motivo di esistere. Prendiamo però ispirazione da quella esperienza che abbiamo a suo tempo studiato approfonditamen2I9

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI teS, per richiamarci ad un aspetto assolutamente deficitario nella pra­ tica professionale dei comunicatori: l'abitudine a guardare fuori dalla "propria scrivanià: anche a livello strettamente operativo. Ciò vuoi dire chiedersi come altri - in altri contesti, locali, nazionali o, perché no ?, internazionali - hanno risolto un problema simile a quello che si può avvertire in un qualsiasi URP o ufficio stampa; significa aprirsi alla con­ taminazione, a prendere spunto, per poi, ovviamente, contestualizzare le strade seguite da altri nel proprio specifico perimetro d'azione. Si tratta di un lavoro apparentemente banale - e forse lo è - ma che nel settore pubblico stenta ad affermarsi come abitudine e come routine. Spesso, difatti, i comunicatori stessi - e ancor più i vertici po­ litici - lavorano alla ricerca dell' iniziativa "originale': mai fatta prima da altri enti e dunque efficace nella sua originalità. È un aspetto im­ portante il "guizzo" creativo del comunicatore, ma non è certo quello che sostiene la "qualità'' della comunicazione pubblica quotidiana, né per l'ente, né, tantomeno, per i bisogni informativi e relazionali della cittadinanza. Pertanto, quest'ultimo "livello di guardià' ha a che fare con la ne­ cessità che intorno alla comunicazione pubblica non vi sia il "vuoto" o la "gelosià' campanilistica; al contrario, riteniamo necessaria la con­ divisione di un sapere pratico entro quella che Wenger ( I998 ) chiama "comunità di praticà': un insieme di attori che svolgono lo stesso tipo di attività, che detengono il sapere e lo trasmettono, condividendolo e generando un valore esteso, attraverso le relazioni sociali. La "comunità di praticà' nasce e si consolida a seguito di un ap­ prendimento collettivo - eppure quanti bei progetti restano chiusi tra le mura di una città! - che si crea nel tempo, mediante lo svolgimento continuativo di una stessa attività, e si traduce in pratiche che vanno a costituire un patrimonio esclusivo e prezioso dei membri di questo "aggregato". A differenza di un network tra comunicatori, come se ne possono rintracciare nel web, la "comunità di pratica" non si esaurisce nel "fa­ re rete", nel senso di coltivare relazioni proficue, bensì mette al centro l' impegno condiviso delle medesime attività da svolgere e il persegui­ mento, altrettanto comune, dell' interesse generale, mediante le rela­ zioni pubbliche. S· La ricerca è stata condotta in occasione della tesi di dottorato; cfr. nota

CAP. 3·

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1 7,

5· ORIZZONTI 5 ·5 L'oceano della conoscenza

L' immagine che dà il titolo al paragrafo vuole raffigurare lo spazio aperto del sapere, nel quale si muove la comunicazione pubblica. L' ar­ gomento è stato già introdotto quando abbiamo parlato della compe­ tenza dei comunicatori, che mostra come sia necessario dotarsi di una conoscenza sempre meno enciclopedica, racchiusa in singoli capitoli, e sempre più spalancata alla interdisciplinarietà, alla contaminazione, alla revisione costante e al cambiamento. Insomma, un oceano che per­ mette « di essere "navigato" secondo le necessità, i desideri e le possibili­ tà di ciascuno [ ] un insieme di saperi in divenire [ ] che assume forme diverse a seconda delle ricombinazioni possibili e a seconda del nostro e altrui modo di viaggiare nell'oceano della conoscenza » (Fabbri, in Kaneklin, Scaratti, I 9 9 8, p. 8) . Il motivo che ci porta a tornare su questo tema è la convinzione che, pur nella enigmatica rappresentazione degli orizzonti della comu­ nicazione pubblica, non si debba dimenticare l'apporto che può avere il motore dell'apprendimento nell' incedere. Non vogliamo qui affron­ tare quella componente dell'apprendimento collegata all'esperienza e alla pratica che, indipendentemente da azioni più o meno deliberate e progettate, avrà comunque luogo (Wenger, I998) . Ci rivolgiamo, invece, alle forme di apprendimento intenzionali, che richiedono progettazione e sforzi organizzativi, impegno e « im­ maginazione educativa » (ivi, p. 303). Con questo concetto Wenger vuole indicare le finalità di percorsi formativi non soltanto orientati all'acquisizione di specifiche e predeterminate capacità, bensì capaci: di mostrare una visione panoramica del "paesaggio" circostante, par­ tendo proprio dal particolare punto di osservazione in cui si trova cia­ scun dipendente; di promuovere una visione differente di se stessi, di vedere l'ovvio sotto luce nuova, di darsi delle chance di cambiamento; di esplorare vie nuove, promuovendo il confronto, la sperimentazione, l' immaginazione di nuovi approdi. Si tratta quindi di superare, negli orizzonti della formazione, una natura puramente « estrattiva » (Wenger, I998, trad. it. p. 2.77). Con tale termine Wenger indica quegli interventi formativi che "estraggo­ no" requisiti, descrizioni, funzioni da una pratica e li trasformano in oggetti istituzionali, come se si potessero sradicare dalle specificità in cui tali requisiti e funzioni assumono significato. Per questo motivo, fin 000

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2.2.I

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI quando ai corsi in comunicazione e relazione con il cittadino si iscri­ veranno soltanto gli addetti di front office, così come a quelli di project management soltanto le funzioni direttive, si tenderà ad accentuare una frammentazione dei saperi, sì aggiornati, ma che hanno difficoltà a tradursi in pratica. Matura così la sensazione - tante volte raccolta nei giri di presentazione dei partecipanti ai corsi - che l' intervento formativo, per quanto interessante, risulterà inutile, oltreché frustrante per chi avrebbe l' impulso a dare un seguito, ma sarà inibito da ambienti lavorativi diffidenti se non ostili o comunque inconsapevoli. Quanta soddisfazione, al contrario, quando ai corsi di formazione sui nostri temi l'addetto al front office viene accompagnato dal dirigente del servizio o, come talvolta è capitato, dall'assessore : lì c 'è desiderio di comprendere, di viaggiare insieme, di allineare le esperienze traendo spunto dalla medesima occasione formativa. Infatti, in luogo di un approccio estrattivo, l'autore prosegue indi­ cando uno schema di formazione integrativo, nel quale l' apprendimen­ to organizzativo è l'obiettivo da raggiungere, invece dell' insegnamen­ to. Inoltre, ciò favorisce la formazione di "comunità di apprendimento" che rendono significativi non soltanto gli intenti pedagogici iniziali e i contenuti appresi durante il percorso formativo, ma anche le opportu­ nità di incontro, di scambio, di relazione, in un ambiente - l'aula - se­ parato dai luoghi consueti di lavoro; un ambiente istituzionalizzato che potrà creare quella discontinuità necessaria per esplorare nuove possibilità (ivi, p. 278) . Riteniamo che, al contrario, la vastità dell'oceano sia l'ambiente più consono al concepire, costruire e recepire una "cultura della comu­ nicazione", nel testo tante volte evocata. Uno spazio aperto nel quale, più della certezza, muove il desiderio di esplorare, di perdersi e lasciarsi trovare e sorprendere da sollecitazioni che, se ignorate o non comprese, possono essere viste soltanto nella loro veste problematica e insolubile. « L'amministrazione pubblica, oggi, ha bisogno di persone capaci di iniettare linfa vitale a segmenti e apparati che non sono stati abituati a fare un uso strategico della comunicazione » (Sepe, Sirgiovanni, 20I 6, p. 225); per questo motivo immaginiamo che debbano essere anche i comunicatori stessi a farsi promotori dentro l'organizzazione di una cultura comunicativa che oggi, più di ieri, ha una natura « ubiqua » (Solito, 20I4, p. I07) e dunque deve essere gestita. Peraltro, « il comunicatore di professione non può essere un se­ dentario e può continuare ad essere un comunicatore fino a quando 222



ORIZZONTI

la curiosità motiverà il suo desiderio di cercare, scoprire, selezionare e "raccontare" per gli altri le tante storie e le tante verità che si celano dietro le apparenti routine del nostro mondo inquieto» (Bechelloni, 2007, p. I46). Ciò che stiamo enfaticamente illustrando è una via della formazio­ ne che non si "sieda" su comode cassette degli attrezzi precostituite, fat­ te per "bersagli" - obiettivi formativi, ma anche discenti - da colpire. Perché « concepire la cultura della comunicazione come un insieme di tecniche professionali facili da apprendere e facili da usare - versioni tecnologizzate delle vecchie arti del piazzista e dell' imbonitore - signi­ fica non aver capito perché la comunicazione è diventata tanto impor­ tante e centrale » (ivi, p. I35). L'accorato richiamo ai comunicatori - ma anche agli "architetti dell'apprendimento" (Wenger, I998), tra cui responsabili della forma­ zione del personale, progettisti, agenzie formative ecc., così come agli stessi formatori - è suggerito da quei segnali che provengono dalla ri­ cerca sul ruolo della formazione nella PA 6. Nel XVI Rapporto - pubblicato nel 20I4 - si legge, in sintesi, che, negli enti locali, di formazione se ne fa sempre meno: sono diminu­ iti i giorni-aula erogati, sono stati ridotti la durata media di ciascuna circostanza formativa e il numero di edizioni di ciascun intervento formativo; si predilige il raggiungimento di obiettivi mirati, decisi dall'amministrazione, a fronte dell'offerta o di un'analisi del mer­ cato; si tratta di interventi spot per i quali, soprattutto nei comuni, manca una pianificazione annuale. Gli ambiti contenutistici preferiti riguardano essenzialmente il versante della formazione obbligatoria e di adeguamento professionale, come ad esempio quella sulla sicurezza o sulla valutazione delle performance ; oppure saperi "tecnici", lega­ ti per lo più alla digitalizzazione della PA e ai rapporti con l' Unione Europea, come ad esempio dimostra, a livello regionale, la quota di attività formative dedicate ali' accesso, gestione e rendicontazione dei fondi comunitari. Se ne evince, conclude il Rapporto, che manchi una logica di siste­ ma, « che assorba, selezioni, costruisca modelli e riesca a diffondersi anche per processi imitativi e di scambio di esperienze » 7• 6. Cfr. http:/ /portaledellaformazione.sspa.it/ ( consultato il IO febbraio 20I7 ) . 7· Cfr. http:/ /portaledellaformazione.sspa.it/wp-content/uploads/ 20I5/ o6/ 03 _Sintesi.pdf (consultato il IO febbraio 20I7 ) .

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COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI Tra le cause è evidente il ruolo assunto dalla normativa che impone il contenimento della spesa destinata alla formazione (D.L. 3 I maggio 20IO, n. 78, Misure urgenti in materia di stabilizzazionefinanziaria e di competitivita economica), per cui gli obiettivi di razionalizzazione spin­ gono verso contenuti specialistici e attività formative "snelle': mirate ad una operatività "misurabile". Questo sembra il senso di una forma­ zione "spicciolà', single issue, per contenuti "pronti all'uso': traducibili, il giorno successivo, nella operatività dell'ufficio: nuovi adempimenti normativi, uso di nuovi software, programmi europei di sviluppo ecc., secondo quanto vediamo dalle occasioni formative in circolazione. Indubbiamente si tratta di aspetti rilevanti nella gestione delle più stringenti attività e urgenze amministrative che tuttavia necessitano, a nostro avviso, di una maggiore contestualizzazione entro i processi di cambiamento organizzativo, affinché non si corra il rischio di patolo­ gici sguardi miopi - che vedono bene da vicino, ma non da lontano - o astigmatici - che vedono la realtà distorta. Non ci riferiamo pertanto solamente a saperi strettamente comuni­ cativi - sebbene questo sia il nostro principale settore di indagine e di lavoro - ma a tutte quelle dimensioni del sapere che ampliano visioni e orizzonti e mettono in moto la capacità "creativà' del singolo parteci­ pante. Un investimento che, come d'altronde ogni "seminà: è un atto di fiducia di cui poi si potranno godere i frutti, ma che contribuisce a non perdere di vista il senso, la motivazione, la lungimiranza. s .6 Al "timone" della comunicazione

La tesi della "forza dei legami deboli': portata avanti da più autori tra cui Granovetter ( I973 ) , si basa sull' idea che « coloro che sono debolmente legati a un individuo si muovono con maggiore probabilità in ambienti sociali diversi dai suoi, e, quindi, tendono ad essere portatori e trasmet­ titori di informazioni che non circolano nelle cerchie sociali di apparte­ nenza di quest'ultimo » (Mutti, I998, p. 24 ) . Si tratta quindi di persone che rivestono un ruolo chiave nella costruzione delle reti relazionali, nelle quali hanno compiti di bridging e di bonding. Con questi due ter­ mini Putnam ( 2ooo, trad. i t. p. 20) indicava due tipi di capitale sociale: quello che consente di "gettare ponti" - bridging, appunto - ossia di aprirsi con fiducia verso nuove relazioni e nuovi territori, integrando 224

5· ORIZZONTI nuovi componenti, oppure quello che "serra" - bonding - nel senso che si concentra sul rafforzamento dei legami esistenti, ma con il rischio di chiudersi in se stessi, costruire barriere, discriminare. L' identità professionale dei comunicatori ha rappresentato - e forse continua a rappresentare - per molto tempo un problema da ri­ solvere. Una indefinitezza che più volte ha portato i professionisti a chiedersi cosa poter fare, attraverso quali strade invocare un maggior riconoscimento e una maggiore legittimazione ad operare. Una richie­ sta di riconoscimento a fronte di un' identità professionale debolmente percepita. Una debolezza definitoria, lo abbiamo detto già in sede introdutti­ va, dei comunicatori pubblici che non di rado si riflette sull' autoperce­ zione e sulla considerazione della propria incidenza nella vita dell'or­ ganizzazione, ulteriormente appesantita dalla riduzione del personale degli ultimi anni e dalla limitazione delle risorse disponibili, soprattut­ to a livello locale, che di certo non rendono il lavoro più agevole. Ma quella che spesso viene vista come irrisolutezza dell' identità professionale potrebbe addirittura rappresentare un punto di forza funzionale alle burocrazie dei giorni nostri. Infatti, un sé scisso e fram­ mentato ( Giddens, I99I) può essere visto come fonte di indebolimen­ to, di disordine e di perdita in sistemi rigidamente strutturati e volti all' immobilismo, ma invece elemento di trasformazione e terreno fa­ vorevole al cambiamento in sistemi in via di riforma. Affinché questa premessa non sia soltanto un ottimistico sguardo al futuro, è necessario che i comunicatori stessi siano artefici e consa­ pevoli dei processi di cambiamento in corso, fuori e dentro la PA, e, conseguentemente, del ruolo di primordine nel gestirne fasi e sviluppi. Per delineare le responsabilità dei comunicatori ci sembra azzeccata l' immagine del "timoniere': una metafora che tende a enfatizzarne il ruolo di guida e di traino. È innegabile che ciò è possibile in quei con­ testi organizzativi sensibili e accoglienti verso il cambiamento, che non temono le sollecitazioni che possono derivare dalla comunicazione. Ma un monito va anche agli stessi professionisti della comunicazione, non di rado afflitti dalla "sindrome di Calimero": la continua auto svaluta­ zione, il sentirsi costantemente vittime di un'organizzazione che non comprende o di ingiustizie verso la categoria; comunicatori lamentosi o petulanti, con atteggiamenti vittimistici o missionari, tutti protesi ver­ so il cittadino, del quale tendono ad assumere il punto di vista, talvolta a discapito della stessa organizzazione. 225

COMUNICARE LE AMMINISTRAZIONI Non vogliamo certo sminuire il senso di impotenza di taluni pro­ fessionisti che operano talvolta in contesti organizzativi e condizioni davvero critiche; né, d'altronde, svalutare la fatica usurante di chi è chiamato costantemente a mediare e facilitare la connessione tra in­ teressi, bisogni, motivazioni di difficile conciliazione. Ma riteniamo anche necessario che i comunicatori non abdichino al proprio ruolo professionale specifico, alle cifre distintive e alla "centratura" delle loro competenze entro ciascuna amministrazione. Per questo invochiamo la riscoperta di una veste da "timoniere" della PA, una figura che sa interpretare le sollecitazioni che provengono dali'esterno e le mette in relazione ai mezzi disponibili e alle competenze dell'equipaggio. Il ti­ moniere conosce le rotte, sa qual è il suo compito e ne è responsabile sia verso i passeggeri, sia verso l'armatore. Ha dunque doti di leader, ma in un'ottica di servizio e di costante collaborazione con le altre figure di bordo, con le quali coltiva e mantiene relazioni di scambio e di fidu­ cia reciproca. Non si sottrae alla guida, nemmeno quando l' incedere sembra più difficoltoso e rischioso; anzi, sarà proprio allora che ci si accorgerà che del timoniere non se ne può fare proprio a meno.

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